30/12/2010
Il viaggio di
Silvestro Biggio
Collana Narrando di AlbusEdizioni
www.albusedizioni.it
Quit sit futurum, cras non quaerere
(Orazio)
La vita è un viaggio, ma ci sono viaggi che la possono cambiare.
Incontri inaspettati ed apparentemente ininfluenti riescono poi a
cambiare situazioni, stati d'animo e realtà circostanti.
Un racconto che coinvolge nella sua narrazione scorrevole, diretta e
nuda. Nato dalla voglia di conoscere e conoscersi e dalla
consapevolezza che tutto, anche se non si vede ad occhio nudo, è
mutevole; e tutto può cambiare in qualsiasi momento della vita,
anche quando, sembra transitare in un periodo statico e fermo nel
tempo.
Silvestro Biggio, nato nel 1949
a Portoscuso (Ca), dopo aver frequentato il liceo classico a
Carbonia, si laurea in giurisprudenza a Cagliari. E' stato per sette
anni direttore di un ufficio finanziario della città di Iglesias,
dove ora risiede e lavora.
AlbusEdizioni
28/12/2010
Gli zii di Sicilia
di
Leonardo Sciascia
Edizioni Adelphi
Narrativa racconti
Collana Fabula
Quattro
racconti sullo sfondo della guerra
Quando Leonardo
Sciascia pubblica nel 1958 Gli zii di Sicilia è già uno scrittore
considerato da Italo Calvino molto promettente e che ha già dato
alle stampe alcune opere interessanti come Le favole della
dittatura, recensito da Pier Paolo Pasolini, La
Sicilia, il suo cuore, la prima e unica raccolta di poesie,
il saggio Pirandello e il pirandellismo, che gli vale
il Premio Pirandello, e il romanzo Le parrocchie di Regalpetra,
un’autobiografia dell’esperienza che ha vissuto come insegnante
nelle scuole elementari del paese natio.
Siamo ancora lontani dai testi con cui denuncia la presenza della
mafia, la sua collusione con il potere politico ed economico e
infatti occorrerà arrivare al 1961 per poter leggere Il giorno
della civetta, la sua opera forse più nota in assoluto.
Tuttavia, in una parentesi romana al Ministero della Pubblica
Istruzione, matura in Sciascia l’idea di scrivere alcuni racconti
sullo sfondo della guerra ed è così che nascono le quattro prose che
costituiscono Gli zii di Sicilia, unite da questo filo
conduttore, anche se molto diverse fra di loro per ambientazione,
per epoca e per messaggio.
Il primo, La Zia d’America, vede protagonista lo
stesso autore siciliano, in un periodo intercorrente fra lo sbarco
degli americani sull’isola e il primo dopoguerra. Venato da una
sottile, quanto caustica ironia, è in pratica la dissacrazione del
mito americano, del paese dove nulla è precluso a tutti, generoso,
prodigo di aiuti non proprio disinteressati. E’ assai probabile che
la vicenda sia autobiografica e si sia svolta nei termini narrati,
ma resta il fatto che già si nota quella capacità di analisi delle
azioni, delle loro cause e delle loro motivazioni che poi si potrà
trovare, esposta in modo più evidente e logico, nei romanzi
successivi.
Il secondo, La morte di Stalin, storia di un piccolo
calzolaio antifascista, in preda al culto della personalità (il suo
mito è appunto Stalin), le cui certezze verranno messe a dura prova
dai comportamenti del dittatore sovietico; questo fervente comunista
cercherà sempre di farsi una ragione di azioni e misfatti compiuti
dal suo idolo, perdendo però poco a poco fiducia in lui e anche in
se stesso. Qui l’ironia si veste anche di umorismo e non è difficile
ridere, anche se alla fine si passa al sorriso, un sorriso strappato
e quanto mai amaro.
Il terzo racconto, Il quarantotto, si svolge in
Sicilia in periodo risorgimentale, appunto fra il 1848 e il 1860.
La rivoluzione del 1848 e l’unificazione del Regno d’Italia sono
visti dagli occhi di un giovane siciliano, un plebeo che sa ragionar
di testa sua. In questa prosa emerge netto, incontrovertibile, il
cinismo della classe dominante, di nobili e prelati decisi a
contrastare con qualsiasi mezzo anche il minimo spirito liberale, ma
poi pronti a cavalcare l’idea risorgimentale, affinché tutto cambi
per poi tornare uguale.
E’ un racconto molto interessante, il cui significato si ritrova,
come noto, nel Gattopardo di Tomasi di Lampedusa,
pubblicato postumo lo stesso anno de Gli zii di Sicilia,
una curiosa coincidenza, poiché è impossibile che Sciascia abbia
potuto leggerlo prima di scrivere questo testo, mentre è più
probabile che lui e appunto Tomasi abbiamo recepito l’influsso di
I Viceré, di Federico De Roberto, opera ben
antecedente, risalendo alla fine del XIX Secolo.
L’ultimo racconto, aggiunto nel 1960 e intitolato L’antimonio,
narra la storia di un minatore, che scampato a un’esplosione di
grisou (gli zolfatari siciliani lo chiamano antimonio), in preda
alla miseria si arruola volontario per partecipare alla guerra
civile spagnola. Lì, combattendo a fianco delle truppe franchiste,
conoscerà il vero volto del fascismo, al di là della tanta retorica
e delle promesse non mantenute. Crudele, solo come può essere lo
scoprire una realtà che sconvolge, questo racconto fornisce
l’immagine di un regime in decadenza, tuttavia inflessibile nel
perseguire la sua opera di ammaliamento delle classi meno abbienti,
carne da macello in miniera e da cannone in guerra.
Questo libro si legge con grande piacere, anche perché tutti e
quattro i racconti riescono ad avvincere; quindi non posso che
consigliarlo, anzi ne raccomando vivamente la lettura.
Leonardo
Sciascia (Racalmuto,
8 gennaio 1921 – Palermo, 20 novembre 1989). E’ stato autore di
saggi e romanzi, fra cui: Le parrocchie di Regalpietra
(Laterza, 1956), Il giorno della civetta (Einaudi, 1961),
Il consiglio d’Egitto (Einaudi, 1963), A ciascuno il suo
(Einaudi, 1966), Il contesto (Einaudi, 1971), Atti
relativi alla morte di Raymond Roussel (Esse Editrice, 1971),
Todo modo (Einaudi, 1974),
La scomparsa di Majorana
(Einaudi, 1975), I pugnalatori (Einaudi, 1976), Candido,
ovvero Un sogno fatto in Sicilia (Einaudi, 1977), L’affaire
Moro (Sellerio, 1978), Il teatro della memoria (Einaudi,
1981), La sentenza memorabile (Sellerio, 1982), Il
cavaliere e la morte (Adelphi, 1988), Una
storia semplice (Adelphi, 1989).
Renzo Montagnoli
22/12/2010
La coda di pesce che inseguiva l'amore
di Simona Lo Iacono e
Massimo Maugeri
Postfazione degli autori
Copertina di Alek Mudanò
Sampognaro & Pupi Editori Associati
www.sampognaroepupi.it
Narrativa racconto lungo
Un gioiello di racconto
"Il tramonto frattanto cambiava.
Una tingitura di rosso tramò l'aria, stano zu' Saru, gli mise in
gola l'allarme: "U cielu è come focu! U cielu è come 'a giubba dei
mille!"
Ha il sapore di una tragedia greca questo racconto di sole 52 pagine
e, come tale, turba, addirittura riesce perfino a sconvolgere.
Breve, quindi non lungo, ma estremamente concentrato, un susseguirsi
di metafore che avvincono e inducono a meditare, righe su cui
soffermarsi è d'obbligo, perché nulla è lasciato al caso, perché non
c'è una parola di troppo, né una di meno.
Eppure la prima impressione è di trovarsi di fronte una favola,
bella, ma pur sempre favola, e invece in breve ci si accorge che
questo racconto, sospeso, quasi galleggiante in quella realtà
sfumata e impalpabile che è propria del sogno, discetta di tematiche
corpose, materiali, che da sempre accompagnano la storia
dell'umanità.
La vicenda è caratterizzata da un perfetto amalgama di elementi
reali e di visioni metafisiche, è una leggenda riscoperta e
riadattata per parlare agli uomini di speranze e di desideri, di
sconfitte non definitive, ma che lasciano aperta una porta per un
mondo diverso, non fatto solo di classi dai confini invalicabili, di
violenze per il possesso, ma soprattutto di amore, inteso non tanto
nel suo aspetto materiale e più retrivo, bensì come aspirazione
massima dello spirito, in un'unione più di anime che di corpi.
C'è un richiamo forte, evidente, al senso della natura, alla
comunione con essa, che, senza mai pervenire alla visione idilliaca
di Teocrito, fonde, mirabilmente, il naturalismo con il misticismo
proprio della trascendenza. In questo senso non è difficile pensare
che esistano elementi comuni a quelli del grande narratore siciliano
Giuseppe Bonaviri, in un mondo arcaico, sempre presente, riportato
alla luce e in cui i grandi primordiali istinti si accompagnano a
ideali e a speranze.
Sono pagine dense di un'atmosfera inquieta, in cui si attende che
qualche cosa di grande e di tragico possa accadere, una vita quasi
immobile, ma sospesa, un'esistenza in cui ognuno recita a perfezione
la sua parte.
E come in una tragedia greca non può mancare il veggente, e infatti
c'è quel " u zu' Saru che scorge gli eventi futuri nel moto del mare
e nei cieli che sovrastano Porto Palo, una Cassandra inascoltata, se
non addirittura derisa. Intorno a lui si muovono ombre anonime di
tonnarioti e di nobili, ma anche figure emblematiche, come Turi, il
frutto del peccato, e sua madre Laura, che sola ha avuto il coraggio
di superare la barriera immobile della casta, scendendo fra i più
umili, e proprio per questo condannata da questi e dai patrizi.
La coda di pesce è un sogno, è una speranza di riscatto, è il
desiderio di approdare a un mondo nuovo, senza più egoismi, senza
più confini, di eguali, e non di dominatori e di sudditi. A suo modo
è una rivoluzione e come tale sarà soffocata da un sistema, così
diviso, ma per l'occasione unito, affinché tutto resti uguale.
E' naturale pensare alle parole del principe di Salina, a quella
immutabilità che si conserva travestendosi secondo necessità, ma
restando fermamente ancorati ai propri privilegi. E non è un caso se
il racconto si svolge nel 1860, se "u zu" Saru ha la visione di
camicie rosse, una vampata di rivoluzione che si spegnerà al primo
soffio di libeccio, un'occasione perduta non solo per la Sicilia per
liberarsi dalle sue ataviche catene, ma per l'intera Italia, unione
di stati forzosa senza unione di popolo, di cui giorno dopo giorno
paghiamo le conseguenze.
Tuttavia, pur in presenza di un finale che sembra una chiusura netta
a qualsiasi cambiamento, Simona Lo Iacono e Massimo Maugeri lasciano
una speranza, un messaggio non certamente politico, ma ben oltre la
soglia del quotidiano divenire. Non è niente che non si possa
realizzare, ma che comunque è difficilmente concretizzabile, eppure
l'amore che squarcia i cuori può anche cambiare il mondo.
Scritto in modo pregevole, con descrizioni di paesaggi di livello
poetico, con una rara capacità di ricreare un'atmosfera sospesa,
La coda di pesce che inseguiva l'amore è uno di quei rari
gioiellini che nobilitano la letteratura.
Avvincente e coinvolgente dall'inizio alla fine è scritto per essere
assaporato, ma soprattutto come fonte di meditazione, e questa
giorno dopo giorno non mancherà, con l'opportunità di scoprire cose
nuove, di rimodulare in sé concetti dell'esistenza che solo un
capolavoro, come questo,
può suscitare.
Simona Lo Iacono è nata a
Siracusa nel 1970. Magistrato da 14 anni, attualmente dirige la
Sezione distaccata di Avola, tribunale di Siracusa.
Ha pubblicato racconti e vinto concorsi letterari di poesia e
narrativa. Collabora a riviste e magazine. Riunisce in casa propria
un salotto letterario ospitando scrittori e artisti.
Cura, sul blog "Letteratitudine" di Massimo Maugeri (gruppo
Kataweb-l'Espresso), una rubrica fissa a metà tra diritto e
letteratura: Letteratura è diritto, letteratura è vita.
Fa parte dell'EUGIUS, l'associazione europea dei
"giudici-scrittori".
Dal 2009 ha aderito, nel ruolo di socio, all'associazione "Law and
Literature", società di diritto e letteratura dell'università degli
studi di Bologna, che annovera al suo interno diversi scrittori e
studiosi.
Con il suo primo romanzo "Tu non dici parole" ha vinto il Premio
Vittorini 2009 - Sezione Opera Prima
Massimo Maugeri è nato a Catania
nel 1968. Collabora con le pagine culturali di importanti magazine e
quotidiani tra cui "Il Mattino", "Il Riformista", "La Sicilia", "Il
Corriere Nazionale", "Stilos". Suoi racconti sono stati pubblicati
su antologie e prestigiosi giornali e riviste letterarie.
Il romanzo "Identità distorte" (Prova d'Autore, 2005) ha vinto il
Premio Martoglio ed è stato finalista al Premio Brancati.
Ha ideato e gestisce il frequentatissimo Letteratitudine, blog
letterario d'autore del Gruppo L'Espresso.
Ha partecipato alla scrittura del romanzo collettivo a colori "Le
Aziende In-Visibili" (Scheiwiller, 2008). Ha curato il volume "Letteratitudine,
il libro - vol. I - 2006-2008" (Azimut, 2008).
Ha curato la raccolta di racconti "Roma per le strade" (Azimut,
2009), partecipando con un proprio racconto e coinvolgendo nel
progetto molti tra i principali scrittori nati o residenti a Roma
(tra cui: Mario Desiati, Andrea Di Consoli, Lia Levi, Dacia Maraini,
Antonio Pascale, Sandra Petrignani, Rosella Postorino, Cinzia Tani,
Filippo Tuena).
Dal 2009 ha aderito, nel ruolo di socio, all'associazione "Law and
Literature", che annovera al suo interno diversi scrittori e
studiosi.
Conduce la trasmissione radiofonica di libri e letteratura, "Letteratitudine
in Fm", presso la milanese Radio Hinterland (ascoltabile in
modulazione di frequenza in Lombardia e in diretta ovunque via
Internet).
Fa parte della redazione del blog letterario collettivo "La poesia e
lo spirito".
Renzo Montagnoli
20/12/2010
La fuga della
verità
di Lodovico Ellena
Presentazione di Marco Maniscalco
Edizioni Tabula Fati
www.edizionitabulafati.it
Saggistica filosofica
Collana Labirinti
La verità o le verità?
Ci può essere una
verità assoluta, cioè oggettiva e inconfutabile, oppure dobbiamo
accontentarci di tante verità, cioè del soggettivismo della stessa?
E’ interessante questo saggio di Ellena che, nel prendere atto che
la verità assoluta, o verità vera, non sembra essere accessibile,
pone tuttavia l’accento sulla inderogabile necessità che essa
esista, quantomeno come idea di riferimento sulla quale costruire
regole. Infatti, senza una verità, assoluta o relativa, la società
umana cadrebbe in contraddizione, perderebbe una visione coerente,
con il rischio concreto di una degenerazione nel caos.
Le regole, in questo modo, si adeguano alla normalità, alla morale
corrente, anche se la normalità non può essere la verità, ma un
comportamento comune, quindi suscettibile di cambiare qualora il
consueto atteggiamento dovesse mutare.
In questo modo la normalità produce una norma, che si trasforma in
legge, legge che è un riferimento indispensabile nella struttura di
una società, al punto che la legge diventa il criterio di verità da
utilizzare per emettere un giudizio.
E’ quindi spiegata la necessità che esista la verità, ma questa,
nella sua assolutezza, è e rimane e rimarrà sempre sconosciuta,
anche se è compito primario della filosofia tendere a essa, pur
nella consapevolezza che mai verrà disvelata.
Appare poi necessario mettere al bando in questo discorso la verità
di fede, dove l’elemento di convinzione e di credo è dato solo
dall’immensa fiducia per una verità che non appare dimostrabile.
In poche parole apprendiamo che la verità è avvolta nella
caligine, ma è necessaria, ha avuto molte trasformazioni e di sicuro
ne avrà ancora, quella assoluta non è prerogativa di qualcuno, ma
solo tendenza, la verità è tremenda, è inconoscibile e
irrinunciabile. C’è chi pretende di possederla, ma non è in grado di
dimostrarla; la verità relativa è sempre un fatto dinamico e alla
fine di tutti questi discorsi l’unica verità certa è che noi non
conosciamo la verità.
Sono poche le pagine di questo saggio, ma ben scritte, in modo
accessibile ai più e anche venate da una sottile ironia propria di
chi è consapevole dell’impossibilità di pervenire alla verità
assoluta.
Da leggere, ne vale la pena.
Lodovico Ellena, nato a
Torino nel 1957, ha svolto il servizio militare in Puglia ed in
Veneto, e si è laureato in filosofia a Torino. Ha avuto discreta
notorietà con il gruppo neopsichedelico Effervescent Elephants
con l’edizione di vari dischi. È stato vice-preside, poi direttore,
in un liceo torinese. Svolge numerose attività politiche e collabora
a vari giornali. Ha pubblicato le seguenti opere: Smacacando un
macaco (racconti di umorismo assurdo, Vercelli 1996 ), Non me
ne frego più (Menhir, Sanremo 1997), Dove osano le coccinelle
(Menhir, Sanremo 1998), Storia della musica psichedelica italiana
(Menhir, Sanremo 1998), Neofascisti in bicicletta (Menhir,
Sanremo 2000), Una strana storia intorno a un lago (Menhir,
Vercelli 2001), Storie comuniste in bianco e nero (Menhir,
Sanremo, 2001), Vicoli di storia. Quello che non si trova sui
corsi (Menhir, Vercelli 2002), Camerati in cattedra. Mit
pistolen (Menhir, Sanremo 2003), Gli elefanti che furono
effervescenti (Menhir, Vercelli 2003), Archeologia in pillole,
con Walter Camurati (Menhir, Vercelli 2004), La riconquista della
posizione eretta (Menhir, Vercelli 2004), La patente europea
del fascista (Tabula fati, Chieti 2004), Kulturkampf
(Tabula fati, Chieti 2005), Riflessioni sulla storia (Tabula
fati, Chieti 2005), Gaudeamus Igitur (Menhir, Vercelli 2005),
Le pagine strappate della Resistenza (Tabula fati, Chieti
2006) e C’era una volta nei pressi di Alice Castello
(Vercelli 2006).
Renzo Montagnoli
16/12/2010
La Toga Sbiadita
Memorie di un giudice
di Alessandro Mariotti
Prefazione di Renzo Montagnoli
Edizioni Agemina
www.edizioniagemina.it
Collana I libri della memoria
Lacune e rimedi
In questo quadro si inserisce poi il desiderio di liberarsi di un
potere autonomo quale quello giudiziario, per eroderne le basi,
sottometterlo e infine asservirlo alle proprie volontà, svilendone
funzioni e sistemi; ed ecco allora sorgere i progetti di legge per
il processo breve, per la riforma dell'ordinamento giudiziario con
la separazione delle carriere, affinché in un futuro abbastanza
prossimo campeggi nell'aula dei tribunali la classica scritta, così
modificata: "La giustizia è uguale solo per tutti i sudditi".
Uno stato in cui si applica la giustizia con imparzialità, equità e
in tempi abbastanza brevi è uno stato civile, ma purtroppo da noi
non c'è più civiltà e, a breve, forse non ci sarà più nemmeno uno
stato.
Questo libro, per la chiarezza con cui viene illustrata l'attività
del magistrato, per la lucidità e imparzialità con le quali vengono
affrontati i problemi strutturali della giustizia, suggerendo anche
le possibili e concretamente realizzabili soluzioni non solo merita
di essere letto, ma sarà sicuramente condivisibile da chi ha ancora
occhi per vedere e cervello per capire.
(Dalla prefazione)
Ci si potrà chiedere come mai io torni in argomento dopo aver
scritto la prefazione di questo libro ed è la domanda che mi sono
posto e la cui risposta mi ha indotto a stilare la presente.
I motivi sono essenzialmente due:
1) l'intervista successivamente da me fatta all'autore e dalla quale
sono emersi ulteriori elementi di giudizio;
2) la possibilità di meglio puntualizzare alcune opinioni che nella
prefazione, anche per ragioni di spazio, possono apparire forse
incomplete.
Che la giustizia italiana sia malata e non funzioni come dovrebbe in
uno stato moderno e democratico mi sembra del tutto inconfutabile.
Ricorrere alle decisioni di un giudice è quasi sempre un percorso
lungo, tortuoso, incerto nei risultati come nei costi, sempre
elevati. E parlo di giudizio civile, di una normale lite, e non
certo di un processo penale, pure esso caratterizzato da
insostenibili lungaggini e da pene che sovente non danno
soddisfazione alla parte lesa.
Chi ha più danno da queste storture è sempre il cittadino meno
abbiente, non di rado vittima prima per la sua condizione economica,
e non poche volte ancor di più dopo, stroncato nelle sue ragioni
dagli avvocati di controparte, spesso veri principi del foro, che
lui, povero diavolo, non può permettersi.
In ogni caso proprio la lunghezza dei procedimenti finisce per il
favorire chi ha recato offesa, e non è infrequente che liti si
trascinino per così tanto tempo da vedere l'intervento degli eredi,
in caso di premorienza dell'attore o del convenuto, o addirittura di
entrambi.
Ad di fuori del sistema giudiziario i cittadini brancolano nella
nebbia, hanno un'idea indotta del procedimento e dei magistrati, o
per sentito dire, oppure per intrusioni politiche non di certo
disinteressate.
Com'è quindi che funziona, cos'è che non va, come è possibile
rimediare: di questo si parla in questo libro, dove, partendo dagli
inizi di carriera di un giudice si arriva alla sua fine, attraverso
una serie di episodi chiave di cui, per ovvi motivi, sono riportati
nomi fittizi delle parti in causa e delle località delle stesse. Non
sono fatti inventati, sono fatti veri e proprio per questo riescono
a dare un'idea dei concreti problemi di questa importantissima
struttura che ogni giorno che passa sembra vacillare sempre di più.
E per dare un'idea esatta di come appaia in tutta la sua crudezza il
malanno è necessario precisare che Alessandro Mariotti non è stato
né un magistrato eroe, né un magistrato lavativo, è stato
semplicemente "il magistrato", quella figura che in silenzio assolve
al proprio dovere perché si sente servitore dello stato, e quindi di
tutti i cittadini. Certamente non si è comportato da burocrate
ottuso, pur nel rispetto delle regole, né ha mai avuto manie di
protagonismo, insomma quello che un imprenditore, se la giustizia
fosse l'attività di un'azienda privata, potrebbe definire un
elemento valido su cui fare affidamento.
Come lui, per fortuna, ce ne sono tanti altri, anche se non mancano
quelli che vivacchiano aspettando lo stipendio o altri, pochi per
fortuna, che cercano di trarre un profitto personale dalla loro
attività.
La magistratura, come sancito dalla Costituzione, è autonoma, e
questo a vantaggio di tutti; ciò non toglie che in un paese come il
nostro, in cui il corporativismo sembra innato, si delinei una casta
dei magistrati, pur tuttavia lontana da situazioni, da arroganze e
anche da aspirazioni di potere da altre ben più agguerrite, come
quella dei politici.
Dopo aver fornito esempi reali dei problemi della giustizia e dopo
averli individuati, l'autore procede a stilare un ventaglio di
possibili provvedimenti per risolverli, soluzioni in verità
condivise e propugnate da molti suoi colleghi, con la differenza che
le proposizioni non solo vengono avanzate in termini accessibili ai
più, ma appaiono convincenti, realizzabili anche in tempi brevi,
senza essere punitive per i cittadini, che anzi ne trarrebbero
benefici, e per le casse dello stato.
Nell'insieme quest'opera costituisce quindi più di un motivo
d'interesse, perché fa luce, e in modo chiaro, su problemi che tutti
avvertiamo, ma la cui portata e la cui soluzione sono sovente
mistificati da politici che più che avere a cuore la soluzione per
il bene comune perseguono invece solo vantaggi particolari.
Non mi resta, quindi, che raccomandare la lettura de La toga
sbiadita.
Nato a Empoli ( FI ) il 01/07/1940,
Alessandro Mariotti consegue la laurea a pieni voti in
Giurisprudenza nel 1966, presso l'Università di Firenze,con una tesi
di diritto costituzionale sulle Regioni. Si congeda dal servizio
militare di leva con il grado di sottotenente di complemento e con
l'abilitazione all'insegnamento di Diritto, Scienza delle finanze
e Statistica, ottenuta mentre fa il militare. Svolge, come
supplente, attività di insegnamento negli Istituti Tecnici e
contemporaneamente espleta funzioni di vice-pretore onorario. Nel
dicembre 1969 partecipa a un concorso nazionale per tre posti di
ricercatore aggiunto del C.N.R. ed, ottenuta la nomina, presta
servizio presso l'I.D.G. di Firenze del C.N.R., sezione di
documentazione giuridica automatica, che utilizza i primi computers
dell'I.B.M. Nel 1970 frequenta a Pisa, presso il C.N.U.C.E. (Centro
Nazionale Universitario di Calcolo mElettronico) un corso di
formazione professionale per l'apprendimento del PL1, un linguaggio
di programmazione per l'elaborazione informatica di dati
alfanumerici, finalizzata all'analisi di testi giuridici condotta
nel menzionato Istituto di ricerca. Vinto il concorso per la
magistratura, nel 1972 si dimette dal C.N.R. e prende servizio, come
uditore giudiziario senza funzioni, per il tirocinio che durerà un
anno. Avute le funzioni giurisdizionali, il Mariotti sceglie una
Pretura del Nord, ove viene addetto alle cause civili di locazione,
per tre anni. Si trasferisce poi in Toscana, dove lavora come
giudice del lavoro e delle cause previdenziali ed assistenziali,
oltre che di locazione, per un intero decennio. Nel 1986, a sua
richiesta assume, nella stessa sede, le funzioni di magistrato di
sorveglianza, svolte per sedici anni. Dopo aver percorso tutte le
tappe della carriera e,con la qualifica di consigliere di Cassazione
idoneo all'esercizio delle funzioni direttive superiori, rassegna le
dimissioni volontarie con decorrenza dal gennaio 2002. Pochi mesi
dopo il Mariotti si iscrive all'albo degli avvocati per l'esercizio
dell'attività forense, quasi esclusivamente nel settore
dell'esecuzione penale sino all'agosto 2009.
Renzo Montagnoli
14/12/2010
Legami culturali
da Riccardo Bacchelli a Mario Luzi
di Fulvio Castellani
Introduzione dell'autore
Edizioni Solfanelli
www.edizionisolfanelli.it
Saggistica letteraria
Collana Micromegas
Letteratura
Come opportunamente precisa l'autore nella sua introduzione
all'opera questa consiste in una raccolta di articoli di genere
letterario, scritti in epoche diverse, scelti non tanto seguendo un
filo logico, piuttosto per l'aspetto emotivo intrinseco avvertito
nella rilettura dopo parecchio tempo.
Senza voler avere l'ambizione di dissertare approfonditamente sui
principali poeti e narratori italiani contemporanei, Legami
culturali è in effetti una miscellanea di brevi saggi e
interviste, in grado tuttavia di interessare il lettore per la loro
completezza, pur in presenza di una brevità discorsiva che, anziché
nuocere, consente una sintesi di caratteristiche encomiabile e per
nulla scontata.
A Riccardo Bacchelli sono dedicate, peraltro giustamente, non poche
pagine, ricomprendendo, oltre a una scheda critica, le risposte a
diversi quesiti posti a letterati di peso e, comunque, in grado di
esprimere giudizi compiuti, quali Geno Pampaloni, Silvano Demarchi e
Walter Mauro, solo per citarne alcuni.
Dal contrasto, anche se solo limitato, fra le opinioni emerge così
un quadro molto vivo e sicuramente di pregio dell'autore di romanzi
basilari per la letteratura italiana, quali Il mulino del Po
e Il diavolo al Pontelungo.
Di particolare interesse, soprattutto per me, è poi un'intervista a
Giuseppe Bonaviri, con domande azzeccate che ben mettono in luce il
pensiero del grande scrittore di Mineo.
Non manca un articoletto sul "Perché della poesia", un quesito
potrei dire classico e nel caso specifico corredato da una
risposta-analisi, forse non del tutto condivisibile, ma comunque
logica e coerente nella sua articolazione.
Di tutta queste serie di articoli quello che mi ha colpito di più
riguarda Nino Palumbo, lo scrittore di Trani scomparso nel 1983. Ciò
che appare di maggior rilievo in questo elaborato è però
l'intervista, da cui emerge limpida la personalità dell'autore che
non svicola mai nelle risposte, portando avanti anzi il suo pensiero
con apprezzabile coerenza e senza timori. Mi spiace non aver mai
letto nulla di Palumbo e credo che provvederò al riguardo quanto
prima.
Ecco, uno dei tanti pregi di questo libretto è di incuriosire il
lettore, di fargli nascere l'interesse per uno scrittore o un poeta
magari da lui poco conosciuto, al punto da desiderare di visionare
qualcuna delle sue opere, e ciò è veramente apprezzabile, rende
onore e merito a Fulvio Castellani, al quale chiedo di provvedere
quanto prima alla stesura di un'analoga miscellanea che abbracci e
comprenda altri autori, magari non noti, ma di sicura qualità.
Nel raccomandare Legami culturali mi permetto di aggiungere che la
lettura, mai affaticante, è senz'altro agile e piacevole, tanto da
poter dire che s'impara divertendosi.
Fulvio Castellani è nato nel
1941 in Carnia ed è stato iscritto all'Albo dei Giornalisti (Elenco
Pubblicisti) per trentacinque anni. Di formazione umanistica, i suoi
interessi vanno dalla letteratura all'arte e ha al suo attivo
molteplici opere di poesia, narrativa, saggistica e storia locale.
Tra le più recenti pubblicazioni vanno ricordate, di poesie:
Così, per dire (La Nuova Fortezza, Livorno 1984), I rifugi
dell’io (Ursini, Catanzaro 1993), Segmenti e diaframmi
(Delta 3, Grottaminarda 1999), I gradini del sole (Ursini,
Catanzaro 2006), Orme e penombre (Ursini, Catanzaro 2009),
Sera di parole (Ibiskos Ulivieri, Empoli 2010); di narrativa:
La storia di Nadina (per ragazzi, Edizioni Bresciane, Brescia
1986), Parole a Siv e altri racconti (Gabrieli, Roma 2004),
Registro segreto (Gabrieli, Roma 2004), Pioggia di
primavera (Greco & Greco, Milano 2005); di saggistica:
Polinnia (Ursini, Catanzaro 1993), Oltre il recinto
quotidiano (Editrice Veneta, Vicenza 2007), Con la penna in
mano. Viaggio nella narrativa di Silvana Cellucci (La Cassandra,
Pineto 2007), Semplici letture (Poeti nella Società, Napoli
2008), Altre letture (Poeti nella Società, Napoli 2009).
È stato a più riprese direttore responsabile di “Radio Studio
Nord” e delle riviste “Tuttomontagna” e “Le occasioni”.
È presente in antologie come Nel nome del Padre (Ursini,
Catanzaro 2005), La poesia del Terzo Millennio (Marna, Lecco
2007), Poeti nel mondo della nuova frontiera (A.G.A.R.,
Reggio Calabria 2009), Non abbiate paura... (Ursini,
Catanzaro 2010).
Dal 1994 è Ufficiale dell’Ordine al Merito della Repubblica
Italiana.
Renzo Montagnoli
12/12/2010
Prigioniere del
silenzio
di
Maria Carmen Lama
Prefazione di Valentino Vitali
Aletti Editore
www.alettieditore.it
Poesia silloge
Collana “Gli Emersi – Poesia”
Una silloge scrosciante di parole e di
lacrime
Se devo essere
sincero non ho mai pensato alla sofferenza delle donne, soprattutto
per quanto concerne i loro rapporti con gli uomini. La domanda, o
meglio le domande, sono sorte spontanee leggendo questa silloge di
Maria Carmen Lama e sono stato indotto a fare un esame di coscienza,
dal quale sono uscito assolto (ma il giudice sono io). Un senso di
colpa, però, mi è venuto poiché mai avrei immaginato che questo
fenomeno avesse caratteristiche così ampie.
