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21/12/2012

Tu vipera gentile
di Maria Bellonci

Introduzione di Geno Pampaloni
In copertina: Bronzino, Ritratto di Lucrezia Panciatichi (Part.)
Firenze, Galleria degli Uffizi

Arnoldo Mondadori Editore S.p.a.
Narrativa
Collana Oscar scrittori moderni

 

La storia narrata

Per coloro che amano la storia e i romanzi storici Maria Bellonci rappresenta un faro di incredibile originalità, a cui rivolgersi per conoscere meglio e in modo piacevole le vicende di alcune famiglie nobili italiane in quell’aureo periodo che fu il Rinascimento. Se nel romanzo storico la creatività dell’autore poggia solide basi su fatti realmente accaduti, lasciando però ampio spazio alla fantasia, magari con l’invenzione di personaggi funzionali alle vicende, nella storia narrata da Maria Bellonci l’unica licenza è lasciata alle considerazioni, all’interpretazione dei fatti, agli approfondimenti della psicologia dei protagonisti.  Ne esce così una narrazione storica di grande valore, impreziosita dallo stile dell’autrice, mai greve, ma incisivo e per niente logorroico. Delle volte, nel leggere le pagine affascinanti dei suoi libri, mi viene da fantasticare e dato che ho avuto l’occasione di conoscerla tanti anni fa (era spesso a Mantova per laboriose ricerche d’archivio), ho quasi l’impressione di averla seduta davanti a me accanto alle fiamme danzanti di un camino, lei che racconta e io che sto ad ascoltare e nelle vampe di quel fuoco  che illumina a sciabolate di luce la camera vedo i volti dei personaggi che di volta in volta chiama in causa; sembrano lì, scesi dalla cappa, pure loro a udire le loro gesta. Questo per dirvi quanto fosse brava Maria Bellonci, una ricercatrice minuziosa, certosina, attenta, che sulla base dell’aridità di numeri, di date, di nomi e di fatti riusciva a trasformare questo coacervo di elementi in una prosa scorrevole, avvincente, ma legata in modo ferreo alle esigenze dello storico, a quella ricerca di verità a cui naturalmente si tende, pur nella consapevolezza di non riuscire mai a pervenire a un risultato assoluto e incontrovertibile, ma con l’aspirazione di avvicinarvisi il più possibile.
Tu vipera gentile
fa parte di un prezioso trittico di romanzi brevi, in cui l’autore parla di altrettante storie ben distinte.
Il primo, Delitto di stato, si snoda in un’atmosfera quasi gotica in una Mantova dal casato reggente ormai in decadenza; è quasi un giallo, anzi più propriamente un thriller, con una serie di delitti, il tutto dipinto con un attento contrasto fra luci e ombre, quasi che Maria Bellonci avesse la mano guidata dal Caravaggio.
Il secondo, talmente bello da essere sublime, e che s’intitola Soccorso a Dorotea, parla della triste vicenda di Dorotea Gonzaga, promessa sposa a Galeazzo Maria Visconti, una giovane innamorata che non riuscirà a coronare il suo sogno per una storia di gobbe ereditarie, ma anche di ragion di stato. Mi permetto solo di evidenziare la fine psicologia con cui l’autore ha narrato, riguardo a questa vicenda, del comportamento dei genitori, Ludovico Gonzaga e Barbara di Brandeburgo, immortalati da Andrea Mantegna nel famoso affresco della Camera degli Sposi.
Il terzo, che dà il titolo all’intera opera, Tu vipera gentile e che è anche il primo verso di un’antica canzone Viscontea, è la storia della famiglia Visconti, dalle origini fino all’acquisizione del titolo nobiliare di duca,  una serie di vicende, spesso intricate, con una galleria di protagonisti che solo la mano di Maria Bellonci poteva restituire come vivi dall’oblio del tempo e dal buio dell’Ade.
E dico solo la sua mano, perché da un altro, da uno storico, avremmo appreso gli stessi eventi, ma con inevitabili sbadigli, perché ne sarebbe uscito un libro puramente di storia, asettico, anche se scientificamente valido. Con Maria Bellonci la storia si anima, cresce il desiderio di giungere alla pagina successiva, e da questa all’altra immediatamente seguente.
Terminata la lettura, avrete la consapevolezza di avere imparato molto e con grande piacere, un risultato del tutto imprevedibile per chi non ha mai letto qualcosa di suo.
Dire che si rimane soddisfatti è dir poco, no, è meglio dire che si resta entusiasti.

Maria Bellonci, di origini piemontesi, nacque a Roma nel 1902 ed esordì nel 1939 con Lucrezia Borgia, che vinse il premio Viareggio. Insieme al marito Goffredo diede vita nel 1947 al premio Strega. Tra i suoi libri: Segreti dei Gonzaga, Pubblici segreti, Tu vipera gentile, Marco Polo. Rinascimento privato esce nel 1985, l'anno precedente la morte dell'autrice.
Renzo Montagnoli

 

18/12/2012

Pioggia nera
di Georges Simenon

Traduzione di Carmen Tomeo
In copertina: Georges Le Brun, Il vestibolo (1909).
Musée du Louvre, Parigi

Adelphi Edizioni
www.adelphi.it

Narrativa romanzo
Collana gli Adelphi

 

Gli occhi di un bambino

Scritto nel 1939 e pubblicato nel 1941, Pioggia nera, il cui titolo originale Il pleut, bergère… allude a una nota filastrocca infantile, è un romanzo breve che, tuttavia, riesce a condensare nelle sue 127 pagine, con una trama avvincente, una vicenda di fantasia, ma che, per com’è narrata, potrebbe essere benissimo accaduta veramente. Se il filo conduttore dell’opera è la ricerca da parte della polizia di un pericoloso anarchico, un’indagine non priva di tensione e particolarmente coinvolgente, essa si fa tuttavia notare ed apprezzare per la straordinaria capacità dell’autore di far vedere il mondo, i fatti, le persone, l’ambiente attraverso gli occhi di un bambino.
Ci troviamo in Normandia, in una piccola città, dove i coniugi Lecoeur, commercianti di tessuti lavorano dalla mattina alla sera per mantenere loro stessi e il loro figlioletto Jerome. E’ una vita modesta, ma senza particolari privazioni, e, per certi aspetti, quieta e nel complesso serena. Tuttavia, quest’esistenza viene sconvolta dall’arrivo della zia Valerie, una donna abbastanza ricca e decisa a non trascorrere da sola gli ultimi anni della sua vita. Nonostante il suo pessimo carattere, i Lecoeur accettano di dividere con lei le due stanze del loro appartamentino sperando di ereditare una casa di campagna, di cui la zia non è più in possesso, ma di cui rivendica la restituzione. Nascono inevitabilmente delle tensioni e dei conflitti, soprattutto con il nipotino Jerome, il cui piccolo angolo di libertà casalingo viene di fatto soppresso dalla presenza astiosa ed ingombrante della donna.
Il bambino, a casa da scuola per evitare di essere contagiato da un’epidemia di scarlattina, trascorre il suo tempo guardando, attraverso la finestra della sua camera, i cui vetri sono bagnati dalla pioggia che cade senza sosta, quella di un appartamento della casa di fronte, in cui vivono, in condizioni disagiate, ma dignitose, i Rambures,  un piccolo nucleo familiare costituito da un bimbo tubercolotico e sua nonna.
E’ un’epoca di tensioni sociali, di scioperi, di gesta sconsiderate, fra cui quella che porta Gaston Rambures - rispettivamente padre del piccolo e figlio della donna - a compiere un attentato durante una visita di stato che porta alla morte di un gendarme. Braccato dalla polizia, che ha messo una taglia di 20.000 Franchi sulla sua testa, cerca rifugio ovunque. Sarà Jérome a intuire dove si trova, ma non lo dirà; pur stando attento a non tradire il suo segreto ingaggerà una lotta con la zia, un duello fatto da parte della donna di crudeli e sottili ripicche. Avida e avara, attirata dalla taglia, capirà dov’è il nascondiglio e lo dirà alla polizia, attirata non solo da quei denaro, ma anche per fare un dispiacere al nipote, che ha maturato da tempo una naturale simpatia per quel povero bimbo dirimpettaio malato di tubercolosi.
Non aggiungo altro della trama, ma mi corre l’obbligo di evidenziare come in questa breve prosa ricorrano tutti i temi cari a Simenon: i proprietari di campagna gretti, altezzosi, corpi in decomposizione incapaci di dare una svolta a una vita vacua, ma inclini all’astio e all’acidità con gli altri esseri umani con cui vengono in contatto, la piccola borghesia commerciale (rappresentata dai Lecoeur), all’epoca una classe in progressiva crescita, disposta a sacrifici per elevarsi ulteriormente, l’inclemenza del tempo che ingrigisce ulteriormente una vita ripetitiva e avara di soddisfazioni, l’eterna lotta fra le classi meno abbienti e chi detiene il potere, gli inevitabili attriti generazionali.
L’ambientazione è come al solito perfetta e le descrizioni sono così attente che pare di vedere la piazza del mercato, si ha la sensazione di udire il tamburellare della pioggia, si avverte l’umidità che si va espandendo.
Ma è la fine analisi psicologica degli individui, dei protagonisti che come al solito incanta e stupisce, una capacità che Simenon profonde in tutti i suoi romanzi e che per questo fa di lui uno dei più grandi narratori di tutti i tempi.
Mi sembra superfluo aggiungere che Pioggia nera è un libro da non perdere assolutamente.

Georges Simenon, nato a Liegi nel 1903, morto a Losanna nel 1989, ha lasciato centonovantatre romanzi pubblicati sotto il suo nome e un numero imprecisato di romanzi e racconti pubblicati sotto pseudonimi, oltre a volumi di «dettature» e memorie. Il commissario Maigret è protagonista di 75 romanzi e 28 racconti, tutti pubblicati fra il 1931 e il 1972. Celebre in tutto il mondo, innanzitutto per le storie di Maigret, Simenon è anche, paradossalmente, un caso di «scrittore per scrittori». Da Henry Miller a Jean Pauhlan, da Faulkner a Cocteau, molti e disparati sono infatti gli autori che hanno riconosciuto in lui un maestro. Tra questi, André Gide: «Considero Simenon un grande romanziere, forse il più grande e il più autentico che la letteratura francese abbia oggi»; Walter Benjamin: «… leggo ogni nuovo romanzo di Simenon»; Louis-Ferdinand Céline: «Ci sono scrittori che ammiro moltissimo: il Simenon dei Pitard, per esempio, bisognerebbe parlarne tutti i giorni».
Le Centre d'études Georges Simenon et le Fonds Simenon de l'Université de Liège si trovano all'indirizzo: www.ulg.ac.be/libnet/simenon.htm.
Renzo Montagnoli

 

15/12/2012

Prospettivaeditrice

Ossessioni
di Andrea Marzola

Collana Il foglio noir 56

Formato Brossura

Immagini no

Zona Lombardia

Ambito noir

Quando la tua mente diventa il palcoscenico ideale per il teatro dell’assurdo, quando

lunghi e appuntiti aghi si conficcano nel tuo già martoriato e sanguinante cervello e

fuori tutti quanti non la piantano con la pentola della polenta, ciò significa che la tua

anima è posseduta dal demone dell’ossessione. Fissazione, assillo, tormento, angoscia,

ansia, incubo, mania, paranoia, psicosi, ossessione, ossessione.

Quindici racconti.

Andrea Marzola nasce il 27/06/1974 a Luino sulla sponda lombarda del lago Maggiore, dove

già Piero Chiara aveva ambientato molti dei suoi romanzi e racconti. Quando è ancora

in tenera età la sua famiglia si trasferisce a Baveno, sulla sponda piemontese. Non completa

gli studi universitari, viaggia molto, si stabilisce anche per brevi periodi in Inghilterra e in

Irlanda, per poi fare ritorno a Baveno, dove tutt’ora risiede. Da quando entra nel mondo del

lavoro, cerca sempre occupazioni che gli concedano tempo ed energie per dedicarsi a ciò

che ritiene essere più importante: creare e condividere, il suo modo di creare è scrivere.

Prospettiva novità

Prospettiva editrice via Terme di Traiano, 25 - 00053 Civitavecchia Roma

Tel. e Fax 0766 23598 - www.prospettivaeditrice.it  - segreteria@prospettivaeditrice.it

 

14/12/2012

Noi credevamo
di Anna Banti

Postfazione di Enzo Siciliano
In copertina: Renato Guttuso,
La battaglia di Ponte dell’ammiraglio (Part.), Firenze, Galleria degli Uffizi

Arnoldo Mondadori Editore
Narrativa romanzo
Collana Oscar scrittori moderni
 

 

Il Risorgimento tradito

Ma io non conto, eravamo tanti, eravamo insieme, il carcere non bastava; la lotta dovevamo cominciarla quando ne uscimmo. Noi, dolce parola. Noi credevamo… ”.

Mi piace leggere, un po’ di tutto e, se quasi sempre preferisco andare sul sicuro, non è infrequente che la mia scelta avvenga a caso, sotto l’effetto di un titolo che sembra suonare bene o di una copertina che attrae.
In questi casi sono sovente sfortunato, cioè mi imbatto in opere o che poi non mi interessano, oppure che si rivelano di modesta qualità. Non è questo il caso di Noi credevamo, il cui titolo mi era rimasto in mente in quanto omonimo di quello del film di Martone, che appunto è basato su questo romanzo di Anna Banti, pseudonimo di Lucia Lopresti, abile traduttrice e anche scrittrice di opere i cui protagonisti sono quasi sempre femminili, come nel caso di Artemisia, la vita  della pittrice Artemisia Gentileschi.
Noi credevamo…è così che termina il libro con l’ultima delle 344 pagine contrassegnate da uno stile elegante, raffinato, con un linguaggio elaborato più comune nel XIX secolo, a volte anche arcaico, con una lentezza misurata che non stanca e serve meglio a comprendere le riflessioni del protagonista, con parole ricercate, che sembrano pesate con il bilancino, perché ogni verbo, ogni sostantivo, ogni aggettivo non sono lì per riempire il foglio, ma sono messaggio, comunicazione, voce silenziosa da ascoltare e da approfondire.
Il racconto è in prima persona ed è quello del protagonista, Domenico Lopresti, nonno dell’autrice, mazziniano e garibaldino. È questi un personaggio complesso, ma che a ben guardare riflette la naturale condizione umana. Da vecchio, deluso dalla vita, è ipocondriaco, detesta tutto e tutti, compresi i familiari.
Non ama l’idea di un memoriale, ma deve scriverlo per capire dove ha sbagliato, se ha sbagliato, e in fondo per fare un ultimo definitivo bilancio della propria esistenza, ora che l’ultima stagione è prossima alla fine.
Regna l’amarezza, propria di un uomo che ha ben compreso che non è riuscito nella missione che si era proposto, e cioè dare vita a una Patria moderna, abitata da gente animata da una nobile e salda identità collettiva.  Per Domenico il risorgimento è stato un tradimento e per quanto concerne il Regno delle Due Sicilie si è trattato di un semplice travaso di poteri, dai Borboni ai Savoia, sempre monarchi conservatori da cui nulla di positivo usciva, né sarebbe mai uscito.
Per questo ideale Domenico ha sacrificato tutto, ha trascorso lunghi anni nelle durissime carceri borboniche, e pur vacillando più volte la fede nella sua missione, è sempre stato poi pronto a ricominciare, indomito fino all’ultimo.
E che sia rancoroso, soprattutto con se stesso, è quindi ben comprensibile.
In questo romanzo ci sono anche personaggi, fra i tanti,  indimenticabili come il carceriere Gennaro, l’aristocratico Castromediano, la cognata Cleo, una sognatrice come Domenico, anche se più d’impronta romantica, il prefetto Cornero, ma tutte sono figure che, come il protagonista, si agitano sulla scena della vita come marionette i cui fili sono tirati dal destino, in un garbuglio di cui crediamo di conoscere il filo libero, ma è un’illusione, andiamo dove il vento celeste ci spinge.
Domenico sembra dirci che è inutile che crediamo di tracciare il sentiero dei nostri passi, perché non è possibile, perché questo è già segnato prima ancora che veniamo al mondo.
Noi credevamo è sicuramente un romanzo stupendo, uno di quelli che una volta letti si è spinti irresistibilmente a rileggere nuovamente. 

Anna Banti (pseudonimo di Lucia Lopresti) nacque a Firenze il 27 giugno 1895 e morì a Ronchi di Massa il 2 settembre 1985. Scrittrice e traduttrice, sposò nel 1924 il critico d’arte Roberto Longhi con il quale fondò la rivista Paragone, della quale diresse a lungo la sezione letteraria. Tra i suoi libri più noti Artemisia (1947), Le donne muoiono (1951) Premio Viareggio e i racconti raccolti in Campi Elisi (1963). Celebri e bellissime anche le traduzioni dei classici inglesi e francesi tra cui Thackeray, Colette, Fournier, Austen, Woolf e la curatela del Meridiano dedicato a Defoe.
Renzo Montagnoli

 

12/12/2012

Maigret e il fantasma
di Georges Simenon

Traduzione di Valeria Fucci
In copertina: Harold Edgerton con Kenneth Germeshausen,
Arma pericolosa (1936). Museum of Modern Art,
New York

Adelphi Edizioni
www.adelphi.it

Narrativa romanzo
Collana Gli Adelphi
Le inchieste del commissario Maigret

 

Un caso intricato

L’ispettore Lognon, uno sfigato, in quanto è da una vita che cerca di essere promosso al grado superiore senza riuscirvi per mera sfortuna perché le capacità non gli mancano, viene trovato gravemente ferito da due proiettili davanti all’ingresso di un condominio, a poca distanza dalla sua abitazione, dove vive con una moglie convinta di essere gravemente ammalata, ma fisicamente in buone condizioni. Quando poi si viene a sapere dalla portinaia che da un po’ di tempo, e solo di notte, frequentava l’edificio recandosi nell’appartamento di una giovane e bella ragazza nubile, scoppiano le illazioni.
Maigret, che lo conosce bene, non è convinto, Lognon non è un donnaiolo, ma solo un uomo che cerca di dare una svolta alla sua carriera, magari risolvendo un’indagine complicata. E così poco a poco il commissario viene a conoscenza che effettivamente si stava interessando a un caso, di quelli eclatanti e tali da conferire al suo risolutore una grande notorietà.
E’ inutile dire che le indagini sono proseguite da Maigret, che si muove sul difficile, avendo come sospetto uno straniero ricco e influente, un grande collezionista di quadri.
E poi ci sono la bella moglie di questi, troppo giovane per un marito avanti con gli anni, per quanto danaroso, un giro notturno di belle donne nella casa signorile ove la stessa abita, un traffico di quadri falsi.
La carne al fuoco è abbondante, anzi troppa, e questa volta Simenon corre il rischio di bruciarla, con troppi colpi di scena, alcuni non del tutto logici.
Beninteso, il libro è sempre piacevole da leggere, ma non si ritrovano in esso quelle eccellenti qualità di scrittore che giustamente hanno reso celebre l’autore belga.
Si può dire, infatti, che la trama, intricata, aggrovigliata, prende il sopravvento sulla psicologia dei protagonisti, così come anche l’atmosfera è un po’ in sottotono.
Insomma non è certamente uno dei migliori della serie del commissario Maigret, però rappresenta sempre per il lettore un piacevole passatempo, anche se questa volta nulla di più.   

Georges Simenon, nato a Liegi nel 1903, morto a Losanna nel 1989, ha lasciato centonovantatré romanzi pubblicati sotto il suo nome e un numero imprecisato di romanzi e racconti pubblicati sotto pseudonimi, oltre a volumi di «dettature» e memorie. Il commissario Maigret è protagonista di 75 romanzi e 28 racconti, tutti pubblicati fra il 1931 e il 1972. Celebre in tutto il mondo, innanzitutto per le storie di Maigret, Simenon è anche, paradossalmente, un caso di «scrittore per scrittori». Da Henry Miller a Jean Pauhlan, da Faulkner a Cocteau, molti e disparati sono infatti gli autori che hanno riconosciuto in lui un maestro. Tra questi, André Gide: «Considero Simenon un grande romanziere, forse il più grande e il più autentico che la letteratura francese abbia oggi»; Walter Benjamin: «… leggo ogni nuovo romanzo di Simenon»; Louis-Ferdinand Céline: «Ci sono scrittori che ammiro moltissimo: il Simenon dei Pitard, per esempio, bisognerebbe parlarne tutti i giorni».
Le Centre d'études Georges Simenon et le Fonds Simenon de l'Université de Liège si trovano all'indirizzo: www.ulg.ac.be/libnet/simenon.htm.
Renzo Montagnoli

 

8/12/2012

JO NESBØ

LO SPETTRO

Titolo originale Gjenferd
Traduzione di Eva Kampmann

Ed. Einaudi
Stile libero Big 2012

 Il più grande scrittore al mondo di crime sono io. Poi c’è Jo Nesbø,che mi sta alle calcagna come un pitbull rabbioso, pronto a prendere il mio posto, appena tirerò le cuoia.
James Ellroy

 Quarta di copertina
Lo spettro è il mio libro più cupo e feroce. Tecnicamente il mio libro migliore. Quello in cui ho cercato di coordinare cuore e cervello.
Jo Nesbø

In una Oslo torbida e in odore di droga si aggira come l’ombra di uno spettro il crimine. Un romanzo "crime" spietato e disperato.

Oslo, la capitale norvegese, è lo sfondo noir e spettrale in cui lo sgualcito e tormentato detective Harry Hole vive la sua estrema lotta contro il male e il crimine. Come afferma l’autore Jo Nesbø, Lo Spettro è un libro pieno di cupezza e atrocità, c’è una forma di accanimento contro il destino di dannati e persi la cui risoluzione è causa di sofferenza e pena.

Il protagonista Harry, con l’onnipresente sigaretta sulle labbra, portatore di una malinconia cronica e il fantomatico e inafferrabile antagonista, Dubai, simbolo del male assoluto, in una sorta di fiaba nera si cercano come il gatto con il topo in uno scontro senza esclusione di colpi in un crescendo di azioni mozzafiato. Tutta la narrazione procede come un film, i personaggi netti, tagliati con il coltello nei loro caratteri e nelle loro caratteristiche fisiche; gli scenari freddi senza sfumature cromatiche se non il bianco abbacinante nordico o il nero fosco della notte rischiarato dalle scintillanti luci metropolitane. Droga, mafia russa, sigarette, alcol, ambizione, cinismo e corruzione da parte di politici e poliziotti, ma anche amori tormentati o spezzati sono tutti elementi essenziali della storia .

Harry Hole, trascorsi tre anni da quando ha lasciato la sua città, dopo aver abbandonato la centrale di polizia, la donna amata Rakel e Oleg il figlio di lei, ritorna da Hong Kong con la prima falange del dito medio rimpiazzata da una protesi in titanio di un grigio-azzurro opaco, una ferita che andava da una parte all’altra del mento e altre ferite interiori difficili, se non impossibili da rimarginare. Il suo passato di ex alcolizzato è nascosto dentro di sé, ma non così tanto da non travolgerlo ancora e confondere la sua mente e il suo discernimento. Ritorna perché deve saldare i conti con gli spettri del passato e scagionare Oleg, tossicodipendente, pallido fantasma del bambino che aveva cresciuto come un figlio, in carcere, accusato dell’omicidio del suo migliore amico, il bellissimo Gusto, figura ambigua, anche lui legato al mondo della droga. Si scontrerà con personaggi inquietanti, irrimediabilmente malvagi, nutriti da un odio senza scampo, malavitosi asserviti a rigidi codici d’onore e a pratiche di morte crudeli e antiche.

Questo noir si differenzia in un certo senso da tanta letteratura di genere, made scandinava, che negli ultimi anni ha “invaso” l’editoria italiana, non tanto per i personaggi a tutto tondo e scavati da sentimenti divoranti, quanto per la crudezza delle immagini e la minuzia dei particolari. I pensieri ossessivi dentro la mente, i dettagli nel descrivere i quartieri dello spaccio, in particolare di una droga la violina, ancora più devastante dell’eroina, i rituali della mafia, la spietatezza senza limiti di certi delinquenti, i pusher che detengono il mercato, il valore della vita annullato dalla logica del denaro e di un distorto senso dell’affidabilità e lealtà umane…Crude e realistiche asserzioni:

Il mondo è governato da due tipi di persone. Quelle che vogliono il potere e quelle che vogliono i soldi. Il primo tipo vuole la statua, il secondo il piacere. E la valuta che usano quando fanno affari tra di loro per ottenere ciò che vogliono si chiama corruzione.

Il musicista Nesbø traspare quando cita le canzoni dei Nirvana, come Come as You Aire, o i GunsN Roses in Welcome to the Jungle o di Van Morrison And It Stoned Me, conosce in modo straordinario le tecniche del genere, dimostra una dimestichezza straordinaria nell’incastrare la storia in una struttura i cui elementi combaciano alla perfezione; sa come usare efficacemente in uno stile essenziale, ma mai sciatto, un linguaggio che va dritto al cuore dei personaggi. Un libro senz’altro da leggere per chi ama i noir, e questo lo è ad alto livello.

Jo Nesbø è nato a Oslo nel 1960. Prima di diventare uno dei più grandi autori di crime al mondo si è cimentato in mille mestieri. Ha giocato a calcio nella serie A del suo paese, ha lavorato come giornalista freelance, ha fatto il broker in borsa. Cantante e compositore, si esibisce tutt’oggi regolarmente con la sua band norvegese dei Di Derre. Ha scritto 15 libri tra cui Il leopardo, un successo mondiale, spaziando dal giallo alla letteratura per l’infanzia, con esiti spesso geniali. Con questo romanzo, la serie con protagonista il detective Harry Hole arriva al numero nove.
Arcangela Cammalleri

 

7/12/2012

365 Agendina letteraria 2013
di Autori Vari
a cura di Virginia Foderaro

Opposto.net
www.opposto.net

Narrativa

Non solo agenda

Vi chiederete: va bene recensire, ma adesso farlo anche per un’agenda?
Certamente sì, se questa presenta caratteristiche letterarie, come 365 Agendina letteraria 2013, edita da Opposto.net.
Infatti non ci sono solo le pagine con i giorni del prossimo anno, ma, all’incirca a metà, presenta diversi racconti di numerosi autori e se li leggerete sono sicuro che questa agenda non farà la fine delle altre, cioè in un angolo o, nella migliore delle ipotesi, ceduta a terzi al solo scopo di liberarsene.
Infatti, non è la stessa cosa trovarsi per le mani un prodotto, magari con copertine in pelle, e un analogo che cerca di unire praticità e cultura.
In questo senso, anche per il formato ridotto (18 x 12), oltre a non occupare troppo spazio sul tavolo di lavoro, è facilmente leggibile coricati oppure seduti in treno, e a parte questo indubbio vantaggio, restano le particolari qualità delle prose contenute, di genere vario, e nel complesso di adeguato buon livello. Su tutte, a parer mio, ne spicca una, Il re dei barboni, di Salvo Zappulla, una favola natalizia assai azzeccata, adatta non solo ai bambini, ma anche agli adulti.  Vi regna un intenso desiderio di quella solidarietà, che è propria dei più umili, di cui oggi più che mai si avverte il bisogno.
L’autore è riuscito a esprimere il concetto con semplicità, ma soprattutto con immediatezza, ed è una di quelle storie che al primo colpo sembrano normali, idonee come passatempo, ma che poi ogni tanto ritornano e ci si accorge, allora, che a pensarci, si scopre in noi un’assenza che, in quanto tale, ignoravamo, quell’ormai acclarata incapacità di tendere la mano a chi è in difficoltà, un gesto, un atto di cui ci ricordiamo solo quando il bisogno è nostro.  
Inoltre, le vere e proprie pagine dedicate ai giorni portano in calce alcuni pensieri, frammenti di poesie, che non oserei definire aforismi, ma che pur tuttavia  portano una loro verità, come questa di Pala Dalila: Ciò che molti non sanno è che non importa dove vanno i giorni ma come e con chi li trasformi in eterni piacevoli ricordi.
Insomma, onde togliere dall’imbarazzo nella ricerca di spesso inutili piccoli doni natalizi, quest’agendina si propone con tutte le carte in regola; sono convinto che con una modica spesa risulterà gradita a chi la donerete, senza dimenticare che in ogni caso sarà così anche per voi, se invece, ripensandoci, la vorrete tenere.

Autori
Amara, Anna Maria Artini, Enrico Bancone, Cristiana Cervelloni, Giuseppe Ciccolini, Paolo Costantini, Angelica D’Agliano, Letizia Antonia D’Alessandro, Pala Dalila, Nicola De Dominicis, Olympia Dotti, Sandra Fedeli, Virginia Foderaro, Giacomo Gasparini, Tatyana Lavrychenko, Cinzia Leo, Chiara Luciani, Monica Mazzanti, Liana Nepoti, Agata Pannucci, Stefano Peruzzi, Massimiliano Procellaria, Marino Santalucia, Elisabetta Santoro, Salvo Zappulla.  
Renzo Montagnoli

 

4/12/2012

Angel Heart
di William Hjortsberg

Traduzione di Anna Cascone, rivista dalla Redazione
Copertina di Otto Dolci

Tre Editori
www.treditori.com
Narrativa romanzo

Un moderno Faust

Chi ha avuto la fortuna di vedere Angel Heart – Ascensore per l’inferno, bellissimo film del 1987, diretto da Alan Parker e interpretato magistralmente da Mickey Rourke, nei panni di Harry Angel, e da Robert De Niro, nella parte di Louis Cyphre, sarà rimasto impressionato dall’atmosfera cupa che aleggia sempre e dal ritmo incalzante, che finisce quasi con l’ossessionare lo spettatore. La pellicola era tratta da un romanzo di uno scrittore statunitense, William Hjortsberg, il cui titolo originale è Falling Angel.
La Tre Editori, sempre attenta a opere che abbiano ascendenti esoterici, propone questo libro, molto opportunamente intitolandolo Angel Heart, di modo che il riferimento al film possa essere immediato.
Ora può capitare che bellissimi romanzi adattati per il grande schermo risultino concretamente assai inferiori, oppure può esserci anche il caso contrario, cioè di mediocri opere che in pellicola diventano dei capolavori. Angel Heart rientra fra quei prodotti il cui testo originale è addirittura superiore, come valenza, alla relativa pellicola,  sebbene questa sia assai riuscita.
Il ritmo è ancora più incalzante di quello del film, l’atmosfera scende poco a poco a disegnare un mondo misterioso e anche terribile. La vicenda è la stessa, cioè l’attività di Harry Angel, investigatore privato, che ha ricevuto l’incarico da un istrionico Louis Cyphre di rintracciare tale Johnny Favorite, un famoso cantante degli anni quaranta di cui si è persa ogni traccia. In una New York che sembra quasi di toccar con mano si svolge l’indagine, fra quartieri degradati e altri di estremo lusso, alla luce del sole oppure nel grigiore di un cielo che più che sovrastare sembra opprimere. Angel incontra tanti personaggi, talmente ben definiti da sembrare reali, esseri per lo più originali e che vengono gradualmente a comporre un puzzle di cui non svelo la fine, per non togliere il piacere al lettore; il protagonista si muove in questo ambiente con sicurezza, proprio di chi lo conosce bene, lasciando dietro di sé una scia di sangue, in un thriller che fra riti vudù e oscure presenze aspira a una trascendenza del male. Fra l’altro, il lettore quasi non si accorge di venire coinvolto, di anelare alla soluzione del mistero che risulterà scioccante, anche se logica. Una pagina dopo l’altra il ritmo cresce, per diventare alla fine forsennato, lasciando indizi che portano dapprima al sospetto e poi alla certezza finale.
Stephen King ha scritto così di Angel Heart: “Un romanzo straordinario, a metà fra il genere poliziesco e quello esoterico. E’ come se l’Esorcista fosse stato scritto da Raymond Chandler”.
Concordo pienamente, perché lo stile di  Hjortsberg, pur essendo scarno, è notevolmente efficace e bastano già le prime righe del libro per coinvolgere emotivamente il lettore. Perfino l’investigatore Harry Angel si comporta come Philip Marlowe, un eroe antieroe che nella sua ordinarietà suscita una naturale simpatia.
Angel Heart è un romanzo godibilissimo da leggere  e nel suo particolare genere può essere definito un capolavoro.     

Nato a New York nel 1941, William Hjortsberg ha studiato a Yale e Stanford. Oltre ad Angel Heart ha scritto un cult della fantascienza, Gray Matters, e Nevermore, un thriller che mette in scena Conan Doyle, Houdini e il fantasma di Edgar Allan Poe...
Renzo Montagnoli

 

2/12/2012

PANTUMAS

 SALVATORE NIFFOI

Ed.  Feltrinelli 2012

Romanzo

Amore e sangue si consumano nel mistero dell’esistenza

L’inferno è la patria dell’irreale e di chi cerca la felicità. É un rifugio per chi rifugge dal cielo, che è la patria dei padroni della realtà, e per chi rifugge dalla terra, che è la patria degli schiavi della realtà.

George Bernard Shaw da “Uomo e Superuomo”

Una visione magica e mitica che Niffoi dà della sua terra, la Sardegna, in questo libro di ancestrale memoria a ritroso.

In Pantumas (Fantasmi) di Salvatore Niffoi, Feltrinelli 2012, è la sua terra, la Sardegna, il luogo mitico in cui realtà e fantasia hanno un legame fatale e Chentupedes è l’avìto villaggio in cui s’intrecciano le vicende narrate. In un certo senso una saga famigliare ancestrale risalente al 1392, protagonisti i nonni, mannoi Lisandru Niala, noto Zumpeddu, e mannai Rosaria Litzen, coppia di anziani uniti da un amore che sconfina oltre la morte.

Vita, sangue, amore e morte sono le coordinate entro le quali si muovono i personaggi e gli episodi del passato che si succedono e scorrono a ritroso attraverso la pellicola di un film, nel novembre del 1964 a casa Niala: La vita restituita dalle immagini sputate su una parete di calcina turchese come un fondale di cielo barbaricino.

L’io narrante, il nipote Lisandreddu, ricorda i nonni e gli altri capostipiti attraverso il ritrovamento a dir poco mirabolante di una scatola contenente le bobine di pellicola arrotolate, dal vago odore di aceto guasto, recante in alto, all’esterno, una scritta in maiuscolo, Pantumas: pezzi di vita rubati a Lisandru Niala, da restituirgli solo dopo la sua resurrezione. Sotto in corsivo: Finita la visione, tutto deve ritornare dove è venuto, in compagnia di Rosaria. Chi era il regista occulto di una parte dell’esistenza di un uomo? In toni drammatici, poetici, il nonno, resuscitato dopo un anno, mentre guarda il film della sua vita, cambia pelle piano piano e si rimpicciolisce fino a tornare creatura tra le braccia di mannai, e anche lei se ne andò rinsecchita e dolce come una prugna allardata al sale: questa volta andiamo in paradiso insieme.

Niffoi nella premessa riporta come le voci narranti ogni tanto si intrecceranno, si incroceranno, si fonderanno in un impasto di trinciato forte, pece, sangue, miele amaro, polvere e odore di foglie secche mischiate a polvere da sparo. L’io narrante rivive dentro di sé il trapasso del nonno come se avesse dentro la sua anima; la vita ha una sua ciclicità che ad andare e tornare, e vivere e morire siano sempre le stesse persone, solo che per uno strano scherzo del destino, non sanno di avere già vissuto, di essere già morte. Cambia il palcoscenico, ma le maschere e gli attori sono sempre gli stessi. La memoria del nonno, il beato nato e morto due volte, che sta in cielo per volontà di chi l’ha conosciuto, che a sua volta fu, rivive nel mondo arcaico e primitivo degli avi, una visione della vita fatalistica affidata all’immutabilità della natura e ad una saggezza dettata dall’esperienza, mannoi Zumpeddu, uomo pratico, istintivo, con una filosofia della specie che non distingue tra cinghiale e coniglio. Figure forti e tragiche di memoria verghiana campeggiano sullo sfondo di una natura ricca di frutti, ma spesso ingrata verso gli uomini, Dona Juditta Pessato, l’innamorata respinta che nutre vendetta, Luchia Ferathu la spigolatrice e fornicadora, Serafinu Marradu, l’operatore cinematografico… Descrizioni intense…

Il sole, come una bacca d’ambra scura, bucava le nuvole, spumose che salivano verso…La luna era piena di misteri da svelare e cerchiata di rosso, di quel rosso che accende la follia e fa sentire da lontano l’odore dell’amore…

Sinestesie coloristiche e trame stilistiche odorose e pregni...

Odore di ginepro, formaggi, pane crasau

Nostalgia di una civiltà antica, primigenia e autentica fatta di essenzialità e semplicità…

Bastava una manciata di prugne acerbe rubate all’imbrunire a stemperare il fiele della vita.

Tutto il racconto è permeato da un velo di tristura che aleggia sulle esistenze anche quando la vita fa intravedere lampi di fallace felicità.

Non si può non dire che le pagine di questo romanzo non siano inondate di vita, sia pure riflessa e volta verso il passato, da influssi letterari di matrice latino americana alla Marquez presenti come infiltrati stilistici; l’uso della limba (lingua regionale) e la memoria a ritroso del suo piccolo mondo ricco di riti magici e credenze popolari sono peculiari della scrittura di Niffoi.

Salvatore Niffoi (Orani, Nuoro, 1950) è stato insegnante di scuola media fino al 2006. Ha esordito con Collodoro, Solinas 1997, Adelphi 2008, sono seguiti Il viaggio degli inganni, Il postino di Piracherfa, 2000, Cristolu, 2001, La sesta ora, 2003, La leggenda di Redenta Tiria, 2005, La vedova scalza, 2006, premio Campiello, Ritorno a Baraule, 2007, Il pane di Abele, 2009, Il bastone dei miracoli, 2010, Paraìnas. Detti e parole di Barbagia, 2009, I malfatati, 2011, Il lago dei sogni, 2011.
Arcangela Cammalleri


Il giudizio della sera
di Sebastiano Addamo
a cura di Sarah Zappulla Muscarà

Bompiani editore
www.bompiani.eu

Narrativa romanzo
Collana Tascabili narrativa

 

Discesa all’inferno

Le circostanze della vita sono strane e spesso negative, ma altre poche volte positive, come in questo caso, dovuto all’acume di un eccellente scrittore siciliano, Massimo Maugeri, che sul suo seguitissimo blog Letteratitudine nel settembre del 2009 ha pubblicato un articolo su Il giudizio della sera, di Sebastiano Addamo. Benché appassionato di autori siciliani, in cui identifico un comune denominatore non solo stilistico, ma anche espressivo che rientra ampiamente nei miei gusti, quel nome, Addamo, che sembra una storpiatura, un errore di scrittura del più comune Adamo, mi risultava pressoché sconosciuto, pressoché in quanto vagamente sapevo che era stato un poeta, narratore e saggista, ma erano notizie apprese qua e là, non erano fonte di una diretta conoscenza di qualche sua opera. Ecco perché allora mi sono sentito in obbligo, previo consiglio con qualche amico più competente di me in letteratura, di leggere qualcosa di questo Addamo, senz’altro meno noto di Sciascia e di Bonaviri, che erano pressoché suoi contemporanei.
E tutti mi hanno detto di leggere Il giudizio della sera, un romanzo che i miei consiglieri mi hanno definito di grande bellezza. Così ho fatto, procedendo con lentezza, soffermandomi su più punti e impiegando parecchio tempo, nonostante la relativa brevità, perché si tratta di 159 pagine.
Addamo narra la storia di cinque adolescenti siciliani, residenti con le famiglie in provincia e costretti a trasferirsi a Catania per studiare al liceo. Corre l’anno 1940 e la guerra è appena iniziata, nella convinzione che si tratterrà di una passeggiata lunga non più di due o tre mesi, tanto la vittoria è certa, perché così ha detto Mussolini.
Sappiamo che poi non andò così, ma resta il fatto che a Catania in quel primo anno ben poco ci si accorse dello stato di belligeranza e anzi i 5 giovani, ospiti di un’affittacamere, una donnona mastodontica tutta imbellettata, consapevoli di un’improvvisa libertà dai genitori trascinano i loro giorni nel desiderio del primo rapporto sessuale, fra impellente necessità e timori, una condizione che l’autore descrive in modo ineguagliabile, lasciando lo spazio, fra un sogno e un’occhiata di straforo, a delle osservazioni filosofiche, che, se pur sembrano limitate alla società siciliana, dimostrano un’incredibile attualità, soprattutto questa “     Al mio paese, ma in molti paesi, e specie del Sud e della Sicilia, come c' era un fascismo d' accatto, miserabile, fatuo e minchionesco, così c' era un' opposizione pure d' accatto, molto misteriosa, quasi inutile, risentita, e sia pure onesta. Ma come il marxismo fu la coscienza del proletariato e diventò la coscienza per la stessa borghesia - il neocapitalismo cosiddetto che cosa è, se non appropriazione e uso del marxismo ma nel senso contrario? così, all' inverso, un sistema ridicolo e imbelle produce un' opposizione se non ridicola certo imbelle.  “.
Non è difficile infatti riscontrare una somiglianza fra un recente regime populista pseudo democratico e l’opposizione sterile allo stesso, una vera e propria profezia, visto che il libro uscì nel 1974.
Più passano i mesi, più la guerra comincia a segnare la vita delle persone, con i primi caduti, della cui scomparsa portano notizia ai congiunti le autorità, almeno fino a quando questi morti sono pochi, poiché la belligeranza, più è lunga, più fa abituare ai numeri: le prime vittime commuovono, le altre che seguono non interessano più, se non i familiari o gli amici, o al massimo i vicini.  Poi cominciano le ritirate strategiche, arrivano in soccorso i tedeschi che sciamano per Catania, entrando in concorrenza con i soldati italiani nella ricerca di prostitute, di cui la città abbonda, e infine un rovescio militare dopo l’altro, il cibo, già poco, che sparisce e così impera la fame. Ora le donne non si vendono più per denaro, ma per il pane, secondo un tariffario che varia in base alla classe dei bordelli e le strade pullulano di femmine che si offrono e che addirittura aggrediscono i passanti, magari non intenzionati a consumare un rapporto.
Per i cinque ragazzini è una progressiva e inarrestabile discesa all’inferno, con il sesso che diventa merce, con i sentimenti soffocati dai bisogni primari di un’umanità ritornata ai primordi.
Le vie, le piazze, sono dapprima lordate dalla traccia inequivocabile delle urine, il cui tanfo sovrasta ogni cosa, poi, allentati del tutto nell’uomo ritornato animale i freni inibitori, i selciati, i gradini sono coperti dagli escrementi umani, e infine arrivano in quantità spaventosa le cimici.
E’ una visione indubbiamente apocalittica e nichilista, ma Addamo è capace di uscire da un circolo vizioso che potrebbe implodere la sua opera con invenzioni creative che sono di una bellezza unica, con una descrizione dei personaggi, in cui nessuno è tutto buono, o tutto cattivo, perché l’uomo è così, un essere pensante con la bestia dentro.
In una città per nulla solare e marcescente arriva il colpo di grazia con il primo bombardamento, di fronte al quale i catanesi sono dapprima increduli e poi dei poveri esseri disperati.
Mai ho letto parole così azzeccate che descrivono gli effetti delle bombe e mi corre l’obbligo di trascriverle di seguito: “Ci fu una vecchietta che si fece largo tra la folla, si avvicinò alle rovine, cominciò a chiamare un nome. << Maria, Maria.>> Nessuno la fermò. Lei si mise a raschiare la terra. Chiamava sempre. <<Maria, Maria.>> Un breve lamento che non era neppure lamento, ma un nome. Infine sedette su una pietra: ne raccolse un’altra e se la pose in grembo. << Maria, Maria.>> Il breve grido tornò a risuonare. Si mise a piangere in silenzio.”
Per Gino, il protagonista principale e i suoi 4 coetanei, il processo di formazione è finito, sono passati dall’aspirazione a essere adulti propria degli adolescenti alla rassegnata allucinazione dei vecchi, da un mondo di speranza a un altro di completa disillusione, hanno saltato l’età di mezzo, quella in cui, mattone dopo mattone, si costruisce la vita, quella vita che la guerra ha distrutto quand’era ancora in embrione. E allora meglio è non essere nati, meglio é attuare una cesura netta con l’era dei Padri, perché la storia del loro passato è la tragedia del presente dei figli.
Il giudizio della sera non è solo un bellissimo romanzo, è soprattutto un capolavoro, di quelli rari, che lasciano un segno indelebile in letteratura.

Sebastiano Addamo (Catania, 1925 – ivi, 2000) ha collaborato a quotidiani e riviste di cui ricordiamo “Nuovi Argomenti”, “Linea d’ombra”, “Poesia”. Fra le sue opere, i romanzi Il giudizio della sera (1974); Un uomo fidato (1978); I mandarini calvi (1978); Le abitudini e l’assenza (1982); i racconti Violetta (1963); Palinsesti borghesi (1987); Non si fa mai giorno (1995); le raccolte di poesia La metafora dietro a noi (1980); Il giro della vite (1983); Le linee della mano (1990); Alternative di memoria (1995); i saggi Vittorini e la narrativa siciliana contemporanea (1962); I chierici traditi (1978); Oltre le figure (1985); Racconti di editori (1991).

Sarah Zappulla Muscarà, ordinaria di Letteratura Italiana nell’Università di Catania e incaricata di Letteratura Teatrale Italiana e Storia e Critica del Cinema, si occupa di narrativa, teatro e cinema tra Otto e Novecento, di edizioni di testi e carteggi inediti. A sua cura sono apparsi nei Tascabili Bompiani Tutto il teatro in dialetto di Luigi Pirandello e Tutto il teatro di Stefano Pirandello (in collaborazione con Enzo Zappulla); Giovannino, Un bellissimo novembre, Gli ospiti di quel castello, Roma amara e dolce di Ercole Patti; Un posto tranquillo di Enzo Marangolo; Silvinia e L’infinito lunare di Giuseppe Bonaviri.
Renzo Montagnoli

 

29/11/2012

Maigret e l’uomo solitario

di Georges Simenon

Traduzione di Simona Mambrini
In copertina: André Kertész, Nell’atelier di uno scultore, Parigi (1925)

Adelphi Edizioni
www.adelphi.it

Narrativa romanzo
Collana Gli Adelphi Le inchieste di Maigret

 

Uno strano caso

Ciò che mi colpisce di più quando leggo un libro di Simenon, sia che si tratti di un giallo con protagonista il celebre commissario Maigret, sia che abbia a che fare con romanzi noir, o comunque con un’atmosfera di sospetto, è lo straordinario stile dell’autore belga. L’opera può essere più o meno riuscita, ma è innegabile la presenza di una qualità di assoluta eccellenza con una scrittura piana, relativamente semplice, ma diretta, tale da riuscire sempre a coinvolgere il lettore. Non è che Simenon ami dilungarsi nelle descrizioni dei personaggi e degli ambienti, anzi le sue sono poche e misurate pennellate che consentono a chi legge di vedere come se fosse là, sul luogo della scena. E’ questo il caso anche di Maigret e l’uomo solitario, con un’insolita vicenda che trae origine dall’omicidio di un barbone, rasato di fresco e con le mani estremamente curate, tanto da far dire a Maigret “Sembra un vecchio attore nel ruolo di un barbone”. Qui non ci sono cieli con nubi gravide di pioggia, né nebbie fitte e impenetrabili, anzi siamo in una Parigi agostana, in parte spopolata dai suoi abitanti per la tradizionale villeggiatura, ma affollata di turisti. Ma ritorno allo stile e rilevo, piacevolmente, che ho l’impressione di essere in strada con il commissario a Montmartre, alla ricerca di alberghetti e pensioni compiacenti, così come ho netta la sensazione di vedere la birra che ogni tanto si concede nei bistrot, insomma più avvinto di così non potrei essere.  Simenon, senza ricorrere all’eloquenza di un D’Annunzio o di un Sholokhov, rende partecipi con un’immediatezza a dir poco strabiliante, ma non è l’unico pregio, perché vi è anche una capacità considerevole di sondare in profondità l’animo umano, di mettere a nudo l’intimo di ognuno, dal maggior indiziato a una clochard testimone. E, se non bastasse anche la trama veramente interessante, l’autore belga ha l’innato dono di condurre per mano il lettore in modo che giunga insieme a Maigret all’identificazione del colpevole, senza colpi di scena improvvisi, ma con pedine mobili che poco a poco scoprono un tassello di un intricato mosaico quale è quasi sempre un fatto delittuoso.
A volte scoprire il colpevole non è un piacere, quando questi meriti, per circostanze varie, tutta la nostra pietà, la stessa pietà che Simenon  riserva a personaggi non naturalmente inclini all’omicidio, ma che lo hanno commesso per fatalità o anche per un estremo senso di giustizia. E così, in questi casi, la vera vittima finisce con l’essere quello che subirà il carcere, fatto non inconsueto nella produzione dell’autore belga, che finisce sempre con l’offrire un concetto variegato di giustizia che solo il lettore disattento non potrà cogliere.
Maigret e l’uomo solitario è un eccellente romanzo e, quindi, è meritevole di lettura. 

Georges Simenon, nato a Liegi nel 1903, morto a Losanna nel 1989, ha lasciato centonovantatre romanzi pubblicati sotto il suo nome e un numero imprecisato di romanzi e racconti pubblicati sotto pseudonimi, oltre a volumi di «dettature» e memorie. Il commissario Maigret è protagonista di 75 romanzi e 28 racconti, tutti pubblicati fra il 1931 e il 1972. Celebre in tutto il mondo, innanzitutto per le storie di Maigret, Simenon è anche, paradossalmente, un caso di «scrittore per scrittori». Da Henry Miller a Jean Pauhlan, da Faulkner a Cocteau, molti e disparati sono infatti gli autori che hanno riconosciuto in lui un maestro. Tra questi, André Gide: «Considero Simenon un grande romanziere, forse il più grande e il più autentico che la letteratura francese abbia oggi»; Walter Benjamin: «… leggo ogni nuovo romanzo di Simenon»; Louis-Ferdinand Céline: «Ci sono scrittori che ammiro moltissimo: il Simenon dei Pitard, per esempio, bisognerebbe parlarne tutti i giorni».
Le Centre d'études Georges Simenon et le Fonds Simenon de l'Université de Liège si trovano all'indirizzo: www.ulg.ac.be/libnet/simenon.htm.
Renzo Montagnoli

 

26/11/2012

La neve
di Francesco Filia

Copertina di Elvira Pagliuca (Studio Kaleidon)
Fara Editore
www.faraeditore.it

Poesia
Collana Sia cosa che

opera vincitrice del concorso Faraexcelsior 2012

 

La precarietà

La neve, quella vera, non l’abbiamo mai vista / se non nella bocca di un vulcano / nei pochi giorni di cristallo dell’inverno come una minaccia / che ricorda quel che non abbiamo tentato abbastanza / ma il gelo, quello sì, è dentro di noi fino alle ossa /  e lo sentiamo che morde le giunture e crepa le ossa / fino al midollo. /…. (da I frammento, Napoli 2007)

Correvamo con la neve in tasca per paura che svanisse / come un sogno appena sognato nel soprassalto ghiacciato / di un risveglio. …  (da XXII frammento, Napoli 2007)

Mi pare opportuno premettere che leggendo le prime poesie di questa breve silloge avevo ritratto un’impressione non certo favorevole, rilevando un andamento prosastico che ben poco ha a che fare con la poesia. Però, proseguendo nell’esame dell’opera e, soprattutto a una seconda rilettura più attenta e approfondita, mi sono reso conto che, se pur esiste in modo inequivocabile una tendenza alla prosa, tuttavia i versi, per come sono stati congegnati, riescono a costruire una struttura equilibrata, dotata di un certo ritmo e anche di armonia, tutti elementi che sono senz’altro tipici di una liricità, sia pure in chiave moderna, quindi più leggibile, anche per l’assenza di una metrica convenzionale e per una chiarezza di esposizione che ha il dono della quasi immediatezza.
E fra l’altro Filia, nel fornirci un’immagine di Napoli, la sua città, riesce anche, partendo quindi da un microcosmo, a pervenire a una visione più generale, più globale, con una nota pessimistica, velata comunque da una provvidenziale ironia.
Già il titolo, La neve, un fenomeno atmosferico del tutto inusuale per la città partenopea, assume un simbolismo fra l’assenza e il desiderio di una presenza, l’assenza vista come elemento fortemente negativo, quasi come una morte figurata, in contrapposizione a una presenza che è vitale, mobile, percettibile solo come auspicio. E del resto è presente il contrasto fra il candore della neve e il nero delle vie sporche, in un quadro di esistenze che si trascinano e cercano di restare attaccate alla vita, nonostante tutto.
Ne esce un ritratto di Napoli non conformista, una visione non certo da cartolina, né comunque di città fatiscente; c’è invece un dialogo muto inconsueto con i suoi abitanti, negli incontri per le strade, negli angoli delle piazze, con una descrizione di un’umanità che, benché il solo esistere sia una fatica, comunque vive, aggrappata forse a un’illusione, a una speranza di cambiamento che, anche se non ci sarà, è sempre meglio di una dirompente rassegnazione.
Filia sembra quasi ribaltare il famoso detto “vedi Napoli e poi muori” con un “vedi Napoli e poi vivi”, perché quel senso di provvisorietà proprio della neve lì è precarietà quotidiana, ma, a ben guardare, tutti siamo precari su questa terra, oggi ci siamo, domani no, e solo che comprendiamo che questa temporaneità non è una condanna, ma una risorsa, solo allora potremo capire come si possa vivere oltre ogni aspettativa.
Del resto, la morte non è altro che il prezzo che paghiamo per vivere e quando qualche cosa si paga, questa deve sfruttata il più possibile, soprattutto quando si tratta della vita, che è una sola e pertanto non deve essere sprecata.
Da leggere, senz’altro.

Francesco Filia, vive e insegna a Napoli, dov’è nato nel 1973. È stato vincitore della sezione inediti del premio Dario Bellezza (edizione 2001) e finalista di altri premi, tra cui il Città di Tortona, per l’opera prima, 2008. Sue poesie sono apparse su varie riviste blog e riviste on-line (La Clessidra, Capoverso, La Mosca di Milano, Poesia, Nazioneindiana, VDBD, Poiein, Poetrydream, Poetry Wave, Sagarana, Sinestesie, ecc.) e, tra le altre, nelle antologie Subway. Poeti italiani Underground (a cura di Davide Rondoni e con introduzione di Milo De Angelis, Net, 2006) e Il miele del silenzio (a cura di Giancarlo Pontiggia, Interlinea, 2009). Ha pubblicato il poema in frammenti Il margine di una città, con prefazione di Raffaele Piazza e dieci tavole di Pasquale Coppola (Il Laboratorio, 2008). Collabora con nellocchiodelpavone.blogspot.it
Renzo Montagnoli

 

23/11/2012

Se non ora, quando?
di Primo Levi

In copertina: Emmanuilovic Grabar, Neve di marzo, olio su tela, 1904, particolare. Mosca, Galleria Statale Tret’jakov
Edizioni Einaudi

Narrativa romanzo
Collana ET Scrittori

 

Mai lasciarsi sottomettere

Se non ora, quando?, pubblicato nel 1982, ebbe da subito un buon successo di pubblico, incontrando i favori della critica e riuscendo anche ad aggiudicarsi la vittoria in due importanti concorsi letterari (Il Viareggio e Il Campiello).
Quest’opera può definirsi il primo autentico romanzo di Primo Levi, perché, benché tragga origine da una storia in parte reale, ha tutte le caratteristiche di creatività che non sono presenti in Se questo è un uomo e nel suo naturale seguito La tregua, lavori questi frutto di un’esperienza diretta, il primo della sua reclusione nel lager di Auschwitz, il secondo del suo avventuroso e lungo viaggio di ritorno in Italia.
La narrazione contenuta nel libro è relativa a un periodo storico che va dal luglio del 1943 all’agosto del 1945 e prende spunto da un fatto reale, da una banda di partigiani russi e polacchi che combatterono nelle retrovie contro i nazisti, precedendo sempre l’avanzata dell’esercito sovietico. Al riguardo Levi precisa di aver tratto ispirazione nella creazione della vicenda e dei protagonisti da alcuni giovani ebrei sionisti, animati dal desiderio di andare in Palestina, aggregatisi al convoglio ferroviario predisposto dai russi che lo aveva riportato in Italia.
Il romanzo quindi tende a smentire la figura dell’ebreo succube e remissivo di fronte alla Shoah, e del resto indomito era stato l’autore nel breve periodo in cui aveva militato fra le file dei partigiani italiani.
Resta il fatto che in questo libro Levi dimostra una naturale propensione per l’avventura, un’inclinazione naturale che lo porta  a descrivere convincenti scene di battaglia, un lungo esodo lungo terre spesso desolate, si inventa amori occasionali, tradimenti, delusioni, anche esaltazioni, mette in bocca ai protagonisti ragionamenti a volte inconcludenti, altre volte di una cristallina e semplice logica. In alcune pagine sa essere perfino brutale, trascinando il lettore in un mondo di ansie e di orrori, in altre prende il sopravvento una vena poetica, a cui è piacevole lasciarsi andare.
Sa accarezzare, coccolare le sue creature, ma il suo atteggiamento è accompagnato sempre da un velo di pietà per le esperienze tragiche che le contraddistinguono, rivelando una maggior simpatia per l’orologiaio Mendel, in cui penso abbia avuto intenzione di identificarsi. Infatti, la solitudine di questo personaggio deriva da un futuro senza speranza, da una casa in cui non può più ritornare, perché non c’è più e dalla consapevolezza che l’età non consente di rifarsi una vita, ma tuttavia ad essa s’accompagna il rispetto e la venerazione per un gruppo di più giovani che sognano e fanno di tutto per tornare nella terra promessa, non più in fuga dal Faraone, ma dal loro stesso breve passato.
Sono pagine e pagine di continui episodi e avventure, scritte in modo lieve e accattivante, e quindi la lettura non può che risultare coinvolgente.
Una opportuna precisazione sul particolare titolo: è tratto dal Pirké Avoth (Le massime dei padri del II secolo d.C., una raccolta compresa nel Talmud, uno dei testi scari dell’ebraismo) ed é parte di una massima “ Se non sono io per me, chi sarà per me? E quand’anche io pensi a me, che cosa sono io? E se non ora, quando?” Come noterete è particolarmente significativa, è un invito a non lasciarsi ghettizzare, a operare, a non essere remissivi, una sorta di “Aiutati, che il ciel ti aiuta”. È un titolo, quindi, che a futura memoria - e questo vale non solo per gli ebrei - gli uomini non si lascino supinamente soggiogare, che lottino per la loro libertà, proprio come il gruppo di partigiani russi e polacchi protagonisti del romanzo.
Se non ora, quando?, pur non raggiungendo il livello di assoluta eccellenza di Se questo è un uomo e di La tregua, è tuttavia un’opera di qualità, interessante ed avvincente, senz’altro da leggere.  