Quindi, se uno degli scopi di Prigioniere del silenzio
era quello di allertare, di denunciare una situazione, questo è
stato senz’altro raggiunto.
Non sono teneri, questi versi, nei confronti dei maschi, visti come
egoisti ed egocentrici (Tu, maschio, / che vivi solo di te stesso
– ( Non uomo, / solo maschio! / Assente, / nella tua presenza. /
Debole, nella tua arroganza / che credi forza. /…).
E lirica dopo lirica la dose si rincara ( Sai scorticare / le ali
di una farfalla, / sai calpestare / senza neppure vederlo / un bel
fiore rosso, / dai morbidi / e delicati petali / come il papavero, /
sai colorare di nero / la luna piena, /…).
Insomma, c’è di che restare basiti e, francamente, ogni tanto, fra
un verso e l’altro, sono assalito dal timore di non essere io stesso
immune da simili comportamenti, insomma, magari inconsciamente, di
essere succube di un Dna che caratterizza il maschio.
Mi chiedo allora se più che un odio degli uomini nei confronti delle
donne sia presente invece un senso di rivalsa delle stesse nei
confronti dei maschi per quell’atavica sottomissione che, a dispetto
di leggi e costituzioni, permane e serpeggia magari travestita da
malcelato buonismo.
(…/ Griderei forte / soltanto / per far svanire / d’un colpo /
quel battito d’ali / / che ti condusse / a me.).
In questi versi si mescolano un rigetto improvviso con la sensazione
di aver sbagliato in passato, magari di aver creduto in buona fede.
Vero è che le situazioni non sono tutte uguali e che quindi sarebbe
ingiusto generalizzare, ma sono dell’opinione che questo grido di
dolore, se pur così ben delineato, più che aiutare a risolvere il
problema lo enfatizzi.
Comunque, meglio alzare i toni, magari anche tanto, piuttosto che il
silenzio, che potrebbe essere scambiato per accettazione di una
condizione che non deve esistere.
C’è indubbiamente una distanza fra l’uomo, inteso come essere umano,
e il maschio, ed è giusto che esista; il problema sorge quando
l’aspetto istintivo, la radice bestiale prendono il sopravvento,
determinando così un individuo sostanzialmente immaturo perché più
maschio che uomo.
Non si deve, in verità, generalizzare, ma, purtroppo, non è
infrequente ed è di questi bambini mai diventati adulti che parla
questa silloge, interessante, incalzante, senza accidia, scrosciante
di parole e di lacrime.
Da leggere, senz’altro, e per il tema trattato e per come,
egregiamente, è stato svolto.
Maria Carmen Lama
è nata in provincia di Messina il 20.11.’49. Vissuta a Capo
d’Orlando fino all’età di vent’anni, nel 1970 si è trasferita per
lavoro a Milano, dove si è laureata in Filosofia, e dal ’77 vive in
provincia di Lecco.
Ha svolto attività di insegnamento e poi di Dirigente scolastica in
Istituti comprensivi e al Liceo Artistico lecchese.
Ha tenuto corsi di formazione per docenti e genitori e ha pubblicato
articoli di carattere pedagogico e culturale su riviste
professionali per docenti e dirigenti, con gli editori
Maggioli, Fabbri, Edizioni Didattiche
Gulliver.
Ha prevalenti interessi letterari e in ambito filosofico e
psicologico. Scrive recensioni, che pubblica su diversi siti web,
relative a testi di vario genere, a romanzi coinvolgenti a livello
emotivo e a libri di poesie. Scrive anche poesie e ama approfondire
la conoscenza delle produzioni poetiche dei grandi del passato. Ha
iniziato da pochi anni a entrare nel mondo poetico attuale, anche
attraverso la consultazione di siti web dove le scelte risultano
essere traboccanti, ma non sempre adeguate all’idea di poesia come
vera e propria arte destinata a pochi ed
eletti adepti.
e-mail:
carmen@giandgi.eu
Renzo Montagnoli
11/12/2010
Il vicolo blu
di Giuseppe Bonaviri
Sellerio Editore Palermo
www.sellerio.it
Narrativa romanzo
Magia sublime
"Nel frattempo dalle colline vicine, che si estendevano in una
linea che andava da occidente ad oriente dove per prima il giorno
imbruniva cominciavano a cantare gli assioli.
Come si sa, sono uccelli notturni, per natura tristi, il cui canto,
a differenza di quello dei grilli, pareva disassimilasse lo spazio,
ossia lo trasformasse in rotonde isole sonore intercalate da pause
di silenzio che si formava fra melograni, carrubi e mandorli; o si
infossava nelle grotte e nei botri profondi.".
Con Il vicolo blu Giuseppe Bonaviri ritorna al suo paese
natale, Mineo, a distanza di anni da Il sarto della strada lunga.
E' trascorso molto tempo e quella sua naturale vena poetica,
accompagnata da un'analisi ontologica di ogni essere reale, si è
notevolmente affinata, così che questo lavoro di fissazione della
memoria riesce a giungere a risultati straordinari, di palpitante
intensità e commozione.
Il mondo rurale, povero, quasi derelitto, ma ricco di una
solidarietà oggi sconosciuta, con tutti i suoi contrasti, sorretto
da una fede panteistica, viene tratteggiato in modo esemplare.
E la vicenda di una modesta villeggiatura d'epoca, una fuga dal buio
dei vicoli di Mineo, assurge a una gigantesca corale sinfonia in cui
ogni elemento della natura, uomini, animali, vegetali, perfino
sassi, ha la sua voce, la sua tonalità, si imprime indelebilmente
nell'animo del lettore, consapevole che Bonaviri con questo suo
lavoro ha cantato un mondo che non esiste più.
Sono tanti i passi in cui la vena poetica dell'autore trascende
dalla visione apparente per entrare in un'atmosfera di elevata
intima spiritualità, pagine a cui lasciarsi andare, volando oltre la
nostra realtà per ritrovare il respiro dell'eterno che tanto ci
manca.
E' la Sicilia antica quella così mirabilmente descritta, in una
visione teocritea che raggiunge vette sublimi e che solo nelle
Bucoliche di Virgilio ho potuto constatare.
Bonaviri, con quella sua aria pacata, per nulla saccente, sembra
volerci dire che se il destino dell'uomo è rincorrere vanamente se
stesso, c'è un altro mondo intorno a noi, in cui entrare con il
cuore e scoprire meraviglie che la nostra scienza, perfetta, ma
arida, ci ha con il tempo nascoste.
Un semplice temporale, con il mutare del colore del cielo, l'afrore
della terra zuppa d'acqua, le reazioni degli animali e degli uomini
sono il preludio a pagine ancor più intense, come quelle della
raccolta delle stelle cadenti, in cui la fantasia, nel superare la
realtà, ci restituisce questa in un'altra dimensione, con l'uomo
che, da oggetto del disegno imperscrutabile dell'universo, ne
diviene soggetto, partecipe e non più succube, fermo restando la sua
limitatezza di essere infinitesimale, un atomo di un progetto troppo
grande per essere compreso.
La vita di ogni giorno, così misera, con i suoi lutti e le poche
gioie, finisce con il diventare l'occasione di continue scoperte, di
meraviglie che affascinano non solo i bimbi protagonisti, ma anche
gli adulti; è questa una civiltà arcaica, di forti contrasti, in cui
un contadino è capace di comporre una laude per violino sulla morte
dei capretti sgozzati, o dei papaveri tagliati durante l'aratura. In
tal modo fra la magia dei fanciulli e il naturalismo senza tempo
degli adulti non c'è contrasto, anzi si instaura un'armonia
perfetta.
Tutto procede secondo natura, non c'è tempo e nemmeno l'occasione
per le attuali depressioni, perché il vivere a stretto contatto con
il mondo che ci circonda e che procede immutabile da secoli, a parte
la ciclicità delle stagioni, induce l'uomo a scoprirne l'essenza, a
considerarsi parte integrale dello stesso senza superbia, con la
immensa modestia degli umili, con quella capacità di trascendere la
realtà che il progresso ci ha tolto.
Bonaviri ha saputo trasmetterci non solo questo suo messaggio di
avvertimento, affinchè la nostra civiltà rallenti la sua corsa
inutile, ma ci ha portato con lui in questo altro mondo, dove la
dolcezza dell'asina Ririrì incanta e intenerisce il cuore, dove la
solidarietà della povera gente permette un funerale quasi pagano a
un bimbo morto a nemmeno due mesi di età, dove la scomparsa per
tetano di un compagno di giochi è vissuta in un lutto collettivo non
di circostanza, ma di profondo affetto.
Il vicolo blu è il testamento letterario di Giuseppe Bonaviri, in
cui generosamente ha lasciato a tutti la sua visione della vita,
stupendoci dalla prima all'ultima pagina, in una narrazione che
riesce a giungere più volte a vette sublimi, proprie di quello che
può essere considerato un autentico capolavoro.
Giuseppe Bonaviri, nato nel 1924
a Mineo, in provincia di Catania, è scomparso nel 2009. Primo di
cinque figli di un sarto, Bonaviri ha vissuto per anni a Frosinone
dove ha esercitato la professione di medico. Fra le sue opere più
note: Il sarto della strada lunga, Il fiume di pietra, La divina
foresta, Notti sull'altura, L'enorme tempo, Silvinia, L'infinito
lunare, Il dottor Bilob, L'incredibile storia di un cranio, Il
vicolo blu.
Renzo Montagnoli
09/12/2010
L’Erede degli Dei
di
Marco Salvador
Edizioni Piemme
www.edizpiemme.it
Narrativa romanzo
Collana Storica
La storia di un cavaliere
“Il sole non si
vedeva da giorni. Da una tenebra all’altra era un ininterrotto
crepuscolo, più o meno cupo a seconda del gravare delle nubi. Poi il
vento del nord era sceso dai monti. Sibilando appena, al principio
aveva filato con le sue gelide dita il fumo dei focolari
avvoltolandolo ai rami nudi degli alberi.”
L’Erede degli
Dei è la genesi di un cavaliere, Corrado da Romano,
pronipote di Ezzelino, dagli inizi ancora fanciullo alla sua
investitura, alle battaglie, alle sue disgrazie, fino al
raggiungimento, dopo tante tribolazioni, di una vera pace interiore.
Premetto subito che è un romanzo bellissimo, scritto in modo
magistrale, in quel modo che solo lui sa, da Marco Salvador che non
ho esitato a definire il Walter Scott italiano.
Ricerca minuziosa delle fonti, capacità di scegliere, fra tante
notizie, quella più attendibile, elaborazione di questi elementi
fino a sviluppare una trama, capacità di affondare la lama quando
serve e di addolcire ove è necessario, personaggi caratterizzati
nella loro essenza, senza inutili appesantimenti, descrizione di
battaglie talmente viva che sembra di prendervi parte, una nota
malinconica di fondo sul destino degli uomini, sempre presente,
anche se non esplicita, tutte caratteristiche queste ben radicate
nel narratore di San Lorenzo di Pordenone e che connotano infatti
tutti i suoi romanzi, dal ciclo longobardo a quello dei Da Romano,
di cui il primo, immediatamente antecedente a questo, vale a dire
La palude degli eroi, è di una tale bellezza e perfezione
da poterlo definire, senza timore, un autentico capolavoro.
E L’Erede degli Dei non gli è da meno, una serie di
quadri ininterrotti, di luce soffusa, ma vivi e che colpiscono il
lettore per i toni, per gli equilibri, per un alternarsi di pochi
adagi e di molti andanti, una sinfonia della vita in cui si
disegnano figure memorabili, dipinte con la stessa cura, dagli umili
ai potenti, dai pavidi agli audaci, una moltitudine di esseri umani,
con i loro pregi e i loro difetti, tesi a sopravvivere o a vivere
nella gloria.
Comunque bisogna leggere questo romanzo e i precedenti per capire
cosa voglia dire saper scrivere bene, in un italiano corretto e con
un ricorso puntuale a un’analisi logica ferrea, in un fiume di
parole che sanno essere tumultuose, oppure quiete, tanti piccoli
ceselli a formare un mosaico che stupisce e affascina.
Il tutto in un tessuto di originalità, certamente non frequente, e
che fa rivivere un’epoca passata come in una pellicola
cinematografica, un succedersi di vicende interpretate da uomini e
donne, di varia umanità, che sembrano muoversi autonomamente, non
guidate dal regista. Eppure non c’è una nota storta, non c’è un
attacco o uno stacco al di fuori del tempo giusto, in un equilibrio
armonico che regge, stabile, perfetto, senza la minima sbavatura,
dall’inizio alla fine.
E non è solo la trama ad avvincere, ma anche le riflessioni
dell’autore poste in bocca a questo o a quel personaggio, perché in
fondo gli uomini, chi più chi meno, è giusto che debbano farsi
un’idea sui perché della loro esistenza.
Le pagine scorrono veloci, la mente di chi legge s’invola, si
sarebbe tentati di proseguire a oltranza, fino all’ultima pagina, ma
non è giusto, occorre procedere adagio, per non lasciarsi sfuggire
nulla, per il timore di non poter godere di ogni parola di questo
splendido romanzo, un altro capolavoro di Marco Salvador.
Marco Salvador
è nato a San Lorenzo, in provincia di Pordenone, nella casa in cui
vive tutt’oggi. Ricercatore storico, per professione e per passione,
con un interesse particolare per il Medioevo, ha pubblicato numerosi
saggi sulle comunità rurali nel medioevo
e sulle giurisdizioni feudali minori. Inoltre ha scritto sei
romanzi: Il longobardo (Piemme, 1^ Edizione 2004, 2^ Edizione
2008), La vendetta del longobardo
(Piemme, 2005), L’ultimo longobardo (Piemme, 2006), La casa
del quarto comandamento (Fernandel, 2004), Il maestro di giustizia
(Fernandel, 2007), La palude degli eroi (Piemme, 2009) e
L’Erede degli Dei (Piemme, 2010)..
Renzo Montagnoli
07/12/2010
Gabriele D'Annunzio
nelle lettere a Giancarlo Maroni
(1934)
di Ruggero Morghen
Edizioni Solfanelli
www.edizionisolfanelli.it
Saggistica
Collana Micromegas
D'Annunzio meno mito
Chi sia Gabriele D'Annunzio penso, e spero, lo sappiano tutti,
mentre assai meno noto è Giancarlo Maroni, tanto che viene lecito
chiedersi chi fosse mai costui che, fra l'altro, poteva permettersi
una fitta corrispondenza con il grande poeta abruzzese.
Giancarlo Maroni (Arco, 1893 - Riva del Garda, 1952) è stato un
architetto, anzi l'architetto del Vittoriale, la dimora Mausoleo di
Gabriele D'Annunzio a Gardone, ove si ritirò dopo l'esito infausto
dell'impresa fiumana.
Quindi, fu in virtù di questo incarico che si avviò un'intensa
corrispondenza fra i due, reperita da Ruggero Morghen e di cui si
disserta in questo breve, ma interessante saggio.
In effetti può sorprendere come un epistolario possa gettare nuova
luce su un artista tanto amato dagli italiani da venerarlo, spesso
senza mai aver letto qualcosa di suo. In queste lettere, in cui si
esprimono giudizi su alcuni lavori realizzati, si formulano ipotesi
su altri, si chiedono e si rilasciano consigli, si rileva un
progressivo affiatamento che porta al sorgere di una vera e propria
amicizia, ma soprattutto si notano caratteristiche dell'uomo
D'Annunzio che, nel separarlo da quell'alone di mito di cui lui
stesso si era circondato, lo rendono più simpatico evidenziando una
comune vulnerabilità.
Il poeta è tutto lì, è carne e ossa, sentimenti e affetti non da
dio, ma da umile mortale, e in questa riscoperta di una dimensione
normalmente umana in un'artista che finì con il diventare
prigioniero del suo mito sta tutta la sua reale grandezza; ha fretta
che l'opera sia conclusa, perché sa di essere mortale, e infatti,
quattro anni dopo le lettere di questo epistolario che risalgono al
1934, Gabriele D'Annunzio morirà per un'emorragia cerebrale.
Sorgono spontanee molte domande, vista la differenza fra il
D'Annunzio uomo e il D'Annunzio vate, ma una sopra tutte: fu
fascista? Si può rispondere tranquillamente che non lo fu, benché il
fascismo gli dovette molto. Se posso esprimere una personale
opinione, dico solo che Gabriele D'Annunzio fu certamente uomo di
destra, conservatore, ma libertario, non inquadrabile in nessuna
ideologia politica, amante dell'ordine, ma anche di comportamenti
fuori dei canoni, insomma un personaggio complesso in cui luci e
ombre si alternavano con sorprendente rapidità.
Il saggio di Morghen è quindi un elemento prezioso per conoscere di
più il poeta abruzzese, ma lo è anche per avere un altro angolo di
visuale di un anno del ventennio che inevitabilmente si riflette, è
presente in quelle lettere.
Da leggere, quindi, perché ne vale la pena.
Ruggero Morghen (1957) di Riva
del Garda, laureato in sociologia all'Università di Trento con una
tesi sulla rappresentazione dell'ambiente montano nella
cinematografia, è pubblicista e bibliotecario. Da anni lavora presso
la Biblioteca civica della sua città, dove si occupa in particolare
di catalogazione ed acquisizione di nuovi documenti al Catalogo
bibliografico trentino.
Ha pubblicato varie opere di letteratura e satira - tra cui il
"Dizionario del Belpensante" - e sue poesie sono apparse in forma
antologica. Nel 2007 ha pubblicato "La perdutissima setta" (Solfanelli,
Chieti), sulle rappresentazioni della massoneria nei documenti
pontifici.
Renzo Montagnoli
05/12/2010
Non tutti i bastardi sono di Vienna
di Andrea Molesini
In copertina L'attesa, di Dario Treves
Sellerio Editore Palermo
www.sellerio.it
Narrativa romanzo
Collana La memoria
L'orrore di una guerra segna la fine di un'epoca
"Io… io, madame… ho visto i miei soldati venire su da quel fiume,
venivano su dall'acqua, come i vostri gnocchi di patate nel tegame,
mi capite, madame? Gnocchi nell'acqua che bolle".
Non ci sono eroi, ma solo le vittime in questo bel romanzo di Andrea
Molesini. La guerra è un mostro che fagocita tutto, che irrompe
nelle vite di ognuno imponendo sacrifici e decisioni in contrasto
con la propria natura.
L'occupazione nemica delle terre a est del Piave dopo la disastrosa
ritirata di Caporetto è stato un tema sempre sfiorato, ma mai
effettivamente affrontato e quindi questo romanzo, dal titolo
insolito, pone rimedio a una mancanza quasi colpevole. Infatti, se è
vero che le nostre truppe compirono immani sacrifici lungo le sponde
del Piave per difendere il nostro paese, lo è altrettanto che gli
italiani, caduti sotto il dominio militare austriaco, resistettero
eroicamente, colpiti dalle violenze, dai saccheggi, dalla fame,
totalmente in balia del nemico.
Quindi non c'è l'orribile guerra di trincea, così ben descritta da
Remarque in Niente di nuovo sul fronte occidentale o da Lussu
in Un anno sull'altipiano, c'è invece l'attesa nelle
retrovie, lì occupazione nemica, il sentirsi ospiti in casa propria.
E forse la visione che danno dei semplici civili di un così immane
conflitto offre la misura dell'angoscia di chi non combatte con le
armi, ma con la sua coscienza, con la propria dignità.
In queste pagine, che partono da un fatto realmente accaduto, si
dipana una storia di vita e di morte, in un'atmosfera spesso
pesante, foriera di continue sventure, in cui sembra non esserci
posto per la pietà, anche se poi questo pregio, così tanto in
disuso, si svilupperà come la brace che accende il fuoco.
In un conflitto crudele e sanguinoso c'è posto per tutto, per la
ferocia dell'omicidio e per l'aiuto al nemico ferito, contrasti
tipici dell'uomo in situazioni limite.
Fra gli scoppi delle bombe, i gemiti dei moribondi, la puzza di
piscio, la fame che regna ovunque, si concretizza anche la fine di
un'epoca, quella delle buone maniere che accomunavano la borghesia
sorta con la restaurazione e i patrizi d'origine, quelle dei
baciamano, quella cavalleria intesa come irrinunciabile vocazione
estetica.
E così le divise inamidate si sporcano del lordume della guerra, gli
animi intessuti di convenzionali ideali si trovano a combattere fra
un concetto della vita messo in discussione dagli eventi e la
rinascita di una coscienza individuale, e non più collettiva di
ceto, che sembra incapace di reagire razionalmente. Non c'è forse
nessun odio fra i protagonisti, ma in tutti c'è la rassegnazione per
la consapevolezza della fine di un mondo che non potrà più
ritornare.
La disponibilità a una relazione fra la zia Maria e il barone von
Feilitzsch , il suo quasi patetico tentativo di offrirsi a lui per
salvare il ragazzo dalla fucilazione e la sofferta reazione
dell'uomo che non si piega, perché siamo in guerra, perché l'Austria
si avvia alla sconfitta, perché non può perdonare dopo che ha visto
i suoi soldati morti salire in superficie dal ribollire del Piave,
danno il senso chiaro del dramma che, serpeggiando, alla fine è
uscito allo scoperto.
La belle epoque è finita, i valzer alla corte di Vienna saranno solo
un ricordo e c'è qualche cosa che è peggio della morte ed è uno
stile di vita cancellato per sempre, il cui ricordo sarà strangolato
dal rimpianto.
Molesini ha uno stile asciutto, a volte perfino essenziale, anche se
non disdegna inserire alcune note poetiche; i personaggi sono
calibrati, una caratterizzazione che non denota mai eccessi, alcuni
anche naturalmente simpatici, e fra questi pure dei nemici; la
narrazione scorre fluida, senza intoppi, equilibrata armonicamente,
una sorta di lungo adagio che, in alcuni momenti di particolare
drammaticità, opportunamente si impenna, si accentua senza mai però
arrivare all'eccesso; la trama, dove non poco conto ha lo
spionaggio, è indovinata e quindi non c'è da meravigliarsi se questo
romanzo riesce ad avvincere dall'inizio alla fine.
Altra nota positiva è l'uso esemplare della lingua, non accademico,
ma sciolto.
E il titolo un poco strano? E' il moccolo che tira un sacerdote,
anche lui in preda al turbine della guerra.
Non tutti i bastardi sono di Vienna segna un esordio
ampiamente positivo, è un bel romanzo e quindi sicuramente da
leggere e anche da rileggere, perché non mancano di certo spunti per
ampie e approfondite riflessioni.
Andrea Molesini è nato e vive a
Venezia. Ha curato e tradotto opere di poeti americani: Ezra Pound,
Charles Simic, Derek Walcott. Ha scritto storie per ragazzi tradotte
in varie lingue. Non tutti i bastardi sono di Vienna è il suo
primo romanzo.
Renzo Montagnoli
01/12/2010
Menelicche
di Valentino Rocchi
Presentazione di Pina Vicario
Edizioni Agemina
www.edizioniagemina.it
Narrativa romanzo
Collana I tipi
Le insormontabili barriere sociali
"Tutto ha avuto inizio un secolo prima o giù di lì. Fra la fine
degli anni '80 e i primissimi anni del '90 del 1800.
A quel tempo la città, che aveva goduto della sua maggior fortuna
nel periodo rinascimentale, non era ancora uscita dalla cinta
pentagonale delle mura fatte costruire dai Della Rovere. Contava
d'una manciata di migliaia di cittadini e di poche centinaia di
portolotti.".
Valentino Rocchi, purtroppo scomparso il 30 gennaio del corrente
anno, è stato un autore di narrativa particolarmente fecondo e per
quanto i romanzi pubblicati siano stati numerosi, i familiari,
mettendo le mani nei cassetti della sua scrivania, ne hanno trovati
non pochi, così che alcuni sono stati inviati all'editore di
riferimento, la fiorentina Agemina.
Uno di questi è Menelicche, che più che romanzo è da
considerare un racconto lungo, che trae origine da una filastrocca,
versi popolari di una vicenda forse veramente accaduta, e che
l'autore pesarese ha utilizzato, non senza aver prima fatto accurate
ricerche, per imbastire una storia che nelle sue linee rientra nelle
tipologie a lui così care e che, in altre forme, sono presenti nella
sua produzione.
L'attenzione per le differenze di classe, un tempo più marcate di
oggi, la difesa dei ceti più deboli, l'appassionata presa di
posizione in favore dei portatori di handicap sono innate in
Valentino Rocchi, convinzioni ben radicate nella sua intima natura
al punto da costituire motivi ricorrenti nei suoi lavori. Quello che
cambia nel caso specifico è l'ambiente, non più quello agricolo a
lui particolarmente caro, ma quello marinaro, con il
sottoproletariato delle attività a terra ad esso connesso.
La vicenda è di quelle che portano gradualmente a una profonda
commozione, perché disegnata in un mondo in cui c'erano limiti
invalicabili fra una classe e l'altra, confini che nemmeno l'amore
poteva valicare e, se lo faceva, portava inevitabilmente ad
accentuati conflitti che segnavano per sempre l'esistenza delle
persone coinvolte.
E' così che in una Pesaro di fine '800, da poco passata dal dominio
del papa allo stato italiano, sboccia un'amicizia, che poi diventerà
affetto e infine un sentimento più forte. La ricchezza della
protagonista e la miseria di un operaio del cantiere navale sono il
contrasto più stridente, ancor più della menomazione di lei, due
mondi diversi, in cui convenzioni e sottomissioni imperano a
dispetto di qualsiasi sentimento.
La mano di Valentino Rocchi è precisa, ma lieve, nel narrare questa
storia, la cui conclusione sarà inevitabilmente non positiva, ed è
con ogni probabilità che qualcosa di simile deve essere accaduto,
perché la filastrocca è nata in ambiente popolare, in quella classe
sottomessa che per prima rimprovera all'innamorato il tentativo di
elevarsi, superando il confine.
E il difetto fisico diventa anche oggetto di scherno, una inconscia
rivalsa di chi, per nascita debole, nei confronti di chi invece per
origini dovrebbe essere forte. Il popolino, ignorante, si nutre
anche di invidia, ma non manca di un congenito sentimento di pietà
che fa sì che una ballata improntata allo scherno finisca con il
diventare un pietoso canto all'amore negato.
Da leggere, senz'altro, come tutti i libri di Valentino Rocchi.
Valentino Rocchi (Savignano sul
Rubicone, 1929 - Pesaro, 2010)
Ha pubblicato: "Una Storia a Castelvecchio" (Società editrice Il
Ponte Vecchio - Cesena); "L'Eredità di Venanzio" (Guaraldi - Rimini)
Vincitore del Premio letterario "Il Pungitopo" 2001."Notte all'Hotel
La Guercia" (Argalìa Editore);"Gli uomini di Bluma" (Giraldi
Editore) II Classificato al Premio "Palazzo al Bosco", 2002;"La
saggezza di Toni" (Giraldi Editore);Esce nell'anno del V centenario
della morte di Pandolfo Collenuccio, uomo di corte e di legge, dalla
vita straordinariamente avventurosa: "Notte all'Hostaria La
Guercia", Pandolfo Collenuccio, uomo di corte del XV secolo, (Giraldi
Editore) ambientato nel XV secolo, di cui è l'autore è profondo
studioso e conoscitore; nel 2008 "La Magia del fuoco" (Agemina) e
"1504 - Notte all'Hostaria La Guercia" (Agemina); nel 2009 "Il
pianoforte a coda" (Giraldi Editore), "La padrona di Santa Maria" (Giraldi
Editore), "Confrontarsi con Karolina" (Agemina), nel 2010 "Giolina"
(Agemina) e Menelicche (Agemina).
Renzo Montagnoli
28/11/2010
Morte dell’inquisitore
di Leonardo Sciascia
Prefazione dell’autore
Adelphi Edizioni
Collana Piccola Biblioteca Adelphi
L’annullamento delle fonti
“Pazienza
Pane, e tempo.
Queste parole,
graffite sul muro di una cella del palazzo Chiaramonte, sede del
Sant’Uffizio dal 1605 al 1782, Giuseppe Pitré riesce a decifrare nel
1906: insieme ad altre di disperazione, di paura, di avvertimento,
di preghiera; tra immagini di santi, di allegorie, di cose ricordate
o sognate.”
Il destino, spesso,
riserva delle sorprese del tutto particolari e al riguardo Leonardo
Sciascia mai avrebbe immaginato che quel personaggio di Fra Diego La
Matina, incontrato casualmente raccogliendo i documenti d’epoca per
il suo romanzo Il Consiglio d’Egitto, sarebbe
diventato il protagonista di un altro libro, un’opera ultimata anche
se incompiuta, suscettibile di nuove aggiunte, di altre ipotesi.
Certamente, più che il personaggio, è la genesi del reperimento
della documentazione, incompleta, che portò lo scrittore siciliano a
compiere un lavoro il cui grado di soddisfazione era per lui, per
quanto possa sembrar strano, nella possibilità e nell’esigenza di
rimettervi mano.
La vicenda in sé non è di eclatante interesse, con questo frate,
recidivo, più volte condannato a pene sempre più severe e che
infine, dopo aver ammazzato per esasperazione a manettate il suo
inquisitore, viene giudicato, ritenuto colpevole e sanzionato con la
pena capitale, secondo la più classica delle forme preferite dal
Sant’Uffizio: il rogo.
I diari dell’epoca sono scarni, con poche informazioni, anche perché
i documenti ufficiali sono stati bruciati nell’incendio ordinato dal
viceré Caracciolo ed è quindi lecito formulare più di un’ipotesi in
ordine al movente, e fra queste Sciascia respinge decisamente quella
del delitto passionale a suo tempo formulata da William Galt nel
romanzo storico Fra Diego La Matina.
O forse questo frate era reo di aver interpretato il messaggio di
Gesù Cristo in modo del tutto personale, con uno stravolgimento
della dottrina corrente, al punto che era meglio non scrivere nulla
delle sue idee teologiche, assumendo l’ipotesi che lamentasse
l’esistenza di un Dio non giusto se tollerava le ingiustizie.
Insomma, la mancanza degli atti del Tribunale lascia aperte tante
porte, nessuna delle quali tuttavia pare condurre a qualche cosa di
certo. Tutto sparito, anche se rimane il racconto dell’ultima notte
del condannato, assolutamente da leggere con la massima attenzione,
e la sua esecuzione, che avviene come se si svolgesse una festa
paesana, con nobili in gran sfoggio e gente bramosa di annusare il
profumo della morte.
Meticoloso nella ricerca com’era proprio Sciascia non
c’è dubbio che anche in questa circostanza abbia proceduto con il
massimo rigore, ma resta il fatto che, in assenza degli atti del
Tribunale, le certezze sono poche e che quindi non è difficile
comprendere il perché nella sua prefazione scriva, fra l’altro: “
La ragione è che effettivamente è un libro non finito, che non
finirò mai, che sono sempre tentato di riscrivere e che non
riscrivo aspettando di scoprire ancora qualcosa…”
Pagina dopo pagina si giunge alla convinzione che l’ispirazione
per l’opera non sia tanto la vicenda di questo frate, ma la mancanza
di fonti certe, la presenza solo di indizi che possono fornire al
più l’atmosfera di tragedia per l’operato del Sant’Uffizio, tutti
elementi che avrebbero fatto desistere qualsiasi autore, ma che per
Sciascia costituiscono l’idea di una riscrittura, che si avvale
proprio dell’annullamento delle fonti, per artatamente ricrearle,
dotandole di una sottile vena ironica che giunge a vette eccelse
nella pignolesca descrizione della parata che porta al supplizio.
L’autore realizza in tal modo un saggio esemplare, probabilmente una
delle più acute e lucide condanne della repressione delle libertà di
pensiero che siano mai state scritte.
E definirlo un’opera incompiuta è riduttivo, perché in effetti è un
lavoro che nel momento in cui si completa lascia aperte nuove
possibilità, nuove ipotesi, non tanto forse per un’altra
riscrittura, ma per una ulteriore integrazione. In pratica non c’è
un’ultima pagina, ma solo una pagina che chiude una porta nella
consapevolezza che se ne potrebbero aprire altre.
Morte dell’inquisitore non è un libro facile, come è
possibile comprendere, ma è di grande valore, senz’altro uno dei
migliori fra quelli scritti da Sciascia.
Leonardo Sciascia
(Racalmuto,
8 gennaio 1921 – Palermo, 20 novembre 1989). E’ stato autore di
saggi e romanzi, fra cui: Le parrocchie di Regalpietra
(Laterza, 1956), Il giorno della civetta (Einaudi, 1961),
Il consiglio d’Egitto (Einaudi, 1963), A ciascuno il suo
(Einaudi, 1966), Il contesto (Einaudi, 1971), Atti
relativi alla morte di Raymond Roussel (Esse Editrice, 1971),
Todo modo (Einaudi, 1974),
La scomparsa di Majorana
(Einaudi, 1975), I pugnalatori (Einaudi, 1976), Candido,
ovvero Un sogno fatto in Sicilia (Einaudi, 1977), L’affaire
Moro (Sellerio, 1978), Il teatro della memoria (Einaudi,
1981), La sentenza memorabile (Sellerio, 1982), Il
cavaliere e la morte (Adelphi, 1988), Una
storia semplice (Adelphi, 1989).
Renzo Montagnoli
25/11/2010
d'Amore
2 di
Romantica Vany e King Lear
Lulu.com
Poesia silloge
Già la copertina
appare civettuola, con quel letto sfatto, sulle cui coltri tuttavia
campeggia un libro, a significare che l’arredo non serve solo a
riposare le membra, ma anche a rilassare e a nutrire la mente.
Poi, qualcuno più malizioso potrà dare una diversa interpretazione,
ma anche in questo caso la stessa non potrà che essere complementare
alla mia.
Le poesie d’amore sono spesso frutto d’impeto, poi mitigato in una
successiva ristesura, soprattutto per un naturale pudore, ma nel
caso di D’Amore 2 sembrano scritte di getto, senza
ulteriori ripensamenti, sono il frutto di un momento di passione e
in questo non possono che essere considerate sincere (Come
vampira / di sete assetata / io che amor conosco / e non conosco /
consapevole vittima / al Peccato prestata / io ti mordo, / il tuo
nudo corpo sfioro / con la lingua / lasciando / che sia serpente
sulla tua carne /…). E’ indubbiamente quella componente
dell’amore che è l’erotismo, ma traslata in versi, senza
occhieggiare la verve dell’Aretino; non infastidisce, anzi
interessa perché naturale senza essere volgare, pur se risente di
millenni di educazione cattolica che porta a considerare la passione
un peccato. O forse quell’accenno è un istante di pudore che, pur
non frenando l’espressione esplosiva del sentimento, tende a
ricercare una scusante per ciò che in effetti non è da scusare.
Ma ci sono anche riflessioni, meno spontanee e frutto di
un’elaborazione mentale che si radica lentamente nel tempo ( …/
Selvaggia la pelle tua / addosso alla mia, carnose / le tue labbra
mi sanno conquistare, / baci uguali non esistono, / trasformano / i
battiti del mio cuore / nell’eco d’un cannone, / Fiero animale / un
po’ orso un po’ alieno / profumo effuso di te / mio desiderio).
Non manca, tuttavia, anche la quieta serenità che riviene dalla
certezza di un amore consolidato, ben espressa, senza astruse
fantasie, e comunque immediata, pur se questi versi non possono che
essere stati oggetto di una stesura più dilazionata, attenta a
ricreare un momento di estatico compiacimento ( …/ Mi son vista
proiettata / indietro nel tempo / - come in un sogno - / e noi
eravamo là mano nella mano / a ridere senza motivo / per un
nonnulla, per la pasta scotta / e il cocomero tagliato a spicchi /…).
La quotidianità dei gesti, il senso di una vita in comune emerge
come una rassicurante certezza di un sentimento indissolubile, in un
appagamento sensoriale che svela solo pudicamente il sogno.
E non bastasse, a stemperare, non guasta un po’ di romanticismo, non
melenso, ma comunque volto a completare un quadro d’amore che non è
solo passione e carnalità, ma anche febbre che brucia dentro nel
profondo e che si sfoga in gesti, in parole in cui il sentimento
finisce con il prevalere (Piove, / la verde erba del mattino
bagnata; / su quel raggio di sole / - che le nubi divide / facendomi
l’occhiolino - / vorrei segnare i nostri nomi / sognando una
gentile serata / di luce di stelle. /…).
Se questa è l’espressione poetica di Vany, altra cosa è quella del
coautore, una sorta di comportamento burbero, quasi distaccato,
sotto il quale si cela tuttavia una non meno forte passione. Il
maschio è meno disponibile a scendere a compromessi, a squarciare il
suo petto per mostrare il suo sentimento, eppure questo fra le righe
compare, con versi solo in apparenza scanzonati (Bimba, amami
ancora / Amami prima che ceda alla pazzia / Non m’interessa il Sole
/ non me ne frega un piffero della Luna / Ho un chiodo fisso
solamente e sei tu /…).
Ciò non toglie che lui veda lei come un soggetto da proteggere,
sotto le sue ali di maschio solo in apparenza navigato, e così
dedica al suo “amore” dei versi quasi civettuoli (Il mio amore al
vento è una bambina / tenera e piccina, romantica e testarda /…);
è un passo graduale che alfine sfocia pure in una visione romantica,
in parole che non lasciano scampo, né possibilità di fraintendimento
( Se mi chiedessero di morire / per un tuo bacio, / lo farei. /
Così potrei vantarmi / con gl’angeli / d’aver visto il paradiso /
prima di arrivarci.).
Sorprende, nel leggere questa silloge, di trovare un Giuseppe
Iannozzi tenero e delicato sotto una patina di uomo vissuto e una
Viola Corallo più concreta, più trasparente, messa a nudo nei suoi
sentimenti senza ombra di pudore. Nel gioco delle parti in una
coppia non ci dovrebbero essere né vincitori né vinti, però, se
fosse in mio potere dare un giudizio in una tenzone amorosa come
questa, propenderei di attribuire la vittoria, ai punti, a lei, alla
donna, all’oggetto delle nostre attenzioni a cui non riusciamo a
sottrarci e in questo senso la silloge ben rappresenta l’eterno
contrasto fra lo spirito femminino e quello maschile, contrasto
indispensabile per giungere a un accordo di coppia sincero,
autentico e duraturo.
D’Amore 2 è una piacevole raccolta di poesie, per certi aspetti una
positiva sorpresa, che sono sicuro non deluderà i lettori.
Gli autori
Romantica Vany è l’alias di
Vanessa Viola Corallo, mentre King Lear
è quello di Giuseppe Iannozzi. Piuttosto restii a fornire
informazioni sulla loro vita, sono comunque conosciuti su Internet
per i loro blog e siti; Giuseppe Iannozzi è noto in qualità di
giornalista e critico letterario indipendente e fuori dai canoni.
Pubblicazioni:
1)
Iannozzi Giuseppe – Morte all’alba – narrativa,
tramite Lulu.com; Racconti di nani e giganti - narrativa,
tramite Lulu.com; Premio Strega – narrativa, tramite Lulu.com;
Nere gli anni delle innocenze – poesia – tramite Lulu.com.
2)
Giuseppe Iannozzi e Vanessa Viola Corallo – d’Amore –
poesie – tramite Lulu.com; d’Amore 2 – poesie – tramite
Lulu.com.
Siti e blog:
http://iannozzigiuseppe.blogspot.com/
http://www.jujol.com/
http://iannozzigiuseppe.wordpress.com/
http://biogiannozzi.splinder.com/
http://romanticavany.splinder.com/
Renzo Montagnoli
23/11/2010
Plettri nelle mani di Dio
Improvvisi a quattro mani sul tema
The Beatles
di
Andrea Barghi e Maurizio Grasso
Presentazione di Italo Inglese
Copertina di Vincenzo Bosica
Edizioni Tabula Fati
www.edizionitabulafati.it
Saggistica
Collana Maschera e volto
Musica e mito
Sul quartetto di Liverpool sono stati
scritti libri a profusione, così che non farebbe notizia questo Plettri
nelle mani di Dio se non fosse strutturato in modo
particolare, con tanti capitoletti che si possono leggere senza un
ordine logico, articoli anche di critica e curiosità, spesso ignote
ai più.
Resta il fatto che scrivere di questo complesso, che è senz’altro
quello di maggior successo di sempre, non è in ogni caso mai troppo,
visto il rilievo che hanno avuto in campo artistico, di fatto
influenzando profondamente il mondo della musica leggera nella
seconda metà del secolo scorso.
Con il trascorrere del tempo, poi, il mito anziché calare, aumenta
vistosamente, complici anche eventi successivi allo scioglimento del
quartetto, come l’omicidio di John Lennon o la morte, per malattia,
di George Harrison.
Perfezionisti fino all’incredibile, i Beatles inaugurarono un nuovo
genere, a base ritmico-melodica, di elevatissima qualità, con
canzoni che sono entrate nella storia come Yesterday e Penny Lane.
Anche sotto il profilo delle esecuzioni, accanto a un batterista e
percussionista come Ringo Star, c’erano le magiche chitarre soliste
di John Lennon, George Harrison e Paul McCartney, e non a caso il
titolo di questo libro è azzeccato (Plettri nelle mani di Dio,
dove il plettro, per chi non lo sapesse, è quel piccolo triangolo di
plastica con cui si pizzicano le corde di quegli strumenti).
Barghi e Grasso, pur restando nel filone mitico dei Beatles,
forniscono notizie che possono andare oltre la semplice curiosità,
indubbiamente interessanti per un patito di questo complesso e in
ogni caso eloquentemente significative per quelli (non molti in
verità) ne ignorano addirittura l’esistenza.
Si passa così dal primissimo periodo di gavetta, analizzando la
trasformazione della loro impronta musicale grazie soprattutto a
Lennon, al fortunato incontro con George Martin, che oltre a
divenire il produttore di tutti i loro album, grazie alla sua
formazione classica, riuscì a tradurre le tantissime idee del
quartetto nei famosi arrangiamenti e li supportò, coordinandoli,
nella particolare tecnica del suono.
Addirittura ci sono alcune pagine dedicate al famoso basso di Paul
McCartney, suonato in modo divino, quasi da farlo diventare voce e
strumento.
Insomma, Plettri nelle mani di Dio, è un libro da
leggere, magari con il sottofondo musicale dei brani che vengono
citati, un’occasione in più per riascoltare o ascoltare per la prima
volta musiche veramente immortali.
Andrea Barghi
è nato in Toscana nel 1953 ed è un fotografo naturalista affermato
in Italia e all’estero.
Ha collaborato con famose riviste di cultura e fotografia
("Airone", "Oasis", "I Viaggi di Repubblica", "Fotografia Reflex",
ecc.) e curato numerosi libri fotografici e pubblicazioni
multimediali
(come Io Fotografo e Video per E-ducation ed RCS).
Da una decina di anni ha fondato l’agenzia di progetti creativi
"Everland" insieme alla compagna, art-director e copy-writer, con la
quale ha realizzato reportages, mostre e numerose pubblicazioni -
per citarne alcune Andrea Barghi - Fotografo di Emozioni (Everland,
2005), Luci e Silenzi (Everland, 2006), Il Rinascimento
del Paesaggio (Pacini, 2009).
È attualmente impegnato in progetti di comunicazione in
collaborazione con soggetti pubblici e privati per la valorizzazione
del patrimonio internazionale di natura, arte e cultura.
Vive tra la Toscana e la Svezia.
Maurizio Grasso
è nato a Roma nel 1956 ed è un ex manager aziendale. In campo
letterario, dopo un paio di prove narrative giovanili (L’uomo che
piange lacrime d’ambra, Edicias, Roma 1985; La bestia,
Solfanelli, Chieti 1992), nel 2009 ha pubblicato la raccolta di
racconti Luci di costiera (Aracne, Roma). A partire dagli
anni Novanta ha iniziato un’intensa attività di traduzione dal
francese per conto di varie case editrici (Newton Compton,
Mondadori, Editori Riuniti, Lucarini ecc.), curando una quarantina
di volumi, soprattutto classici della letteratura francese:
Flaubert, Stendhal, Maupassant, Proust, Gautier, Hugo, Mérimée,
Sade, Voltaire, Verne, Zola e altri. Ha collaborato con racconti,
versioni e articoli alle riviste “Foreste sommerse”, “Idea”, “Inonija”,
“Nuovo Confronto” e “Lettera internazionale”.
Renzo Montagnoli
21/11/2010
Georgiche
di Publio Virgilio Marone
Testo latino a fronte
Introduzione, traduzione e note
di Mario Ramous
Garzanti Libri
Poema
Collana I Grandi Libri
Il valore del lavoro per uno scopo comune
Virgilio si è ormai imposto come autore di grande pregio con le
Bucoliche e ha l'opportunità di conoscere Mecenate, di origine
etrusca, ricco, ascoltato consigliere di Augusto, aperto alle arti e
alle idee, protettore di numerosi artisti di rango. Entra subito nel
suo giro e ha così modo di conoscere Ottaviano, che solo dopo la
battaglia di Azio, sconfitto Antonio, potrà formalmente
concretizzare l'idea di uno stato con Roma imperiale.
Le guerre civili hanno lasciato pesanti strascichi di carattere
economico, con le campagne abbandonate, anche perché l'incertezza
che ha dominato sovrana per anni incuteva, giustamente, grossi
timori negli agricoltori, poco propensi a coltivare una terra che
poteva loro essere strappata da un momento all'altro.
La riorganizzazione dello stato non può prescindere dalla soluzione,
ormai indifferibile, degli approvvigionamenti alimentari e quindi
Augusto deve ridare fiducia a chi coltiva la terra, avviando una
vasta campagna, che si potrebbe definire pubblicitaria, imperniata
soprattutto sul valore del lavoro dei campi, non disgiunto
dall'apprendimento di tecniche di coltura, quasi dimenticate in
quegli anni di sangue, paure e incertezze.
E' così che Mecenate propone a Virgilio di scrivere un poema
didattico e il poeta mantovano accetta alle condizioni che non gli
vengano posti inderogabili limiti di tempo e che possa mantenere una
certa indipendenza, di modo che l'opera non sia esclusivamente
didascalica, ma anche letteraria.
Nascono così le Georgiche, un lavoro in 4 libri per complessivi
2.183 esametri, forma metrica idonea a un poema epico-didascalico.
Il risultato è stupefacente e Virgilio, grazie al suo genio,
travalica i suggerimenti di Mecenate, con una visione dell'umanità
indubbiamente asservita al potere imperante, ma comunque del tutto
universale, una comunità dagli stretti legami, laboriosa, rivolta
solo al bene comune, proprio come le api dell'alveare.
Ottaviano ne fu addirittura estasiato, perché il poeta mantovano
aveva scritto un'opera perfetta, non solo sotto l'aspetto
stilistico, ma anche perché aveva capito perfettamente l'essenza
della politica del primo imperatore ed era riuscito a tradurla in
lettere in modo del tutto accattivante e comprensibile.
Del resto le Georgiche, a differenza delle Bucoliche in cui la vita
è di pura fantasia, parlano di un mondo reale, e benché la
creatività dell'autore lo abbia aiutato nella stupenda descrizione
dei paesaggi, si avverte in modo incontrovertibile che questa era
frutto di un'osservazione diretta degli stessi.
La circostanza non è strana, se consideriamo l'origine celtica di
Virgilio, con tutti gli influssi che ne derivano e con una visione
di animali e di piante, considerati del tutto simili all'uomo, con
sentimenti analoghi.
Le Georgiche sono un altro capolavoro e quindi la lettura è
vivamente raccomandata.
Publio Virgilio Marone (Andes,
15 ottobre 70 a.C - Brindisi, 21 settembre 19 a.C.).
Opere principali: Bucoliche, Georgiche, Eneide.
Renzo Montagnoli
15/11/2010
Amicizia fra le dune
di
Silva Ganzitti
Copertina di Elisaberra Gallina
Illustrazioni di Carolina Savonitto
Edizioni Tabula Fati
www.edizionitabulafati.it
Narrativa favola
Collana Fiabetica
Una simpatica favola
Si fa spesso confusione fra fiaba e
favola, ritenendoli perfetti sinonimi. Ma non è così, perché la
favola si distingue per il fatto che i suoi personaggi sono animali
ed è fornita di una morale.
Silva Ganzitti, autrice di numerosi testi per bambini, ha
confezionato con Amicizia fra le dune una graziosa
favola che vede come protagonista principale un animale spesso
trascurato, un simpatico crostaceo, che ha avuto la disgrazia di
nascere con due robuste ventose al posto delle classiche chele.
Ovviamente in lui si riflettono comportamenti e atteggiamenti umani
che rappresentano proprio la chiave di successo di questo genere.
Azioni, pensieri, reazioni non sono proprie dell’animale, ma sono
tipiche di ogni uomo, e questo il mezzo che, nell’attrarre
l’attenzione di un bimbo, consente anche di educarlo.
Il simpatico gamberetto, che si sente emarginato per questo difetto
fisico, cercherà sulla terra di avere una risposta e magari una
soluzione al suo problema. Lì incontrerà degli amici, un’anatra e
due fenicotteri, con tante avventure, sovente esilaranti, che
portano, come si conviene, a un lieto fine.
In questa favola viene tratteggiato il valore dell’amicizia che può
molto, anche se non tutto, e, in relazione alla tematica del
“diverso”, finisce con l’essere l’unico sistema per uscire
dall’emarginazione.
Ripeto, il protagonista principale, a cui la fantasia dell’autrice
ha fatto mettere in testa un ciuffo, desta immediata e particolare
simpatia, così come gli amici che poco a poco incontrerà.
Scritto con garbo e accompagnato da illustrazioni in tema realizzate
dalla figlia della favolista, Amicizia fra le dune è
un racconto spigliato e gradevolissimo, adatto a bimbi a partire
dagli otto anni, ma che non deluderà di certo nemmeno gli adulti,
visto che a me ha strappato più di un sorriso.
Nata nel 1962 in Friuli,
Silva Ganzitti
alla scrittura c’è arrivata d’un tratto. Passione tardiva, ma
ugualmente coinvolgente, in pochi anni ha riempito quaderni di
appunti e fiabe abbozzate, che sono poi diventate storie e racconti
non solo dedicati all’infanzia.
Ha pubblicato quattro testi per l’infanzia con 0111 edizioni:
Amici di Duna (2005), Mistero nel Sottobosco (2005),
Domitilla voleva un Unicorno (2007) e Abdul genio in
ribasso (2007). Tutti i testi sono prevalentemente
commercializzati online.
Abdul genio in ribasso, è entrato nel catalogo Danae in
seguito ad una bella recensione di un autore di racconti e romanzi
per l’infanzia, Beppe Forti.
Racconti dal Sottobosco raccoglie tre storie legate tra
loro da una cornice geografica che le ambienta nella pedemontana
friulana, territorio di origine dell’autrice.
Renzo Montagnoli
12/11/2010
Le quattro stagioni di un vecchio
lunario
di
Luisito
Bianchi
Sironi Editore
www.sironieditore.it
Narrativa
Collana Indicativo Presente
Gli
irripetibili istanti del cerchio della vita
“Come il puntino
che salda il cerchio della vita con le sue quattro stagioni, sempre
più piccolo man mano che il cerchio si perfeziona fino a diventarne
un tutt’uno con esso. Càpita quindi di indicare un qualsiasi punto
del cerchio e dire con sicurezza: è questo il punto che salda tutto,
e sono infiniti i punti dato che il cerchio è perfetto. Come il
respiro, il battito del cuore e delle ciglia in questo preciso
momento in cui scrivo salda tutti quelli che ci sono stati con
quelli che verranno.
Per dirvi, cari,
che, nella perfezione del cerchio che è la vita di ogni uomo, ogni
momento è importante quanto il tutto, e che questo sentimento lo si
prova nella sua profonda verità quando i ricordi di stagioni lontane
diventano memoria, proprio come queste pagine di ricordi sono
diventate in me memoria. E la memoria è il puntino impercettibile
che salda il cerchio della vita e mi fa dire, come succo di queste
storie di vecchio lunario: vivere, ne valeva la pena
28 novembre 1984 – 8 agosto 1985”
Così, con
queste parole, frutto di una profonda riflessione che i ricordi
hanno maturato, si conclude l’ultimo libro di Luisito Bianchi, un
inno all’epoca più bella della vita di ogni essere umano, quella
della giovinezza, spensierata, gaia, in cui gli ideali non devono
ancora far conto con la realtà del mondo.
E un paese della pianura padana, immerso nelle nebbie dell’autunno,
quattro anime, tre case e una chiesa, torna a rivivere com’era tanti
anni fa, in un processo di elaborazione dei ricordi che si trasforma
in memoria.
Vescovato è ancor oggi un piccolo borgo, per certi versi
irriconoscibile rispetto a quello degli anni giovanili dell’autore,
ma qui torna a essere il centro di ogni interesse, l’immagine
ingiallita di un’epoca che si colora ancora delle emozioni
trascorse, sopite e che prepotenti riemergono. Così la penna,
sapientemente guidata, ferma sulla carta figure e paesaggi, a
definire un microcosmo in cui si muovono personaggi ormai scomparsi,
che ora tornano a nuova vita.
Più che un racconto questa narrazione finisce con il diventare il
recupero della propria trascorsa esistenza, nell’avvicendarsi di
stagioni astronomiche che si confondono con quelle della vita, una
sinfonia di suoni, di voci, di visioni e di aromi che piano piano
avvolge il lettore, fino a penetrargli dentro, a coinvolgerlo, sì
che da semplice spettatore ambisce a essere protagonista di una
storia irripetibile.
E questo è il grande merito di questo libro, perché la memoria di
Luisito diventa anche la nostra memoria, perché Vescovato diviene il
nostro paese in cui avremmo desiderato di essere nati, per vivere
con lui, con l’autore, le esperienze di una giovinezza ricca per
l’animo e ritrovare quelle radici che il tempo che passa, convulso e
orfano della nostra attenzione, sembra aver reciso.
Dal gioco della lippa alla festa di paese, dai giorni scanditi dalle
ricorrenze religiose alla neve nei campi, al profumo di pulito dei
fiori del granturco, si disegna così, armoniosamente, questo grande
cerchio fatto di momenti, tutti egualmente importanti.
Appaiono figure vicine, come quelle dei familiari, oppure altre,
solo in apparenza meno rilevanti, perché la vita di ognuno di questi
è stata un cerchio che si è intersecato con quello di Luisito,
personaggi che la storia non ricorderà, perché quella parla solo dei
capi, ma questi protagonisti minori sono assai più importanti,
perché il loro modo di essere ha rappresentato un’esperienza diretta
insostituibile.
La mano dell’autore è lieve, mai incline alla facile commozione, ma
in questa commedia umana ci sono attori che di per sé portano a
sensazioni di grande emotività, come Giuliano con il suo asino, o
meglio ancora Nèna e Céli, la cui bontà è tanto grande quanto la
loro miseria.
Ho scritto prima che Luisito ha dato memoria a un microcosmo, ma
ognuno dei componenti di questa piccola realtà ha una sua grandezza,
in molti casi immensa, perché ognuno ha saputo restare nel ricordo,
ora diventato memoria.
Se La messa dell’uomo disarmato è considerato il più
bel libro sulla Resistenza - e non solo su quella aggiungo io
-, Le quattro stagioni di un vecchio lunario è
uno stupendo canto alla vita, una di quelle opere, rare, che non
gettano sassi nelle acque ferme degli stagni, ma che sussurrano
lievi agli uomini l’autentico significato da dare alla loro
esistenza.
E mi sembra d’obbligo ringraziare Luisito Bianchi per averci dato un
altro capolavoro.
Luisito
Bianchi è
nato a Vescovato nel 1927 ed è sacerdote dal 1950. È stato
insegnante e traduttore ma anche operaio, benzinaio e inserviente
d’ospedale. Ora svolge funzione di cappellano presso il monastero di
Viboldone (Milano). Ha pubblicato:
Salariati (1968), Gratuità tra cronaca e storia
(1982), Dittico vescovatino
(2001), Simon mago (2002), Dialogo sulla gratuità
(2004) e Monologo partigiano (2004). Con Sironi ha
pubblicato
Come un atomo sulla bilancia
(2005),
I miei amici-Diari
(2008) e
La messa dell’uomo disarmato
(2002), il suo grande romanzo sulla Resistenza, elogiato da critica
e pubblico.
Hanno detto di lui: «Un punto di riferimento per chi ama la
letteratura, per i critici e per i lettori che hanno trovato nei
libri di questo autore un seme di verità, una parola vera e
necessaria» (Avvenire); «Un autore di densissimo spessore
umano e spirituale» (La Stampa); «Don
Luisito Bianchi è sempre stato ed è un prete "scomodo", di
quelli pronti a mettersi in gioco» (L’Unità).
Renzo Montagnoli
10/11/2010
Il mondo Sottosopra
raccolta poetica di
Maristella Angeli
Rupe Mutevole Edizioni 2010
www.reteimprese.it/rupemutevoleeedizioni
E’ un nuovo inno
all’amore questa raccolta poetica di Maristella Angeli?
Certo che l’amore la pervade. C’è quello per il suo compagno di
vita, quello per la bambina che nasce, quello per la Natura, a cui
l’autrice ci ha ormai abituati, dal momento che è sempre
protagonista nelle sue poesie, e c’è quello per le persone comuni
che, affrontando giorno dopo giorno la vita, tentano disperatamente
di vivere meglio che possono. Ma soprattutto c’è l’amore per la
madre che, scomparsa da poco, lascia una ferita profonda e
inguaribile nell’anima di Maristella. Una mamma che ci viene
descritta pittrice, poetessa, un’artista insomma, ma anche una
protagonista irriducibile della vita, una figura materna che è
universale e che, come in ognuno di noi, trova il suo posto per
sempre nell’anima dell’autrice. Il dolore per la sua morte però è
immenso e destabilizza, ma proprio questo fa scattare qualcosa che
la poetessa non ha mai manifestato precedentemente nelle sue
sillogi. La ribellione! Tra le parole che, struggenti, in un afflato
di sentimento davvero coinvolgente e commovente, incantano per la
loro bellezza e che hanno del magico, si insinua la voglia di
riscatto verso un destino beffardo e tiranno. C’è meno rassegnazione
questa volta nei confronti della vita che nega e fa soffrire e che,
nella sua ineluttabilità, strappa con la morte la figura della
madre, la figura cioè dell’amore vero, assoluto, incondizionato e
pertanto insostituibile. La poetessa soffre moltissimo, come del
resto soffriamo noi, leggendo il suo dolore, vivendo insieme a lei
la straziante assenza di colei che s’identifica con la stessa gioia
di vivere. L’autrice mescola il proprio pensiero nel colore del
mare e nel colore della nostalgia di un campo di papaveri e
fiordalisi. Ritornano i fantasmi del passato, i ricordi funesti
di un’infanzia che ha tolto più che regalato, e il tempo delle
speranze perduto ormai per sempre, portato via dal vento che
contemporaneamente ha portato via mamma Giuliana. Quindi
stavolta è un amore che s’impone, non più tanto languido e
malinconico soltanto, ma determinato, deciso, spavaldo, coraggioso,
in una parola invincibile. La sfida alle leggi che regolano il
tempo e lo spazio si legge spesso tra le righe e la ribellione
dell’autrice arriva a voler capovolgere il mondo conosciuto, perché
facendolo, mira a capovolgere le spietate regole che la vita ci
impone. Sono convinto che tutti noi abbiamo tante volte sperato di
tornare indietro, anche solo per poco, di attorcigliare indietro il
nastro dei giorni, far procedere il tempo all’incontrario per
vincere la morte e, nel caso della Angeli, per rivedere la madre e
poter ancora parlare con lei.
Coerentemente è chiaro che l’incanto a cui la poetessa ci ha
abituato nelle precedenti sillogi, come pure la ricerca di rifugio e
serenità nella magica Natura, sua vera e propria musa ispiratrice,
sono elementi velati di disillusione, mentre i contrasti che ne
conseguono si fanno evidenti, violenti quasi a tratti, e solo la
possente forza vitale della Angeli riuscirà a domare tanto
annichilimento interiore.
Così l’autrice si veste di vento, malgrado i pensieri siano
in balìa di fitte nebbie e la notte riporti paure da tempo sopite.
La luce si contrappone ad un buio minaccioso tra bianco e nero e
amore per la prima volta fa rima con dolore. Allora la poetessa alza
lo sguardo al cielo, perdendosi a contare le stelle, si eleva
alla luna per fuggire una realtà troppo spietata, ma la luna è a
pois, ed è fredda, anche se ancora riscalda i cuori innamorati.
La Angeli sembra disperata nella sua ricerca di infinito e di amore
che non muore e ancora una volta chiede aiuto alla sua forza
naturale, a quella incontrastata voglia di vivere, malgrado tutto,
che la rende invincibile. Nel sentimento profondo e puro verso il
proprio compagno ella si eleva al di sopra di tutto e finalmente
riesce a sorridere, a risentire il vento soffiare da amico, la luce
baciarla come sempre trasformando la voce dell’amore in un
iridato arcobaleno che di nuovo e per sempre splende negli
occhi innamorati.
Emanuele Marcuccio nella sua prefazione arriva ad accostare la
poetica della Angeli in questa silloge a quella del grande
Ungaretti, per musicalità ed essenzialità. Aggiungerei che in questa
raccolta l’autrice, per la forma poetica, il respiro interiore, la
dolcezza visiva e la notevole vis onirica, a mio avviso si avvicina
molto, pur nella diversità, ad un’altra grande poetessa: Emily
Dickinson.
Una silloge preziosa questa della Angeli, che si dimostra ancora una
volta e sempre di più una grande interprete dei sentimenti umani e
della vita di ognuno di noi.
Sandro Orlandi
Maristella Angeli è nata a Foligno (PG) nel 1957,
risiede a Macerata (MC). Dopo aver conseguito il Diploma ISEF a
Perugia (PG), ha insegnato Educazione Fisica acquisendo, previo
corso biennale, la Specializzazione Polivalente. Da molti anni,
presta servizio come docente di Sostegno.
Ha frequentato corsi di mimo e la Scuola di Recitazione Sangallo a
Tolentino (MC) conseguendo, previo corso regionale biennale,
l'attestato di «Animatrice attrice teatrale e sociale». È stata una
componente di un Gruppo Teatrale Amatoriale partecipando a
rappresentazioni nazionali, internazionali e al IX Festival Mondiale
Principato di Monaco (Montecarlo). Ha condotto corsi di recitazione
per adulti, ha coordinato progetti a favore dell'integrazione
sociale dei soggetti diversamente abili, basati sulla “Globalità del
linguaggio”.
Ha pubblicato: «Alla ricerca del
proprio corpo: animazione e ricerca gestuale nell'Educazione fisica»
(Lo Faro Editore, Roma 1982, didattica), «Gocce di vita» (Il Filo
Editore, Roma 2008, poesia), «Tocchi di pennello» (MEF L'Autore
Libri Firenze, 2008, poesia), «In ascolto» (MEF L’Autore libri
Firenze, 2010, poesia), «Specchi dell’anima» (Edizioni Progetto
Cultura, Roma 2010, poesia), «Il mondo sottosopra» (Rupe Mutevole
Edizioni Bedonia (PR) 2010, poesia).
Ha conseguito primi premi in concorsi: 1982 «T.
Campanella» Roma, per il libro edito; Premio Internazionale
«Pennello d'oro» Corno Giovine (MI) per la pittura; 2008 per la
poesia: Premio Internazionale «Una terra di leggende» Parco dei
Castelli Romani (RM). E’ giunta quarta al concorso Internazionale di
poesia Città di Torvaianica (RM) 2009. Ha ricevuto il Diploma di
merito per l’Opera «Gocce di vita» e per la silloge «Tocchi di
pennello» conferiti al Premio Nazionale AlberoAndronico Roma 2008 e
2009. La sua raccolta poetica «Specchi dell’anima», è stata inserita
tra le iniziative per il 5 giugno Giornata Mondiale Ambiente
e sul sito della Regione Marche, Cultura Marche.
Il suo racconto
“Una vita passata” è stato
selezionato ed è inserito nell’antologia I
sentieri del cuore,edito dalla Casa Editrice Montag,
Tolentino (MC).
Ha ricevuto Menzioni d’onore ed è giunta
finalista in numerosi Concorsi Letterari nazionali ed
internazionali. Le sue poesie sono state selezionate dal noto
scrittore Elio Pecora ed inserite nella rivista internazionale
«Poeti e Poesia» 2009. Sue poesie, sono state inserite
nell’Antologia Il rifugio dell’aria, Poeti delle Marche
2010.
Ha partecipato ad eventi letterari: 2008 Festival Internazionale
di Letteratura Aggiornata, Poetesse nel Parco,
Poetry Slam IV edizione a Macerata (MC); V, VI e VII edizione
della mostra itinerante «Poesia in libertà» Toffia (RI). E' entrata
a far parte del «Club dei 100» Dimensione Autore, Torino
(TO). Sue poesie e note bio-bliografiche sono inserite in antologie,
in siti e blog letterari.