Primo Levi (Torino 1919-1987).
Ha pubblicato: Se questo è un uomo; La tregua; Storie naturali; Vizio di forma; Il sistema periodico; La chiave a stella; La ricerca delle radici. Antologia personale; Lilìt e altri racconti; Se non ora, quando?; L'altrui mestiere; I sommersi e i salvati. Sempre da Einaudi sono usciti postumi i due volumi delle Opere; Conversazioni e interviste (1963-1987);L'ultimo Natale di guerra; L'asimmetria e la vita. Articoli e saggi 1955-1987;Tutti i racconti, sempre a cura di Marco Belpoliti.
Renzo Montagnoli

 

21/11/2012

L’amico d’infanzia di Maigret
di Georges Simenon

Traduzione di Marina Karam
In copertina: Robert Doisneau,
Galanteria urbana (1952)
© ROBERT DOISNEAU/RAPHO/CONTRASTO

Adelphi Edizioni
www.adelphi.it

Narrativa romanzo
Collana gli Adephi – Le inchieste di Maigret

 

L’amico bugiardo

A chi non è mai capitato di ritrovare dopo tanti anni di silenzio un amico d’infanzia? E’ quello che accade a Maigret in un mese di giugno dalle tiepide temperature. Se ne sta nel suo ufficio al Quai des Orfèvres a osservare una fastidiosa mosca che indifferente si pulisce le zampette su una pratica, quando entra Florentin, suo compagno di liceo, il bullo e il buffone della classe, bugiardo per natura e scansafatiche. Quello che gli racconta (si tratta di un delitto di cui sarebbe stato involontario testimone) ha ben poche parvenze di credibilità, ma il nostro commissario, pur consapevole, pensa che nelle parole dell’amico ci sia un fondo di verità e che comunque lui non sia l’assassino. Le indagini procedono un po’ a tentoni, anche perché la vittima, benché mantenuta da più uomini, aveva un comportamento, dal punto di vista giuridico, del tutto adamantino. E poi c’è chi sa ed è reticente, anche per poterci guadagnare, e questi è la portinaia dello stabile dove abitava l’uccisa, una donna più simile a una cariatide che a un essere femminile e che non trova di certo la simpatia di Maigret, atteggiamento peraltro platealmente ricambiato.
L’inchiesta si fa serrata, si arriva a sapere i nomi degli uomini che mantenevano la vittima e infine, in modo del tutto logico, il commissario potrà mettere le mani sull’omicida e assicurarlo alla giustizia.
L’amico d’infanzia di Maigret non è forse fra i migliori della fortunata serie, magari la trama è avvincente, ma Simenon è meno accorto nelle descrizioni dei personaggi, trascura un po’ l’ambientazione, benché torni a evidenziare, in modo qui più marcato, una sua caratteristica: l’avversione per i potenti, per quel loro modo di comportarsi come se a loro tutto fosse permesso; dimostra invece una certa disponibilità, per non definirla addirittura pietà, per i vinti, per chi dalla vita ha ritratto solo amarezze, come il suo amico Florentin. Beninteso, il termine amico è un po’ forte, perché si ne ha compassione, ma non sia mai detto che questa ravvivi un antico legame che in verità non c’è mai stato, quel legame, di altra natura, che Maigret ricorda avrebbe voluto avere con la sorella, con cui doveva esserci una reciproca simpatia, perché quando lui entrava nella pasticceria di famiglia, lei, da dietro il banco, arrossiva. Questa quasi confessione, esposta pudicamente, di  un’attrazione giovanile impreziosisce la narrazione, anche se si tratta di un paio di righe, perché in un uomo, già avanti con gli anni, felicemente sposato e che gode di una posizione invidiabile, il ricordo di una passione di gioventù è un tuffo al cuore, forse un rimpianto, è una mesta considerazione su un tempo andato e che mai più ritornerà.
Da leggere.

Georges Simenon, nato a Liegi nel 1903, morto a Losanna nel 1989, ha lasciato centonovantatre romanzi pubblicati sotto il suo nome e un numero imprecisato di romanzi e racconti pubblicati sotto pseudonimi, oltre a volumi di «dettature» e memorie. Il commissario Maigret è protagonista di 75 romanzi e 28 racconti, tutti pubblicati fra il 1931 e il 1972. Celebre in tutto il mondo, innanzitutto per le storie di Maigret, Simenon è anche, paradossalmente, un caso di «scrittore per scrittori». Da Henry Miller a Jean Pauhlan, da Faulkner a Cocteau, molti e disparati sono infatti gli autori che hanno riconosciuto in lui un maestro. Tra questi, André Gide: «Considero Simenon un grande romanziere, forse il più grande e il più autentico che la letteratura francese abbia oggi»; Walter Benjamin: «… leggo ogni nuovo romanzo di Simenon»; Louis-Ferdinand Céline: «Ci sono scrittori che ammiro moltissimo: il Simenon dei Pitard, per esempio, bisognerebbe parlarne tutti i giorni».
Le Centre d'études Georges Simenon et le Fonds Simenon de l'Université de Liège si trovano all'indirizzo: www.ulg.ac.be/libnet/simenon.htm.
Renzo Montagnoli

 

18/11/2012

Andrea Camilleri
Una voce di notte

Sellerio editore Palermo La memoria 2012

L’affezione per i libri di Camilleri e in maggior misura per quelli con Montalbano è rinnovata ad ogni uscita editoriale, è come un immancabile appuntamento al quale tutti gli appassionati non sanno rinunciare. Il legame creatosi tra l’autore e i suoi lettori è una dipendenza ormai basata sulla reciproca fedeltà, a  nulla può valere, a volte, la voce dissonante di certa  critica pelosa che cova una sotterranea invidia verso chi sfugge ad ogni catalogazione ed è nel cuore dei fedelissimi, a prescindere. Fatta questa premessa è quasi pleonastico parlare della trama  di Una voce di notte dove, come da codice deontologico di un giallo, in questo caso, è il  furto degli incassi di un supermercato, in odore di mafia, a far scatenare  dei delitti e le relative indagini del commissario Montalbano. Per inciso, questo romanzo è stato scritto, annota Camilleri, diversi anni fa. Le avvisaglie funeste dell’età che avanza in Montalbano, le sue ormai proverbiali liti con Livia, le sue reiterate ubbie…insomma il Montalbano d’annata è qui già scolpito e suggellato. Il nostro poliziotto, burbero e per certi versi teatrante, s’impantana in fantasiosi soliloqui, s’interroga sui  precipizi dell’età  in bilico tra come eravamo e come siamo: prenderne atto è un atto di coraggio e consapevolezza. Se la mente del commissario di Vigàta può perdersi in elucubrazioni senescenti e la sua intensa immaginazione confondersi in oniriche visioni, l’acume investigativo sorveglia le sue intuizioni e le sue mosse strategiche non sempre ortodosse. Il romanzo, tra virgolette, è l’ennesimo pretesto camilleriano per costruire una storia basata su connivenze malsane tra poteri contrapposti, politica e mafia, meno politici ci trasivano nella facenna e meglio era. Saribbiro stati capaci di vanificari tutto il travaglio fatto, ma con fini allineati. Le mistificazioni e il malaffare di chi dovrebbe far rispettate la legge, i superiori questori… che si muovono con ipocrita cautela, con i piedi di piombo per non calpestarne altri,  e demandano le personali  responsabilità: è l’eterno gioco perverso di chi vuole millantare una verità fasulla.  Il trittico operativo del commissariato di Vigàta  formato da Montalbano, Mimì e Fazio, senza dimenticare l’immarcescibile Catarella, è una riuscita e spesso acuta caratterizzazione di personaggi,  le battute di rimando d’interrogatori quando mai singolari, taluni colpi ad effetto del commissario, il ritmo narrativo lento raramente scosso da scene d’azione sono alcuni tratti distintivi della narrativa noir di Camilleri. Una voce nella notte sembra nel titolo una parodia della canzone napoletana Voce ’e notte, ma allude in modo truffaldino e istrionesco ad un escamotage del commissario per far cadere nella rete il sospetto assassino  iniettandogli il veleno corrosivo del ricatto. In questo romanzo le reminescenze letterarie o cinematografiche, i riferimenti ad atmosfere da thriller nel periodo del gangsterismo americano di memoria hollywoodiana intercalano il racconto. Come si sono espressi già altri lettori, i libri dello scrittore, siciliano doc, presentano un solo difetto, l’appagante lettura di ogni suo romanzo è inficiata dal pavor finis di esso, si vorrebbe ancora dilazionare le pagine per continuare questo ludico intermezzo letterario.

Autore. Andrea Camilleri (1925), è autore di oltre 70 romanzi tra storici, civili e polizieschi, e di diverse raccolte di racconti, tradotti in più di 30 lingue. Vincitore di numerosi premi in Italia e all’estero, è noto al grande pubblico anche per i romanzi dedicate alle inchieste del commissario Montalbano, da cui è stata tratta la fortunata serie televisiva. Tra i tanti titoli ricordiamo: “La forma dell’acqua”, “Il cane di terracotta”, “Il ladro di merendine”, “La voce del violino”, “La stagione della caccia”, “Il birraio di Preston”, “La concessione del telefono”, “La gita a Tindari”, “Maruzza Musumeci”, “Il casellante”, “Il campo del vasaio”, “L’età del dubbio”, “Un sabato, con gli amici” “Il sonaglio” “ La caccia al tesoro”… “Il sorriso di Angelica” “Il gioco degli specchi”… Tra le storie civili e storiche, pubblicate da Sellerio, ricordiamo: “Il nipote del Negus”, “Gran Circo Taddei”, “La setta degli angeli”…
Arcangela Cammalleri


 

La tregua
di Primo Levi
Postfazione di Ernesto Ferrero
In copertina: foto Jake Wyman/Photonica

Edizioni Einaudi
Narrativa
Collana ET Scrittori

Ritorno alla vita

Raramente é capitato di imbattermi in un libro come questo, così avvincente e così facile da leggere, nonostante l’intensità e la complessità del tema trattato.
La tregua è il naturale seguito di Se questo è un uomo,  racconto autobiografico in cui Levi narra della devastante esperienza della reclusione nel lager di Auschwitz, scritto quasi nell’immediato, poco dopo il suo ritorno nella casa Natale di Torino e che già lo aveva segnalato alla critica e in particolare a Italo Calvino che giunse a riconoscere in alcune pagine “una vera potenza narrativa”.  Se questo è un uomo termina con l’arrivo delle truppe sovietiche nel campo di concentramento, là dove inizia La tregua, una descrizione, pure autobiografica, del lungo e tortuoso viaggio di ritorno, quasi un pellegrinaggio durato diversi mesi, attraverso un’Europa distrutta dalla guerra, devastata dalla furia inconsulta degli uomini, una piccola Odissea in cui il nostro novello Ulisse, cioè l’autore, reimpara a vivere.
L’esperienza del lager lo aveva ucciso dentro, con un annichilimento totale in cui il corpo pareva esistere disgiunto da una vera volontà, cancellata, sradicata, una sorta di vita vegetativa in cui nonostante tutto lui cercava di scampare alla morte, a differenza di altri che quasi ormai la cercavano.
Questo viaggio, determinato dal caso, dall’inevitabile disorganizzazione degli ultimi giorni di guerra e dei successivi primi di pace, diventa provvidenziale, evita lo choc di un reinserimento troppo rapido nella vita normale e conduce a una progressiva coscienza del proprio stato di uomo libero.
Ripristinate le forze fisiche, c’è così il tempo per ammortizzare quel lacerante dolore interiore, forte, insopportabile nei primi giorni di libertà, e che con il passare del tempo cala d’intensità, pur senza mai sparire del tutto.
Il viaggio è quello di un’umanità violata, di poveri esseri frastornati dall’analoga esperienza e perciò fratelli loro malgrado.
Sono tanti i personaggi, vari e finemente descritti, per cui è anche possibile considerare La tregua un romanzo corale, in cui ognuno porta i segni della sua sventura e il contributo per la rinascita. Talune vicende raccontate possono sembrare picaresche, ma sono il frutto di una certa incoscienza più che giustificabile in individui che cercano di riappropriarsi dell’esistenza, e come tutti i rinati hanno anche il candore dei bambini, la loro simpatia, le loro bizze.
Questi compagni di odissea sono gli abitanti dei paesi attraversati, i soldati dell’Armata Rossa, ma soprattutto alcuni che sono rimasti indelebili nel ricordo dell’autore: il greco Nahum e il romano Cesare, maestri nell’arte di arrangiarsi, Hurbineck, il bambino nato ad Auschwitz “che non aveva mai visto un albero”, il Moro di Venezia, gran bestemmiatore che sembra uscito dall’Apocalisse, e tanti altri, che appaiono e scompaiono nel volgere di poche righe, lasciando però il segno chiaro, marcato della loro personalità.
La coralità si trova anche nelle pagine in cui si parla del rimpatrio, a guerra finita, dei soldati vincitori dell’Armata Rossa, una moltitudine eterogenea che pare uscita dal tendone di un circo equestre, tanti pagliacci senza ciliegia sul naso, in preda a un’euforica gioia, con una incredibile e contagiosa vitalità.
Lungo questo viaggio s’incontra di tutto, come binari interrotti, campi di smistamento più o meno organizzati, panorami costituiti da piatte pianure, a tratti interrotte da vere e proprie foreste, e Levi ce ne parla, descrive, ricrea atmosfere, si abbandona, una volta lenita buona parte della sofferenza derivante dall’esperienza del lager, a un sentimento che è proprio di ogni essere umano e che fu anche di Ulisse: la nostalgia. Ritorna il ricordo della propria casa, dei familiari, cresce, prepotente, il desiderio di essere con loro: la tregua è finita, si è ormai tornati alla vita.
Il libro, scritto fra il 1961 e il 1962, beneficia indubbiamente di un lungo periodo in cui l’autore ha potuto essere finalmente fuori dall’incubo del lager e infatti la narrazione ha dei notevoli benefici, non è ansiosa, né, soprattutto, angosciante, pur se la memoria della prigionia non viene mai meno. Questo consente di stemperare i toni, di arrivare in alcune pagine a vertici sublimi, cosa che il lettore non potrà che apprezzare, con un solo dispiacere, quello di arrivare troppo velocemente alla fine.
La tregua è un libro bellissimo, da leggere e rileggere più volte, e che sempre lascia un’intensa sensazione di serenità.

Primo Levi (Torino 1919-1987).
Ha pubblicato: Se questo è un uomo; La tregua; Storie naturali; Vizio di forma; Il sistema periodico; La chiave a stella; La ricerca delle radici. Antologia personale; Lilìt e altri racconti; Se non ora, quando?; L'altrui mestiere; I sommersi e i salvati. Sempre da Einaudi sono usciti postumi i due volumi delle Opere; Conversazioni e interviste (1963-1987);L'ultimo Natale di guerra; L'asimmetria e la vita. Articoli e saggi 1955-1987;Tutti i racconti, sempre a cura di Marco Belpoliti.
Renzo Montagnoli

 

14/11/2012

Letteratitudine, il libro – vol. II
a cura di Massimo Maugeri

Historica Edizioni
www.historicaedizioni.com
Saggistica

 

Quando il blog si fa libro

L’idea originale si rinnova e così dopo circa tre anni da Letteratitudine il libro è da poco uscito Letteratitudine il libro – vol. II, questa volta con un editore diverso, Historica, che fa capo al giovane Francesco Giubilei. Così che un blog possa diventare un libro è un dato ormai assodato, soprattutto dopo il fortunato esito del primo e se poi, forte dell’esperienza acquisita, Massimo Maugeri riesce a presentare il meglio dei temi impostati e svolti nel periodo 2008 – 2011, l’interesse non può che crescere.
L’unico autentico pericolo sarebbe stato di saltare di palo in frasca, cioè riportare argomenti del tutto disomogenei, ma è stato abilmente evitato con un’impostazione razionale che suddivide l’opera in tre parti. La prima è dedicata a tre scrittori siciliani da ricordare (Leonardo Sciascia, Giuseppe Bonaviri, Sebastiano Addamo), la seconda riporta discussioni su libri (La malattia chiamata uomo, di Ferdinando Camon e La ragazza di via Maqueda, di Dacia Maraini, solo per ricordarne alcuni), la terza è occupata da altri dibattiti, soprattutto quello sul romanzo storico.  In totale ne esce un volume corposo (sono ben 510 pagine) grazie ai contributi dei diversi intervenuti e se in qualche caso si tratta di opinioni, peraltro anche più che pertinenti, di semplici appassionati di letteratura, in altri invece sono dissertazioni valide di specialisti del settore, fra i quali, a memoria, figurano  Vicente Gonzalez Martin, direttore del dipartimento di filologia dell’Università di Salamanca e Sarah Zappulla Muscarà, docente di letteratura italiana presso l’Università di Catania. Non mancano poi vere e proprie rarità, fra le quali l’intervista effettuata nel 2005 da Subhaga Gaetano Failla e Valeria Failla a Giuseppe Bonaviri , nonché quella di Massimiliano Perrotta allo stesso Bonaviri, interviste che, anche per le domande poste, sono di estremo interesse per meglio conoscere la vis letteraria del grande scrittore di Mineo.
Altro articolo di grande richiamo è il dibattito sul romanzo storico che registra gli interventi di non pochi autori specializzati in questo genere, fra i quali Rita Charbonnier, Filippo Tuena, Marco Salvador, Giorgia Lepore e Andrea Frediani;
questo post, con commenti piuttosto vivaci e approfondimenti vari, è risultato uno dei più seguiti, a riprova che questo genere sta rapidamente prendendo piede anche nel nostro paese.  
A dilungarmi ulteriormente, a voler evidenziare questo o quel tema, per non parlare poi dei numerosissimi e qualificati interventi, correrei il rischio di andare ben al di là di ogni limite di spazio proprio di una recensione, senza dimenticare che un’eventuale sintesi finirebbe con lo svilire i concetti, invece di tutto rilievo.
Necessariamente, pertanto, mi devo fermare, anche se c’è la voglia di andare oltre, ma credo che sia molto meglio di qualsiasi giudizio critico la lettura di questo libro, piacevole e nel corso della quale ci si accorge quanto la stessa risulti veramente utile.

Massimo Maugeri, scrittore siciliano, collabora con le pagine culturali di magazine e quotidiani. Ha pubblicato: il romanzo “Identità distorte” (Prova d'Autore, 2005, Premio Martoglio); il volume "Letteratitudine, il libro - vol. I - 2006-2008" (Azimut, 2008); il racconto lungo “La coda di pesce che inseguiva l’amore” (Sampognaro & Pupi, 2010 - Premio “Più a Sud di Tunisi”), scritto a quattro mani con Simona Lo Iacono; il saggio/reportage “L’e-book è (è?) il futuro del libro” (Historica, 2011); la raccolta di racconti “Viaggio all’alba del millennio” (Perdisa Pop, 2011 – Premio Internazionale Sebastiano Addamo). Ha inoltre curato la raccolta di racconti NO PROFIT “Roma per le strade” (Azimut, 2009), partecipando con un proprio racconto e coinvolgendo nel progetto molti tra i principali scrittori nati o residenti a Roma.
Ha ideato e gestisce:
Letteratitudine (www.letteratitudine.blog.kataweb.it)
blog letterario d'autore del Gruppo L'Espresso.
Su Radio Hinterland cura e conduce “Letteratitudine in Fm”: trasmissione culturale di libri e letteratura
Renzo Montagnoli

 

11/11/2012

Codice interiore
di Maria Teresa Santalucia Scibona

Introduzione di Mons. Antonio Riboldi
Prefazione di Alessandro Fo
Copertina di Paola Imposimato

Edizioni Cantagalli
www.edizionicantagalli.com
Poesia
 

La fede in versi

La poesia religiosa, tipica del cristianesimo, è un genere che ha lontane origini, tanto che si può dire con certezza che nasca con il Cantico delle creature di Francesco d’Assisi (1182 – 1226) e che poi tragga nuova linfa con il Laudario di Jacopone da Todi (1233 – 1306). Altre epoche, si potrà obiettare, ma se ha un senso ben preciso nella storia della religione cristiana il fatto che sia esistito un monaco come San Francesco che, predicando la povertà,  intendeva richiamare la Chiesa ai valori fondanti della stessa, successivamente chi scrive di poesia religiosa lo fa  quasi sempre non per protesta o monito, ma per provare che la fede, quando forte e sincera, trova ampi sbocchi nell’arte, senza con questo pervenire a discussioni teologiche, ma unicamente volta alla gloria di Dio. E non è che il genere escluda gli altri, tant’è che ebbero a scrivere composizioni religiose anche poeti come Giuseppe Ungaretti, Salvatore Quasimodo, Umberto Saba, Mario Luzi e altri contemporanei di eccellente livello che qui per brevità tralascio di elencare.
Perché questa mia introduzione, questo cappello che può anche far sorridere? La risposta è nel fatto che per i motivi più diversi anche autori assai meno noti, e includo fra questi pure il sottoscritto, hanno scritto e scrivono, sia pure occasionalmente, poesie di carattere religioso, perché il discorso con il trascendente non è e non può essere solo rigorosamente intimo, e la religione, se anche è una convinzione individuale, diventa pur sempre un fatto sociale, così che il proselitismo assume le caratteristiche di una partecipazione volta a un rafforzamento collettivo del nostro credo.
In una poetessa quanto mai versatile come Maria Teresa Santalucia Scibona, che fra l’altro nelle sue sofferenze fisiche trova motivo per rinsaldare la sua fede, non potevano quindi mancare liriche religiose e la prova si trova in questa silloge da poco uscita per i tipi dell’editore Cantagalli di Siena.
Già il titolo, Codice interiore, evoca immagini di antichi amanuensi intenti nelle celle dei monasteri a trascrivere i quattro Vangeli, il che richiama il profumo sublimante di una fede astratta dalla realtà contingente, ma Codice interiore può significare anche un’indelebile norma, frutto di convinzioni, che guida la vita e che perfino in forza della fede ne accetta il suo corso come una prova dell’esistenza di un’entità suprema che lo determina, fra gioie e dolori, fra silenzi e rumori. Non è però rassegnazione al proprio destino, non è accettazione delle proprie sofferenze come un ordine a cui non è possibile opporsi, anzi dalle stesse, da quel dolore si trae la forza per vivere perché sono la prova che nulla è lasciato al caso e che in un disegno superiore esse sono al contempo stimolo e attenzione di un Dio non bizzoso, non con la barba, ma che più ama questi suoi figli meno fortunati.
E allora perché non cantare la gloria del Signore?
….

E negli incerti passi che tentiamo
sei come un padre che gioca
e si nasconde al figlioletto
che mal si regge in piedi. 
……..
……..
 
Illumina Signore
un raggio siderale che indichi
la via del Paradiso perduto.

Le poesie contenute in questa silloge riflettono inequivocabilmente una fede superiore a ogni dogma; non si tratta di credere sussistendo il dubbio, ma nel dubbio di credere, perché se non fosse così nulla sarebbe e nulla saremmo.
Certo che per leggere e apprezzare questi versi è necessario, anzi indispensabile non essere degli agnostici, perché perfino un ateo, nella negazione, che è pure fede all’incontrario, potrà illuminarsi di parole e di concetti che sono di una vitale spiritualità, un’aspirazione all’Assoluto che non può lasciare indifferenti.
E non si tratta di teologia, quella è altra cosa, qui più semplicemente, ma anche più solennemente è una sublimazione della propria anima.
Leggete Codice interiore: sarà un’esperienza unica e indimenticabile.

M. TERESA SANTALUCIA SCIBONA, è nata e vive a Siena, già Presidente Provinciale della FENALC (Federazione Nazionale Liberi Circoli),è Presidente per Siena del MOPOEITA ( Movimento per la diffusione della Poesia in Italia). La Biblioteca Universitaria senese della Facoltà di Lettere e Filosofia, ha istituito un Fondo Letterario a suo nome.(Seduta 27/4/2005).

Il 15 Agosto 2000, dal Concistoro del Mangia, è stata insignita di medaglia d’oro di civica riconoscenza, per alti meriti culturali. Il 17 Ottobre 2009, è stata insignita del Premio “ Idilio Dell’Era, “alla Carriera dal Comitato Associativo “ Idilio Dell’Era”. E’ Socia effettiva del P.E.N. Club Italiano, del Sindacato Liberi Scrittori Italiani, della Fondazione Letteraria “ Luciano Bianciardi “di Grosseto, del Centro di Documentazione sulla Poesia contemporanea “ Lorenzo Montano” di Verona. Fa parte del Consiglio “Cateriniani nel Mondo” per la Letteratura, con diritto al voto. Per oltre un decennio ha curato le serate letterarie del “Salotto della Cultura e del Vino” della Enoteca Italiana di Siena. Come giornalista ha seguito per 17 anni, le sorti del “Premio Letterario Viareggio – Rèpaci

Ha pubblicato i seguenti libri di Poesia:-

IL MIO TERRENO LIMITE” 1984 Ed. La Nuova Fortezza (Li), a cura di Miriana Bogi

I GIORNI DEL DESIDERIO” 1988 Piovan Ed. Abano Terme, a cura di Gabriella Sobrino

IL TEMPO SOSPESO” 1993 Edizioni del Leone (Ve), prefazione di Giorgio Luti.

MOSE’ ” 1996 Edizioni dell’Oleandro (Roma), prefazione di Angelo Lippo.

VARIANTI D’AMORE” Suppl.to n. 35 (gennaio-marzo 1988) Rivista “Portofranco” (Ta)

IL VIAGGIO VERTICALE” 2001, I Quaderni della Valle N. 27 Edizioni di Emilio Coco.

LE TEMPS SUSPENDU ET LA VIE ASSISE” 2002 Prospettiva Editrice a cura di Giorgio Luti, postfazione di Walter Nesti, traduzione di Ben Felix Pino.

L’AMORE IMPERFETTO” 2003 Helicon Edizioni - Arezzo, a cura di Neuro Bonifazi

LA CONTESA DEI VINI” 2005 Pascal Editrice (Siena), a cura di Vinicio Serino.

IL SOGNO DEL CAVALLO “ 2008 Pascal Editrice (Siena) a cura di Mario Comporti e Fausto Tanzarella

NUTRIMENTI PER L’ANIMA” 2009 Joker Editore a cura di Sandro Montalto

VERSI E CROMIE” Solodieci Poesie 2009 Lieto Colle Editore

L’INCONTRO DI DUE VITE EPISTOLARIO DI MARIO VERDONE” 2010 Sampognaro&Pupi Edizioni a cura di Vinicio Serino.

Audio CD POESIE SCELTE (2005), disco recitato dall’attrice Paola Lambardi

CD “MISCELLANEA POETICA”(2007) recitano, gli attori Walter Maesosi, Daniela Barra, al piano M°.Giovanni Monti. Edizioni Le Carrozze Records di Vanni Vincenzo- Siena

Il suo testo di Lauda “ Accanto a Te Signore”, è stato musicato dal M° Gian Paolo Luppi, tradotto in tedesco e pubblicato dalle dalle Edizioni Musicali Peters di Francoforte.

Alle sue opere si sono ispirati i pittori Giuseppe Amadio, Angelo Battista, Angela Carli, Ida Negrini, Paola Imposimato, Enzo Santini, Anna Sticco, gli scultori Michele Donadoni e Andrea Roggi.

La recitazione del poemetto in versi “MOSE’ con gli attori Paola Lambardi, Guido Bocci, Erminio Jacona , è alla sua tredicesima replica

E’ inserita in numerose Antologie di autori contemporanei come :- “ Greta Garbo e Sergio Vacchi nel Palazzo del Ridotto di Cesena” – Catalogo del Novembre 2003 - Fondazione Vacchi - Castello di Grotti – Ville di Corsano- Siena

“ La Donna e gli Amori” a cura di Gabriella Sobrino e Antonietta Garzia (giugno 2001) – Introduzione di Paolo Crepet - Loggia de’ Lanzi Editori -Firenze

“ C come Cuore” saggio di Gabriele La Porta ( Ottobre2003) Pratiche Editrice Mondadori

“P come Passioni – Dizionario delle emozioni e dell’estasi” a cura di Gabriele La Porta (Ottobre 2005) Marco Tropea Editore – Mondadori Printing S.p.A – Milano

EDIZIONI SCETTRO DEL RE - ROMA“ Appunti Critici” La poesia Italiana del tardo Novecento tra conformismi e nuove proposte “- saggio a cura di Giorgio Linguaglossa - (Dicembre 2002)- “ Poeti Italiani Verso il Nuovo Millennio”- saggio a cura di Dante Mafia ( Dicembre. 2000)

- E’ inclusa nel Dizionario Autori e nella Letteratura Italiana del Secondo Novecento -Edizioni Bastogi (Foggia), Helicon (Ar), Guido Miano (Mi).

Sulla sua poetica Pina Frascino Panussis ha scritto :- “Saggi e interventi” (1995) -Edizioni. Pisangrafica - Pisa ; “ LE OCCASIONI DEL PENSIERO ” (1997) Masso delle Fate Edizioni - Signa, con interventi critici di Sandro Briosi, Guido. Cecchi, Gaetano Chiappini, Marcello Fabbri, Giorgio Luti, Carmelo Mezzasalma, Walter Nesti, Vinicio Serino, Gabriella Sobrino e testimonianze di Oreste Macrì, Giuliano. Manacorda, Giorgio Saviane, Ferruccio Ulivi,Vittorio Vettori ed altri noti scrittori.
Renzo Montagnoli

 

10/11/2012

AMARITUDINI

di SILVANO CONTI

Amarezza e inquietudine, due stati d’animo che accompagnano l’intima, silenziosa riflessione del poeta sulla vita e che vengono qui fusi in un efficace neologismo, Amaritudini.
Silvano Conti come Fernando Antonio Nogueira, alias Pessoa, dunque?
Forse non del tutto, ma è comunque a questo poeta portoghese che immediatamente rimanda l’originale titolo di questa silloge e, oltre che ad alcune sue poesie, in particolare al suo testo Il libro dell’inquietudine, (ed. Newton), dove l’autore dà uno spaccato lucido di questo sentimento vissuto dal suo “alter ego” Bernardo Soares, il fragile e silenzioso uomo che “abita la vita nei suoi toni più grigi, la osserva, la comprende, la subisce, eppure l’ama come un vizio, come una passione a cui non ci si può sottrarre, alla ricerca di un equilibrio perduto che, suo malgrado, non troverà”.

Si potrebbe credere che delle affinità ci siano tra il Conti e il Pessoa, e basterebbe confrontare alcune poesie per verificarlo, ma nel nostro manca (ben opportunamente, direi) quella tragicità che fa essere Pessoa il poeta che conosciamo.
Silvano Conti ha trovato un modo originale per scuotere di dosso l’inquietudine e ne fa un generoso gesto di condivisione con i lettori: il suo talismano, come egli stesso lo considera, è l’immergersi nel mondo fantastico della poesia, far risaltare attraverso le parole poetiche tutto il disagio esistenziale che vorrebbe minare la sua tranquilla vita, ma solo per guardarlo dritto in faccia e farsene quasi beffe. Infatti, nel momento stesso in cui l’amarezza delle condizioni vissute e analizzate fuoriesce e si trasforma in versi, l’inquietudine si attenua per lasciare il posto alla soddisfazione di essere riuscito a comprendere cos’era che opprimeva il suo animo e per aver portato alla luce la futilità delle ragioni sottostanti. In tal modo, ogni cosa riprende la sua giusta dimensione, il suo giusto peso, il poeta può continuare a osservare altri aspetti della realtà e dei suoi rapporti con essa, analizzarli e scardinarne il senso, farne poesia e così, in crescendo e in continuità, alternando momenti negativi e visioni positive, superare, anche se solo momentaneamente, il disagio, apprendendo però nel contempo una modalità efficace di rapportarsi ai propri sentimenti negativi perché non prendano il sopravvento.

Per tornare al confronto esemplificativo di cui dicevo più sopra, riporto questi versi della poesia Quel che mi duole, di Pessoa: Quel che mi duole non è / ciò che è nel cuore / ma quelle cose belle / che mai esisteranno… // Sono le forme senza forma / che passano senza che il dolore / le possa conoscere / o sognarle l’amore // Sono come se la tristezza / fosse albero e, una a una, / cadessero le sue foglie / tra il vestigio e la bruma.
Come si può notare, qui prevale una sorta di “nostalgia del futuro” per tutte quelle cose belle che si vorrebbero vedere realizzate, ma che probabilmente non accadranno mai; il pessimismo del poeta è altrettanto evidente nel finale, nell’immagine della tristezza che perde tutte le sue speranze, come albero che perde le sue foglie.
Si potrebbe ben dire che Pessoa è pessimista a prescindere, lo è per ragioni così profonde che quando non trova motivo nella realtà concreta per esserlo, lo cerca e lo trova in ciò che non c’è, nell’inesistenza delle cose che potrebbero essere e non sono.

Ora, in parallelo, riporto i versi della poesia … Conferenze, di Conti:
…E nuoto dentro silenzi rotondi / profanati dal linguaggio / travolti / : sospiri sogni palpiti esistenza / ed altro ancora nuovo altro eccetera… // li avvolgo tosto / di nuovi canti / muti.
Come è ben evidente, qui c’è un incipit bello, che dà già la misura di un estro felice del poeta, (nuoto dentro silenzi rotondi) come se si trovasse beatamente avvolto dal liquido amniotico, seguito poi da una forma, pur blanda, di tristezza che sopraggiunge insieme all’elemento disturbante del linguaggio, tristezza segnalata dai due termini “profanati” - “travolti”, ma subito dopo il poeta riprende ancora in mano la situazione e intona “nuovi canti muti”, quindi recupera il suo tratto positivo di uomo che non soccombe facilmente di fronte ai dispettosi “tic” della vita.

In un’altra poesia del Conti c’è invece una maggiore aderenza al vissuto pessimistico pessoano:
Nel nostro inquieto vivere / al massimo è la noia /a consolarci il pianto;
così come in quest’altra:
In ogni attimo / della tua assenza / muoio ad oltranza. // Lacrime che / non scendono. // A inumidirmi / è la fotografia / del tuo respiro. // Inutile variante / anche il dolore.

Ma in questa silloge, la “poetica contiana” è più in generale orientata verso un superamento del pessimismo, ribaltandolo negli aspetti positivi dell’istruttività che contiene: se ne può infatti far tesoro per essere aiutati a comprendere quanto ci accade.
Questa peculiarità non si rileva necessariamente dal significato esplicito delle parole che, anzi, a volte fanno propendere per una visione negativa dei fatti della vita, bensì si coglie dall’uso originale dei termini che per la loro assonanza o per i giochi di parole in cui sono intricati, permettono di non prendere troppo sul serio la negatività riscontrata dal poeta e mostrataci esplicitamente.

Anche la compressione dei sentimenti in pochi tratti, in poesie tanto brevi da sembrare dei veri e propri aforismi, diventa un talismano (per usare un termine caro al poeta) che ci apre gli occhi di fronte alle difficoltà, insegnandoci a venirne fuori con le nostre stesse risorse e riserve psicologiche che mai possono dirsi esaurite.

Trattandosi di una silloge breve, di sole 28 poesie, non sembra opportuno aggiungere altro, per non rischiare di togliere ai lettori il piacere di scoprire da sé altre caratteristiche insite nei versi del Conti. L’avvertenza è però quella di approcciarsi alla lettura di queste poesie con animo sereno, perché il rimando che se ne ottiene è comunque positivo e Pessoa può rimanere solo sullo sfondo.

 M. Carmen Lama

 

Ali di vento

di Silvano Conti

PREFAZIONE

Poeta ormai affermato, Silvano Conti ha pubblicato diverse sillogi, ciascuna con una sua intrinseca particolarità poetica. La presente raccolta, Ali di vento, è una ulteriore conferma della sua notevole capacità espressiva in versi.
Ciò che maggiormente risalta alla prima lettura è l’eleganza di ogni poesia, l’essenzialità dei termini utilizzati e il loro forte impatto mentale. Sembra proprio che ogni parola sia stata abilmente soppesata come col bilancino dell’orefice, sia stata distillata come l’essenza di un liquore, sia stata proiettata fuori come il leggero scoppio di una bolla d’aria, che si rifrange nell’aria in un caleidoscopio di colori vivaci che lasciano negli occhi e nel cuore una sottile e dolce sensazione di leggerezza.
Lo stile asciutto, sintetico, mai ridondante, fa di ogni poesia una sorta di piccola perla di saggezza. La brevità conferisce inoltre una caratteristica particolare: la condensazione di concetti profondi che pare emergano dal fondo dell’anima del poeta e sono portati in superficie per esplodere sotto gli occhi del lettore.
Basterebbe già soltanto questa singolare sensazione offerta dal poeta per affermare il valore oggettivo di questa nuova silloge.
Ma, ovviamente, c’è dell’altro, c’è di più. Analizzando le singole poesie dal punto di vista soggettivo, ponendosi, per così dire, nel vissuto emozionale del poeta, si scorgono sentimenti di nostalgia per un tempo passato ricco di esperienze significative, a cominciare da quelle affettive (amore, amicizia…), per passare a quelle sociali e professionali, e per andare infine a quelle più intime e personali riferite al proprio stesso pensiero e alle proprie riflessioni sulla vita.
Questa nostalgia coagulata nel pensiero poetico trova una sua liberazione trasfigurata in versi quali “ridisegno a memoria / nei fogli bianchi di tempo / la nostra storia..” o “Amore / è pane amaro / in salsa / di sbadiglio”, o ancora  “rabbrividi / di tenero canto / d’antichi amori”.
L’affettività vissuta in modo soddisfacente porta il poeta a un lavorio tenace, come di scavo interiore, per mezzo del quale riesce a recuperare dal fondo dell’anima “mezze verità”, e “più di mille parole / sottaciute”, e “taciute speranze”, per rivivere nel ricordo quel tempo passato che colma l’anima di malinconica solitudine e di desiderio.
Ma il poeta è consapevole che il tempo passato rivissuto fantasticamente è un’illusione, nondimeno impegna il suo pensiero in inaspettate e insospettabili acrobazie, per ritrovare almeno quella “libertà sopravvissuta e recidiva al sogno” e riportarla viva e vera all’interno “d’un palpito segreto”, liberandola così dalla sua prigione e librandola sulle ali del vento insieme con il suo stesso pensiero e col suo palpito vitale.
Ecco che il sogno, in qualche modo, risuscita quel passato e lo fa rivivere come se fosse realtà presente. Ed è senz’altro realtà per il poeta.

Sono presenti anche delle poesie dedicate, che mettono in risalto il valore dell’amicizia virtuale, consona ai tempi tecnologici in cui viviamo. In esse, in contrasto con la lontananza fisica tra il poeta e le sue interlocutrici è palpabile la vicinanza metafisica, ed è come se il poeta attingesse nuova linfa poetica da queste donne che insieme a lui ruotano nell’universo magico della poesia.

Nelle poesie a carattere sociale, è ancora il ricordo a portare alla luce esperienze di protagonismo, di partecipazione, ma anche di speranze di miglior futuro. Ma il poeta smorza, anche in queste memorie fatte tornare alla ribalta, quella venatura malinconica che le riveste, evadendone con suo stesso stupore, come nella poesia “Sosta tecnica”, dove sostituisce la noia con la sua “lei” che ritrova “racchiusa in una perla di sudore”.

La raccolta si chiude con una poesia straordinariamente bella, una sorta di autoanalisi, in cui il poeta si sente come straniato, fuggitivo da se stesso, inseguito da tutti gli angoli del vuoto, che lo obbligano ad essere come è.
Non vorrei apparire esagerata, ma ritengo che con questa nuova silloge Silvano Conti abbia raggiunto un elevato livello poetico poiché la gradevolezza di ogni componimento, la raffinatezza dello stile, la sonorità espressiva ne fanno una sorta di apoteosi della poesia.
M. Carmen Lama

 

Alter Ego

di Silvano Conti

Nel breve intervallo dell’esistenza, ciascuno di noi assume delle caratteristiche comportamentali proprie trasmesse inizialmente dall’ambiente familiare, ma assorbite anche dal contesto  sociale a partire dall’infanzia e, in modi inconsci, anche nell’età adulta, quando si crede di essere invulnerabili, di avere delle opinioni personali o delle idee da difendere e sostenere.
In realtà, siamo immersi in una miriade di relazioni che ci sottopongono a specifiche reazioni, spesso diverse a seconda dell’interlocutore, anche su fatti o argomenti identici.
Eppure ogni individuo si riconosce come se fosse dotato di una specifica identità, che gli appartiene e lo fa essere quale è.
Noi stessi teniamo a distinguerci dagli altri per la nostra specifica personalità che a volte identifichiamo quasi con l’ambiente di vita e crediamo di essere come siamo per aver introiettato i più minuti dettagli del nostro ambiente anche naturale, oltre che sociale; pensiamo di essere un po’ anche i luoghi da dove veniamo, i luoghi che amiamo, quelli da cui abbiamo ricevuto una sorta di imprinting.
Dal punto di vista psicologico, appare rassicurante sostenere che si ha (si è) una precisa identità. È come se si fosse attrezzati per sostenere le sfide più impegnative e difficili della vita.
E invece, bisognerebbe ricordare la lezione di Henri Louis Bergson: In ogni istante della nostra vita noi siamo diversi, ci cambiano le coordinate spazio temporali, in funzione della resistenza della vita sulla morte. Per questo continuiamo ad evolvere, fino al raggiungimento di una maturità tragica”.

In questa interessante silloge, Alter Ego, Silvano Conti pare proprio aver bene in mente la lezione bergsoniana e ci presenta, ogni volta con una poesia diversa, la sua pluri-identità, i suoi molteplici “io” che egli stesso si sorprende di ritrovare dentro di sé.
Il suo è un bell’esercizio di introspezione, condotto con cura ma anche con cautela, per timore di trovarsi troppo differente dall’idea più solida e positiva che ha di sé.
Ma la particolarità di questa ricerca minuziosa e puntigliosa consiste, anche, nella possibilità di estendere, almeno in parte, il richiamo di alcune poesie all’esperienza comune, di modo che il lettore si trova inglobato nei versi come se gli appartenessero, come se il poeta stesse parlando non di se stesso, bensì di un’esperienza che riveste una caratteristica di universalità a cui ogni lettore è autorizzato ad accedere.
L’uscire da sé del poeta per osservare le sue molte sfaccettature, dunque, ha il doppio significato di ritrovare altri se stesso, ma anche altri individui accomunati dalle stesse caratteristiche.
Per chi legge, questa è un’esperienza molto significativa, in quanto trova un riscontro riguardo ai propri modi d’essere senza aver faticato a cercarlo, poiché il lavoro di scandaglio fine dentro l’animo umano lo ha già fatto con professionalità il poeta, portando in superficie e rendendo visibile quel che solitamente ignoriamo o non vogliamo vedere.

Ed ecco allora alcune delle poesie più interessanti perché a loro modo istruttive:
Sliding doors, è una constatazione di come si possa essere soli pur in mezzo a una folla; le occasioni di incontro autentico sono solo degli istanti nel tempo breve della nostra vita;
La nostra danza, in cui il poeta descrive gli alti e bassi di una relazione di coppia, e avverte che la razionalità (la geometria) uccide l’anima, l’intuizione/l’istinto (l’urlo) la strazia, la fa soffrire; così il disamore sopravviene ad uccidere l’amore;
Sulla scacchiera, dove il poeta assume di volta in volta le sembianze dei personaggi del gioco degli scacchi, per scoprire alla fine che è il destino ad agire sulla scacchiera della vita; noi siamo sempre in allerta, ma le nostre decisioni sono sempre in qualche modo condizionate.

O le poesie che, ironizzando un po’, sdrammatizzano una situazione poco piacevole per il poeta:
Prova d’assenza, è un dialogare del poeta con se stesso senza che riesca a comprendersi, così decide: “La prossima volta mi farò un fax”!...
…. Alibi, in cui il poeta cerca di giustificare le proprie condotte cercando “alibi”, appunto, e quasi riesce a perdonarsi, ma improvvisamente sopravviene uno scatto d’orgoglio che gli fa prendere le distanze da se stesso.
Anagrammi, in cui il poeta, anagrammando il proprio nome e cognome, si vede essere “l’invaso cinto” di rovi / da rose e spine / punto … pure se alla fine ritrova se stesso, il vero silvano conti, a fargli da scorta: bella immagine davvero, efficacissima nella sua sinteticità, per descrivere una sensazione dolorosa ritrovando tuttavia al proprio interno la forza di reagire.

O ancora, le poesie un po’ scomode, che mettono a nudo le fragilità dell’animo del poeta:
Streep tease, dove il poeta si guarda allo specchio, togliendosi di dosso tutte le incrostature negative che lo disturbano, ma anche così non si riconosce, perché - dice - la sua vera essenza è “più dentro ancora”;
Slow, dove il poeta ritiene essere un motivo stonato il suo fingere di vivere, un trascorrere lento di un tempo che non gli appartiene, anzi, non c’è neppure un vero motivo per vivere una vita senza risorse di vita, senza energie vitali;
Applausi, in cui emerge chiaramente un forte senso di umiltà che accompagna la vita del poeta; egli non ha alcuna certezza sul suo intrinseco valore (di uomo e di poeta) e non crede molto negli elogi, nei riconoscimenti esteriori; forse occorrerebbe un ri-dimensionamento, sostiene: ed è, “l’irrazionale lucida pazzia / (che) ridisegna parametri al pensiero”.

Come si può bene intuire da queste brevi note esemplificative riguardanti solo alcune delle poesie della silloge, vi è una profondità di senso da far affiorare dai versi poetici del Conti, che lascia il lettore piacevolmente sorpreso. Questa è, almeno, la sensazione che ho provato io stessa nell’analizzare le singole poesie della raccolta.

Complessivamente, le poesie di questa silloge confermano lo stile un po’ ermetico del Conti: sono dotate di una concettualità densa e mai ridondante, di un linguaggio poetico a volte poco comune, a volte con accostamenti di termini che trasfigurano una realtà che parrebbe familiare e che invece, vista con gli occhi del poeta, assume anche per chi legge una dimensione quasi surreale, che affascina proprio per la novità con cui ci viene mostrata.
Ogni poesia, inoltre, ha un suo ritmo interno e una musicalità insita nei singoli termini utilizzati e nei versi, che rendono piacevole la lettura, con l’aggiunta a volte di quel pizzico di ironia o di giocosità che arricchisce il senso smorzandone la drammaticità.
Le immagini evocate spesso sono così insolite che bisogna rileggere più volte il testo poetico per cogliere tutte le sfumature con cui riuscire a costituire l’insieme.
Così, l’esperienza del lettore somiglia molto a quella di un fruitore di un’opera pittorica: a volte il quadro si guarda da vicino, a volte da lontano e, a seconda delle prospettive da cui si osserva, appaiono nuovi dettagli e si amplia il significato. Così avviene con le poesie di Silvano Conti, la cui capacità di “dipingere” con le parole e i versi delle poesie, è peculiare; è, possiamo dire, il suo habitus poetico.
 M. Carmen Lama

 

Eoliche del pensiero

di Silvano Conti

(versi alcaici e strofe saffiche)

In questa nuova e singolare raccolta di poesie di Silvano Conti confluiscono versi alcaici e strofe saffiche: è un modo del poeta di ritornare a fruire di strutture metriche classiche, la cui conoscenza stimola un’ispirazione che si avvale di contenuti attuali, specchio della vita e delle esperienze personali, ma proiettati dentro contenitori classici.
La spiegazione iniziale del poeta, riguardo alla struttura utilizzata, sia nei 50 versi alcaici sia nelle 50 strofe saffiche, aiuta il lettore a riposizionare nella propria mente i diversi componimenti poetici.
Paradigmatico è già il titolo della raccolta, “Eoliche del pensiero”, che fa pensare d’istinto al pensiero mosso dal vento dell’ispirazione, salvo poi soffermarsi sul sottotitolo e cogliere l’origine autentica dei componimenti, che si rifanno, appunto, a poeti come Alceo e Saffo, rappresentanti della
«lirica eolica» dell’antica Grecia.

I componimenti di Silvano rispettano le caratteristiche che lo contraddistinguono come poeta, nello stile, rispetto ad altri poeti contemporanei, cioè la concisione, l’asciuttezza di ogni verso, la concettualità pura sostenuta da un lessico particolarmente pregnante che fa di ogni poesia quasi un piccolo poemetto.
Il contenuto, che spazia su diverse tematiche, riveste a volte un carattere di aforisma, (ad esempio in Gran bazar); a volte si rifrange in piccole gocce di morale che affiorano dai versi e impongono al lettore di soffermarsi e tornare più volte al testo completo come per imprimerlo meglio nella memoria, (vedi ad es. gli alcaici Sé, Segni e sogni, tesi ed ipotesi, effetà, in nuce, e le saffiche il rettilineo, preliminare, canto, gli eventi); a volte il poeta semplicemente gioca con le parole, come in Pigia ma - o in della retorica, io plurale, ab soluta mente.

Ci sono poi dei componimenti in cui l’arma privilegiata dal poeta è l’ironia, mediante la quale riesce a far passare contenuti e concetti, altrimenti pesanti, con leggerezza, come per far in modo che nulla sia preso sul serio di quanto ci accade, perché è tutto molto provvisorio; sembra quasi che il poeta voglia indicarci che nella precarietà di questa nostra vita, peraltro sempre molto breve, sono le piccole cose quotidiane ad acquistare maggior valore; tra queste, alcune si trasfigurano agli occhi del poeta e acquistano forma poetica proprio per la loro ineffabilità, per quella condizione, cioè, di presenza rapida e improvvisa, che forse non riapparirà una seconda volta.
E proprio per questo, il poeta ne illumina la visione, trasferendola dalla sua alla nostra mente, in modo da fissarla dentro l’anima, da dove si potrà farla riemergere ogni volta che si vorrà. 

Alcuni componimenti si servono di allitterazioni che segnano una sorta di ossessione della mente su precisi schemi consonantici, con la segreta aspirazione di far emergere una breve storia, che è prima di tutto una storia della mente “allitterata”: è come un legame indissolubile della mente con suoni ossessivi che rimandano a contenuti disturbanti, come ad esempio nella saffica del vuoto
In altri componimenti il poeta si moltiplica in molti alter ego e fa vivere ad ognuno di essi una propria vivace e insondabile vicenda esistenziale: l’io diventa così rabdomante, guerrigliero, camaleonte, inospitale lupo solitario, fuggitivo, cannibale, matto, coccodrillo, girovago, clandestino, e poeta che bighellona senza meta.
Silvano dedica attenzione anche al percorso mentale del pensiero e in questo caso è come perdersi in un labirinto o nell’immenso.
Sono talmente vari e intriganti i temi trattati nelle poesie di questa silloge, che bisognerebbe farne un’analisi dettagliata perlustrando gli anfratti più nascosti del pensiero poetico, rischiando ogni volta (ed è un bel rischio che ripaga!) di trovarvi qualcosa di nuovo, di non scorto in precedenti scandagli.
Così è accaduto a me ogni volta che ho riletto le poesie in momenti diversi e a distanza di tempo.

Ma al di là di queste brevi note sulla silloge nel suo complesso, mi preme ora sottolineare come lasci piacevolmente sorpresi il fatto che Silvano, poeta contemporaneo ancora poco conosciuto, nonostante alcune sue precedenti pubblicazioni, si distanzi da molti altri poeti che scrivono senza conoscere le regole del comporre e in qualche modo le subiscono, mentre egli, conoscendole, ne è padrone, le usa con cognizione di causa e senza lasciarsene irretire.
Nei suoi versi, infatti, la struttura metrica diventa un tutt’uno con la sostanza poetica senza appesantirne la lettura, proprio per il carattere penetrante che la stessa assume balzando in primo piano e lasciando come sullo sfondo la forma che la contiene.
E ciò anche in quelle meta-poesie che trattano proprio della struttura dei versi (es. gli alcaici rolliani 49, a modo mio, o la saffica 50, canonica).

Un’altra distinzione di Silvano è il suo amore per i classici, il cui studio è stato ed è così sistematico da renderlo molto consapevole come poeta e da fargli assorbire la poeticità come una sorta di DNA, che quindi esaspera e supera la stessa ispirazione, perché nasce da un “di dentro” molto più profondo della sua stessa mente.
Un paragone che mi viene spontaneo, riguardo a ciò, è con il Leopardi, il quale ha assunto il classicismo come base del suo poetare superandolo in forme personali, moderne per il suo tempo e innovative.

Silvano potrebbe anche distinguersi come poeta ermetico, soprattutto in questi versi alcaici e nelle strofe saffiche di questa silloge, ma il suo non è tuttavia un ermetismo che lasci il lettore insoddisfatto per mancanza di comprensione, al contrario, lo rinvia ad un approfondimento immediato per la molteplicità di significati e sensi percepiti.
E pertanto, seguendo un importante poeta latino - secondo il quale “è poeta chi sa trarre poesia nuova dal noto, chi sa utilizzare e gestire con perizia il potere dei nessi logici, dei passaggi che sanno trasfigurare il quotidiano; lo è chi fa della poesia una forma di pittura “letteraria” che a volte si coglie da vicino e a volte da lontano, ora in penombra e ora in piena luce, e non teme l’occhio intelligente del critico, perché a volte è bella subito, altre volte va letta e riletta” - potrei affermare senza timore di essere smentita che Silvano Conti ne ha tutte le sembianze.

(Carmen Lama)

 

IKEBANA

di Silvano Conti

Trasferire l’arte giapponese della composizione floreale nell’arte poetica potrebbe sembrare ardua quanto poco praticabile, se non impossibile, impresa, ma sorprendentemente, è proprio quel che fa il poeta Silvano Conti con questa breve ma apprezzabilissima silloge dal titolo orientaleggiante.
Probabilmente, le poesie che il Conti ha scritto, e qui poi raccolte, non avevano in origine alcuna intrinseca intenzionalità di condurre il poeta sui sentieri di una nuova categoria poetica, tuttavia è quello che è comunque avvenuto, poiché il titolo della raccolta non può essere, almeno a posteriori, considerato casuale.
Vediamo di capire il perché, soffermandoci, per cominciare, sull’essenza dell’ikebana come vera e propria arte: quella tipica attività giapponese, cioè, che insegna a disporre i fiori con un particolare stile, con una forma elegante, tenendo conto non solo degli accostamenti dei colori, ma anche del vaso che dovrà contenerli e dell’ambiente in cui saranno esposti. Attività artistica, peraltro, del cui stile estetico si può anche apprezzare l’evoluzione nel tempo.
Diversamente che nelle composizioni floreali, comuni in occidente, dove l’attenzione è rivolta alla sola forma decorativa, riservando importanza soprattutto alla quantità e ai colori dei fiori, l’ikebana tende a creare armonia tra composizione lineare, ritmo e colore, tanto che a vaso, rami, foglie e steli si attribuisce un valore complementare a quello dei fiori.
L'intera composizione floreale giapponese, basata su tre principali linee-guida che simboleggiano il cielo, la terra e l'uomo tende, con severe procedure tecniche da acquisire attraverso specifici corsi di formazione, a rappresentare questi tre elementi con una disposizione dei fiori particolarmente curata e finalizzata a raggiungere uno scopo psico-estetico.
A tal fine, nell’evoluzione dello stile si è passati, ad esempio, a composizioni in cui i fiori sono, per così dire, “ammassati”. Si tratta di uno stile (detto moribana), nato in parte come risposta all'occidentalizzazione della vita giapponese, col quale si è inaugurata una nuova libertà nell'arte della composizione floreale, cercando di riprodurre in miniatura lo scenario di un paesaggio o di un giardino. Ed è stata anche creata una scuola ad hoc, chiamata Sangetsu, il cui fondatore, Mokichi Okada, ha inteso così sviluppare la sua “filosofia di vita”, secondo la quale, in una civiltà cosmopolita quale è ormai quella giapponese, (così come quella occidentale), è di vitale importanza far accrescere in ognuno di noi la consapevolezza attraverso la bellezza e far sì che si diventi capaci di entrare facilmente in contatto e in sintonia  con la bellezza e senza limiti di tempo o di spazio. M. Okada riteneva che il  mezzo ideale per diffondere la bellezza fosse quello di  incoraggiare la gente a coltivare  e distribuire fiori.
Un vero e proprio programma di divulgazione, il suo, che inizierebbe disponendo composizioni floreali nelle proprie abitazioni, ma anche in edifici aperti al pubblico, in modo che i fiori possano essere visti ed apprezzati dalle persone in qualsiasi luogo esse si rechino, nella convinzione che la presenza ornamentale anche di  un solo fiore sul tavolo, in cucina, in un ripiano sul caminetto, in un angolo dell'ufficio o sulla scrivania, certamente rallegri l'atmosfera e soddisfi la contemplazione estatica, allagando l’anima di percezioni positive benefiche. Secondo Okada, infatti, che credeva che i fiori liberino la bellezza insita nell'uomo e lo ispirino a creare un mondo migliore, "se ci fossero fiori ovunque ci siano persone, tutte le negatività si attenuerebbero considerevolmente".