10/11/2010
Il giorno dei morti
L’autunno del commissario Ricciardi
di Maurizio de Giovanni
Fandango Libri
www.fandango.it
Narrativa romanzo
Le solitudini di un piovoso autunno
“La domenica
sotto la pioggia è tutta un’altra cosa.
Ti mette di fronte a quello che non pensavi, a quello che non
avresti mai voluto…..La domenica sotto la pioggia chiude le porte…”
Il brevissimo estratto del capitolo XLIX offre già la misura di
quello che è Il giorno dei morti, un romanzo giallo (
per la prima volta nella serie che ha per protagonista il
commissario Ricciardi c’è un’indagine complessa e intricata, come
nelle opere dei migliori autori del genere), ma soprattutto un libro
sulla solitudine, accentuata da una fine di ottobre piovosa, umida,
quasi laida, che allontana fra di loro i protagonisti.
Il tutto prende spunto dal ritrovamento del cadavere di un bambino,
uno scugnizzo, in una nicchia di una scalinata, il corpo composto
come se dormisse e accanto, a vegliare, un cane bastardo. I
risultati autoptici diranno che è stato avvelenato, probabilmente
con l’ingestione, per fame, di un boccone per topi contenente
stricnina. Quindi l’ipotesi più plausibile non è di trovarsi di
fronte a un delitto, bensì a un mero incidente. Ma il commissario
Ricciardi non ne è sicuro, perché quella sua possibilità e condanna
che è in lui di vedere le vittime da vive, nel momento del trapasso,
udendo altresì le loro ultime parole, nel caso del bambino non si
concretizza, segno che il corpo è stato messo lì dopo la morte e, se
è così, allora i dubbi e i sospetti sorgono.
In una città di piccole gioie e di grandi dolori come Napoli, sotto
una pioggia inclemente che acuisce la profonda malinconia di base,
nei giorni immediatamente antecedenti a una visita di Mussolini che
agita le istituzioni locali e che stringe gli abitanti in una morsa
d’acciaio, lui, Ricciardi, proseguirà le indagini per conto suo, non
ufficialmente quindi, perché è evidente che gli è impossibile
contestare in modo logico l’ipotesi dell’incidente e per farlo
troverà una scusa (affinchè ad altri poveri bambini non accada di
mangiare, per fame, un boccone avvelenato) che finisce con il
diventare il vero e autentico messaggio dell’opera: lo sdegno,
immenso, per le ingiustizie che nasce da un convinto sentimento di
pietà per le vittime.
Fra mille avventure, affollate da personaggi indimenticabili, fra i
quali spiccano il fidato brigadiere Maione, la cantante Livia che lo
brama da tempo e la dirimpettaia Enrica silenziosamente innamorata,
si arriverà alla fine del libro, con la soluzione del caso,
lasciando la condizione indispensabile affinchè Ricciardi e gli
altri attori di questo teatro della vita non ritornino nell’ombra,
ma possano ancora allietare i lettori.
Dei quattro romanzi, corrispondenti alle quattro stagioni, Il
giorno dei morti è senz’altro il più maturo, il più
equilibrato e anche il più riuscito, ma questo era logico, perché de
Giovanni, nei suoi precedenti, è andato ancor più accentuando
l’eccellente livello di quel suo primo Il senso del dolore
con cui si è rivelato; fra l’altro, è un autore che continua a
sorprendere per lo stile pulito, per l’accuratezza
dell’ambientazione, per pagine, molte, venate da una provvidenziale
vena poetica, per la caratterizzazione ineccepibile dei
protagonisti, senza dimenticare la grande capacità di non ripetersi,
ma di cercare e trovare ogni volta qualche cosa di veramente nuovo
che possa ulteriormente interessare.
Il giorno dei morti è quindi un capolavoro, un romanzo di
rara bellezza, avvincente come pochi, la cui lettura, più che
consigliata, è vivamente raccomandata.
Maurizio de
Giovanni è nato nel 1958 a Napoli, dove vive e lavora. Ha
scritto, fra l’altro, Il senso del dolore (Fandango
Libri 2007), La condanna del sangue (Fandango Libri
2008), Il posto di ognuno (Fandango Libri 2009). La
serie del commissario Ricciardi è stata già venduta in Germania e in
Francia.
Renzo Montagnoli
09/11/2010
Le guerre navali nel Mar Baltico
di Gabriele Faggioni
Edizioni Solfanelli
www.edizionisolfanelli.it
Saggistica storica
Collana Faretra
Un teatro di guerra poco conosciuto
Il Mar Baltico, per la sua conformazione e per il suo accesso
all'Oceano Atlantico limitato dalla Danimarca che si protende quasi
ad unirsi alla penisola scandinava, è un bacino che poco si presta a
grandi scontri navali fra flotte consistenti; tuttavia, nel corso
del primo e del secondo conflitto mondiale, è stato teatro di
numerosi scontri, più importanti in un quadro tattico che in una
visione strategica. Del resto, a rendere ancora più piccolo questo
specchio d'acqua provvidero i contendenti creando vaste zone minate
in cui incapparono, con le immaginabili conseguenze, non solo navi
mercantili, ma anche scafi militari. In ogni caso le perdite, se non
furono eclatanti come in altri teatri operativi, come il Mare del
Nord, furono tuttavia di non poco conto, soprattutto per una marina,
quella Russa, che di fatto più di altre era impegnata a difendere le
sue coste.
Gabriele Faggioni con questo suo libro ha esaminato le condotte
belliche dei due principali contendenti nelle due guerre (Germania
Imperiale e Russia Zarista per la prima, Germania Nazista e Unione
Sovietica per la seconda), fornendo un quadro assai esaustivo sulle
principali azioni condotte e sulle perdite di entrambi i
belligeranti.
Da queste pagine, integrate con cartine geografiche e con fotografie
delle principali navi impegnate, esce un quadro di scontri quasi
quotidiani, mai comunque di battaglie del tipo di quelle avutesi
nell'Atlantico e nel Pacifico, proprio perché la limitata estensione
del Baltico rende impossibile manovre di grandi flotte, che
sarebbero altresì sottoposte, data la vicinanza delle coste, a
interventi aerei piuttosto frequenti e incisivi.
Così, giorno dopo giorno assistiamo alla progressiva disfatta della
Germania, sia nel primo che nel secondo conflitto mondiale, tuttavia
fino in ultimo in grado con le sue navi di impensierire gli
avversari.
E ci sono anche imprese epiche, come l'evacuazione per mare,
avvenuta negli ultimi mesi del conflitto, di oltre due milioni e
mezzo di cittadini tedeschi minacciati dalla violenta offensiva
sovietica, risultato ottenuto grazie a un'organizzazione non ancora
sfaldata e all'indubbio eroismo dei marinai tedeschi, di cui non
pochi perirono in questo sforzo titanico.
Il libro di Faggioni riesce quindi a fornire un resoconto di un
teatro di guerra marittima forse minore, ma se il Mar Baltico ha
costituito lo scenario di tante scaramucce, sui suoi fondali
giacciono tanti ignoti marinai, di entrambi i contendenti, a
dimostrazione che in una guerra mondiale non esistono posti più o
meno sicuri e teatri più o meno importanti.
Da leggere, sicuramente.
Gabriele Faggioni, nato nel
1970, vive a Lugano. Ha una formazione universitaria come economista
aziendale, informatico ed archeologo. Questi variegati studi gli
sono utili nella sua attività professionale e nel suo tempo libero
per la realizzazione di diverse ricerche storiche e archeologiche
che ha realizzato negli ultimi anni. Collabora con diverse riviste
storico-militari, tra cui "Raids", "RID", "Rivista Marittima
Militare", "Storia & Battaglie", "Storia & Verità", "Storia
militare", "Panorama Difesa", "Seconda Guerra Mondiale" e "Mezzi
corazzati".
Ha pubblicato: Sistema difensivo della Piazza Marittima
della Spezia nella prima metà del Novecento, in "Castrum" (Luna
Editore, La Spezia 2007); Fortificazioni in Provincia della
Spezia (Ritter, Milano 2008); Vallo Ligure (Ligurexpress,
2010 Genova); Castelli e fortezze delle Alpi svizzere (Mattioli
1885, Fidenza 2010), Fortificazioni del Levante Ligure (Mattioli
1885, Fidenza 2010), La guerra aeronavale nel Mare Nord,
assieme con Alberto Rosselli (Mattioli 1885, Fidenza 2010).
Renzo Montagnoli
06/11/2010
L'oro del Vaticano
di Claudio Rendina
Newton Compton Editori
www.newtoncompton.com
Argomenti:
Religione e spiritualità
Storia
Economia
Collana Controcorrente
Che ne direbbe Gesù Cristo?
E' uno staterello minuscolo (0,44 Kmq., escluse le sovranità
extraterritoriali), ma il Vaticano è indubbiamente una superpotenza,
e non tanto dal punto di vista militare ed economico, bensì sotto
l'aspetto religioso e soprattutto sotto quello finanziario.
Le ricchezze accumulate in più di XX secoli, l'influsso esercitato,
prima sui sovrani e poi sulle nazioni moderne ha qualche cosa di
ineguagliabile, e comunque nemmeno paragonabile a quello di altri
credi, fatta eccezione per l'ebraismo e l'islamismo, la cui sfera
però di operatività è limitata ai paesi in cui queste religioni sono
preponderanti.
Rendina deve avere un rapporto particolare con il Vaticano, visto
che ha scritto parecchi libri sull'argomento, l'ultimo dei quali, in
ordine di tempo, è questo L'oro del Vaticano, un'analisi
minuziosa delle immense ricchezze della Chiesa Apostolica Romana.
Agli occhi del cattolico di stampo clericale questo volume potrà
apparire di parte, tendenzioso, volto a screditare il papato, mentre
per gli altri risulterà una semplice conferma di una ricchezza
smodata costituita da immensi tesori accumulati nel corso dei secoli
legalmente e anche illegalmente. Non entro in merito sulla questione
morale e cioè sul pensiero del Cristo che ha sempre predicato
l'umiltà e la povertà, ma di certo a leggere queste pagine si resta
non poco indignati nello scoprire affari intrapresi più da pescicani
da industria che da ferventi cristiani. Le vicende dello IOR, di
Monsignor Marcinkus, di Calvi, di Sindona, del Banco Ambrosiano sono
le ultime eclatanti di un modo di investire e speculare del tutto
disinvolto e sovente in contrasto con le leggi scritte e con quelle
morali.
Rendina, per praticità, inizia la sua osservazione dalla caduta di
Roma, con la proclamazione del Regno d'Italia, e la perdita quindi
della sovranità territoriale, di cui il Vaticano fu ampiamente
ripagato con un congruo indennizzo, diventato stratosferico a
seguito della firma, nel 1929, dei Patti Lateranensi. A parte il
rilevante patrimonio immobiliare e i tesori d'arte, ogni occasione è
buona per incrementare le ricchezze, e se questa non c'è viene
creata, sia che si tratti di Giubilei, sia di iniziative finanziarie
e speculative esclusivamente molto redditizie e perciò rischiose, al
punto che, qualche volta, i forzieri del Vaticano finirono con lo
svuotarsi.
Poiché si tratta di uno stato sovrano, non c'è nulla da eccepire
sulle sue scelte economiche, ma sulle modalità di raggiungimento
degli obiettivi ci sarebbe molto da dire, soprattutto da un punto di
vista etico. Al riguardo basti pensare a ingenti partecipazioni
detenute in società che si occupano della produzione di armamenti da
guerra.
L'argomento in sé è di notevole interesse, ma mi sembra che Rendina,
al fine di dimostrare la veridicità delle sue asserzioni, abbia
finito con lo scrivere un libro un po' greve e sovente soporifero,
con pagine e pagine che riportano l'elenco dettagliato dei patrimoni
immobiliari e delle partecipazioni societarie, così che non poche
volte si ha chiara l'impressione di trovarsi davanti all'inventario
di una ditta di pezzi di ricambio.
In questo modo, lo spazio lasciato alle osservazioni e ai commenti
si riduce notevolmente, tanto che i numeri prevalgono sulle parole e
questo è proprio il limite del libro, che, pagina dopo pagina, fa
calare l'interesse del lettore, obbligandolo a uno sforzo per poter
proseguire.
E' un peccato, perché impostato in modo diverso, cioè entrando più
accuratamente nei retroscena di certe speculazioni finanziarie, non
solo si avrebbero idee più chiare sul peso avuto nelle vicende dal
Vaticano, ma si potrebbe anche scoprire il modus operandi degli
altri sodali, quasi tutti italiani e nomi spesso non sconosciuti.
Resta comunque un testo meritevole di lettura, perché l'argomento
trattato non è di poco conto e aiuta meglio a comprendere certi
rapporti con uomini politici o anche affaristi del nostro paese, le
cui fortune procedono di pari passo con quelle di questo staterello,
sì limitato territorialmente, ma di grande influenza e
straordinariamente ricco.
Claudio Rendina scrittore,
poeta, storiografo e romanista, ha legato il suo nome a opere
storiche di successo, tra le quali, per la Newton Compton, La grande
guida dei monumenti di Roma, I papi. Storia e segreti; Il Vaticano.
Storia e segreti; Guida insolita ai misteri, ai segreti, alle
leggende e alle curiosità di Roma; Storia insolita di Roma; Le
grandi famiglie di Roma; Storie della città di Roma; Alla scoperta
di Roma; Gli ordini cavallereschi; Le chiese di Roma; Roma giorno
per giorno; La vita segreta dei papi, La santa casta della Chiesa, I
peccati del Vaticano, Cardinali e cortigiane e L'oro del Vaticano.
Ha diretto la rivista "Roma ieri, oggi, domani" e ha curato La
grande enciclopedia di Roma. Ha scritto il libro
storico-fotografico Gerusalemme città della pace, pubblicato
in quattro lingue. Attualmente firma per "la Repubblica" la rubrica
di storia, arte e folclore "Cartoline romane".
Renzo Montagnoli
04/11/2010
“Anzol”, di
Haria, Rupe Mutevole Edizioni, 2006
“Tutti i sentieri non tracciati
confluiscono ad Anzol, perché Anzol è il centro di un labirintico
sogno non segnato sulla carta del Destino.”
Un incipit che non nasconde l’ombra di curioso
mistero e di fatalità che ripercuote le pagine del lungo racconto
della città di Anzol. “Anzol”, edito nel 2006 presso la casa
editrice Rupe Mutevole Edizioni nella collana “Letteratura
di confine”, è un interessantissimo viaggio nella mente della
visionaria autrice Haria. La seconda edizione di “Anzol” è
del 2010.
“Anzol” consta di tre parti suddivise
in paragrafi. Si inizia con “La prima sorte” (sei paragrafi),
seguono “La seconda sorte” (sette paragrafi) e “L’ultima sorte” per
un totale di ottanta pagine. È caratteristica la presenza
dell’elenco dei personaggi del racconto, in realtà sono le
personificazioni presenti e non i “reali” personaggi che
s’incontrano nella lettura. Le personificazioni sono: Il
Destino, La Sorte, La Scelta, La Piana, La Nebbia, Il Gaigo, Il
Gioco degli Strati, L’Azzardo, Il Mercato, Anzol, I Soldi, L’Ot, Il
Rio Gemello del Cen, Il Suolo, Il Vento, Gli Intrichi, Il Tempo, Gli
Uomini. Figurazioni che raggruppano lo svolgimento delle varie
nascite della città di Anzol.
Anzol è una piana limitata da rovi. Ne “La
prima sorte” inizia la saga della città. Cena, la veggente,
si nasconde nella piana per evitare il mondo degli uomini, un mondo
crudele e governato dalla violenza e dall’ignoranza. Quando una
coppia con una donna incinta entra nella piana, Cena decide di
prendere con se la donna e di lasciar ai limiti della piana il suo
compagno. Al momento della nascita Cena lascia la piana per altre
erranti visioni ed i due restano ad Anzol con il loro bambino che
sarebbe divenuto, per profezia di Cena, il fondatore della città.
Così avvenne. La coppia ebbe anche altri figli e la vita scorreva ad
Anzol libera dalle regole degli uomini. La natura è stata la padrona
sino all’arrivo di altre persone che decisero di stanziarsi nella
piana.
Ot, figlio di Drusca, per caso riesce ad
inventare una bevanda che inebria ed incupisce la mente nonché
riscalda nei gelidi inverni. La bevanda prende il nome del suo
creatore così come la locanda nella quale si poteva bere l’ot. L’oteria
diventa una vera e propria droga per gli abitanti, anche i
bambini ne possono accarezzare il fluido nella loro mente. Ma come
in tutte le comunità, Anzol muta o meglio gli anzolani mutano e
dagli stranieri che arrivano riescono a prendere soltanto i difetti,
così si lascia il baratto per il denaro, per il soldo.
“Lulla, al suo ultimo giorno di mercato e di
vita rifletté: “I soldi invecchiano i sogni e soffocano l’anima
delle cose. Chissà da dove vengono”. Smontò il suo banco, distribuì
le pentole, le pignatte, i tegami e si incamminò guardando con
tenerezza il fare della sera.”
Il Tempo veniva calcolato in stagioni e ben
presto con il cambio di potere in “tempi”, i mesi in “aspetti” e le
giornate in nove momenti e mezzo. I soldi divennero “falchi” per il
signore Falco di Piana. Le mutazioni che avvengono ad Anzol sono
continue e celeri, sotterfugi e mistificazioni, uccisioni macabre,
prese di potere da parte delle streghe che nascondono la città in
labirinti nebbiosi, abitanti originari che preferiscono addentrarsi
nella nebbia.
“Falco smise di ridere, si alzò, fece un
passo avanti e rovinò a terra travolgendo brocche, tavoli e panche.
Luna era nata, Falco era morto, Anzol sbigottiva nel caos.”
Ne “La seconda sorte” e “L’ultima sorte” si
incontrano altre due ricostruzioni della città dall’originaria
piana. La distruzione arriverà puntualmente anche nelle altre prove,
e tornerà l’ot, la nebbia ed il vento. Anzol è una sorta di
labirinto per gli usi e costumi, tutto si ripeterà sino a che
saranno gli uomini ad abitarlo, sino a che non si ascolterà Il
Destino e La Sorte.
“< Il passato non dovrebbe mai tornare. Ma
puoi aprire un banco a fianco del mio, se ti va >, rispose Itta.”
Lascio link utili per visitare il sito
dell’autrice, della casa editrice.
http://www.rupemutevoleedizioni.com/
http://www.reteimprese.it/rupemutevoleedizioni
http://www.poesiaevita.com/
Alessia Mocci
Responsabile Ufficio Stampa Rupe Mutevole Edizioni
03/11/2010
A dieci minuti da Urano
(poesie di tentata conquista)
di Carla De Angelis
Prefazione di Stefano Martello
Postfazione di Carla De Angelis
e Stefano Martello
Copertina di Laura Timpano
Fara Editore
www.faraeditore.it
Poesia silloge
Collana Sia cosa che
Un'esplosione magmatica senza clamore
Cos'è la poesia, se non un'intima confessione di quanto il nostro
"io", rapportandosi con il mondo intorno e con l'esistenza, elabora
scientemente e, soprattutto, inconsciamente?
La poesia non è versi ritmati, magari piacevoli, ma vuote parole;
no, la poesia è un urlo silenzioso che squarcia un buio fatto di
grigiore quotidiano, di assopimenti e frenesie incontrollate, è
riflessione scaturita da un'idea, da un'emozione, da un sentimento.
E' anche scoperta di noi stessi, resa nota agli altri; è solitudine
che invano si cerca di spezzare, è gioia sempre temperata da quella
malinconia di fondo che riviene dalla consapevolezza che nessuno
potrà mai comprendere completamente che cosa si celi dietro quei
versi.
Ed è poeta chi cerca di comprendere gli altri scavando in se stesso,
chi piega la testa senza spezzarla, colui che insegue un sogno che
sa che non potrà avverarsi.
Carla De Angelis, con questa silloge che evoca spazi siderali,
ripercorre invece un mondo terrestre, nell'ottica di una
trascendenza venata da una tenue, ma sempre presente malinconia.
Fra ciò che è e ciò che il suo io avverte non esiste differenza se
non quella sensazione, spesso inconsapevole, che conduce a una
visione prospettica della realtà, che non è fatta solo da materia e
da eventi, ma è costituita anche da ciò che incide sull'animo del
poeta (Invece di morire / traghetto parole / fino a farne una
culla / per le mie ferite /….). E' un dolore reale, ma avvertito
solo all'interno e i versi sono lo sfogo, il risultato di un
magmatico confronto intimo che esplode senza clamore.
E in fondo Carla De Angelis riesce in questo modo ad accendere nel
lettore il desiderio di confrontarsi, di iniziare quel percorso
intimo che solo può avvicinarlo alla conoscenza di se stesso, per
comprendere meglio, per essere parte consapevole di quella realtà
così diversa quanti sono quelli che l'osservano (Tra le mani
nuvole e sole / pianto e sorriso / Un solo gesto per placare l'ansia
/ un solo tocco per la scintilla).
Noi non siamo artefici di noi stessi, ma la riscoperta di ciò che
siamo è l'unico traguardo umanamente possibile e a ciò possiamo
arrivare soprattutto grazie alla poesia, anche a quella di questa
riuscita e piacevole silloge.
Nata a Roma nell'ottobre del 1944, Carla De
Angelis ha pubblicato i primi versi nel 1962. È Cavaliere
al merito della Repubblica Italiana dal 1995. Sue poesie sono
presenti in diverse antologie edite da Aletti, da Perrone e da
Estroverso. Con Fara ha pubblicato la raccolta di poesie Salutami
il mare, il libro dialogato con Stefano Martello Diversità
apparenti (i due libri sono stati vincitori e finalisti in vari
premi) e, sempre con Martello, ha curato il libro di testimonianze
Il resto (parziale) della storia. Sue sillogi sono inserite
nelle antologie Il silenzio della poesia (2007) e in Poeti
profeti? (2008). Altri suoi versi sono stati recentemente
pubblicati in Demokratica (Limina Mentis, 2010). Fa parte
della redazione di Kolibris, casa editrice di Chiara De Luca.
Renzo Montagnoli
02/11/2010
Andrea Camilleri
Il sorriso di Angelica
Ed.
Sellerio
Romanzo noir
“Il saggio non è che un fanciullo che si
duole di essere cresciuto”.
Nella nota alla fine del libro Andrea Camilleri parla del motivo
ispiratore de Il Sorriso
di Angelica; a Roma, qualche
tempo fa, una banda di ladri ha svaligiato numerosi appartamenti
con la stessa tecnica descritta nel romanzo, da questo fatto di
cronaca ha desunto la traccia da prende l’avvio la storia, ma per
quali tortuosità poi, prosegue e finisce, lo sa solo la sua
fantasia.
Incipit medesimo: arrisbigliamenti di
Montalbano, questa volta non è solo nel letto, c’è
Livia, ma ha già dimenticato la sua
presenza dormiente. Il romanzo inizia con un
sollenni moto di gelosia di Montalbano e nel corso della
narrazione Salvo sarà geloso, furioso e libidinoso ai limiti della
lascivia.
Una serie di furti nelle case di noti professionisti
animano il commissariato di
Vigàta, Montalbano è alle prese con
questi reati e come sempre diventa una partita personale tra lui e
l’autore o gli autori dei medesimi reati. A scompaginare la
faccenda, la presenza di una bella trentina, di Trieste, di “stanza”
a Vigàta, pardon, cassiere capo alla
Banca siculo americana, anche lei vittima di questi ladri, che
farà perdere il lume della ragione a
Salvo. La vicenda giudiziaria si complicherà a seguito di due
omicidi, ma questo farà parte delle indagini il cui corso lo
lasciamo a tutti quelli che leggeranno il
libro.
La presenza che primeggia e dà il titolo al romanzo è femminile,
quei ritratti di femmina che forse sono
retaggio della gioventù dell’autore, in questo caso contaminato da
reminescenze letterarie, ma così conturbanti e di bellezza
dirompente da far uscir di senno. Il primo incontro è
un’apparizione metafisica, la donna di carta, l’Angelica
dell’Ariosto che s’incarna nella realtà. “Era
precisa ‘ntifica, ‘na
stampa e’na figura, con l’Angelica
dell’Orlando furioso, accussì come lui
se l’era immaginata e spasimata viva, di carne, a
sidici anni,
talianno ammucciuni le
illustrazioni di Gustavo Doré che so
zia gli aviva proibito”. E’
solo il principio di una passione tanto improvvisa quanto tardiva;
non è la prima volta che il nostro eroe si trova invischiato nelle
maglie degli spasimi amorosi e di esserne letteralmente travolto
come un adolescente, infatti frammisti,
sono inseriti due versi della poesia di
Cardarelli Adolescente
“Un pescatore di spugne,/avrà questa perla rara”. La
confusione fatta tra il sogno di picciotto,
ogni pensiero ed incontro con Angelica sono intercalati da versi
dell’Orlando Furioso, e la realtà di uno squasi
sessantino, lo rendono ridicolo, non
era dignitoso per un uomo come lui dare di sè
spettacolo indegno e miserabili. Sensi di
vrigogna e pentimenti non gli impediscono di abbandonarsi con
tutti i sensi tra le braccia di Angelica
“ Pieno di dolce ed amoroso
affetto/alla sua Donna, alla sua Diva corse/che con le braccia al
collo il tenne stretto…
Il commissario romanzo su romanzo si priva della sua
scorza esteriore e si disarma di volta in volta che l’età avanza.,
la sua è un’anàbasi indotta
dall’incalzare del tempo che ce lo rendono sempre più indifeso,
solo, e la sua millantata ed incauta improntitudine è una difesa
sempre più debole. Le sue sfuriate memorabili, i suoi colpi di scena
sono in difetto rispetto ai suoi dialoghi interiori in cui il suo io
ha il sopravvento.
Mentre Salvo acquista sempre più sfaccettature introspettive e
sembra uscire dalle pagine scritte come la vagheggiata Angelica, gli
altri personaggi, senza sminuirli, sono
cristallizzati nei loro ruoli come maschere teatrali. Se di teatro
si tratta con tutte le messinscena immaginabili,
quello di Camilleri è imperdibile, da
teatro di prestigiosa memoria.
La scrittura sta subendo una
irreversibile mutazione verso la lingua dialettale, una naturale
anastomòsi più involuta e più aderente
alla tradizione orale, direi ermetica nei suoi vocaboli così fissati
nel tempo, la lettura diviene un esercizio acrobatico,
linguistico-espressivo anche per chi
siciliano è.
Senza enfasi né lodi sperticati chioserei
con uno slogan trito e un po’ frivolo: Camilleri è sempre Camilleri
e…Montalbano è sempre Montalbano anche quando corre il rischio di
essere nazional popolare o considerarlo
solo un marchio di garanzia.
Autore.
Andrea Camilleri (1925), è autore di oltre 60 romanzi tra
storici, civili e polizieschi, e di diverse raccolte di racconti,
tradotti in più di 30 lingue. Vincitore di numerosi premi in Italia
e all’estero, è noto al grande pubblico
anche per i romanzi dedicate alle inchieste del commissario
Montalbano, da cui è stata tratta la fortunata serie televisiva. Tra
i tanti titoli ricordiamo: “La
forma dell’acqua”, “Il cane di terracotta”, “Il ladro di merendine”,
“La voce del violino”, “La stagione della caccia”, “Il birraio di
Preston”, “La concessione del telefono”,
“La gita a Tindari”, “Maruzza
Musumeci”, “Il casellante”, “Il campo
del vasaio”, “L’età del dubbio”, “Un sabato, con gli amici” “Il
sonaglio” “ La caccia al tesoro”…
Arcangela Cammalleri
01/11/2010
Il piccolo principe
di
Antoine Marie Roger de Saint-Exupèry
Con le illustrazioni
dell’autore
Titolo originale
Le Petit Prince
1° Edizione 1943
Racconto
fantastico
Tascabili
Bompiani
Come esplicita nella dedica al libro, l’autore
si rivolge ai ragazzi e “A tutti
i grandi che sono stati bambini una volta. Ma pochi di
essi se ne ricordano”.
Questo capolavoro, ormai un cult
della letteratura europea e non, è amato da generazioni di diversa
cultura, lingua e trasversalmente piace a piccoli ed adulti.
La trama è ben nota, basta
solo accennarla. Un pilota a causa di un guasto
del suo aereo è costretto ad atterrare nel deserto del Sahara: nella
vastità sabbiosa del deserto, nella solitudine a mille miglia da una
qualsiasi regione abitata, nel silenzio totale, assoluto,
improvvisa, una strana vocetta:
“Mi disegni, per favore, una pecora?” Il ragazzino è
Il piccolo principe che
ha abbandonato il suo pianeta nativo, poco più grande di una casa,
e vaga per gli spazi, incontra personaggi bizzarri che impersonano
vari aspetti dell’animo umano. Nel nostro pianeta indaga non
solo sull’amore, l’amicizia, ma anche sul senso dell’esistere e
della morte. La sua apparizione è così tanto misteriosa quanto la
sua scomparsa.
Fin qui la storia, esile come il filo delle Parche, ma
intensa e profonda quanto la vita di una persona.
La figura del piccolo principe nella sua essenza di
completa innocenza accarezza il nostro animo di lettori e
ce lo fa amare sin dalla prima comparsa
in scena. Come non intenerirsi al suo bisogno di
affetto, come non partecipare alla sua dolente e disperata
solitudine: tutto ciò che ha compreso ce lo insegna con il
linguaggio di chi sa che “ Si
vede bene solo con il cuore.
L’essenziale è invisibile agli
occhi”
L’immagine del piccolo principe è l’emblema
dell’infanzia, lo stato di grazia ritrovato,
così prezioso perché raro, così possibile quando sarebbe
impossibile. È un paradosso affermare che il libro è destinato o era
destinato ai bambini perché non è necessario che
si insegni a loro i valori autentici che
noi adulti ci compiace pedissequamente ripetere, siamo noi adulti
che li dimentichiamo negli atti quotidiani e che abbiamo bisogno di
recuperarli ritornando bambini con la mente e il cuore.
In uno stile così semplice, oserei dire disarmante,
privo di sovrastrutture lessicali, l’autore ci
pone davanti a verità incontrovertibile, a considerazioni
assolute ed universali, stupefacenti
perché suggerite da un fanciullo.
La lettura di questo breve scritto rinfranca la mente
e come una sorgente d’acqua pura ci spiana l’animo e ci dispone
agli altri e a considerare che quello che ci sembra così tanto
importante da occupare spesso la nostra esistenza, forse, forse…anzi
proprio, non lo è.
Tanti critici hanno analizzato, questo racconto,
hanno scritto fiumi di definizioni, parole difficili,
interpretazioni tra le più disparate, ma oltre la critica, la
grandezza e il fascino di questa opera è
che attraversa il tempo e le generazioni mantenendo intatto il suo
linguaggio poetico, l’autentica meraviglia di chi l’ha scritto e il
fascino quando la logica della nostra ragione è incrinata e messa a
dura prova da domande apparentemente ingenue e infantili.
L’autore.
Antoine
Saint-Exupéry nasce a Lione nel 1900 in una
famiglia dell’aristocrazia francese di provincia. A 4 anni rimane
orfano del padre, ma trascorre con le sorelle e il
fratello un’infanzia serena e con la
madre manterrà un rapporto molto stretto. Nel collegio dei gesuiti
di Sainte- Crois
a Le Mans soffre per la disciplina rigida
di tipo militare che vige. Diventa malinconico e solitario, nel 1912
sale per la prima volta sull’aereo del futuro asso dell’aviazione
francese nella prima guerra mondiale, Jules
Védrines. A Parigi
conclude gli studi superiori dopo la morte del fratello
François, ama la meccanica e la
filosofia, disegna modellini di aerei e frequenta gli ambienti
letterari della capitale. Dopo non essere riuscito ad entrare
all’Accademia navale, frequenta la facoltà di
architettura. Conseguito il brevetto di pilota civile e
militare, dopo un incidente, fa solo il pilota civile. In Africa la
vita da pilota è intensa, di notte scrive.
Nel 1926 pubblica il suo primo libro
Volo di notte, scrive
prefazioni e reportage per i
giornali Paris
soir da corrispondente a
Mosca. Nel 1935 tenta
di battere il record di volo Parigi-Saigon,
ma nel deserto della Libia in un atterraggio di fortuna si salva per
miracolo. Nel 1938 torna in Europa, ormai famoso, riceve la
Legione d’Onore, le sue
scoperte scientifiche sono significative
nell’ambito della navigazione aerea. Compie missioni pericolose
durante la seconda guerra mondiale, nel 1942 fugge in America in
esilio, dopo la firma del trattato tra la
Francia del maresciallo Pétain e
la Germania di Hitler. In America vive
con i diritti d’autore di Terra
degli uomini, proclamato il libro dell’anno.
Quando l’attacco a
Pearl Harbour provoca la
mobilitazione generale, lascia New York, dove ha scritto il suo
capolavoro Il piccolo
principe e si
arruola per partire in Nord Africa. Nel 1944 durante una missione di
volo nella regione di Grenoble, di lui non si saprà più niente. La
sua ultima opera
Cittadella esce
postuma.
Del pilota Antoine de
Saint-Exupéry non si
è trovata traccia, sino alla primavera del 2004, quando, sono
stati riconosciuti i resti del suo aereo al largo di Marsiglia.
Arcangela Cammalleri
31/10/2010
La clessidra d'avorio
di Davide Cassia
e Stefano Sampietro
Copertina di Jessica Angiulli
e Lucio Mondini - Diramazioni
Edizioni XII
www.xii-online.com
Narrativa romanzo
Collana Mezzanotte
Un'infinita partita a scacchi
E' l'anno 1592 e due uomini avviano una partita a scacchi. Così
comincia La clessidra d'avorio e così termina, con la
vittoria del bianco sul nero. Ma, finisce veramente questo scontro,
con la diciassettesima mossa con la quale l'alfiere bianco
posizionato nella casella e2 dà scacco matto?
No, non termina e continuerà fino a quando l'uomo, questo microcosmo
continuerà a cercare la spiegazione della sua esistenza.
La narrazione, sviluppata su tre diversi piani temporali (a cavallo
fra il XVI e il XVII secolo, agli inizi del XIX secolo e in epoca
attuale), è tutto un susseguirsi di avventure per porre le mani
sulla clessidra d'avorio, oggetto misterioso proveniente dall'antico
Egitto, l'unico in grado, assieme ad altri analoghi, a misurare il
tempo esattamente per consentire all'alchimista di trasformare
l'infima materia in prezioso oro, ma soprattutto per ottenere
quell'Elisir di vita eterna, in grado di porre l'uomo al sicuro
della sua predestinata caducità.
E' un rincorrere continuo della conoscenza, dell'esperienza, uniche
a consentire il progresso in un'evoluzione delle capacità
intellettive che serva a penetrare il profondo e insoluto mistero
della vita.
Il diario della ricerca della clessidra tenuto dal bolognese Giacomo
Bandini, colui che dà scacco al re nero del grande Paracelso, si
snoda in un percorso di conoscenza che lo conduce da Venezia al
Cairo, indi di nuovo a Venezia e infine a Roma, dove termina. Si
intercalano fra i giorni riportati dalle pagine le avventure di due
nobili francesi, padre e figlio, che, in epoca napoleonica vanno
alla ricerca di un amico scomparso, in un itinerario che come, per
Giacomo Bandini, troverà la realizzazione dei loro scopi a Roma, fra
mille peripezie, in una serie d'avventure che non solo avvincono, ma
addirittura affascinano.
E verso la fine del libro si gettano le basi di un nuovo viaggio che
compiranno, ai giorni nostri, un discendente del Bandini, dallo
stesso nome, e un altro di uno dei due nobili francesi, il figlio,
pure lui con identico nome e cognome.
Stranezze degli autori, coincidenze artificiose? Assolutamente no;
sono i protagonisti di una storia infinita, di un'interminabile
partita a scacchi fra il proprio io e il desiderio di dare una
risposta definitiva al perché dell'esistenza.
Questo romanzo, scritto veramente in modo eccellente, perché non è
facile intercalare nella narrazione epoche diverse senza far venir
meno l'interesse, è in pratica una grande metafora, un'opera che a
prima vista può essere scambiata per una spy story, o per un affondo
nel mondo oscuro dell'esoterismo, ma se c'è una magia qui c'è solo
quella di due autori che hanno saputo creare un meccanismo perfetto
ad incastri per raccontarci del desiderio dell'uomo di andare oltre
il possibile, alla ricerca inconscia dell'immortalità.
Davide
Cassia nasce a Varese nel 1970;
il suo esordio nel 2001 con il romanzo noir Morte di un perdente,
è autore di romanzi e racconti che spaziano dall’avventura
all’umoristico, passando per l’horror e il fantasy. Esperto di
videogiochi, tra il 1999 e il 2004 ha collaborato con NGI Magazine,
di cui è stato caporedattore. Con Edizioni XII ha pubblicato nel
2007 il thriller Inferno 17, e ha partecipato alle antologie
TaroT – Ludus Hermeticus e Corti.
Stefano Sampietro nasce a Como
il 20 febbraio 1973. Dopo la Laurea in Economia, consegue il
Dottorato di Ricerca in Finanza Matematica e diviene docente a
contratto presso l’Università Bocconi, prima, e presso l’Università
LIUC Carlo Cattaneo, poi. A fianco dell'attività accademica, svolge
il ruolo di analista in una società di ingegneria finanziaria. Suoi
racconti sono stati pubblicati sulla rivista di fantascienza
Futuro Europa (Perseo Libri), e nell’antologia Corti
di Edizioni XII. La clessidra d’avorio è il suo primo
romanzo.
Renzo Montagnoli
30/10/2010
D’un
tratto nel folto del bosco
di
Amos Oz
ed. Einaudi
Titolo originale Suddenty in the
Depth of the Forest-A
Fairy Tale
Traduzione di Elena
Loewenthal
Racconto fiabesco
Quarta di copertina
“ Tutto era cominciato tanti, tanti anni prima
che i bambini del paese nascessero, in tempi in cui persino i loro
genitori erano ancora piccoli. Nello spazio di
una notte, una qualunque notte piovosa d’inverno, tutti gli animali
spariti dal villaggio. Bestiame e uccelli e pesci e insetti e
rettili”.
Alcuni titoli (Lo stesso mare,
Non dire mai notte…) dei romanzi di
Amos Oz sia per i piccoli sia per
gli adulti evocano versi poetici, atmosfere rarefatte, un mondo
sospeso tra realtà contingente e fiaba misteriosa.
In questo racconto incantato ricorrono i motivi stilistici
dell’autore: un ritmo narrativo equilibrato e una forma cristallina
e trasparente stratificata da sotterranee profondità.
Infatti il bosco, metafora di memoria
dantesca, ci addentra nell’inconscio delle nostre paure e angosce
esistenziali, ma, in questa sorta di sogno narrativo, sono i due
piccoli protagonisti che, mossi dalla curiosità, iniziano un
percorso alla ricerca di quello che si cela. La storia nella prima
parte, è un porre domande e ricevere risposte velate, reticenti,
elusive, con incertezza ed estremo imbarazzo dagli adulti, che
spesso non vogliono vedere oltre…perché la meraviglia e l’entusiasmo
sono spenti dal grigiore delle loro esistenze. Maya e
Mati vivono in un paese senza animali,
anzi non ne hanno mai visto alcuno, se non attraverso le immagini a
scuola. Non sono per niente convinti che non esistano altri esseri.
Il piccolo Nimi comincia a sognare
la notte animali e a raccontare, tanto da
essere preso in giro. Un giorno scappa via e torna dopo tre
settimane ancora più svagato e diverso, ha perso l’uso della parola
ed emette nitriti. Il paese è sempre più cupo e
triste, solo montagne, nuvole e vento.
Isolato e sperduto in un valle chiusa, oppresso da uno strano,
totale silenzio. Non un muggito, un
raglio, solo il gorgoglìo del fiume
giorno e notte, che scorre fra i boschi e i monti. Di notte
il silenzio si tinge di nero e aleggia intorno alle case
Nehi, il demone dei boschi. Molti anni
prima, nello spazio di una notte tutti gli animali
erano spariti dal paese e dai suoi dintorni,
inghiottiti dal bosco, la gente viveva da allora in silenzio,
nella paura. Alle domande dei bambini i genitori preferiscono
negare, o insabbiare nel silenzio la questione.
Certi personaggi sui generis contrappuntano
la trama, strani e cristallizzati in comportamenti reiterati, ma con
un che nell’animo di fanciullesco e innocente.
Mati e Maya, tra tutti i bimbi,
sono attirati dai boschi tenebrosi,
affascinati, e l’immaginazione li spinge a scoprire cosa mai si
annidi, là dentro. Custodiscono un segreto, aver intravisto un
guizzo fulmineo, saettante presso un’ansa del fiume, un pesce con
squame iridate che sembrano fatte di
argento vivo, piccolo, lungo non più di mezzo dito, le pinne
delicate e le branchie trasparenti. Lo stupore
della scoperta e vaghi suoni come di sogno li spingono ad inoltrarsi
nel bosco. Tra i grovigli fitti e bui di piante ombrose,
seguendo il corso del fiume come guida, tra l’echeggiare di suoni,
fischi, sospiri, scoprono un parco, una delizia per gli occhi:
ruscelletti, vasche d’acqua, aiuole in
fiore, siepi, alberi e… animali di ogni
specie, un giardino delle meraviglie per i loro occhi sgranati e
sbalorditi. Incontrano Nehi, il demone,
ma è solo un essere malvoluto ed emarginato dal paese perché non
conforme al comune sentire e nel bosco insieme agli animali, che lo
hanno seguito perché anch’essi maltrattati e vittime di tormenti,
vive in una dimensione paritaria dove non esiste la vergogna di ciò
che è vero e essere fieri di ciò che è
menzogna. Di notte scende nel villaggio e per vendicarsi degli
abitanti li spaventa a morte, ma sbircia anche tra le finestre alla
ricerca di un contatto umano che gli manca.
I bambini con l’animo sgombro da pregiudizi assumono il ruolo di
mediatori e forse quando gli animi fossero cambiati, sarebbero
scesi gli animali e non sarebbero più stati picchiati i cani con i
bastoni, frustati i cavalli con le strisce di cuoio e avvelenati i
gatti randagi, affogati i topi nei pozzi neri, non
uccisi a fucilate i cerbiatti, le volpi e
venderne le pellicce e mettere le trappole per le lepri e anatre
selvatiche.
Insieme agli animali sono scomparsi i sentimenti, la solidarietà; lo
scherno e l’irrisione per chi viene
escluso dominano i cuori, una sorta di gelo attraversa le loro anime
e nascondere la verità è la regola che domina nel loro vivere
quotidiano. Un vento impetuoso ha spazzato il villaggio
di ogni risorsa d’amore, di convivenza
armoniosa, in preda gli abitanti ad una paura inconscia che offende
ogni rapporto reciproco. In uno stile evocativo e fiabesco si
adombra la storia di venature inquietanti, ma anche di spiragli di
luce: il mondo salvato dai bambini?
In questa narrazione la sensazione predominante è la perdita di
qualcosa di profondo negli abitanti, i quali costituiscono un
microcosmo rappresentativo di un’umanità più vasta, alla ricerca,
di se stessi.
Amos Oz,
scrittore israeliano, è nato nel 1939 a Gerusalemme. Dopo avere
studiato filosofia nell’Università ebraica della sua città, ha
perfezionato la sua preparazione in istituti universitari in
Inghilterra e negli Stati Uniti. Oggi all’attività di scrittore
affianca quella di insegnante di
letteratura all’Università Ben Gurion
del Negev, una regione dello Stato
d’Israele. Tra le sue opere più note
In terra d’Israele (Marietti,1992),
Lo stesso mare (Feltrinelli, 2000),
Una storia d’amore e di tenebra,
Contro il fanatismo (Feltrinelli, 2004),
Non dire notte ( Feltrinelli, 2007).
Arcangela Cammalleri
28/10/2010
Bucoliche
di Publio Virgilio Marone
A cura di M. Geymonat
Testo latino a fronte
Garzanti Libri
Collana I grandi libri
La serenità che infonde la natura
Le
Bucoliche, dal greco Βουκολικά, cioè pastore,
mandriano, è la prima grande opera scritta da un ancor giovane
Virgilio in un’epoca fra le più tragiche nella storia di Roma,
quella delle guerre civili.
Ci sono tutti i motivi per ritenere che questa raccolta di
componimenti, costituita da dieci ecloghe esametriche, sia stata il
frutto di un’idea spontanea volta a evidenziare il quieto mondo
pastorale in contrapposizione all’orrore e ai lutti che allora
insanguinavano il mondo romano.
Quindi sono scaturite con un senso nostalgico e di rimpianto, ancor
più acuito dalla perdita delle proprie terre, distribuite ai
veterani nel 42-41 a.C. dal II Triumvirato.
A differenza delle Georgiche e dell’Eneide,
commissionate, nelle Bucoliche c’è una piena e completa
libertà creativa, che permea l’opera, verso dopo verso, mai ribelle
od ostile, ma additante un modo di vita che, anche all’epoca e
stante la situazione politica, sembrava ormai remoto.
La purezza dello stile, i temi trattati, un continuo senso
evocativo, non disgiunto da un rimpianto dai toni tuttavia mai
accesi, incantano ancor oggi il lettore e in un certo qual senso non
fanno rimpiangere i tratti epici e anche intimisti dell’Eneide.
Si avverte chiara la palpitazione di un poeta che brama esiliarsi
volontariamente in un mondo idealizzato, che va oltre i ricordi
fanciulleschi della sua casa ad Andes, dimora natia e quindi legata
al cuore, ora più che mai, giacché non più sua, ma di un ignoto
legionario.
Sono pagine di un animo tormentato in cerca di una pace, metafora di
un mondo, quello romano, che brama la stabilità, senza più lotte
fratricide.
Le Bucoliche furono un immediato successo e rivelarono in
quel giovane che veniva dalla Gallia, di carnagione scura, poco
incline all’ars retorica, un poeta nuovo, un artista che
aveva in serbo idee che andavano oltre la linea tradizionale e che
era in grado di trasformarle in lavori di grande fascino e pressoché
perfetti.
Quello che stupisce di quest’opera è la straordinaria attualità,
perché Virgilio ci dice sostanzialmente che, nel caso di perdita dei
valori, al fine di evitare che la realtà possa essere
insopportabile, si deve avviare un dialogo con il proprio “io”
volto alla continua scoperta di ciò che è in noi, in un ritorno
all’essenza delle cose e della vita anche con l’osservazione, umile,
della natura che sta intorno a noi.
Per quanto ovvio, Bucoliche è un autentico capolavoro.
Publio Virgilio Marone (Andes,
15 ottobre 70 a.C – Brindisi, 21 settembre 19 a.C.).
Opere principali: Bucoliche, Georgiche, Eneide
Renzo Montagnoli
25/10/2010
Mozart era il mio preferito di
Matteo Pugliares
Presentazione di Stefania Ciacci
Edizioni Tabula Fati
www.edizionitabulafati.it
Narrativa racconto
Collana Carta da Visita
Un piccolo gioiello
"Mozart era il mio preferito: amavo tutto di lui." Questa
frase, tambureggiante come Il bolero di Ravel, è ripetuta più volte
nelle riflessioni sorte dal subconscio della protagonista, Rosaria,
una ragazza che soffre del male di vivere, che rifiuta un mondo di
indifferenze e di ingiustizie e che, rifiutando il cibo, si ammala
di anoressia.
E' lei che racconta, coricata in un letto d'ospedale, mantenuta in
vita da macchine e da farmaci.
E' un quadro di una pur breve esistenza in cui tuttavia sono
riassunti tutti quegli aspetti di una società ormai cronicamente
amorale e che distrugge, ancor prima di costruire.
La storia è dolente, ma la mano dell'autore è felice nel descrivere
situazioni, sensazioni, poche fugaci emozioni.
La musica, quella di Mozart soprattutto, oltre che essere di
conforto, aiuta Rosaria a evadere, a salire in un mondo che promette
quello che lei si attende.
Se frequenti scorrono le sue lacrime, la commozione può investire il
lettore, ma non condizionarlo mai, non portarlo a uno stato di
depressione emotiva proprio come quello della protagonista.
La sensibilità di Pugliares ha permesso di affrontare questa vicenda
senza mai pervenire a eccessi e se la storia, come suppongo,
sostanzialmente risponde a verità, non è di quelle che vengono prese
a pretesto per narrazioni di carattere commerciale così purtroppo
frequenti.
L'autore, nel disegnare un personaggio, si pone in effetti il
problema di un'esistenza vuota, piatta, senza amore e proprio
nell'amore trova una soluzione, senz'altro condivisibile, un amore
punto di partenza per accettare questo mondo e cercare anche di
migliorarlo.
L'anoressia verrà così vinta, Rosaria conoscerà questo sentimento
capace di rigenerare, di far sbocciare il desiderio di vivere, ma la
storia non avrà un lieto fine, per gli imperscrutabili disegni del
destino.
Un passaggio definitivo a quell'oltre, accompagnato ancora una volta
dalle note di Mozart, perché era il suo preferito, chiude il
racconto, e solo allora il lettore comprenderà il valore di questo
libro, poche pagine intense, scritte benissimo, un autentico
gioiello forgiato dalle mani e dall'anima di Matteo Pugliares.
Matteo Pugliares, nato ad
Augusta (SR) nel 1972, è Frate Minore Cappuccino. Vive a Modica (RG)
dove si occupa di pastorale giovanile, come Assistente Regionale per
la Sicilia della Gi.Fra. (Gioventù Francescana).
Ha studiato Teologia a Palermo e Ragusa. Ha frequentato corsi di
Editoria e Scrittura Creativa a Ragusa e Catania. Al momento studia
Counselling e frequenta seminari a indirizzo educativo e del
benessere.
Collabora con diverse case editrici quali Edizioni Creativa
(direttore Collana Le Pleiadi), Enrico Folci Editore (organizzazione
premi letterari, editor, correttore di bozze), Edizioni
Tigullio-Bacherontius (prefazioni e correttore di bozze), Parole
Sparse Edizioni (direttore editoriale), Edizioni del Poggio
(direttore Collana Pindaro), Tabula Fati (prefazioni).
Ha ottenuto molti premi e riconoscimenti letterari, fra i quali il
Premio alla cultura Xifonia 2007.
Collaboratore di riviste e gruppi culturali, tiene corsi di
Scrittura Narrativa e Poesia.
Ha sei pubblicazioni personali all'attivo, di poesia, narrativa e
saggistica, di cui l'ultima è Francesco d'Assisi. Figlio del Dio
dalle braccia larghe (Edizioni Creativa, Torre del Greco 2009).
Ha curato una decina di antologie poetiche e di narrativa.
È responsabile dell'associazione "Club leggere:tutti - Modica" e
Presidente dell'associazione "Servizi Letterari - Modica".
Renzo Montagnoli
22/10/2010
Accabadora di
Michela Murgia Edizioni Einaudi
Narrativa romanzo
Collana Supercoralli
Eutanasia alla sarda
Già dopo le prime pagine ho capito che questo è un romanzo da
leggere prima con il cuore e poi con la testa, una narrazione
stilisticamente eccellente che offre l'immagine di un mondo chiuso,
isolano, in cui i gesti hanno una ripetitività ancestrale, in una
specie di pellicola in bianco e nero che riporta agli albori del
cinema e che è il quadro di un ambiente in una certa epoca.
La tradizione dell'affiliazione di fatto vede unite una bimba,
Maria, a una signora che veste il lutto da quando l'amato non ha
fatto ritorno dalla prima guerra mondiale, ed è un rapporto fatto di
poche parole e di molti silenzi assai più significativi di qualsiasi
linguaggio.
Ma Bonaria Urrai, così si chiama la signora, è anche un'accabadora,
cioè una persona tanto ricercata quanto temuta che pietosamente pone
fine alle sofferenze altrui, in una forma di eutanasia tipicamente
del luogo.
Non nascondo che il libro mi ha entusiasmato e avvinto, con quel suo
ritmo lento, ma non statico, almeno fino a pagina 119, perché dopo,
una volta che Maria scopre quest'attività tenutale prima sempre
celata, se ne va, lascia la casa dove ha vissuto gran parte della
sua fanciullezza e fugge a Torino a fare la baby sitter.
Ora, se la reazione della giovane Maria è più che comprensibile, del
tutto inutile è la narrazione di questo periodo con cui si cerca di
cancellare la memoria del passato; sono pagine artificiose, che
nulla aggiungono alla storia, e che anzi troncano quell'equilibrio
così apprezzabile che mi aveva soggiogato. Da romanzo d'ispirazione
classica si passa così a uno scritto quasi insipido, un cambiamento
repentino che non giova al libro e che prelude all'ultima parte, con
il ritorno di Maria al capezzale di Bonaria Urrai, costretta in un
letto per un ictus.
E qualche cosa deve essere accaduto all'autore, perché cade ancora
una volta l'omogeneità dello scritto, il ritmo diventa altalenante e
si arriva a una conclusione che, fra le tutte possibili, è
senz'altro la meno azzeccata.
C'è la volontà di dare a un mondo di naturale dolore un sviluppo
positivo che stona con la logica dell'opera, almeno per quella
presente nelle prime 119 pagine.
La fretta di chiudere, fra l'altro, svilisce il ritrovato affetto (e
forse un giorno amore) fra Maria e Andrìa, quest'ultimo suo compagno
d'infanzia.
Si perde, soprattutto, il concetto di come in una vita che si chiude
con la morte l'unica cosa che conti è l'amore.
E' un peccato, perché le intenzioni erano ottime, ma poi si sono
perse per strada, e così può anche capitare che un premio (Il
Campiello) tributi gli onori non tanto a un'opera coerente, ma solo
alle sue intenzioni.
Michela Murgia è nata a Cabras
il 3 giugno 1972. Ha pubblicato Il mondo deve sapere (Isbn, 2006),
Viaggio in Sardegna,. Undici percorsi nell'isola che non si vede
(Einaudi, 2008), Accabadora (Einaudi, 2009), vincitore del super
Mondello e del Campiello 2010.
Renzo Montagnoli
19/10/2010
Irregolare di
Vincenzo Bosica Edizioni Solfanelli
www.edizionisolfanelli.it
Narrativa romanzo
Collana Pandora
Un giallo fantascientifico
La fantascienza mi interessa maggiormente quando viene descritto un
futuro non lontano, ma assai prossimo e questo è il caso di
Irregolare, di Vincenzo Bosica.
In un pianeta Terra ammorbato dall'inquinamento vive una società
ipertecnologica al punto di consentire il ricambio di organi fra i
più comuni, compresa l'epidermide, con braccia, gambe metalliche che
assicurano prestazioni del tutto inusuali.
In buona sostanza nella società del futuro imbattersi in un cyborg è
del tutto normale, anche perché c'è chi ricorre a queste protesi per
vivere più a lungo e c'è chi invece ne fa uso per esaltare la
bellezza del proprio corpo, con tanto di addominali e di bicipiti
artificiali.
E' una tecnologia già acquisita da tempo e ovviamente pubblicizzata
in un sistema ove conta sempre di più l'apparenza, mentre la
sostanza sfugge, la mancata omologazione è osteggiata, insomma per
certi versi è un futuro già attuale.
Fra l'altro il collasso demografico viene evitato in forza di una
legge internazionale che rilascia permessi di procreazione in
presenza di altrettanti decessi, e non è che sia possibile essere
inadempienti, poiché le identità di ognuno, codificate digitalmente,
sono una traccia informatica univoca e incancellabile, in un mondo
popolato di occhi elettronici, di sensori speciali, che tutto vedono
e tutto registrano.
Francamente credo che un futuro così non poteva ipotizzarlo nemmeno
Orwell, anche se, per certi aspetti, il grande scrittore inglese ha
tracciato un percorso lungo il quale effettivamente stiamo
camminando.
La società di Irregolare è ben lungi dall'essere perfetta e
se le supertecnologie hanno consentito di risolvere pressoché
totalmente tutti i casi di omicidio, ce n'è uno, apparentemente
inspiegabile, che assilla la polizia di una città americana, la fa
disperare perché non esiste il più piccolo indizio. Tutto il romanzo
si sviluppa su questo caso, sulle indagini che finalmente porteranno
al colpevole.
Quindi, fantascienza certamente sì, ma anche thriller, piuttosto
raffinato, con colpi di scena non prevedibili, ma logici, in un
crescendo di tensione che impedisce al lettore di togliere gli occhi
dal libro.
In questo senso Bosica è riuscito a scrivere un'opera convincente,
oltre che, ovviamente, avvincente e fra l'altro con uno stile pulito
e un italiano corretto, cosa rara quest'ultima ai giorni nostri.
L'unico appunto che mi sento in dovere di muovere all'autore
riguarda la localizzazione del fatto e i personaggi. Secondo me, in
un mondo come quello, del tutto uniformato, non c'era bisogno di
ambientarlo negli Stati Uniti, ma tranquillamente in Italia, con il
vantaggio anche di poter ideare protagonisti più vicini ai nostri
gusti.
Se di peccato si tratta, comunque è da considerare veniale, perché
il libro merita senz'altro d'essere letto.
Vincenzo Bosica (Pescara 1977) è
un giovane autore la cui creatività ricca e sfaccettata lo spinge
spesso ad approfondire aspetti dell'esistenza tutt'altro che banali.
Sostenuto da un percorso di studi scientifici e filosofici, è
attratto da quanto è misterioso, eccentrico e indecifrabile; dagli
sviluppi spesso straordinari a cui potranno condurre le scoperte
scientifiche; dalla direzione che prenderà il futuro; da quanto e
come l'uomo sarà capace di adattarvisi.
Il suo primo racconto, Capsule ("IF-Insolito e Fantastico",
n. 2/2009), è quasi un saggio sulla scienza moderna. declinato con
ironia e uno stile personalissimo, che gli giova grandi consensi di
pubblico e di critica.
Irregolare è il suo primo romanzo, ambientato in un futuro
non troppo distante e non troppo inverosimile.
Renzo Montagnoli
16/10/2010
Le parrocchie di Regalpetra
di Leonardo Sciascia
Prefazione dell’autore
Adelphi Edizioni
Collana Fabula
Il problema storico della miseria
Pubblicato nel 1956
dall’editore Laterza, Le parrocchie di Regalpetra non
è un romanzo, bensì una saggio che parla dell’ambiente, della gente,
della storia di Racalmuto, paese natio di Sciascia, denunciando
apertamente, senza remore, i problemi ancestrali, ormai
cronicizzati, che affliggono quella località e finendo per
estensione con il caratterizzare qualsiasi unità amministrativa
siciliana.
Ma perché allora non intitolarlo Le parrocchie di Racalmuto?
Lo spiega lo stesso autore nella prefazione, precisando Debbo
aggiungere che il nome del paese, Regalpetra, contiene due ragioni:
la prima, che nelle antiche carte Recalmuto (cui in parte le
cronache del libro si riferiscono) è segnata come Regalmuto; la
seconda, che volevo in qualche modo rendere omaggio a Nino Savarese,
autore dei Fatti di Petra.
C’è un ordine logico in queste cronache che non è solo
temporale, ma anche finalizzato a dimostrare appunto quell’Enorme
tempo, cristallizzato, che Giuseppe Bonaviri ha reso
perfettamente con il suo omonimo libro.
Si parte così dalla storia del paese, andando indietro di circa
quattro secoli per approdare, abbastanza rapidamente, al periodo
intercorrente fra le due guerre, con gustose rappresentazioni
dell’era fascista, ma è soprattutto il dopoguerra, frutto
dell’esperienza diretta, il cardine di tutta l’opera, con l’acuta
osservazione della politica, i cui rappresentanti locali, dismessa
la camicia nera, ora ne indossano di altri colori, ma, si sa, come
l’abito non faccia il monaco.
L’effettiva preoccupazione di Sciascia, però, è il fine stesso
dell’opera e cioè di mostrare le condizioni in cui versavano le
classi povere, con la scarsa e inadeguata paga per il necessario
sostentamento, accompagnata dal rischio insito nel lavoro proprio
dei cavatori di sale e degli zolfatari.
Se la descrizione della vita di questi quasi servi della gleba
provoca sdegno nel lettore, Le cronache scolastiche dello
Sciascia maestro sono di quelle che stringono il cuore, che fanno
venire in mente l’infanzia di tanti derelitti descritta già dal
Verga e che nel Cuore di De Amicis risulta sì commovente, ma
edulcorata.
Qui la verità cruda è che gli scolari patiscono la fame, soffrono il
freddo, già alla loro età maturano gli espedienti per sopravvivere,
vestiti di stracci, spesso alternando lavori faticosi agli studi,
senza un avvenire, immiseriti fuori e dentro.
Ricordo che siamo negli anni 50 del XX secolo e non nel XVIII o XIX
secolo; l’Italia è uscita dalla guerra impoverita, desiderosa
tuttavia di raggiungere migliori condizioni di vita, ma lì, a
Racalmuto – Regalpetra, si vive solo per morire.
Credetemi, poiché non è un romanzo in cui vien dato spazio alla
fantasia, ma è una cronaca, un’indagine e quindi c’è solo realtà, a
leggere queste pagine si è pervasi da un’intensa commozione e anche
da un senso di vergogna, per noi che ora abbiamo tutto, quando loro
invece non avevano niente, ma solo la fatica di vivere.
Come se Le cronache scolastiche non fossero sufficienti
l’ultimo articolo di questo libro, intitolato La neve, il Natale
è di quelli che è impossibile dimenticare, perché allargano quella
ferita che già si è aperta in noi. Un inverno rigido, di quelli da
tenere a memoria, con tanta neve e gli scolari vestiti quasi come
Arlecchini, perché le mamme rimediano quello che è possibile trovare
per attenuare il senso di freddo, il Natale che si avvicina, che
arriva e il diario di tre di loro su come hanno trascorso la
festività cristiana. Sono stilettate vere e proprie, come questa: “
Io il giorno di Natale ho giuocato con i miei cugini e i miei
compagni. Avevo vinto duecento lire e quando sono ritornato a casa
mio padre me le ha prese e se ne è andato a divertirsi lui. “.
E’ comprensibile quindi l’altra funzione di queste cronache, cioè
l’essere la base, lo spunto per le opere successive di Sciascia,
tanto che nel 1967, a proposito di Le parrocchie di Regalpetra,
l’autore scrisse “ Tutti i miei libri in effetti ne fanno uno. Un
libro sulla Sicilia che tocca i punti dolenti del passato e del
presente e che viene ad articolarsi come la storia di una continua
sconfitta della ragione e di coloro che nella sconfitta furono
personalmente travolti e annientati.”.
Questo libro è assolutamente imperdibile.
Leonardo Sciascia
(Racalmuto,
8 gennaio 1921 – Palermo, 20 novembre 1989). E’ stato autore di
saggi e romanzi, fra cui: Le parrocchie di Regalpietra
(Laterza, 1956), Il giorno della civetta (Einaudi, 1961),
Il consiglio d’Egitto (Einaudi, 1963), A ciascuno il suo
(Einaudi, 1966), Il contesto (Einaudi, 1971), Atti
relativi alla morte di Raymond Roussel (Esse Editrice, 1971),
Todo modo (Einaudi, 1974),
La scomparsa di Majorana
(Einaudi, 1975), I pugnalatori (Einaudi, 1976), Candido,
ovvero Un sogno fatto in Sicilia (Einaudi, 1977), L’affaire
Moro (Sellerio, 1978), Il teatro della memoria (Einaudi,
1981), La sentenza memorabile (Sellerio, 1982), Il
cavaliere e la morte (Adelphi, 1988), Una
storia semplice (Adelphi, 1989).
Renzo Montagnoli
13/10/2010
La verità sugli
uomini e sulle cose del Regno d’Italia
Rivelazioni di J.A.
Antico Agente secreto del Conte Cavour
di
Filippo Curletti
A cura di Elena
Bianchini Braglia
Presentazione di
Walther Boni
Introduzione di Elena Bianchini Braglia
Edizioni Solfanelli
www.edizionisolfanelli.it
Collana Saperi
Storia
Luci e ombre
sul Risorgimento
Negli archivi privati
di Teodoro Bayard De Volo, ministro del duca di Modena Francesco V,
si trova anche uno scritto, quasi anonimo, in quanto firmato solo
J.A., con delle straordinarie rivelazioni.
Il documento è attualmente conservato nell’Archivio di Stato di
Modena e ha destato l’interesse di Elena Bianchini Braglia, che, in
questo libro, lo riporta integralmente. E’ curioso notare l’italiano
di altri tempi, non gravido di errori, ma di espressioni ormai
desuete.
Ma cosa ha di così tanto interessante questo scritto?
In pratica, J.A., che risponde poi al nome di Filippo Curletti,
agente segreto del regno sabaudo al servizio del Conte di Cavour,
getta nuove luci sul nostro Risorgimento, anche se sarebbe più
esatto dire che getta nuove ombre.