Poiché l’amore per i fiori è universale ed ogni uomo possiede la tendenza ad apprezzare la bellezza della natura, osservando le composizioni floreali questo apprezzamento potrà avvenire in modo concreto. Dunque, il fine ultimo delle composizioni floreali dell’arte giapponese dell’ikebana sarebbe quello di comunicare positività agli uomini elevando le loro coscienze e, in definitiva, anche la qualità delle loro esistenze.

Ciò significa, in altri termini, che in tutto questo interesse rivolto alla natura come elemento decorativo di un ambiente umano, è sottesa una funzione importante per il benessere psicofisico delle persone. Si tratta della ricerca di un’ armonia tra materia e spirito, in opposizione alla civiltà attuale, nella quale un vuoto materialismo acquisisce sempre maggiore enfasi.

Ora, quest’importante e vivo afflato verso gli elementi naturali di cui si avverte una forte necessità, un bisogno quasi fisico, a cominciare dal diletto del senso della vista, come si può trasferirlo nell’arte poetica, costituita da parole, seppure da “accostamenti particolari” di parole in versi, che nell’insieme acquistino una loro melodia ed evochino immagini?

Nelle poesie-ikebana di Silvano Conti si avverte chiaramente questa trasposizione, che si serve dell’uso di più sensi, a cominciare dall’udito che capta l’armonia della composizione melodico-poetica, la cui forza espressiva fa affiorare in modo naturale anche delle sensazioni tattili e visive, al punto che ci si dimentica di stare leggendo parole e versi e ci si immagina proiettati in un mondo naturale di cui sia possibile toccare la leggerezza e la delicatezza, concetti astratti che prendono corpo nelle cose, o sfiorare il vellutato sorgere di un’alba, e contemplare i colori, vivaci o meno, i loro contrasti suggestivi, così come i giardini descritti, i tramonti e  le albe e tutto quanto forma ogni “quadro poetico”, dove i soggetti sono vari e accattivanti e sembrano, come per  magia, apparire agli occhi della nostra mente nella loro dimensione fisica, concreta.

Solo qualche esempio a supporto di quanto fin qui esposto:
-  …ikebana (diospirus kaki): una ricca descrizione dei colori del kaki, (visto in prospettiva in un giardino, su sfondo stradale bagnato e quindi lucido), come colui che “sentinella” (verbo!) il giardino e che tinteggia di vivi colori il cielo bigio di novembre;
-  …ikebana (collana lorimer): le movenze dei colori dell’alba associate al desiderio;
-  …ikebana (maggio d’Umbria): una bellissima rappresentazione pittorica, del maggio in Umbria: sembra assistere alla descrizione, con estrema perizia e concisione, di un quadro in cui protagonisti sono i colori.

Ma in poesia avviene anche una sorta di capovolgimento delle situazioni che il poeta ha in prima istanza vissuto e che poi presenta alla visione del lettore acuendone l’immaginazione.
Ci sono infatti in questa raccolta poesie che raccontano di esperienze di profonda malinconia, di abbattimento anche, del poeta, di momenti di tristezza e di dolore, ma la trasfigurazione di questa realtà attraverso il colore delle parole è talmente portata all’estremo limite che solo a conclusione della poesia se ne avverte una sottesa leggera presenza.

Ancora qualche esempio:
-  …ikebana (fiori di malva): bellissima rappresentazione di un luogo “sognato” in cui il poeta vorrebbe trovarsi; ma… i pensieri soccombono sotto il peso della realtà, la lontananza avvertita tra sé e un volto amato è incolmabile e si fa suono cupo; resta la bellezza del ricordo che la poesia ha portato in superficie;
-  Ikebana (gelo crudo): la luna e le stelle fanno affiorare pensieri romantici, subito trasformati in “gelo crudo”; qui vi è un bell’accostamento delle guance, che si gonfiano per riscaldare le mani, col fiore dell’alchechengi da cui assumono forma e colore; ma le dita sono restie a seguire la via del desiderio e dei pensieri, allegati al gelo crudo; resta la bellezza delle immagini poetiche e il cuore può rasserenarsi;
-  …ikebana (lacrime azzurre): affascinante descrizione dell’apparire del giorno in tutti i suoi aspetti (cedri - gazze - cince - tetti - cielo - destino), ed è assicurata la seduzione del cuore che piange la sua malinconia con lacrime azzurrine: la dimensione malinconica del poeta, affiorata nello stridente contrasto con la bellezza dell’alba, grazie a questa visione viene per un attimo sospesa.

Personalmente, ritengo che consista principalmente in questa capacità linguistico-espressiva di Silvano Conti la bellezza delle sue ikebana. In esse si coglie anche, implicitamente, il messaggio poetico.
La funzione delle poesie-ikebana è infatti una sorta di suggerimento sottovoce a noi lettori di lasciare come sullo sfondo, per un attimo, la preoccupazione, lo stato d’animo triste, per dare più importanza alle cose belle e positive che la vita comunque ci regala, a dispetto della nostra incapacità, a volte, di vederle e di saperle apprezzare in tutta la loro semplicità e naturalezza.
È come se il poeta ci volesse dire di non indulgere eccessivamente nella considerazione del nostro “male di vivere”, di non restare troppo a lungo piegati sulla nostra interiorità, specie se costruita su condizioni di disagio esistenziale, ma di aprirci varchi verso il più ampio orizzonte, di guardarci intorno e di soffermarci con abbandono su tutto ciò che possa colmare l’anima di momenti estatici.
A volte, anche imponendoci di selezionare, se pur con difficoltà, il bello tra le tante macerie che noi stessi abbiamo contribuito a lasciare sparse intorno a noi, detriti non solo di bellezze naturali offese, violate, ma anche detriti sociali, di relazioni comunicative mal gestite in cui si sperimenta poi la solitudine reciproca dei soggetti.

Dunque, è anche nella finalità delle ikebane poetiche che si trova sintonia con l’arte giapponese delle composizioni floreali: in entrambe le arti, infatti, si vuole sollecitare l’espansione estatica dell’anima umana, attraverso una sempre maggiore attenzione alle bellezze naturali e ad un sempre più consapevole loro apprezzamento estetico ed estesico.

Se ancora ce ne fosse bisogno, non resta che sottolineare la feconda intuizione del nostro poeta riguardo alla commistione delle arti e/o al reciproco scambio di alcuni aspetti, particolarmente adeguati a far sì che, alla fine di un lavoro minuzioso, paziente, competente di tal genere, (come solo un vero poeta professionista può e sa fare) ci si trovi di fronte ad una nuova categoria artistica.
In questo caso, si può senz’alcun dubbio affermare che il poeta Silvano Conti sia l’inventore delle Ikebana poetiche.

M. Carmen Lama

 

MADRIGALI

di Silvano Conti

Una raccolta di poesie particolari, questa dei Madrigali di Silvano Conti. Per me, che amo moltissimo la musica medievale e rinascimentale e che sono abituata ad ascoltare brani di Claudio Monteverdi, di Salomone Rossi, leggere il titolo di questa silloge è stata una sorpresa, anche se so che prima di essere componimenti musicali i madrigali erano poesie popolari, con una precisa struttura metrica e strofica.
La curiosità che mi ha spontaneamente investita è stata quella di vedere in che modo un poeta di oggi potesse riuscire a rendere musicali dei madrigali-poesie e in che modo potesse riprodurre il fascino che associo al tipo di componimenti poetico-musicali del XIV° secolo.

Mi sono dedicata quindi ad una lettura attenta dei 50 madrigali di cui si compone la raccolta e sono subito rimasta attratta non solo dal numero dei componimenti che è obiettivamente sostanzioso, ma anche dai titoli attribuiti alle poesie, titoli che in qualche caso costituiscono una vera e propria sintesi di quanto si svolge (sic!) dentro la poesia, senza che il termine sia ripreso all’interno della poesia stessa, come ad esempio in … scorribanda, dove il poeta si muove in un presente penoso, per passare fulmineamente ad un futuro desiderato, incontrando immediatamente difficoltà, impossibilità a realizzare un suo sogno, e per compiere quindi un tentativo di ritorno al passato, ma guardandolo con gli occhi “scaltri” dell’esperienza e così renderlo migliore e almeno un po’ desiderabile: il tutto rappresentato da immagini belle, efficaci e che sembrano rappresentazioni sceniche, a cui pare di assistere stando in prima fila.

Ho volutamente dedicato anche del tempo a scoprire la struttura metrica utilizzata dal poeta, per confrontarla con quella utilizzata dagli autori medioevali, in particolare dal Petrarca che ha fatto assurgere a vera e propria forma letteraria quel che aveva avuto origine come forma popolare di poesia. E ho scoperto che Silvano Conti fa sul serio.
I suoi Madrigali sono personalizzati, non solo nel senso che varia la forma delle strofe nelle diverse poesie, pur se i versi mantengono la struttura classica, ma anche e soprattutto perché il contenuto delle poesie è rapportato alla sua esperienza e, comunque, i temi trattati si rifanno anche all’attualità. E inoltre, se nella maggior parte dei  componimenti prevale una struttura con rime alternate, come da tradizione, in una decina di essi, compresa la dedica, c’è invece una maggiore libertà ritmica e prevalgono il timbro e il colore delle parole che rendono comunque musicale la lettura, al punto che sembra di ascoltare un vero e proprio canto dell’animo.
I Madrigali del Conti, insomma, sono vivi, si muovono insieme alle parole di cui sono fatti, la cui sostanzialità è tangibile, concreta.
Riguardo alla struttura a cui accennavo sopra, vi sono, ad esempio, delle poesie composte da due strofe di tre versi ciascuna, di cui i primi due sono endecasillabi e il terzo è un settenario, con l’aggiunta di un endecasillabo finale; oppure, da due terzine, con la struttura metrica precedente e un distico di endecasillabi finali.

Nel magma poetico attuale in cui molti “se-dicenti” poeti scrivono “cosiddette” poesie, senza curarsi minimamente di conoscere la letteratura poetica classica o anche moderna, Silvano Conti emerge per la sua attenzione al passato, alla più nobile tradizione poetica, che egli rimodella su contenuti nuovi. E pare strano che possano essere accolte poesie con una struttura metrica classica e con delle rime, come questi madrigali del Conti, quando, dopo Montale e l’ermetismo ungarettiano e luziano e dopo la poetica di altri autori italiani che si sono serviti di strutture che fossero libere da vincoli di qualsiasi genere, (spesso perfino logici), ritornare al passato potrebbe sembrare un regresso anziché un progresso nell’ambito della poesia.
In realtà, accade esattamente l’inverso: riescono ad essere gustate come vere poesie in particolar modo quei componimenti che rispettano, almeno nei fondamentali, dei canoni poetici accreditati come essenziali per poter parlare di componimenti veramente poetici.

Il poeta che conosce il suo ambito di professionalità, (diversamente da chi lo ignora e scrive d’istinto, al più componendo semplici storielle per bambini o qualcosa di simile alle filastrocche quando si cimenta con le rime), il poeta colto e competente, dicevo, può equilibrare la sua ispirazione con le regole classiche, ma può anche consapevolmente derogarvi per sostenere un’intimità lirica dei versi e far prevalere la loro capacità di muovere emozioni e passioni profonde. Ed è proprio questo, quanto fa il Conti con i suoi madrigali.

Basterebbe ora analizzare brevemente alcune composizioni di questa raccolta, per verificare quanto appena affermato e per comprendere come la consapevolezza della propria arte permetta al poeta di rendere inscindibile la forma dall’essenza stessa delle sue poesie: leggendole, non si può far altro che constatare che non potevano essere scritte altrimenti; ogni parola è al posto giusto, non ci sono dei sovrappiù che disturbino il pensiero, tutto è esattamente come doveva essere e come soltanto poteva essere.

Ne propongo solo alcune, per indirizzare verso una lettura di senso delle stesse, con l’avvertenza che sono da prendere come semplice esemplificazione.
La silloge si apre con un madrigale, la bussola, che sembra avere uno scopo didascalico: segnalare con forza che come la bussola segna sempre il nord, sempre la stessa direzione, così la monotonia della vita che non sa cogliere nuove occasioni di crescita e che si aggira sempre nei dintorni delle stesse esperienze, è come un’apparente morte;
il secondo madrigale, che differisce da tutti gli altri nella struttura, essendo composto da tre (anziché due) terzine e un endecasillabo finale, è una parodia delle diverse fasi della vita (fanciullezza - maturità - vecchiaia - morte) rappresentate da strumenti musicali, l’oboe il cembalo il liuto che danno anche il titolo alla poesia; in questo caso l’aspettativa della musicalità non viene affatto delusa, anzi la musicalità è accentuata dai tre strumenti che suonano davvero attraverso le parole poetiche e le rime;
il calembour, è un vero e proprio gioco di parole, specie nel verso finale, ma il senso stesso di tutta la poesia è un calembour, poiché vi è un susseguirsi di immagini che potrebbero sembrare semplicemente accostate come in una sequenza fotografica, mentre contribuiscono a formare un affresco, anche se di malinconica visione: è un ritrovare se stesso maturo, un lasciarsi andare del poeta alle riflessioni, anche se (o forse proprio perché) dentro di sé avverte un forte senso di vuoto, un lasciarsi andare al sonno REM da cui emergono sempre nuove idee, rimuovendo tutto il resto, tutto il passato: rimosse: risse, resse, masse rosse…, conclude il poeta.

Ci sono anche madrigali che ci riportano ad un contatto, pieno di meraviglia, con la natura e i suoi elementi.
Un esempio è righe bianche, dove il poeta si abbandona ad una innocente evasione, ad una immersione nella meraviglia di un tramonto per assaporare la vita della natura e sentirsene parte; ma il finale capovolge la serenità assorbita dall’osservazione delle righe bianche sulle creste dell’onde in una sensazione spiacevole: il ritorno alla realtà è vissuto, al confronto della precedente libertà gioiosa, come prigione, cella.
Un altro esempio è nevicata, dove il poeta è così con-fuso con la natura da assistere ad una ovattata meraviglia senza saper più se questa proviene dalla neve che soave cade lieve oppure dal silenzio inseguito dal pensiero, che ha le stesse sembianze della neve.

Ci sono ancora madrigali fortemente legati all’attualità.
Nel madrigale il drone, il poeta si paragona ad una sorta di nuovo drone che si muove come fosse “programmato”, ma senza sentimento: freddezza della tecnologia e della robotica! Ma il poeta è prima di tutto un uomo, e dunque questa sottolineatura rivela un fondo di amarezza nel suo animo; egli cerca allora di distrarsi parlando, mentre vorrebbe soltanto ascoltare parole affettuose. La conclusione è triste e rassegnata: la vita dispensa sì delle gioie, ma sempre le accompagna al dolore, così che vivere è un morire lentamente.
Il neutrino chiude la raccolta ed è sorprendente come il poeta riesca a fare poesia attorno ad un termine scientifico venuto recentemente alla ribalta grazie a nuove scoperte di microfisica: egli, stavolta, si vede giustapposto a se stesso coi suoi pensieri che gli si rivelano essere “massa aponderale, antimateria e sogno”, e dunque può paragonarsi ad un neutrino; così, segue il percorso della notte, raggiungendo “lunghissime distanze in tempi brevi, infinitesimali”. Ed ecco dove sta la vera sorpresa: sta nella sua capacità di muoversi di galassia in galassia, attraversando il mare della propria interiorità, come se fosse un “neutrino”, ma, aggiungo io, per nulla neutro.

Il poeta infatti vive dei sentimenti che pulsano dentro la sua anima e che riesce a trasmettere attraverso le sue liriche. Ché tali sono questi madrigali, la cui lettura regala momenti di autentico piacere.
M. Carmen Lama

 

Nuances - De quolibet tactum

di Silvano Conti

Nuances e De quolibet tactum, unico titolo per questa silloge di Silvano Conti, che evidentemente accosta qualcosa di indefinibile (le nuances) a qualcosa di concreto, materiale, che si tocca con mano (de quolibet tactum).
Perché accostamenti di contrari? Sorge spontanea questa domanda leggendo un titolo così composto. Ho provato a darne una spiegazione intuitiva prima di leggere il contenuto delle poesie e ho pensato si potesse trattare di una sfumatura dei colori dei ricordi, che se sono tali investono l’autenticità della vita in tutti i suoi aspetti, nelle relazioni, nelle esperienze, nelle avventure personali, nei comportamenti. E aggiungerei, anche nei sentimenti, che tanto più il poeta avrà toccato con mano (dal di dentro), quanto più li avrà vissuti in prima persona e con una certa intensità. Al lettore basterà fare un raffronto con il proprio vissuto per toccare a sua volta con mano la materialità, la concretezza, forse anche la pesantezza, in senso psichico, dei sentimenti fotografati dal poeta e delle altre situazioni descritte nelle poesie di questa raccolta.

Mi piace tuttavia soffermarmi in prima istanza sulle Nuances, che mi riportano, forse non a caso,
a “Le nuances nel Trattato di Armonica di Aristosseno di Taranto”, (v. A. Bélis, Les "nuances" dans le traité d'Harmonique d'Aristoxène de Tarente - "Revue des Etudes grecques", 95, 1982, 54-73" - Traduzione di Matilde Battistini); qui il riferimento è alla musica e alle note mobili, alle loro tensioni e agli allentamenti che producono un’armonica colorazione del dettato musicale.
Silvano Conti parla invece della tensione e degli allentamenti dei ricordi di esperienze vissute, che nella sua mente acquistano una mobilità varia a seconda dello stato d’animo in cui egli si trova momento per momento; in questo modo, anche i ricordi assumono una loro cangiante colorazione, a volte perdono d’intensità e le sfumature hanno toni sbiaditi, così la poesia che li trattiene nei versi per farli rivivere riesce a tenersi sottotono, il ricordo è appena accennato, forse solo qualche lampo, qualche semplice aspetto, è riapparso alla visione interiore del poeta e solo di questo lampo egli dice.
Altre volte le sfumature appaiono meno deboli, il ricordo riemerge dal fondo dell’anima in tutta la sua vividezza, forse il ricordo si fa presente in quasi tutta la sua interezza, ma nel passaggio dalla visione intima - alla traduzione del pensiero sottostante - alle parole poetiche, si perde parte di quella luce e la colorazione torna ad essere approssimativa.
Del resto, anche il grande Montale, nella sua poetica in cui sotto sembianze diverse ha dato vita ad una riflessione metalinguistica, (v. Christine Ott, Montale e la parola riflessa, F. Angeli ed.) trovava spesso da sottolineare l’incapacità delle parole di essere aderenti alla sostanza del pensiero.
Così altri grandi poeti.

Leggendo le poesie della raccolta e poi ascoltando la voce del poeta, ho potuto verificare che in questa silloge Silvano Conti ha voluto fare spazio proprio a ricordi personali, ma anche ad altre situazioni, anche attuali, a cui ha assistito con una intensa, a volte dolorosa, partecipazione emotiva, tale che la pressione dell’anima sulla esplicitazione poetica del vissuto fosse incontenibile.
Da qui la genesi di alcune poesie come le seguenti:

-  Presenze, in cui appare come “stelo fragile della fantasia” il ricordo di una “piccola Katy”, di una donna con le sue “misteriose presenze”, che la distrazione della vita, del mondo, ha allontanato, ma ciononostante lei continua a portare dentro di sé queste misteriose presenze, ospitate nella mente del poeta, dove un fuoco è ancora vivo, mai sopito, caldo “sotto la cenere”.

-  Eluana, dove il poeta si immedesima nella sofferenza senza riuscire a darne ragioni e intona un inno alla vita, nonostante tutto.

-  Angela, in cui, con grande efficacia e forza espressiva notevole, il poeta fotografa l’interno di una grave malattia che produce confusione mentale e oblio perfino di se stessi, enucleando le azioni concrete nelle quali essa si esplicita, e provocando i brividi in chi legge e trasmettendo emozioni profonde.

Oppure la genesi di poesie che fotografano lampi di luce di un ricordo, come ad esempio:

-  Guardami, accorata preghiera del poeta affinché almeno i ricordi siano illuminati dallo sguardo benevolo della Madre pia… poiché solo attraverso la rivisitazione dei ricordi belli il poeta ritrova la gioia e può ricaricarsi di energie vitali.

-  Nuances, dove il poeta si riappropria del silenzio, con le sue sfumature leggere, contrapponendolo alle parole talvolta dure, di pietra.

-  Ma non sono solo, in cui il poeta trova consolazione al suo stato d’animo oppresso, descrivendo una condizione esistenziale che accomuna tutti gli esseri umani, sempre in inquieti affanni, nonostante la consapevolezza di essere parte infinitesima dell’universo, come goccia in rapporto all’onda.

Molto interessanti, complessivamente i contenuti di queste “nuances” che potrebbero costituire un nuovo genere poetico, per poter legittimamente esprimere emozioni profonde in un mondo in cui i sentimenti sembrano essere relegati a qualcosa che non apparterrebbe più agli essere umani, soggetti ormai alla freddezza dei mezzi tecnologici utilizzati.
Ma Silvano Conti smentisce appunto questa visione moderna dell’homo tecnologicus e ci regala un’immersione in un mondo emotivo che dal suo animo si trasferisce nel nostro e ci fa essere solidali nel sentire. Ciò accade anche con una intensa poesia o prosa poetica, (il confine è molto labile!), … Ludmilla,  che arricchisce la silloge delle Nuances e che, attraverso la creazione di un’atmosfera e di uno sfondo suggestivi, ci ricorda che il freddo può avvicinare ma anche allontanare, (un po’ come ne’ La favola del porcospino di Schopenhauer, laddove sono gli aculei la metafora del freddo nelle relazioni), e l’invito del poeta, qui non esplicito ma sotteso, è quello di creare le condizioni di una giusta distanza reciproca che permetta a ciascuno l’espressione della propria personalità, costruendo così relazioni sane.

Un’altra nota molto positiva al riguardo di questa raccolta, oltre a quanto già messo in luce, è a mio parere la possibilità di estrapolare dai testi poetici la volontà del poeta di non subire passivamente le condizioni a volte sgradevoli che la vita presenta, ma di cercare un distanziamento e un approdo in un mondo anche fantastico, che aiuti a migliorare la percezione che si ha di se stessi e delle proprie relazioni con gli altri, oppure di rifugiarsi anche solo momentaneamente in una contemplazione estatica della natura, trasfigurando la realtà in modo da rapportarla al proprio esistere e al desiderio di continuare a far parte di questo mondo bello, con cui fondersi e con-fondersi.

Note ottimistiche, dunque, traspaiono dai versi di questa raccolta, la cui lettura non lascia per nulla indifferenti, perché mentre accomuna poeta e lettori in una condivisione di esperienze e sensazioni, così anche alleggerisce l’animo dalla “pesantezza” del vivere, con la prospettiva che sia sempre possibile approdare su un mondo ad hoc creato dalla nostra fantasia, per il quale sono sempre pronte le zattere dei nostri pensieri e della nostra intimità insondabile dall’esterno.                                                                                                                
M. Carmen Lama

 

Sentieri di luce

di Silvano Conti

 Poliedrica voce della creatività e della ricerca interiore, qui e ora, ma anche in prospettiva, oltre l’orizzonte visibile: così definirei - d’impatto - il poeta Silvano Conti attraverso la lettura delle poesie di questa nuova silloge.

Bisogna poi entrare con cautela nei “sentieri” percorsi dal poeta, in ciascun poemetto, pur breve, perché è lì – dentro – in profondità, la luce che li illumina. Pur breve, sottolineo, perché una prima caratteristica delle poesie di Silvano Conti è proprio quella della densità concettuale concentrata con grandissima efficacia ed incisività in poche, essenziali, espressioni poetiche.

Inoltre, vi si percepisce un ritmo, emergente dal solo senso profondo di ogni poesia, che invita a soffermarsi in silenzio, dopo la lettura, per sentirlo risuonare ancora nell’anima. Ed è come scuotersi da un dormiveglia.
Dal mio punto di vista, esterno al mondo poetico qui rappresentato, capto una volontà di trascendenza di se stesso da parte del poeta, il quale si volge al divino, al soprannaturale nella speranza di assorbire in qualche modo la sua luce e, illuminati così i sentieri della vita, poter dare spiegazioni accettabili a tutto ciò che accade e che “gli” accade.

C’è, evidente tra le righe, un movimento interiore del poeta, che passa da un’autoanalisi incentrata inizialmente su una sorta di torpore dell’anima, (“Senza di Te / consumo solo tempo…”...  oppure: “E per quanto tempo la Tua voce / - a lungo inascoltata - / ho avuto dentro pei sentieri percorsi…”) a una successiva vibrazione delle sue corde più sottili e profonde, (Anelo conoscerti / insieme a me stesso / senza impedirmi ancora / di amarti al buio”) a una timida consapevolezza di una presenza discreta ma forte accanto a sé, (Mi sei rimasto accanto, / con gran fragore all’anima), a una luce “invisibile” che guida, (e più mi occorri / più mi  soccorri, / prendendomi per mano), alla visione, infine, di un traguardo come sicuro ed eterno approdo (Congiungo / due punti in linea retta,/ dal vuoto all'infinito, / e Ti ritrovo).

In questa consapevolezza, e solo in questa apertura al trascendente, il poeta ritrova se stesso e il fine della propria esistenza mondana.
Si sente anche emanare da ogni poesia una forza prorompente che si esprime nella sicurezza del poeta di riuscire a far fronte, d’ora in poi, ad ogni richiamo pur apparentemente insensato che la vita potrebbe rivolgergli, poiché al fondo di tutto un senso ci deve essere e c’è.
Ed è proprio nella pienezza di questa esistenza, da portare alla luce come resoconto di un passaggio non inutile, non indifferente, che risiede il senso.

In alcune poesie “dedicate” questo desiderio del poeta è espresso con convinzione.
Da questo momento in poi, il poeta sente di doversi far portavoce della sua scoperta molto personale ed intima per condividerla con i lettori ed aiutarli ad “essere”.
“Si è”, presenti a se stessi, consapevoli del proprio mondo interiore e delle proprie aspirazioni, delle proprie responsabilità e speranze, soltanto se ci si cerca nel profondo, se si va oltre l’apparenza materiale veicolata dal corpo e più ancora dal viso, dagli occhi e dal proprio nome, e ci si trascende, trovando la propria spiritualità.

È questo, mi pare, il percorso poetico esistenziale di Silvano Conti che si può cogliere leggendo le poesie di questa silloge. Occorre però una disposizione d’animo particolare, intelligente, (nel senso etimologico di “leggere dentro”, andare in profondità), ed essere pronti ad immedesimarsi in quest’opera di scavo interiore compiuta dal poeta.
L’esito della lettura è senza dubbio un respiro dell’anima, uno sguardo nuovo alle cose intorno a sé, un vedere se stessi in cammino… sui “sentieri di luce” indicati. Sicuri che anche per ciascuno di noi ci potrà essere una nuova Damasco.
Seguire il poeta allora, sarà come egli stesso ci dice: “
Avere un'ansa in questo andirivieni / su cui aggrapparsi al volo alla bisogna / è come avere i sogni vuoti pieni”.
Carmen Lama

 

8/11/2012

Maigret a Vichy

di Georges Simenon

Traduzione di Ugo Cundari

In copertina: Donna in abito bianco (Anni Trenta)
© Mary Evans / Archivi Alinari

Adelphi Edizioni
www.adelphi.it

Narrativa romanzo
Collana gli Adelphi – Le inchieste di Maigret

 

Fra un bicchiere e l’altro di acqua termale

Questa volta Pardon, il medico di Maigret, è stato tassativo: quei giramenti di testa, quella stanchezza non sono i sintomi di qualche malattia, ma denotano la necessità di un po’ di riposo in un uomo che di età ha superato la cinquantina. Sono quindi necessarie alcune settimane di ferie e magari un aiutino, quali sono le celebri acque curative di Vichy.
E’ così che il commissario, accompagnato dalla moglie, va a soggiornare nella cittadina termale, adattandosi in modo sorprendente a una vita fatta di lunghe passeggiate, di pranzi sobri e senza vino, e dagli appuntamenti mattutini e pomeridiani allo stabilimento a bere le corroboranti acque.
Maigret sembra perfino cambiato, ha assunto l’aria di un pensionato che si gode un periodo di villeggiatura, fatto di eventi sì ripetitivi e monotoni, ma senz’altro riposanti. Non ha perso, però, l’abitudine di osservare la gente, di indovinare il loro carattere ed è rimasto colpito in modo particolare da una signora di mezza età, sempre sola, per nulla ciarliera, vestita con abiti color lilla e dallo sguardo enigmatico. E quando apprende dal quotidiano locale che è stata trovata strangolata nel suo appartamento la curiosità diventa ancor più professionale e collabora attivamente alle indagini condotte dal commissario capo di Clermont Ferrand, dalla cui giurisdizione Vichy dipende, e che risulta essere Lecoeur, già valido aiutante di Maigret al Quai d’Orsay.
La sua è una partecipazione attiva che si estrinseca in consigli, suggerimenti e approvazioni, insomma è un aiuto non invadente che il collega, peraltro molto bravo, non può che accettare volentieri.
La signora Maigret sta in disparte, ma mostra interesse per il lavoro del marito, lo comprende con una dolcezza premurosa, sempre disponibile ad accontentarlo e del resto lui si assenta solo per poche ore, quante necessarie all’indagine, continuando quella vita quieta, sebbene ripetitiva, che ormai sembra essersi radicata profondamente.
Per quanto ovvio, e non mi dilungo ulteriormente per non togliere il piacere ai lettori, l’azione della polizia giudiziaria si conclude in breve tempo con l’arresto dell’omicida, verso il quale Maigret, per la dinamica del reato e i motivi  che l’hanno indotto, ha un sentimento di autentica pietà, al punto  che quando moglie gli chiede “Quanti anni credi che…”,  risponde “Spero che lo assolvano…”.
Questo, forse, è uno dei bei romanzi con protagonista il celebre commissario, caratterizzato, a differenza di molti altri, non da atmosfere cupe e tenebrose, da piogge incessanti e da nebbie caliginose, bensì dalla splendida luce solare nel cielo terso che sovrasta Vichy, in netto contrasto con il diabolico complotto che è alla base di un omicidio non voluto, ma che il comportamento della vittima stessa ha determinato.
Come al solito lo stile è ineccepibile, così come la capacità di coinvolgere il lettore, che finisce con il vedersi a spasso per i viali della cittadina termale, magari con l’inconscio desiderio di incontrare, fra le tante persone che deambulano oziosamente, Maigret e signora.
Maigret a Vichy è senz’altro da leggere.   

 Georges Simenon, nato a Liegi nel 1903, morto a Losanna nel 1989, ha lasciato centonovantatré romanzi pubblicati sotto il suo nome e un numero imprecisato di romanzi e racconti pubblicati sotto pseudonimi, oltre a volumi di «dettature» e memorie. Il commissario Maigret è protagonista di 75 romanzi e 28 racconti, tutti pubblicati fra il 1931 e il 1972. Celebre in tutto il mondo, innanzitutto per le storie di Maigret, Simenon è anche, paradossalmente, un caso di «scrittore per scrittori». Da Henry Miller a Jean Pauhlan, da Faulkner a Cocteau, molti e disparati sono infatti gli autori che hanno riconosciuto in lui un maestro. Tra questi, André Gide: «Considero Simenon un grande romanziere, forse il più grande e il più autentico che la letteratura francese abbia oggi»; Walter Benjamin: «… leggo ogni nuovo romanzo di Simenon»; Louis-Ferdinand Céline: «Ci sono scrittori che ammiro moltissimo: il Simenon dei Pitard, per esempio, bisognerebbe parlarne tutti i giorni».
Le Centre d'études Georges Simenon et le Fonds Simenon de l'Université de Liège si trovano all'indirizzo: www.ulg.ac.be/libnet/simenon.htm.
Renzo Montagnoli

 

5/11/2012

Materada
di Fulvio Tomizza

Bompiani Editore
Narrativa romanzo
Collana I grandi tascabili
 

L’epica della povera gente

Dice bene Claudio Magris quando scrive, a proposito di Materada (il primo romanzo di Fulvio Tomizza),: “Quando uscì nel 1960 “Materada” – il primo e ancor oggi miglior romanzo dell’allora giovanissimo e sconosciuto Fulvio Tomizza – arricchì di una nuova e forte pagina la poesia della frontiera, delle sue lacerazioni e della sua unità;….Il mondo da cui nasceva “Materada”  - l’Istria nel momento dell’ultimo esodo, nel 1954 – era un mondo realmente straziato dai rancori, torti e vendette sanguinose fra italiani e slavi e Tomizza l’aveva vissuto e patito.”.
Materada è un piccolo borgo vicino alla più grande Umago, in una terra di frontiera, questa dell’Istria, punto d’incontro di tante etnie (Italiani, Slavi e Croati), nei secoli assoggettati alla Repubblica Veneta, all’Impero Austro-Ungarico, all’Italia e infine inglobati nell’allora nascente Jugoslavia.
E’ una terra aspra, ricca di contrasti, che si riflettono anche nei suoi abitanti, perennemente diffidenti, e non solo a livello di etnie, ma anche all’interno di ciascuna di esse, in forza di quella precarietà del proprio luogo di vita che tutto condiziona e  tutto contrappone.
Al termine dell’ultima guerra mondiale, dopo lunghe trattative diplomatiche, a seguito del Memorandum di Londra si definì un nuovo assetto territoriale che assegnò alla Jugoslavia gran parte della Venezia Giulia (in pratica quasi tutta l’Istria e le terre ad Est di Gorizia) dando luogo a un massiccio flusso migratorio dell’etnia italiana verso il nostro paese.
Tomizza, che visse quei periodi, di questo parla in Materada, un romanzo corale, per quanto incentrato sulla famiglia Kozlovich, in cui si riflette l’esperienza personale dell’autore. E’ un’opera in cui speranze, delusioni e rassegnazioni si avvicendano, emergono, si assopiscono, ritornano. E’ palpabile lo stato d’animo degli italiani, l’emarginazione nei loro confronti del regime comunista di Tito, un intreccio di storie di tanta povera gente la cui unica e ultima scelta è di restare, perdendo la propria identità nazionale, o andarsene verso l’ignoto, un’epopea di un esercito di straccioni alla ricerca di una patria definitiva. E in questa storia se ne insedia un’altra, quella della rivendicazione della famiglia Kozlovich della terra dello zio, sulla quale hanno lavorato e dato il sangue, perché la terra deve essere di chi la lavora. La figura del vecchio parente, attaccato alle sue proprietà, gaglioffo, sfruttatore per istinto sembra rappresentare l’onnipotenza di chi ha la forza, è la stessa protervia che ha diviso, smembrato, sradicato la popolazione italiana dell’Istria. Si parla di confini come espressione geografica, ma i politici e i diplomatici nulla sanno, oppure vogliono ignorare, i diritti delle genti che là nascono, vivono e muoiono.
Il romanzo è spesso crudo, la narrazione è pure sofferta, ma il ricordo della propria terra, quando riemerge, è autentica poesia, che raggiunge anche vertici sublimi, come nelle ultime pagine, con quella messa senza prete in cui tutti si ritrovano prima della partenza.
Materada è semplicemente stupendo.

Fulvio Tomizza (Giurizzani di Materada, Umago, 26 gennaio 1935 – Trieste, 21 maggio 1999). Figlio di piccoli proprietari agricoli, dediti anche a varie attività commerciali, ottenuta la maturità classica, si trasferì temporaneamente a Belgrado e a Lubiana, dove iniziò a lavorare occupandosi di teatro e di cinema.
Ma nel 1955, quando l’Istria passò sotto l’amministrazione jugoslava,  Tomizza, benché legato visceralmente alla sua terra, si trasferì a Trieste, dove rimase fino alla morte, tranne che negli ultimi anni trascorsi nella natia Materada.   
Scrittore di frontiera, riscosse ampi consensi di pubblico e di critica (al riguardo basti pensare ai numerosi premi vinti: nel 1965 Selezione Campiello per La quinta stagione, nel 1969 il Viareggio per L’albero dei sogni, nel 1974, nel 1986 e nel 1992 ancora Selezione Campiello rispettivamente per Dove tornare, per Gli sposi di via Rossetti e per I rapporti colpevoli, nel 1977 e nel 1979 lo Strega e quello del Governo Austriaco per la letteratura Europea per La miglior vita).
Ha pubblicato: Materada (1960), La ragazza di Petrovia (1963), La quinta stagione (1965), Il bosco di acacie (1966), L’albero dei sogni (1969), La torre capovolta (1971), La città di Miriam (1972), Dove tornare (1974), Trick, storia di un cane (1975), La miglior vita (1977), L’amicizia (1980), La finzione di Maria (1981), Il male viene dal Nord  (1984), Ieri, un secolo fa (1985), Gli sposi di via Rossetti (1986), Quando Dio uscì di chiesa (1987), Poi venne Cernobyl (1989), L’ereditiera veneziana (1989), Fughe incrociate (1990), I rapporti colpevoli (1993), L’abate Roys e il fatto innominabile (1994), Alle spalle di Trieste (1995), Dal luogo del sequestro (1996), Franziska (1997), Nel chiaro della notte (1999).
Per ulteriori approfondimenti consiglio Fulvio Tomizza, un saggio molo bello e interessante scritto da Grazia Giordani.
Renzo Montagnoli

 

31/10/2012

La morte di Marx
e altri racconti
di Sebastiano Vassalli

Edizioni Einaudi
Narrativa raccolta di racconti
 

Una visione nichilistica

Quel che più apprezzo di Sebastiano Vassalli è la straordinaria abilità  di parlare del presente raccontando del passato.
E’ accaduto così per La chimera, di cui la cui premessa è già ampiamente chiarificatrice (Per cercare le chiavi del presente, e per capirlo, bisogna uscire dal rumore: andare in fondo alla notte, o in fondo al nulla; magari laggiù, un po’ a sinistra e un po’ oltre il secondo cavalcavia, sotto il «macigno bianco» che oggi non si vede. Nel villaggio fantasma di Zardino, nella storia di Antonia. E così ho fatto.), ma anche in Le due chiese, in Cuore di pietra, in Un infinito numero, in Marco e Mattia e perfino nel quasi romanzo giallo Il Cigno è riscontrabile questa sua caratteristica, volta a dimostrare che, contrariamente a quanto si va da sempre ripetendo, la storia non insegna, bensì si ripete in contesti territoriali e temporali diversi.
Stupisce pertanto che questa raccolta di racconti (La morte di Marx e altri racconti) abbia un’ambientazione contemporanea, anche se, a pensarci bene, in quel suo scopo di descrivere l’attuale società in prose brevi non ci sarebbe stato lo spazio per pescare nel passato vicende del tutto analoghe.
E, a onor del vero, la metodologia diversa adottata da Vassalli mi sembra più pertinente, più efficace nell’ottica della critica, anche aspra, che rivolge ai falsi miti che sempre più marcatamente connotano l’attuale società.
Questi racconti sono divisi in tre parti, con la prima e la terza dedicate rispettivamente alle relazioni fra gli uomini e le automobili e alle accentuate trasformazioni delle abitudini sessuali; la seconda, invece, è dedicata a riflessioni di carattere politico, fra le quali spicca quella sulla democrazia, con un dialogo illuminante fra un cittadino che vota e un altro che si astiene. Si tratta di una discussione in logico contraddittorio, da cui emerge il pensiero di Vassalli, da me condiviso, che la democrazia è una chimera, e che invece ci troviamo di fronte a un sistema oligarchico, costituito da un’aristocrazia di furbetti, in un sistema in cui l’eguaglianza è una parola vuota, frutto di una retorica ripetuta, tesa a dimostrare quello che non c’è, perché chi comanda non vuole che ci sia e anche perché il primo a negare una completa parità è l’uomo stesso, per sua natura visceralmente portato a cercare di prevalere. 
La sua è quindi una visione disincantata, frutto di una concezione nichilistica che, pur tuttavia, non esime l’autore dal mostrare l’interesse, anche se con preoccupazione, per questo mondo così imperfetto e ostile al divenire perfettibile.
C’è certamente un diffuso pessimismo, ma Vassalli riesce a mitigarlo con una punta di ironia, smitizzante, nonché tale da lenire quel senso di frustrazione che altrimenti finirebbe con il travolgere, portando a un’autocommiserazione perniciosa e senza via d’uscita.
Di tutti i racconti mi sono piaciuti maggiormente il cinico e devastante Una famiglia va al mare, un ritratto perfetto dell’insensibilità che sembra colpire sempre di più l’attuale società, Il dialogo sulla democrazia, che da solo giustifica la lettura dell’opera, e Leonid, sull’eterna discussione fra infanzia rubata e  delinquenza, uno spaccato che delinea in modo egregio la psicologia di un mostro.
La morte di Marx, che dona il titolo al libro, non parla della scomparsa di Carlo Marx, il noto filosofo ed economista, bensì di un altro Marx, uno straniero residente sulla Riviera Ligure, dalle abitudini sessuali diverse e barbaramente ucciso, un uomo solo, che nessuno ha mai veramente conosciuto, come provato dalle testimonianze di alcuni conoscenti.
E la solitudine della vittima richiama quella della nostra umanità, vite che si sfiorano e che si bruciano in un attimo, relazioni interpersonali che cercano solo l’apparenza e si fermano a quella, senza andare oltre, in una superficialità frutto di un’omologazione che priva l’uomo moderno del piacere di scoprire non solo gli altri, ma anche se stesso.
La lettura è più che consigliata.

Sebastiano Vassalli è nato a Genova e vive in provincia di Novara. Presso Einaudi, dopo le prime prove sperimentali, ha pubblicato La notte della cometa, Sangue e suolo, L'alcova elettrica, L'oro del mondo, La chimera, Marco e Mattio, Il Cigno, 3012, Cuore di pietra, Un infinito numero, Archeologia del presente, Dux, Stella avvelenata, Amore lontano, La morte di Marx e altri racconti, L'Italiano, Dio il Diavolo e la Mosca nel grande caldo dei prossimi mille anni e Le due chiese.
Renzo Montagnoli

 

27/10/2012

La cavallina, la ragazza e il diavolo
di Ferdinando Camon

Garzanti Libri
www.garzantilibri.it

Narrativa romanzo
Nuova Biblioteca Garzanti

Una cavalcata rasserenante

Ferdinando Camon, figlio di contadini, non ha mai coltivato la terra; eppure, questa gli è rimasta dentro, un’atavica vocazione, trasmessa di padre in figlio, che rispunta nei suoi romanzi appena ve ne sia la possibilità. Lui, che è stato il cantore di una civiltà ormai scomparsa, quella contadina, fatta di duro lavoro, di sudore, di sacrifici, di miseria e anche di superstizione, resta indissolubilmente legato ad essa e nel trascorrere del tempo, quando i ricordi tendono a sbiadire, colorandosi però di rosa, guarda a quel mondo quasi con rimpianto. Vero è che è stato quello della sua fanciullezza, forse il periodo più bello per un uomo, troppo breve per costruire un progetto di vita, ma non per sognare e fantasticare. E così, se con La vita eterna Camon ha descritto il mondo contadino in tono per nulla idilliaco, con questo romanzo breve (La cavallina, la ragazza e il diavolo) lo fa rivivere ai giorni nostri, ma com’era un tempo, avvolgendolo in un alone in cui l’incontro fra reminiscenze, fantasia, sogno e desiderio si amalgamo dando vita a un’opera che rasenta il favolistico, con tanto di morale finale. A ben guardare lo svolgimento, la presentazione dei personaggi, l’evolversi della trama e l’epilogo ricordano certe parabole che, per la loro eterna validità, sono senza tempo, non in contrasto quindi con quell’immobilità, che era propria del mondo contadino, e che appunto in quanto tale aveva un tempo lungo fermo, praticamente eterno.
La scrittura, come sempre fluida, mai aggressiva, l’ironia, che spesso affiora, quella capacità di descrivere uomini e cose, animali e paesaggi risaltano anche in questo breve scritto, che si impreziosisce ulteriormente nel penultimo capitolo, dedicato allo svolgimento di una corsa con cavalli, in pratica un palio, intorno alle mura di Montagnana.
L’abilità dell’autore è qui strabiliante, perché ritmo e invenzioni stilistiche finiscono con il rendere partecipe il lettore oltre le misure di un’attuale telecronaca. Senza essere in sella a Maggie, la cavalla protagonista, si avverte netta la sensazione di correre al suo fianco, di essere là, metro dopo metro, fra gli incoraggiamenti degli spettatori, che sembrano risuonare nelle orecchie. Vi assicuro che si tratta di un’esperienza esaltante, tanto da arrivare alla fine del capitolo quasi con il fiatone.
Ma, ciliegina sulla torta, nelle ultime pagine, con il trionfo della giustizia, cosa tanto più apprezzabile con i tempi correnti, la parabola giunge al suo termine, la favola esprime la sua morale e ci si sente pervasi da un grande senso di serenità.
La cavallina, la ragazza e il diavolo è veramente un gran bel romanzo.     

Ferdinando Camon è nato in provincia di Padova. In una dozzina di romanzi (tutti pubblicati con Garzanti) ha raccontato la morte della civiltà contadina (Il quinto stato, La vita eterna, Un altare per la madre – Premio Strega 1978), il terrorismo (Occidente, Storia di Sirio), la psicoanalisi (La malattia chiamata uomo, La donna dei fili), e lo scontro di civiltà, con l'arrivo degli extracomunitari (La Terra è di tutti). È tradotto in 22 paesi. Il suo ultimo romanzo è La mia stirpe (2011).
 Il suo sito è www.ferdinandocamon.it

Renzo Montagnoli

 

24/10/2012

Nina per caso di Michèle Lesbre

Titolo originale Nina par hasard
 Sellerio editore Palermo La memoria 2010
 Traduzione di Roberta Ferrar
a

E dell’anima ferita si spandeva il silenzio”. Gaston Chaissac (Titolo di un dipinto di tela, 1946)

Nina per caso di Michèle Lesbre è il ritratto dell’eroina della voce narrante Nina, apprendista parrucchiera da soli due mesi, fanciulla diciottenne alle prese con i turbamenti della sua età: contraddizioni e illusioni sono le tappe obbligate di passaggio dall’adolescenza alla giovinezza. Una ragazza in erba, ingenua e ricca di ideali che non collimano con la realtà spesso dura e arida, animata soprattutto da figuri avidi e rapaci, come il padrone e il caporeparto della fabbrica di merletti di una provincia francese dove lavora la madre Suzy (capelli rossi, occhi verdi, non molta alta, piuttosto sexy, forse un po’ ingrassata dopo l’ultima delusione d’amore) non ancora disillusa nonostante viva la sindrome dell’abbandono degli uomini che transitano la sua vita dopo aver lasciato il marito con cui viveva a Parigi. Le compagne operaie di Suzy sono donne fiere e battagliere che lottano come eroine ottocentesche per migliorare le proprie condizioni di lavoro. Arnold, l’amico degli uccelli, rappresenta il maschile in positivo, quello a cui si rivolge Nina e da cui si rifugia quando ha bisogno del suo aiuto, mentre il padre lontano appare un personaggio scolorito e sfocato nel ricordo (mi pare che fosse alto, con i capelli neri e ondulati, gli occhi chiari e ridenti, la voce profonda).

Come l’altra Nina, quella del Gabbiano di Cechov, la nostra protagonista (il racconto si dispiega in prima persona) sogna qualcosa di diverso, di lontano, qualcosa che possa dare un senso alla sua vita; un incontro fugace con uno sconosciuto che alloggia nell’hotel Splendid di fronte casa sua e che sta per imbarcarsi assume un significato arcano, ma quasi necessario, vitale. E’ come varcare l’oceano della sua vita e approdare in un paese sconosciuto, freddo, buio, come un gabbiano che risale il corso del fiume per scoprire qualcosa d diverso, ma rivelatore di una nuova consapevolezza e maturità. Tutto il fatto, come una rappresentazione teatrale, si svolge nell’arco di 3/4 giorni, dal venerdì al lunedì successivo e in questo breve lasso di tempo Nina diventerà donna, una donna con un segreto nascosto tra le pieghe del suo animo che, forse, condividerà con la madre e nonostante tutto davanti a sé il futuro si apre come un’immensa spiaggia dove il vento solleva la sabbia e spinge i gabbiani indolenti.

Tutta la storia è al femminile e focalizzata sul rapporto esclusivo e complice con la madre, che quasi vede come una da proteggere e amare con indulgenza, e sulla raffigurazione delle amiche operaie della madre vittime del sistema economico che le avvita in una spirale senza apparente via d’uscita sebbene in un’epoca ormai iper industrializzata e tecnologica dove ancora le rivendicazioni sociali si pagano anche al prezzo della vita. Ogni volta sorprende come uno scrittore riesca a mettere in forma le dinamiche psicologiche oltre che con gli strumenti tecnici del mestiere anche con le vibrazioni del sentimento che anima la parola letteraria. Pubblicato da Sellerio nel 2010, Nina per caso è un bel libro profondo e sensibile.

Michèle Lesbre vive a Parigi. Ha esordito con alcuni gialli e nel 2005 ha pubblicato Una ragazza tutta sola. Con questa casa editrice ha pubblicato Il canapé rosso ( 2009), finalista al Premio Goncourt, che nel 2007 ha vinto il Premio Mac Orlan
Arcangela Cammalleri

 

23/10/2012

I fantasmi del cappellaio
di Georges Simenon

Appendice con avvertenza
di Sandro Volpe
Traduzione di Laura Frausin Guarino
In copertina: Michel Serrault
in un’inquadratura del film di
Claude Chabrol I fantasmi del cappellaio (1982)

Edizioni Adelphi
www.adelphi.it
Narrativa romanzo
Collana Gli Adelphi

Dentro la psiche del serial killer

È del tutto particolare la genesi di questo romanzo, tanto che vale la pena di raccontarla. Nel 1947 Simenon, nel periodo in cui soggiornò negli Stati Uniti, scrisse il racconto Il piccolo sarto e i cappellaio, da cui trasse una versione sostanzialmente analoga, ma con un diverso finale, che intitolò Benedetti gli umili, e che, tradotta in inglese, vinse il premio per il miglior racconto poliziesco al concorso annuale indetto dall’”Ellery Queen’s Mystery Magazine”. Il piccolo sarto e il cappellaio assomiglia molto a I fantasmi del cappellaio, anche se il punto di vista della narrazione è dato dal piccolo sarto Kachoudas, con i suoi tormenti e che, quando scopre che il vicino di casa è l’assassino ricercato dalla polizia, esita a lungo, incerto fra la paura e il desiderio di riscuotere la taglia. Invece il romanzo in epigrafe ha come centralità il cappellaio Labbé, il serial killer, mentre il piccolo sarto armeno, pur non passando in secondo piano, finisce con il diventare la naturale complementarietà dell’altro, perché entrambi finiscono con il diventare complici, in quanto condividono un orribile segreto. La riscrittura effettuata da Simenon rende più corposa l’opera, analizza in modo incisivo la complessa psiche di un assassino seriale, conducendo il lettore dentro un mondo di ombre indistinte, popolato di incubi, di cui il cappellaio Labbé è al contempo artefice e vittima. E’ un gioco di rara finezza, condotto sull’esile filo del rasoio (è sempre possibile uno scivolone che tolga la tensione, ma Simenon lo evita magistralmente). Ambientato a La Rochelle, in un autunno grigio, freddo e piovoso, la narrazione procede nella realtà di una comunità di modeste dimensioni, in una vita tutto sommato ripetitiva e monotona, fatta di ore e ore trascorse al bar per la ormai irrinunciabile partita di bridge, a cui la borghesia non può mancare, perché ormai è diventato un suo rito, un momento di contatto fra chi conta e si conosce da tempo immemorabile.
Ma questa tranquillità propria della piccola provincia viene bruscamente interrotta dagli omicidi, per strangolamento, di alcune signore anziane, e bene in vista, del luogo. A uno di questi assisterà anche il piccolo sarto Kachoudas, che già nutriva qualche  sospetto sul suo dirimpettaio, il cappellaio Labbé. Questi se ne accorge e se ne compiace, perché ora può dividere con un altro, peraltro assai pavido, il suo terribile segreto.
Il serial killer, mano a mano che uccide, con la polizia che brancola nel buio, crede di incarnare il potere assoluto, si convince di essere perfetto, ma, come sempre accade in questi casi, il vestito monolitico che si è costruito addosso per un caso fortuito registra un piccolo strappo; s’incrina così la folle e totale fiducia in se stesso e da allora sarà una progressiva esasperazione, una ripetuta e crescente sfiducia che finirà con il portarlo fra le braccia degli inquirenti.
La capacità di Simenon di analizzare gli individui, di entrare nella loro psiche qui raggiunge vertici straordinari e se la maggior parte dell’attenzione è riservata al serial killer, anche per gli altri personaggi c’è un interesse rilevante per il loro comportamento, per i fantasmi che agitano la loro mente, in primis per il piccolo sarto armeno, quel Kachoudas che più di tutti patirà il segreto di cui è venuto a conoscenza e che nel volgere di pochi giorni, complice la sua coscienza, finirà per travolgerlo.
E’ difficile non restare affascinati da questo romanzo, mai greve, avvincente pagina dopo pagina, con il lettore che gradualmente proverà un sentimento di pietà non solo per le vittime, ma anche per l’assassino, vittima lui stesso di se stesso.
I fantasmi del cappellaio è un vero gioiello e quindi ne raccomando vivamente la lettura.

 Georges Simenon, nato a Liegi nel 1903, morto a Losanna nel 1989, ha lasciato centonovantatré romanzi pubblicati sotto il suo nome e un numero imprecisato di romanzi e racconti pubblicati sotto pseudonimi, oltre a volumi di «dettature» e memorie. Il commissario Maigret è protagonista di 75 romanzi e 28 racconti, tutti pubblicati fra il 1931 e il 1972. Celebre in tutto il mondo, innanzitutto per le storie di Maigret, Simenon è anche, paradossalmente, un caso di «scrittore per scrittori». Da Henry Miller a Jean Pauhlan, da Faulkner a Cocteau, molti e disparati sono infatti gli autori che hanno riconosciuto in lui un maestro. Tra questi, André Gide: «Considero Simenon un grande romanziere, forse il più grande e il più autentico che la letteratura francese abbia oggi»; Walter Benjamin: «… leggo ogni nuovo romanzo di Simenon»; Louis-Ferdinand Céline: «Ci sono scrittori che ammiro moltissimo: il Simenon dei Pitard, per esempio, bisognerebbe parlarne tutti i giorni».