Non è che siano rivelazioni assolutamente imprevedibili, perché gli
storici si sono finalmente liberati da quella visione del periodo
risorgimentale riportata sui testi scolastici, ripetuta da
insegnanti sia in epoca prefascista, sia durante il ventennio che
negli anni successivi.
Che il nostro Risorgimento non corrisponda alle lezioni ricevute è
ormai assodato e questo sulla base di indizi, numerosi,
circostanziati e, per la loro logica, quasi del tutto probatori.
Lo scritto di Curletti costituirebbe invece la prova inoppugnabile
di come sono andate finalmente le cose, perché l’uomo non è solo
spettatore degli eventi, ma vi partecipa o addirittura li promuove.
Resta da stabilire la sua attendibilità.
In ordine alla sua autenticità sembra che non ci siano dubbi, tanto
che è conservato nell’Archivio di Stato; se poi sia stato redatto
proprio da un agente segreto, certe situazioni riportate, che
trovano riscontri e che non erano comunque all’epoca di dominio
pubblico, sembrano avvalorare l’ipotesi.
C’è un ultimo quesito da considerare, e cioè se Curletti ha scritto
la verità, magari inserendo abilmente menzogne fra fatti realmente
accaduti.
Questo è impossibile da verificare, per quanto quegli indizi di cui
ho sopra accennato siano compatibili con il documento in questione.
Curletti sembra voler lasciare ai posteri la spiegazione di un fatto
di grande portata come il Risorgimento, proprio perché possano
comprendere come mai sia stato realizzato uno stato, con le sue
istituzioni, ma sia mancata la nazione italiana, cioè non vi sia
quel senso di forte identità che accomuna i suoi abitanti.
Così, leggendo queste pagine, potremo capire come delle finalità
puramente dinastiche e di potere furono spacciate per il più nobile
scopo di un’indipendenza, potremo vedere con occhi nuovi Vittorio
Emanuele II, definito il re galantuomo, perché appunto non lo era,
troveremo un Garibaldi al di fuori della tradizione mitizzante, un
brigante con vaghe idee di dare agli italiani un paese libero.
Su tutto domina la corruzione, che emana dal personaggio di Cavour,
un male ormai diventato endemico e che condanna l’Italia a
un’arretratezza morale che aggrava la mancanza di una forte identità
nazionale.
Da leggere, inoltre, la presentazione di Walther Boni e l’esauriente
e approfondita introduzione della curatrice Elena Bianchini Braglia,
che, riferendosi alla imminente ricorrenza dei 150 anni dell’Unità
d’Italia, termina con un invito che non è disaggregante, ma di
autentica speranza affinché, come disse Massimo d’Azeglio, “Fatta
l’Italia, ora dobbiamo fare gli italiani”.
Il suo pensiero è’ frutto di
saggezza e di sincero amore per il paese, ma essere consapevoli del
nostro passato è l’unico modo per essere tutti effettivamente
italiani.
Scrive infatti Elena Bianchini Braglia: In realtà l’unico modo
per celebrare l’Italia sarebbe quello di restituirle tutta la sua
storia, tutti i suoi eroi, valorizzare tutte le sue antiche
tradizioni, riconoscere le diversità dei popoli che la compongono.
Solo così si potrà dare un senso a questa ricorrenza, solo così,
forse, superate le violenze, le incongruenze e le forzature, l’unità
potrà “ essere forte e durevole”.
Questo libro non può solo essere letto, ma deve essere letto,
perché la verità, sepolta da anni di menzogne, possa finalmente
trionfare e consentire a noi italiani un processo cognitivo delle
nostre origini, delle nostre tradizioni, peculiari delle varie zone
in cui l’Italia era divisa 150 anni fa, presupposto indispensabile
per costruire un futuro di effettiva unione nel quadro di
un’identità nazionale che fino a ora non è mai esistita.
Elena Bianchini Braglia,
nata a Modena il 26 ottobre 1972, vive a Modena con il marito e la
figlia Irene.
Titoli di Studio: Laurea in Filosofia conseguita presso la
Facoltà di lettere e Filosofia dell’Università di Parma e Laurea in
Scienze dell’Educazione conseguita presso la Facoltà di Scienze
della Formazione dell’Università di Bologna.
Attività culturali ed editoriali: da anni interessata alla
storia Estense collabora con riviste, istituti culturali ed enti
locali. È direttrice editoriale della rivista «Terre Estensi»,
presidente del Centro Studi sul Risorgimento e gli Stati Preunitari
(www.centrostudirisorgimentali.it), collabora all’organizzazione di
eventi culturali, partecipa a convegni e tiene conferenze.
Principali pubblicazioni:oltre
a vari saggi sulla storia Estense, sul Risorgimento e diversi
contributi su miscellanee, le pubblicazioni più recenti sono:
Adelgonda di Baviera, l’ultima duchessa di Modena, Reggio, Massa
Carrara, TeI, Modena 2003
Maria Beatrice Vittoria, Rivoluzione e Risorgimento tra Estensi e
Savoia, TeI, Modena 2004
O Regina o santa. Maria Beatrice d’Este, l’unica italiana sul trono
d’Inghilterra, spodestata per la fede, Tei, Modena 2005
In esilio con il Duca. La storia esemplare della Brigata Estense, Il
Cerchio, Rimini 2007
Donna Rachele, Mursia, Milano 2007
Madama Parisina, la protagonista del peccaminoso scandalo estense
nella storia e nella letteratura, TeI, Modena 2007
Sito Internet:
http://www.elenabianchinibraglia.it/
Renzo Montagnoli
09/10/2010
L’intermittenza
di Andrea Camilleri
Ed.
Mondadori
Romanzo
Migliaia di
lavoratori a rischio.
Manager spregiudicati. Due donne bellissime.
Un thriller
spietato, veloce come un battito di ciglia.
L’intermittenza,
l’ultimo libro di Camilleri non può non richiamare alla memoria
Un sabato con gli
amici: stesso stile
secco ed essenziale quasi a cogliere e collocare i personaggi ( il
lettore riesce questa volta a districarsi tra i vari nomi dei
personaggi e loro relativi ruoli e legami grazie all’elenco presente
all’inizio del libro) all’interno delle proprie crepe morali.
Siamo dentro il mondo degli affari sporchi, dell’imprenditoria
spietata e predatrice, della politica cialtrona e opportunista.
Senza soluzione di continuità s’intersecano i rami dei vari settori
alla cui base ci sono profitto,
convenienza e malaffare, ma Camilleri idealmente vuole spezzare
questo fil rouge
di vasi comunicanti inventandosi: l’intermittenza. “Silenzio
totale, assoluto, come se intorno gli
fosse sorta una bolla d’aria insonorizzat,
inglobandolo. I muscoli paralizzati, non obbediscono agli impulsi
inviati dal cervello. Poi, senza preavviso, si sblocca. Il contatto
con il mondo viene ristabilito. Per una
frazione di secondi i rumori hanno un così forte innalzamento di
volume che gli rintronano dentro la
testa, lo stordiscono”.
Una corrente che si alterna o un black- out momentaneo
interrompono ambizioni ed illusorie
vanaglorie di chi mercifica tutto quello che tratta.
Siamo in una metropoli del nord (Camilleri istantaneamente assume un
registro linguistico formale e composto), al centro il
patriarca-presidente di una grande industria,
la Manuelli
il cui figlio, Beppo, una
nullità totale, ricopre indegnamente la carica di vice Direttore
generale; il Direttore del Personale, Guido
Marsili è un rullo compressore, senza ripensamenti, senza
scrupoli, freddo e implacabile, ma con una segreta passione per la
poesia e il Direttore generale Mauro De Blasi,
è manager importante che tiene tutto sotto controllo,
eppure…avvisaglie di défaillance lo frastornano e lo lasciano
inerme: “Fu allora che ebbe
lacerante certezza della
prossimità della sua morte”. La crisi nazionale aleggia
sul Paese e la
Manuelli
fagocita l’azienda
Artenia di Birolli sull’orlo
del fallimento. Mauro De Blasi porta
avanti le trattative in segreto, offrendo una certa cifra per il
pacchetto azionario dell’azienda soccombente. Portare le perdite in
riduzione dei loro utili: cento milioni di perdite finanziarie
giacenti nell’Artenia
sarebbero sprecati, portati nel bilancio della
Manuelli
varrebbero 40 milioni di minori tasse.
Birolli si sarebbe liberato dei
creditori e la
Manuelli
avrebbe guadagnato di più di quel che avrebbe pagato:
il pesce grosso che divora quello
più piccolo. Personaggi maschili
tagliati con l’accetta, di sordido profilo, sempre pronti a captare
l’affare losco e a mantenere il potere senza cedimenti. Tagli
del personale, cassa integrazione galoppante e trattative con il
politico di turno tracciano un quadro economico e finanziario molto
simile alla realtà odierna. Le figure femminili assumono connotati
propri dell’ambiente in cui vivono, Marisa, la bella moglie ricca ed
annoiata incline ai tradimenti; Anna, la segretaria di Mauro la cui
vita pubblica sicura e motivata contrasta con la privacy deserta e
vuota, facile agli abbagli amorosi; la bella nipote di
Birolli, Licia, consulente del capo di
un grande gruppo industriale, Luigi
Ravazzi, si occupa di economia con
grande disinvoltura. Eppure in queste
donne apparentemente così risolute, granitiche per il lavoro che
svolgono e per i ruoli che ricoprono sono da Camilleri rappresentate
sempre con estrema cautela e, spesso, spogliate dalla scorza
esteriore che le caratterizza. La donna, l’eterno femminino appare
in tutto il suo spessore e anche l’oca cristallizzata nella sua
apparenza gradevole e accattivante mostra le sue fragilità
interiori. In questo romanzo Camilleri assume il ruolo
di evocatore dei destini italici, senza
cadere nella trappole della retorica e nelle insidie del moralismo.
In una prosa curata e controllata, dove le parti dialogiche non sono
meno a quelle narrative- riflessive non c’è
scampo alfine per chi vuole alzare sempre la bandiera del
vincitore. Ha ancora fatto centro Camilleri? Senza aspettarsi il
capolavoro o l’intuizione geniale, a mio modesto parere e da
fans della prima ora, risponderei di
sì.
Autore. Andrea Camilleri (1925), è
autore di oltre 60 romanzi tra storici, civili e polizieschi, e di
diverse raccolte di racconti, tradotti in più di 30 lingue.
Vincitore di numerosi premi in Italia e all’estero, è noto al
grande pubblico anche per i romanzi
dedicate alle inchieste del commissario Montalbano, da cui è stata
tratta la fortunata serie televisiva. Tra i tanti titoli ricordiamo:
“La forma dell’acqua”, “Il cane
di terracotta”, “Il ladro di merendine”, “La voce del violino”, “La
stagione della caccia”, “Il birraio di Preston”,
“La concessione del telefono”, “La gita a
Tindari”, “Maruzza Musumeci”, “Il
casellante”, “Il campo del vasaio”, “L’età del dubbio”, “Un sabato,
con gli amici” “Il sonaglio” “ La caccia al tesoro”…
Arcangela Cammalleri
08/10/2010
Filastrocche per l’angelo
di Anna Vincitorio
con testo francese a fronte
di Daniela Fiorini
Presentazione di Anna Ventura
Postfazione di Daniela Fiorini
II Edizione
Edizioni Tabula Fati
www.edizionitabulafati.it
Poesia
Collana Flores
Non solo musicalità
La filastrocca è un
componimento di estrazione popolare, molto in voga in un passato
nemmeno tanto lontano, e caratterizzato da un’armonia cantilenante.
Le nonne vi si cimentavano con i nipotini, per attirare la loro
attenzione e comunque per trasmettere un senso di appagamento e di
sicurezza.
Anna Vincitorio, autrice di numerosi libri di poesia, ha
rispolverato questa forma oggi non del tutto usuale con una serie di
componimenti che, oltre a ben estrinsecare il significato della
filastrocca, ne riportano tutte le caratteristiche salienti in modo
egregio, con risultanze, oltre che piacevoli, anche di eccellente
livello.
Queste poesie non sono come le ninne nanne, in genere fini a se
stesse e che hanno come scopo quello di conciliare il sonno, ma
portano un messaggio, sotto forma metaforica, e comunque a una
morale più adatta agli adulti che ai bimbi.
(Cantilena cantilena / non mi basti dolce Nena / non mi basta il
cielo azzurro / non mi bastano le foglie / e nessuno le raccoglie. /
La canzone è troppo triste / troppi gli anni sulle spalle. / Più non
viene Lancillotto / a salvare la sua dama. / C’è una donna sola e
vecchia / che si sente una puttana / degradata inascoltata / sola
sola abbandonata. / Vieni presto, vieni presto / fa qualcosa,
stringi forte / ma consegnami alla morte.). L’esperienza
dell’esistenza, il grigiore di una vita al termine sono espressi in
modo convincente e senz’altro immediato, senza ricorrere a termini
inconsueti, pur in presenza di un lessico colto.
Come si può notare non ci troviamo di fronte a poesiole più basate
sull’orecchiabilità che sul contenuto, perché ci si sbaglierebbe e
non poco.
No, Anna Vincitorio ricorre alle filastrocche per esprimere le
sensazioni del suo “io”, come un altro poeta magari invece
userebbe il canto o la ballata.
Non c’è solo ritmo, né semplicemente sillabe ripetute, ma un flusso
continuo di emozioni, di sentimenti, di ricordi, di gioie e di
dolori, insomma tutto l’animo dell’autrice porto in modo garbato al
lettore, una comunicazione spirituale che solo la poesia può
consentire, anche ricorrendo alla filastrocca.
Una particolarità di questo libro: per ognuno dei componimenti vi è
il testo in francese a fronte e vi assicuro che anche in questa
lingua la musicalità permane, forse addirittura migliora.
Da leggere per meditare, piacevolmente.
Anna
Vincitorio è nata a Napoli. Fin dalla primissima infanzia
si è trasferita a Firenze dove ha seguito studi classici cui ha
fatto seguito la laurea in Giurisprudenza. Si occupa attivamente di
letteratura, poesia, critica letteraria dal 1974. È docente dal 1976
presso istituti di scuola secondaria superiore di materie giuridiche
ed economiche.
Ha pubblicato di poesia: Nebbie e chiarori (Rebellato,
Padova 1982); Trama verde sull’aria (Ed. Hellas, Firenze
1986); Il canto fermo della fine (Ed. Del Leone, Treviso
1988); L’esilio delle tartarughe (Ed. Del Leone, Treviso
1991); I girasoli (Ed. Funghi, Firenze 1992); Alchimie
(Gazebo verde, Firenze 1993); Dissolvenze/Flots (Gazebo
verde, Firenze 1995); L’agguato sommerso (PuntoStampa,
Firenze 1997); Le nozze di Cana, in “’900 e oltre” -
Inediti italiani di poesia Contemporanea (Ed. Italiana di
Cultura Napoli, 1ª ed., gennaio 1997); Le nozze di Cana (Bastogi,
Foggia 1999); L’ultima isola (PuntoStampa, Firenze 2000);
Filastrocche per l’angelo (Tabula fati, Chieti 2001); La
notte del pane (Genesi Editrice, Torino 2004), Sognando
Estoril (Punto Stampa, Firenze 2007); Sognando Estoril
(con testo spagnolo a fronte, Punto Stampa, Firenze 2009).
Per la narrativa: San Saba (dall’inedito Il limo di
Eva, in “Eleusis”, 1990); L’Adelina (racconto), in “Fuori
Binario”, n. 14, febbraio 1996; Lettera ad un amico
(racconto), in “Fuori Binario”, n. 14, febbraio 1996; Ermanno
(racconto), in “Fuori Binario”, n. 18, giugno 1996; i racconti:
Da diletto, L’arbitro, La strana coppia, in
“Vernice”, n. 36, 2007.
Traduce e pubblica poeti dal francese e dall’inglese.
Attualmente collabora alla rivista “Vernice” di Torino, diretta da
Sandro Gros-Pietro.
Renzo Montagnoli
0610/2010
L’enorme tempo di
Giuseppe Bonaviri
A cura di Salvatore Silvano Nigro
Sellerio editore Palermo
www.sellerio.it
Narrativa romanzo
Collana La memoria
Un tempo cristallizzato
Il tempo sembra essersi fermato a Mineo, immobile da secoli, come se
si fosse cristallizzata la vita in una miseria a cui gli abitanti si
sono assuefatti al punto che questo “enorme tempo” attenua i drammi
quotidiani, le sofferenze, in una rassegnazione che sì stupisce, ma,
soprattutto, lascia attoniti quelli, come noi, che trascorrono
l’esistenza in un susseguirsi di periodi che non sono mai uguali.
Giuseppe Bonaviri, fresco laureato in medicina, dopo gli studi a
Catania e il servizio militare in Piemonte, ritorna al paese natio e
lo riscopre, fra l’entusiasmo di chi avvia una carriera e l’umana
profonda pietà che sgorga, costante, pur essa immensa, nel corso di
tutto il romanzo.
La sua è una discesa in un girone infernale, dove la miseria si
autoalimenta; lo accompagna un vigile sanitario che di volta in
volta può somigliare al Virgilio della Divina Commedia, soprattutto
quando insieme si abbandonano a pacate riflessioni, oppure al Sancho
Panza, fedele scudiero di un Bonaviri-Don Chisciotte che combatte
contro i mulini a vento dell’ottusità burocratica, della
superstizione e del potere che toglie, con l’acqua, quel poco che la
povera gente ha.
E’ una scrittura che ricorda quella del Sarto della strada lunga,
incline a un verismo senza sconti, ma pur tuttavia di tanto in tanto
impreziosita da quella vena fantastica che è propria dell’autore
siciliano e che nell’accostamento fra la semplice solennità della
natura e la tragedia dell’esistenza umana ricorda e riconduce l’uomo
al suo ruolo nell’ambito della creazione.
Già gli inizi del libro, con il ritorno in treno e poi in corriera a
Mineo, sono di quelli che non possono lasciare indifferenti, perché
è l’omaggio dello scrittore, nonché poeta, alla sua terra (…Mentre
il treno riprendeva ansimando il suo cammino verso Grammichele, la
corriera, con un tonfo gorgogliante, s’avviava per il piano di
Càllari in cui già mugolava e si doleva il vento…).
E’ evidente che ci troviamo di fronte a una forma espressiva quasi
poetica, che ogni tanto si ripresenta nel corso del romanzo, a
stemperare o anche ad accentuare per contrasto un profondo senso di
tristezza per la gente del paese, vista nelle sue ataviche
tradizioni, forse anche indisponente nel rifiuto del progresso, come
nel caso delle vaccinazioni, ma anche accarezzata con affetto per la
sua tribolata e ignota esistenza.
Dove tutto è fermo da secoli, accompagna gli esseri umani la
rassegnazione propria dell’immobilità dentro l’enorme tempo e non
sfugge a questa precarietà esistenziale anche il Dr. Giuseppe
Bonaviri, in cui si affievoliscono poco a poco gli entusiasmi
iniziali, la voglia di fare, il desiderio di cambiare, nei limiti
delle sue possibilità, quella situazione.
In un paese dove perfino i morti dell’obitorio stanno all’acqua
sotto il tetto sfondato e le case si stringono l’una all’altra quasi
per farsi forza e continuare, gli episodi che conducono a una non
ricercata commozione sono innumerevoli. Lì si vive in una sola
camera, spesso assieme alle bestie, si nasce e si resta in attesa
della morte, poco nutriti, senza avvenire se non la disperata
emigrazione; Mineo finisce con il diventare il cimitero di se
stesso, dove vivi e morti quasi si confondono, dove nulla cambia, in
cui regna sovrano l’enorme tempo.
Mi pare superfluo aggiungere che ci troviamo di fronte a un romanzo
bellissimo, da leggere e rileggere, perché nulla è lasciato al caso
fra quelle righe, nulla è di troppo o di troppo poco, in un
equilibrio stilistico che, non a caso, fa di Bonaviri uno dei grandi
della letteratura.
Giuseppe Bonaviri,
nato nel 1924 a Mineo, in provincia di Catania, è scomparso nel
2009. Primo di cinque figli di un sarto, Bonaviri ha vissuto per
anni a Frosinone dove ha esercitato la professione di medico. Fra le
sue opere più note: L’incominciamento (1983), Il dottor
Bilob (1994), Il vicolo blu (2003), L’incredibile
storia di un cranio (2006), Il sarto della stradalunga
(2006), La divina foresta (2008) e Notti sull’altura
(2009).
Renzo Montagnoli
01/10/2010
Canale Mussolini di
Antonio Pennacchi Edizioni Mondadori
Narrativa romanzo
Un'occasione sprecata
Una saga familiare per raccontare un'epoca non è certo una novità e
non sono pochi gli autori, non solo italiani, che hanno scritto al
riguardo. Ci ha provato anche Pennacchi, narrandoci delle vicende
della famiglia Peruzzi, spostatasi, per necessità, dal rovigotto
alle ex Paludi Pontine, risanate dall'intervento massiccio del
regime fascista teso a dare nuova terra coltivabile agli italiani.
Si potrebbe pensare quindi a un romanzo storico e in parte Canale
Mussolini lo è, ma è influenzato da quel desiderio di
riappacificazione nazionale volto a riscrivere l'avvento e il
dominio del fascismo, compito certamente difficile e in cui l'autore
si è gettato a capofitto, evidenziando però carenze culturali e di
approccio che fanno di quest'opera un libro sicuramente leggibile,
ma anche approssimativo, dalle facili conclusioni che cadono come
sentenze, in un quadro di eccessive semplificazioni dei problemi
proprie di chi crede di sapere come siano andate effettivamente le
cose perché convinto che la sua conoscenza sia completa e assoluta.
Alla base del romanzo quindi c'è un peccato di presunzione che
finisce con l'inficiare la validità delle asserzioni, spesso
gratuite, frutto non tanto di una disamina attenta, quanto di un
credo politico.
Ed è un peccato perché l'idea di partenza era e resta buona e così,
anziché trovarci di fronte a un rigoroso romanzo storico, scorre
davanti agli occhi una lunga telenovela, con personaggi che sono
degli stereotipi del socialista, dell'anarchico, del fascista,
insomma una sorta di opera rientrante nella cultura
nazionalpopolare, così cara ai regimi illiberali e feconda sia sotto
il fascismo che sotto il governo dei soviet.
Ciò nonostante il libro riesce più di una volta ad avvincere, perché
le vicende rientrano in quei percorsi della natura umana in cui
tutti, chi più chi meno, ci ritroviamo.
Ci sono in effetti pagine da epopea, come quella della bonifica
delle paludi, un racconto corale che ben si presta all'agiografia,
anche se proprio lì si riscontra un atteggiamento didascalico che
appesantisce il romanzo, in cui peraltro sono frequenti divagazioni,
variazioni di tempi non sempre giustificabili, che finiscono per
portare al lettore una certa stanchezza e comunque tale da fargli
scorrere velocemente le pagine per ritrovare quelle di un discorso
più snello e quindi più appagante.
Il ritmo della narrazione è altalenante, discontinuo, con improvvisi
acuti seguiti da vere e proprie fasi di stanca, quasi che l'autore
volesse prendere un po' di fiato e del resto si potrebbe dire che
Pennacchi ricorre a un italiano più parlato che scritto, con
frequenti frasi in un dialetto veneto un po' particolare, quasi
modificato per aumentarne la comprensibilità.
Se l'impostazione colloquiale (l'autore si rivolge a un ipotetico
lettore) è strutturalmente interessante, però, data la lunghezza del
libro, finisce con l'annoiare e peraltro il testo stesso poteva
essere ridotto alquanto, perché le frequenti divagazioni, che tirano
in ballo anche personaggi occasionali e di scarso rilievo per
l'opera, occupano non poche pagine.
In questo bilancio i difetti, fra i quali un uso della lingua
italiana non proprio da manuale, sono parecchi e i pregi pochi;
resta un certo fascino della vicenda che desta interesse, ma se
questo consente di considerare il romanzo un prodotto nel complesso
leggibile, le numerose pecche non giustificano assolutamente
l'assegnazione del Premio Strega, che conferma ancora una volta lo
scadimento delle ultime edizioni.
Antonio Pennacchi è nato a
Latina il 26 gennaio 1950. Si appassiona alla politica fin da
giovane, aderendo al Movimento Sociale Italiano, ma poi passa a
sinistra con i marxisti-leninisti. Operaio dell'Alcatel muta
continuamente opinione politica iscrivendosi al Partito Socialista
Italiano e alla CGIL, da cui verrà espulso con l'accusa di essere un
filo-brigatista. Entra quindi alla UIL, poi si iscrive al Partito
Comunista Italiano e ritorna alla CGIL, da cui sarà nuovamente
espulso. E' l'occasione per lasciare la politica attiva, per
laurearsi sfruttando un periodo di cassa integrazione e per iniziare
l'attività di scrittore.
Ha scritto, fra l'altro:
- Mammut (Donzelli, 1994);
- Palude. Storia d'amore, di spettri e di trapianti (Donzelli,
1995);
- Una nuvola rossa (Donzelli, 1998);
- Il fasciocomunista (Mondadori, 2003);
- Shaw 150. Storie di fabbrica e dintorni (Mondadori, 2006);
- Canale Mussolini (Mondadori, 2010).
Renzo Montagnoli
29/09/2010
I Viceré
di Federico De Roberto Baldini
Castoldi Dalai Editore
Narrativa romanzo
Collana Classici Tascabili
I Viceré è
indubbiamente il romanzo più famoso di Federico De Roberto, un’opera
piuttosto corposa che a stento ed eufemisticamente può rientrare in
una collana di tascabili. Considerato da non pochi critici un
autentico capolavoro (Sciascia addirittura scrive che dopo I
Promessi Sposi è il più grande romanzo che conti la letteratura
italiana), ma in un certo qual modo stroncato da Benedetto Croce
(Il libro di De Roberto è prova di laboriosità, di cultura e
anche di abilità nel maneggio della penna, ma è un’opera pesante,
che non illumina l’intelletto come non fa mai battere il cuore)
è in effetti un romanzo complesso, anche strutturalmente, e presenta
luci e ombre, di cui tuttavia le seconde non ne intaccano
l’intrinseca valenza.
E il valore è indubitabile, perché I Viceré, nel descrivere
le vicende dei numerosi componenti della nobile famiglia siciliana
Uzeda, finisce con l’essere la devastante biografia di una nazione,
un’immagine impietosa di ciò che siamo noi italiani, con una
narrazione impregnata da una forte vena critica e ironica.
La storia in effetti è costituita dalla vittoria, in apparenza,
della rivoluzione patriottica siciliana e dal suo pratico
insuccesso, con un esito quindi impietoso e deludente di tutto il
processo risorgimentale, perché le risultanze siciliane vengono di
fatto estese all’intero paese. In questo senso De Roberto è stato
un’analista del fenomeno non solo attento a tutti i suoi risvolti,
ma anche profetico, come infatti sembrerebbe testimoniare l’attuale
situazione italiana, di Stato di forma, ma non di sostanza.
Per quanto ovvio balza subito alla mente un altro capolavoro, quel
Gattopardo pur esso in grado di anticipare situazioni
successive, ma scritto molto tempo dopo I viceré ed è quindi
logico supporre fosse stato letto e in un certo qual senso preso a
spunto e ad esempio da Tomasi di Lampedusa.
Dice bene Matteo Collura quando scrive che “Nel cospicuo
contributo dato dagli scrittori siciliani alla moderna letteratura
italiana, s’impone un dato costante: la delusione per la mancata
rivoluzione promessa dal Risorgimento, il fallimento delle speranze
dei meridionali nel compiersi dell’Unità d’Italia. Viene da lì gran
parte dei mali che continuano ad affliggere questo Paese, la scarsa
autorevolezza dello Stato, le divisioni e incomprensioni tra regioni
del Nord e regioni del Sud e, propriamente oggi, il rischio dello
scardinamento dell’unità nazionale.”.
Indubbiamente, basterebbe solo questa visione profetica per
classificare I Viceré come un capolavoro, ma c’è dell’altro,
quali la caratterizzazione dei personaggi, invero troppi, ma precisa
e rappresentativa di modi d’essere e pensare, l’atmosfera quasi
irreale di un corpo in decomposizione pronto però a trasmigrare in
un altro, fermo restando l’obiettivo di conservare le proprie
prerogative. Negli Uzeda c’è tutta una famiglia stranamente attuale,
con vizi, furberie, astuzie, cialtronerie e perciò senza cuore. De
Roberto non ha pietà per questi personaggi, ma non travalica mai il
limite sottile fra avversione e odio, quasi da spettatore e cronista
di fatti che avverte come emblemi di una realtà ben più grande.
Benedetto Croce non ha quindi compreso l’effettivo significato
dell’opera, soprattutto quando dice che non illumina l’intelletto,
forse perché aborre l’idea che quello stato di cui fa parte è una
struttura altamente imperfetta che deriva dal fallimento delle idee
risorgimentali, pregevoli, eccellenti nelle intenzioni, scomparse
nella realizzazione.
L’opera è invece indubbiamente pesante, troppo lunga, e
caratterizzata da un ritmo lento che induce a frequenti soste
durante la lettura, difetto che tuttavia incide in modo trascurabile
sull’effettivo rilevante valore.
Da leggere, senza dubbio.
Federico
De Roberto (Napoli, 16 gennaio 1861 – Catania, 26 luglio
1927).
Opere (romanzi e raccolte di racconti):
- La Sorte (1887);
- Documenti Umani (1888);
- Ermanno Raeli (1889);
- Processi verbali (1890);
- L’albero della scienza (1890);
- L’illusione (1891);
- I Viceré (1894);
- Spasimo (1897);
- La messa di nozze (1911);
- Imperio, uscito postumo.
Renzo Montagnoli
28/09/2010
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Il quinto libro di
Alessandra Galdiero s'intitola "Sentire
che stai male mi toglie il respiro… perdutamente" edito
dalla CSA Editrice.
Un romanzo psicologico denso di passione in cui s'intrecciano
amore e morte, immaginazione e poesia.
Andrea, il protagonista del libro, si sente perduto nel momento
in cui la donna con cui ha condiviso la maggior parte del suo
tempo lo abbandona a se stesso.
Lui si mostra come un uomo fragile, indifeso, che non riesce ad
accettare il vuoto che si crea da quell'attimo. Entrando in
contatto con la difficile realtà inizia la sua lotta contro
tutto e tutti, uccidendo coloro che ama, ma da cui non si sente
ricambiato e capito.
Vede attorno a sé solo tradimento e menzogna, guarda ogni cosa
solamente dal suo punto di vista e tutto gli appare diverso da
ciò che è. Si tratta di follia, di paura o di un errore di
valutazione?
Quello che il protagonista vuole, che desidera ardentemente, è
sincerità, fiducia e affetto. Ma incontra sul suo percorso solo
delusione e incomprensione.
Andrea è frustrato da una vita spietata e non può fare a meno di
bruciare dietro di lui tutto ciò che fa parte del passato, per
poter ricominciare, per contrastare la sua solitudine, per
ritrovare la verità.
Ma quello che scopre non è facile da accettare, gli sembra
addirittura impossibile convivere con la nuova realtà che si va
delineando dinanzi a lui. E il rimorso per gli sbagli commessi
diventa una colpa da espiare…
… Forse tutto ciò che è osservabile è così come lo vediamo.
Ma cosa c'è invece nel fondo dello stomaco? Quali sono le
sensazioni che vibrano allo stato puro? Basta porsi delle
domande per scoprirlo? Basta respirare per sentirsi vivi? E
quando manca il respiro non siamo comunque vivi? E se questo
libro rispondesse per noi almeno ad una di queste domande, non
avremmo raggiunto uno stato d'incoscienza tale da essere in
grado di capire quello che siamo veramente?
Citazione
I nemici vivono in casa, ci osservano, ci studiano, carpiscono
le nostre debolezze e ce le puntano contro, fino a che siamo
costretti a saltare dal grattacielo per non finire divorati
dalle fiamme e per questo la nostra morte potrebbe quasi
definirsi un suicidio...
Biografia
Alessandra Galdiero, scrittrice
napoletana e dottoressa in scienze politiche, ha pubblicato
Attraverso i miei occhi (L'autore Firenze Libri), Ritorno
Andando (CSA Editrice), Non ho problemi a credermi (CSA
Editrice) e La verità si offende (Il Filo).
È co-fondatrice del portale www.recensionelibro.it
Si può leggere di lei sul suo sito
www.alessandragaldiero.it |
21/09/2010
Bàrnabo delle montagne
di
Dino Buzzati Edizioni Mondadori
Narrativa romanzo
Collana Oscar scrittori moderni
Bàrnabo delle montagne,
scritto nel 1933, è stato il primo romanzo di Dino Buzzati. Opera
breve, tuttavia ha in sé i germi di tutta la produzione successiva,
con l’immensità della montagna, raccolta in un silenzio al tempo
stesso imperioso e sublime, che crea un’atmosfera magica tale da
rapire l’attonito escursionista, o comunque da lentamente attrarre a
sé l’uomo che ritrova in essa un senso della vita in completa
armonia con il creato.
C’è anche l’attesa di Bàrnabo nel il desiderio di riscattarsi,
attesa che sarà il fil rouge di un’opera successiva di grandissimo
valore, Il deserto dei Tartari. In un certo senso il
personaggio di Bàrnabo anticipa, pur in veste diversa, quello del
tenente Drogo, in questo tempo sospeso che fa dimenticare il
trascorrere dei giorni, stregati rispettivamente dalla montagna e
dal deserto, tutti intenti inconsciamente a ricercare e a
concretizzare un senso della propria esistenza.
La costruzione del racconto, denso di metafore, l’aria fiabesca che
vi si respira nella comunione con una natura spettatrice imparziale
dei tentativi dell’uomo di affermarsi come essere privilegiato, le
descrizioni dei paesaggi, gli affascinanti misteri dell’ambiente
evidenziano una propensione naturale di Buzzati verso il fantastico,
ma contingentata ai luoghi dove egli, più che vissuto, ha
soggiornato da appassionato escursionista.
E se Il deserto dei Tartari è stato ispirato dalla solitudine
in cui si trovava da giornalista nella sua stanzetta presso Il
corriere della sera, in Bàrnabo delle montagne c’è tutta
la meraviglia verso la maestosità della montagna che lo accompagnerà
per tutta la vita.
In particolare, oltre agli umani, sembrano avere un’anima anche gli
alberi, i torrenti, il vento, la nuda roccia, circostanza che mi
induce a pensare che in Buzzati sia emersa una visione celtica del
mondo, propria di chi cerca di vivere in armonia con il creato.
Comunque si resta stupiti per il fascino di questa narrazione, per
la fantasia che la pervade e che porta il lettore a fantasticare, a
vedere questo mondo magico come se fosse presente, come se ne fosse
parte.
La lettura, ovviamente, è più che raccomandabile.
Dino Buzzati
(Belluno 1906 - Milano 1972), tra i
più originali autori italiani del Novecento, poco prima di laurearsi
in Legge, nel 1928, entrò al "Corriere della Sera", di cui fu
cronista, redattore e inviato speciale. Iniziò l'attività letteraria
nel 1933 pubblicando Bàrnabo delle montagne, cui sono seguiti
racconti di successo e numerosi romanzi tra i quali Il deserto
dei Tartari resta il suo capolavoro. Fu anche disegnatore e
pittore di talento.
Renzo Montagnoli
20/09/2010
L’uomo dei cerchi
azzurri
di
Fred
Vargas
Editions
Viviane Hamy 1996
Titolo
originale: L’homme aux cercles bleus
Traduzione di
Yasmina Melaouah
Ed.
italiana Einaudi
stile libero big
Noir
Quarta di copertina
Ciò che più desta curiosità è la
scritta tracciata intorno a ogni cerchio
in una bella grafia inclinata, colta, si direbbe, la frase che fa
piombare gli psicologi in un mare di interrogativi: “Victor,
malasorte, il domani è alle porte”.
Jean-Baptiste
Adamsberg: l’avevano nominato
commissario a Parigi, nel quinto arrondissement.
Procedeva a piedi verso il nuovo ufficio, per il suo dodicesimo
giorno. Diventato sbirro a 25 anni, nei Bassi
Pirenei, dove aveva vissuto e risolto uno dietro l’altro 4 omicidi,
era chiamato silvestre. E’ un uomo forse bello forse no,
piccolino, vestito malissimo, che scarabocchia sempre qualche
disegno sul lato del ginocchio destro piegato, invece di prendere
appunti come un qualsiasi poliziotto nel corso delle indagini. Un
uomo vago e lento nei gesti e nell’eloquio, “in certi momenti era
più altrove che mai”, dalla figura piccola, solida e scura. Questo
l’identikit, in breve, del poliziotto nato dalla penna di
Fred Vargas,;
ma che razza di tipo è questo? Si chiedono i colleghi parigini e noi
lettori. Tipi strani questi commissari,
solitari, ma dotati di una strana quanto inspiegabile
fascinazione. Ha l’aura di genio
dell’investigazione assemblata all’aspetto trasandato e niente di
speciale, una complessiva trascuratezza del personaggio,
Adamsberg, ma dalla voce piacevole ad
udirla quasi come una carezza. Attorno ad un fatto apparentemente
banale e di scarsa importanza investigativa, l’uomo che traccia
durante la notte misteriosi cerchi azzurri, con un’inquietante
scritta “Victor, malasorte, il domani è alle porte”, dentro i quali
giacciono oggetti abbandonati ormai privi di
utilità e segnalati all’attenzione degli altri,
Fred Vargas
ordisce un preciso meccanismo narrativo, che si sviluppa in un
crescendo di attesa. Tra metodi investigativi sui generis
di Adamsberg
affiancato da Adrien
Danglard, il suo ispettore preferito
considerato reale, molto reale dal commissario, tra personaggi
strambi come la scienziata Mathilde
Forestier, che segue e annota gli altri
per strada, la settantenne Clémence
Valmont, con un’unica idea, trovare un
amore e un uomo, il cieco Charles
Reyer ambiguo e misterioso, l’ometto
Louis Le Nermond,
professore bizantinista, si amalgama un buon romanzo poliziesco,
dalla prosa semplice e dalla piacevole lettura. Il nome
Fred Vargas
è un marchio di garanzia di qualità, senza
parlare di capolavori, la sua scrittura è ben calibrata tra
riflessioni serie ed ironia lucida. L’idea di letteratura come
rappresentazione della realtà immaginativa o riflessiva può essere
accantonata quando un buon giallo, di livello alto, un genere, può
far vagare e divagare la mente per puro senso della piacevolezza
della lettura.
L’autrice: Fred
Vargas è lo pseudonimo di
Frédérique
Audouin-Rouzeau adottato in omaggio alla sorella
Jo, una pittrice che nelle sue opere si
firma appunto Vargas (Vargas
è il cognome del personaggio interpretato da Ava
Gardner nel film
La contessa scalza).
È nata a Parigi nel 1957, figlia di una
chimica e di un surrealista. È ricercatrice di
archeozoologia presso il Centro
nazionale francese per le ricerche scientifiche (Cnrs),
ed è specializzata in medievistica. Per
5 anni ha lavorato sui meccanismi di trasmissione della peste dagli
animali agli uomini. Scrive ogni suo romanzo in 21 giorni, durante
il periodo di vacanza che si concede ogni anno. Rivede poi il testo
per 3 o 4 mesi, con il suo editor privilegiato: la sorella
Jo. Scrive dall’85.
Dal ’92 ha pubblicato quasi un libro all’anno.
È tradotta in 22 lingue ed è considerata l’anti-Patricia
Cornwell. Tra i suoi scritti:
Io sono il tenebroso (200,
2003,2006), Chi è morto alzi la mano, Parti in fretta e non
tornare, L’uomo a rovescio,Prima di
morire addio, I quattro fiumi, Le raccolte
La trilogia
Adamsberg, che riunisce le prime inchieste del
commissario. Scorre la Senna,
raccolta di tre racconti con protagonista il commissario
Adamsberg e tanti altri…
Arcangela Cammalleri
19/09/2010
Il Consiglio d'Egitto di
Leonardo Sciascia Adelphi
Edizioni www.adelphi.it
Narrativa romanzo
Collana Gli Adelphi
Ieri come oggi
Il Consiglio d'Egitto è il primo romanzo storico di Leonardo
Sciascia, scritto nel 1963, ricorrendo a una tecnica che sarà
presente anche nelle opere successive, vale a dire con
l'ambientazione in un tempo passato della vicenda, ma con il preciso
scopo di criticare il presente. Così, con l'ironia e il sarcasmo che
sono propri dell'autore siciliano, si narra dell'episodio dell'abate
Vella, che sul finire del XVIII secolo ebbe la bella pensata di
buggerare gli intellettuali siciliani e anche parte di quelli
europei falsificando la traduzione di un codice arabo e poi
costruendone uno completamente nuovo, grande esercizio di impostura
svolto unicamente per trarne propri benefici.
La truffa, perché questo è il reato commesso, ha quasi
dell'incredibile, ma è d'obbligo precisare che questo religioso ebbe
l'indubbia capacità di attirare il positivo interesse dei nobili
siciliani con il primo codice (Il Consiglio di Sicilia), mentre con
il secondo (Il Consiglio d'Egitto) invece capovolse la situazione,
con principi e baroni timorosi di perdere i loro secolari privilegi
a vantaggio del Re.
Detto così sembrerebbe poca cosa, la semplice storia di un birbante,
ma inserito nel contesto dell'epoca è rimarchevole l'intreccio fra
l'impostura e il tentativo di modernizzare l'isola grazie all'opera
dell'illuminato Viceré Caracciolo.
In effetti esisteva un dissidio, nemmeno tanto latente, fra la
corona e la nobiltà sicula, privilegiata da secoli al punto da
costituire nella scala sociale un'entità di potere autonoma, sulla
quale il re poteva ben poco.
I fuochi della rivoluzione francese, lo spirito libertario ed
egualitario che la stessa portava tuttavia finì per rinsaldare i
legami fra il monarca e i suoi vassalli, spezzando e di fatto
seppellendo ogni tentativo di modernizzazione.
Al personaggio emblematico dell'impostore si accompagna quello di
chi invece ha voluto essere se stesso fino in fondo, quell'avvocato
Francesco Paolo Di Blasi, illuminista ed eticamente convinto
dell'uguaglianza degli uomini al punto di tentare di avviare una
vera e propria rivoluzione; la congiura, scoperta prima di essere
posta in atto, lo porterà prima all'arresto, poi alla tortura e
infine alla condanna a morte per decapitazione. Per quanto il
paragone possa sembrare distonico, la figura dell'abate, scoperto
nell'inganno e rinchiuso in carcere, è una luce viva che poco a poco
si spegne, mentre quella del cospiratore è una lampada che, anche
dopo la sua morte, arde soave, un segno di speranza per un futuro,
anche se molto di là a venire. Infatti, Di Blasi ha provato almeno a
smuovere le acque, torbide, limacciose della forza parassita che
domina in Sicilia, ieri come oggi, ieri i nobili, oggi la mafia.
L'ultimo capitolo, quello della esecuzione della sentenza di morte
del cospiratore, è di rara e incomparabile bellezza, poche pagine
preziose che chiudono nel migliore dei modi un romanzo di grande
valore.
Leonardo Sciascia
(Racalmuto,
8 gennaio 1921 – Palermo, 20 novembre 1989). E’ stato autore di
saggi e romanzi, fra cui: Le parrocchie di Regalpietra
(Laterza, 1956), Il giorno della civetta (Einaudi, 1961),
Il consiglio d’Egitto (Einaudi, 1963), A ciascuno il suo
(Einaudi, 1966), Il contesto (Einaudi, 1971), Atti
relativi alla morte di Raymond Roussel (Esse Editrice, 1971),
Todo modo (Einaudi, 1974),
La scomparsa di Majorana
(Einaudi, 1975), I pugnalatori (Einaudi, 1976), Candido,
ovvero Un sogno fatto in Sicilia (Einaudi, 1977), L’affaire
Moro (Sellerio, 1978), Il teatro della memoria (Einaudi,
1981), La sentenza memorabile (Sellerio, 1982), Il
cavaliere e la morte (Adelphi, 1988), Una
storia semplice (Adelphi, 1989).
Renzo Montagnoli
Il cinese
di
Henning
Mankell
Ed.
Marsilio
Genere Thriller
politico
Titolo originale Kinesen
Traduzione di Giorgio Puleo
In un villaggio svedese, a Hesjövallen,
avviene una strage: 19 corpi trucidati, tutti di persone anziane
tranne quello di un ragazzino di circa 12 anni,
vengono ritrovati nelle loro case. 19 nomi, tre famiglie, un
corpo dopo l’altro, tutti contraddistinti dallo stesso furore folle,
le stesse ferite inferte con un’arma
affilata. Non è una normale indagine, tutto è così orribile da
risultare incomprensibile. La
responsabilità del caso è affidata alla poliziotta Vivi
Sundberg, tenace e con una
grande capacità di analizzare anche i più
piccoli indizi. Per una strana e misteriosa tela di parentele sarà
coinvolta nell’inchiesta, sia pure non in forma ufficiale, il
giudice Birgitta Roslin. Da questo truce
fatto di sangue si dirama una storia le cui radici affondano in un
lontano passato lungo 140 anni. Dalle gelide foreste scandinave
attraverso differenti piani temporali la trama si
snoderà in Cina, negli USA, in Africa
per ricomporre il suo tragico epilogo in Svezia.
Mankell costruisce un libro corposo, una storia
d’ampio spettro storico e riesce a dar vita ad un quadro di vite
consunte dalla vendetta e dalla sete di riscatto sociale. Un
frammento di storia, nell’800 molti cinesi furono venduti e
sfruttati come schiavi in USA, nel Nevada,
durante la costruzione della ferrovia, racconta con toni forti e
partecipi la condizione di chi non ha riconosciuti nemmeno i più
elementari diritti umani e soffre della propria dignità offesa. Di
quanto la via del progresso e del profitto economico abbiano
sacrificato migliaia di vite umane. Il passato, a volte, quando è
stato troppo doloroso non si dimentica e
l’odio è un fiele che avvelena l’esistenza.
Dall’inizio della storia al suo svolgimento, il lettore è
trasportato all’interno di un’altra storia a tinte fosche che
costituisce il corpo centrale del plot
in cui si dispiegano le vicende umane di Wang
San, di Ya Ru,
di Liu… Il diario di San esprime la
rabbia cresciuta dentro di sé, il viaggio umano nel dolore di un
uomo e lo scrive perché i suoi discendenti non dimentichino le
ingiustizie subite. L’ingiustizia pesava su
tutta la Cina. La parte finale si ricollega all’inizio come
uno schema concentrico. Mankell racconta
della Cina di Mao,
del movimento contadino convinto di sollevarsi dalla miseria e che
ha fatto enormi passi avanti, ma devono i cinesi ancora combattere
contro la miseria che è ancora grande. Il cammino è ancora lungo.
La Cina
pre-olimpiade che ai suoi vertici ordisce trame politiche e i
cui leader moderni si sono sostituiti ai vecchi capi del partito
comunista con metodi corrotti e antidemocratici.
L’eterno scontro tra gli ideali che non riescono a sopravvivere alle
pressioni di una realtà che i vecchi teorici non avevano mai
compreso.
Mankell intreccia il genere giallo e quello
storico in modo naturale senza discrepanze
stilistiche né di contenuto, tutto viene ricomposto nella sua
giusta collocazione. I personaggi si delineano
man man che ci si addentra nello
scritto, la loro natura umana emerge in tutte le proprie
sfaccettature.
È un romanzo interessante che appassiona sin dalle prime pagine e
si legge come “si
suol dire” tutto di un fiato.
L’autore. Henning
Mankell, scrittore e regista
teatrale, è nato a Stoccolma nel 1948, vive tra la Svezia e il
Monzambico. Dal
1998
è sposato con la regista teatrale e televisiva
Eva
Bergman,
figlia di
Ingmar
Bergman. È autore dei
gialli con protagonista il commissario
Wallander, nove episodi tradotti in 40 lingue che hanno
venduto nel mondo 30 milioni di copie. La serie comprende i titoli:
Assassino senza volto, I cani di
Riga, La leonessa bianca, L’uomo che sorrideva, La falsa pista, La
quinta donna, Delitto di mezza estate, Muro di fuoco e
Piramide. A ottobre 2010 verrà
pubblicato L’uomo inquieto,
l’ultimo caso del commissario Wallander.
Nel catalogo Marsilio, anche i gialli
Il ritorno del maestro di danza, Il
cinese, e il libro testimonianza
Io muoio,
ma il ricordo vive.
Un’altra battaglia contro l’Aids.
Arcangela Cammalleri
17/09/2010
Appena finirà di piovere di
Aurelio Zucchi
Non amo molto la parola "poeta" perché troppo spesso viene abbinata
a chi poesia non fa. Non basta scrivere poesie in un sito di
scrittura per essere poeta. Così facendo si finisce con lo svilire
chi poesia fa davvero.
E poesia fa davvero Aurelio Zucchi che - dopo aver favorevolmente
sorpreso la critica col suo romanzo "Viaggio in V classe" - fa
ancora bingo con questa splendida raccolta di poesie
dall'accattivante titolo "Appena finirà di piovere", editato dalla
Global Press Italia.
È uno splendido viaggio tra i pensieri dell'autore che trovano forma
e sostanza nel suo modo di approcciare la poesia: semplice, ma con
quella capacità di "colorare" ogni verso che è tipico solo di chi
"sa dipingere" con le Parole.
Aurelio Zucchi in questa difficile arte è splendido maestro: egli
riesce a liberare un potenziale creativo capace di determinare in
modo nuovo i concetti stessi di "soggetto" e di "realtà".
In particolare, l'analisi critica del linguaggio, dei luoghi e degli
spazi avviene attraverso un radicale confronto con un'immagine che
non c'è e che pure, se chiudete gli occhi, si palesa e sembra
assumere un valore quasi filosofico. Un esempio di ciò si evince
fortemente in "Datemi un'alba" dove i versi che vedono […Gino, mio
fratello, / equilibrista sullo scoglio nero] richiamano un paesaggio
di Gauguin.
Nella sua poesia solare traspare Monet, mentre in quella
introspettiva è un trionfo di fiamminghi per trasformarsi in un
Rousseau il doganiere nei suoi ricordi d'infanzia verseggiati in
modo naif, assumendo connotazione fortemente romantica nella sezione
"Lei", degna dell'affascinante Modì.
Così - di volta in volta - l'autore propone gli attimi della sua
vita, da una Reggio Calabria, sempre nel cuore, ad una Roma che l'ha
adottato come figlio meritevole.
Personalmente trovo che è nei ricordi del mare, del suo mare, che
l'essenza poetica di Aurelio Zucchi esplode con tutta la sua
irruente bellezza! Perché qui ritrovo sia la mimesi sia la catarsi.
La poetica di Aurelio Zucchi la racchiude il pensiero aristotelico:
"alcune cose che la natura non sa fare, l'arte le fa."
E mi tornano alla mente le parole di un grandissimo Robin Williams
ne "L'attimo fuggente", di Peter Wieir: "Noi leggiamo e scriviamo
poesie perché siamo membri della razza umana, e la razza umana è
piena di passione. Medicina, legge, economia e ingegneria sono
professioni necessarie al nostro sostentamento, ma la poesia, la
bellezza, l'amore… sono queste le cose che ci tengono in vita."
Fin quando ci saranno autori come Aurelio Zucchi è sicuramente vero.
Danilo Mar
14/09/2010
Muti e Fuggenti
Poesie in amore al mondo e alle sue
creature
di Anna Amadori Lizzeri
Prefazione dell’autrice
Edizioni Il Foglio Letterario
www.ilfoglioletterario.it
Già nella sua
precedente silloge “Poesie per ricordare” (La
riflessione, 2008) Anna Amadori aveva trattato dei tre temi
cardinali di ogni esistenza, con l’amore che è tormento e passione,
con le grandi domande senza risposte certe concernenti la vita e con
l’inevitabile conclusione della stessa, quella morte che tutti ci
accoglie, quasi beffarda per la nostra incoscienza e alterigia che
ci può indurre ad esserle superiori.
In questa nuova raccolta ritornano questi temi, ma con una visuale
diversa, quasi un’analisi dei risultati dell’evoluzione della
specie, di questi minuscoli esseri che credono di essere sopra ogni
cosa e che finiscono con il diventare così carnefici e vittime di
un’illusione irrazionale che mortifica, anziché esaltare,
l’esistenza.
Come precisa l’autrice nella sua prefazione l’umanità è diventata
così muta e fuggente, cioè isolata e prigioniera della sua
condizione. Il progresso e l’evoluzione hanno cambiato con i
sentimenti anche il senso della vita di ognuno di noi, ci hanno
indotto a credere che la scienza ci possa consentire di essere
speciali e avulsi dalla realtà naturale, che inquadra ogni essere
vitale in un disegno dal delicato equilibrio, minato dalle
inevitabili conseguenze di ordine materiale e, soprattutto,
comportamentale determinate dalla nostra assurda idea di predominio.
E’ inutile illudersi che se si vive di più si possa vivere in
eterno, è inutile credere che la nostra realizzazione di uomini sia
nel metterci al centro dell’attenzione, di elevarci insomma quasi a
divinità. Come il fiore che nasce e muore, anche l’uomo ha lo stesso
percorso obbligato, con la differenza che il suo egoismo,
l’egocentrismo a livelli esponenziali lo porterà a una morte in
solitudine, chiaro risultato di un’esistenza inutile.
Anna Amadori è ovviamente parte di questa umanità, ma la sua amara
constatazione si accompagna a un autentico senso di pietas,
virtù sempre più rara che la porta ad amare gli altri,
indipendentemente dal loro comportamento, anzi a stringerli a sé
quanto maggiore è la loro responsabilità di azioni e atti contro gli
altri e inconsciamente contro se stessi.
In particolare la poetessa tiene a che non si spenga il ricordo,
cioè l’unica forma di perpetuare la vita oltre la morte, soffocato
com’é da vanaglorie, egoismi e indifferenza, e al riguardo
particolarmente esplicativa è la poesia iniziale, che dà il titolo
all’intera raccolta, ma che è anche il filo conduttore della stessa
(Muti e fuggenti - Muti e fuggenti / anonimi volti, /
prigionieri di catene / da egoismo e vanagloria / saldate. /
Simulacri atei / di loro stessi,/ vacui fantasmi / su dimenticati
sepolcri.). Pochi versi, incisivi, senz’altro anche sofferti, ma
non urlati, anzi percorsi da un adagio quasi mistico che è il
riscontro della pietà che li ha ispirati.
Ma se l’uomo con il progresso è cambiato, non ha saputo cogliere la
verità che ogni scoperta svela (la nostra nullità, la nostra
impotenza, la comprensione di essere piccoli ingranaggi in una
macchina che mai comprenderemo), la natura è rimasta la stessa, e
così gli animali e i vegetali, consapevoli forse inconsciamente
della grandezza del disegno di cui umilmente fanno parte (Farfalla
- Non ti dolere / amorfa crisalide / amaro abbozzo di farfalla, /
le ali al mondo non / spiegasti ancora, / adorne / degli opalescenti
colori. /…) oppure ( Gabbiano - Con maestoso
volo / e plano d’ali, / t’è giocoso / burlar le rade / nubi /
sfidando l’azzurro cielo. /…).
E senza dilungarmi ancora, perché è giusto che chi leggerà possa
scoprire piacevolmente versi particolarmente pregnanti, non mi
resta, ovviamente, che raccomandare questa raccolta all’attenzione
di chi ama la poesia, una poesia fatta a misura d’uomo,
comprensibile, a tratti anche soave, eppur profonda.
Anna Amadori
nasce a Sassari il 16 gennaio 1972, città in cui vive e lavora come
libera professionista. Laureata in giurisprudenza è sposata e madre
di tre figli; alla passione per la scrittura accompagna quella per
la musica, per la lettura e per la storia antica. Oltre ad una
pubblicazione scientifica su una rivista medica nel 2004, ha
pubblicato come coautrice, sempre nello stesso anno, una monografia
sul tema della violenza sessuale sui minori in Sardegna, edita da
“Scuola Sarda Editrice”.Nel 2008 ha pubblicato la silloge “Poesie
per ricordare” (La Riflessione).
Renzo Montagnoli
13/09/2010
L’ultimo libro di
Zoran Živkovic Ed.Tea
Romanzo noir
Traduzione dal serbo di Jelena Mirkovic e Elisabetta Boscolo Gnolo
Un thriller evocativo di atmosfere oniriche e surreali. Un’
appassionante lettura dal contenuto metaletterario.
Questo romanzo è un thriller postmoderno sulle orme di Borges, a
detta di tanti critici, la cui trama ricorda alla lontana Il nome
della rosa di Umberto Eco.
Il protagonista della storia è il libro e precisamente l’ultimo
libro che svelerà il mistero di cui è intricato il plot.
La trama sarà solo accennata per non togliere la suspense a chi
vorrebbe leggere il romanzo.
Delle morti si susseguono, luogo inusuale, in una libreria Il
Papiro, mentre abituali clienti stanno leggendo un libro.
L’ispettore Dejan Lukic, le due libraie Vera Gavrilovic e Olga
Bogdanovic indagano alla ricerca di motivazioni e colpevoli di
questi decessi inspiegabili, ma la soluzione dell’enigma sarà
inaspettata e imprevedibile, al limite del paradossale e metafisico.
Sullo sfondo della capitale serba, ai giorni nostri, in giornate
autunnale e piovose, scorrono sensazioni di déjà lu, immagini
oniriche ed incubi surreali; scaffali di libri come montagne
sovrastanti occupano le pagine del romanzo. La libreria, la sala da
tè in cui si consuma un cerimoniale tanto raffinato quanto
orientale, in un’atmosfera di esalazioni di essenze che
sovrapponendosi inebriano, l’edificio di medicina legale grigio e
cupo, oltre un’alta recinzione, una villa segreta, luogo d’incontri
di una setta di incappucciati, tutto secondo un sistema rigido
proprio di un ordine segreto, sono gli ambienti in cui si muovono i
personaggi della storia. Tema dominante è la letteratura e i suoi
rapporti intercorrenti con l’autore: dov’è il confine tra
immaginazione e realtà? In una fascinazione misteriosa si dipanano
sogni e fantasia.
Sulla superficie della letteratura, della cultura libresca e
dell’amore per la scrittura, l’autore inventa una storia dal
sottofondo scuro e criptico. Il libro e il suo ambiguo contenuto di
verità e menzogna diventa un sortilegio che confonde e spiazza. Lo
stereotipo dell’equazione: giallo uguale bassa letteratura è da
Živkovic superato; l’alta letteratura non si nutre di generi
letterari, li travalica!
In uno stile alto, fascinoso e scorrevole, il romanzo s’incentra su
un’idea vincente, un’emozione, un’invenzione godibile e fruibile per
tutti quelli che amano le buone letture.
L’Autore: Zoran Živkovic è nato
nel 1948 a Belgrado dove vive con la moglie e i due figli gemelli.
Ha compiuto gli studi di filologia e teoria della letteratura
all’università della sua città. Ha pubblicato diciotto volumi di
narrativa e cinque di saggistica, con i quali ha vinto numerosi
premi, in patria e all’estero. Le sue opere sono tradotte in molti
Paesi tra i quali Danimarca, Francia, Germania, Giappone,
Inghilterra, Olanda Russia, Spagna, Stati Uniti e Ucraina.
Il suo blog è zoranzivkovic.wordpress.com.
Arcangela
Cammalleri
Il deserto dei tartari di
Dino Buzzati Mondadori Editore
Narrativa romanzo
Collana Oscar scrittori moderni
L’attesa
Dino Buzzati,
giornalista e scrittore, nei suoi romanzi fugge dalla realtà per
fornirci una visione onirica della stessa, entrando a far parte, con
pieno merito, della elite degli autori del genere fantastico. Il
ricorso alla metafora per esprimersi raggiunge in lui vette eccelse
e del resto la sua opera più celebre, Il deserto dei tartari,
cosa è se non una metafora della vita degli uomini, sempre in attesa
di un evento che non sanno nemmeno immaginare e che finirà con il
concretizzarsi sempre nella morte?
E’ ciò che accade al tenente Giovanni Drogo, protagonista di una
vita che potremmo definire anche non vita e che arriva come sua
prima destinazione alla Fortezza Bastiani, l’estremo avamposto
dell’impero, oltre il quale si stende una landa deserta, del tutto
inanimata.
In un lontano passato lì correvano a briglia sciolta i tartari,
durante le loro incursioni, ma ora non c’è che silenzio e invano
tutta la guarnigione attende di veder comparire un ipotetico nemico,
in uno scorrere monotono del tempo che finisce con il segregare i
militari, per renderli prigionieri di se stessi, come giocatori
accaniti di carte sempre fiduciosi nel colpo della loro vita.
Benchè Drogo arrivi alla fortezza convinto di restarvi per poco,
piano piano viene ammaliato da quell’atmosfera di tempo sospeso e,
se da un lato, ci sono i buoni motivi per essere destinato altrove,
dall’altro più pressanti, più forti sono le inconsce ragioni per
rimanere.
In una vita in cui tutto è ripetitivo e regolato dalla struttura
militare il giovane tenente si assopisce nel sogno di una prossima
calata dei tartari, in battaglie in cui coprirsi di gloria, vivendo,
di fatto, due vite, ma alla fin fine non vivendone nessuna.
Solo dopo 15 anni di permanenza si accorgerà del tempo trascorso, di
quella giovinezza appassita nel nulla e sfuggitagli di mano “la
prima sera che fece le scale un gradino per volta.”.
E’ troppo tardi per ricominciare e del resto la malìa della
fortezza, se lascia squarci di lucidità, è solo perché, nella
consapevolezza di non poter rimediare, ravviva il sogno per il quale
restare.
Passano altri anni, Drogo invecchia e proprio quando sta per
lasciare quel luogo, minato da una grave malattia, per ironia della
sorte il deserto si anima e i tartari attaccano.
Il tenente morirà in solitudine, nella camera di un’anonima locanda
della città, cercando tuttavia di comprendere il senso della sua
vita. E così si convince che l’autentica missione, quella suprema,
è quella a cui sta andando incontro e in cui proverà tutto il suo
valore; affronterà così la morte con dignità “mangiato dal male,
esiliato tra ignota gente”. Ha combattuto una sola battaglia,
quella autentica, da cui non si esce mai vincitori, ma grazie alla
quale, pur vinti, è possibile dare un senso anche ultraterreno a
tutta un’esistenza.
“La porta della camera palpita con uno scricchiolio leggero.
Forse è un soffio di vento, un semplice risucchio d’aria di queste
inquiete notti di primavera. Forse è invece lei che è entrata, con
passo silenzioso, e adesso sta avvicinandosi alla poltrona di Drogo.
Facendosi forza, Giovanni raddrizza un po’ il busto, si assesta con
una mano il colletto dell’uniforme, dà ancora uno sguardo fuori
dalla finestra, una brevissima occhiata, per l’ultima sua porzione
di stelle. Poi nel buio, benché nessuno lo veda, sorride.”
Dal romanzo,
pubblicato nel 1940, è stato tratto nel 1976 un bellissimo film
diretto da Valero Zurlini.
Da leggere il
romanzo, perché è stupendo, e da vedere il film, perché è una
pellicola di grande pregio.
Dino Buzzati Traverso nacque
a San Pellegrino di Belluno il 16 ottobre 1906 e morì a Milano il 28
gennaio 1972. Scrittore, giornalista e pittore è autore dei seguenti
romanzi: Bàrnabo delle montagne, Il segreto del Bosco Vecchio, Il
deserto dei Tartari, La famosa invasione degli orsi in Sicilia, Il
grande ritratto, Un amore.
Renzo Montagnoli
Opera settima
- L’Equinozio del tempo –
di
Davide Vaccino
Prefazione dell’autore
A cura di Enigma Divì
Collana Autori contemporanei Poesia
La poesia di Davide
Vaccino è permeata da un profondo pessimismo, che muove da una
visione malinconica della vita, come se l’autore si chiedesse
continuamente che logica c’è nel condurre l’esistenza fra le poche
gioie e i molti dolori per concluderla poi inderogabilmente con il
passaggio di quella porta oscura oltre la quale non vi sono
certezze, ma al più speranze.
Già in Presenze e Assenze, edito dal Foglio
Letterario, avevo riscontrato questa caratteristica, che trova
conferma ulteriore in questa Opera Settima – L’equinozio del
tempo - , come del resto precisa Vaccino nella prefazione da
lui stesso stilata.
Il problema esistenziale, che è di tutti, in questo poeta assume una
veste di particolare drammaticità al punto che vive proprio solo di
esso e questo fa sì che a volte possa apparire anche un po’ cinico,
ma è solo una parvenza, perché quel flusso di angoscia sottile che,
racchiusa nel suo animo, permea i versi non è frutto di uno sguardo
disincantato, bensì di un deluso che, nonostante tutto, cerca ancora
la sua illusione (…/ ché il Paradiso / può aprirsi a
chiunque, / si dice, / e, dunque, io, mi ergo / a Cristo in Croce.).