Le Centre d'études Georges Simenon et le Fonds Simenon de l'Université de Liège si trovano all'indirizzo: www.ulg.ac.be/libnet/simenon.htm.
Renzo Montagnoli

 

18/10/2012

L’altra faccia dell’unità d’Italia
1860 – 1862

di Pietro Zerella

Copertina di Wenzel Franz

Marco Del Bucchia Editore
www.delbucchia.it

Narrativa romanzo storico
Collana Vianesca/Poesia e narrativa

Controstoria

 E’ un’epoca la nostra in cui è in corso un generale revisionismo dei fatti storici, anche recenti, come accade per il fenomeno della Resistenza, da cui è nata la nostra repubblica. Non sempre questa rivisitazione è disinteressata e tesa alla ricerca della verità, ma spesso sottende motivi di carattere politico che spesso sono alla base di una diversa visione soprattutto per fatti abbastanza prossimi. Maggiore sincerità, invece, si riscontra quando lo storico torna indietro parecchio nel tempo; le passioni e le tensioni sono sopite e allora si cerca esclusivamente di raggiungere la verità, o comunque di avvicinarla. Così accade per quel lungo processo che nel XIX secolo ha portato all’unità d’italia, descritto a scuola con toni trionfalistici e comunque secondo le esigenze di quello che allora fu  il potere egemone. I Savoia tenevano a dimostrare che vollero recepire il grido di dolore degli italiani, soggiogati dallo straniero, per unirsi in un unico stato che poi si sarebbe chiamato Regno d’Italia. Non fu proprio così, anzi mai come in quella occasione fu costruita una storia di comodo, e non è solo un’opinione mia, ma è suffragata da tanti studi, come questo di Pietro Zerella dall’emblematico titolo L’altra faccia dell’unità d’Italia.  In questo libro, che l’autore definisce romanzo storico perché ricorre allo stratagemma di far raccontare i fatti dal fantasma del bisnonno, viene esaminata la famosa spedizione dei Mille e i primi tre anni (1860 – 1862) dell’ex Regno delle Due Sicilie, inglobato nel nuovo Regno d’Italia. Pietro Zerella è meridionale e non è certo un nostalgico dei borboni, ma riesce a essere piuttosto imparziale in questa revisione, dando spazio anche a chi la contesta.
Premetto che lo storico mai potrà arrivare alla verità assoluta, ma se le fonti sono varie e attendibili, se riuscirà a essere equidistante, di certo vi si potrà avvicinare. Zerella si è impegnato nell’arduo compito con zelo e con il suo libro fornisce una visione nuova degli anni di cui tratta, peraltro suffragata da studi, piuttosto recenti, di storici assai più noti.
Gli elementi salienti che emergono sono questi, in contrasto con la storia studiata a scuola:
la massoneria, soprattutto quella inglese, decretò il successo della spedizione dei mille, fornendo denaro per corrompere i comandanti militari borbonici e anche i maggiori politici napoletani. Dunque, il merito di Garibaldi viene ampiamente e, giustamente, ridimensionato. Il Regno delle Due Sicilie, per quanto inetto fosse il suo re, era pur sempre una realtà non dissimile dal Regno di Piemonte, che, nel cosiddetto risorgimento, non si interessò di liberare gli italiani (e del resto nemmeno loro presero la cosa a cuore), ma di annettere nuovi territori. Insomma, fu una guerra di conquista e non di liberazione. E ciò è tanto più vero ove si consideri quanto avvenne dopo l’annessione del Regno delle Due Sicilie, considerato una vera e propria colonia, con un marcato impegno a depredarla e a trattare i suoi abitanti alla stregua di selvaggi incivilizzabili. Ci fu indubbiamente un tentativo di restaurazione della precedente monarchia, ma furono anche la fame e le promesse disattese ad accendere quel fenomeno che troppo sbrigativamente, e per celarne la natura, fu chiamato “brigantaggio”. Fu una guerra per bande, sanguinosa e feroce, che costò ai meridionali un numero imprecisato di vittime, ma che alcune fonti fanno ascendere a più di centomila, se non addirittura a duecentomila. Si venne a determinare così una generale sfiducia verso lo stato che diede inizio a quel fenomeno, tuttora in essere, denominato più genericamente “La questione meridionale”.
E come precisa Zerella i protagonisti, ormai ombre, perdono molto dell’alone di luce mistica con cui si è voluto avvolgerli.
Di tutto il Risorgimento italiano vi sono personaggi che vanno messi sugli altari della gloria ed altri che sono stati delle meteore che hanno seminato solo morte e miseria.
Garibaldi l’idealista, l’eroe del tempo, la star europea, l’uomo che entusiasmava i giovani, li faceva sognare, fu utilizzato e spremuto come un limone e poi messo da parte e confinato nel suo eremo di Caprera, a volte sorvegliato a vista dalla flotta piemontese.
Cavour intelligente e cinico, vero uomo di stato senza scrupoli e senza anima, Mazzini il filosofo, l’educatore ma con mancanza si senso pratico. Vittorio Emanuele l’uomo di facciata, lontano dai meridionali, anzi li disprezzava.
Francesco II, troppo ingenuo e “ fesso” per il suo ruolo, anche se onesto.
Il generale Cialdini l’uomo che ha sulla coscienza migliaia di vittime e soprusi.
Nel bene e nel male, si ottenne l’unità d’Italia, ma a un prezzo decisamente insopportabile. I garibaldini, comparse della sceneggiata della spedizione dei mille, furono ben presto scaricati dai Savoia, tranne alcuni, che vi parteciparono da infiltrati e che poi entrarono a far parte del nuovo esercito del Regno d’Italia. Garibaldi, quasi paralizzato dall’artrosi, divenne un mito, ma ben isolato, e in quanto tale non pericoloso. Fu definito un grande stratega, ma non lo era, né per preparazione, né per indole; andava bene per attività di disturbo, di guerriglia, ma non aveva le capacità per comandare e dirigere un grande esercito. Cavour ottenne quel che voleva ed è ricordato come il grande tessitore, ma non lottò mai per l’unità d’Italia, bensì per l’arricchimento del Regno di Piemonte. Vittorio Emanuele II, il re galantuomo, era tutto il contrario, ottuso e venale. Francesco II, l’ultimo re delle Due Sicilie, era una persona seria, ma inetta, tuttavia si difese fino a quando poté a Gaeta. Come al solito la storia è scritta dai vincitori e infatti non parla dei soldati borbonici, fedeli fino all’ultimo, che non vollero passare ai piemontesi e che furono mandati a morire a migliaia nel lugubre forte di Fenestrelle. Se i sudditi di Francesco II sperarono in un nuovo corso, furono subito delusi: nuove ingenti tasse, la ferma obbligatoria per cinque anni che toglieva le migliori braccia all’agricoltura, il progressivo depauperamento del sud a vantaggio del nord furono le cause maggiori di un’ostilità che si manifestò con vere e proprie rivolte, sbrigativamente definite con il termine di brigantaggio. Furono anni di dolore e di orrore, da ambo le parti, ma chi ebbe più a patirne fu l’inerme popolazione civile e, se anche le cifre contrastano a seconda delle fonti, alla fine risultò un numero di vittime spropositato, quasi da genocidio.
Il libro di Zerella non ha la pretesa di svelare la verità assoluta, ma intende gettare luci dove la storiografia ufficiale ha oscurato i fatti. E’ un passo verso la verità, un piccolo passo per comprendere perché Massimo d’Azeglio ebbe a dichiarare “Ora che s’è fatta l’Italia, s’hanno da fare gli italiani.”. Appunto, sapere se siamo fratelli per volontà nostra o per imposizione d’altri nulla toglie all’evidenza che ormai siamo una nazione, ma molto aiuterebbe per averne la consapevolezza, per giungere a quella forte identità comune che sancisce e legittima un popolo.
L’altra faccia dell’unità d’Italia è un libro da leggere e da meditare, passo dopo passo invita alla riflessione su quanto ci è sempre stato insegnato e che in cuor nostro ci ha fatto dubitare.
L’autore, saggiamente equidistante, merita ogni plauso, perché non ha voluto stupire o scandalizzare, ma richiamare l’attenzione su fatti ed eventi non proprio conformi alla storiografia scolastica.
Quindi, più che un consiglio, il mio è una raccomandazione a leggere un libro di estremo interesse e peraltro scritto in modo esemplare e coinvolgente.

Nato a Beltiglio di Ceppaloni, Pietro Zerella vive a San Leucio del Sannio. Laureatosi in scienze politiche e sociali, è stato ispettore capo della polizia di stato. Oggi in pensione, svolge attività di promozione culturale. Vincitore di premi letterari, negli ultimi anni si è dedicato con particolare passione alla ricerca storica.
Renzo Montagnoli

 

10/10/2012

Saluti notturni dal Passo della Cisa
di Piero Chiara

A cura di Mauro Novelli
Introduzione di Giovanni Tesio
In copertina: Antonio Donghi, Donne per le scale (1929)
Firenze. Collezione Banca Toscana

Arnoldo Mondadori Editore
Narrativa romanzo

Collana Oscar scrittori moderni

 

Le molte verità

Correva l’anno 1986 allorché Piero Chiara, malato senza speranza di guarigione, scrisse questo romanzo, un po’ insolito, soprattutto per la collocazione geografica, per niente lacustre, protesa com’è da Bergamo a Lerici, ma con nel centro del mirino Langhirano, terra di prosciutti e che richiama un vago sentore godereccio, da sempre irresistibile per lo scrittore luinese. Non si pensi tuttavia di leggere di avventure che richiamano al riso, come nel riuscitissimo Il piatto piange, ma al più ci si può concedere qualche sorriso, come giusto del resto per un autore che si appresta a lasciare un mondo che ha sempre amato, descrivendolo con sottile ironia, portando alla luce vizi e difetti non certo per scopi moralistici, ma per ridere di noi stessi, ben lungi dall’essere perfetti e consapevoli che la vita è troppo breve per non essere vissuta.
Saluti notturni dal Passo della Cisa, che verrà pubblicato postumo, è un giallo che nasce da un fatto delittuoso realmente accaduto, tuttavia allineato alle esigenze di Chiara che voleva lasciare un’opera sul concetto di verità, un rompicapo dove tutto ciò che sembra logico non lo è e tutto quello che pare innaturale finisce con il diventare reale.
Un duplice delitto, forse non premeditato, in un’antica villa dove risiedono le vittime è un gioco d’arguzie che porterà a un finale sconcertante, come era già accaduto per La stanza del Vescovo e per I giovedì della signora Giulia.
Ci si chiede, infatti, se il dottor Salmarani, imputato degli omicidi, condannato  in Corte d’Assise e poi assolto in appello per insufficienza di prove, sia veramente colpevole e se esistano altre verità.
Se lo chiede anche sua moglie, figlia di una delle vittime, anzi lo chiede al marito e questo risponde: Ti ho messo davanti tutte le verità possibili. Scegli quella che ti va meglio.
Romanzo per certi aspetti enigmatico, Saluti notturni dal Passo della Cisa ripropone le eccellenti qualità dell’autore, che gioca qui fuori casa, ma le descrizioni del mar ligure, per chi scende dalla montagna, non sono meno efficaci di quelle di Luino, i personaggi godono di una loro autonoma propensione a dare impulso alla storia come in tutte le altre opere di Chiara e infine non manca uno spunto godereccio, una sublimazione dell’oggetto del desiderio che ben si riassume in questo periodo “La donna, che era nel fiore degli anni, mostrava quell’abbondanza di polpe che dai competenti non fu mai ritenuta grossezza o deformità, ma ricchezza di umori femminili e naturale predisposizione a profonderli. I suoi capelli, tra il rosso e il castano, lunghissimi e raccolti in una treccia improvvisata che le scendeva sulla schiena rotonda, apparvero, agli occhi del Salmarani che entrando nel locale la sorprese di spalle, come un segnale di via libera.”.
Così è descritta Maria Malerba, una delle due vittime, cameriera tuttofare, anche quello, per cui il movente potrebbe essere la gelosia, potrebbe, perché di mezzo c’è anche una montagna di denaro. E se gli interrogativi rimangono sull’identità del colpevole e sulla verità, ne restano pure altri sul movente, in un gioco di specchi che riflettono deformando.
Saluti notturni da Passo della Cisa è un romanzo stupendo, l’addio alla vita di un grande scrittore.

Piero Chiara nacque a Luino nel 1913 e morì a Varese nel 1986. Scrittore tra i più amati e popolari del dopoguerra, esordì in narrativa piuttosto tardi, quasi cinquantenne, su suggerimento di Vittorio Sereni, suo coetaneo, conterraneo e grande amico, che lo invitò a scrivere una delle tante storie che Chiara amava raccontare a voce. Da Il piatto piange (Mondadori, 1962), che segna il suo esordio vero e proprio, fino alla morte, Chiara scrisse con eccezionale prolificità, inanellando un successo dopo l'altro.
E’ stato autore particolarmente fecondo e fra le sue numerose pubblicazioni figurano Il piatto piange (1962), La spartizione (1964), Il balordo (1967), L’uovo al cianuro e altre storie (1969), I giovedì della signora Giulia (1970), Il pretore di Cuvio (1973), La stanza del Vescovo (1976), Il vero Casanova (1977), Il cappotto di Astrakan (1978), Una spina nel cuore (1979), Vedrò Singapore? (1981), Il capostazione di Casalino e altri 15 racconti (1986).
Renzo Montagnoli

 

4/10/2012

La pazza di Maigret
di Georges Simenon

Traduzione di Valeria Fucci
In copertina: I giardini delle Tuileries
(1969) Foto di Elliott Erwitt

Adelphi Edizioni
www.adelphi.it

Narrativa romanzo
Collana gli Adelphi – Le inchieste di Maigret
 
 

L’umanità di Maigret

C’è una vecchina, minuta come uno scricciolo, che si aggira intorno al Quai des Orfèvres; guarda, sembra che abbia paura a entrare, ma poi si decide e chiede al piantone del Commissario Maigret. Dice che ha una comunicazione della massima importanza. La prendono per una un po’ giù di testa, per un mitomane e non acconsentono alla sua richiesta. Tuttavia, un giorno, Maigret, che era stato informato di questa strana visitatrice, s’imbatte in lei all’uscita del lavoro e questa, calma e decisa, gli comunica che da un po’ di tempo, quando ritorna a casa, trova degli oggetti spostati. E abita sola, e non ha né cane né gatto.  Il commissario è indeciso, è ancora in buona parte convinto di avere di fronte una mitomane, ma gli occhi grigi e dolci contrastano con questa ipotesi. Sì, passerà a fare una visita, le dice, passerà domani.
Ma il giorno dopo viene rinvenuta cadavere, morta per soffocamento, nel suo appartamento.
Maigret quasi si sente in colpa e visitando il luogo del delitto vede l’ambiente di una persona sola, due volte vedova, ordinata, pulita e che attendeva l’arriva dell’ultimo tramonto.
Per quanto manchino indizi, il commissario s’impegna allo spasimo, conosce i pochi parenti, una nipote mascolina e decisamente brutta, pure lei sola e che paga gli uomini per un po’ di convivenza, il figlio che lei ha avuto senza contrarre matrimonio, un ragazzo un po’ hippy, ma che, a dispetto delle apparenze, è una brava persona, innamorato solo della sua musica e della sua chitarra; conosce pure il Lungo, l’attuale compagno della nipote, già noto alla polizia per essere un balordo, un magnaccia, un malavitoso di terz’ordine.
Le indagini si svolgono fra Parigi e Tolone, città in cui Maigret s’incontrerà con un noto gangster, ormai a riposo, da cui scoprirà la verità.
Romanzo di solitudini, che stridono come le corde di un violino sotto un archetto eccessivamente premuto, fatte però di drammi silenziosi, di passi perduti, di ore sempre uguali, La pazza di Maigret ci mostra ancor di più il volto umano del commissario, la sua capacità di mettersi nei panni degli altri, di assumere in sé dolori mai leniti.
La lettura è quindi senz’altro consigliata.

Georges Simenon, nato a Liegi nel 1903, morto a Losanna nel 1989, ha lasciato centonovantatré romanzi pubblicati sotto il suo nome e un numero imprecisato di romanzi e racconti pubblicati sotto pseudonimi, oltre a volumi di «dettature» e memorie. Il commissario Maigret è protagonista di 75 romanzi e 28 racconti, tutti pubblicati fra il 1931 e il 1972. Celebre in tutto il mondo, innanzitutto per le storie di Maigret, Simenon è anche, paradossalmente, un caso di «scrittore per scrittori». Da Henry Miller a Jean Pauhlan, da Faulkner a Cocteau, molti e disparati sono infatti gli autori che hanno riconosciuto in lui un maestro. Tra questi, André Gide: «Considero Simenon un grande romanziere, forse il più grande e il più autentico che la letteratura francese abbia oggi»; Walter Benjamin: «… leggo ogni nuovo romanzo di Simenon»; Louis-Ferdinand Céline: «Ci sono scrittori che ammiro moltissimo: il Simenon dei Pitard, per esempio, bisognerebbe parlarne tutti i giorni».
Le Centre d'études Georges Simenon et le Fonds Simenon de l'Université de Liège si trovano all'indirizzo: www.ulg.ac.be/libnet/simenon.htm.
Renzo Montagnoli

 

1/10/2012

Angeli caduti
di Beppe Iannozzi
In copertina Angeli caduti di Sebastiaqno Bongi Tomà

Cicorivolta Edizioni
www.cicorivoltaedizioni.com

Narrativa raccolta di racconti
Collana I quaderni di Cico
 

Un’energia creativa travolgente

Giuseppe Iannozzi non è di certo uno sconosciuto, almeno sul web, dove sono presenti alcuni suoi blog in cui pubblica un po’ di tutto, sia di suo che di altri, in un campo che spazia dalla poesia all’editoriale, ma soprattutto caratterizzato da numerose recensioni. Al riguardo di queste ultime, non sono infrequenti le stroncature, specialmente di lavori letterari di alcuni nomi nei confronti dei quali manifesta una spiccata avversione.
Ora ha deciso anche lui di fare un salto d’ambiente e di mettersi sul mercato editoriale con un volume di racconti intitolato Angeli caduti.
E’ certamente una prova del fuoco, e credo che lui ne sia ben edotto, perché un conto è fare il critico, magari non condiviso, e un altro è scrivere opere letterarie, inevitabilmente sottoposte a un giudizio non solo dei lettori, ma anche di recensori.
Bisogna dargli atto di un certo coraggio, anche se è mia opinione che gli stroncati non si faranno vivi con valutazioni negative, ma preferiranno ignorare, e non tanto per uno stile cavalleresco, quanto perché meno si parla di un libro, minore è la possibilità che possa destare interesse.
Ciò che stupisce in questi racconti - scritti senz’altro in epoche diverse, poiché è possibile notare una modifica, anche se non rilevante, dello stile - è l’energia esplosiva di questo autore, un’energia creativa che a volte lo porta a degli eccessi e che è mia convinzione che, qualora fosse ben controllata, porterebbe a dei risultati senz’altro più rilevanti. E così ci sono prose brevissime, quasi dei flash, che a mio parere meriterebbero una più ampia elaborazione, sulla base dell’argomento trattato, e altre che invece si dilungano eccessivamente, quando il tutto si potrebbe esaurire, con maggior convenienza e piacere, nel giro di tre-quattro pagine.
Quella che però è una costante è una visione pessimistica dell’umanità e quella consistente energia creativa appare più il risultato dello sfogo di un malessere che cova dentro, piuttosto che il frutto di una lunga meditazione di carattere filosofico, maturata negli anni e magari anche esacerbata da fatti contingenti.
Nonostante questo, ci sono racconti che non possono non destare interesse ed apparire appaganti, dopo l’inevitabile primo impatto con la scrittura di un autore che s’impone al lettore, quasi travolgendolo.
Il primo della raccolta, per esempio,  Amen, oltre a essere caratterizzato da uno stile che per alcuni aspetti e a tratti si ispira a quello di Saramago, di cui mi risulta che Iannozzi sia grande estimatore,  è un monologo che, pur essendo un urlo di dolore, assume le caratteristiche di una ineluttabile constatazione sul significato dell’esistenza, raggiungendo un vertice di misticismo non certo di maniera.
Bocca di rosa, invece, è una prosa breve che forse avrebbe meritato una più ampia elaborazione, ma che è intrisa di una violenza sconvolgente, quasi una rappresentazione della disumanità dell’attuale umanità.
La stessa forza incontrollabile si riscontra pure in Istantanea, mentre invece in Vincent il vecchio c’è un maggior controllo dell’energia creativa che sfocia in un racconto in cui la penna più che incidere pare sfiorare il foglio; ne risulta così una narrazione più fruibile, più portata a soffermarsi sul significato delle parole e cercare di comprendere quel gioco di “detto e non detto” che solitamente impreziosisce un lavoro letterario.
Come è possibile comprendere, quelle che ho appena nominato sono le prose che più mi hanno convinto e che anche mi sono risultate più gradite; poi, come succede in ogni raccolta di racconti, ce ne sono di buoni e meno buoni, ma direi che nel complesso il livello è soddisfacente.
Per concludere, pur rimarcando ancora una volta il marcato pessimismo che permea l’intero libro e quella forza che si sprigiona a volte incontrollata (e che se ben orientata porterebbe senz’altro a risultati migliori), mi sento di dire che Angeli caduti, per essere quasi un’opera prima (nel lontano 1994 Iannozzi ha pubblicato un romanzo), non è male e che quindi ci troviamo di fronte a un esordio sostanzialmente positivo, tale da rendere consigliabile la lettura.

Giuseppe Iannozzi, classe 1972, torinese di adozione, giornalista e critico letterario, nell'ormai lontano 2000 d.C. è stato il fondatore di uno dei primi lit-blog culturali su piattaforma Splinder, King Lear Officina Avanguardie, che nel 2007 è diventato Jujol Cultura e Spettacolo a cura di Iannozzi Giuseppe (jujoliannozzigiuseppe.wordpress.com).
Oggi tiene viva una pagina personale all'indirizzo iannozzigiuseppe.wordpress.com, oltre a un blog di sola critica letteraria (iannozzigiuseppe.blogspot.com). 
Dal 2010 scrive, insieme a RomanticaVany, poesie d'amore, tutte raccolte nel blog Biogiannozzi [& RomanticaVany] (biogiannozzi.splinder.com)-
Nel 1994 ha pubblicato il romanzo “Amanti nel buio di una stanza” (Editrice Nuovi Autori). Inoltre, con il servizio di autopubblicazione Lulu.com, ha reso disponibili al pubblico alcuni dei suoi lavori: “Premio Strega”, “Morte all'alba”, “Racconti di Nani e Giganti”, le raccolte poetiche “Nere. Gli anni delle innocenze”, “d'Amore” e “d'Amore 2” (insieme a RomanticaVany), più due instant book, “Cesare Battisti. Il fascista rosso” e “Il caso Marrazzo. Molte ombre e poca luce”.
Renzo Montagnoli

 

28/9/2012

Maigret ha paura
di Georges Simenon

Traduzione di Rossella Daverio
In copertina: Robert Doisneau, L’Inferno (1952)

Edizioni Adelphi
Narrativa romanzo
Collana Gli Adelphi

Follia singola e follia collettiva

Quarantaduesimo romanzo con il celebre commissario, Maigret ha paura fu scritto in soli 7 giorni durante il soggiorno negli Stati Uniti dell’autore.
Se qualcuno può pensare che l’atmosfera americana e l’influsso dei gialli d’azione degli scrittori statunitensi si siano riflessi nell’opera, dico subito che si sbaglia.
L’atmosfera e l’ambientazione sono tipicamente francesi, della piccola città di provincia, in cui da sempre appare preminente l’attività agricola.
La differenza rispetto agli altri romanzi con Maigret sta invece nella partecipazione del celebre commissario in veste di spettatore, uno spettatore non passivo, ma che, grazie al suo formidabile intuito e all’esperienza pluriennale, giunge a scoprire l’assassino di una serie di delitti inspiegabili che sconvolgono l’abitato di Fontenay-le Comte.
Ma che ci sta a fare così lontano dalla sua Parigi?
Di ritorno da un congresso di polizia tenutosi a Bordeaux decide di fermarsi nella cittadina della Vandea per incontrare il giudice istruttore Julien Chabot, suo vecchio amico dall’Università.
Arriva di sera e già c’è un omicidio, il terzo in pochi giorni, con vittima un ubriacone. I due precedenti hanno visto l’assassinio di un nobile decaduto e di un’anziana e povera levatrice.
Fra i tre delitti non esiste nesso, se non l’arma utilizzata, e cioè un corpo contundente, così che piano piano nel piccolo ambiente di provincia si insinua il sospetto che siano opera di un pazzo. La paura serpeggia, fa istituire dei gruppi di volontari che pattugliano le strade, fa rinascere odi sopiti fra la povera gente e i maggiorenti, fra i quali, soprattutto, i Vernoux, arricchitisi con il commercio di bestiame e diventati nobili grazie a un matrimonio di convenienza.
Il panico, che prende progressivamente piede, è tangibile e non resta immune nemmeno Maigret, i cui timori però rivengono dalla sempre meno remota possibilità che la folla voglia farsi giustizia da sé, che un qualsiasi sospetto diventi agli occhi accecati dall’odio come il colpevole.
Alla fine l’intricata trama si dipanerà e Maigret, senza aver condotto le indagini in prima persona, avrà la certezza di chi è il colpevole.
Giallo atipico, quindi, ma ricco di sfumature, con incisive annotazioni sull’eterno dissidio fra chi ha e non ha, Maigret ha paura avvince per la storia insolita, per le molte verità che affiorano pagina dopo pagina e per la mirabile descrizione dell’ordinaria follia che può travolgere uomini altrimenti del tutto mansueti.
Da leggere, quindi, e questo, più che un consiglio, è una raccomandazione.

Georges Simenon, nato a Liegi nel 1903, morto a Losanna nel 1989, ha lasciato centonovantatré romanzi pubblicati sotto il suo nome e un numero imprecisato di romanzi e racconti pubblicati sotto pseudonimi, oltre a volumi di «dettature» e memorie. Il commissario Maigret è protagonista di 75 romanzi e 28 racconti, tutti pubblicati fra il 1931 e il 1972. Celebre in tutto il mondo, innanzitutto per le storie di Maigret, Simenon è anche, paradossalmente, un caso di «scrittore per scrittori». Da Henry Miller a Jean Pauhlan, da Faulkner a Cocteau, molti e disparati sono infatti gli autori che hanno riconosciuto in lui un maestro. Tra questi, André Gide: «Considero Simenon un grande romanziere, forse il più grande e il più autentico che la letteratura francese abbia oggi»; Walter Benjamin: «… leggo ogni nuovo romanzo di Simenon»; Louis-Ferdinand Céline: «Ci sono scrittori che ammiro moltissimo: il Simenon dei Pitard, per esempio, bisognerebbe parlarne tutti i giorni».
Le Centre d'études Georges Simenon et le Fonds Simenon de l'Université de Liège si trovano all'indirizzo: www.ulg.ac.be/libnet/simenon.htm.
Renzo Montagnoli

 

27/9/2012

MADREFERRO

Laura Liberale

Ed. Perdisapop

Romanzo

L’idea pregnante di questo libro è un motivo topico della letteratura: la catabasi, un rivisitazione di essa in chiave postmoderna, ma con il substrato della tradizione mitica

La trasfigurazione dei luoghi natali in letteratura è sempre un rischio per l’incauto scrittore, è come calpestare quel terreno di buoni sentimenti e di slogan logori e sentimental-nostalgici: la propria terra sacra e intoccabile, foscolaniamente parlando: la madre terra! E’ in questo abbrivo fatale che s’innesta il libro Madreferro della Liberale, una sorta di catabasi nelle segrete e profonde radici di . La mitizzata Fabrica è sentita e vissuta dall’autrice come un essere vivente che succhia l’anima di chi ne respira la sua essenza più profonda, fauci animalesche che smembrano carne e visceri. I mostri dell’infanzia e adolescenza si mostrano alla piccola Laura nelle fattezze faunesche delle zie arpie, in un intrico di incubi allucinatori degni d un quadro di Daumier. Il ritorno al passato è un corpo dissezionato dall’autrice che  procede come  un emopatologo che fruga, esamina, pesa e soppesa, è come l’immersione nel magma incandescente di paure ancestrali, di demoni mai dormienti che fagocitano l’anima e quel sangue menorroico che scandisce i 28 giorni del racconto, come le fasi lunari e femminile, marca la terra e la intride in rivoli di pensieri incessanti. Il femminile domina e predomina sui personaggi maschili che sono in controluce, sfocati; la figura della madre scomparsa : “Il mio tempo con te è finito per sempre” ritorna in immagini icastiche, quelle delle zie, sia pure nefaste, suggellano, comunque, il suo io. E quel metallo, il ferro la cui polvere si mescola alla terra e che ricorre come ricostituente organico all’anemia. Un album da disegno che si apre su un nome e una data. Georgina de Martignac, Fabrica, 1 febbraio 1851, segna la mappa del suo itinerario nei luoghi dalla sua prima fanciullezza: il passato è una discesa sempre più luciferina dentro le ombre dense di fatti e misfatti mormorati, sussurrati e mai comprovati. L’espressività densa e nel contempo essenziale  della Liberale aderisce come una seconda pelle alla narrazione  degli eventi, trascolorati dal tempo in un serpeggiare di emozioni e tonalità stratificate che permeano tutto il percorso narrativo. Il libro  si trasforma in una favola politically uncorrect, il corollario di miti e leggende, rituali magici rimandano agli archetipi della narrazione orale, i personaggi negativi ( orchi e  streghe) sono gli oltraggiatori dell’innocenza. E’ un non rispettare le regole del gioco, andare controcorrente, seguire la propria ed irrinunciabile  natura affrancandosi da etichette e codificazioni. Il tutto non intenzionalmente premeditato, ma sofferto, perché rimanda adesione e pathos nel lettore. Questo breve romanzo o racconto lungo, che dir si voglia, è simile a quei romanzi che danno la chiave d’accesso all’interiorità altrui, all’anima, ai pensieri e non è poco.

Laura Liberale è nata Torino il 15.05.69, si è laureata in Filosofia con una tesi di Religioni e Filosofie dell’India e dell’Estremo Oriente. Dopo la laurea ha conseguito il titolo di Dottore di ricerca in Studi Indologici. Dal 2006 tiene corsi e seminari di Scrittura Creativa (per adulti e per studenti di elementari e medie). Autrice di saggi indologici, insegnante e bassista, ha ottenuto riconoscimenti in svariati premi di poesia e narrativa. Nel 2009 ha pubblicato il suo primo romanzo, Tanatoparty (Meridiano Zero, Padova) e la silloge poetica Sari - poesie per la figlia (d'If, Napoli). Nel 2011 è uscita la raccolta di poesie Ballabile terreo (d'If). Il suo secondo romanzo è Madreferro.
Arcangela Cammalleri

 

25/9/2012

La sorella di Mozart

di Rita Charbonnier

In copertina: Franz Xaver Wagenschoen,
Maria Antonietta alla spinetta
(olio su tela, 1770), Hofburg, Vienna

Edizioni Piemme
www.edizpiemme.it

Narrativa romanzo storico
Collana Paperback Adulti
Serie Bestseller

Il talento represso

Maria Anna Walburga Ignatia Mozart (Salisburgo, 30 Luglio 1751 – Salisburgo, 29 Ottobre 1829), meglio conosciuta come Nannerl, è stata la sorella maggiore di Wolgang Amadeus Mozart. Come capita sempre in questi casi, la luce del genio pone totalmente in ombra gli altri membri della famiglia, anche se nel caso specifico lei aveva un grandissimo talento non dissimile da quello del fratello, vocazione musicale soffocata sul nascere in funzione esclusiva della maggior gloria di Wolfgang.
Di questa donna, al servizio delle volontà del padre-padrone Leopold, Rita Charbonnier ci fornisce un ritratto di grandissimo spessore, facendo riemergere dall’oblio una figura le cui qualità musicali erano senz’altro indubbie.
Un romanzo storico per musicofili, si potrebbe pensare, ma non è così; certo l’arte ha il suo rilievo, e non potrebbe essere diversamente, quando si parla dei Mozart, ma quello che più conta è la condizione di subordinazione di un essere costretto all’infelicità, impossibilitato a esprimere le sue autentiche qualità, sia per il fatto di essere femmina, e quindi relegata al servizio del maschio, sia perché l’autorità paterna non aveva occhi se non per il figlio, ossessionandolo con la necessità di essere il migliore (e indubbiamente lo fu), ma rendendolo in tal modo un essere succube della sua arte, prigioniero delle sue pur celestiali note, insicuro, narcisista e infine squilibrato, perché non ebbe mai una normale giovinezza.
Anche se la storia di Wolfgang fa quasi da sfondo all’intera opera, la sua ombra aleggia sempre sulla sfortunata sorella, prima amorevole con lui, poi arrivata a un netto punto di rottura e infine di nuovo riappacificata dopo la di lui scomparsa.
Questa è una storia di desideri repressi, di vite disegnate da altri, della condizione della donna in un secolo che, per essere quello dei lumi, avrebbe dovuto parificarla all’uomo.
Eppure Nannerl è una donna che lentamente riesce a emergere dal baratro in cui è sprofondata e ciò grazie all’amore, un amore che non è condizionamento, ma reciproco rispetto. Ha infatti la fortuna di conoscere un barone, vedovo con prole e che ha  un’indole poetica, un’arte che si esprime certamente in tono minore, ma che riesce a riunire due talenti, di cui il primo, quello di Fraulein Mozart è indubbiamente superiore.
Non si tratta del primo uomo, poiché prima c’è un ufficiale austriaco, pure lui vedovo e con una figlia, allieva di Nannerl, che verrà sedotta e abbandonata da Wolfgang.
Di questo amore, interrotto in prossimità delle nozze, c’è un ampio resoconto in una corrispondenza, frutto di pura invenzione, ma che rende, con indubbia efficacia, i due protagonisti dei veri e propri “io” narranti, contribuendo così a meglio delineare le loro caratteristiche e snellendo la narrazione. Queste lettere, intercalate fra i vari periodi della vita di Nannerl, ci rivelano che questa aveva trovato nel sicuramente innamorato Maggiore Franz Armand d’Ippod, militare austriaco e come tale inflessibile e portato al comando, una figura simile a quella del padre, tale da infondere sicurezza, ma anche di limitare le possibilità di esprimere compiutamente la propria personalità.
Non sarà così con il barone Johann Baptist von Berchtold zu Sonnenburg, nel cui amore troverà finalmente appagamento e pace, tanto da ricongiungersi a quella famiglia che con il tempo aveva preso a detestare e, scomparso ancor giovane il fratello Wolfgang, si dedicherà anima e corpo a curare le edizioni delle sue numerose composizioni.
La sorella di Mozart è un romanzo complesso, ma affascinante, e, pagina dopo pagina, la figura di Nannerl entra nell’animo del lettore, condividendone gioie e dolori, e quando maturerà una compassione nei suoi confronti, nascerà però subito dopo la gioia per vederla finalmente felice.
Scritto in modo egregio, in un’atmosfera ricreata benissimo, con tutti i personaggi accuratamente delineati, anche i minori, è un’opera che incanta e che alla fine lascia un grande senso di serenità.
La sua lettura, quindi, non solo è consigliata, ma vivamente raccomandata, perché siamo in presenza di un autentico gioiello.
        

Rita Charbonnier,nata a Vicenza, ha vissuto a Matera, Mantova, Genova, Trieste, per poi stabilirsi a Roma. Ha fatto studi musicali e ha frequentato la Scuola di Teatro dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico di Siracusa. È stata attrice e cantante in teatro, recitando al fianco di celebri artisti. In seguito si è dedicata alla scrittura e, dopo aver collaborato come giornalista con riviste di spettacolo, ha iniziato a scrivere sceneggiature e infine romanzi, La sorella di Mozart, La strana giornata di Alexandre Dumas e Le due vite di Elsa, tutti molto apprezzati dai lettori.
Renzo Montagnoli

 

16/9/2012

Il vangelo secondo Gesù Cristo
di José Saramago

Traduzione di Rita Desti

Feltrinelli Editore
www.feltrinellieditore.it

Narrativa romanzo
Collana Universale Economica Feltrinelli

 

Un uomo di nome Gesù

È stata questa una lettura sofferta, trascinata nel tempo, con il libro chiuso e più volte riaperto, nell’ipotesi che nel romanzo di questo autore ateo potesse celarsi una spiritualità addirittura superiore a quella di un credente.
E ora che l’ho terminato, che mi si sono schiarite le idee e che le parole mi sovvengono a tratti, sia la sera prima di addormentarmi, che il mattino al risveglio, mi chiedo continuamente se può esistere un mondo in cui la grandezza di Gesù Cristo possa essere quella di tutti gli uomini, se il suo regno un giorno riesca a diventare quello dell’umanità e non una pomposa istituzione, privilegio di pochi, costruita sul sangue di tanti martiri e accresciuta fra violenze, stragi e torbidi affari.
L’unica cosa di cui ero certo prima di accingermi alla lettura era che non avrei assistito a una conversione di Saramago, e allora la domanda, inevitabile, mi frullava nella mente : non sono bastati quattro vangeli canonici, oltre a quelli apocrifi, e adesso vogliamo aggiungerne un altro; perché? Per riaffermare l’ateismo dell’autore? Per dissacrare la vita di Gesù? Per imporre la razionalità materialistica sulla trascendenza?.
Devo anche confessare che io, credente, avevo una sorta di timore cupo nello scorrere le pagine, quasi come se quella lettura potesse essere un peccato, ben superiore a quello originale, perché qui derivante dalla mia esclusiva volontà.
E con il peccato a tratti appariva la punizione, non tanto in un oltre tomba di castighi, quanto nel mondo dei vivi, tipo malattie, disgrazie, infortuni, retaggio di secoli in cui la Chiesa Apostolica Romana ci ha sempre mostrato un Dio vendicativo, irascibile, che non conosce il perdono, che punisce sia nella vita terrena che in quella successiva, una sorta di Moloch spaventoso più simile al diavolo che a un essere supremo che dovrebbe essere solo bontà.
Un Dio con la barba, quindi, e anche nel libro di Saramago non è glabro e appare in tutto e per tutto come quella divinità su cui una certa Chiesa ha fatto conto per asservire, per accrescere il suo potere.
Sin dalle prime pagine, già con il viaggio di Giuseppe e di Maria a Betlemme, mi sono tuttavia reso conto che in effetti Saramago ha teso a porre, come centralità del romanzo, l’essere umano, nel suo rapporto quasi indispensabile con un ente supremo che possa giustificare il perché nasce, il perché vive e soprattutto perché muore.
La quotidianità di un mondo arretrato in cui le donne sono essere inferiori  (non per niente sono nate da una costola di Adamo…), l’asprezza e la dolcezza del paesaggio, la ribellione latente per essere una colonia romana rivivono, come per incanto, davanti ai miei occhi; le descrizioni del Tempio di Gerusalemme, dei sacrifici della Pasqua scorrono come in una pellicola cinematografica, rendendo per certi  aspetti agevole la lettura, e senz’altro lo sarebbe ancor di più se si riuscisse subito a dare una risposta a quelle domande poste prima di aprire il libro.
È indubbio che la mia era una fretta di sapere, concorrendo fra di loro sia la naturale curiosità, sia quel senso di peccato che ora non ho più.
Dalla sua nascita fino alla sua morte in croce il Gesù saramaghiano è un uomo che, come tutti gli altri, combatte contro il destino, sia che questi sia una della volontà di Dio, sia che risulti scritto in un libro cosmico che traccia il nostro percorso.
Il  Dio dello scrittore portoghese è un Dio che appare sempre più feroce, un dio che vuole ampliare il suo regno a tutta la terra, insoddisfatto della poca popolazione ebraica che lo venera e che, per raggiungere il suo scopo, si avvale di Gesù, un intermediario della sua volontà e che cercherà di ribellarsi, per quanto inutilmente.
Nel corso di quaranta giorni e quaranta notti in cui, immersi nella nebbia, Gesù, Dio e il Diavolo s’incontreranno su una barca al centro del lago di Tiberiade, emergono i motivi per i quali un umile uomo dovrà sacrificarsi al suo dio. Una sete di potere, immensa, assolutistica intende ritrarre dalla morte con il supplizio della croce il primo martire, la novità che sconvolga i credenti ebrei, ormai assuefatti alla loro religione, e che possa trascendere i confini di quello stato, espandendosi a macchia d’olio per ogni dove, un nuovo immenso regno edificato sul sangue di innumerevoli vittime eroiche, eliminate nel modo più atroce, e ingrandito, fortificato, reso potente con altro sangue, con altre uccisioni, tutte nel nome di Dio.
E se guardiamo la storia della Chiesa apostolica romana, purtroppo, c’è da ammettere che è così, pur fatte salve non poche figure di religiosi autenticamente buoni e giusti.
Il potere e la gloria promessi a Gesù e che si avvereranno grazie alla sua morte finiscono quindi con l’essere l’inizio di un mondo di orrori e la passione del Cristo diventerà quella di tutti gli uomini mansueti, di quelli che si ribelleranno all’imposizione di una spiritualità disumana e che cercheranno di trovare un Dio senza più la barba.
Non so se questa chiave di lettura, cioè una critica alla Chiesa cattolica che ci ha sempre dipinto un Dio tiranno, sia giusta, ma comunque non ne esclude altre, fra cui ricomprenderei anche quella di un’indipendenza interiore nella ricerca del senso della vita.
Ogni tanto, nel romanzo, ci sono delle discontinuità, o comunque degli eccessi, come per esempio quello del rapporto sessuale fra Gesù e Maria di Magdala, ma la reciproca conoscenza che lo precede è di rara bellezza, l’incontro di due esseri predestinati, con il riscatto dell’una e il completamento come uomo dell’altro.
E poi ci sono pagine veramente indimenticabili, come la morte sulla croce di Giuseppe, il padre di Gesù, e di Gesù stesso, che pronuncia la famosa frase, qui modificata e rivolta non tanto a Dio, ma agli uomini “Uomini, perdonatelo, perché non sa quello che ha fatto.”.
Fra tutte le figure e i personaggi un discorso a parte merita Pastore, cioè il Diavolo, che dovrebbe essere l’opposto di Dio, e che in effetti lo è. Di fronte a una divinità sanguinaria, Lucifero, ex angelo degradato e cacciato, sembra l’unico ad avere pietà per gli uomini ed é sempre l’unico che aiuta Gesù nell’affrontare il difficile percorso della vita, disposto perfino a sacrificarsi, rinunciando al male che porta dentro, affinché di quello stesso male non si cibi più Dio, salvando così il Cristo e impedendo la nascita e l’ampliamento di un Regno basato solo sul sangue versato da centinaia di migliaia di vittime.
Leggetelo con calma, perché, se non è forse il capolavoro di Saramago, tuttavia non potrà che affascinarvi e restarvi dentro.

 José Saramago è nato nel 1922 ad Azinhaga, in Portogallo. Due anni dopo la sua nascita, la famiglia dello scrittore si trasferisce a Lisbona dove il padre lavora come poliziotto. Le difficoltà economiche in cui la famiglia versa, lo costringono ad abbandonare gli studi e a intraprendere diversi lavori. Fa così il fabbro, il disegnatore, il correttore di bozze, il traduttore, il giornalista, e il direttore letterario e di produzione in una Casa editrice.
Nel 1947 pubblica il suo primo romanzo, Terra del peccato che riceve una tiepida accoglienza. Sono gli anni bui della dittatura di Salazar: Saramago subisce costantemente la censura del regime sui suoi scritti giornalistici ed è tenuto sotto controllo dalla Pide, la polizia politica salazariana, a cui riesce sempre a sfuggire, anche quando – nel 1959 – si iscrive al Partito Comunista Portoghese, allora clandestino.
Negli anni sessanta l’attività pubblicistica di Saramago è indirizzata verso la critica letteraria, e nel 1966 dà alle stampe la sua prima raccolta di poesie, I poemi possibili". Seguono, nel 1970 la raccolta Probabilmente allegria e le cronache Di questo e d'altro mondo del 1971, Il bagaglio del viaggiatore del 1973 e Le opinioni che DL ebbe del 1974.
Nel 1974, l’anno della “Rivoluzione dei Garofani” - il colpo di Stato militare che sancisce la fine del regime fascista in Portogallo – si apre una nuova fase nell’attività letteraria di Saramago che si concretizza nel romanzo del 1977 Manuale di pittura e calligrafia, mentre l’anno successivo pubblica Una terra chiamata Alentejo. Sempre in questo periodo scrive per il teatro (La notte, 1979 e Cosa ne farò di questo libro?) un attività che continuerà anche negli anni successivi (La seconda vita di Francesco d'Assisi, 1987; In Nomine Dei, 1993 e Don Giovanni, o Il dissoluto assolto del 2005).
Nel 1982 pubblica Memoriale del convento (edito in Italia da Feltrinelli nel 1984), il romanzo che gli dà notorietà a livello internazionale. Seguono L'anno della morte di Ricardo Reis (1984, Feltrinelli 1985), La zattera di pietra (1986), Storia dell'assedio di Lisbona (1989).
Negli anni novanta escono Il Vangelo secondo Gesù Cristo (1991),
Cecità (1995) e Tutti i nomi (1997). Il primo decennio del 2000 è il più prolifico dell’attività di scrittore di Saramago, che dà alle stampe ben sette romanzi: La caverna (2001),L'uomo duplicato (2002),Saggio sulla lucidità (2004),Le intermittenze della morte (2005),Le piccole memorie (2006),Il viaggio dell'elefante (2008) e Caino (2009, ed. it. Feltrinelli 2010).
Nel 1998 gli viene assegnato il Premio Nobel per la Letteratura, riconoscimento che suscitò molte polemiche nel mondo cattolico per le sue ben note posizioni antireligiose. Polemiche che lo hanno fatto decidere di trasferirsi a Lanzarote, nelle Isole Canarie.
E' morto nel giugno 2010.
Renzo Montagnoli

 

10/9/2012

Quaderno di un tempo felice
di Piero Chiara

Introduzione di Andrea Paganini
In copertina Piero Chiara a cinque anni e mezzo (Luino, 1918)

Nino Aragno Editore
www.ninoaragnoeditore.it

Narrativa
Collana Passages

I primi scritti

Piero Chiara raggiunse il successo letterario quando era prossimo alla cinquantina (è del 1962 Il piatto piange, il suo primo romanzo di grande notorietà); quindi, un po’ tardi si direbbe per uno scrittore del suo livello, e pensare che aveva esordito nel 1945 con una silloge poetica, Incantavi, tutta soffusa di sentimenti malinconici, in una sorta di tempo sospeso, meglio ancora trasognato.
Fra queste due date (1945 e 1962) l’autore luinese aveva tuttavia ultimato una vasta e varia produzione, pubblicata poi su diversi giornali svizzeri, fra i quali “Il giornale del Popolo”, di Lugano e, soprattutto, “Ore in famiglia”, un periodico ticinese di carattere popolare e di ispirazione cattolica.
Questi scritti, non tutti in verità, sono poi stati riuniti in questo volume “Quaderno di un tempo felice” e costituiscono un’indispensabile mezzo per poter conoscere veramente Piero Chiara. Ci sono racconti, reportage di viaggio, alcune critiche letterarie, tre riassunti di romanzi famosi, nonché, a riprova dei molteplici interessi dell’autore, perfino un trattato ornitologico intitolato Dodici descrizioni di uccelli silvani.
Preciso che, per quanto concerne le critiche letterarie, peraltro limitate a Vittore Frigerio e a Miguel Hernandez, le stesse appaiono approssimative, non incisive, roboanti di elogi senza che vi sia a fronte la motivazione, insomma sotto questo aspetto Chiara dimostra una scarsa attitudine, tanto che le si potrebbero definire buone solo per lettori poco attenti e comunque poco interessati alla letteratura.
Il trattato ornitologico, invece, si legge con piacere, ravvisando quel tono spesso scanzonato, a metà fra l’ironia e la satira, proprio dell’autore.
Riusciti e molto belli sono i riassunti di Benito Cereno e di Billy Budd, entrambi di Herman Melville; e di La linea d’ombra, di Joseph Conrad; in tutti è di palcoscenico il mare e Chiara sembra avvinto dalla sua arcana forza e bellezza, riuscendo a coinvolgere e, pur nella inevitabile sintesi, a rendere benissimo l’atmosfera, spesso spettrale, dei testi originari.
I racconti sono di sicuro interesse anche perché sono autobiografici e in essi il protagonista è sempre lui, l’autore, con i ricordi dell’infanzia e le bellissime descrizioni di Luino. Fra tutti il mio preferito è Il povero Bram, la storia di un panificatore, tutto casa e lavoro, di animo mite e gentile, anche quando la sfortuna lo colpisce e perfino in prossimità di una morte prematura.
I personaggi sono quelli di tutti i giorni, non di elevato lignaggio, anzi spesso poveri e destinati a soccombere. In queste prose non troviamo la licenziosità dei suoi più famosi romanzi, ma sono pervase da quella sottile ironia che ben riesce ad addolcire la malinconia delle vicende, anche perché si tratta della sua infanzia, un’epoca a cui si ripensa quando si è avanti con gli anni e che ci sembra sempre luccicante, come il più puro degli ori, un tempo che non possiamo che considerare felice.
I reportage di viaggi sono, a mio parere, la parte migliore di questo libro, perché Chiara, non solo con la descrizione, ma anche con la capacità di ricreare le atmosfere, ci offre una visione di luoghi ben oltre le nostre aspettative.
E così con Recanati si rivive l’epoca di Leopardi e con Lucca lo spirito di una città antica che è frastornata dalla modernità; la Sardegna è vista come un mondo arcaico, aspro e dolce al tempo stesso.
Il meglio, però, è costituito dai resoconti dei viaggi in Spagna. Sarà perché le città di cui scrive (Cadice, Siviglia, Ronda, Cordova e Granada) sono da me ben conosciute,  ma resta il fatto che è riuscito a cogliere le loro caratteristiche più esaltanti e lo spirito dei suoi cittadini (al riguardo è veramente stupenda la descrizione del tramonto visto a Granada da l’Alhambra, così come l’atteggiamento della gente durante la corrida). E a proposito di corrida è un’autentica chicca la sua Piccola Guida; lungi dall’approvare questo spettacolo credo che Chiara abbia saputo cogliere con talento e ironia il significato della tauromachia, i suoi fasti, i suoi eroi, le sue vittime, quell’appuntamento con la morte e con la vita che si misura ogni pomeriggio in un’arena sabbiosa.
Da leggere.

Piero Chiara nacque a Luino nel 1913 e morì a Varese nel 1986. Scrittore tra i più amati e popolari del dopoguerra, esordì in narrativa piuttosto tardi, quasi cinquantenne, su suggerimento di Vittorio Sereni, suo coetaneo, conterraneo e grande amico, che lo invitò a scrivere una delle tante storie che Chiara amava raccontare a voce. Da Il piatto piange (Mondadori, 1962), che segna il suo esordio vero e proprio, fino alla morte, Chiara scrisse con eccezionale prolificità, inanellando un successo dopo l'altro.
E’ stato autore particolarmente fecondo e fra le sue numerose pubblicazioni figurano Il piatto piange (1962), La spartizione (1964), Il balordo (1967), L’uovo al cianuro e altre storie (1969), I giovedì della signora Giulia (1970), Il pretore di Cuvio (1973), La stanza del Vescovo (1976), Il vero Casanova (1977), Il cappotto di Astrakan (1978), Una spina nel cuore (1979), Vedrò Singapore? (1981), Il capostazione di Casalino e altri 15 racconti (1986).
Renzo Montagnoli

 

3/9/2012

Il sentiero dell’onore
di Marco Salvador

Edizioni Piemme
www.edizpiemme.it
Narrativa romanzo
 

L’arduo sentiero dell’onore

Marco Salvador mi ha abituato troppo bene, perché quando ho voglia di leggere un libro che possa essere sicuramente avvincente non ho da far altro che acquistare uno dei suoi romanzi storici, veri e propri affreschi di certe epoche, che non solo risultano estremamente piacevoli, ma che hanno anche il pregio di evidenziare chiaramente quelle che dovrebbero essere le caratteristiche nobilitanti di ogni essere umano: la coerenza con i propri principi, il ripudio di ogni vanità nell’interesse di un’idea che elevi sé e gli altri, la consapevolezza dei propri limiti e perciò l’umiltà, un’umiltà che è grandezza, superiore a ogni effimero successo basato solo sul tornaconto personale e sulla brama di potere.
Così è stato nel bellissimo trittico sui Longobardi (Il Longobardo, La vendetta del Longobardo, L’ultimo Longobardo) e così è nell’ultimo stupendo trittico su Ezzelino da Romano e i suoi successori, vale a dire La palude degli eroi, L’erede degli dei e questo Il sentiero dell’onore, così diverso dagli altri, pur nella loro inconfondibile scia.
Nelle storie di Guido, figlio di Corrado, generato da altro Corrado, a sua volta figlio di Alberico, ultimo discendente di Ezzelino da Romano, e di Nicolò, esposte da un io narrante che poi diventerà lui stesso protagonista, si raccoglie un arco di tempo piuttosto lungo (dall’ultimo periodo del Medioevo a larga parte del Rinascimento), con le convulse vicende della Patria, di quelle terre friulane contese da Impero e Serenissima, pronti ad alimentare, per i propri interessi, le numerose faide che contrappongono i potenti di quello che un tempo fu uno stato forte, il Patriarcato di Aquileia.
Divorato da lotte intestine, da nobili e borghesi continuamente tesi a impadronirsi del potere, fra alleanze che si sciolgono in tradimenti, che si rinnovano, che chiedono soccorso all’esterno, la fine di un’indipendenza è descritta in modo mirabile. Si respira l’aria putrescente della continua slealtà, di chi ignora il senso dell’onore, in convulse e drammatiche vicende che, per quanto in altre vesti, richiamano tanto l’attuale situazione del nostro paese.
C’è, però, chi antepone ai propri gli interessi comuni (e oggi sarebbe considerato un utopista), c’è chi percorre l’angusto e ripido sentiero dell’onore, alla fine del quale non troverà mai la gloria, se non quella del proprio sacrificio, l’unica ricompensa per chi nell’umiltà ha cercato un altro senso della vita, una ricongiunzione con la natura in un appagamento derivante dal tentativo di dare un volto umano a un’esistenza altrimenti propria dell’homo homini lupus.
Che si tratti di Guido o di Nicolò poco importa, e non è tanto perché sono i semi generati da Ezzelino da Romano, bensì perché sono stati allevati nel rispetto per se stessi, che consiste prima di tutto nell’obbligo non solo di non venir mai meno alla parola data, ma di perseguire senza cedimenti quegli ideali di giustizia che da soli possono giustificare un’esistenza e anche la sua fine.
Tradimenti, sottili ambiguità del potere animano così queste pagine, nefasti segni di una decadenza a cui l’autentica nobiltà di Guido e di Nicolò non potrà trovare rimedio; eppure, in questo marciume essi sono due fiori che indicano la strada per una possibile futura redenzione, così come Ambrosia, della cui breve vita fa cenno l’io narrante nell’introduzione, è il simbolo di una purezza d’animo che ai più può apparire incomprensibile. Questa fanciulla un po’ strana cerca rifugio sotto un letto per non udire i lamenti dell’erba recisa dalla falce o il dolore degli alberi quando vengono tagliati, e proprio per questo quando la Serenissima procederà al taglio di un intero bosco in cui Ambrosia trova spesso rifugio, questa preferirà darsi la morte per annegamento.
Si tratta di pazzia, direte senz’altro. Certamente, ma il confine fra la follia e l’eroismo è talmente labile e sottile che è difficile cogliere le sostanziali differenze, anche perché in questo caso permane quella coerenza di comportamento che porterà questa stramba ragazza di paese alla sua tragica fine, propria di chi, grande o piccolo che sia, in silenzio ha saputo percorrere il sentiero dell’onore.
Questo libro, come tutti gli altri di Salvador, è semplicemente stupendo.

Marco Salvador è nato a San Lorenzo, in provincia di Pordenone, nella casa in cui vive tutt’oggi. Ricercatore storico, per professione e per passione, con un interesse particolare per il Medioevo, ha pubblicato numerosi saggi sulle comunità rurali nel medioevo e sulle giurisdizioni feudali minori. Inoltre ha scritto sei romanzi: Il longobardo (Piemme, 1^ Edizione 2004, 2^ Edizione 2008), La vendetta del longobardo (Piemme, 2005), L’ultimo longobardo (Piemme, 2006), La casa del quarto comandamento (Fernandel, 2004), Il maestro di giustizia (Fernandel, 2007), La palude degli eroi (Piemme, 2009) e L’Erede degli Dei (Piemme, 2010).
Renzo Montagnoli

 

28/8/2012

Il caso Saint-Fiacre

di Georges Simenon

Traduzione di Giorgio Pinotti
In copertina Clarence John Laughlin,
Lo specchio del tempo che fu (1946)

Adelphi Edizioni
Narrativa romanzo
Collana Gli Adelphi

Un’indagine sul filo dei ricordi

 Georges Simenon, scrittore belga di lingua francese, è stato autore di una produzione copiosissima, con centinaia di romanzi e di racconti, di diversi generi, ma con una spiccata preferenza per il giallo e in quest’ambito a lui si deve la creazione di uno dei personaggi più amati in letteratura, cioè il commissario Jules Maigret. Sono numerose le trame (ben 75 romanzi e 28 racconti) che vedono protagonista il riflessivo poliziotto parigino, un investigatore a cui piace immergersi nell’atmosfera propria dei luogo in cui è stato commesso il crimine, seguendo il suo istinto, il suo fiuto di segugio, che non viene meno anche in presenza del fumo della sua immancabile pipa.
I gialli che lo vedono protagonista differiscono da quelli in auge fino agli anni ’20 del secolo scorso, caratterizzati da perfette geometrie proprie di delitti perfetti, o quasi, da investigatori che sembrano dei superuomini, con ambientazioni di prestigio, o comunque altolocate.
Maigret è tutto fuorché perfetto, è riflessivo, ma è l’istinto che lo guida, così come l’ambiente è quello più assai diffuso, cioè quello popolare e anche piccolo borghese.
Più che la vicenda, i ragionamenti per arrivare a individuare il colpevole, per Simenon ciò che conta é l’individuo in quanto tale, anche con i suoi sentimenti, con i suoi motivi per i quali è giunto al crimine.
Alla fine del racconto in cui ci sé deliziati della caratterizzazione dei personaggi e dell’atmosfera, sempre particolarmente curata, è inevitabile poi che Maigret arrivi a scoprire il colpevole.
Non è così, però, in Il caso Saint-Fiacre, con il nostro investigatore che, a seguito di un messaggio anonimo che annuncia una prossima morte, si reca in tutta fretta da Parigi a Saint Fiacre, paesino di campagna che prende il nome dal nobile del posto, di antica casata.
Per Maigret è un ritorno alle origini, perché lì ha trascorso la giovinezza, perché lì è sepolto suo padre, che era proprio l’intendente del conte di Saint-Fiacre.
E’ autunno, è freddo, la campagna è spettrale e proprio alla prima messa, come indicato nel messaggio anonimo, la contessa viene a mancare all’improvviso. Delitto o morte per cause naturali? O una via di mezzo fra l’una e l’altra possibilità?
Nella gretta atmosfera di un piccolo borgo agricolo, Maigret si lascia condurre quasi da spettatore degli eventi; annota, però, indaga in silenzio, ma la verità, che lui aveva già intuito, sortirà al termine di una cena grottesca al castello dei Saint-Fiacre, l’ultimo baluardo di una famiglia in estinzione, di una nobiltà ormai decaduta.
Lo stile è scarno, diretto, ma si respira a pieni polmoni l’aria di sospetto che si aggira in quel luogo, dove più d’uno poteva aver motivi per commettere il crimine, ma fra i quali uno solo è il colpevole, smascherato per di più da uno dei sospetti.
Da questo straordinario romanzo è stato tratto nel 1958 un film altrettanto famoso, Maigret e il caso Saint-Fiacre, diretto da Jean Delannoy e interpretato, nella parte di Maigret, da un grande Jean Gabin. 
Il romanzo è assai piacevole e quindi la lettura è senza dubbio consigliata.           

Georges Simenon, nato a Liegi nel 1903, morto a Losanna nel 1989, ha lasciato centonovantatré romanzi pubblicati sotto il suo nome e un numero imprecisato di romanzi e racconti pubblicati sotto pseudonimi, oltre a volumi di «dettature» e memorie. Il commissario Maigret è protagonista di 75 romanzi e 28 racconti, tutti pubblicati fra il 1931 e il 1972. Celebre in tutto il mondo, innanzitutto per le storie di Maigret, Simenon è anche, paradossalmente, un caso di «scrittore per scrittori». Da Henry Miller a Jean Pauhlan, da Faulkner a Cocteau, molti e disparati sono infatti gli autori che hanno riconosciuto in lui un maestro. Tra questi, André Gide: «Considero Simenon un grande romanziere, forse il più grande e il più autentico che la letteratura francese abbia oggi»; Walter Benjamin: «… leggo ogni nuovo romanzo di Simenon»; Louis-Ferdinand Céline: «Ci sono scrittori che ammiro moltissimo: il Simenon dei Pitard, per esempio, bisognerebbe parlarne tutti i giorni».

Le Centre d'études Georges Simenon et le Fonds Simenon de l'Université de Liège si trovano all'indirizzo: www.ulg.ac.be/libnet/simenon.htm.
Renzo Montagnoli

 

28/7/2012

Armance
di Stendhal

Introduzione di Piergiorgio Bellocchio
Traduzione di Franco Cordelli

In copertina David Johnston di Pierre Paul Proud’hon (1808),
Washington, The National Gallery of Art

Garzanti Editore
Narrativa romanzo
Collana I grandi libri
 

Il primo romanzo

Armance era una nipote molto povera delle signore de Bonnivet e de Malivert, quasi della stessa età di Octave, e poiché si erano reciprocamente indifferenti, i due si parlavano con assoluta franchezza. Dopo tre quarti d’ora trascorsi col cuore gonfio d’amarezza, Octave fu colpito da questa idea: Armance non mi fa moine, è la sola qui ad essere estranea a questo raddoppiamento d’interesse che devo a un poco di denaro, lei sola, qui dentro, ha una qualche nobiltà d’aqnimo. E l’unico motivo di consolazione fu di guardare Armance.”

Di certo Stendhal è conosciuto di più per Il Rosso e il Nero e per La Certosa di Parma, due romanzi che mantengono inalterato ancor oggi il loro grande valore letterario, due autentici classici che non risentono delle scorrere del tempo, indifferenti alle mode letterarie, sempre capaci di avvincere il lettore con la loro straordinaria attualità.
L’autore francese ha scritto anche altre opere, che si potrebbero definire, senza esagerazioni, di eccellenza; con l’abitudine che a volte si ha di procedere come i gamberi, fra queste mi sono imbattuto in Armance, il suo primo romanzo, dato alle stampe nel 1827.
Preciso subito che se agli occhi di chi già si è entusiasmato per Il Rosso e il Nero e per La Certosa di Parma questo racconto intriso di romanticismo può sembrare modesto, all’epoca invece trovò uno scarso successo per motivi del tutto opposti, legati allo stile di scrittura, non ridondante, scarno, che va soprattutto al sodo, per l’ambientazione, per la capacità di evidenziare i difetti di una nobiltà marcescente, per l’introduzione di un discorso politico e sociale del tutto rivoluzionario per quegli anni di Restaurazione.
A una lettura più attenta, liberandosi dagli stilemi propri del romanticismo che danno alla vicenda amorosa di Armance e di Octave quei toni eccessivi che passano dalla disperazione alla felicità in continua alternanza, devo dire che questo primo romanzo è invece particolarmente affascinante, riuscendo gradualmente ad avvincere in un crescendo che poi si conclude in tre righe di una bellezza sconcertante, ma che sono ben significative di una classe (i nobili) in via di progressiva estinzione, perché hanno fatto il loro tempo.
La straordinaria capacità dell’autore di descrivere i personaggi di questa casta, chiusa in un mondo che si va spegnendo, i loro rapporti interpersonali, la loro vuota esistenza, mentre il mondo di fuori reclama di vivere in altro modo chiedendo il riconoscimento di una posizione di rilievo solo per capacità, e non per nascita, sono frutto di idee nate con la Rivoluzione francese, portate in parte avanti con Napoleone, di cui Stendhal era fervente ammiratore, e poi soffocate dopo Waterloo, come se con una battaglia si potesse fermare un progresso inarrestabile, agevolato, per di più, da una naturale decadenza che nessuna legge e nessun potere costituito poteva arrestare.
Penso, inoltre, che Stendhal sia riuscito a delineare due protagonisti perfettamente complementari, due vite che non avrebbero potuto che incrociarsi.
Infatti, Octave, nobile di grandi origini, e Armance, anch’essa blasonata, ma di più modesto lignaggio,  sono due giovani in cui sboccia un amore esclusivamente platonico, una sorta di affetto che trasforma l’amicizia in un sentimento più forte, rispettosi l’uno dell’altro, in particolare lei, sempre pronti a tormentarsi o a gioire al massimo livello, in un avvicendarsi di sole e di buio, di giorno e di notte, condizionati dal loro rango, ma al tempo stesso inconsapevolmente desiderosi di rompere le catene di una società gretta, fatua, senza domani.
Lui è turbato, ha momenti quasi di pazzia, altri di estasi, altri ancora di depressione, ma lei lo ama, perché l’amore è irrazionalità, è un sentimento che nasce all’improvviso e di cui solo in seguito si cercano eventualmente le motivazioni.
È tenera, dolce Armance, ma ha carattere, un carattere che le  permette di andare oltre  le stranezze di Octave, quasi pazzie si potrebbero definire, ingiustificabili agli occhi degli altri, ma una causa c’è, un orribile segreto che lui tiene tutto per sé, un fardello che grava come un macigno e di cui solo a volte riesce a dimenticarsi, ed è in quei momenti che si sente veramente felice, che assapora l’ebbrezza dell’amore.
Di che si tratti si arriverà a capirlo poco a poco ed è questa un’altra straordinaria abilità di Stendhal, con quel graduale coinvolgimento, con quel dubbio che sorge al lettore all’improvviso, che ricaccia, perché gli appare impossibile, ma che poi ritorna, tanti piccoli tasselli che vanno componendosi come in un mosaico e alla fine quell’ipotesi che poteva apparire insensata si rivela veritiera.
Il suo è un problema irresolubile, una disfunzione senza possibilità di cure, un dramma che lo perseguita.
Octave soffre d’impotenza e questa finisce con il diventare la metafora di una classe sociale senza nerbo, agonizzante e prossima alla fine. E così il protagonista maschile, naturalmente diverso, è portato a una progressiva drammatica autoemarginazione, dando vita a un personaggio indimenticabile, di forte spessore, come lo saranno, nei due più famosi romanzi successivi, Julien Sorel e Fabrizio del Dongo.
Armance è un’opera che si legge con passione e che resta dentro per sempre, un altro capolavoro di Stendhal.

Stendhal, pseudonimo di Marie-Henry Beyle nacque a Grenoble il 23 gennaio 1783 e morì a Parigi il 23 marzo 1842.
Ebbe una vita avventurosa e scrisse numerosi libri, molti dei quali di grande successo ancor oggi.
La sua produzione letteraria comprende, fra gli altri, La certosa di Parma, La Badessa di Castro, Il Rosso e il Nero, Vita di Napoleone, Armance, Lucien Leuwen, Ricordi d’egotismo,   Passeggiate romane, Vanina Vanini, Vita di Henry Brulard, L’amore.
Renzo Montagnoli

 

26/7/2012

Vorrei essere un cartone animato!

(…ritorno a Fantasyland)

di Giuseppe Gambini

Presentazione di Maddalena De Leo

Ilmiolibro.it

www.ilmiolibrokataweb.it

Narrativa

Una favola per tutti

Ho conosciuto Giuseppe Gambini nel corso di una premiazione del Concorso Letterario L’Arcobaleno della vita, di cui era uno dei giurati. Gentile, disponibile, ho poi avuto modo di leggere la sua produzione letteraria (una delle sue passioni, insieme con il teatro), costituita soprattutto da poesie introspettive o di impegno civile, che evidenziano una sensibilità innata, oltre a sentimenti espressi con naturalezza, perché non costruiti, ma propri dell’autore.
Vorrei essere un cartone animato! rappresenta la sua prima opera di prosa date alle stampe, anche se Gambini risulta presente in molte antologie con poesie e racconti.
Premetto subito che ci troviamo di fronte a una favola, a carattere didascalico, e perciò non solo destinata ai più piccini, ma anche appetibile agli adulti.
Per quanto ovvio, la fantasia domina, quella fantasia che sembra assente in molti bambini, già condizionati dalla TV oppure ingozzati di giochi elettronici che non lasciano spazio a una libera visione delle cose. La lettura diventa sempre più rara, mentre cresce un indottrinamento che, privando della libertà di immaginare autonomamente, li rende abulici, disinteressati e sostanzialmente già infelici.
Questo libro vuole proporre un recupero della fantasia, finendo indirettamente con il diventare una guida per riappropriarsi della innata capacità di creare e immaginare secondo la propria inclinazione, contribuendo quindi a quella formazione educativa che troppo spesso i genitori lasciano ad altri, non sempre disinteressati.
Se è questo il modo – e lo è – di ritrovare in noi un po’ di creatività, liberandoci dall’ossesso di acquisire supinamente tutto ciò che ci viene propinato, si potranno aprire nuovi e ampi spazi mentali, tali da riuscire a distinguere fra la falsa e la vera cultura, un beneficio affinché i bimbi di oggi possano essere domani uomini liberi di costruire la propria vita, perché, senza accorgersene, l’hanno prima immaginata, con l’autonoma visione di ciò che è scritto, e allora il contributo di questa favola, riletta da adulti, sarà rilevante, la conferma che per crescere ognuno deve e può dare il bene più prezioso che è in lui dalla nascita: la creatività.  
Da ultimo, un mio suggerimento: leggete questo libro con i vostri bimbi, ascoltate le loro sensazioni, esprimete le vostre, in un dialogo in cui i benefici della fantasia saranno reciproci.

Giuseppe Gambini nasce a Torre del Greco (NA) nel 1948 e attualmente risiede a Garbagnate Milanese.
Da oltre 45 anni coltiva l'hobby del teatro e della scrittura.
Nell’ambito del teatro amatoriale s'e proposto e si propone con diversi spettacoli, tra cui anche due prime nazionali recensite dalla rivista «Sipario».
Ha scritto ed interpretato qualche sceneggiatura, adattando film come "West side story" e "Chicago" per saggi di Scuole di danza.
Come poeta e scrittore, pur scrivendo da ragazzo, è solo da qualche anno che presenta i suoi componimenti – sia in poesia che in prosa - ai vari concorsi, raccogliendo sinora diversi riconoscimenti, tra i diversi primi, secondi e terzi posti, piu menzioni d'onore, premi speciali e segnalazioni, sia per la poesia che per  a narrativa; inoltre alcuni suoi aforismi sono stati selezionati e pubblicati nel libro «L’albero degli aforismi»
(ed. Lietocolle).
Una sua silloge e stata pubblicata dall’Editore Vitale di Sanremo il cui ricavato l'ha devoluto in beneficenza.
Altri suoi componimenti sono presenti in varie antologie di concorsi nazionali di poesia ai quali ha partecipato.
Per la AlbusEdizioni e presente in particolare nelle Antologie “Parole tra le pagine” curata da Gloria Venturini, “S’io fossi fuoco” curata da Elena Grande e “Dal Tramonto all'Alba” curata da Daniela Cattani Rusich.
Per questa casa editrice ha curato personalmente un'antologia dedicata alla grande metafora “Vita-Teatro” dal titolo “Oltre il sipario”.
Inoltre altre sue poesie sono presenti nelle antologie“Poesie del Nuovo Millennio (vol.8)“ della Arletti Editore e “Poesie a tema libero” delle Edizioni Estro-Verso.
Negli ultimi due anni e stato anche membro ed organizzatore
di Premi letterari.
Renzo Montagnoli
 

5/7/2012

Alicia Giménez-Bartlett
Dove nessuno ti troverà

Sellerio editore Palermo

Titolo originale: Donde nadie te encuentre

L’autrice spagnola Alicia Giménez Bartlett famosa per i noir  che hanno per protagonista la famosa ispettrice Petra Delicado, in questo inquietante romanzo tratta la storia di un personaggio ”La Pastora” realmente esistito e diventato un mito della leggenda popolare. Al centro della vicenda c’è Teresa Pla Meseguez, nata nel 1917,  intesa “La Pastora”,  analfabeta e dall’infanzia rubata, partigiana anti-franchista; nel momento in cui entra a far  parte di un gruppo di compagni comunisti, è costretta a cambiare nome e viene identificata col  nome maschile di Florencio, anche perché a causa del suo aspetto mascolino non si distingueva  se fosse donna oppure uomo, diventa un bandito dandosi alla macchia tra le montagne: a lungo sarà  braccata dalla Guardia Civil del generalissimo. La solitudine e lo scenario naturale dominano la sua miserrima esistenza (le montagne a sud dell’Ebro, tra la Catalogna e l’Aragona, per lungo tempo, dopo la fine della guerra civile,  furono rifugio disperato degli ultimi resistenti). È la provincia spagnola sordida e desolata della dittatura che vi si staglia, dove si consumano gesti nefandi; dove più profonda è la solitudine  e più tenace la rassegnata miseria materiale. La Pastora non è una donna, ma un uomo con una malformazione genitale che i genitori hanno allevato come una femmina per evitarne il servizio militare. La storia si svolge intorno agli anni ’50 (del secolo scorso) durante la dittatura di Francisco Franco in Spagna. Sulle tracce di Teresa si avventura uno psichiatra francese, interessato allo studio di personalità violente e criminali, Lucien Nourissier, il quale contatta  un giornalista squattrinato di Barcellona, Carlos Infante, già autore di un servizio sulla Pastora, per aiutarlo, in cambio di denaro,  a scoprire il covo dove si nasconde la donna-uomo e conoscere le motivazioni di fondo che la spingono a compiere imprese di inaudita ferocia. Per il medico francese e il giornalista barcellonese  inizia un viaggio se così si può definire di iniziazione,  attraversano pericoli e paesaggi di una Spagna selvaggia e povera in cui regna un senso di paura e terrore, in cui passioni contrapposte agitano gli animi degli abitanti, chi assoggettato al franchismo e lo asservisce con bieca obbedienza e chi non lo accetta e agisce con azioni di guerriglia e di resistenza anche a costo della propria vita. La loro ricerca è insieme indagine aleatoria, in cui rischi e delazioni si annidano nel voler frugare nei segreti delle comunità diffidenti dei villaggi e  percorso interiore di meraviglia delle complessità della natura umana come un ritrovare  una primigenia innocenza mistificata dagli orrori della storia. La conclusione del libro è inattesa e forse anche consolatoria e catartica…

Tutto il libro dalla trama ai personaggi si regge su ambivalenze. Da una parte c’è il monologo di Teresa, ispirato alla sua vera testimonianza e dall’altra una storia inventata (Lucien e Carlos, i due, si fa per dire, investigatori), il doppio che convive nella Pastora, donna tormentata e uomo represso o viceversa,  lo studioso francese e il lestofante spagnolo sono due personalità agli antipodi, il primo retto ed idealista l’altro cialtrone e qualunquista. É quasi una contrapposizione manichea  e dualistica della natura degli esseri umani nella continua lotta tra il bene e il male, e già forse è tanto distinguerli e rendersene consapevoli.

Mi ha sempre affascinato il modo in cui uno scrittore o scrittrice riesca a creare una psicologia del personaggio attraverso i suoi pensieri e le sue azioni, e di ciò ne rendo merito alla Bartlett, ma, a mio parere, non ne rende l’anima nel senso che il libro non suscita emozioni e non rende compartecipe il lettore.

Alicia Giménez-Bartlett (Almansa, 1951) è la creatrice dei polizieschi con Petra Delicado. I romanzi della serie sono stati tutti pubblicati nella collana «La memoria» e poi riuniti nella collana «Galleria». Ha anche scritto numerose opere di narrativa non di genere, tra cui: Una stanza tutta per gli altri (2003, 2009, Premio Ostia Mare Roma 2004), Vita sentimentale di un camionista (2004, 2010), Segreta Penelope (2006), Giorni d’amore e inganno (2008, 2011) e Dove nessuno di troverà (2011). Nel 2006 ha vinto il Premio Piemonte Grinzane Noir e il Premio La Baccante nato nell’ambito del Women’s Fiction Festival di Matera. Nel 2008 il Raymond Chandler Award del Courmayeur Noir in Festival.
Arcangela Cammalleri

 

3/7/2012

RICHIAMI DI METALLURGIA NELLA LETTERATURA

G. Casarini-Binasco (MI)
 

RIASSUNTO

                                       “ Fragile è il ferro allor ché non resiste/di fucina mortal tempra terrena/
                                         ad armi incorrottibili ed immise/d'eterno fabro)….”
                                                                                T. Tasso ( Gerusalemme Liberata-Canto VII-vv )
 

                                     “Ecco Rinaldo con la spada adosso/a Sacripante tutto s'abbandona;/
                                 e quel porge lo scudo, ch'era d'osso/,con la piastra d'acciar temprata e buona./
                                                                                L. Ariosto ( Orlando Furioso-Canto II)

La scoperta dei metalli, delle leghe metalliche e il loro uso, dall’età del ferro all’era moderna, quella degli acciai inossidabili e delle superleghe, hanno accompagnato ed accompagnano  l’evoluzione e la storia dell’umanità nonché il suo modo di vivere. Nella pratica quotidiana, per limitarci al loro impiego in casa, in ufficio e nei  mezzi di trasporto, i metalli, sotto forma di oggetti e di manufatti, i più disparati, ci sfiorano e  ci sono a portata di mano anche tale continua  familiarità lo fa spesso dimenticare e porta alla ingrata indifferenza.  Tuttavia non solo nella praticità e nel campo della scienza e del mondo industriale  ma anche nel campo delle arti i metalli hanno dato e danno direttamente  un significativo contributo all’appagamento di altri  bisogni e necessità  dell’uomo, quelle dell’estetica e del bello: basti pensare alle statue bronzee della antichità classica ed alle moderne sculture in acciaio inossidabile. Indirettamente, e questo è il tema di questo excursus,   vedremo come sempre  nel campo degli appagamenti culturali e dello spirito i metalli   abbiano offerto ed offrano immenso materiale nel campo della letteratura. Spaziando in questo campo, dall’antichità ai tempi nostri è facile riscontrare, punto di riferimento la  Divina Commedia, nella quale sono state evidenziate e commentate a suo tempo le innumerevoli terzine con  riferimento ai metalli, come gli stessi metalli non siano sfuggiti alla penna di storici, pensatori e poeti per evocare immagini, suggestioni, riflessioni degne della nostra attenzione. Nella presente memoria, data la vastità dell’esplorazione, il campo di indagine è stato confinato  alla classicità greco-romana. Vedremo come questa, attraverso i versi di Esiodo, Omero, Ovidio, Lucrezio,Virgilio e Tibullo,  offra un immenso tesoro di riferimenti alla metallurgia ed alla lavorazione dei metalli: metalli come simbolismo tra dei, miti e leggende, suggestivi versi sull’origine della metallurgia, sull’impiego e l’uso dei metalli, le loro proprietà, l’usura, la corrosione, il riciclaggio, nonché sfolgoranti descrizioni e una profusione di oggetti metallici.Ai poemi cavallereschi della letteratura italiana, se ci sarà, il prossimo appuntamento a cominciare dal Tasso e dall’Ariosto.
 

PAROLE CHIAVE

Esiodo, Opere e Giorni, Omero, Iliade, Odissea, Ovidio, Metamorfosi, Tibullo, Virgilio, Eneide, Bucoliche, Lucrezio, De Rerum Natura. 
 

INTRODUZIONE

Fluit aes rivis aurique metallum, vulnificusque chalybs vasta fornace liquescit ( Scorrono a ruscelli il bronzo e l’oro, l’acciaio atto a ferire si liquefa nel vasto forno): questo frammento di un famoso distico tratto dall’Eneide virgiliana ,  risulta impresso, quale motto, sulla moneta etrusca raffigurante Vulcano, il dio dei metalli, adottata come stemma dall’Associazione degli Industriali Metallurgici, primo atto di quella che sarà in seguito l’Associazione Italiana di Metallurgia ed è apparso per la prima volta nel numero di settembre del 1917 della nostra rivista La Metallurgia Italiana a testimonianza del connubio che sempre dovrebbe ricercarsi tra  scienza ed arte.

A partire da tale frammento,  già citato a suo tempo nelle ricerche su Dante, i suoi mentori e la Divina Commedia (1-3) cercheremo di scoprire, con riferimento alla classicità greco-latina, le  immagini, le  suggestioni e le riflessioni che i metalli hanno evocato e prodotto nei versi dei poeti di quel tempo antico. Tale breve ricerca, oltre che sprone per i giovani cultori della metallurgia ad una più approfondita ricerca in questo campo, vuole rendere un modesto omaggio a tutti quegli studiosi che in passato non hanno disgiunto l’amore della scienza con quello della letteratura, primo fra tutti l’Ing. Giuseppe Cozzo e poi: E. Crivelli, A. Uccelli, G. Somigli e I. Guareschi (4-7)

 

I METALLI COME SIMBOLISMO: TRA DEI, MITO E LEGGENDA

L’antropologia moderna analizzando la preistoria e la protostoria dell’umanità, classifica la sua evoluzione attraverso le seguenti età: età della pietra ( paleolitico, mesolitico, neolitico), età del bronzo e età del ferro in funzione della natura dei primi utensili impiegati dall’uomo e dalla cronologia della scoperta e dell’uso dei metalli. Anche nell’antichità seppure strettamente legata a superstizioni, suggestioni di interventi divini tra miti e leggende varie, l’importanza dei metalli, come fattori di progresso, era già stata fortemente sentita e percepita nonché tradotta anche in componimenti epici o liriche nostalgiche ed accorate.

Inizialmente, sia nel  mondo greco e poi in quello latino, al pari della visione biblica dell’Eden o Paradiso terrestre, la prima fase della storia dell’umanità veniva confinata nell’età dell’oro, età ove regnano pace e serenità, seguita poi, come punizione divina, a periodi di guerre e di discordie: metalli sottratti all’aratura dei campi e trasformati in armi letali.

 

Classicità Greca

 Per primo, Esiodo, epico greco della fine dell’VIII sec. A.C., nelle “Opere ed i giorni” (8) enumera cinque età del mondo, fondate proprio sull’uso dei metalli, ed nelle quali si sarebbero avvicendate altrettante “specie umane”, o in altre parole, altrettanti stadi della civiltà. La prima detta “età dell’oro” in cui vecchiaia, preoccupazioni ed affanni della vita erano stati risparmiati agli uomini e dove il suolo fertilissimo avrebbe offerto spontaneamente erbe e frutta in abbondanza. A questa sarebbe seguita la stirpe “ dell’età dell’argento” distrutta da Zeus per la pochezza della sua intelligenza e per il disprezzo verso gli Dei; terza “l’età del bronzo”, vigorosa ed indomabile e dal cuore duro conclusasi tra lotte tremende e crudeli.Ad esse seguiranno una quarta, come fase di transizione, per poi ultima “l’età del ferro”, quella in cui visse il poeta, piena di sofferenze, di miserie, di delitti e di empietà.“Prima una stirpe aurea di uomini mortali/ fecero gli immortali che hanno le olimpie dimore...come dèi vivevano, senza affanni nel cuore,.. il suo frutto dava la fertile terra../Come seconda una stirpe peggiore assai della prima,/argentea, fecero gli abitatori delle olimpie dimore,..vivevano ancora per poco, soffrendo dolori../né gli immortali venerare volevano,/ né sacrificare ai beati sui sacri altari,../ Zeus padre una terza stirpe di gente mortale/fece, di bronzo, in nulla simile a quella d'argento,..di bronzo eran le armi e di bronzo le case,/col bronzo lavoravano perché il nero ferro non c'eradi nuovo una quarta, sopra la terra feconda,/fece Zeus Cronide, più giusta e migliore,/di eroi, stirpe divina, che sono detti semidei, …/combattendo per le greggi di Edipo,…./là il destino di morte li avvolse;/ma poi lontano dagli uomini dando loro vitto e dimora/il padre Zeus Cronide della terra li pose ai confini./…Zeus, poi, pose un'altra stirpe di uomini mortali/dei quali, quelli che ora vivono.../perché ora la stirpe è di ferro; né mai di giorno/cesseranno da fatiche e affanni, né mai di notte,/affranti; e aspre pene manderanno a loro gli dèi.”

 

Classicità Latina

A quella medesima e felice età dell’oro ricordata da Esiodo si richiameranno più tardi anche  i poeti elegiaci latini. In particolare, Ovidio ( 43 A.C.-18 D.C.)  nel Libro I delle Metamorfosi sembra ripercorre, descrivendo le varie età dell’evolversi dell’umanità , gli stessi versi e le stesse evocazioni dell’epico greco: “Per prima fiorì l'età dell'oro, che senza giustizieri/o leggi, spontaneamente onorava lealtà e rettitudine./………non v'erano trombe dritte, corni curvi di bronzo,né elmi o spade: senza bisogno di eserciti,la gente viveva tranquilla in braccio all'ozio/Quando Saturno fu cacciato nelle tenebre del Tartaro/e cadde sotto Giove il mondo, subentrò l'età d'argento,/peggiore dell'aurea, ma più preziosa di quella fulva del bronzo./…….Terza a questa seguì l'età del bronzo: d'indole/più crudele e più proclive all'orrore delle armi/,ma non scellerata. L'ultima fu quella ingrata del ferro./E subito, in quest'epoca di natura peggiore, irruppe/ogni empietà; si persero lealtà, sincerità e pudore,/e al posto loro prevalsero frodi e inganni,/”.  (9)

Tibullo ( 55-18 A.C.) nel suo accorato carme” In terre sconosciute” mette anch’egli a confronto il suo periodo e lo spensierato periodo di un tempo antico: l’umanità viveva in un mondo idilliaco, senza pericoli,  animali e piante elargivano doni  in abbondanza ed il metallo non era stato ancora forgiato sotto forma di armi dedite alla morte.“Com'era felice la vita sotto il regno di Saturno,/…nessuna casa aveva porte e/…Stillavano miele le querce/e spontaneamente le agnelle/gonfie di latte offrivano le poppe/…Non c'era esercito, né rabbia, guerre/o un fabbro disumano/che con arte crudele foggiasse le spade.”  ( 10 ).

Anche Virgilio (70-19 A.C.),  nell’Eneide (LibroVIII), ricorda come Saturno e la sua età dell’oro abbiano influenzato la nascita della civiltà nel Lazio, civiltà poi degradatasi progressivamente:”Saturno il primo fu che in queste parti/ venne, dal ciel cacciato, e vi s'ascose/ E quelle rozze genti, che disperse/ eran per questi monti, insieme accolse/ e diè lor leggi: onde il paese poi /da le latèbre sue Lazio nomossi. Dicon che sotto il suo placido impero/ con giustizia, con pace e con amore si visse un secol d'oro, in fin che poscia/ l'età, degenerando, a poco a poco/ si fe' d'altro colore e d'altra lega. ( 11)

Tema dell’età dell’oro ripreso poi dallo stesso Virgilio in  una sorta di profezia messianica, anche nelle Bucoliche ( IV Ecloga) :”O Muse sicule, cantiamo poesie più elevate: non a tutti piacciono gli arbusti e le basse tamerici;/se cantiamo i boschi, siano boschi degni di un console. /E' giunta l'ultima età / di nuovo nasce un grande ciclo di secoli e già torna la Vergine, tornano i regni di Saturno, già una nuova generazione viene fatta scendere dall'alto cielo./Tu, casta Lucina, sii propizia al bambino  che sta per nascere / al tempo del quale inizierà a scomparire la generazione del ferro/ e in tutto il mondo sorgerà quella dell'oro; il tuo Apollo regna già./”(12).

 

LA METALLURGIA NEI GRANDI POEMI DELL’ANTICHITA’

 

La nascita della metallurgia : la lavorazione dei metalli e l’uso dei metalli

 Il poeta latino Tito Lucrezio Caro ( 98-54 A.C.) nel suo De Rerum Natuta (13),  fedele al pensiero di Epicureo e partendo dall’analisi delle particelle minime ed indivisibili, gli atomi, ed  analizzando  i processi della conoscenza umana ed i meccanismi che presiedono ai fenomeni naturali, ci introduce, poeticamente nel Libro V alla nascita della metallurgia ed alla lavorazione dei metalli.:”Comunque sia, quale che fosse la causa per cui l'ardore/delle fiamme aveva divorato con orrendo fragore le selve/dalle profonde radici e aveva cotto a fondo col fuoco la terra,/colavano dalle vene bollenti confluendo nelle cavità della terra/rivoli d'argento e d'oro e anche di rame e di piombo./E quando gli uomini li vedevano poi rappresi/risplendere sul suolo di lucido colore,/li raccoglievano, avvinti dalla nitida e levigata bellezza,/e vedevano che erano foggiati in forma simile a quella/che aveva l'impronta dell'incavo di ognuno./Allora in essi entrava il pensiero che questi, liquefatti al calore,/potessero colando plasmarsi in qualsiasi forma e aspetto di oggetti,/e che martellandoli si potesse forgiarli in punte di pugnali/quanto mai si volesse acute e sottili,/sì da procurarsi armi e poter tagliare selve/ed asciare il legname e piallare e levigare travi/ed anche trapanare e trafiggere e perforare/.

 

Le proprietà dei metalli

Di seguito e sempre nel Libro V, Lucrezio mette in evidenza come, dopo la scoperta della metallurgia, gli uomini abbiano imparato a conoscerne subito  le caratteristiche e l’utilità:” E dapprima s'apprestavano a far queste cose con l'argento e l'oro/non meno che con la forza violenta del possente rame,/ma invano, poiché la tempra di quelli vinta cedeva,/né potevano sopportare ugualmente il duro sforzo./Difatti ‹il rame› era più pregiato e l'oro era trascurato/per l'inutilità, perché si smussava con la punta rintuzzata./”  ma, come mette in evidenza Lucrezio  i tempi cambiano :”/Ora è trascurato il rame, l'oro è asceso al più alto onore./Così il volgere del tempo tramuta le stagioni delle cose:/ciò che era in pregio, diventa alfine di nessun valore;/”…

 

 Usura e corrosione dei metalli

L’osservazione di Lucrezio sui metalli e sul loro decadimento con specifico riferimento alla concezione atomistica delle cose, si fa ancora e più profonda ( Libro I) : qualsiasi sia la natura del metallo o della lega: oro, ferro, bronzo,  al pari delle pietre, tutto ciò,  con l’impiego e nel tempo,  si usura e si corrode senza che noi ne possiamo conoscerne il perché :“Per di più, nel corso di molti anni solari l'anello,/a forza d'essere portato, si assottiglia dalla parte che tocca il dito;/lo stillicidio, cadendo sulla pietra, la incava; il ferreo vomere/adunco dell'aratro occultamente si logora nei campi;/e le strade lastricate con pietre, le vediamo consunte/dai piedi della folla; e poi, presso le porte, le statue/di bronzo mostrano che le loro mani destre si assottigliano/al tocco di quelli che spesso salutano e passano oltre./Che queste cose dunque diminuiscano, noi lo vediamo,/perché son consunte. Ma quali particelle si stacchino in ogni/momento, l'invidiosa natura della vista ci precluse di vederlo./ “

 

Riciclaggio

Virgilio, nel Libro VII dell’Eneide, ci offre un saggio poetico sui riciclaggi del ferro e dell’acciaio: il nemico incombe e bisogna difendersi : attrezzi agricoli e mezzi per dissodare il terreno vengono rifusi e trasformati sotto forma di armi e di corazze: “ Cinque grosse città con mille incudi/ a fabbricare, a risarcir si dànno/ d'ogni sorte armi: la possente Atina,/ Ardea l'antica, Tivoli il superbo,/ e Crustumerio, e la torrita Antenna./ Qui si vede cavar elmi e celate;/ là torcere e covrir targhe e pavesi:/per tutto riforbire, aüzzar ferri,/ annestar maglie, rinterzar corazze,/ e per fregiar piú nobili armature,/ tirar lame d'acciar, fila d'argento./ Ogni bosco fa lance, ogni fucina/ disfà vomeri e marre, e spiedi e spade/ si forman dai bidenti e da le falci.”/

 

Sfolgoranti descrizioni

Omero (IX sec. A.C.),  nell’Iliade come nell’Odissea e parimenti Virgilio, nell’Eneide, quasi gareggiando tra di loro, ci offrono a profusione, “forgiando” indimenticabili versi, una sfolgorante descrizione di metalli in varie forme e dalle fogge e decorazioni le più diverse:armi, scudi, cocchi divini, vasellame, suppellettili, abitazioni, strumenti musicali;  per brevità  ci si dovrà  limitare solo   ad alcuni rimandi: al lettore diligente la voglia ed il compito di dar seguito a personali approfondimenti.

 

Gli scudi di Achille e di Enea

Di seguito sono riportati i versi  che descrivono il lavoro di Efesto-Vulcano nell’atto di forgiare, su richiesta di Teti, la madre di Achille,  il nuovo scudo del Pelide dopo che quello indossato in sua vece da Patroclo era stato preda di Ettore a seguito dell’uccisione del fraterno amico.”Eran venti che dentro la fornace/per venti bocche ne venìan soffiando,/e al fiato, che mettean dal cavo seno,/or gagliardo or leggier, come il bisogno/chiedea dell'opra e di Vulcano il senno,/sibilando prendea spirto la fiamma./In un commisti allor gittò nel fuoco/argento ed auro prezïoso e stagno/ed indomito rame. Indi sul toppo/locò la dura risonante incude,/di pesante martello armò la dritta,/di tanaglie la manca; e primamente/un saldo ei fece smisurato scudo/di dèdalo rilievo, e d'auro intorno/tre ben fulgidi cerchi vi condusse,/poi d'argento al di fuor mise la soga./Cinque dell'ampio scudo eran le zone,/ (14 )

Non da meno è l’abilità poetica di Virgilio, nell’VIII libro dell’Eneide, nel descrivere il lavoro dei Ciclopi, intenti nelle nere fucine etnee del dio Vulcano, a forgiare , su richiesta di Pallade-Atena, le armi di Enea: “Tosto che giunse: «Via, - disse a' Ciclopi -/ sgombratevi davanti ogni lavoro,/ e qui meco guarnir d'arme attendete/ un gran campione. E s'unqua fu mestiero/ d'arte, di sperïenza e di prestezza,/ è questa volta. Or v'accingete a l'opra/ senz'altro indugio». E fu ciò detto a pena,/ che, divise le veci e i magisteri,/ a fondere, a bollire, a martellare/ chi qua chi là si diede. Il bronzo e l'oro /corrono a rivi; s'ammassiccia il ferro,/ si raffina l'acciaio; e tempre e leghe/ in piú guise si fan d'ogni metallo./ Di sette falde in sette doppi unite,/ ricotte al foco e ribattute e salde,/ si forma un saldo e smisurato scudo,/ da poter solo incontro a l'armi tutte/ star de' Latini. Il fremito del vento /che spira da' gran mantici, e le strida/ che ne' laghi attuffati, e ne l'incudi/ battuti, fanno i ferri, in un sol tuono/ ne l'antro uniti, di tenore in guisa /corrispondono a' colpi de' Ciclopi,/ ch'al moto de le braccia or alte or basse/ con le tenaglie e co' martelli a tempo fan concerto, armonia, numero e metro/”

 

Una profusione di oggetti metallici

Poi in un crescendo di citazioni,  sia in Omero che in Virgilio, appaiono magnifiche descrizioni di: cocchi divini, vasellame, suppellettili, abitazioni, strumenti musicali: 

 

Iliade

Nel bel mezzo della battaglia tra Achei e Troiani, ecco intervenire in aiuto dei due schieramenti, alcune divinità armate di tutto punto ( Iliade-Libro V):“Immantinente al cocchio Ebe le curve/ruote innesta. Un ventaglio apre ciascuna/d'otto raggi di bronzo, e si rivolve/sovra l'asse di ferro. Il giro è tutto/d'incorruttibil oro, ma di bronzo/le salde lame de' lor cerchi estremi./Maraviglia a veder! Son puro argento/i rotondi lor mozzi, e vergolate/d'argento e d'ôr del cocchio anco le cinghie/con ambedue dell'orbe i semicerchi,/a cui sospese consegnar le guide./Si dispicca da questo e scorre avanti/pur d'argento il timone, in cima a cui/Ebe attacca il bel giogo e le leggiadre/pettiere; e queste parimenti e quello/d'auro sono contesti. Desïosa/Giuno di zuffe e del rumor di guerra,/gli alipedi veloci al giogo adduce./Né Minerva s'indugia. Ella diffuso/il suo peplo immortal sul pavimento/delle sale paterne, effigïato/peplo, stupendo di sua man lavoro,/e vestita di Giove la corazza/di tutto punto al lagrimoso ballo/armasi. Intorno agli omeri divini/pon la ricca di fiocchi Egida orrenda,/che il Terror d'ogn'intorno incoronava/”

 

Odissea

 Oro, argento, rame: questa l’offerta, segno dell’opulenza delle case di Ilio,  di un prigioniero   troiano onde aver salva la vita  come descritto nel libro VII: “L'aggiungono anelanti i due guerrieri,/l'afferrano alle mani, ed ei piangendo/grida: Salvate questa vita, ed io/riscatterolla. Ho gran ricchezza in casa/d'oro, di rame e lavorato ferro./Di questi il padre mio, se nelle navi/vivo mi sappia degli Achei, faravvi/per la mia libertà dono infinito.”

Sempre nello stesso libro:“Palagio chiara, qual di sole o luna,/Mandava luce. Dalla prima soglia Sino al fondo correan due di massiccio/Rame pareti risplendenti, e un fregioDi ceruleo metal girava intorno./Porte d'ôr tutte la inconcussa casaChiudean: s'ergean dal limitar di bronzo/Saldi stìpiti argentei, ed un argenteo Sosteneano architrave, e anello d'oro/Le porte ornava; d'ambo i lati a cui,Stavan d'argento e d'ôr vigili cani:/Fattura di Vulcan, che in lor ripose” … “Canto arricchillo. Il banditor nel mezzo/Sedia d'argento borchiettata a lui/Pose, e l'affisse ad una gran colonna:/Poi la cetra vocale a un aureo chiodo/Gli appese sovra il capo, ed insegnagli/,Come a staccar con mano indi l'avesse.”

Ecco, nel libro X dello stesso poema, la munificenza di oro, argento, bronzo, che arreda le maritali stanze della maga Circe dove Ulisse riprende le vigorose forze:“Bei tappeti di porpora, cui sotto/Bei tappeti mettea di bianco lino:/L'altra mense d'argento innanzi ai seggi/Spiegava, e d'oro v'imponea canestri:/Mescea la terza nell'argentee brocche/Soavissimi vini, e d'auree tazze/Coprìa le mense: ma la quarta il fresco/Fonte recava, e raccendea gran fuoco/Sotto il vasto treppié, che l'onda cape./Già fervea questa nel cavato bronzo,/E me la ninfa guidò al bagno, e l'onda/Pel capo mollemente e per le spalle/Spargermi non cessò, ch'io mi sentii/Di vigor nuovo rifiorir le membra./Lavato ed unto di licor d'oliva,/E di tunica e clamide coverto,/Sovra un distinto d'argentini chiovi/Seggio a grand'arte fatto, e vago assai,/Mi pose: lo sgabello i piè reggea/.E un'altra ninfa da bel vaso d'oro/Purissim'acqua nel bacil d'argento/ “

 

Eneide

E non da meno, come descrizioni di opulenza e di splendori metallici, risultano questi vrsi tratti dal libro II dell’Eneide:Poscia che ciò come profeta disse,/ comandò come amico ch'a le navi/ gli portassero i doni, opre e lavori/ ch'avea d'oro e d'avorio apparecchiati/, e gran masse d'argento e gran vaselli /di dodonèo metallo: una lorica/ di forbite azzimine; e rinterrate/ maglie, dentro d'acciaro e 'ntorno d'oro/, una targa, un cimiero, una celata,/ ond'era a pompa ed a difesa armato/ Nëottòlemo altero”.

 

CONCLUSIONI

La letteratura della classicità greco-latina, come messo in evidenza,  offre un immenso tesoro di riferimenti alla metallurgia ed alla lavorazione dei metalli: metalli come simbolismo tra dei, miti e leggende, suggestivi versi sull’origine della metallurgia, sull’impiego e l’uso dei metalli, le loro proprietà, l’usura, la corrosione, il riciclaggio, nonché sfolgoranti descrizioni e una profusione di oggetti metallici.Ai poemi cavallereschi della letteratura italiana, se ci sarà, il prossimo appuntamento a cominciare dal Tasso e dall’Ariosto.

 

 BIBLIOGRAFIA

1)     1) G. Casarini :” Riferimenti ad arti e mestieri alchemici metallurgici nella Divina Commedia: Fabbri e Ferraioli”-28° Convegno Nazionale A.I.M.-Milano Novembre 2000-Atti-Vol.2-pagg 635-541
2) G.Casarini:” Metallurgia e scienza nei gironi danteschi”-Civiltà degli Inossidabili-Ediz. Trafilerie Bedini-Dic.1992

3) G. Casarini:” Dante Alighieri e la Metallurgia”- Pianeta Inossidabili-Ediz. Acciaierie Valbruna-Giu.1995
4) G. Cozzo:” Le origini della metallurgia-I metalli e gli dei”-Editore G.Biardi-1945 Roma
5) E. Crivelli:” La metallurgia degli antichi”-Supplem. Ann. Enciclopedia della Chimica-Unione Tipografica Editrice- 1913 Torino
6) I. Guareschi :”Storia della Chimica-I colori degli antichi”- ”-Supplem. Ann. Enciclopedia della Chimica-Unione Tipografica Editrice- 1905 Torino
7) A. Uccelli-G.Somigli:”Dall’alchimia alla chimica-Storia della Metallurgia e delle lavorazioni meccaniche nel medio-evo”-Enciclopedia storica delle scienze e loro applicazioni”-U. Hoepli Editore-Milano
8) Esiodo: “ Le opere e i giorni”-Trad. G. Arrighetti-Ediz.Garzanti-1985
9) Ovidio:” Metamorfosi”-Ediz.varie
10) Tibullo: “Elegie”_Ediz.varie
11) Virgilio:”Eneide”-Trad.A.Caro-Ediz.varie
12) Virgilio: “Bucoliche”-Trad. L.Canali-Fabbri Editori
13) Lucrezio: “De Rerum Natura”
14) Omero: “Iliade”-Trad. V.Monti-Ediz.varie
15) Omero: Odissea”-Trad.I.Pindemonte-Ediz.varie
16) T. Tasso: “ La Gerusaleme Liberata”-Ediz. varie
17) L. Ariosto: “ Orlando Furioso”-Ediz.varie

Giuseppe Gianpaolo Casarini

 

11/6/2012

Andrea Camilleri

Una lama di luce

Sellerio editore Palermo

Il 19° libro su Montalbano ricalca tutti gli altri romanzi imperniati sulle inchieste del commissario letterario più amato dagli Italiani. L’incipit che preannuncia una mattinata volubile e crapicciosa epperciò per contagio, macari il comportamento di Salvo sarebbe stato instabili. L’artificio onirico come presago di fatti imminenti che confondono il lettore e il protagonista stesso tra realtà e sogno. L’intrecciarsi di due storie parallele che poi si biforcano in due tronconi e alla fine si riuniscono come naturale epilogo della vicenda. In realtà la combinazione ha tre diramazioni: un commercio illegale di quadri, esportazione di opere d’arte rubate, un traffico d’armi di tre tunisini che rifugiati politici preparano un piano d’attacco nella loro patria dove è in corso la lotta di liberazione e una rapina con bacio rubato quanto mai singolare e misteriosa con conseguente morto ammazzato, direbbe Catarella. Venire a capo dell’intricata vicenda diventa un punto d’onore per Montalbano, colpi di genio, intuizioni, piste più o meno ortodosse contrassegnano la tattica investigativa. La conclusione delle indagini rimette tutto secondo un ordine prestabilito, ma un’amara e sofferente sorpresa si presenta a Salvo: la  lama di luci che l’aviva pigliato nell’occhi…e prifiriva che l’urtimo contatto ristassi quella lama di luci che per una frazioni di secunno l’aviva ligatinzemmula. E questo uno dei tanti momenti del romanzo in cui l’animo di Montalbano è sviscerato da Camilleri e le pieghe del dolore e del rimpianto scavano rivoli di lacrime segrete. Secondo un copione ben costruito il nostro autore sa miscelare toni umoristici, (grande Catarella quando storpia nomi, parole e suscita l’ilarità di chi legge) e toni anche melodrammatici, quando quel senso greve della solitudine assuglia il commissario, spesso, questo stato d’animo inquieto e pernicioso aleggia intorno alla sua persona e investe anche quelli che gli stanno attorno. Montalbano non è solo indagini poliziesche, anzi quelle si muovono con calma, senza ritmi di action movie, è anche e soprattutto riflessioni esistenziali, come quelle che rivolge al granchio di mare che lo aspetta al molo nei suoi quotidiani soliloqui, come quel male di vivere che crea tensione ed adesione al personaggio montalbaniano, c’è un senso riflesso del male del mondo che non si traduce in nichilismo, ma muove verso un umanismo pietoso o verso una giustizia umanitaria, mai vendicativa. Le figure femminili illuminano la scena come altrettante lame di luce: la sofisticata e pur carnale gallerista Marian, che offusca i sensi di Salvo, salvo poi alla fine respingerne gli assalti erotici: Livia è sempre al bivio che da sola voce telefonica, epperò impera nella mente di  Montalbano e forse sradicarsi da lei è vana follia. (Noi sadicamente ci avevamo sperato, ma Camilleri questo sazio non ce lo concede). In questo frangente Livia è in preda ad un’angoscia  opprimente, oscura, un peso insopportabile la cui causa lo avvincerà e lo terrà legato a lei. Loredana bellezza fresca e turbativa, Valeria gran fimmina, dotata di sangue freddo eccezionale, femme fatal che, come un pesce nella rete, cade nella trappola tesale dal commissario. Il linguaggio simbolico e cifrato con cui la mafia comunica e con cui Montalbano ricambia sono tutti segni del barcamenarsi entro strettoie convenzionali e codificate che rispecchiano equilibri malcelati e di cui  spesso ci si serve,  vedi Pasquale, il pregiudicato figlio di Adelina, per scopi necessari. Il fine giustifica i mezzi, qualche volta con una certa disinvoltura Montalbano bypassa le rette direzionali della giustizia perché le vie della verità non sono mai unilaterali. Il Montalbano di Una lama di luce è goffo, impacciato in campo sentimentale, stenta a discernere l’attrazione dal sentimento amoroso, con le donne, tutto il contrario di Mimì, non ha tattiche né strategie, a volte, è disarmante e disarmato e si lascia cogliere alla sprovvista; nei sentimenti è fragile e quasi spaventato. Quanto invece il suo civireddro funziona nel mettere in campo fini stratagemmi e nel  concatenare i fatti che si presentano!         

In questo libro, c’è tutto il Montalbano che ci piace con le sue ubbie, le sue contraddizioni, gli inafferrabili umori così neri e protervi. Un misantropo dal cuore d’oro, un personaggio di carta, certo, ma così ormai familiare da sentirlo vivere tra le pagine. Incommensurabile Camilleri, con quale padronanza linguistica e misurata ironia il suo estro narrativo ci convince e ci avvince.   

Autore. Andrea Camilleri (1925), è autore di oltre 60 romanzi tra storici, civili e polizieschi, e di diverse raccolte di racconti, tradotti in più di 30 lingue. Vincitore di numerosi premi in Italia e all’estero, è noto al grande pubblico anche per i romanzi dedicate alle inchieste del commissario Montalbano, da cui è stata tratta la fortunata serie televisiva. Tra i tanti titoli ricordiamo: “La forma dell’acqua”, “Il cane di terracotta”, “Il ladro di merendine”, “La voce del violino”, “La stagione della caccia”, “Il birraio di Preston”, “La concessione del telefono”, “La gita a Tindari”, “Maruzza Musumeci”, “Il casellante”, “Il campo del vasaio”, “L’età del dubbio”, “Un sabato, con gli amici” “Il sonaglio” “ La caccia al tesoro”… “Il sorriso di Angelica” “Il gioco degli specchi” Tra le ultime storie civili e storiche, pubblicate da Sellerio, ricordiamo: “Il nipote del Negus”, “Gran Circo Taddei”, “La setta degli angeli”.
Arcangela Cammalleri

 

4/6/2012

Il Pellegrino Spagnolo
di Fiorella Borin
Copertina di Vincenzo Bosica

Edizioni Solfanelli
www.edizionisolfanelli.it

Narrativa romanzo
Collana Pandora
 

Un sogno di eternità

“E’ labile, il confine tra i sogni e i ricordi. L’immaginazione è come una grossa pianta di edera che si arrampica lungo i muri di una casa e giorno dopo giorno, in tenace, silenzioso lavorio, si propaga sino a trasformare l’edificio in qualcosa di completamente diverso. Quella casa è la nostra memoria, destinata a una modificazione perenne, così lenta da risultare impercettibile e così inarrestabile da risultare fatale. Ogni volta che rievochiamo il passato, involontariamente concimiamo l’edera vorace: anziché portare alla superficie i ricordi, rinvigoriamo il parassita che sbocconcella, insieme agli intonaci, la verità.”

Montefalco è anche oggi un piccolo paese, famoso soprattutto per la sua splendida vista sulla pianura del Topino e del Clitunno, al punto che si è meritato l’appellativo di ringhiera dell’Umbria.
Come tutti i piccoli borghi italiani ha numerosi monumenti e chiese, fra le quali quella di Sant’Agostino, lungo il corso principale, in cui sono conservati i corpi delle Beate Chiarine e del Beato Pellegrino. Ed è di quest’ultimo che ci parla Fiorella Borin con questo affascinante romanzo, frutto di un miscuglio di diversi generi letterari, da quello storico a quello filosofico-religioso, dal fantasy alla commedia, non tralasciando il sentimentale e il comico.  
L’originalità, quindi, non manca di certo e mi sento di poter dire che l’autrice ha profuso a piene mani le sue doti artistiche fino a concretizzare una grandiosa opera sinfonica, in cui sono presenti spunti rossiniani, svolazzi mozartiani, ma anche richiami a note più tenui proprie di Tchaikosvsky. Così, partendo da una leggenda sorta intorno a un pellegrino morto durante la preghiera nella chiesa di Sant’Agostino, Fiorella Borin, pur non distaccandosi dal filo conduttore della stessa, imbastisce un racconto che al suo interno ne contiene altri, pur se non indipendenti, e relativi a personaggi, di assoluta fantasia, funzionali alla storia stessa. E al di là di queste vicende, più o meno interessanti, quel che conta è la caratterizzazione dei protagonisti, che, usciti dalla penna, sono tanto reali da sembrare veritieri, cioè esistiti veramente.
In particolare c’è la figura di frate Aurelio, il monaco lettore, che con la sua naturale simpatia muove anche al riso, stemperando così la tragica vicenda di un amore, casto e puro, troncato prima del tempo dalla cattiveria degli uomini. Al riguardo, se la storia del pellegrino spagnolo - a cui viene anche dato un nome, anzi il primo di una lunga serie (José) - e di Giulia, la sua ragazza e poi sposa, muove a una nota malinconica di fondo, che è sempre presente in tutti i lavori della Borin, è pronto il riscatto con eventi quasi esilaranti.
Di protagonisti ce ne sono tanti, ognuno ben caratterizzato, in un intreccio che li vede comparire sulla scena in una sorta di carosello che li alterna argutamente al fine anche di divertire:
la iettatrice Gesuina, il tonto Marcuccio (ma poi non lo è così tanto), la barbuta Tommasina, l’aitante Roccioso perseguitato dagli uccelli, e tanti altri, che appaiono, scompaiono e ancora riappaiono, un mosaico di personaggi che sarebbero certamente piaciuti a Italo Calvino.
Ma non si ride soltanto, perché filo conduttore resta la storia della relazione fra José e Giulia, un’unione fatta di pennellate sfumate, di un sentimento etereo che sembra volare in cielo e che tocca l’animo, commuove, ci fa riflettere sull’autentico significato della parola amore.
Sono pagine di grande pathos, ma non ostentato, costruito con pazienza per farlo assimilare con gradualità, nel pieno rispetto del lettore che, se vorrà essere partecipe attivo, ritrarrà poi un rimescolamento interno, una riemersione di quel naturale senso di pietà spesso soffocato e che, provato, conduce a trovare un’insperata serenità.
Il libro, quindi, è molto bello, si legge bene e con piacere ed è per questo che lo consiglio caldamente.

Fiorella Borin è nata a Venezia nel 1955. Laureata in psicologia, dopo un breve periodo dedicato all’insegnamento negli istituti superiori, ha iniziato a collaborare con riviste letterarie e periodici a diffusione nazionale, pubblicando più di trecento novelle e una dozzina di brevi romanzi storici ambientati nel XVI secolo. Con le Edizioni Tabula Fati ha pubblicato "Il bosco dell’unicorno" (2004), "Il pittore merdazzèr" (2007), "La strega e il robivecchi" (2010), "La firma del diavolo" (2010) e "Christe eleison" (2011).
Renzo Montagnoli

 

25/5/2012

Colazione con i Modena City Ramblers
di Milvia Comastri

Historica Edizioni
www.historicaedizioni.com

Narrativa raccolta di racconti
 

Sensibilità e delicatezza

La canzone cessò, lasciando echi di una dolcezza struggente.
Rimasero ancora abbracciati, ondeggiando leggermente.
Il ragazzo capì che era arrivato il momento di dirle della nave che fra poche ore lo avrebbe riportato a casa.
La ragazza si ricordò di una frase che le diceva sempre la nonna: che i sogni muoiono all’alba.
”  
(dal racconto I’m in the mood of love

I racconti non hanno un grande successo di vendite nel nostro paese ed è un vero peccato, perché per loro natura (sono notoriamente più brevi di un romanzo) si possono leggere velocemente, anche nella pausa lavoro, e hanno il notevole pregio di portare una storia compiuta, cioè che nasce, si sviluppa e finisce, il tutto in poche pagine. Come per la narrativa più lunga se ne trovano di buoni e meno buoni, e fra i primi metterei quelli di questa nuova raccolta di Milvia Comastri.
Sono dieci prose, alcune delle quali piuttosto brevi, che, fra i tanti pregi, hanno anche quello di presentare storie non campate in aria, ma assai plausibili. In ogni caso va dato  l’ulteriore merito all’autrice di portare alla ribalta personaggi non certo eroici, spesso umili, vittime sovente di una condizione imposta da una società classista, quale la nostra. Il tutto viene porto al lettore con delicatezza, senza imposizioni, e venato da un’accentuata sensibilità che smorza i toni eccessivi, amplifica la bontà dei sentimenti, lascia sempre uno spiraglio di speranza e, quando questo proprio non c’è, è solo perché la vita ha delle ineluttabilità a cui è impossibile opporsi.
In queste storie si passa dall’infermiere del reparto pediatrico-oncologico al giovane pescatore che, suo malgrado, va a lavorare in terraferma, dal libraio che la grande distribuzione gli impedisce di continuare a lavorare a un amore perso e poi ritrovato.
Si potrebbe dire che ce n’è per tutti i gusti e che le trame sono così variegate che è impossibile che non riescano ad accontentare tutti i lettori, perché c’è sempre la possibilità di imbattersi in qualcosa che si gradisce meno, ma è compensata da ciò che piace di più.
Personalmente quelli che mi sono piaciuti maggiormente, anzi che mi sono piaciuti tanto, sono Antonio e l’odore del mare e I’m in the mood for love.
Nel primo c’è un ambiente che si trova frequentemente negli scritti di Milvia Comastri, quel mare che è simbolo di libertà, e come tale difficile da mantenere, spesso da conquistare. Antonio e l’odore del mare poi introduce discorsi di ordine sociale, di disoccupazione, di lavoro ingrato, ma c’è anche una speranza, con quella scena di Antonio e di Amid, un immigrato marocchino, seduti all’ultimo piano dell’edificio in costruzione per la pausa pranzo e che guardano lontano, un orizzonte in cui si indovina il mare, un mare personalizzato per entrambi.
I’m in the mood for love è il racconto breve, semplice, ma struggente, di un breve incontro, di una parentesi d’amore che si apre e si chiude quasi in un battito di ciglia, con i due protagonisti che sanno che non potrà durare, ma che si abbandonano a un ultimo scambio di affetto come solo due ragazzi, nel corso di una guerra, sanno fare, per vincere la paura, per riprendere la speranza in un domani, anche se questo li vedrà separati.
Vi assicuro che questo racconto è stupendo, con un’atmosfera tenue ricreata in modo magistrale, poche pagine che da solo valgono l’intero libro, tanto sanno farsi cogliere dal lettore.
In ogni caso, il mio consiglio è che acquistiate Colazione con i Modena City Ramblers, perché merita, perché lì la banalità di non pochi autori moderni è bandita e anche perché ritrovare i sentimenti più belli porta a un etereo senso di serenità.  

 Bolognese, Milvia Comastri è autrice di “Donne, ricette, ritorni e abbandoni” (Pendragon), una raccolta di racconti che hanno vinto diversi concorsi letterari. Questo è il suo secondo libro.
Renzo Montagnoli

 

21/5/2012

Nuvole rosse sotto il mare
di Antonio Tenisci

Edizioni Solfanelli
www.edizionisolfanelli.it

Narrativa romanzo
Collana Pandora
 

Destini incrociati

“…David trovò riparo a ridosso dei carri. Ansimando, alzò lo sguardo sulle nubi che si muovevano minacciose verso la costa. La luce scarlatta del sole le illuminava, avvolgendole in una strana quiete.
Ai suoi occhi parevano osservare la città dall’alto, specchiandosi turbate sulla distesa d’acqua ancora calma, quasi desiderose di tuffar visi dentro pur di non assistere a quell’assurda follia. Speravano, forse, di affondare lentamente, simili a un immenso tappeto di nuvole rosse sotto il mare…

Ortona, piccola città in provincia di Chieti, è anche conosciuta come La Stalingrado d’Italia, perché, nel corso del secondo conflitto mondiale, essendo sita all’inizio della linea difensiva Gustav, fu ripetutamente bombardata, rasa quasi al suolo e divenne il teatro di una battaglia fra le truppe naziste e quelle alleate.
Antonio Tenisci, con questa sua opera prima Nuvole rosse sotto il mare, ha voluto rievocare il martirio di questa cittadina, con scrupolo e rigore storico, ma senza scrivere un saggio, bensì innestando sui fatti realmente accaduti le storie, di fantasia, di alcune persone, i cui destini finiranno per incrociarsi, per lo più in modo tragico.
Il tutto inizia dopo l’armistizio, nella notte fra il 9 e il 10 settembre, con la fuga della famiglia reale dei Savoia, che appunto a Ortona si imbarca su una nave militare italiana per raggiungere il porto di Brindisi, ormai in mano agli alleati.
Fuggito il monarca senza nulla aver disposto per l’impiego delle nostre truppe contro la prevedibile reazione tedesca, le truppe di Kesserling s’impadroniscono dell’Italia e giungono anche nella cittadina abruzzese che intendono utilizzare come caposaldo per fermare, o almeno rallentare, l’avanzata dei soldati anglo-americani.
Si combatterà in città e per questo squadre di genieri cominceranno a demolire con gli esplosivi sia il porto peschereccio che le case del corso centrale.
Inizia così la battaglia di Ortona, con gli abitanti che non sanno dove andare (molti raggiungeranno le colline adiacenti e non pochi resteranno nelle loro abitazioni, nascosti in cantina, con tutti i disagi e i pericoli di un combattimento in corso).
In questo contesto si inseriscono le storie di alcuni essere umani, fra i quali quelle del fanatico nazista Otmar e del più mite commilitone Waldo, quelle del tenero e giovanile amore fra Masetto e Laura, due ragazzi costretti dalle necessità a maturare anzitempo, delle loro famiglie, del parroco della Cattedrale e di due militi canadesi.
Per quanto in origine vicende autonome piano piano finiranno per convergere fino a incrociarsi, con esiti diversi. Ovunque impera l’orrore della guerra, sotto un cielo inclemente che rovescia acqua di continuo, fra gli scoppi degli esplosivi dei genieri tedeschi e quelli delle bombe degli alleati, sotto il crepitio dei mitragliatori di chi combatte fra le macerie.
Il romanzo inizia con un ritmo lento, più che altro necessario per caratterizzare i protagonisti, ma poi, mano a mano che si avvicinano i giorni degli scontri, c’è un’impennata, una corsa continua, un crescendo rossiniano che avvince, ma anche sconvolge il lettore, partecipe, suo malgrado, dell’orrore che scorre davanti ai suoi occhi, in una tensione esasperante.
Sembra di essere in mezzo alla battaglia, ora con i poveri ortonesi rinchiusi in cantina, ora con i paracadutisti tedeschi che lottano all’ultimo sangue, ora con le truppe canadesi che, giustamente timorose, avanzano con la massima prudenza.
E’ proprio in questo lungo squarcio di scontri, di avanzate e ritirate che è possibile notare l’ottimo stile dell’autore, più predisposto a narrare dei forti contrasti che degli aspetti intimi, pur tuttavia non tralasciati.
E nell’età dell’innocenza si sviluppa tenero e appassionato l’amore fra Masetto e Laura, di fatto i due principali protagonisti, in netto contrasto con l’odio mortale che serpeggia nella città.
Si arriva così all’epilogo, uno di quelli che il lettore non vorrebbe mai leggere, e qui è inevitabile un’ondata di commozione che stringe la gola. In quattro righe Tenisci fa esplodere la tensione accumulata in lacrime amare, come a dirci che la guerra non ha né vinti, né vincitori, ma solo sconfitti.
Da ultimo mi preme evidenziare la riuscitissima copertina di Vincenzo Bosica, con quel soldato di spalle che avanza fra le macerie verso la cupola, sventrata e  a terra, della cattedrale, una meravigliosa sintesi del contenuto del libro.
Nuvole rosse sotto il mare è un ottimo romanzo e quindi la lettura è senz’altro raccomandata.

Antonio Tenisci, classe 1968, vive a Ortona, in Abruzzo, dopo anni di lavoro tra Roma e Napoli.
Sposato, con due figli, è consulente informatico.
Ha partecipato a diverse conferenze per importanti società informatiche e scritto su alcune riviste del settore.
Alcuni dei suoi racconti sono stati pubblicati in raccolte di genere storico e fantasy. Un suo racconto è presente nell’antologia 365 racconti per la fine del mondo (Delos Books, Milano 2012) a cura di Franco Forte.
Nuvole Rosse Sotto il Mare è il suo primo romanzo.
Renzo Montagnoli

 

20/5/2012

Marco Malvaldi
Odore di chiuso

Sellerio editore Palermo La memoria

Questo delizioso ed intrigante romanzo di Malvaldi si tinge di noir nel senso classico del termine,  c’è un  delitto con tanto di cadavere, indagini, indizi e colpevole. La pista investigativa si avvale di un rappresentante della legge che segue i canoni consueti del caso: interrogatori, intuizioni folgoranti e concatenazioni di deduzioni progressive fino all’esito finale. L’epicentro della storia si svolge nella Maremma toscana e precisamente nel castello del barone di Roccapendente, un borioso nobile arroccato nei suoi privilegi di casta che sembra non avvertire l’aria di cambiamento che investe l’Italia post unitaria, siamo nel 1895. Non a caso, spiega l’autore, i fatti narrati si collocano nel 1895, in quell’anno Guglielmo Marconi riesce ad inviare il primo segnale radio, i fratelli Lumière proiettano il primo cortometraggio della storia del cinema, Maria Montessori è la prima donna ad essere ammessa nella società Lancisiana ( riunisce i medici  e i professori di medicina della capitale) e Pellegrini Artusi alla stampe (2° edizione) il suo libro di ricette La scienza e l’arte di mangiar bene. Una data che segna grandi innovazioni non solo scientifici e culturali, ma avvia il nostro paese, sia pure, in modo molto lento verso quel processo civile e sociale sognato dalle correnti progressiste. Geniale la metafora di Artusi sulle difficoltà del governo italiano dell’epoca di lavorare per l’unità del Paese, non bastano leggi comuni in tempi brevi ad unire due tronconi estranei l’uno all’altro da tempo immemorabile, gli alberi non crescono tirandoli dall’alto: ci vuole tempo, concime e criterio. Fa l’esempio della maionese, cimentandosi nel suo campo quello di esperto dell’arte culinaria, non si possono mettere insieme subito tutti gli ingredienti, ma bisogna procedere con calma e metodo fino ad amalgamare due liquidi diversi come acqua e olio in origine refrattari a mescolarsi. L’arrivo dei due ospiti al castello, il fotografo Ciceri e  Pellegrino Artusi, la cui fama di gastronomo lo procede, mette in moto e dà l’avvio alle danze dell’allegra combriccola, si fa per dire. La famiglia aristocratica è composta oltre che dal  barone Romualdo in testa, dall’anziana madre Speranza con la di lei badante la tapina Barbarici, dai due figli maschi, Gaddo, un nullafacente e millantatore poeta che insegue il sogno di incontrare il vate Giosuè Carducci e  Lapo sciupa femmine da strapazzo e dal cervello vacuo. La figlia Cecilia, è una giovane fanciulla la cui intelligenza mal si adatta alla grettezza intellettuale dei suoi parenti e infine, e non potevano mancare, le due zie zitelle petulanti ed inutili. Tra i famigli spiccano l’esperta  cuoca la Parisina, esempio di saggezza popolare, il giovane ed aitante maggiordomo Teodoro e la bella cameriera Agatina. Questa brigata di personaggi bislacchi e per certi versi peculiari viene scossa dalla morte misteriosa del povero e sfortunato maggiordomo Teodoro e da questo fatto e momento come un gioco degli scacchi si muovono le pedine con scarti sbagliati e mosse azzeccate. Si mettono in rilevo, caratteri, tipicizzazioni tra il grottesco, il triviale e l’ironico. Su tutti emerge la personalità di Pellegrino Artusi che con i suoi  baffoni come un gatto sornione subodora odori ed umori, come un cane da caccia individua la preda, da un osservatorio speciale dato dai suoi studi e dal suo intuito intuisce i comportamenti e gli atteggiamenti che si celano oltre le parole. Sembra uno studioso entomologo oltre che un perito dell’arte gastronomica, un precursore del mangiare bene al pari di una guida gastronomica antelitteram. Certamente una figura indimenticabile Artusi che annota, su un diario,  con dovizia di particolari, gli accadimenti che si susseguono e che malgrado lui lo coinvolgono e le impressioni che ne ricava.

 Un libro ricco di sottigliezze e raffinatezze letterarie ed intellettuali, i  riferimenti all’attualità sono sottesi, ma percettibili nella loro arguzia, insomma un libro godibile dalla prima all’ultima pagina, mai banale o superficiale, trasmette certi significati del pensiero di tutti i tempi, ma la cifra sta nel tono e nello stile lievi e leggiadri.

Autore. Marco Malvaldi (Pisa,1974) ha  pubblicato con questa casa editrice i tre romanzi della serie dei vecchietti del Barlume: La briscola in cinque (2007), Il gioco delle tre carte (2008), e Il re dei giochi ( 2010).
Arcangela Cammalleri

 

14/5/2012

La notte della cometa
con il racconto Natale a Marradi
di Sebastiano Vassalli

In copertina Gianni Segantini, graffito su cartone,
1894 Zurigo, Kunsthaus

Giulio Einaudi editore
Narrativa romanzo
Collana ET Scrittori

La Poesia

Dino Campana nacque a Marradi il 20 agosto 1885 e morì a Scandicci il 1° marzo 1932.
La sua fu una vita travagliata, errabonda, con ogni probabilità del tutto infelice, un’esistenza al di fuori di ogni canone, con frequenti ricoveri in manicomio.
Rifiutato di fatto dalla madre, tollerato dal padre, emarginato dai suoi compaesani che lo consideravano “il matto”, osteggiato dai letterati dell’epoca, non è difficile comprendere come Dino Campana sia passato da una naturale predisposizione (uno zio era pazzo e lo stesso genitore aveva trascorso un  breve periodo in una clinica per malati mentali) alla malattia vera e propria, diagnosticata dallo psichiatra Carlo Pariani in ebefrenia, una forma acuta e particolarmente grave di psicosi schizofrenica.
Ma Dino Campana era veramente un alienato mentale e, se lo era, quali furono le cause? E’ questo che si deve essere chiesto Sebastiano Vassalli quando iniziò ricerche in proposito, ultimate le quali scrisse questo libro, una vera e propria biografia del poeta di Marradi che spesso sconfina nel romanzo, nell’indagine storica, nell’analisi comportamentale, e che non solo consente di avere un’idea abbastanza esatta dell’uomo Campana, ma anche una maggior comprensione dei Canti Orfici, il suo poema, il riflesso di una persona sola e senza speranza che si rifugia nell’unica soluzione possibile: uno stato di dormiveglia in cui il sogno è la valvola di sfogo per fuggire da una realtà intollerabile.
Rifiutato da tutti, più volte internato in manicomio, appare  un’immagine del poeta simile a un anarchico errante, ma che non distrugge, non contesta, bensì rifiuta quel mondo che non lo vuole fino ad autodistruggersi, non prima però di aver alzato il suo canto di dolore e di libertà, quei Canti Orfici, prima osteggiati da tutti e poi, molto più tardi, dopo la sua scomparsa, osannati.
Si potrebbe dire che Campana presenta uno sdoppiamento della personalità: l’uomo, emarginato dalla società, che vive alla giornata seguendo improvvisi impulsi, e il poeta, o meglio la poesia. Come precisa Vassalli ci sono scrittori di poesie, ma Dino non lo è, perché in lui vive la poesia e finisce con il diventare la poesia stessa, una poesia onirica. Così Campana diventa un mezzo, una voce attraverso la quale la poesia parla, uno strumento di cui egli stesso è artefice e succube, è l’unica vita possibile che gli è rimasta e nulla ha più senso dopo il completamento dei Canti Orfici, un’opera che per l’autore è un volo senza tempo, la misura dell’esistenza di un uomo a cui è stato reso impossibile vivere da uomo.
Vassalli scrive “Ma forse è proprio vero che i poeti appartengono ad una specie diversa, «primitiva», «barbara», da sempre estinta eppure sempre in grado di rinascere come quella dell’araba fenice. I poeti autentici, dico: non i letterati o gli scrittori di poesie, ma proprio quelli per mezzo dei quali la poesia parla. Gli unicorni, i mostri”. E’ forse il più bell’omaggio a Campana, ma non è gratuito, è una valutazione ragionata, che mi trova d’accordo.
E i Canti Orfici diventano così la giustificazione di un’esistenza invivibile, quasi un’altra vita, autonoma, ma immortale.
Vassalli ha inoltre il pregio di inquadrare il personaggio nella società dell’epoca, con degli spaccati precisi e fluenti di non pochi ambienti, da quelli di paese ai letterari, dagli ambienti universitari alla triste condizione dei ricoverati in manicomio, un lavoro preciso - si potrebbe definire di cesello – che aiuta molto a comprendere la figura di Campana, forse un originale che non sarebbe mai impazzito se fosse stato accettato e rispettato come tale.
Avremmo avuto così un Dino Campana diverso e Sebastiano Vassalli avrebbe potuto scrivere questo libro solo con l’estro della fantasia, come del resto precisa “Ma se anche Dino non fosse esistito io ugualmente avrei scritto questa storia e avrei inventato quest’uomo meraviglioso e «mostruoso», ne sono assolutamente certo. L’avrei inventato così” .
Il grande merito dell’opera è quella quindi di una ricerca della verità attraverso la quale comprendere Dino Campana e, soprattutto, i Canti Orfici.
Vassalli è riuscito a portare a termine un’impresa quasi titanica, con la pazienza e la meticolosità dello storico, unite a un grande amore per la poesia, senza il quale non avrebbe potuto concludere nulla, rimanendo attinente ai fatti, sviscerandoli, interpretando anche, ma senza inventare nulla.
Dino Campana è talmente unico che non c’è bisogno di creatività per narrare della sua vita non vita; quel che occorre, invece, è il rispetto, la pietà per l’uomo e appunto l’amore per la poesia, caratteristiche che a Vassalli di certo non mancano.
Il libro termina con un racconto di grande effetto: Natale a Marradi, relativo all’ultimo Natale trascorso da Dino Campana nel paese natio insieme a Sibilla Aleramo.
E’ la degna conclusione di un’opera di grande valore non solo storico, ma anche letterario.

Sebastiano Vassalli è nato a Genova e vive in provincia di Novara. Presso Einaudi, dopo le prime prove sperimentali, ha pubblicato La notte della cometa, Sangue e suolo, L'alcova elettrica, L'oro del mondo, La chimera, Marco e Mattio, Il Cigno, 3012, Cuore di pietra, Un infinito numero, Archeologia del presente, Dux, Stella avvelenata, Amore lontano, La morte di Marx e altri racconti, L'Italiano, Dio il Diavolo e la Mosca nel grande caldo dei prossimi mille anni e Le due chiese.
Renzo Montagnoli

 

8/5/2012

Antologia di Spoon River

di Edgar Lee Masters

Contributi di Cesare Pavese e Guido Davico Bonino
A cura di Fernanda Pivano

Giulio Einaudi editore
Poesia
Collana Super ET

Attraverso i defunti la comprensione della vita.

«Dove sono Elmer, Herman, Bert, Tom e Charley,
l'abulico, l'atletico, il buffone, l'ubriacone, il rissoso?
Tutti, tutti, dormono sulla collina.

Uno trapassò in una febbre,
uno fu arso nella miniera,
uno fu ucciso in rissa,
uno morí in prigione,
uno cadde da un ponte lavorando per i suoi cari -
tutti, tutti dormono, dormono, dormono sulla collina».

 Masters, di professione avvocato, nel tempo libero era assillato dal desiderio di scrivere qualche cosa del suo villaggio, una storia che racchiudesse in sé personaggi che riflettessero le principali caratteristiche umane, vale a dire i (molti) difetti e i (pochi) pregi.
A seguito anche della lettura di Elegia scritta in un cimitero di campagna di Thomas Gray nacque così l’idea di una raccolta poetica alquanto originale essendo costituita da epitaffi, come se fossero stati presi pari pari dalle lapidi di un camposanto di un immaginario piccolo paese della provincia americana.
Furono pubblicati uno ad uno sulle pagine del Mirror di St. Louis, incontrando subito uno straordinario successo, perché in queste 244 epigrafi, nel riportare le vicende del piccolo microcosmo di Spoon River, in una serie di quadri di grande effetto, Masters descrive in pratica la vita dell’uomo, con un’abilità, unita a un’ironia sottile e mai impertinente, che avvince il lettore, sorpreso da certi possibili raffronti con personaggi anche attuali.
Ma è anche un libro che parla con passione e senza enfasi di pace, che segue altresì un percorso da un’agnostica pace a un convinto antimilitarismo,   da un’idea di socialità a una razionale convinzione che il capitalismo è una stortura;  il tutto è espresso in modo garbato, piacevole e soprattutto chiaro.
Se ancor oggi, a quasi un secolo dalla pubblicazione, l’Antologia di Spoon River continua a riscuotere consensi è proprio per la sua attualità: l’uomo non è sostanzialmente cambiato e la storia lo dimostra.
Su quelle lapidi mai sarebbero apparsi gli epitaffi di Masters, perché è solo passeggiando per i viali di un cimitero che viene spontaneo chiedersi, leggendo le tante epigrafi che parlano di marito esemplare, di uomo pio e onesto, di persona amata da tutti, come mai l’umanità buona sia propria solo dei defunti.
E il grande merito di quest’opera è che attraverso la morte ci insegna la vita.
Se ora ci è possibile leggerla dobbiamo essere riconoscenti alla prima traduttrice della versione in italiano, Fernanda Pivano, capace di plasmare le parole senza nulla togliere allo spirito e alla bellezza dell’originale.
Questa raccolta, che fra l’altro ispirò anche Fabrizio De André, è di fatto ormai un grande classico, meritevole, quindi, di essere letto.

Edgar Lee Masters (Garnett, Kansas, 1869 - Melrose Park, Pennsylvania, 1950), visse a Chicago svolgendo l'attività di avvocato, ma desiderando dedicarsi alla poesia. Nel 1915 pubblicò L'antologia di Spoon River che ebbe subito un successo clamoroso. Nel 1924 tentò di dare un seguito alla raccolta con La Nuova Spoon River, che non fu altrettanto apprezzata. Il seguente L'uomo Lincoln(1931), molto discusso, le biografie di Lindsay, di Whitman, di Mark Twain non equipararono più la fama ottenuta con il primo libro.
Renzo Montagnoli
 

22/4/2012

Ricordi d’egotismo
di Stendhal

Prefazione di Raffaele La Capria
Traduzione di Silvia Croce

B.U.R. Biblioteca Univ. Rizzoli
Saggio autobiografico
 

La confessione

Corre l’anno 1832 allorché Stendhal si trova a Civitavecchia nella sua qualità di console. In quella che allora non era neppure una città, ma un paese scarsamente abitato (la maggior parte della popolazione era costituita da galeotti e guardie carcerarie), una landa quasi desolata, lontana mille miglia dai salotti parigini e milanesi, la vita era del tutto noiosa e priva di attrattive, tanto che il ripetersi monotono delle giornate induceva a richiudersi in se stessi, pensando al miglior tempo andato.
Stendhal non può tollerare un’esistenza così piatta e allora cerca uno sfogo nelle memorie, che provvedere a trascrivere in questo libretto stilato in soli quattordici giorni, anche perché dell’idea originaria di parlare dei ricordi di fatti, di eventi, di persone compresi nel periodo che va dal 1821 al 1832, in effetti finirà con il limitarsi a un solo anno, appunto il 1821, perché tanto ci sarebbe da scrivere, ma l’intento, privo di stimoli, finisce con lo spegnersi.
Eppure, per quanto ridotto a un periodo così breve, il lavoro che ne viene fuori è, a dir poco, stupefacente.
La sua è quasi una confessione, una specie di lettera inviata a un immaginario amico che è poi in fondo é lui se stesso.
Ci sono ritratti impareggiabili, come quello di La Fayette, ma molto del lavoro è dedicato ai personaggi femminili, con sempre presente la delusione amorosa per la milanese Matilde Viscontini, una passione non ricambiata che segnò assai la vita dello scrittore francese. C’è ovunque Parigi, ma in sottofondo un richiamo a Milano, città che gli ricorda i trionfi napoleonici, i salotti meno formali di quelli francesi, un altro amore, questa volta tradito, per Angela Pietragrua.
E’ sincero, è spontaneo Stendhal, si confessa senza remore, quasi infierendo su se stesso, ma senza acredine e così lascia spazio a una sottile ironia, che poi sfocia nel riso nel racconto di quando gli capitò di andare in bianco con una giovane prostituta, che non disprezza, verso la quale poi mostrerà tenerezza, sentimento che si tramuterà in pietà allorché l’età comincerà a incidere su di lei i segni inequivocabili dell’attività svolta.
In un solo anno, di cui noi non avremmo molto da raccontare, lui invece ha un calendario fitto, con impegni, appuntamenti, serate nelle case dei parigini più in vista, dove incontra tantissime persone e per ognuna ha il piacere di tratteggiare un ritratto, non solo fisico, ma soprattutto del carattere, con uno stile quasi giornalistico, essenziale potrei dire, e che però consente di non stancarsi in questa girandola di personaggi, ma di far scorrere le pagine come l’acqua limpida di un torrente di montagna.
C’è tutto un mondo che è trascorso, ci sono protagonisti e non della storia, un autentico carosello in cui uomini e donne appaiono, a volte per poche righe, altre invece per più pagine.
Si potrebbe pensare a un libro di pettegolezzi, ma non è così; questi sono lasciati ai personaggi minori, ma li ignoriamo, pur se Stendhal lascia al nostro intuito immaginare conversazioni non solo letterarie, ma civettuole in salotti ottocenteschi.
E in ogni caso, di qualunque uomo o donna si parli, dietro c’è sempre lui, con la sua sottile ironia, la leggerezza del tratto di penna, il desiderio di essere uno dei protagonisti, mettendo in evidenza più difetti che pregi, insomma fornendo il contenuto di un’amabile confessione fra contrapposizioni, incisi e riflessioni.
In contraddizione con il titolo l’unico egotismo è dato dalla sua presenza e nulla trapela della vanità, di quel desiderio di essere al centro di ogni attenzione che invece è propria di alcuni dei personaggi incontrati.
Se voleva fare un esame di coscienza, Stendhal ci è riuscito benissimo, e in quelle poche pagine è possibile conoscere di lui più che in una esauriente biografia.
Con il cuore in mano lo scrittore francese si consegna ai suoi lettori per conoscere se stesso.
Ricordi d’egotismo è un libro assolutamente imperdibile.  

Stendhal, pseudonimo di Marie-Henry Beyle nacque a Grenoble il 23 gennaio 1783 e morì a Parigi il 23 marzo 1842.
Ebbe una vita avventurosa e scrisse numerosi libri, molti dei quali di grande successo ancor oggi.
La sua produzione letteraria comprende, fra gli altri, La certosa di Parma, La Badessa di Castro, Il Rosso e il Nero, Vita di Napoleone, Armance, Lucien Leuwen, Ricordi d’egotismo,   Passeggiate romane, Vanina Vanini, Vita di Henry Brulard, L’amore.
Renzo Montagnoli

 

21/4/2012

Robinson Crusoe
di Daniel Defoe
a cura e traduzione di Alberto Cavallari

Feltrinelli Editore
Narrativa romanzo
Collana Universale Economica I Classici
 

Ritorno a un mondo primitivo

A questo scrittore inglese, intraprendente, profetico e irrequieto va ascritto il merito di aver ideato il romanzo moderno, ovvero una prosa in cui al centro di una vicenda vi è un determinato protagonista o al più un gruppo di protagonisti, secondo un canone di stretta coerenza e di apparente realtà. Detto così, da noi che ormai siamo abituati a queste caratteristiche, sembrerebbe poca cosa, ma per l’epoca (a cavallo fra il XVII e il XVIII secolo) era, a dir poco, un’idea rivoluzionaria.
Fu così che nacquero Moll Flanders e, soprattutto, Robinson Crusoe, entrati ormai nell’olimpo dei grandi classici.
Quest’ultimo fu dato alle stampe nel 1719 ed incontrò subito un notevole successo, sia per la trama, inconsueta e avventurosa, sia per le numerose chiavi di lettera che presenta.
Da ragazzo, quando lo lessi per la prima volta, fui affascinato dalla vicenda di questo naufrago che approda in un’isola deserta e che vi dimora per diversi anni, di cui parecchi in solitudine, fino a quando un vascello olandese lo raccoglie e lo riporta in patria. Nel ricordo di quelle sensazioni adolescenziali ci sono punti fermi, ben delineati, come il pappagallo che blatera “Povero Robin” o il selvaggio Venerdì, prima salvato dai cannibali e poi civilizzato.
Certo, data l’età, rimasi impressionato prevalentemente dall’aspetto avventuroso e da un ritorno agli albori di un uomo che, pur tuttavia, cerca di realizzare un angolo di civiltà, in una ideale sospensione fra istinto e razionalità che impediscono di impazzire per la forzata solitudine.
Riletto in età più matura ho colto altre e più interessanti chiavi di comprensione, rivalutando di fatto l’autore, a cui attribuivo solo una gran fantasia, perché il romanzo è frutto totalmente della creatività, anche se è opportuno evidenziare che l’opera è stata ispirata da un fatto realmente accaduto, un evento analogo e di durata assai più breve, che aveva visto protagonista il marinaio scozzese Alexander Selkirk, la cui disavventura era notoria in quanto oggetto di pubblicazione.
In effetti, in questo romanzo, sono presenti più messaggi, forse più facili da cogliere in epoca odierna piuttosto che in quella in cui apparve in libreria.
C’è una chiave di lettura di tipo socio-economico, con Robinson che non crea nell’isola un diverso tipo di società, ma fa sorgere un archetipo assai simile a quel grande stato coloniale che era l’Inghilterra; il naufrago considera inoltre quel territorio di sua esclusiva proprietà e tutti quelli che vi approderanno e vivranno come suoi sudditi. E’ una visione di tipo capitalistico, ma di quel capitalismo che andava allora sorgendo, quella vocazione a essere la classe media, senza i disagi dei più poveri e gli obblighi degli aristocratici, il tutto grazie allo spirito di intraprendenza, la voglia di lavorare e di fare, secondo i canoni del perfetto puritanesimo. E qui entra in gioco l’aspetto religioso, la ricorrente lettura della Bibbia a cui Robinson fa ricorso per trovare la forza necessaria per superare le avversità.
E poi c’è una illimitata fiducia nella ragione, propria dell’illuminismo,  che può consentire di affrontare ogni ostacolo, pur con l’assistenza della fede, il che porterebbe a dedurre che non ci siano insanabili contrasti fra scienza e religione, anche se sappiamo che all’epoca la Società dei lumi fu avversata dalla Chiesa, specialmente quella cattolica.
Stranamente Robinson Crusoe viene considerato un libro adatto ai ragazzi, ma presenta caratteristiche che lo rendono fruibile, con piacere, anche agli adulti, grazie allo stile, giornalistico, che offre immediatezza, e alla sapiente, ma mai eccessiva, descrizione dell’ambientazione e dell’atmosfera, rese entrambe in modo eccellente, il che facilita l’attrazione del lettore, che, anche per il carattere esotico dell’opera, tende facilmente a identificarsi con il naufrago.
Del resto il ritorno a un mondo primitivo e la volontà di fonderlo con quello da cui si proviene rappresenta un’opportunità per lo sviluppo della fantasia tale da risultare coinvolti in questa straordinaria avventura.
Se non lo conoscete, leggetelo; se l’avete già letto da ragazzi, rileggetelo e scoprirete il Robinson Crusoe che è in voi.

Daniel Defoe (Londra, 3 aprile 1660 – Moorfields, 21 aprile 1731).
Grande scrittore inglese viene considerato il padre del romanzo moderno.
Ha scritto, fra gli altri,  Moll Flanders, Robinson Crusoe, Il Colonnello Jack, Lady Roxana, Storie di pirati.
Renzo Montagnoli

 

12/4/2012

Massimo Gramellini

Fai bei sogni

Longanesi 2012

Un giornalista può essere anche uno scrittore, come lo è Gramellini o come lo dimostra in questo romanzo Fai bei sogni. Nelle intenzioni dell’autore avrebbe dovuto scrivere un saggio su come uscire dall’abulia e dalla rassegnazione con cui le persone sembrano affrontare questo momento storico e per corroborare la tesi aveva pensato di far precedere il saggio da una pagina autobiografica in cui avrebbe raccontato la rimozione della morte della madre (morta quando lui aveva 9 anni). Ma la pagina prende la forma di una narrazione vera e propria intessuta di fatti realmente accaduti. Dopo la presentazione di questo libro da  parte di Gramellini nella trasmissione di Fabio Fazio, come una grancassa di risonanza le vendite sono salite vertiginosamente, decretando un successo clamoroso.
Fuori da ogni schema retorico, perché il dolore espresso è autentico, la storia rapisce dall’inizio e non abbandona il lettore fino all’ultima pagina, la commozione non la si può trattenere e inumidisce gli occhi, nonostante. La madre, evocata, ricordata e mai dimenticata, perché morta, è una presenza costante nella vita di Gramellini bambino e poi adulto, la verità sulla sua morte è misconosciuta, ma come sottesa nel suo cuore. Con parole pacate colme di profonda sofferenza  la madre Giuseppina, rivive nella mente, nell’animo di Massimo, durante il  suo percorso esistenziale, privato di lei e della vita stessa. Straziante la sua preghiera imperativa rivolta al Signore di rimandargli giù  la madre e subito o far venire su lui, quando apprende che la madre non è uscita a fare le commissioni, come gli dicevano, ma era volata in cielo per proteggerlo meglio. Nella sua mente di bimbo vive la perdita come una forma di disamore della madre nei suoi confronti, per il fatto che non tornasse e l’avesse abbandonato solo alla deriva trascinando detriti di  ricordi come  il suo abbraccio o l’ultima volta ch’erano stati insieme…o quando gli augurava la buona notte : Fai bei sogni. Tutto il libro è una dolente poesia verso la madre  e per la madre, ora in un crescendo di sentimenti tra i più devastanti ora tra i più contraddittori. Se la mamma non fosse morta, oggi l’amerebbe sì, la rispetterebbe, ma la sua presenza sarebbe come un dato acquisito senza la meraviglia o la suprema dolcezza di avere una madre vicino, è la perdita che suscita rimpianti per quello che non si è fatto e si poteva e doveva fare. Per Gramellini il dramma assume sfaccettature più complesse perché non sa o non vuol sapere la realtà che si cela dietro quella morte, come poi saprà: un complotto compatto di parenti e conoscenti gli aveva costruito un muro di silenzi e di  menzogne su quell’evento. Solo dopo quarant’anni conoscerà la verità: sconcertante, ma nello stesso tempo sapeva da sempre com’era morta, ma aveva deciso da subito di non volerlo sapere. L’intuizione ci rivela di continuo chi siamo. Ma restiamo insensibili alla voce degli dei, coprendola con il frastuono delle emozioni. Preferiamo ignorarla, la verità. Per non soffrire. Per non guarire. Perché altrimenti diventeremmo quello che abbiamo paura di essere. Completamente vivi.
Il libro colpisce al cuore del lettore perché non ci sono fingimenti letterari né arguzie stilistiche pretestuose, è l’animo del protagonista che irrompe nelle pagine e si apre con candore come se tornasse bambino e rivivesse con la stessa forza originaria sentimenti mai sopiti. 
È raro di questi tempi, O tempora o mores, mostrare emozioni vere senza l’inibizione di essere se stessi: l’essere, senza armature di difesa, e non la rappresentazione di sé come vediamo in ogni ambito della vita odierna.

Autore. Massimo Gramellini nasce a Torino nel 1960, è giornalista e scrittore. Scrive sul quotidiano La Stampa di cui è uno dei vicedirettori. È ospite fisso della trasmissione di Raitre Che tempo fa. Con Longanesi ha pubblicato i saggi Ci salveranno gli ingenui ( 2007), Cuori allo specchio ( 2008) e il romanzo L’ultima righe delle favole ( 2010).
Arcangela Cammalleri

 

12/4/2012

Un infinito numero
di Sebastiano Vassalli

Edizioni Einaudi

Narrativa romanzo
Collana ET Scrittori

Lo scopo della scrittura

“La scrittura: è lei la protagonista della storia che sto raccontando. Il popolo dei Rasna, che io ho conosciuto prima che i suoi sacerdoti piantassero l’ultimo chiodo nel muro di Northia, credeva che gli uomini dovessero esistere nel tempo come gli insetti esistono nella notte, inebriandosi della loro vita finché gli è possibile, e poi tornando a scomparire nel buio. Aveva scoperto, in alternativa alla scrittura, un modo di rivivere il passato, e forse anche di anticipare il futuro, muovendosi lungo la catena di eventi che costituiscono la storia del mondo, come sui gradini di una scalinata infinita, in un senso e nell’altro; ma quel modo non aggiunge e non toglie niente ai singoli uomini, e non modifica le loro storie. La scrittura, invece, può durare (e di solito effettivamente dura) ben più di chi se ne serve; e ci può dare quell’illusione di immortalità che più di ogni altra illusione passata o presente ha abbagliato gli uomini della mia epoca. Virgilio, Orazio, Properzio, Agrippa, Mecenate e lo stesso Augusto, si sono riscaldati alla luce di quell’illusione, e hanno creduto di poter vivere oltre la morte fino a diventare immortali, rispecchiandosi nella loro scrittura o in quella degli altri…” 

Ogni volta che leggo un romanzo di Sebastiano Vassalli mi stupisco perché riesce a non essere ripetitivo, pur rientrando sempre nell’ambito storico, che invece delinea una ripetitività di fatti e di comportamenti che induce a pensare che l’uomo sia rimasto sostanzialmente immutato nel tempo, con le sue passioni, le sue pulsioni, con una natura congenita che si ritrova sia in epoca romana che in quella attuale. Le tematiche sono le più svariate, ma imperniate su un attento lavoro di ricerca che di fatto riporta alla luce un’epoca attraverso una creatività che nulla toglie e nulla aggiunge a quella che era, oppure è, la realtà.
E’ questo il caso di Un infinito numero, che racconta di un viaggio compiuto in Etruria in età augustea da Mecenate, Virgilio e Timodemo, quest’ultimo schiavo acquistato sul mercato di Napoli dal grande poeta latino e liberato dopo pochi anni. Ed è appunto questo ex schiavo, materializzatosi fra i personaggi ideati da Vassalli, che riveste la parte dell’io narrante, in un ideale congiunzione temporale fra quella lontana epoca e l’attuale.
Ma perché questo viaggio? Qual è il suo fine?
Virgilio, tramite Mecenate, ha già avuto l’incarico da Augusto di scrivere un poema sulle origini di Roma, un’opera che dovrà restare eterna, per glorificare la sua potenza e anche l’attuale dominatore, quell’Ottaviano dalle incerte origini che ricerca, o meglio pretende di essere l’anello di una catena indissolubile di una discendenza divina, e ciò per rafforzare il proprio potere, per giustificarlo e per quel desiderio quasi inconfessabile che porta alcuni uomini alla fama, al mito.
Poiché Mecenate, di nobili origine etrusche, asserisce che tutto ciò che era sorto lungo il Tevere era opera dei Rasna, cioè degli Etruschi, si rende necessario approfondire, ricercare, andare nei luoghi ove ancora esistono questi ultimi, anche per comprendere il motivo per cui la scrittura fra gli Etruschi abbia così poco valore da non produrre libri in un popolo così evoluto, anche se in declino.
Eppure sapevano scrivere e anche bene, ma la loro religione, per la vocazione nominalistica della scrittura,  ferma l’intera storia di un popolo nella immobile, stringente definitività del tempo, e, come dice Aisna, il sommo sacerdote del dio Velthune, Chi non ha un nome non muore in eterno
In questo contesto i tre viaggiatori apprenderanno delle origini di Roma all’interno del tempio di Mantus nel corso di un viaggio soprannaturale nel tempo; liberi dai limiti inevitabilmente temporali dei propri corpi, avranno così modo di rivivere l’infinito numero delle vite precedenti, l’unico mezzo per viaggiare nel tempo, per tornare indietro o per proiettarsi nel futuro (ma qui si gira il corso del tempo perché si vuol conoscere ciò che è avvenuto molti secoli prima).
Vedranno, così,  lo sbarco dei troiani capeggiati da Enea, la loro fredda determinazione a ricreare il vecchio stato in una nuova terra eliminando ferocemente tutti i maschi delle popolazioni lì insediate e salvando solo le donne, atte alla procreazione per rinsaldare la nuova stirpe.
La scoperta per Virgilio è sconvolgente, perché dovrà costruire un mito, che è  basato sulla violenza, modificando la storia, facendo apparire bello ciò che è brutto, edificante ciò che è laido; questa sarebbe la ragione per la quale l’Eneide, invano continuamente reclamata da Augusto, dopo anni è ancora incompiuta. Il poeta di Andes non vuol consegnare al tempo e ai posteri un’invenzione, ma nemmeno può descrivere la verità, e allora, sentendosi morire, ordinerà di distruggere quanto ha fino ad ora scritto, ordine, per nostra fortuna, non rispettato.
Un infinito numero è la storia di un accentuato contrasto fra due civiltà, quella etrusca, ormai alla fine, che rifiuta la letteratura e la scrittura, in quanto portatrici di morte, e quella romana, che invece le pone sugli altari come unica possibilità per sopravvivere dopo la morte, un’indiretta forma di eternità di cui l’uomo vagheggia affinché, quando il suo corpo diventerà polvere, restino almeno il nome e la sua fama.
Però, Un infinito numero è anche il libro sulla genesi dell’Eneide, sulle figure di uomini come Mecenate, il cui nome è sopravvissuto alla sua morte; non è solo questo, tuttavia,   perché  è anche un’opera sul tempo che sembra scorrere veloce per gli umani, ma che è di un’assoluta immutabilità nell’eterno, tanto da ripresentare fatti e situazioni come se fossero una lunga storia di nascite e di morti, di scomparse e  di ritorni.  L’uomo non è che pulviscolo celeste e nella sua effimera esistenza è il frutto di un infinito numero di vite e di combinazioni.
Libro non certo facile per le sue variegate sfumature, Un infinito numero è tuttavia un romanzo di straordinaria bellezza, un altro dei non pochi capolavori di Sebastiano Vassalli.

Sebastiano Vassalli è nato a Genova e vive in provincia di Novara. Presso Einaudi, dopo le prime prove sperimentali, ha pubblicato La notte della cometa, Sangue e suolo, L'alcova elettrica, L'oro del mondo, La chimera, Marco e Mattio, Il Cigno, 3012, Cuore di pietra, Un infinito numero, Archeologia del presente, Dux, Stella avvelenata, Amore lontano, La morte di Marx e altri racconti, L'Italiano, Dio il Diavolo e la Mosca nel grande caldo dei prossimi mille anni e Le due chiese.
Renzo Montagnoli

 

10/4/2012

Andrea Camilleri

La Regina di Pomerania e  altre storie di Vigàta

Sellerio editore Palermo 2012

 Otto nuove storie vigàtesi ambientate tra il 1893 e il 1950: otto  sceneggiate in salsa camilleriana.  

Siamo al secondo capitolo della saga di storie vigatesi, è come se si continuasse a seguire le vicende quotidiane di questa  gente  senza soluzione di continuità.
Assistiamo ormai a dei caratteri, tipo maschere del teatro d’arte e come dice A.C. non inventati sono i rituali, gli usi, i comportamenti personali e collettivi di un’epoca che, pur recente, appare lontanissima nel tempo. Tra il faceto, motti di spirito, facezie, il ridicolo e il drammatico si consumano beffe, amori clandestini e adulterini con la massima disinvoltura, senza sensi di colpa, un che di beffardo e di compiacimento accompagna le storie come se dietro ad esse  l’autore si divertisse a giocare sui  destini umani scompigliando disegni e architettoniche geometrie. Idealmente queste storie seguono quelle del libro precedente: “Gran Circo Taddei e…. e accentuano vizi, difetti e apparenti virtù dei personaggi, il femminino è sentito sempre con una sottile vena di sensualità, di una bellezza fascinosa, affatata ed ammaliante. Figure anche animalesche con un che di ferino ( vestia sarbaggia e perigliosa assà), la Manuela  di L’uovo sbattuto;  alcune indimenticabili come Amalia de Di padre ignoto venerata come una Madunuzza dalla credulità popolare e investita di purezza disarmante. In tutte le otto storie si armonizzano, in apparente difformità di temi, le atmosfere del circolo, dei suoi frequentatori, del popolino povero e spesso asservito ai padroni e i padroni asserviti alle loro beghe meschine e ai contrasti di casta. Camilleri non le lascia a dire a nessuno, preti che di pretesco hanno solo la tonaca, sono mastri d’opira fina pronti a trovare soluzioni che fanno comodo a tutti: la sottile diplomazia curiale non ha eguali!  Ci voleva una seduta spiritica e la complicità di due donne, medium ed aiutante per mettere in berlina un fratello e potersi godere l’eredità paterna a diritto in La seduta spiritica. Come non citare La lettera anonima, un’epidemia violenta di lettere anonime investe Vigàta nel 1945 e  sembrano indirizzate solo agli altri per scoprirne altarini, scheletri negli armadi…e che fa elaborare teorie al professore Bruccoleri del circolo “Libertà & Progresso”, del finomino era addivintato uno studioso assà scutato, argomentava quattro categorie di littre con una sola tematica: il letto e le sue conseguenze. Anche a lui come conseguenza inevitabile arriva una  lettera anonima che fa vacillare la sua placida tranquillità  muliebre…
Il racconto che dà il titolo allo scritto: La regina di Pomerania è un’opera d’arte truffaldina, nientepopodimeno, Camilleri fa scomodare il console  del fantomatico regno di  Pomerania che nel nome evoca quei regni d’operetta e che, pur non conoscendone la posizione geografica né l’esistenza, per non sembrare ignoranti, i ricchi del paese abboccano all’amo come tanti beoti, perchè potiri fari  affari boni  hanno in testa.              
Sarà un imbroglio colossale: l’esportazione di tutti i cani di Pomerania, in un blocco unico, perché quelli in possesso di privati non fanno razza! Un capolavoro di arguzia! 

E che scrivere di Le scarpe nuove, a dire il vero, è l’unico racconto in cui l’unica beffa la fa il destino e non c’è da sghignazzare sui questi poveri cristi, che consumano la vita come le scarpe che portano per tutta una vita. Una serie di concause sovvertono il corso delle cose e quel paio di scarpe nuove, tenute gelosamente e con grande cura, saranno, solo, pronte al momento giusto. Questo racconto si adombra di un velo di tristezza  e nei paesaggi attorno e negli animi dei protagonisti e in tutta la vicenda che si concatena.

 I duellanti  Due, si fa per dire,  duellanti  si sfidano a suon di gelati, non a chi le spara più grosse, ma  a chi ha più alzate d’ingegno per vincere la gara, la loro è  una concorrenza di commercio,  colpo su colpo,  una guerra tra poveri che ha il suo epilogo con la dipartita di uno dei due.

Romeo e Giulietta una storia d’amore finita prima ancora di consumarsi, dell’altra storia omonima e più famosa ha solo in comune  la brevità. Ma folgorante nelle soluzioni che vi si aggirano attorno alla serata danzante in maschera in cui la musica fa da colonna sonora. 

A libro  concluso il clangore delle  sciarratine, dei colpi di scena e della baraonda umana percuote il sistema uditivo del lettore, come quando si esce dal teatro e le risate e il piacere della serata ci fanno allegri e soddisfatti, insomma ci si è divertiti: e questo non è poco.
Arcangela Cammalleri

 

7/4/2012

Elia Belculfinè – PRIMI SINTOMI DI UNA GRAVIDANZA – Aletti Editore 2012

PREFAZIONE

Chi è “Poeta”? Non è semplice rispondere a una simile domanda, specialmente oggi che molti scrivono o tentano di scrivere poesie con lo scopo principale di esprimere le proprie emozioni, ma che poi, auto-compiacendosene, pubblicano nella speranza di avere qualche visibilità.
Si potrebbe tentare di risalire indietro nel tempo e cercare possibili risposte nelle molte definizioni che sono state date alla parola “Poeta”, circoscrivendo il campo dei possibili e potenziali appartenenti a questa “professione artistica” e dettando precise e serie e determinate e particolari condizioni. Per citarne solo alcune, si potrebbe ad esempio ricordare
Verlaine il quale sosteneva che “il poeta deve farsi veggente, esplorare l’ignoto, mediante un lungo e immenso disordine di tutti i sensi”; oppure Mallarmé che aveva posto per il poeta il compito di “sottrarre il linguaggio all’uso che ne fa la tribù”; oppure, un po’ più evasivamente, ma allo stesso tempo invasivamente, si potrebbe riprendere l’affermazione di Marina Cvetaeva: “Il poeta da lontano conduce la parola. La parola conduce il poeta lontano”. Oppure rifarsi a definizioni di più recente memoria, riprese da Ungaretti, Montale, Luzi, Yves Bonnefoy, Wislawa Szymborska, ed altri poeti importanti. Ma non si riuscirebbe facilmente, in ogni caso, a precisare i lineamenti artistici di chi possa realmente definirsi “poeta”.
E in realtà, tra i molti che oggi scrivono, spesso autoritenendosi poeti pur senza ricevere alcun positivo riscontro competente, solo pochissimi ne hanno veri e sicuri connotati. Elia Belculfinè è uno di questi pochissimi.

Con la pubblicazione di questa sua prima silloge, tra l’altro, viene a confermare un importante “pensiero” leopardiano dello Zibaldone, in cui press’a poco così (sinteticamente) si legge: “La poesia, diversamente da altre arti, non può rinnovarsi nell’armonia e nella melodia dei versi, se non contravvenendo alle regole canoniche,  tradizionalmente condivise attraverso una lunga e comune assuefazione.”
Elia, infatti, con la sua poetica, innova il modo di fare poesia anche nell’armonia e nella melodia, senza sottostare alle regole classiche.
A una prima lettura delle sue poesie, si avverte, in realtà, un certo contrasto con modalità espressive poetiche a cui si è abituati, ma non appena si acquisisce una maggiore familiarità con la sua poetica, la liricità insita nelle espressioni utilizzate richiama in primo piano immediatamente l’armonioso succedersi non solo dei versi ma delle stesse parole tra di loro e perfino delle sillabe all’interno delle parole, i cui suoni ben orchestrati, e non altro, fanno di ogni componimento poetico un vero e proprio “canto” dell’anima.

La poesia del giovane Elia non trova posto in alcuna delle categorie concettuali che si pongono come possibili “classificazioni” in una qualche corrente poetica, né tradizionale né contemporanea, perché la sua modernità è unica, ha quel tanto di prettamente originale e personale che non permette di incanalarla sotto alcuna etichetta già esistente.
Senza volerla definire a tutti i costi, ma semplicemente per aiutare i lettori nella comprensione delle poesie qui raccolte, sento di poter dire che la poetica belculfiniana consista in una sorta di traduzione letterale, attraverso il linguaggio poetico, del “pensiero allo stato puro: pensiero tanto profondo che pesca negli strati inconsci dell’anima, dove gli estremi si toccano; e di così tanto elevato spessore da sopravanzare la fisicità del mondo reale ed estendersi nel campo meta_fisico.

In Elia Belculfinè, la poesia è il luogo dell’anima. Impossibile dunque cercare confini, delimitarla, perché quanto più si tende a fissarla nei suoi significanti e significati, una volta per tutte, tanto più si espande, si dilata, i significati si sovrappongono su più livelli, ne esplodono di nuovi ad ogni nuova lettura e il piacere che si prova ad entrare nello stesso luogo da “accessi” diversi è simile a quello che si prova alla vista di una fantasmagoria di colori in un caleidoscopio in movimento.
Ed ecco che ritroviamo il pensiero allo stato puro, che è pensiero in movimento.
Il lettore è così portato a seguire questo movimento che può talvolta essere imprevedibile: può portare in una direzione inaspettata, come può fluire lentamente, accompagnando il sentimento prevalente in quel momento o prendere la rincorsa per raggiungere una meta improvvisamente comparsa alla visione poetica come desiderabile e urgente, oppure soffermarsi sullo stesso concetto esplorandolo da più prospettive.
Allora, è chiaro che non è sufficiente una sola prima lettura, ma che invece è necessario munirsi di strumenti interpretativi duttili, che non inchiodino la mente su una qualche univocità di veduta, bensì l’aiutino a decriptare anche codici metaforici che tali non appaiono a prima vista, ma che sono lì in questa veste anche se abilmente camuffati sotto ordinario e comune sentire e linguaggio.

 Provando a seguire l’evoluzione del pensiero del poeta attraverso le poesie di questa raccolta, si può giungere perfino ad uno stato di incantamento, (dovuto verosimilmente a combinazioni alchemiche che sprigionano strani effluvi dai versi poetici), stato dal quale si può solo “osservare” cosa accade di là, in quegli stessi versi, proponendosi di visitare questo “locus exotopico” in cui alcune poesie  sono poste, con il rispetto dovuto a chi offra un punto di vista sul mondo e sulle cose, e perfino sui sentimenti e sulle emozioni, diverso dal proprio, ma che tuttavia conserva e rivendica un suo forte diritto di legittimità. È un po’ un esercizio di “ascolto attivo” delle parole del poeta, come suggerisce Marianella Sclavi nel libro “L’arte di ascoltare e mondi possibili” (ed. Mondadori, 2000); è, cioè, una attenta e consapevole apertura verso altri  orizzonti, che faciliti la comprensione di matrici percettivo-valutative diverse dalle nostre, ed una vera e propria esplorazione di altri mondi possibili; è, insomma, un uscire dalla propria abituale cornice interpretativa ed essere disponibili ad un’apertura mentale che permetta di fare posto ad un mondo poetico nuovo.

Si potrebbe perfino accostare l’arte del poeta Belculfinè, per quel che riguarda il senso, all’arte di Luis Buñuel, in particolare a quel che traspare dal film Il fantasma della libertà, dove la realtà viene rivisitata al preciso scopo di darle una diversa dimensione dall’abituale, scontata e fin troppo familiare, in modo da esercitare il pensiero in accostamenti tipicamente onirici, ma che sotto il velo apparente dello stacco tra una scena e l’altra, rimanda ad una simbologia psicoanalitica che permette all’anima di ritrovarsi integra, dopo aver oltrepassato i confini della logica ed essersi inabissata in esperienze percettive profonde e inaccessibili, sublimate poi nell’arte cinematografica. E in Elia, ovviamente, nell’arte poetica.
Ma si tratta solo di accostamenti artistici, senza possibilità di immedesimazione reciproca né di equivalenti semiotiche né semantiche.

Entrando ora più nello specifico, per poter presentare in modo abbastanza esauriente una silloge poetica come questa, importante e molto originale, ritengo opportuno anche evidenziare alcune espressioni poetiche che fanno dell’assoluta liricità un vessillo per la poesia che le contiene.
E allora, rileggiamo insieme una delle più belle poesie d’amore che siano state scritte, Quando i poeti si innamorano:
Sul palco del pensiero sono la primadonna affollata di grazia e di plauso. Colmo di lemma. E di errore.”[…]

Quando i poeti credono d’amare imparano a rubare. Quando amano, i poeti si inginocchiano, si credono mortali come gli altri uomini. E temono che il cristallo si frantumi anche se per un attimo lo hanno pensato eterno.”[…]
“Anche io  ho conosciuto l’amore: freddo, pieno di spigoli […] Ci sono sbattuto contro con lo stinco. Ora zoppico e mi sembra di essere nato con una sola gamba, ma non ho bisogno di stampelle. Ho solo sete. Dammi da bere. Per favore. Il nostro amore non ha nulla a che vedere  con la poesia.  Ma come faccio a spiegarti  che il verso era un chiodo maledetto a cui appendevo ogni  notte di San Lorenzo, per tenerle a portata di mano.”   […]
“… e rimango attaccato al tuo respiro come fossi di piume e di fango” […]
“I poeti si innamorano due volte. La prima restano increduli e non credono alla luna. Poi si sporcano, affondati nell’umido di tutti i primi pianti e scrivono per la passione che si assottigli fra le loro dita, ma intanto diventano una terra. Una terra d’amore.”

 E ancora un’altra bellissima poesia d’amore, Cara:
“Dell’amore non so nulla in più di un pipistrello spaventato”[…]
“Cara, scriverti una notte di stelle, un pianto che scintilli di preghiera, perché le stelle leggono nell’anima dei poeti.” […]
“… quel giorno di binario e miraggio, e trasformasti la mia anima in un campo di segale” […]
“Cara. Ma potrei far ondeggiare il tuo respiro in uno scambio di battiti e di mari. Chiedere a giove che diventi piccolo. Un’inezia di inchiostro sul registro dei campanili.” […]

In altro tema importante, il tempo, la dimensione poetica raggiunta da Elia Belculfinè è veramente notevole. Così, possiamo leggere nella poesia L’orologio di Laura:
“Potresti magari, per azzardo della mente, chiamarla vita questo break nervoso, questo cadere sulle ginocchia.”[…]
“Arriva sorridente la piccola Laura - nel sole antropomorfo - Sbuca dal caffè vicino - enterica -risale in sella, scompare in un vicolo.” […]
“… il mondo è quella bimba e ci salverà tutti. Lascialo andare il tempo, tu! […]
“Fallo spaccando le clessidre, se ne trovi - glissando su ogni meridiana che secca al sole cardiaco…” […]

Non è un dono, infine, è una poesia che ritengo una sorta di “manifesto poetico”, in cui il poeta spiega quanto sia difficile raggiungere alti livelli in questa espressione artistica, e invita ad un esercizio fine, delicato, di cesellatura delle parole per raggiungere quell’effetto estetico, estatico ed estesico che rigenera non solo lo stesso poeta ma anche chi di quest’arte è solo fruitore, lettore.
Senza tuttavia ritenersi mai arrivati ad alcuna vetta poetica, perché la meta si sposta in avanti e in alto continuamente, la ricerca poetica è (deve essere) incessante e continua, il perfezionamento del poeta nella propria arte è sempre da inseguire e perseguire ostinatamente, pur essendo consapevoli di non poterlo mai raggiungere in modo definitivo, perché il poeta vero, nella sua umiltà, non si potrà sentire mai soddisfatto pienamente.

E infatti nella poesia che conclude la silloge, Il Poeta, Elia svela finalmente “chi è il Poeta” e come egli lo vede, aiutandoci così a rispondere alla domanda iniziale: il poeta, (secondo la sua definizione poetica) “è una statua di brace nel vento”, è continuo fuoco e passione, continuo fervore e furore, trasportato nell’aria da una forza pervasiva che è al contempo qualcosa di invisibile che guida il poeta nel suo peregrinare, lo assorbe, lo trascina,  lo vive.

In questa originalissima visione del poeta, credo stia molto a suo agio lo stesso Elia Belculfinè, le cui poesie sono così ariose, didascaliche, appassionate, dotate di forza onirica e immaginativa inesplicabile eppure chiarissima, che sembrano discendere proprio da questo fervore della statua di brace, il cui fuoco ha la stessa inesauribilità del nostro astro, il sole.

Ed anche il titolo della silloge, Primi sintomi di una gravidanza, è emblematico per capire l’azione più misteriosa che occupa la vita del poeta: egli comincia a sentire la fecondità della Musa, ne accoglie  il dono, lo vive intensamente e lo trasforma nelle parole magiche delle poesie, ma sta sempre un passo indietro, umilmente parla di “sintomi” di questa fecondità e della conseguente gravidanza poetica che sembra non arrivare mai alla fine, perché è costante generatività.                                                                                                                                             
M. Carmen Lama

 

5/4/2012

L’avventura di un povero cristiano
di Ignazio Silone

Introduzione di Claudio Marabini
Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.
Narrativa
Collana Oscar scrittori moderni
 

La coscienza contro il potere

Scritto nel biennio 1966-1967 e pubblicato per la prima volta nel 1968 dalla Mondadori, L’avventura di un povero cristiano è d’incerta e non facile collocazione come genere letterario, in quanto risulta composto da due parti ben distinte: la prima è un’introduzione alla vicenda di Papa Celestino V, ma è anche una specie di analisi interiore con la quale l’autore evidenzia ancora una volta la sua natura di “cristiano post-risorgimentale e post-marxista”, non inquadrabile in un’istituzione religiosa ben definita e in ogni caso non in quella cattolica; la seconda parte è il testo vero e proprio del dramma, inteso come rappresentazione teatrale, contraddistinto da dialoghi e, solo come incisi, da periodi narrativi veri e propri, tesi però a inquadrare la scena, come capita appunto nel caso di una commedia o di una sceneggiatura. Non solo due parti, tuttavia, perché vi è anche un’appendice di Note sui personaggi del dramma, redatte in base a studi ed alla documentazione reperita.
La vicenda di Celestino V, al secolo Pietro Angelerio, l’eremita di Morrone, nominato Pontefice per necessità (il trono di Pietro risultava vacante da lungo tempo a seguito di insanabili contrasti fra due fazioni di elettori), è il dramma di un uomo autenticamente cristiano, che abbandona la semplicità delle montagne abruzzesi, dove il silenzio è raccoglimento e misticismo, per approdare alla curia di Roma, luogo di ben altri silenzi, di intrighi, di lotte intestine, di ricerca continua del potere in quanto tale.
E’ inevitabile il contrasto fra la semplicità del fraticello, ispirato solo ai principi cristiani, e quello che sarà il suo successore, Bonifazio VIII, un tipico despota, che impersona pienamente la teocrazia medievale.
Da un lato c’è l’uomo che agisce secondo coscienza, una coscienza che si è formata, si è abbellita con il pensiero di Cristo, con una fede a cui mai verrà meno, e dall’altro più che un essere votato a ingrandire il proprio potere, un’istituzione, la Chiesa cattolica, così lontana dai suoi principi ispiratori, quanto mai tesa a ribadire la sua presenza terrena, dimentica del regno celeste.
In questa battaglia, in cui Celestino V uscirà sconfitto, c’è anche la sconfitta di uomini come Ignazio Silone e di altri che credono che non abbia senso la ragion di stato, che il mondo è costituito da tanti esseri divisi e organizzati in nazioni solo per perseguire scopi privati di pochi. Si tratta, quindi, della lotta della coscienza contro il potere, tema che ha sempre interessato Silone e che è dominante nelle sue opere: una volta poteva essere l’assolutismo fascista, un’altra il totalitarismo comunista; ora, invece, sono la grande finanza, nata e cresciuta sulle miserie altrui, che perpetua per la sua stessa sopravvivenza.
La coscienza è anche libertà, la più ampia, perché non viene imposta; il potere è la prevaricazione, la negazione di ogni libertà.
Silone ha sperimentato sulla sua pelle il fascismo e il comunismo, denunciandone i pericoli ed è ben strano che in un’Italia all’epoca rientrata nella democrazia si sia sognato di scrivere questo dramma. Forse aveva capito che le ideologie politiche poco hanno a che fare con la natura umana, o comunque con quella di nostri certi simili, che vivono e prosperano solo in funzione del potere, un Moloch mostruoso che impera dall’alba dell’uomo, senza nessun cedimento.
E allora il racconto del dramma di Celestino V, così indietro nel tempo, assume le tinte di una strenua difesa della luce contro il buio, della coscienza contro il dispotismo, ieri come oggi. Il monaco abruzzese risalta in tutto il suo coraggio, ben diverso quindi dalla descrizione che ne fa Dante nella Divina Commedia.
E’ una battaglia persa in partenza, ma lo strapotere nulla può contro chi è libero dentro, e, come dice Silone in Uscita di sicurezza :“ Agli spiriti vivi le forme più accessibili di ribellione al destino sono sempre state, nella nostra terra, il francescanesimo e l’anarchia. Presso i più sofferenti, sotto la cenere dello scetticismo, non si è mai spenta l’antica speranza del Regno, l’antica attesa della carità che sostituisce la legge, l’antico sogno di Gioacchino da Fiore, degli Spirituali, dei Celestini. E questo è un fatto di importanza enorme, fondamentalmente, sul quale nessuno ancora ha riflettuto abbastanza. In un paese deluso, stanco come il nostro, questa mi è sempre apparsa una ricchezza autentica, una miracolosa riserva. I politici l’ignorano, i chierici la temono, e forse solo i santi potranno mettervi mano.”.
Il messaggio del Cristo è stato, è e continuerà ad essere la salvezza delle libere coscienze.
L’avventura di un povero cristiano chiude il percorso letterario di Silone con un’opera straordinaria, che ha segnato anche la riconciliazione della critica con l’autore abruzzese, ed é un libro assolutamente imperdibile.

Ignazio Silone nasce a Pescina (Aq) il 1° Maggio 1900 e muore a in Svizzera a Ginevra il 22 agosto del 1978.
Ha scritto i romanzi Fontamara (1930), Pane e vino (1936), Il seme sotto la neve (1941),  Una manciata di more (1952), Il segreto di Luca (1956), La volpe e le camelie (1960),  L’avventura di un povero cristiano (1968); Severina (1981); nella sua produzione non mancano inoltre i saggi, come Il Fascismo. Origini e sviluppo (1934), La scuola dei dittatori (1938), Uscita di sicurezza (1965).
Renzo Montagnoli

 

4/4/2012

Le due vite di Elsa
di Rita Charbonnier

Edizioni Piemme
www.edizipiemme.it

Narrativa romanzo

Alla ricerca della propria identità

 Dopo due biografie romanzate (La sorella di Mozart e La strana giornata di Alexandre Dumas) che hanno riscosso notevole successo, Rita Charbonier ha deciso di cambiare registro, una scelta coraggiosa perché rappresenta sempre un’incognita, soprattutto per le eventuali reazioni dei suoi lettori, abituati a storie di genere ben diverso.
Questa volta ha creato un personaggio del tutto nuovo e quindi senza che abbia pescato nei molti della storia, ovviamente questi reali e non di fantasia.
Eppure, anche Elsa Puglielli – così si chiama la protagonista – assume caratteristiche di veridicità, ci sembra una presenza non astratta, ma una persona che è esistita, tanto l’afflato, che si viene a formare pagina dopo pagina, fa credere magari di averla conosciuta, oppure di avere incontrato nel corso della nostra vita una donna con identiche caratteristiche.
La trama non è semplice, anzi ha quella particolare complessità che si incontra quando ci si imbatte negli oscuri meandri della psiche umana, la cui perfetta conoscenza è ancora ben lungi dall’essere completata.
Elsa è fragile, ma rivela una forza interiore del tutto superiore alle attese. Eppure, quella ragazza che vive, come in una campana di vetro, in un villino periferico di una Roma fascista, stanze che odorano di chiuso, mentalità ristrette che cercano di celare un essere “diverso”, è in preda a una continua lotta per rendere propria la sua vera identità, una battaglia all’apparenza senza speranza, combattuta senza l’aiuto dei familiari che anzi, per quell’accentuato perbenismo, particolarmente stringente durante il ventennio, si vergogna e fa di tutto per dimenticarla.
Questo è il libro di una donna che, fra tante sofferenze, riuscirà con l’aiuto di un medico e grazie all’ascendente che esercita su di lei Anita Garibaldi, in cui si identifica, a uscire dal girone infernale in cui ha condotto la sua esistenza, trovando ed affermando la sua autentica personalità.
Forse ci voleva solo la sensibilità femminile di una scrittrice, peraltro di qualità come Rita Charbonnier, per allestire una trama che potesse riuscire facilmente comprensibile, senza incorrere nel rischio del romanzo d’appendice, da cui si salva appunto sia per lo stile, misurato e pulito, sia per il grande pregio di descrivere una psiche contorta, senza indulgere al sensazionalismo, al dramma di facile effetto o addirittura alla commozione ricercata e pretesa.
Come ho già scritto sopra, Elsa vincerà la sua battaglia, ma non voglio dirvi come e quando: sta a voi lettori scoprirlo dopo aver amato le pagine di un libro che facilmente non si scorda. 

Rita Charbonnier è nata a Vicenza, ha vissuto a Matera, Mantova, Genova, Trieste, per poi stabilirsi a Roma. Ha fatto studi musicali e ha frequentato la Scuola di Teatro dell’Istituto Nazionale del Dramma Antico di Siracusa. È stata attrice e cantante in teatro, recitando al fianco di celebri artisti. In seguito si è dedicata alla scrittura e, dopo aver collaborato come giornalista con riviste di spettacolo, ha iniziato a scrivere sceneggiature e infine romanzi, La sorella di Mozart e La strana giornata di Alexandre Dumas, entrambi molto apprezzati dai lettori.
Renzo Montagnoli

 

26/3/2012

L’ultimo petalo
di Miriam Ballerini

Serel International
www.eeditrice.com

Racconti e poesie

Gli eroi di tutti i giorni

“La vita non è bianca o nera; la vita è un arcobaleno steso a lenire lo sconquasso del temporale. Proprio come quell’iride, il suo disegno non è tangibile, spesso va colto al volo”
“ …/ Sola con ciò che è la vita: / erba sotto i piedi / e quel basco turchese / a coprirmi la testa. “

 Ritengo doverosa una premessa: in Italia le raccolte di racconti hanno sempre avuto poco successo, fatto del tutto inspiegabile ove si consideri che questa narrativa breve deve avere in sé le qualità del romanzo, cioè la presenza di una storia che nasce, si sviluppa e infine si conclude, compito di certo arduo quando si consideri che il tutto avviene in un numero ristretto di pagine; di conseguenza il racconto non può essere considerato una narrativa di serie B. Ancora più tragico è normalmente l’esito delle vendite dei libri di poesia, circostanza tanto più grave se si tiene presente che in questo campo il nostro paese ha dato autori di grande rilievo internazionale.
E dalla premessa passo al libro di Miriam Ballerini, che è una raccolta di racconti, ma anche una raccolta di poesie, e quindi è ammirevole il coraggio dell’editore di unire due generi che normalmente hanno scarso mercato. C’è tuttavia da precisare che nel volume in questione non si tratta di momenti astratti fra loro, bensì complementari, perché a ogni racconto segue una poesia che offre una visione più personale del tema svolto. E con più personale intendo riferirmi al fatto che mentre nei brani di prosa la presenza dell’autrice non si nota, nel senso che i personaggi sembrano agire in completa autonomia, nelle liriche invece, com’è del resto naturale, si esprimono sensazioni, si traslano emozioni che sono direttamente espressione del sentire dell’estensore.
E’ come se, dopo aver letto una storia, scritta in tono quasi asettico, potessimo cogliere ciò che effettivamente al riguardo prova l’autore, un bisogno impellente di esternarsi che trova la sua forma migliore nei versi.
E’ da un po’ che seguo il percorso letterario di Miriam Ballerini, sempre attenta all’uomo comune, con particolare riguardo a situazioni di disagio. Nei suoi scritti non troverete eroi del piccolo schermo, ma per lo più umili, che, in tal modo, vengono alla ribalta, illuminati dalla luce per quel breve periodo in cui la loro storia si svolge, per poi ripiombare nell’anonimato che li ha sempre contraddistinti.
Sono gli eroi di tutti i giorni, naturalmente vinti, ma che per un attimo hanno un guizzo che interrompe la monotonia di anni nel buio. E, per quanto di fantasia, sono personaggi reali, perché, a voler ben guardare, finiamo pure con il rispecchiarci.
La scrittura di Miriam Ballerini è scarna, ma non povera, è immediata e senza orpelli, di un realismo quasi assoluto, così da risultare efficace, coinvolgente e avvincente.
Sono storie di drammi, di piccole e grandi miserie, anche di riscatti, in una parola una vera e propria candid camera su una realtà osservata attraverso il filtro della fantasia.
Pagina dopo pagina, racconto dopo racconto, poesia dopo poesia ci si accorge di quanto ci sia di noi in quelle righe, uomini semplici, avvolti nella nebbia che solo l’estro creativo per un attimo riesce a dissolvere.
La lettura, senz’altro gradevole, è pertanto sicuramente consigliata.

Miriam Ballerini è nata a Como il 28 ottobre 1970.
Ha pubblicato i romanzi Il giardino dei maggiolini (EEditrice.com – Serel International, 2002), Dietro il sorriso del clown (EEditrice.com – Serel International, 2003), La casa degli specchi (Otma Edizioni, 2004), vincitore del premio internazionale Michelangelo, la raccolta di racconti e poesie Bassa Marea (EEditrice.com – Serel International, 2005), Fiori serra (EEditrice.com – Serel International, 2008).
Ha ottenuto ottimi risultati in diversi concorsi letterari nazionali e internazionali, collabora con riviste culturali e siti Internet.
Sito Internet personale: www.miriamballerini.com.
Renzo Montagnoli


 

Giuseppe AlettiI DECADUTI – Ed. ALETTI 2011
 

Recensione

Forse sono state applicate delle ruote gigantesche a questo nostro mondo, a giudicare da come siamo trasportati, giorno e notte, a velocità impensabili fino a solo qualche decennio fa.
Forse le parole hanno smesso di funzionare come caratteristica peculiare e mezzo di comunicazione tra “umani” per assumere l’aspetto di stiletti, pronti all’uso, da scagliare indiscriminatamente contro chiunque pensi (ma si tratta di pensiero?) diversamente da noi.
Forse dalle troppe luci notturne e diurne si è generato il buio: è impossibile guardare “nel sole” ad occhio nudo senza provare immediatamente una sensazione di oscurità che si posa sulle nostre palpebre come un velo nero. Troppo abbagliati, storditi, da troppi luccicanti sfolgorii di (false) luci, siamo incapaci di distinguere le cose, le persone e ogni essere o oggetto della natura, allo stesso modo in cui siamo divenuti incapaci di soffermare il pensiero in modo critico su fatti ed eventi che ci riguardano, direttamente o indirettamente.
Il buio si estende dalla visione fisica a quella intellettiva.
Abbiamo di più, ma non sappiamo come utilizzare quel che abbiamo.
Forse, quelli che chiamavamo paesi e città, a misura d’uomo, sono diventati ingranaggi diabolici in cui l’andare è – deve essere – sincronizzato nei minimi dettagli, per non rischiare di uscirne stritolati.
E chissà se possano essere considerati paradigmatici di questo nostro convulso vivere di uomini (tecnologici) del secondo millennio i “fantastici” tapis roulants, su cui è sufficiente poggiare i piedi e non occorre altro! Ci muoviamo stando fermi. Dalle fiabe orientali abbiamo ripreso la fantasia del tappeto volante e l’abbiamo resa realtà. Ma con quale risultato?
Con il risultato di dover oggettivamente ammettere che forse il progresso evolutivo dell’uomo non può superare certi limiti. Il nostro divenire è immobile. E stando a una legge fisica, stare fermi mentre il mondo procede significa piuttosto regredire.
Forse questa prospettiva immaginata e qui delineata è una visione quasi apocalittica, eccessivamente negativa e perciò stesso frustrante.
Ma è dalla lettura delle poesie della prima silloge pubblicata da Giuseppe Aletti col titolo “I decaduti”, che sono stata inesorabilmente portata a queste riflessioni. E non intendo sminuire il punto di vista dell’autore e ritrattare quanto già scritto, sostenendo un’idea più ottimistica che avrebbe solo il compito di “un’illusione per farsi coraggio nella pena”, alla stregua di G. Ungaretti, nella sua poesia Pellegrinaggio.

Il poeta G. Aletti dà una precisa connotazione a questa sua raccolta poetica già a partire dal titolo, I decaduti, ed è al mondo dei poeti che riserva questo attributo. Con esso intende, credo, lasciar intuire più accezioni del termine, dal punto di vista concettuale. Provo ad indicarne alcune:

-       I poeti al giorno d’oggi sono “decaduti” perché non sono minimamente presi in considerazione e la loro è “una voce che grida nel deserto”;

-       sono decaduti perché in questo mondo frenetico non c’è posto per le anime “lente”, per le menti riflessive, per coloro che si ostinano non a cercare certezze, ma a cercare di carpire almeno un barlume di verità e di senso in questa nostra esistenza;

-       sono decaduti perché la poesia è una scienza dell’anima e non serve che a se stessi, o meglio, serve solo a quei pochi, tra i “veri” poeti, che hanno l’umiltà di sentirsi sempre inadeguati e inappagati, rispetto alla complessità dell’universo di cui non rappresentano che un’infinitesima misura e parte e che, per questo, continuano in solitudine nella loro ricerca di senso che acquieti l’ansia dell’anima almeno temporaneamente;

-       sono decaduti perché la loro poesia non produce e non consuma beni visibilmente materiali che rendano profitti;

-       e ancora, e in definitiva, lo sono proprio perché, per tutte queste ragioni, altro non sono che degli “alieni”.

Ed ecco, allora, che la “vis po_etica” dell’autore insorge a difesa, non proprio (o non solo) dei poeti in quanto tali, bensì dell’essenza umana degli uomini di questo nostro tempo e di questo nostro spazio di vita. Il poeta sente e vede e dunque “sa” che essi stanno gradualmente abdicando alle proprie specificità e persino alle proprie peculiari esigenze di esseri umani, lasciandosi derubare del nucleo più prezioso dell’esistenza: l’anima, appunto.
Il suo, quindi, è un modo per far rallentare un po’ questo mondo in corsa, un modo per riappropriarsi della parola in funzione comunicativa, per tentare di riapprendere a vedere e a distinguere, in senso fisico e mentale, la realtà in cui siamo immersi; un modo per cercare di riappropriarsi di uno spazio umano individuale, che sganci ciascuno dall’ingranaggio mortale in cui funziona quasi come il chicco di grano nella macina del mulino, mentre una società che voglia dirsi veramente civile e umana ha bisogno di persone, vere, uniche, autentiche, e non di miscugli omogeneizzati.
Le poesie di G. Aletti hanno, dunque, sotto questo profilo, uno spessore culturale ed etico che si fa quasi dogma: “non si può e non si deve permettere a nessuno di agire come predatore delle nostre anime”, in qualunque forma si presenti (individui gruppi società mass-media internet o altre modalità tecnologiche, gruppi economici finanziari o altro ecc… ecc…); è urgente e necessario riappropriarsi del proprio sé.
Per il poeta, ciò è press’a poco il suo principale merito. Aletti lo indica chiaramente nella lirica “Poesia”: Malattia / che ignorata / urli / la tua presenza // Indelebile essenza / di attimi / orfani di tempo // Rivesti / sembianze / che eterne / giacciono // Sfinge di luce // Febbre.
Anche volendo, il poeta non può fare a meno di assecondare la malattia, la “febbre” poetica e di prestare ascolto all’urlo della poesia che si fa presente come indelebile essenza, (v. Yves Bonnefoy, La parola poetica) in attimi che sono al di là e oltre il tempo, che sono, anzi, l’assenza stessa di tempo. E, una volta esperito il proprio compito, la poesia acquista le sembianze del tempo eterno, e si fa luce, sfinge di luce, enigmaticità rischiarata.
Ma il poeta prefigura anche la propria morte, con rassegnata disperazione, quando nella lirica “La morte del poeta” medita che “Il sogno di verità / da comporre nella visione / si dilegua / nel dimesso mattino / di ore senza moto // Mi estinguo nella parola”. Se ne deduce un’intima sofferenza, una consapevolezza dell’estrema difficoltà del poeta a tracciare il proprio territorio esistenziale, benché, nel verso finale (“Mi estinguo nella parola”) non si pervenga alla vera morte del poeta, come potrebbe apparire dal senso strettamente etimologico e concettuale del verbo “mi estinguo”.
L’estinguersi “nella parola” indica piuttosto un immedesimarsi del poeta nelle parole che scrive, che quindi lasciano un’impronta nella coscienza di chi legge, facendo sì che il poeta viva attraverso le sue parole poetiche. Dunque, si tratta qui di una morte metaforica con cui si riscatta la vita del poeta, ed è una sorta di rivincita sul decadimento forzato a cui i poeti, insieme con gli altri esseri umani, sarebbero in qualche modo condannati o condizionati.
(Detto per inciso, è del grande Mario Luzi un pensiero simile, quando scrive, in Naturalezza del poeta, che il poeta “consegna i suoi scritti” alla vita ri-creativa che i lettori saranno in grado di conferir loro, poiché “la poesia continua a lavorare -oltre il poeta- a seconda del potenziale del linguaggio che in lei è racchiuso”).
Un’altra poesia molto significativa, in termini di riscatto del poeta, è “Fine”. Qui l’Aletti si abbandona ad una sorta di “pessimismo totale”, dove prevale l’annichilimento dell’esistenza del poeta, di cui non resterà nient’altro che “… immagini sbiadite / cancellate dal tempo,/ … un misterioso silenzio / orme sui cammini della civiltà”, come dire… “nulla”. Ma ecco, nel finale, il vero riscatto, la vera luce poetica, proprio là dove brillerà di più: “Saremo soli / dinanzi l’eterno”. Dunque l’esistenza del poeta continuerà oltre questo angusto e gretto tempo, oltre questo lacerante e vuoto spazio di vita, perché anche il misterioso silenzio del poeta è qualcosa di inaudito che potrebbe “atterrire l’universo”, come sosteneva Emily Dickinson.
C’è, si potrebbe dire, un’insistenza costante e perentoria, in molte delle poesie di questa silloge, sulla possibilità di capovolgere le situazioni negative in cui ci  troviamo (perché “Rotaie / ci inoltrano / nel nostro destino”), per farle diventare positive.
Riporto, ad esemplificazione di questa mia affermazione, alcuni versi finali di qualche poesia: “Seduto, consapevole, / qui aspetto / la mia metamorfosi”, (in “Trasfugurazioni”);
oppure: “Aspetto / il mio passo / farsi strada”, (in “Evoluzione”);
o ancora, in un brevissimo flash poetico, dal titolo illuminante, Ostinazione: “Concepire / nel parto/ del quotidiano respiro”.
Questi tratti, forieri di speranza, imprimono a ogni quadro poetico una luce nuova: la luce della ragione che insistentemente aspira alla sua specifica funzione identitaria dell’essere umano e vuole farsi strada e vuole dichiarare il suo diritto di esistenza, trascinando nel suo vortice positivo il sentimento propriamente umano dell’essere per sé per poter meglio essere per gli altri.

 E allora, in definitiva, secondo il mio modesto parere, le poesie di questa raccolta dovrebbero essere intese:

- in primo luogo, come una analisi obiettiva di una evidente situazione di disagio che accomuna  poeti e non poeti, cioè una sorta di fotografia dell’esistente;

- in secondo luogo, come un tentativo di scuotere gli animi e di indirizzare i lettori verso una necessità di leggere la realtà con spirito critico, per tornare ad essere capaci di pensare in proprio;

- in terzo luogo, come dimostrazione che possiamo aprirci spiragli di futuro nuovo, senza lasciarci trasportare dagli eventi o irretire da usurai dell’anima, che ci danno solo false illusioni di dinamismo, mentre ci immobilizzano nel nostro procedere, senza farci avanzare di un passo nel progresso civile e morale, anzi facendoci arretrare.

In funzione di questa apertura verso una speranza di possibile cambiamento in positivo del nostro “vagare”, ritengo molto significativo il messaggio trasmesso dal poeta con queste sue liriche, poiché è un messaggio a forte valenza educativa. Dal punto di vista filosofico, direi che sono poesie classificabili nell’ambito di una certa “ontologia dell’esistenza umana”.
Si può apprezzare, infatti, uno sforzo intellettuale notevole, mirato principalmente a dimostrare in prima persona, con l’azione, che bisogna far sentire la propria voce, nonostante si abbia l’impressione di non essere ascoltati. Ma anche il modo peculiare di dire (poeticamente parlando) ha la sua importanza: si tratta di far sentire il proprio energico rifiuto di soccombere alle volontà negative del presente che dequalificano la persona umana e di opporvisi in ogni modo, mostrando con la propria “ostinazione” di voler essere protagonisti di un vero progresso civile, autenticamente umano.

Giuseppe Aletti ha, in effetti, un modo genuino di esprimere il suo pensiero in  versi. Nell’Introduzione, fa esplicito riferimento all’uso di parole semplici e comuni che però, nella disposizione in versi, (nei versi particolari di queste poesie), assumono valenze diverse dall’ordinario sentire. Ed è vero, come ho potuto far notare in precedenza a mo’ di esempio, a proposito del verso “Mi estinguo nella parola”.
Colpisce, in particolare, la disposizione degli aggettivi che in molti versi precedono i sostantivi (alla maniera inglese) e che conferiscono maggior “volume” all’espressione poetica, poiché nella lettura obbligano a una presa “in carico” del termine-attributo qualificativo, in qualche modo anticipatorio del senso. Ma c’è di più.
L’intento dichiarato di Giuseppe Aletti era quello dell’utilizzo non casuale dello spazio grafico di ogni pagina che, a suo dire, avrebbe la struttura di quadro su cui le parole costituiscono i colori.
Ma sono quadri in cui le parole hanno un loro peso specifico, dove la prevalenza è dei colori scuri, dei toni un po’ cupi, mentre la figura che affiora dallo sfondo, che viene in superficie esaltata, soprattutto attraverso le aperture ripetute verso una luminosità futura dell’esistenza, è una positiva presa di distanza da tutto ciò che opprime le coscienze e, nello stesso tempo, l’attribuzione al poeta di un compito quanto mai utile, proprio nel momento in cui la sua presenza sembra essere stata definitivamente eclissata.
Lo stile dell’Aletti, in questa silloge, è dunque asciutto, denso, corposo.
Le parole, dure, compatte, pesanti come pietre, dovranno pur centrare il bersaglio!
E dopo, sarà possibile riprendere a camminare con le nostre gambe, senza tappeti volanti che, di per sé innocui, costituiscono un freno metaforico allo sviluppo individuale e sociale se utilizzati in sostituzione di più efficaci organi prettamente umani.
Maria Carmen Lama

26.3.2012

 

18/3/2012

Pronto soccorso dell’italiano
di Lorenzo Montanari

Editrice La Scuola

Didattica
Collana Orso blu

C’era una volta l’italiano

Da diversi anni assistiamo a un graduale svilimento, se non addirittura a un imbarbarimento, della nostra lingua.
Gerghi, frasari, idiomi locali nazionalizzati, linguaggi del tutto atipici come il politichese regnano ormai sovrani e, quel che è peggio, si trasferiscono dal parlato allo scritto, rendendo di fatto spesso incomprensibili concetti che invece avrebbero bisogno di un’esposizione con uno strumento univoco tale da essere accessibile nel settentrione come nel meridione dell’Italia.
Anglicismi scimmiottati, neologismi spesso inutili rendono la nostra lingua un’accozzaglia di parole e di suoni propri di un mosaico le cui pietruzze sembrano messe lì a caso.
In questo contesto, di per sé dirompente, si inseriscono anche i frequenti errori di chi, per corsi di studi, dovrebbe essere in grado di ben esprimersi in italiano. Non si tratta di certo di quel 20% di analfabetizzati, che danno la misura del basso livello della nostra istruzione, bensì di tanti laureati, nonché scrittori, che procedono imperterriti confondendo il congiuntivo con il condizionale, sbagliando gli accenti e ignorando sistematicamente la punteggiatura.
Probabilmente il fenomeno è dovuto a un cattivo insegnamento, come emerge anche nell’intervista che ho fatto a Lorenzo Montanari, docente di materie letterarie, autore e/o coautore di testi didattici, fra i quali questo Pronto soccorso dell’italiano che non è e non vuol essere un Bignami della nostra lingua, ma che permette di chiarire più di un dubbio, quel dubbio che dovrebbe esistere anche negli italianisti, perché è evidente che tutto non si può sapere perfettamente, tanto che imbattersi in qualche lacuna è sempre possibile.
Si tratta di un volumetto di facile e rapida consultazione, giusto appunto per fugare dubbi o risolvere le piccole problematiche che si incontrano soprattutto nello scrivere in italiano, giacché la lingua parlata sovente nasconde queste carenze e il vero dilemma sorge quando si tratta poi di mettere nero su bianco ciò che si intende dire.
La finalità del volume del resto è ben evidenziata nell’introduzione dello stesso autore, che si rivolge al lettore senza enfasi o saccenza, ma con la consapevolezza che qualche cosa occorre pur fare per frenare il degrado della nostra lingua.
E così è nato questo Pronto soccorso che non ha la pretesa di insegnare l’italiano, a cui altre sedi istituzionali dovrebbero essere incaricate, ma di chiarire, di aiutare chi già è in possesso di una discreta conoscenza, ma che comprende che a volte possono sorgere dubbi, per i quali è necessaria una risposta certa e rapida.
Il libro è diviso in tre capitoli tematici (Ortografia, La punteggiatura, Il congiuntivo e il condizionale, questi sconosciuti!) e porta due appendici, veramente utili: Le pagine del pronto soccorso, con l’indice ortografico delle parole più frequenti e sbagliate e con le tabelle dei verbi al congiuntivo, e l’Appendice 2 con le soluzioni degli esercizi Mettiti subito alla prova.
Non mi dilungo troppo nella spiegazione dei contenuti dei capitoli e al riguardo basta sapere che in Ortografia si parla, fra l’altro, degli accenti e degli apostrofi, in La punteggiatura si chiariscono gli usi della virgola, del punto e virgola, ecc., e che in quello relativo al congiuntivo e al condizionale si fa piena luce sul loro utilizzo, nonché sulla correlazione non infrequente fra un tempo e l’altro.
Il tutto è posta in forma gradevole, per nulla greve, al punto che spesso si finisce con il cercare, oltre a ciò che serve, anche qualche cosa d’altro, quasi fosse un gioco sfogliare queste pagine e mettersi alla prova.
E si impara, s’impara molto.
Jucunde docet, dicevano i latini, e lo stesso ho detto io quando ne ho ultimato la lettura.

Lorenzo Montanari (Castelfranco Emilia 09/04/1973), laureato in Lettere ad indirizzo Filologico presso l’Università di Bologna, è docente di Lettere di ruolo nella Scuola Secondaria e dottore di ricerca in Filologia, dove ha anche ricoperto incarichi sia come professore a contratto (per le cattedre di Grammatica Latina e Didattica del Latino)  sia come formatore SSIS. Ha, inoltre, tenuto incontri di aggiornamento nelle scuole. È autore di edizioni di classici latini (ha curato tutte le opere di Cesare presso l’editore Barbera e un’antologia di Quintiliano presso Cappelli) e di testi scolastici tra i quali la collana «Nero su Bianco», dedicata alle abilità di scrittura nel biennio della Secondaria di Secondo Grado. Per l’editore «La Scuola», nella collana di Varia «Orso Blu», ha pubblicato, nel 2011, «Pronto soccorso dell’Italiano. Ortografia, punteggiatura, congiuntivo».

Elenco delle pubblicazioni

·        A. Giordano Rampioni, L. Giancarli, L. Montanari, S.P.Q.R. – Alla scoperta delle parole e della quotidianità di Roma antica, Cappelli Editore, Bologna 2006. [ISBN: 9788837925062]

·        Giulio Cesare, La guerra gallica, introduzione di G. Cipriani e G. M. Masselli, nuova traduzione e note di L. Montanari, Barbera Editore, Siena 2006.

·        L. Montanari, Poesie d’amore, Laboratorio di Poesia e di Scrittura Creativa, scheda documentata della tesi di specializzazione in: C. Bertacchini – M. R. Fontana (a cura di), L’insegnante di qualità, vol. 2, CLUEB, Bologna 2006, pp. 197-208. [ISBN: 9788849124668]

·        L. Giancarli, L. Montanari, Quintiliano – La scuola a Roma e il modello di oratore-cittadino, Antologia da: Institutio Oratoria, Cappelli Editore, Bologna 2007. [ISBN: 9788837911171]

·        autore delle pagine di vita quotidiana e cultura romana nelle riviste Audelescens e Iuvenis (Eli Editore) per l’anno scolastico 2007-2008.

·        Giulio Cesare, La guerra civile, introduzione di G. Cipriani e G. M. Masselli (con un saggio di Federica Introna), nuova traduzione e note di L. Montanari, Barbera Editore, Siena 2008.

·        L. Montanari, Esercizi di ortografia, punteggiatura e logica della frase, Cappelli Editore, Bologna 2008. [ISBN: 9788837911355]

·        L. Reggiani - L. Montanari, Analisi sintattica con esercizi di potenziamento lessicale, Cappelli Editore, Bologna 2008. [ISBN: 9788837911362]

·        P. Bollini - A. Ghiretti - A. Grillini - L. Montanari - B. Nanni - L. Reggiani - N. Paggetti, Esercizi di scrittura funzionale. Dal riassunto al saggio breve, Cappelli Editore, Bologna 2008. [ISBN: 9788837911379]

·        autore delle sezioni dedicate a Sallustio e a Tacito nell’antologia scolastica: Anna Giordano Rampioni, Canone in versi e in prosa, Cappelli Editore, Bologna 2008. [ISBN: 9788837911386]

·        articolo: L. Montanari, Un’occasione (forse) perduta. Una proposta per la Secondaria di primo grado, in Anna Giordano Rampioni, Manuale per l’insegnamento del latino, Pàtron Editore, Bologna 2010. [ISBN: 9788855530873]

·        L. Montanari, Ortopunzione, Cappelli Editore / La Scuola, Brescia 2011. [ISBN: 9788837912093]

·        L. Montanari, Pronto soccorso dell’italiano, La Scuola, Brescia 2011. [ISBN: 9788835026839]

·        Giulio Cesare, La guerra gallica, traduzione e note di L. Montanari, Rusconi, Rimini 2011. [ISBN: 9788818027488]

·        Giulio Cesare, La guerra civile, traduzione e note di L. Montanari, Rusconi, Rimini 2011. [ISBN: 9788818027938]

·        L. Azzoni, B. Nanni, L. Montanari, G. Carbone, Ratio. Un metodo per il latino (volumi 1 e 2), Laterza, Roma-Bari 2012. [ISBN: 9788842110170 e 9788842110385] 
Renzo Montagnoli

 

12/3/2012

Magari in un’ora del pomeriggio
di Davide Valecchi

Fara Editore
www.faraeditore.it

Poesia silloge
Collana Sia cosa che
Opera vincitrice del concorso Faraexcelsior 2011
 

Adagio malinconico

“Magari in un’ora del pomeriggio / anche nel luogo dove sei adesso / sopra le pietre più esposte si posa / un annuncio della fine del giorno: / …..”

Sono i primi versi della poesia che dà il titolo all’intera silloge, strutturata in tre capitoli (La convalida del tuo sguardo, I laconici giorni / Stagioni irripetibili) in un unico tema che ripercorre l’andare del tempo, misura e sensazione dell’esistenza.
In effetti, più che raccolta tematica, l’unicuum è tale da far pensare a un poemetto, realizzato con particolare cura, con attenzione ai particolari, con una metrica coerente pur se l’impressione è sovente di leggere una prosa poetica, d’eccellente fattura, con artifizi creativi che in un ritmo costante, quasi un adagio, compone una sinfonia di voci, di suoni e di parole che non può non lasciare indifferenti ( Il giorno muore senza neanche un suono /  che si avvicini ad una tua parola / e questa voragine che non vedi / inghiotte i ricordi di luoghi appena / intravisti ma subito perduti. /…).
E’ un fraseggio composto quello dell’autore, intriso di una vela malinconica che, senza indulgere alla tristezza, si offre al lettore come ancora di salvezza, come rifugio di una ritrovata consapevolezza dei limiti umani che non porta a rassegnazione, ma che cala dentro impercettibilmente inondando di serenità.
Le immagini, gli stati d’animo, la paesaggistica e la natura nel suo complesso, una natura non nemica, ma da cui cogliere gli aspetti che più riflettono il proprio sentire, fanno da contorno e anche da sfondo a uno svolgimento lineare che, senza pervenire a eccessivi approfondimenti, trova tuttavia una sua convinta filosofia, scevra da orpelli linguistici e da inutili barocchismi, e che si trasmette con immediatezza. Si stabilisce insomma fra autore e lettore quella corrispondenza inconscia che non viene meno neppure quando, arrivati all’ultimo verso della poesia conclusiva, si chiude il libro e lo si ripone. Resta infatti quest’aura di comunione, quest’atmosfera impalpabile in cui si finisce con il ritrovare non poco di noi stessi, una sensazione gratificante che solo un’opera di eccellente livello può garantire.

Davide Valecchi è nato a Firenze nel 1974. È un grande appassionato e cultore di poesia italiana del Novecento e contemporanea. Ha una laurea in Letteratura Italiana con tesi su Maria Luisa Spaziani. Sue poesie sono apparse in riviste (cartacee e online) e in vari blog letterari. Nell’aprile 2011 una sua poesia, accompagnata da un video, ha vinto il premio Poesia in Video presso il Centro di Poesia Contemporanea dell’Università di Bologna. Polistrumentista, è attivo come musicista fin dall’adolescenza: ha fatto parte di numerose band spaziando in generi musicali diversi: rock, metal, new wave, sperimentazione, elettronica. Attualmente è impegnato con due formazioni: Video Diva (new wave, rock, elettronica) e Downward Design Research (elettronica, ambient, industrial). Con lo pseudonimo di aal (almost automatic landscapes), a partire dal 2001, ha intrapreso un percorso di ricerca sonora in campo elettro-acustico, concreto, elettronico e ambient, pubblicando lavori per varie etichette italiane ed internazionali.
L’attività poetica e quella musicale sono profondamente interconnesse.
Web: davidevalecchi.blogspot.com
Renzo Montagnoli

 

5/3/2012

Il prete giusto
di Nuto Revelli

Edizioni Einaudi
Storia biografia
Collana ET Scrittori

Un prete giusto e perciò scomodo

Era l’estate del 1982 quando don Raimondo Viale, il prete ribelle di Borgo San Dalmazzo, manifestò all’amico Mario Cestella il desiderio d’incontrarmi il più presto possibile. Quale il motivo di tanta urgenza? Aveva appreso che intendevo dedicarmi a una indagine sul clero della campagna povera, e voleva inserirsi nel discorso, ma subito, come se temesse di perdere l’ultima occasione di *consegnarmi* la sua storia di vita.

Don Raimondo Viale (1907 – 1984) è stato un sacerdote piemontese della zona di Cuneo. Partigiano durante la seconda guerra mondiale, è stato insignito dell’onorificenza di Giusto d’Israele per aver soccorso e assistito dopo l’8 settembre 1943 centinaia di ebrei.
Si è sempre battuto contro le ingiustizie, patendo anche un soggiorno al confino, in uno spirito cristiano volto a soccorrere chi più ne avesse bisogno; uomo che non abbassava la testa nemmeno a rischio della vita, sarebbe rimasto poco conosciuto se Nuto Revelli non ne avesse scritto la biografia, frutto di diverse ore di registrazione, durante le quali il vecchio prete ha raccontato la sua storia, dalla nascita fino al dopoguerra.
Antifascista e anticomunista, in nome di quella libertà a cui ha sempre aspirato fermamente, Don Viale è indubbiamente un prete scomodo, uno che non sa tacere, né chinare la testa, e in questo contesto subirà un vero e proprio oltraggio con la “sospensione a divinis”.
Soldato di Cristo e non della Chiesa, scettico nei confronti del clero, tranne che nel caso di pochi sacerdoti, è contro qualsiasi potere che  sovrasti gli uomini, uno spirito ribelle quindi, con caratteristiche di anarchico, un anarchico di altri tempi, pronto a sacrificare se stesso per portare avanti le sue idee e difendere i deboli.
La biografia è scritta in prima persona, insomma è Don Viale che racconta e si avverte chiara la trepidazione, o la commozione, quando ricorda l’infanzia, il seminario, la sua parrocchia, la persecuzione fascista. E’ un uomo anziano che parla, sconfitto e in preda a scoramento, ma nelle sue parole non c’è mai odio, magari un po’ di risentimento, ma questo è temperato dall’amore per tutti, compresi gli avversari e i nemici.
Non c’è discrasia fra il Don Viale prete e il Raimondo Viale uomo, anzi sono fusi mirabilmente in un’immagine di grande pathos. E così, come assiste spiritualmente tredici partigiani condannati alla fucilazione, porta conforto anche a una spia fascista condannata a morte dopo la Liberazione.
Ma quel suo non chinare mai la testa, dire sempre ciò che pensa, criticare anche la Chiesa finirà per fargli patire una condanna ben più grave del confino. Infatti, privato della sua parrocchia, chiuderà la sua esistenza in un ospizio.
A Revelli va dato il merito di  aver portato alla luce un personaggio di così grande spessore, che altrimenti sarebbe rimasto sconosciuto ai più, un altro Perlasca, un altro Schiendler, gente che in umiltà ha dato prova di nobilitare l’umanità, in epoche in cui era più comodo e salubre tacere.
La biografia non è tuttavia completamente esauriente, poiché Don Viale va a memoria e molte cose si confondono o si dimenticano. Quel che manca, soprattutto, è il periodo di continui richiami, di reiterate diffide, che sfociarono nella “sospensione a divinis”. E’ possibile intuire il motivo, ma non è la stessa cosa che avere degli elementi certi, e non è improbabile che non sia stata una dimenticanza di Revelli, bensì una naturale ritrosia del prete a scavare in una ferita che non si sarebbe più rimarginata.
Il prete giusto è un libro intriso d’amarezza, ma è anche un grido, il grido di un uomo vecchio, malato e stanco che chiede giustizia, la prima volta per sé.
Da leggere, senza dubbio.

Nuto Revelli (Cuneo, 1919-2004), ufficiale degli alpini in Russia e protagonista della Resistenza nel cuneese, si è battuto per anni per dare voce ai dimenticati di sempre: i soldati, i reduci, i contadini delle campagne piú povere. Tra i suoi libri, tutti editi da Einaudi, La guerra dei poveri (1962), La strada del davai (1966 e 2010), Mai tardi (1967 e 2008) , L'ultimo fronte (1971 e 2009) , Il mondo dei vinti (1977), L'anello forte (1985) Il disperso di Marburg (1994 e 2008), Il prete giusto (1998 e 2008), Le due guerre (2003 e 2005).
Renzo Montagnoli

 

24/2/2012

Tra i solstizi
di Franca Canapini

Aletti Editore
www.alettieditore.it

Poesia
Collana “Gli Emersi – Poesia”

Chi sono, da dove vengo, dove vado?

Non è un caso il titolo, perché il periodo intercorrente fra il solstizio d’estate e quello invernale è un lasso di tempo del tutto particolare, nel corso del quale la natura prorompe al suo massimo splendore, per poi declinare progressivamente e spegnersi coi rigori del dicembre.
Già, la natura, sempre la natura, fonte d’ispirazione come se bastasse darle un’occhiata per approdare a nuove idee, per aiutarci in quella spesso inconsapevole ricerca dell’assoluto.
Ma la natura non sono solo gli alberi, il cielo o comunque quanto ci circonda, la natura siamo anche noi, piccoli esseri che attraversiamo le stagioni della vita con gli occhi sempre più rivolti all’indietro mano a mano che ci avviciniamo all’ultimo solstizio, in cui il nostro sole interno, già acciaccato dagli anni, silenziosamente si spegne.
Franca Canapini, con queste poesie, in effetti ha compiuto un percorso, dentro se stessa, una ricerca di qualche cosa che si intuisce, ma mai si materializza; è un tentativo normale (chi non l’ha mai fatto?) di un approccio con il divino, attuato con l’osservazione non cosciente di tutto ciò che gira intorno a noi, con un abbandono completo del proprio corpo, svincolato da tensioni e grigiori quotidiani, per pervenire a quella levità che permette di galleggiare in un tempo sospeso, in cui siamo e non siamo, in cui quel che vediamo i nostri occhi mai hanno potuto prima scorgere.
Sono poesie di sensazioni, di colori, a volte tenui, altre più accesi (Ancora si piega il gelso delle more / in questa immobilità verde /  e gialla e rosa e rossa / appena mossa da fremiti / e alati pensieri di timore. /…), di vita, fra alti e bassi, fa rese e riscosse, tutto un percorso dell’esistenza visto dall’alto, distaccato, in un senso del divino, ovviamente personale, ma che ha il presupposto, indispensabile, dell’astrazione completa, dell’osservazione da un vetro senza poter esser visti, e non è un caso se a volte presenzi un misticismo, per nulla di maniera, una sorta di afflato inconscio con ciò che a tentoni si cerca, si avverte, senza poi poter toccare (Chiudimi tra le tue grandi braccia / Padre / che possa infine smemorare / nel tuo amore; /…).
E la ricerca non può prescindere dal passato, che lento riaffiora per dare consapevolezza del presente e, soprattutto, una fune sicura a cui aggrapparsi, da tenere stretta stretta, in un viaggio nell’ignoto (Verrò in un giorno di vento / scuoterò i rami di memoria / tornerò al tronco / sospeso sopra il fosso / mi cercherò in quella / nostra terra. /…).  Chi sono, da dove vengo, dove vado? Tre domande che accompagnano il viandante, di cui invano attende la risposta certa, tre domande a cui nessuno può rispondere, se non calandosi in se stesso, scendendo sempre più giù nel proprio io, dove l’energia vitale dell’anima è il soffio del Divino.
Coraggio, il viaggio è appena cominciato e già abbiamo i primi resoconti, taccuini di versi che si srotolano, traspaiono di allegrezza e di malinconia. Ancora tanto c’è da camminare, immagini, intuizioni, ricordi, emozioni da fermare con le parole, un messaggio per chi poi verrà dietro, passo su passo, una ricerca infinita senza mai approdare.
Leggete, viaggiate con Franca, scoprite, attraverso lei, un po’ di voi.

Franca Canapini è nata a Chianciano Terme (Siena). Vive, con la sua famiglia, ad Arezzo ed insegna Lettere in una scuola media della città. Alcune sue poesie sono state pubblicate nel 2004 nell’antologia di poesia contemporanea Fermenti - Libroitaliano World. Nel 2010, essendo risultata vincitrice del Premio Internazionale di Poesia Jacques Prévert 2009, le è stata pubblicata dalla casa editrice Montedit la raccolta Stagioni sovrapposte e confuse, che ha ottenuto il terzo premio ex-aequo Tagete 2010. Suoi lavori si trovano in alcune antologie (Il Giardino dei Poeti, 2008; Il Club dei Poeti, 2009; Il giro d’Italia delle Poesie in cornice, 2009; Città di Melegnano, 2010; Premio Casentino, 2011; Verrà il mattino ed avrà un tuo verso - Aletti, 2011) e riviste di poesia (Poeti e poesia-Pagine, n.21, 2010), in vari siti e blog culturali (Poetare.it, Arteinsieme.net, Achilleion.com, Il giardino dei poeti.iobloggo.com) e nel suo blog personale: cheneps.iobloggo.com 
Renzo Montagnoli

 

21/2/2012

Il verde della tua veste
e altri racconti
di Piero Chiara

a cura di Federico Roncoroni
In copertina: Antonio Donghi,
Donna al caffè, 1931 (particolare)

Editore Se Srl
Narrativa racconti
 

Chiara inconsueto

Nell’ambito di una più approfondita conoscenza dello scrittore Piero Chiara vado cercando ogni suo libro e così mi sono imbattuto in questo volumetto, edito dalla Se, in cui sono confluiti 22 racconti del tutto inediti. In verità, a voler essere precisi, senza necessariamente essere pignoli, più che di racconti si tratta di articoli di varia tematica apparsi su quotidiani e periodici di vario genere in un arco di tempo che va dal 1948 al 1997, e quindi con alcuni postumi, essendo venuto a mancare l’autore il 31 dicembre 1986.
Sebbene la capacità affabulatoria di Chiara si manifesti anche in questa circostanza, tuttavia siamo assai lontani dalla narrativa ironica a cui ci ha abituato.
Il fatto che si tratti di articoli, in cui magari si parla del Lago Maggiore, ieri e oggi, oppure dei mesi dell’anno, fa venir meno quei personaggi del piccolo mondo della provincia che, benchè spesso sconosciuti, hanno lasciato, grazie allo scrittore luinese, una traccia indelebile, come per esempio Anselmo Bordigoni (Il balordo) oppure Emerenziano Paronzini (La spartizione).
Per lo più in queste prose si riscontra una serietà di esposizione, una minor partecipazione dell’autore, insomma un distacco, che
senza togliere nulla alla valenza dell’articolo, fa pensare a un mutamento del carattere di Chiara, ora più asettico, professionale come può essere un autore che si stacca dalla sua consueta produzione per parlare di tutt’altro.
In verità, Roncoroni, curatore della raccolta, nella ricerca di questi testi si è imbattuto anche in qualche vero e proprio racconto e ciò costituisce un pregio, se non il pregio maggiore, di questo volume.
Così con I cavalieri della stecca, una dissertazione sul gioco del biliardo, ritroviamo il Chiara frequentatore di bar, con i personaggi del tutto particolari che li frequentano; e sebbene più articolo che racconto, in L’espettorazione emerge, palpabile, quell’ironia a cui ci ha sempre abituato, ironia che ritroviamo anche in Il miracolo, storia tipica di paese, nonché in La ragazza e il grande Barzola, tutto giocato su un errore di identità, ma con risvolti anche erotici.
Mi ha meno convinto Anita casalinga gelosa, una breve biografia di Ana Maria de Jesus Ribeiro da Silva, meglio conosciuta come Anita Garibaldi, perché si alternano notizie sicuramente vere ad altre del tutto inattendibili, come il fatto che fosse morta strangolata , sulla base del rapporto del Commissario Pontificio di Bologna, pronto a inventarsi qualsiasi corbelleria pur di screditare Garibaldi. A onor del vero, Chiara sembra piuttosto scettico al riguardo, ma non è che approfondisca, anche perché in lui si risveglia l’istinto della trasgressione che nell’Eroe dei due mondi trova terreno fertile, considerata la sua attitudine a innamorarsi facilmente e a ingravidare le donne che frequentava.
Secondo me, questo excursus storico era meritevole di più ampia trattazione, che invece risulta affrettata, quasi che al tema della gelosia, giustificata, di Anita, Chiara preferisse l’attività di cornificatore del marito.
Il verde della tua veste, che dà il titolo all’intera raccolta, è invece una dissertazione sulla Valtellina, piacevole, lieve, e in cui brevemente compare un personaggio femminile che sarà poi protagonista di un altro riuscito racconto pubblicato in altra raccolta.
Nel complesso il libro si legge e non di rado con interesse, sempre sorretto dallo stile ineguagliabile dello scrittore.
Pur con le riserve che ho dianzi espresso mi sento di consigliare la lettura, senz’altro gradevole.

Piero Chiara nacque a Luino nel 1913 e morì a Varese nel 1986. Scrittore tra i più amati e popolari del dopoguerra, esordì in narrativa piuttosto tardi, quasi cinquantenne, su suggerimento di Vittorio Sereni, suo coetaneo, conterraneo e grande amico, che lo invitò a scrivere una delle tante storie che Chiara amava raccontare a voce. Da Il piatto piange (Mondadori, 1962), che segna il suo esordio vero e proprio, fino alla morte, Chiara scrisse con eccezionale prolificità, inanellando un successo dopo l'altro.
E’ stato autore particolarmente fecondo e fra le sue numerose pubblicazioni figurano Il piatto piange (1962), La spartizione (1964), Il balordo (1967), L’uovo al cianuro e altre storie (1969), I giovedì della signora Giulia (1970), Il pretore di Cuvio (1973), La stanza del Vescovo (1976), Il vero Casanova (1977), Il cappotto di Astrakan (1978), Una spina nel cuore (1979), Vedrò Singapore? (1981), Il capostazione di Casalino e altri 15 racconti (1986).
 
Renzo Montagnoli

 

18/2/2012

Il disperso di Marburg
di Nuto Revelli

Note critiche di Rossana Rossanda,
Goffredo Fofi e Jens Petersen
In copertina elaborazione grafica
di una miniatura di Jean Fouquet
tratta dal manoscritto Histoireancienne jusqu’à Cesar et faits des Romains

Edizioni Einaudi
Narrativa
Collana ET Scrittori

C’era una volta un cavaliere biondo su un cavallo bianco

Nel cuneese circolava una leggenda, quella di un tedesco “buono”, che durante la guerra usciva a cavallo dalla caserma di San Rocco, scambiava qualche parola con i bimbi, donava un sigaro a un contadino e ogni giorno, alla medesima ora, ritornava in caserma. La sua pareva un’innocente passeggiata, in parte lungo la sponda del fiume locale, quasi un tentativo di avere, sia pur per poco tempo, un sogno di normalità nell’atroce tedio della guerra. Ma era imprudente, perché la zona pullulava di partigiani e accadde così che un giorno alla caserma ritornò solo il cavallo e di lui non si seppe più niente, tranne poche parole mormorate a voce bassa dalla popolazione locale che raccontava di come, catturato da patrioti, o da sbandati, oppure da colpisti (tanto per intenderci, quelli di vado, l’ammazzo e torno), fosse stato ucciso su un isolotto del corso d’acqua e di come il suo corpo fosse rimasto a lungo nascosto nella bassa boscaglia, fino a quando una piena del fiume l’aveva portato via, lasciando solo un lembo di stoffa bianca impigliato in un ramo.
Quando ne venne a conoscenza Revelli erano già trascorsi molti anni dal fatto, ma la figura del tedesco buono e del disperso presero il sopravvento sul razionale quotidiano, tanto da indurlo a effettuare una lunga ricerca storica, sulla base di prove orali e documentali, per sapere se questa leggenda avesse un fondamento, per dare un nome alla vittima e, soprattutto, per verificare se davvero fosse stato buono, perché lui, Revelli, di tedeschi buoni non ne aveva conosciuti, anzi aveva cominciato a odiarli durante la campagna di Russia, sentimento che si era ulteriormente acutizzato nel periodo della Resistenza.
La ricerca fu lunga, snervante, quasi impossibile e di questo lavoro straordinario abbiamo il resoconto con questo libro, in cui l’autore riporta, diaristicamente, il progredire delle indagini, le sensazioni, gli stati d’animo, il continuo riaffiorare di ricordi degli altri dispersi suoi compagni d’arme in Russia e di episodi indelebili della sua attività di partigiano.
Ne nasce una strana opera, che non è né saggio storico, né romanzo, ma che porta le caratteristiche di entrambi, con un “io” narrante che lascia chiaramente trasparire l’ansia di arrivare alla fine, di sapere, nella particolare condizione che un nemico è un’ombra senza volto da uccidere, mentre il nemico, quel nemico, perde le caratteristiche di bersaglio anonimo, diventa poco a poco parte di noi, sì che odiandolo odiamo noi stessi.
E’ un lavoro non facile, ma lo stile asciutto di Revelli molto aiuta nel trasmettere l’immediatezza degli stati d’animo, nell’intuire ciò che l’autore ha timore di rivelare perfino a sé medesimo.
Il percorso è doloroso e più ci si avvicina alla meta più risalta l’umanizzazione della vittima, probabilmente non buona, ma nemmeno cattiva. E il nemico così, a mano a mano che si conosce, diviene la nostra ombra, in un crescendo di commozione che l’autore conclude così malinconicamente:  Ogni qual volta rivivo l’episodio di San Rocco mi rivedo davanti agli occhi quel brandello della maglia bianca di Rudolf, risparmiato dall’onda lunga del fiume. Come il segnale di un destino crudele, di una vita sprecata, di una resa.” (pag. 174)
Rudolf Knaut perde il suo alone di leggenda, ma induce il nemico Nuto Revelli a provare un sentimento di autentica umana pietà.
Il disperso di Marburg è un bellissimo libro contro la follia di ogni guerra.

Nuto Revelli (Cuneo, 1919-2004), ufficiale degli alpini in Russia e protagonista della Resistenza nel cuneese, si è battuto per anni per dare voce ai dimenticati di sempre: i soldati, i reduci, i contadini delle campagne piú povere. Tra i suoi libri, tutti editi da Einaudi, La guerra dei poveri (1962), La strada del davai (1966 e 2010), Mai tardi (1967 e 2008) , L'ultimo fronte (1971 e 2009) , Il mondo dei vinti (1977), L'anello forte (1985) Il disperso di Marburg (1994 e 2008), Il prete giusto (1998 e 2008), Le due guerre (2003 e 2005).
Renzo Montagnoli

 

15/2/2012

Piove

di Gabriele Oselini

Prefazione di Fabrizio Azzali
Copertina di Elvira Pagliuca (studio Kaleidon)
Fara Editore
www.faraeditore.it

Poesia silloge
Collana Sia cosa che

Inspiratio natura

Nella sua prefazione a questa silloge, Fabrizio Azzali cita il riferimento ad alcuni dipinti del grande pittore romantico inglese John Constable, con quegli orizzonti che sfumano in cieli solo lievemente corrucciati, una pittura naturalistica che ha i tratti sfumati, tenui e pur così coinvolgenti propri dell’acquarello.
E’ indubbio che quest’opera poetica di Gabriele Oselini approdi, attraverso le parole, a descrizioni paesaggistiche del territorio padano, non fini a se stesse, ma metafore degli stati d’animo, dei sentimenti, delle emozioni dell’autore (al tramonto / con frivola certezza / dallo stagno odoroso / molle di luci ondulate / soffuse fra frasche di salice / e anatre in fila affamate / dietro il ponte verde marcio / vola un rondone.). Pochi versi e si apre uno squarcio nel grigiore quotidiano per un ritorno alla serena complessità della natura, una natura realistica, non idealizzata come un’Arcadia, ma semplicemente portata alla luce perché se ne sappiano cogliere i positivi influssi, immergendosi in essa, parte e mai controparte del caos perfetto dell’universo.
Per chi non si lascia travolgere dalla quotidianità è un ritorno alle origini, un rifugio a cui approdare dopo una continua fuga da se stessi. C’è una certa atmosfera che si può ritrovare anche nelle Bucoliche di Virgilio, ma non stupisce perché l’essere umano, per ritrovare il suo intimo io, deve ritornare nel grembo della grande madre, appunto della natura.
Le sensazioni indotte, però,  non si limitano solo ai tratti di pennello con cui si delinea il paesaggio, perché come in ogni opera pittorica assumono valenze i colori, quasi sempre tenui, un’impalpabile mano di vernice che sembra dissolversi nell’aria se si soffia sulle pagine ( Greve / il giorno della merla / colora d’opale / la neve.). La fine di gennaio, nel pieno dell’inverno, assume così i tratti di un freddo interiore, di una stagione morta da cui è possibile risorgere solo a primavera ( da Rondine – linea nera / veleggi / nell’azzurro / sinuosa…).
E la natura è sempre protagonista, anche laddove fa da sfondo a un emergente ricordo (da Compagno Bruno - …Dorme ora la tua anima / capace di assalti / un tempo verdi / di alberi amati / lungo la strada del Po /…) ( da Ennio – un vecchio salice / monta la guardia / alla barchessa / abbandonata / dietro il bugno…).
C’è una semplicità in queste poesie che è perfino disarmante, ma esse sanno ricreare un ambiente, un’atmosfera palpabile e che coinvolge, magari senza la vena mistica propria della produzione di Tagore, ma quel senso innato di rispetto e amore per la natura c’è tutto, come quell’inconscio ritorno al passato, un’isola lontana che riaffiora dentro fra le brume dense del tempo presente, e che non ci fa dimenticare da dove veniamo, alla ricerca di una rotta sicura e serena nei marosi di un’epoca che procede come un veliero disalberato.
Sono una quarantina di poesie in tutto, fra le quali Piove, che dà il titolo alla silloge e che è paradigmatica di tutta l’ars poetica di Oselini (fra arabeschi / color verde / su nubi diafane / chiaro un raggio / - o forse un’ombra - /…). Natura che richiama i ricordi, memorie che si fondono nel paesaggio, colori tenui, un senso di vita calmo, pacato, appena sfiorato da quell’ombra, quasi sempre nascosta, e che di tanto in tanto ci ricorda che l’eternità non è per noi, piccoli esseri che per poco tempo alimentiamo quell’autentico miracolo che è la vita.
Leggete queste poesie, ritroverete una serenità di cui non serbavate nemmeno il ricordo.

Nato a Viadana in Provincia di Mantova il 19 settembre 1953 ed ivi residente, Gabriele Oselini si è laureato in Pedagogia presso l’Università degli Studi di Parma. Negli anni ’70 ha conosciuto Daniele Ponchiroli, viadanese, capo redattore della casa editrice Einaudi, dal quale ha avuto stimoli importanti e utili alla propria formazione culturale e umana e col quale ha intessuto un rapporto di profonda amicizia. È insegnante di Italiano nella Scuola Media dell’Istituto Comprensivo di Sabbioneta. Sposato con due figlie, impegnato in politica, ha ricoperto per anni l’incarico di Assessore alla Cultura, Pubblica Istruzione e Politiche giovanili del suo Comune. È appassionato di letteratura e di poesia, con particolare attenzione per quella latinoamericana del Novecento. Ha partecipato a diversi concorsi locali e nazionali: è stato segnalato alla III edizione del concorso Pubblica con noi di Fara Editore, con cui ha pubblicato nel 2005 una selezione di poesie all’interno di Antologia Pubblica e, successivamente, le sillogi Specchio (2006), e Finito (2008).
Renzo Montagnoli

 

11/2/2012

La spartizione
di Piero Chiara

Arnoldo Mondadori Editore
Narrativa romanzo
 

Uno per tutte, tutte per uno

“Da dove era venuto con quella faccia severa, con quell’aspetto composto e a prima vista distinto? Da qualche importante città, da una famiglia di rango, da una lunga abitudine alla riservatezza?
Solo dopo qualche mese si seppe che veniva, in seguito a trasferimento d’ufficio, dal capoluogo della provincia; ma che era di Cantévria, un paesucolo della Valcuvia, a pochi chilometri da Luino.”
Emerenziano Paronzini, un impiegato statale di mezza età, ha idee ben chiare in testa: è giunto il momento di accasarsi, di trovare una moglie, non necessariamente bella, ma che rappresenti per lui una sicurezza, un approdo definitivo in attesa dell’ultima stagione.
E’ così che nella sua ricerca, in cui spirito di osservazione e fiuto istintivo procedono appaiati, s’imbatte nelle tre sorelle Tettamanzi, zitelle ormai, timorate di Dio, anzi quasi beghine, senza problemi economici e con una vecchia, ma comoda casa in paese, circondata da un bel giardino. Belle non sono, anzi a voler essere realisti  sono proprio brutte, anche se qualche particolare anatomico non è disprezzabile. E così come la faina si avvicina al pollaio con circospezione, il Paronzini guata le prede, fino a riuscire a introdursi nella loro dimora.
La scelta cade sulla più anziana, Fortunata, ma il corteggiamento di un uomo, del tutto ormai inatteso, sconvolge l’equilibrio familiare, provoca scariche ormonali al punto che tutte e tre le sorelle decidono, autonomamente beninteso, di farlo innamorare. E così, se la scelta formale sarà per Fortunata, portata infatti all’altare, Emerenziano Paronzini si farà in tre, passando da un letto all’altro, accontentando così anche le altre due che, per la prima volta, nella loro ingessata vita da nubili, conosceranno la felicità.
Convinte di condurre il gioco, in effetti questo è comandato dal maschio, un vero e proprio gallo nel pollaio che, secondo turni prestabiliti, giace con l’una o con l’altra, in tutti i giorni della settimana, fatta eccezione per la domenica, vero e proprio giorno di riposo in tutti i sensi.
Secondo romanzo di Piero Chiara, dopo Il piatto piange, La spartizione vanta un’invidiabile freschezza, una leggerezza narrativa che presenta, per la prima volta nella produzione dell’autore luinese, una misurata ironia che fa muovere più al sorriso che alla risata, che stempera qualche scena un po’ troppo erotica, restituendo all’atto sessuale quella sua naturalezza che solo secoli di calunnie hanno relegato fra i peccati.
Fra l’altro, l’abilità dello scrittore è veramente rimarchevole dove descrive i turbamenti di queste mature zitelle, la trasformazione da insensibili cariatidi a femmine voluttuose, prima frastornate dalla novità e poi compiaciute del loro tranquillo menage.
La spartizione è un romanzo sicuramente piacevole e divertente e quindi la lettura è senz’altro consigliata.  

Piero Chiara nacque a Luino nel 1913 e morì a Varese nel 1986. Scrittore tra i più amati e popolari del dopoguerra, esordì in narrativa piuttosto tardi, quasi cinquantenne, su suggerimento di Vittorio Sereni, suo coetaneo, conterraneo e grande amico, che lo invitò a scrivere una delle tante storie che Chiara amava raccontare a voce. Da Il piatto piange (Mondadori, 1962), che segna il suo esordio vero e proprio, fino alla morte, Chiara scrisse con eccezionale prolificità, inanellando un successo dopo l'altro.
E’ stato autore particolarmente fecondo e fra le sue numerose pubblicazioni figurano Il piatto piange (1962), La spartizione (1964), Il balordo (1967), L’uovo al cianuro e altre storie (1969), I giovedì della signora Giulia (1970), Il pretore di Cuvio (1973), La stanza del Vescovo (1976), Il vero Casanova (1977), Il cappotto di Astrakan (1978), Una spina nel cuore (1979), Vedrò Singapore? (1981), Il capostazione di Casalino e altri 15 racconti (1986).
Renzo Montagnoli

 

2/2/2012

Tenebre su tenebre

Quando Dio si vergogna degli uomini e gli
uomini si vergognano di Dio

di Ferdinando Camon

Garzanti Libri
www.garzantilibri.it
Saggistica
 

Un’analisi impietosa

Nel 2006  Ferdinando Camon ha riunito in un volume (Tenebre su tenebre) una serie di pensieri, ragionamenti, meditazioni, ricordi, scritti nel corso di circa tre lustri in concomitanza con i fatti più eclatanti della storia e della cronaca, come guerre, encicliche, omicidi, suicidi, fenomeni sociali di vario genere, tutti eventi che, senza che magari che ne accorgiamo, incidono in modo determinante sulla nostra vita.
Ormai dovrei essere abituato all’originalità delle opere di questo autore, mai ripetitivo, e in grado di affrontare qualsiasi tema a 360°; eppure questo Tenebre su tenebre mi ha stupito, con questa lunga serie di riflessioni su aspetti diversi, ma in un’unica ottica: quella di rappresentare i controsensi di una società apparentemente felice, ma che va di giorno in giorno degradando. E il quadro che ne esce è per certi aspetti disarmante, perché non lascia scampo, perché non resta un barlume di speranza a che questa decadenza possa arrestarsi, o comunque rallentare.
Tengo a precisare che Camon non è l’inguaribile pessimista che da un aspetto, magari anche marginale, trae, per estensione, conclusioni apocalittiche; no, nel leggere questi pensieri, che a volte possono anche indisporre perché ci toccano direttamente, nascono altre riflessioni che finiscono con il pervenire, al termine del libro, a un unico giudizio sul futuro di questa povera umanità, tesa a percorrere una discesa senza freni e comunque nel più totale disinteresse per la propria sorte.
Ora parlare diffusamente di tutte queste ponderazioni è pressoché impossibile, perché il libro consta di 368 pagine, dove sono numerosissimi i fatti su cui l’autore ha ragionato e pertanto mi limiterò ad accennare solo ad alcuni, a quelli che, a mio parere, possono meglio dare un’idea dei contenuti di questo volume.
Comunque non è sfuggito nulla dei piccoli e grandi temi, o problemi, che caratterizzano la nostra società. A volte le riflessioni hanno imposto un discorso piuttosto lungo, altre, più spesso, si formalizzano in poche righe, una vera e propria fucilata che ci richiama alla realtà di situazioni e di fatti che abbiamo affrontato in modo superficiale, e frequentemente sulla base di preconcetti, che diamo come verità assolute, e invece sono delle falsità di comodo su cui costruire castelli che, per l’infondatezza delle loro stesse basi, prima o poi finiranno per crollare su di noi.
In un’epoca come la nostra, caratterizzata da grandi spostamenti di esseri umani dalle aree misere della terra alle nostre, in cui il benessere è ancora palpabile nonostante la crisi, non poteva così mancare un’attenzione per il fenomeno delle migrazioni ed ecco allora alcune meditazioni, fra le quali Verme mi sembra che più di ogni altra valga a spiegare la nostra diffidenza verso questi stranieri (I paesi che hanno avuto una forte emigrazione sono i più crudeli nel bloccare l’immigrazione. Perché l’ex-emigrante vede nel nuovo povero il povero che lui è stato. La visione accanto a sé dello straniero-povero è come la scoperta di un verme nella mela che sta mangiando: sputa perché lo disgusta. Perciò gli immigranti, dopo aver lavorato qua per decenni, prima di morire tornano nei loro paesi: finalmente liberi, pari tra pari.).
Altre riflessioni sono brevi, quasi uno strale che colpisce all’improvviso e che dà l’impressione di un epitaffio disincantato, proprio per la logica ferrea che è alla loro base, come nel caso di Vincitori (Nelle polemiche letterarie, come nelle guerre, vince chi ha più potere, non chi ha più ragione. La tv sul giornale, il giornale sulla rivista, il premiato sul finalista, le centomila copie sulle diecimila copie.).
Di questi pensieri lapidari ce ne sono parecchi e, a differenza di quelli che sono più lunghi da leggere, sono brevissimi, ma richiedono, magari in più tempi, ulteriori nostre riflessioni che finiscono poi per approdare ad altre problematiche, proprie dell’esercizio della mente quando viene opportunamente stimolata, come in Bene (Il bene è silenzioso. Se diventa rumoroso, è pubblicità.). E’ vero e senz’altro incontestabile, ma in una società in cui conta l’apparenza, finirà nella maggior parte dei casi con l’essere pubblicità. E se poi pensiamo al concetto che abbiamo di bene, sorge immediata una richiesta di verifica, su cosa sia effettivamente il bene, su come cercarlo in noi, su come farlo senza la cognizione di farlo, come gesto spontaneo, contro ogni forzatura.
Si potrebbe andare avanti per un bel po’, e infatti la lettura del libro è stata piuttosto lunga, nel senso che mi ha impegnato in un arco di tempo di circa un anno, che può sembrare un’enormità, ma non lo è, poiche gli stimoli che mi ha indotto continuano a perpetuarsi, provocano indirette e anche non cercate riflessioni che tendono a far sì che il mio apprezzamento, a distanza di tempo da quando l’ho terminato, si accresca, al punto da farmi esclamare:” Se non l’avessi letto, mai e poi mai avrei fatto queste considerazioni; mai e poi mai avrei pensato che ciò che ritenevo assodato era solo un preconcetto; mai e poi mai avrei cercato di comprendere, attraverso me stesso, i problemi di questa società.”. 
Quelli che erano atti di fede sono così risultate semplici convinzioni, assimilate come veri e propri dogma, e quindi a prova di ogni logica, in quanto questa aprioristicamente respinta.
Al riguardo Camon scrive una riflessione esemplare sulla Fede (Su quel che promette la fede l’umanità si divide in due parti: metà crede che ci sia tutto ma teme che non ci sia niente, l’altra metà crede che non ci sia niente ma teme che ci sia tutto.)
Quasi senza accorgerci, una pagina dopo l’altra, emerge una diagnosi cruda, impietosa, della nostra società, una conclusione che turba e che porta a una visione di un mondo insensato, in un libro di grandissimo interesse, e di altrettanto consistente valore.
Leggetelo, per sapere come siamo, per conoscere dove andiamo.

Ferdinando Camon è nato in provincia di Padova. In una dozzina di romanzi (tutti pubblicati con Garzanti) ha raccontato la morte della civiltà contadina (Il quinto stato, La vita eterna, Un altare per la madre – Premio Strega 1978), il terrorismo (Occidente, Storia di Sirio), la psicoanalisi (La malattia chiamata uomo, La donna dei fili), e lo scontro di civiltà, con l'arrivo degli extracomunitari (La Terra è di tutti). È tradotto in 22 paesi. Il suo ultimo romanzo è La mia stirpe (2011).
Il suo sito è www.ferdinandocamon.it

Renzo Montagnoli

 

29/1/2012

Il balordo

di Piero Chiara

A cura e introduzione di Mauro Novelli
In copertina: Domenico Gnoli,
LEFT SIDE PARTITION, 1969 – Stedelijk
Museum Amsterdam

Arnoldo Mondadori Editore
Narrativa romanzo
Collana Oscar scrittori moderni
 

Un personaggio straordinario

Anselmo Bordigoni pesava centoquaranta chili e la sua altezza era di metri uno e novantotto. La vita sedentaria aveva favorito la crescita del suo ventre, il cui asse antero-posteriore era di settanta centimetri, in rapporto proporzionale col peso…. Scalinate di carne, sacche di grasso d’incalcolabile consistenza, cordonate di lardo e spessore incredibile di cotiche, materializzavano in lui una forma che troppo facilmente poteva definirsi mostruosa, e aveva invece una sua armonia di rapporti tra misura e misura, e come si è visto, tra misura e peso. Nel luogo dove capitò a vivere egli era, positivamente, il più grande e grosso uomo che si fosse mai visto.

Questa è una parte della descrizione che Piero Chiara fa del protagonista di Il balordo, il suo terzo romanzo dopo Il piatto piange e La spartizione. E’ indubbiamente un personaggio eccezionale e non solo per la sua mole, perché, additato di volta in volta come omosessuale, antifascista, debole di mente, musicofilo e concertista di grande fama, è invece un uomo che più che vivere, si lascia vivere, senza apparenti desideri, senza memoria del passato, completamente soddisfatto della sua innata passione per la musica, alternata con lunghe sedute in riva al lago o ai fiumi, cercando di far abboccare qualche pesciolino.
Una vita anonima e silenziosa, la sua, in evidente contrasto con la sua dimensione, che da sola basta a farlo notare.
Si potrebbe anche dire che conduce un’esistenza chiuso in se stesso, indifferente al mondo che lo circonda, in un atteggiamento tipico del diverso o comunque del disadattato.
Addirittura potrebbe essere scambiato per lo scemo del paese, con quel suo mutismo ostinato che avvolge di ulteriore mistero la sua persona.
Ma se lo scemo del paese viene tollerato e finisce con il diventare quasi un’istituzione, perché c’è senza esserci, perché in lui normalmente non c’è un talento che supplisca alla sua disgrazia e che lo elevi dal suo grigiore, in Anselmo Bordigoni è presente una grazia divina, una capacità di accostarsi alla musica, di interpretarla, di suonare diversi strumenti come ben pochi sanno fare. E’ un piacere ascoltare il suono del suo pianoforte, è una melodia che scende dell’anima, ma inevitabilmente questo riscatto della sua volontaria astrazione dal mondo urta la sensibilità di chi, attivo e presente in società, non ha nulla da contrapporre a questa qualità così eccelsa. Uno comincia a mormorare, a inventare fatti inesistenti, e in una piccola realtà la voce corre, si propaga, si amplifica, fino a diventare una verità.
Accusato di comportamento sconveniente sarà inviato al confino, in un altro piccolo paese del meridione, chiuso, ma disponibile ad accogliere, senza riserve, questo omone che trascorre lunghe giornate seduto sotto un albero gigantesco e secolare, chiamato nella tradizione popolare Il Buon Cazzone. Ed è tanta la simbiosi con la pianta che anche Anselmo Bordigoni, il Bordiga, ne assumerà il soprannome.
Rientrato al paese lacustre, dopo il secondo conflitto mondiale, in cui saprà farsi valere con la sua musica, tanto da essere arruolato nell’esercito americano come direttore di banda, non verrà riconosciuto dapprima da chi pur aveva a lungo vissuto vicino a lui. Scambiato per un maggiore dell’esercito alleato, dimenticata da tutti l’accusa infamante che l’aveva mandato al confino, anzi nella convinzione che questo suo soggiorno obbligato fosse dovuto a un’attività antifascista, in un quadro generale che vede le autorità del paese latitanti per il loro trascorso attivo nel regime, sarà proclamato sindaco a furor di popolo. E mai simile incarico verrà svolto così bene, con l’introduzione di una democrazia diretta accettata da tutti, in quanto partecipi delle decisioni.
Durante questo incarico verrà a mancare (le pagine della sua morte sono di grande bellezza) e umile come era sempre stato chiederà solo di essere sepolto lungo il muro di cinta del cimitero, con una piccola lapide con su scritto solo Qui riposa Il Buon Cazzone.
I tempi, tuttavia, dopo la sua morte cambieranno rapidamente, vi sarà un ritorno ai preconcetti del passato, una silenziosa restaurazione che provvederà a far cancellare dall’iscrizione “Il Buon Cazzone” e così ci si è dimenticherà di lui, di una presenza tanto ingombrante quanto esaltante.
Piero Chiara ha scritto un romanzo che è semplicemente stupendo, forse sotto l’influsso del Candido di Voltaire, un candido nazionale, paesano, un personaggio indimenticabile così come tracciato dall’autore, che rivela in quest’opera anche un rilevante talento poetico. Al riguardo bastano le poche righe che seguono per dimostrare questa sua capacità:
Finì l’anno scolastico e con l’estate ricominciò a funzionare l’orchestra. Nelle notti stellate le due motociclette canterellavano per le strade delle valli; e appena arrivati loro dentro i saloni a finestre spalancate delle trattorie tacevano i grilli e incominciavano i tonfi della grancassa, le cascatelle del pianoforte, i singulti del sassofono e le sviolinate del Ginetta. Il pubblico era sempre lo stesso, con l’intrusione di qualche villeggiante milanese.
E io che pensavo di aver letto tutto di Chiara, tranne Il balordo, forse per il titolo che non mi attraeva, ora sono contento di parlarne, perché per ultimo mi sono riservato il suo romanzo più bello, che non esito a definire un capolavoro per il tema trattato, per come è stato svolto, per la grande maestria con cui, più volte, si è indotti al riso e contemporaneamente al pianto, come appunto nelle pagine della morte del Bordiga.
Il balordo è un’opera imperdibile.

Piero Chiara nacque a Luino nel 1913 e morì a Varese nel 1986. Scrittore tra i più amati e popolari del dopoguerra, esordì in narrativa piuttosto tardi, quasi cinquantenne, su suggerimento di Vittorio Sereni, suo coetaneo, conterraneo e grande amico, che lo invitò a scrivere una delle tante storie che Chiara amava raccontare a voce. Da Il piatto piange (Mondadori, 1962), che segna il suo esordio vero e proprio, fino alla morte, Chiara scrisse con eccezionale prolificità, inanellando un successo dopo l'altro.
E’ stato autore particolarmente fecondo e fra le sue numerose pubblicazioni figurano Il piatto piange (1962), La spartizione (1964), Il balordo (1967), L’uovo al cianuro e altre storie (1969), I giovedì della signora Giulia (1970), Il pretore di Cuvio (1973), La stanza del Vescovo (1976), Il vero Casanova (1977), Il cappotto di Astrakan (1978), Una spina nel cuore (1979), Vedrò Singapore? (1981), Il capostazione di Casalino e altri 15 racconti (1986).
Renzo Montagnoli

 

23/1/2012

Leonardo SciasciaLa Sicilia come metafora – ed. Mondadori

Recensione di M. Carmen Lama

 
 

Un libro atipico questo di Leonardo Sciascia, dal titolo La Sicilia come metafora, costituito da una interessante intervista sottoposta allo scrittore siciliano dalla giornalista francese, Marcelle Padovani, nel 1979.

Si potrebbe già pensare che sia inutile leggere un libro così datato e che non è nemmeno uno degli importanti romanzi-denuncia di Sciascia, salvo rendersi conto che la sua vena critica, emergente con lucidità e severa obiettività in questa intervista, possa ancora rivelarsi attuale.

E in effetti, il libro è di un’attualità sconvolgente, quasi una premonizione, anche perché basato su un filo rosso storico dal quale si evince che nel mondo politico e sociale non ci sono delle novità positive, almeno dal tempo dei Romani! E la condizione politica e sociale dei nostri giorni, purtroppo, ne risulta candidamente rispecchiata, come se Leonardo Sciascia stesse parlando del nostro tempo e non del suo.

E non è una sorta di pessimismo insanabile dello scrittore questa sua visione delle cose, in caduta, ma semplicemente il risultato sia di esperienze vissute in prima persona, sia di una osservazione disincantata della realtà: quella a lui prossima negli anni dell’intervista e quella a cui egli risale, con una memoria storica nient’affatto corta e men che meno indulgente verso ciò che non va assolutamente, specie in una società che vuole dirsi democratica e civilmente evoluta.

Insomma, semplicemente (sic!) una presa d’atto di una realtà che, nel suo inevitabile divenire temporale, è di una staticità mortifera e mortificante, nel senso più deleterio di questi ultimi due aggettivi, perché si tratta di una tragica involuzione, di un ritorno continuo ad esperienze politico-sociali e quindi anche storico-individuali, che non permettono di prendere respiro, che non fanno avanzare di un passo la cultura in senso lato e quella democratica in particolare, e che non liberano l’uomo dalle pastoie burocratico-legislative, economico-finanziarie, in cui ve l’avviluppa lo strato sociale che detiene il potere e che, chissà perché, è costituito sempre da chi possiede di più in termini materiali, patrimoniali, e di buona dose d’arroganza e di presunzione di legittimità delle sue funzioni, come un’investitura a vita e/o simil-ereditaria.

Per non parlare delle pastoie religiose e di quelle che avvolgono persino i comportamenti più privati e il modo stesso di pensare (v. tutte le forme di manipolazione del pensiero attraverso messaggi pubblicitari subliminali e attraverso la distorsione di verità per interessi di parti politiche, partitiche o idelologiche, ecc… che già facevano pesantemente sentire la loro presa al tempo di questa intervista e del rispettivo libro di Sciascia).

 

Il titolo di questo libro, oltrettutto, è emblematico, perché ci invita immediatamente a chiederci: la Sicilia è metafora di cosa?

Se il titolo vuole condensare  tutto il percorso della conversazione sostenuta nel libro, è da chiarire subito che cosa intende comunicare.

Sciascia afferma: «La realtà tende a diventare ovunque “mafiosa”. La “linea della palma” risale dall’Africa verso l’Europa di 50 centimetri l’anno. Guai alle conseguenze!».

Sembra proprio una profezia, almeno a giudicare da quel che vediamo compiersi giorno per giorno sotto i nostri occhi.

Per questo, ritengo che l’attualità di questo libro non si riferisca solo al nostro tempo, che ripercorre, ampliandoli e distorcendoli, gli stessi modelli politico-sociali degli anni ’70, ma molto probabilmente si riferisca anche a un tempo futuro, nel quale le conseguenze non potranno essere che un ulteriore ampliamento dei problemi e deterioramento del sistema-Italia. A meno che non ci sia un soprassalto di orgoglio nazionale che facendoci intravedere un baratro non ci imponga un cambiamento culturale e mentale e una virata decisa verso un’auspicata quanto necessaria moralità che partendo dal basso e dal privato individuale, coinvolga in una spirale virtuosa il sociale e soprattutto, e in tempi brevi, il mondo politico.

 

Per confermare ed analizzare in tutte le possibili accezioni l’assunto del titolo di questo libro, l’intervista si snoda su diversi temi:

-  inizia dall’identità dello stesso Sciascia, siciliano che ha vissuto dentro il mondo del dramma   pirandelliano, dove identità e relatività costituivano (costituiscono!) elementi di un “pirandellismo in natura”, ma che per superare la solitudine in cui un tale mondo lo poneva, ha voluto aggrapparsi alla ragione, cioè all’altra faccia delle cose e a un modo diverso di “ragionarle”

-  passa poi a parlare della “mafia” dandone una rappresentazione quanto mai rivelatrice del potenziale distruttivo e disgregante che contiene e facendo indignare nel leggere una sorta di “elogio funebre di un mafioso”, dove dopo un distico in corsivo che dice: “In Lui gli uomini ritrovarono / una scintilla dell’eterno rubata ai cieli”,  dà alcune informazioni sulla vita di quest’individuo e termina con queste parole: “… dimostrò, con le parole e con le opere, che la mafia sua non fu delinquenza, ma rispetto alla legge dell’onore, difesa di ogni diritto, grandezza d’animo: fu amore

-  prosegue con il punto di vista dello scrittore su “come si può essere siciliani”

- e con il sostenere una “verità dello scrittore”, il quale, grazie ad una sua esperienza diretta in politica, riesce ad essere molto critico anche con il partito da lui appoggiato

- e si conclude, infine, con una disamina molto ben articolata del potere - soprattutto se è comunista.

Questa, in breve, la successione dei capitoli del libro.

 

La lungimiranza di Leonardo Sciascia, basata -come ho già scritto- su una lettura diacronica della vita politica in Italia (con cenni su qualche altra nazione europea) e sull’osservazione dei dati di fatto del periodo storico a ridosso del cosiddetto “affare Moro”, è veramente sorprendente e, mentre invita a non perdere di vista il passato per non ripetere gli errori commessi, dà una fotografia quanto più nitida possibile del presente, purtroppo minato da troppi compromessi e corruzione e  mafiosità dilagante, e nello stesso tempo mette in guardia su un futuro che potrebbe non distinguersi poi tanto dal presente e da quello stesso passato che sempre si fatica a lasciarsi definitivamente alle spalle, giungendo però a dare anche prospettive di speranza in un cambiamento possibile in positivo, se si acquisisse la consapevolezza delle zavorre (politiche, morali, sociali, culturali, economiche, commerciali… ecc… ecc..) che continuano a pesarci addosso e della necessità-urgenza di abbatterle, alleggerendo e rimodernando il nostro Paese, in modo che si abbia a buon diritto la certezza di vivere in uno Stato veramente democratico e veramente civile.

 

È un libro che una siciliana come me, trapiantata da alcuni decenni al Nord d’Italia, non poteva non leggere con la convinzione che si può essere buoni italiani, ma solo a patto che ci si riesca a liberare dalla marginalità in cui siamo continuamente spinti (lo vediamo ancora in quale considerazione è tenuta l’Italia dai partners europei!), rigettando una volta per tutte quella brutta etichetta di mafiosità che infanga la Sicilia in primo luogo e ormai anche il resto d’Italia dove la malavita organizzata ha prolungato i suoi tentacoli.

Pur nel pessimismo di fondo che si possa rivoltare una condizione ormai secolare, non ci resta comunque che il dovere di sperare nel cambiamento e negli uomini e nelle donne che hanno a cuore il futuro delle nuove generazioni e dell’Italia.

M. Carmen Lama

 3 dicembre 2011

 

19/1/2012

Le corna del diavolo
e altri racconti

di Piero Chiara

a cura di Mauro Novelli

introduzione di Giansiro Ferrara

Arnoldo Mondadori Editore

Narrativa raccolta di racconti

Collana Oscar scrittori moderni

Non è solo una  questione di corna

Nel 1976 a Piero Chiara venne l’idea di riunire in un unico volume dei racconti brevi scritti anni prima, alcuni dei quali già noti in quanto pubblicati sul Corriere della Sera.
Trovò anche il titolo, un po’ bizzarro in verita, “ O soffio dell’april “, che ha origine dal brano del Werther di Massenet intonato da un tenore che aveva perso la voce e la ritrova con un innamoramento, racconto questo inedito, in cui la consueta ironia dell’autore luinese appare stemperata dalla malinconia legata all’avanzare degli anni a cui più di un essere umano crede di porre rimedio con l’amore per donne assai giovani,  un autentico pezzo di bravura che da solo vale l’intera raccolta. In esso si combinano il consueto stile sciolto e una ricchezza di fraseggio, un’opulenza letteraria che conferiscono allo scritto una patina dorata.
Tuttavia, molto probabilmente per esigenze commerciali, al titolo proposto da Chiara fu preferito quello di un altro racconto, pure facente parte della raccolta, in quanto Le corna del diavolo richiamano l’idea di chissà quali avventure boccacesche, che in effetti sono quasi sempre presenti nelle opere dell’autore, ma che poi, con il trascorrere del tempo, si sono molto affinate, lasciando immaginare al lettore, più che imponendogliele, scene erotiche, peraltro sempre descritte con invidiabile mano leggera e con un brio che muove più al sorriso che alla risata.
E infatti in Le corna del diavolo ci sono tradimenti, ma niente di particolare o che comunque faccia supporre le gesta di un grande amatore, ma non dirò altro per rispetto dei lettori.
In tutto si tratta di ventidue racconti, in genere di buona qualità, e di cui almeno quattro raggiungono vertici di eccellenza, fra i quali appunto O soffio dell’april.
Sono tutte narrazioni in parte di vita vissuta, pur se vista come proiezione della propria fantasia, e abbracciano uno spazio temporale piuttosto ampio, partendo dalla fine della prima guerra mondiale a un’epoca non esattamente definota, ma che si può intuire come i primi anni ’70.
In questo contesto spiccano tre racconti, fra i quali Una cattiva scelta non ha solo per tema una cornificazione, ma è un ritratto, particolarmente ironico, di come la fortuna sia cieca e di come si possa passare da una temuta sfortuna a una situazione di favorevole privilegio. Di notevole rilievo, come anche testimonianza storica, è La spagnola, quella febbre malsana che al termine del primo conflitto falcidiò l’Europa, nella descrizione qui di un Chiara che all’epoca non era di più di un bambino. In questo caso non si ride, si prende solo atto della testimonianza di uno che c’era e che non ne cancellò mai il ricordo.
E infine non posso non segnalare Il fico sull’incudine, una storia d’amore d’altri tempi, vissuta nel rispetto di chi potrebbe averne a soffrire, una prova di grande abilità dell’autore, perché lì non era per niente difficile cadere nella trappola della facile commozione e lui invece è riuscito a starne bene alla larga.  
I protagonisti sono sempre figure con una spiccata personalità, personaggi che tuttavia la loro scomparsa avrebbe relegato nell’oblio e che invece Piero Chiara ha immortalato affinchè non se ne perdesse la memoria.
Nel complesso si tratta di una lettura assai piacevole e quindi senz’altro raccomandabile.

Piero Chiara nacque a Luino nel 1913 e morì a Varese nel 1986. Scrittore tra i più amati e popolari del dopoguerra, esordì in narrativa piuttosto tardi, quasi cinquantenne, su suggerimento di Vittorio Sereni, suo coetaneo, conterraneo e grande amico, che lo invitò a scrivere una delle tante storie che Chiara amava raccontare a voce. Da Il piatto piange (Mondadori, 1962), che segna il suo esordio vero e proprio, fino alla morte, Chiara scrisse con eccezionale prolificità, inanellando un successo dopo l'altro.
E’ stato autore particolarmente fecondo e fra le sue numerose pubblicazioni figurano Il piatto piange (1962), La spartizione (1964), Il balordo (1967), L’uovo al cianuro e altre storie (1969), I giovedì della signora Giulia (1970), Il pretore di Cuvio (1973), La stanza del Vescovo (1976), Il vero Casanova (1977), Il cappotto di Astrakan (1978), Una spina nel cuore (1979), Vedrò Singapore? (1981), Il capostazione di Casalino e altri 15 racconti (1986).
Renzo Montagnoli

 

15/1/2012

Andrea Camilleri
Il diavolo, certamente
Libellule Mondadori

Quarta di copertina

Un caso. Qualcosa d’incredibile, d’irreale. Una proba-
bilità su miliardi e miliardi. Ma era accaduto.
 E se era accaduto, doveva ben significare qualcosa.
<< Sono spaventata>> disse Anna ansante, come sull’orlo di un abisso.
<<Anch’io.>>
Annidato nell’ombra, travestito abilmente, pronto a “scoperchiare” la vita: è il diavolo, certamente.

33 luciferini racconti, certamente per più di 33 altrettanti luciferini lettori…

L’inesausta creatività letteraria di Andrea Camilleri ha concepito questo ultimo libro “Il diavolo, certamente”, in cui ha dato ampio respiro alla sua feconda immaginazione. 33 racconti di 3 pagine l’uno, secondo un disegno  o una numerologia simbolica rovesciata: non 666, ma 333 perché - citazione di Camilleri - è meglio avere a che fare con mezzo diavolo che con uno intero. 

Nella nota alla fine dei racconti, l’Autore dice di sapere benissimo che esiste un film di Robert Bresson che in Italia è stato intitolato Il diavolo probabilmente … e che non ha nessuna remora a confessare d’essersene impadronito perché è stato proprio quel titolo a fargli venire l’idea di scrivere queste brevi 33 narrazioni.

Diavolo di un Camilleri! Quasi in combutta con la Bestia ci propina questi scritti diabolici, luciferini, lo zampino del diavolo…del caso…dell’imprevisto sono sempre pronti a cogliere di sorpresa la vita, a scompigliare le carte degli eventi. Nulla è prevedibile, la sorte gioca a rimpiattino con le umane vicende e non sempre quello che desideriamo avviene per vie consuete. Mettersi nei panni di questa variegata umanità è un’impresa improba, si rischia di sprofondare nel buio dell’imperscrutabile. I racconti sono congegnati all’interno di un meccanismo pressoché perfetto, i personaggi manovrati con arte e maestria sbalorditive: una   rappresentazione sinistra di tutto ciò che alberga negli animi …passioni, vizi, desideri, vendette, perfidie, ma anche slanci, generosità e altro.

Fanno da cornice a tutta la raccolta, il primo e l’ultimo racconto, entrambi sono due riflessioni filosofiche che diventano l’anello di congiunzione di tutta la trama narrativa; nel primo il ricorso all’iperbole, ai paragoni supremi, ai complimenti stratosferici verso un avversario, non sostenuti da un’efficace ironia, fanno prendere per autentico il contenuto e quindi invece di una stroncatura risulta un elogio sperticato. Nell’ultimo una discussione filosofica tra due amici si trasforma in un duello argomentativo all’ultimo spasimo sulla discussa dimostrazione della verità (άλήθεια).

Ed ecco aprirsi il sipario e  su un fondale grigio recita un’umanità invereconda in cui si disvelano abissi interiori: un prefetto perfetto e di cristallina onestà sente riaccendersi una giovanile passione amorosa, un partigiano,  tradito dall’irrompere di memorie e sentimenti, tradirà dei suoi compagni. Un ladro d’appartamenti diventa ladro gentiluomo, un bambino dodicenne ordisce freddamente una vendetta famigliare, il monsignor, venerato come un sant’uomo dai fedeli,  a causa di un refuso tipografico la sua integrità morale viene deturpata per sempre, il tacco spezzato di una scarpa segna la fine di una relazione, ma è galeotto di una nuova…Tante donne concupiscenti, mogli tradite e che tradiscono a loro volta, amanti di troppo, segretarie che custodiscono segreti…insomma molteplici sfaccettature di personalità e situazioni, a volte paradossali o assurdamente verosimili, sono sinonimi di una realtà che spesso sta davanti ai nostri occhi e non vogliamo decifrarla nella sua crudezza. Il male è spesso motore dell’agire umano, si annida e si manifesta nelle forme più subdole; è un demone che s’insinua nelle menti dei personaggi e  come un tarlo scava e corrode i loro pensieri, Camilleri è stato in un certo senso demoniaco a cercare le combinazioni più bislacche, a far incrociare destini, ad architettare incontri: il caso, qualcosa d’incredibile, d’irreale. E se era accaduto doveva ben significare qualcosa.

L’attualità nella sua drammaticità è uno dei temi  presenti, con la crisi economica, le difficoltà aziendali, lo spauracchio della rovina, i licenziamenti, l’impossibilità di trovare lavoro...Ho letto da qualche parte che l’inferno riesce meglio del paradiso; queste fulminanti e nere e amare storie in cui la verità si colora di menzogna e viceversa si avvalgono dello stile ineguagliato di Camilleri, così netto e deciso, con sottesa ironia, come scriverebbe lui, profusa a tinchitè ( a iosa), mai pesante e tedioso, sempre insita quella speciale leggerezza di linguaggio che lo contraddistingue.

Un’altra piacevolissima occasione di lettura.      

 Andrea Camilleri (1925), è autore di oltre 60 romanzi tra storici, civili e polizieschi, e di diverse raccolte di racconti, tradotti in più di 30 lingue. Vincitore di numerosi premi in Italia e all’estero, è noto al grande pubblico anche per i romanzi dedicati alle inchieste del commissario Montalbano, della casa editrice Sellerio, da cui è stata tratta la fortunata serie televisiva. Tra i tanti titoli ricordiamo: “La forma dell’acqua”, “Il cane di terracotta”, “Il ladro di merendine”, “La voce del violino”, “La stagione della caccia”, “Il birraio di Preston”, “La concessione del telefono”, “La gita a Tindari”, “Maruzza Musumeci”, “Il casellante”, “Il campo del vasaio”, “L’età del dubbio”, “Un sabato, con gli amici” “Il sonaglio”  “ La caccia al tesoro”  “Il sorriso di Angelica”, “ Gran Circo Taddei” “Il gioco degli specchi””La setta degli angeli”.
Arcangela Cammalleri

 

14/1/2012
 

La fabula bella

Una lettura sociologica

dei Promessi Sposi

di Carlo Bordoni

Presentazione di Enrico Ghidetti

Edizioni Solfanelli

www.edizionisolfanelli.it

Saggistica

Collana Micromegas

 

Fu vera gloria?

 

Questo matrimonio non s’ha da fare, né domani, né mai. “ Questo dice in tono perentorio uno dei bravi di don Rodrigo al pavido Don Abbondio.

La frase è arcinota, tanto che non è stato difficile farla riemergere dal labirinto della mia memoria, anche perché, quando fu letta e commentata a scuola dall’insegnante, mi venne il sospetto che, per quanto il Manzoni fosse andato a risciacquare i panni in Arno,

avesse finito per delineare come autentica lingua italiana, e quindi da essere da tutti utilizzata, quel parlare proprio dei toscani che, nel caso specifico, si estrinseca nell’elisione della i davanti alla h del verbo.

In questo senso le comuni riletture de I promessi sposi sono effettuate o con lo scopo di evidenziare l’aspetto linguistico, oppure di privilegiare quello storico, e, meno frequentemente, con accorta equidistanza, entrambi.

Resta il fatto che mai romanzo italiano ebbe una diffusione come questo e che, per quanto non possa essere considerato popolare, chi più chi meno ne ha avuto sentore, se non altro per il fatto della sua obbligatorietà come testo scolastico.

Però, questa vicenda di un amore ostacolato nella sua realizzazione formale, di questo matrimonio tanto desiderato, ma che per qualcuno non si ha da fare, può essere letta anche in chiave sociologica ed è quel che ha fatto Carlo Bordoni con questo libro che, pur nella sua brevità, riesce a svolgere i propositi in modo esauriente e, cosa non da poco, facilmente comprensibile.

Quel che è particolare è rappresentato dall’occasione che ha indotto l’autore a porre mano a questo lavoro, vale a dire la riduzione televisiva del 1990 del regista Salvatore Nocita, frutto quindi di un mezzo, quello televisivo, capace di porgersi con fini didattici, ma che indubbiamente nasconde, per le potenzialità insite nello stesso, i pericoli di un assoggettamento dello spettatore, di un condizionamento della mente che di per sé finisce con il costituire l’oggetto di altre analisi sociologiche.

Di per sé l’opera è stata esaminata prescindendo dalla qualità intrinseca e considerandola alla stregua di un normale romanzo di consumo e astraendo così dal suo rilevante valore, nonché ignorando la corposa documentazione critica che seguì la sua uscita e che continua ancor oggi.

Il risultato di queste scelte, di quest’occhio attento più alle implicazioni sociologiche che al contesto letterario, è sbalorditivo, perché appare un romanzo totalmente nuovo, senza che con questo il giudizio sulla sua valenza venga sminuito, anche se, a ben guardare, risulta, sia pur di poco, ridimensionato.

Quella di Bordoni è una rilettura, insomma, fuori dai canoni e che evidenzia la trascurabile personalità dei due protagonisti principali, Lucia ligia al senso del suo onore femminile, abbastanza scialba, e Renzo, quasi un sempliciotto pronto a inalberarsi di fronte a un ostacolo, ma lesto a rimettere il capo sotto le ali.

Assume invece un rilievo particolare la figura di Gertrude, la monaca di Monza, esistita veramente e non quindi frutto di fantasia, la cui presenza nell’opera manzoniana può sembrare eccessiva in funzione della struttura e della trama della narrazione. Anche in questo caso avevo colto da studente l’anomalia, in un romanzo quasi matematico dall’apparire alla lunga freddo. Che il Manzoni avesse avuto pietà della triste vicenda di questa donna costretta per volere paterno in convento dove si risvegliò poi una passione, normale in altri luoghi, invereconda fra le mura di una casa di Dio? Molto probabilmente non fu così, perché l’autore, nel dare risalto agli aspetti negativi di una donna che in pratica cercò di ribellarsi alla sua condizione, intese invece in tal modo, e in contrapposizione, esaltare la fermezza di propositi di Lucia Mondella, però secondo un concetto di donna vista nei ristretti limiti di una mentalità che la considerava una costola dell’uomo.   

Personalmente riconosco meriti al romanzo che tuttavia presenta luci e ombre, e non sempre le prime sono tali da far dimenticare le seconde, ma d’altra parte l’aria paternalistica di cui il testo è impregnato risente della posizione sociale dell’autore, un conservatore pio, pietoso anche, ma non di certo disposto a cambiare l’ordine gerarchico dell’umanità.

Ecco, il Manzoni cattolico, ligio alla conservazione, emerge  in modo chiaro e non è difficile ipotizzare che l’uso del testo nelle scuole non fosse solo finalizzato allo studio della lingua italiana, ma costituisse un esempio-monito di ciò che le classi meno privilegiate dell’epoca dovessero aspettarsi, in una invariabilità dello status quo a tutto beneficio di chi deteneva il potere.

Bordoni riesce a cogliere nei personaggi le sfumature generalmente ignorate nella didattica e li rende meno astratti e più veritieri, così come anche alcuni opportuni rilievi circa l’inquadramento del periodo storico nell’opera manzoniana riportano il romanzo a una maggiore aderenza a realtà prima un po’ offuscate dalla fantasia.

Insomma, senza che per questo I promessi sposi diventino un’opera da gettare – e credo che non pochi studenti lo desidererebbero – quel che esce da La fabula bella è una più razionale valutazione di un romanzo dalle indubitabili qualità, ma non il capolavoro assoluto, giudizio che in epoca scolastica ci è stato surrettiziamente imposto.  

Il libro di Bordoni è quindi senz’altro da leggere, magari con accanto un’edizione dei Promessi sposi.
 

Carlo Bordoni è docente di “Editing e scrittura editoriale” all’Università di Pisa. Si occupa di sociologia dei processi culturali e ha insegnato nelle Università di Firenze, Milano e Napoli.
     Per Solfanelli ha pubblicato La paura il mistero l’orrore dal romanzo gotico a Stephen King (1989), La fabula bella. Una lettura sociologica dei Promessi Sposi (1991), l’antologia di racconti Cuori di tenebra (1993), La dismisura immaginata (2009) e Le scarpe di Heidegger (2010). Tra le altre sue pubblicazioni: La pratica editoriale. Testo contesto paratesto (Felici, Pisa 2010), Dal sublime ai nuovi media (Felici, Pisa 2010), L’identità perduta. Moltitudini, consumismo e crisi del lavoro (Liguori, Napoli 2010); Libera multitudo (Franco Angeli, Milano 2008); Introduzione alla sociologia dell’arte (Liguori, Napoli 2008), Società digitali (Liguori, Napoli 2007), Il testo complesso (Clueb, Bologna 2005).
     Nella narrativa ha esordito col romanzo L’ultima frontiera (Ponzoni, Milano 1965) e, negli ultimi anni, si è riproposto con Il nome del padre (Baroni, Retignano 2001), Istanbul Bound (Tabula fati, Chieti 2006) e Il cuoco di Mussolini (Bietti, Brescia 2008).
     Collabora a “Prometeo” e dirige la rivista “IF”, trimestrale dell’Insolito e del Fantastico.

Renzo Montagnoli

 

8/1/2012
 

Vladimir Nabokov – La difesa di Lužin – B. Adelphi

Recensione di M. Carmen Lama

 

È possibile difendersi dalla vita? Nabokov, con il suo romanzo “La difesa di Lužin”, ha provato a dimostrare che sì, si può trovare almeno un modo per difendersi dalla iterazione degli eventi della vita, attuando qualche mossa completamente a sorpresa, un po’ come avviene nel gioco degli scacchi quando si fronteggiano dei veri esperti in tornei internazionali, dove ha sempre la meglio il giocatore che previene l’avversario, a volte con mosse del tutto imprevedibili perché assurde, ma che proprio per questo lasciano interdetto l’altro giocatore che non poteva aver previsto una mossa talmente semplice quanto inconcepibile.

Il gioco degli scacchi, quindi, come metafora della vita, in questo romanzo.

Il gioco degli scacchi che, una volta imparato cominciando a prendere gusto nell’immaginare le mosse più audaci (che ne anticipano, nella mente del giocatore veramente bravo, molte più di una, cioè molte più di quella che potrebbe essere la successiva dell’avversario), diventa inizialmente un passatempo intelligente, per trasformarsi man mano in un desiderio di provare a giocare con sempre nuovi interlocutori a loro volta esperti, con cui ci si può reciprocamente sfidare imparando anche nuove strategie e muovendo i personaggi del gioco in modi sempre diversi, finché non diventa una vera e propria passione, quasi una mania, un’ossessione e una sorta di malattia psichica, come una “coazione a ripetere”.

 

Lužin, il protagonista del romanzo, comincia a sviluppare una passione irrefrenabile per gli scacchi sin da quando era bambino.

Era un bambino molto intelligente che però a scuola non voleva mettersi in vista, anzi mostrava già una tendenza ad isolarsi dai compagni con i quali non condivideva gli stessi interessi e dai quali non era ben accolto; da essi, al contrario, veniva spesso deriso e turbato nell’animo con brutti scherzi ai quali non sapeva o forse non voleva reagire.

Era questa una modalità di rapporti tra coetanei in cui s’inserivano i rapporti familiari e soprattutto la figura paterna di Lužin, la cui attività di scrittore era divenuta un’occasione, per i compagni di Lužin figlio, per prenderlo di mira canzonandolo e offendendone il padre. Molte occasioni di umiliazioni per il piccolo Lužin ne avevano segnato la psiche al punto di aver voluto rinunciare a frequentare la scuola, con disappunto dei genitori, ma con quella rassegnazione che giunge quando le decisioni riguardano altri e ogni insistenza si rivela non soltanto inutile, ma addirittura del tutto controproducente.

 

La salvezza per il piccolo Lužin arriva inaspettata da una zia, la cui presenza in casa è controversa, ma che riesce a indirizzare il bambino almeno verso un interesse, quello del gioco degli scacchi, appunto.

All’insaputa del padre, il bambino trascorre molto del suo tempo a “studiare” tutte le possibili combinazioni di mosse scacchistiche in riviste specializzate che trova nella biblioteca di famiglia.

Il padre conosceva questo gioco e aveva provato a dilettarsene in precedenti anni della sua vita, nelle occasioni dei ricevimenti che avevano luogo periodicamente in casa sua.

A cose fatte, quando il figlio svela le sue grandi capacità, il suo talento nel gioco, vincendo anche con vecchi amici del padre ritenuti dei veri e propri campioni, il padre non può far altro che assecondarlo e iscriverlo a tornei, nei quali prima il ragazzo e poi il giovane Lužin riesce sempre vittorioso.

Col tempo, viene introdotto nei circoli scacchistici più importanti da un amico del padre, Valentinov, il quale prende a cuore il suo ruolo di sostenitore (anche finanziario) del giovane, finché questi diventa un vero e proprio campione imbattibile, arrivando a giocare più partite contemporaneamente senza subire mai alcuna sconfitta, alcuno “scacco”. Il ruolo di Valentinov diventa decisivo verso la fine del romanzo.

 

Col passare del tempo, si comincia ad intravedere in Lužin un inizio di cedimento, di cui si accorge per prima una ragazza che lo conosce per caso. Da questo momento, l’interessamento reciproco dei due porta ad una svolta nella vita di Lužin, fino ad un brutto esaurimento psichico che lo costringe a interrompere la sua carriera nel mondo degli scacchi.  

Ma ormai la sua psiche è segnata per sempre. La vita stessa di Lužin assume le sembianze del gioco, ingannandolo, certo, ma facendogli provare ancora il brivido della scoperta della mossa giusta per non soccombere di fronte al nuovo avversario.

L’epilogo non si può svelare qui, ma è sintomatico e quasi scontato. Bisogna però arrivare alla fine del romanzo per averne la certezza. A mio parere, poteva ben essere un altro, nel quale ho sperato ardentemente. Ma i presupposti hanno avuto il loro senso.

 

L’amore, come il gioco condotto con il coinvolgimento delle fibre più profonde dell’anima, come la stessa vita amata con passione e nello stesso tempo temuta come se fosse un avversario che vuole metterci alla prova, può avere talvolta degli esiti simili a quello del romanzo.

 

La difesa di Lužin è un libro la cui lettura si potrebbe ritenere obbligata per chi ama gli scacchi, ma anche per chi desidererebbe amarli, perché si ha a che fare con il funzionamento straordinario della mente di un giocatore geniale e, soprattutto, con la forza di astrazione di questo gioco.

Personalmente, però, mi accontento di saper giocare per estraniarmi solo momentaneamente dal resto e per rilassarmi. Dopo la lettura di questo libro, il gioco degli scacchi continuerà ad appassionarmi al livello amatoriale e per puro diletto della mente.

Non mi propongo però di studiare una mossa vincente per difendermi dalla vita, perché mi piace subirla anche se con l’apparenza di guidarla a modo mio.

 
M. Carmen Lama

 5 dicembre 2011

 

5/1/2012
 

Il capostazione di Casalino

e altri 15 racconti

di Piero Chiara

a cura di Mauro Novelli

introduzione di Giovanni Tesio

Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Narrativa raccolta di racconti

Collana Oscar scrittori moderni

 

Per non dimenticare

 

Con il Capostazione di Casalino Chiara scrive gli ultimi racconti, mentre combatte con la malattia che lo porterà alla morte.

Si tratta di sedici prose, sedici memorie di fatti e accadimenti di quel mondo della provincia di cui l’autore luinese rimarrà il magnifico cantore.

Per quanto l’ironia sia sempre arguta, in sottofondo è presente la malinconia di chi sa che sono le ultime occasioni per far rivivere personaggi, spesso oscuri, e che pure, nel loro piccolo, hanno contribuito alla storia del mondo.

Dalla vicenda quasi kafkiana del signor Pettoruto alla figura rassegnata, e pur illusa, dell’amico Trenk, passando per il ferroviere svizzero Camillo e, soprattutto, per il personaggio di Giuseppe Cuniberti, in cui l’autore sembra voler riflettere se stesso, è tutta una carrellata di ignoti a cui la penna e la scrittura donano luce e fulgore, ombre che tali sarebbero rimaste, se di loro Chiara non avesse stilato l’ultimo epitaffio.

Siamo lontani dai clamori e dalle risate di Il piatto piange, no qui al più si strappa un sorriso, ma protagonisti e vicende sono di quelli che più restano dentro perché lontani dalle caricature, più umani, per non definirli più simili a tanti che non conosciamo e che incontriamo per la strada; ognuno, per quanto ignoto, ha la sua storia e tutti insieme concorriamo, senza saperlo e magari senza lasciar traccia indelebile del nostro passaggio, alla grande storia dell’umanità.

In un racconto (I fratelli Mascherpa) l’autore giustamente scrive “ Vite sprecate, gettate al vento, si potrebbe dire. Martiri di nessuna fede, ombre che sono passate senza lasciare un segno.” Conclude, però, con quattro righe in cui c’è tutto il pensiero di Chiara “ Ma sulla tomba del Tonchino, un loculo in fondo al portico di un cimitero, è scritto sopra una piccola lapide il suo nome e cognome: Mino Mascherpa. Sotto, a caratteri più piccoli, si legge: “Armida Perego non lo dimenticherà mai.”.

Ecco, con queste ultime prose anche Piero Chiara ha posto una lapide sul loculo di un mondo che c’era e che è ormai scomparso, ha dato voce e luce a ombre che altrimenti si sarebbero perse nel buio, ai tanti del piccolo, del paese, di quelle comunità che ora sono più numeri statistici che esseri umani connessi in un unico destino, tanto che è come se in calce, ma non in caratteri minuscoli, bensì a chiare lettere avesse scritto: Piero Chiara non vi ha dimenticato.

E sono così belli questi racconti, completi, storie che hanno un inizio, una fine, uno svolgimento talmente esauriente da non far rimpiangere un loro eventuale ampliamento in romanzo, per quanto breve, il che, come riporta Giovanni Tesio nell’introduzione, dimostra un particolare attaccamento dell’autore per la prosa breve, ribadito anche nella risposta che diede a una domanda sul “perché” del racconto: “Bisognerebbe chiederci perché il romanzo”.

Il capostazione di Casalino è un canto del cigno, ma è un canto stupendo e, forse, è il capolavoro di Piero Chiara.

 

Piero Chiara nacque a Luino nel 1913 e morì a Varese nel 1986. Scrittore tra i più amati e popolari del dopoguerra, esordì in narrativa piuttosto tardi, quasi cinquantenne, su suggerimento di Vittorio Sereni, suo coetaneo, conterraneo e grande amico, che lo invitò a scrivere una delle tante storie che Chiara amava raccontare a voce. Da Il piatto piange (Mondadori, 1962), che segna il suo esordio vero e proprio, fino alla morte, Chiara scrisse con eccezionale prolificità, inanellando un successo dopo l'altro.

E’ stato autore particolarmente fecondo e fra le sue numerose pubblicazioni figurano Il piatto piange (1962), La spartizione (1964), Il balordo (1967), L’uovo al cianuro e altre storie (1969), I giovedì della signora Giulia (1970), Il pretore di Cuvio (1973), La stanza del Vescovo (1976), Il vero Casanova (1977), Il cappotto di Astrakan (1978), Una spina nel cuore (1979), Vedò Singapore? (1981), Il capostazione di Casalino e altri 15 racconti (1986).
Renzo Montagnoli

 


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