E il pessimismo si accompagna a momenti di scoramento, come se la
visione di un buio incipiente venisse stretta nella morsa delle
tenebre (…/ Il mio albero, ora, / è un frutice spoglio.)
.
Eppure, fondamentalmente, il poeta è legato alla vita, certamente
insoddisfacente, pessima, incongruente, irreale nella sua realtà,
non rispondente al suo anelito, ma per lui è motivo di confronto, è
occasione per analisi interiore, è passaggio nel deserto, ma è ciò
che si trova per le mani e che se non riesce ad assaporare, è
comunque tutto ciò che possiede, unico bene, unico dolore
(…/si capisce d’essere vivi / quando viene la Sera.) (…/Seppellitemi
con una poesia / scritta in momenti gioiosi / che narri di giorni
felici / che narri di giorni felici /…).
Non a caso poi le liriche sono precedute dall’aforisma di un altro
autore, che dalla vita ebbe ben poco se non la soddisfazioni di
esprimersi in poesia a livelli eccelsi; sono dell’opinione che
queste poche parole siano idonee, molto di più delle mie, a
delineare, in breve e con precisione, la poetica di Vaccino.
Giovanni Pascoli, uno dei miei poeti preferiti, infatti scrive:
Confessa, / che è mai la vita? / E’ l’ombra / d’un sogno fuggente.
Opera settima non è un ombra, ma raccoglie la
penombra di un animo, lo sfogo di un poeta in cerca di sé.
Da leggere, senz’altro.
Davide Vaccino,
Cavaliere della Poesia, Cavajer ëd le Tradission, nonché Medaglia
d’Argento e di Bronzo conferitegli dal Presidente della Repubblica
Giorgio Napolitano, è nato a Vercelli l’otto settembre del 1970.
Nella sua carriera artistica, iniziata nei primi anni Ottanta, a
soli 9 anni e concretizzatasi professionalmente intorno alla metà
dei Novanta, l’Autore piemontese ha conseguito 95 Onorificenze,
Premi e Riconoscimenti.
Un referendum promosso nel 1998 dal quotidiano “La Stampa” ha
indicato Vaccino fra i quattro personaggi vercellesi più apprezzati.
Numerose sue liriche sono state tradotte in inglese, francese,
spagnolo, tedesco e in vari dialetti nazionali, diventando oggetto
di studio in diverse scuole ed università europee, venendo anche
pubblicate su almeno 20 antologie italiane e straniere; inoltre, dal
1999 ad oggi Davide Vaccino è organizzatore, insieme a tre
Amministrazioni comunali, del prestigioso Premio di Poesia “Albano
Greggio Oldenico”, di cui è mente e Presidente di Giuria.
Ha pubblicatole sillogi:
1996:
- Frammenti di Pazzia.
1999:
- Benvenuti nel Crepuscolo.
2001:
- Passaggi: Canti di Demoni e di Dei.
2004:
- Alba Priméva.
2006:
- Le Catacombe dell'Anima.
2008:
- Presenze e Assenze.
2010:
- Opera Settima - L'Equinozio del Tempo
Renzo Montagnoli
24/08/2010
Il fuoco nel mare di
Leonardo Sciascia Adelphi Edizioni
www.adelphi.it
a cura di Paolo Squillacioti
Narrativa racconti
Collana Biblioteca Adelphi
Contrasti
insanabili
I libri di racconti
non hanno mai avuto in Italia una particolare fortuna, il che,
soprattutto nell’epoca attuale, in cui il tempo è sempre breve,
appare alquanto illogico. Leggere poche pagine che avviano e
concludono un discorso è fattibile in ogni circostanza, durante un
viaggio in treno o anche fra un bagno e l’altro nel corso delle
vacanze. Eppure il racconto, lo scritto breve ha sue valenze
particolari, ma richiede una capacità di sintesi che non è propria
di tutti gli autori. E poi è ancor più difficile coniugare lo svago
con la profondità del discorso, con quelle riflessioni imposte da un
angolo di visuale che potremmo definire a 360 gradi. Sciascia ci
riesce benissimo e questa raccolta di brani realizzati per lo più
fra il 1956 e il 1970, oltre a essere godibilissima, ripropone in
modo chiaro le ben note qualità dello scrittore siciliano. La fine
analisi psicologica, non disgiunta da una attenta indagine
sociologica, conducono per mano il lettore a una rivisitazione della
Sicilia, ma per estensione, soprattutto dei difetti, dell’intera
Italia.
Del resto, sono brani tutti percorsi dalla sottile ironia di
Sciascia, teso a evidenziare i contrasti di un’isola dove luce e
buio riescono a convivere, dove, appunto, è presente Il fuoco
nel mare, il titolo dell’ultimo, una straordinaria favola in
cui la metafora appare lucida, pregnante, densa di quel significato
che è tanto caro all’autore.
Ma c’è posto anche per le miserie umane, come quella di Calcedonio
Fiumara, divenuto ricco nel tempo al pari del suo egoismo e che teme
la morte solo per la fine che possono fare le sue fortune, che non
dovranno dare gioia a chi le avrà, come gioia non ne ha provato mai
nemmeno lui. E che dire poi di Una storia vera, una di
quelle cronachette che nelle mani di Sciascia si dilatano fino a
diventare l’emblema di un popolo che crede ai marziani e non sa che
cosa sia la mafia.
Nell’analizzare quel presente, nel ripercorrere comuni vizi, si
legge poi il futuro, cioè l’oggi, con una denuncia implacabile della
classe politica, in eterno contrasto fra l’apparire e l’essere, una
nota ben presente nella visione del mondo da parte di Sciascia e
immancabile in tutte le sue opere.
Sono racconti che sembrano non percorsi da un filo comune, ma
invece, letti tutti, apparirà in tutta la sua evidenza il perché
possa esistere il fuoco nel mare, il perché si possa essere tutto e
il contrario di tutto, in un’analisi attenta, per nulla greve,
inconfondibilmente sciasciana.
Da leggere, senza alcun dubbio.
Leonardo Sciascia
(Racalmuto, 8 gennaio 1921 – Palermo, 20
novembre 1989). E’ stato autore di saggi e romanzi, fra cui: Le
parrocchie di Regalpietra (Laterza, 1956), Il giorno della
civetta (Einaudi, 1961), Il consiglio d’Egitto (Einaudi,
1963), A ciascuno il suo (Einaudi, 1966), Il contesto
(Einaudi, 1971), Atti relativi alla morte di Raymond Roussel
(Esse Editrice, 1971), Todo
modo (Einaudi, 1974), La scomparsa di
Majorana (Einaudi, 1975), I pugnalatori (Einaudi,
1976), Candido, ovvero Un sogno fatto in Sicilia (Einaudi,
1977), L’affaire Moro (Sellerio, 1978), Il teatro della
memoria (Einaudi, 1981), La sentenza memorabile
(Sellerio, 1982), Il cavaliere e la morte (Adelphi, 1988),
Una storia semplice (Adelphi,
1989).
Renzo Montagnoli
2370872010
pannALimone
di
Tinti Baldini e
Flavio Zago
Note critiche introduttive
di Marcello Plavier e Maria Cristina Vergnasco
Autorinediti
www.autorinediti.it
Poesia
Dolce e
aspro
Strana raccolta di
poesie, strana anche perché non è frequente che due autori si
mettano insieme per scrivere a tema, uno indipendentemente
dall’altro o anche congiuntamente.
Peraltro, già il titolo, con cui si coniuga la candida e per lo più
dolce panna con il giallo e aspro limone, lascia propendere a un
modo diverso di affrontare e svolgere le tematiche, in un contrasto
di visioni, acuito dall’asprezza che si accompagna alla quieta e
serafica visuale delle cose.
Così, come nel caso dell’amore, alla veemenza di Tinti (Amami
ancora / con nocche scarne / e rughe di taglio /…) si
contrappone la soavità di Flavio (Per te sarei grano, / per
inventarti valle; / mi farei madre / per ambirti figlia, /…).
Questioni di indole, indubbiamente, ma è evidente che panna può
essere benissimo Zago, mentre il limone meglio si addice a Tinti.
Sarà proprio così? Propendo per il sì, perché, pur non avendo mai
letto nulla prima di Flavio, conosco bene la poetica di Baldini, in
cui a volte lo sdegno quasi iroso prevale in modo marcato, animando
i versi di un impeto travolgente.
Tuttavia, a complicare le cose, figurano anche alcune poesie scritte
insieme, in cui l’amalgama fra panna e limone porta a risultati che
vanno oltre le aspettative, come in Il tuo mare (Vivi
il tuo mare, / possente di creste / schiumate / e fluenti / seriche
pieghe, / ornate di suoni / struscianti / e sferzate / su rive
d’attese / in granelli di credo /…). Ecco così che l’aspro
si stempera, pur senza perdere il suo originario gusto, così come il
delicato si irrobustisce, conservando comunque la sua indole
caratteristica.
E’ evidente che questa esperienza di scrittura e di pubblicazione,
tutta tesa ai contrasti, può far perdere di vista l’analisi
indipendente, autonoma di ogni singolo testo, e questo è da evitare,
proprio per assaporare il gusto pieno, che sia aspro o che sia
dolce, portato dai versi, liberi, anzi sciolti, tesi al risultato di
evidenziare il messaggio, pur senza scadere nella banalità o
comunque nella quotidianità dell’espressione (In questa notte
/ solitaria di suoni / canta tu solo / al mio orecchio / canta in
ardente fuoco. / …) (… Anche la stanza canta /
all’unisono / col nostro fiato / si strugge, / confonde, ci cinge /
e / incanta.).
Da leggere, con calma e attenzione.
Tinti Baldini
Di origine langarola,insegnante in pensione, due figli e
due nipotine, già nel percorso di docente, nei laboratori di
scrittura creativa, con i ragazzi ho cominciato a buttare giù
emozioni e le è diventato indispensabile,fa parte di lei. Ha
pubblicato una silloge "Segni"con Altromondo editore e molte poesie
sono su blog di amici cari. Nella raccolta"Panna al limone"si è
cimentata a specchiarsi in un altro e al riguardo ha dichiarato che
è stata una esperienza molto stimolante.
Flavio Zago
Di sé dichiara che scrive da sempre, non seguendo stili
ma concedendosi al momento.
Ama la semplicità e questo ricerca nelle sue composizioni, che ha
iniziato a far conoscere nel 2002, pubblicandole sul sito Internet “Poetare”
e successivamente sul suo blog
Cantiere Poesia.
Renzo Montagnoli
18/08/2010
Fiume pagano di
Laura Costantini e Loredana Falcone
Historica Edizioni
www.historicaweb.com
Introduzione delle autrici
Foto di copertina e di quarta
di Maurizio Distefano
Narrativa romanzo
Vestali in giallo
Questa volta le due simpatiche narratrici romane hanno voluto
giocare in casa, in una città eterna in cui il desiderio di alcuni
di rivederla come Caput mundi si confonde con la nebbia di un
febbraio che ricorda un po' Milano.
La scelta del luogo di residenza, imposta peraltro dalla tematica,
ha giovato indubbiamente alla narrazione, con la riscoperta di
aspetti meno turistici di Roma e più pregnanti per la sua
popolazione.
Accadono cose strane in quei giorni di carnevale, con clochard che
si buttano giù dai ponti, affogando miseramente nel Tevere, indotti
al suicidio da una misteriosa figura femminile, una donna velata che
aspira a restaurare il culto per la dea Vesta. Se consideriamo poi
che esiste un'associazione culturale, la Brigata Coclite, che si
prefigge di rivalutare il ruolo di Roma, offuscato dal Papato, ci
sono tutti i motivi per pensare che stia divampando un
neopaganesimo.
I suicidi si susseguono, senza che riescano a venire a capo
dell'indagine un simpatico giornalista, Nemo Rossini, e un
maresciallo dei carabinieri, Quirino Vergassola. Ma è interessata
anche un'altra persona, Monica, bella, ricca, che opera nel
volontariato a sostegno dei senza tetto, soprattutto per cercare il
padre, fuggito da casa quando ancora lei era piccola e diventato uno
di quei diseredati.
Combattuta fra due uomini, il portiere Claudio e Attilio, il capo
della Brigata Coclite, finisce con il diventare l'effettiva
protagonista, pur senza che gli altri che ho nominato si limitino ad
essere dei semplici comprimari.
La scrittura veloce, i continui colpi di scena, alcuni argomenti di
estremo interesse appena sfiorati per non intaccare l'agilità della
narrazione risultano godibilissimi, facendo passare un po' in
secondo piano la ricerca del colpevole, che ho capito peraltro chi
era già a metà libro, senza tuttavia che ciò facesse venir meno la
mia attenzione per il romanzo.
Credo che le autrici abbiano inteso soprattutto fornire un'opera di
agevole e piacevole lettura, un giallo con cui trascorrere alcune
ore in spiaggia sotto l'ombrellone o in casa, accomodati in
poltrona, cullati dall'aria condizionata.
Nonostante ciò hanno voluto inserire elementi tipici di altri
generi, in un curioso e riuscito cocktail che amplifica i potenziali
lettori.
Così, chi ama le storie d'amore o per chi si appassiona a vicende di
figli che desiderano ritrovare i genitori qui troverà pane per i
suoi denti. Non manca anche un po' di horror, considerato che i
suicidi hanno marchiato a fuoco sul petto alcune lettere latine, che
sono sillabe di Animula vagula blandula, la poesia scritta in punto
di morte dall'imperatore Adriano. Magari c'entrano poco con la
vicenda i bellissimi versi, ma sono una nota che impreziosisce il
romanzo e fa conoscere a quei lettori che l'ignoravano una delle più
belle liriche, non solo dell'antichità.
Non aggiungo altro, se non la raccomandazione di leggerlo, perché ne
sarete soddisfatti.
Laura Costantini e
Loredana Falcone scrivono insieme da
più anni di quanti piaccia loro ricordare. Un sodalizio nato sui
banchi di scuola e mai interrotto, nonostante impegni familiari e
professionali.
Laura Costantini ha intrapreso la carriera di giornalista.
Loredana Falcone quella non meno irta di difficoltà della mamma.
Laura Costantini ha spaziato dai quotidiani (Il Secolo XIX) ai
settimanali (OGGI, CHI, GENTE) per approdare nel 2003 nella
redazione del programma di RaiUno LA VITA IN DIRETTA. Ma trova
comunque il tempo per continuare a seguire, insieme a Loredana, i
sentieri della fantasia.
Madri letterariamente parlando fecondissime, Laura e Loredana hanno
dato ai loro romanzi un centro di gravità permanente: le donne.
Ognuno dei loro libri nasce, cresce e si sviluppa sempre intorno a
figure femminili che vengono esaminate, amate, sviscerate attraverso
epoche e ambientazioni le più diverse.
Renzo Montagnoli
16/08/2010
La rizzagliata
di Andrea Camilleri Sellerio
Editore Palermo
Narrativa romanzo
Un quadro,
realistico, dello squallore attuale
Povera Italia,
verrebbe da dire giunti all’ultima pagina, ma sarebbe più opportuno
concludere con un poveri noi.
La rizzagliata,
infatti, è un giallo alla Sciascia in cui si rappresenta il diffuso
cinismo che sembra soffocare ogni giorno di più quello che un tempo
veniva chiamato Il bel paese.
Non troviamo il commissario Montalbano e questo giustamente, perché
la denuncia di Camilleri di un’insieme di cose quotidiane a cui
ormai ci siamo quasi assuefatti esula da quello che è il semplice
romanzo giallo che vede protagonista il simpatico poliziotto (anche
se a volte pure lì ci sono allusioni nemmeno tanto velate ai mali
attuali). La rizzagliata non è stato scritto per divertire il
lettore, ma per avvertirlo, per mostrargli il degrado in cui è
immerso e di cui sovente ha solo una vaga consapevolezza. In questo
senso può essere anche considerato un romanzo storico, pur
nell’ambito di personaggi di esclusiva fantasia, ma il mondo
rappresentato, le connivenze e le furberie, gli interessi solo in
apparenza contrapposti costituiscono un preciso atto d’accusa a una
classe, quella dei politici, che vive una realtà tutta sua, in una
sorta di limbo infernale le cui manifestazioni esteriori sono di
pubblico dominio, una sorta di rissa in cui gli altri- cioè il
popolo - sono ridotti al rango di semplici spettatori.
Se è vero che la rizzagliata è una rete da pesca da cui il pesce
difficilmente può scappare, è altrettanto vero che è pressoché
impossibile sfuggire alla rete che il potere politico, economico e
mediatico costruisce attorno a una persona. Nel libro c’è una
costruzione siffatta che, nella sua individualità, può essere
tuttavia estesa all’intera collettività, impotente di fronte a un
accerchiamento di forze che di fatto ha addormentato le coscienze e
nauseato, fin quasi allo sfinimento, chi ancora ha occhi per vedere.
In particolare, nel romanzo l’intreccio esistente fra gli organi di
informazione, potere politico, potere economico e potere mafioso
portano a un profondo senso di disgusto che è la prova certa di
quanto la decadenza a tutti i livelli, compresi quelli familiari,
stia corrodendo gli animi, in un trionfo dell’amoralità, in cui
tutto viene fatto senza il benché minimo esame di coscienza. E
poiché nell’uomo sono naturalmente presenti il male e il bene, nel
ridursi ai più bassi istinti finirà sempre con il prevalere, senza
battaglia, il male.
Camilleri questa volta ha inteso scrivere un romanzo più impegnato,
ha lanciato un grido, per non dire un urlo che chissà se sarà udito.
Indubbiamente si nota nello scritto quanto la questione gli stia a
cuore, c’è insomma una sua partecipazione emotiva che nuoce un po’
all’equilibrio del testo (o forse questo mondo di pazzi, così ben
descritto, è squilibrato per sua natura).
La rizzagliata
è un piatto freddo, per non dire gelido, un’unica portata per un
popolo che sembra non avere più fame di verità. Eppure, a Camilleri
va un plauso per la sua incrollabile tenacia che lo porta a
condurre, nonostante l’età avanzata, una battaglia che sembra persa
in partenza.
Tanto di cappello, quindi, con la speranza che chi leggerà questo
eccellente romanzo possa comprenderlo nel suo autentico significato,
risvegliando magari una coscienza da troppo tempo sopita.
Andrea
Camilleri nasce a Porto Empedocle (Ag) nel 1925.
Scrittore particolarmente prolifico, ha pubblicato, fra l’altro,
oltre a tutta la serie con protagonista il commissario Montalbano,
Il corso delle cose (1978), Il birraio di Preston (1995), La
concessione del telefono (1998), La scomparsa di Patò (2000), Il re
di Girgenti (2001), Le inchieste del commissario Collura (2002), La
presa di Macallé (2003), La pensione Eva (2006), Il colore del sole
(2007), Le pecore e il pastore (2007), Pagine scelte di Luigi
Pirandello (2007), Maruzza Musumeci (2007), Il casellante (2008), La
vuccina (2008), La tripla vita di Michele Sparacino (2009), La
rizzagliata (2009).
Renzo Montagnoli
02/08/2010
In ascolto
raccolta poetica di
Maristella Angeli
MEF
L’Autore Libri Firenze 2010
http://www.firenzelibri.com/libri/9788851721008.html
Già dal
titolo si evince ciò che emerge, entrando pian piano, a passi
delicati, nella lettura delle poesie di Maristella;l’attenzione
all’altro, alla natura, al mondo tutto, in ascolto, con amore.
L’autrice, nella presentazione, spiega al lettore“perché scrive” e
lo racconta poi magistralmente, con passione, in modo naturale,
senza veli né orpelli in alcuni testi della raccolta che sono
emblematici: poesia …è chiaro il bussare in testa, quell’idea che
passa e vuole uscire…, è riconoscimento di intenti di chi scrive e
“sente la vita”, è come creare una sinfonia in “note di parole...
che compongono melodia” (la sua storia di pittrice e amante della
musica sempre si scorge e se ne sente tocco e suono), poesia è sole
al mattino che apre il giorno…, la voce del poeta tutto tocca e
soffre, … tuona il petto… mentre veglia la luna… e il viandante
poeta sogna il ritorno alla sua terra… tali versi sono sparsi nella
raccolta ,come se, ogni tanto, l’autrice volesse tornare all’origine
della sua passione, spiegare attraverso emozioni e metafore a volte
raffinate, a volte dolci di bimba e quasi tangibili, la sua spinta
incontenibile e pressante a scrivere versi.
Tra le
tante poesia sul tema una in particolare.
La prima
poesia della silloge, mi pare, essere una sintesi eloquente, chiara
della sua poetica “scoprire il silenzio sovrastando voci
inquietanti… ” con quella grazia di uccello che vira sull’ala, che è
sua propria e le dà valenza di poeta autentico.
Ascolto
ed attesa in armonia sono il filo conduttore di tutta l’opera e non
vengono mai meno, sono la scena del suo poetare e le emozioni sono i
protagonisti, sono il tessuto intimo, danno timbro e voce all’opera
tutta.
“Attesa”
per esempio parte da un suono quasi impercettibile di fruscio di
foglia fino al galoppo di puledro che scalpita in crescendo di
movimento, immagini ed
emozioni…
e attesa ancora in speranza quando “appoggia il pensiero” (splendida
immagine) e ascolta il cuore che batte perché il cuore vuole che lo
si ascolti . L’ascolto continua lineare, morbido, senza scatti,
seguendo la sua musica e il suo pennello che accompagnano pensiero e
anima, un ascolto con sentimento sorpreso a volte, sospeso altre,
nitido e fulgido poi, nelle chiuse, sempre di apertura e luce,
sempre “alte”.
Poi si
delinea, con colori tenui, il passaggio all’amore in “Come pulsar”
l’amore/il primo ti amo/dalle labbra sgorgato/come pulsar da anni
luce proiettato”, da oltre il tempo , sempre nell’aria, solo da
cogliere. E’ un invito di Maristella, quasi un dolce soccorso al
lettore affinché viva la sua gioia, ne faccia parte. Narrando
l’amore poi l’autrice diventa bambina con il naso all’insù ed
esplodono colori, profumi e suoni del ricordo …
O “Il
bacio” oppure “Sipario privato” o “Sentimento d’amore” o “Come
ciondolo di baci” amore che pervade tutta la silloge e mi pare si
riassuma magicamente in amore universale con “se la luna ti guarda
imbronciata, richiama la tua stella con un ultrasuono del cuore” e
trascina oltre.
“Interstizi di terra” è poesia sulla stessa lunghezza d’onda, quella
dell’ascolto amoroso, pacato e fulgido ad un tempo anche verso la
morte (al buio che chiude gli occhi).
Ecco che
Maristella, Emily oggi, diventa nuvola che si racconta, si veste di
rosa ,di piccole ciabattine e dà libero sfogo alla fantasia, al
sogno puro e cristallino oppure personifica in modo inusuale,
originale gli elementi naturali che parlano e ci ascoltano.
Oppure il
telefono che, in “Duetto d’amore”, soffre per esser solo strumento
passivo..
Vi sono
poi numerose poesie “sociali” come “Oscurità” ”Guerre” ”Emigranti”
“Stupro”(che chiude la silloge, quasi un monito al mondo, scarno
come freccia lanciata e arrivata a segno) e altre che troverete nel
percorso di lettura in cui l’autrice rivolge uno sguardo amoroso ma
vigile, attento e giudice, quando si trova dinnanzi l’invidia,
l’ingiustizia, la meschinità, l’arroganza e il sopruso. Passa nei
suoi versi il dolore di fronte a chi lascia la sua terra con la
valigia gonfia di sudore e di attesa spesso disattesa.
In
“Accordi di vita” ecco l’armonia, la musica dentro, la vita… oppure
in “Il canto dell’anima” il sax accompagna e cerca , con l’autrice,
senza stridore , la propria essenza.
“Monte
dei pegni”, a mio avviso, è poesia emblematica , di forte spessore
in cui Maristella si sofferma con malinconia sui ricordi che spesso
sono “lama”, rimpianto e rimorso mentre in altri testi il ricordo è
un soffio nuovo, ritrovato che dona al passato un senso di
rinascita, un “approdo” in cui il tempo quasi purifica.
Con
pennellata delicata, mai stridente né invasiva, Maristella tocca
anche il tema della vanità, della vita senza ideali, dell’immagine
innanzi tutto senza sostanza senza “vita interiore” per esempio in
“bambola ” ove la metafora della bambola in vetrina riporta a quella
di tante donne senza vita dentro, esposte, senza sorriso oppure
nell’osservare le sbarre che tolgono il libero volo agli uccelli
come all’uomo.
Vi sono
poi alcune poesie descrittive sulla natura come “Autunno” “Pioggia
“Primavera” che fanno parte del senso del tempo, dello spazio
dell’autrice, morbido ,ovattato: è suo territorio il mondo tutto da
osservare senza rovesci né sbavature, con occhio d’artista. Immagini
come scatto di foto, suggestive sono “Todi” “La foglia” “Donna” “Gli
artisti” “L’anziana signora” e altre ancora che troverete nel vostro
percorso di lettura (infatti, credo, che ognuno, dopo la prima
scorsa, si faccia nella mente una corsia preferenziale e parta da…
poi ritorni a… , poi cerchi, poi raccolga…con Maristella è d’uopo,
tanti sono gli stimoli e le emozioni che offre)
Altro
tema ricorrente è quello del sogno, del volo della fantasia in cui
Alice-Maristella trova quiete, naviga solitaria e vince il male con
l’amore che accoglie
tra le
braccia.
Proprio
in questa poesia, a mio parere, vi è la sintesi lirica della visione
del mondo dell’autrice: anche se il suo sguardo amico e dolce,
sensibile e profondo vede il dolore e lo soffre, è la forte spinta
interiore salda e positiva, armoniosa e forte ad un tempo che la
salva, la porta in alto e purifica l’anima. Nei suoi versi si sente
un odore di buono, di pulito che consente, anche dopo la tempesta e
la caduta, il lutto e la sofferenza, la rinascita. In “Bagagli di
vita” poi l’autrice ci porge dolcemente ,senza “spingere”, con
amore, la sua ricetta: non tradire sogni, speranze, ideali mai.
“Mistero
limbico “offre invece un giudizio originale, una metafora inusuale
ma autentica e condivisa: il tempo passato rimbrotta il male
nell’oggi in modo esemplare in quanto è lo sguardo della natura che
ci insegna e ci parla nel divenire della vita .
La
poetica di Maristella, come già ho evidenziato nel rapido excursus
sulla silloge, è
una
poetica profonda, che tocca molti aspetti del vivere e dell’essere
affidandosi ad un registro “intimo” legato alla gioia comunque del
vivere, all’apprezzamento della vita utilizzando versi che hanno
colore, calore, profumo di un fiore unico. Lo stile consono ai temi
è lieve, fresco, non artificioso mai, spesso d’essenza pur avendo
dietro riflessione, sensibilità e forti emozioni e corrisponde al
linguaggio dell’autentico ascolto.
Vale la
pena leggere “In ascolto” in quanto, poi, ci si sente meno soli, più
buoni e si acquista coraggio e spinta a rinascere. E’ un libro da
gustare tutto di un fiato o da centellinare pian piano. Sta a voi la
scelta.
Grazie a
Maristella!
Maristella Angeli,
è nata a Foligno (PG) e vive a Macerata. Ha pubblicato Alla
ricerca del proprio corpo (saggio) e le sillogi poetiche
Gocce di vita, Specchi dell’anima, Tocchi di
pennello e In ascolto. Ha insegnato Educazione Fisica e
presta servizio, da molti anni, come docente di Sostegno. Ha
frequentato corsi di mimo e recitazione, partecipando a
rappresentazioni teatrali nazionale e internazionali. Ha partecipato
a numerosi concorsi letterari, ottenendo primi premi e importanti
riconoscimenti. Le sue poesie sono state selezionate da Elio Pecora
per la rivista internazionale “Poeti e poesia” 2009. Ha conseguito
primi premi in concorsi: 1982 «T. Campanella» Roma, per il libro
edito; Premio Internazionale «Pennello d'oro» Corno Giovine (MI) per
la pittura; 2008 per la poesia: Premio Internazionale «Una terra di
leggende» Parco dei Castelli Romani (RM). E’ giunta quarta al
concorso Internazionale di poesia Città di Torvaianica (RM) 2009. Ha
ricevuto il Diploma di merito per l’Opera «Gocce di vita» e per la
silloge «Tocchi di pennello» conferiti al Premio Nazionale
AlberoAndronico Roma 2008 e 2009. La sua raccolta poetica «Specchi
dell’anima», è stata inserita tra le iniziative per il 5 giugno
Giornata Mondiale Ambiente e sul sito della Regione Marche,
Cultura Marche.
Ha
partecipato ad eventi culturali, alla V, VI VI edizione della mostra
itinerante «Poesia in libertà» Toffia (RI). e sue poesie sono state
pubblicate in antologie, riviste, siti e blog letterari. E' entrata
a far parte del "Club dei 100" Dimensione Autore, Torino(TO).
Tinti Baldini
01/08/2010
Specchi dell’anima
raccolta poetica di Maristella Angeli
Edizioni Progetto Cultura 2010
Maristella Angeli, qui alla
sua terza raccolta, propone una poesia che fa delle emozioni e delle
sensazioni il punto di partenza di una ricerca per una leggerezza e
semplicità dell'esistere.
Uno dei motivi fondamentali da cui scaturisce questa ricerca, di cui
i versi sono lo strumento, è la natura, come rimarcato dalla stessa
autrice nella nota introduttiva. Il gabbiano, Nuvole,
La scogliera, sono solo alcuni titoli esemplificativi di
questa tendenza, che da semplice motivo descrittivo (“l’aria che
sembra impennarsi”, in Occhi che s’incontrano) diventa a
volte un vero e proprio desiderio di identificazione, come nella
lirica Vorrei essere pioggia che disseta: “Vorrei avere
l’energia / dell’acqua […] vorrei avere la leggerezza / dell’aria
[…] vorrei essere rigogliosa / come isola hawaiana”. La natura
spinge alla contemplazione e attraverso questa alla comprensione,
forse, di un equilibrio da cui l’uomo è da tempo escluso.
Con versi liberi, brevi e scanditi, Maristella Angeli cerca da un
lato di evocare queste sensazioni sopite, dall’altro di addolcire il
dolore (il “richiamo sofferente” di un cane che “abbaia la sua
solitudine”, in L’eco risuona) e ricondurre alla quiete i
ricordi, allontanare “il freddo gelo” per trattenere “solo il gusto
e il dolce profumo” che “inebriava la mente” (Inverno). La
forma riflette questa propensione alla quiete, è pacata e musicale,
assonanze e rime sono quasi nascoste, l’andamento dei versi è
lineare e non eccede mai.
L’autrice, delicatamente ma con ostinazione, prosegue con la poesia
un cammino che è prima di tutto esistenziale, consapevole delle
difficoltà ma pieno di speranza. La lirica che chiude la raccolta (Valigie)
è significativa di questa attitudine: “dolci parole / stelle / che
non si spegneranno”.
Giuseppe Nava
27/07/2010
Appena finirà di piovere
di Aurelio Zucchi
Global Press Italia, Terni 2010
L’opera prima poetica
“Appena finirà di piovere” di Aurelio Zucchi (Global Press Italia,
Terni 2010) delinea un approccio
orientato a temi di particolare impegno, anche etico, nel non facile
tentativo di decifrare le antinomie esistenziali lungo un crinale
dai precari equilibri.
In questi casi è
ricorrente il rischio di una lettura critica che tenti
interpretazioni psico-sociologiche difficilmente generalizzabili a
partire da vissuti o dall’osservatorio individuale. L’Autore traccia
invece, in uno stile personalissimo, la semplice via del poeta che
vive il suo tempo e cerca di interpretarlo grazie al "grimaldello"
poetico, offrendo nei suoi versi dei "casi" significativi in cui il
lettore potrà trovare le proprie chiavi di lettura o ritrovarsi.
Dovendo
schematizzare, i momenti e moventi nativi sono riconducibili a
pulsioni: che, da un lato, attivano l'io poetante lungo un percorso
introspettivo-memoriale; che, dall'altro, vengono dal mondo esterno
e in particolare dalla condizione umana vista nella quotidianità; e
che, infine, inducono ad una sorta di "ping pong" dagli incerti
esiti tra l'io e l'altro da sé.
L'insieme dei testi
della silloge – anche seguendo la ripartizione in sezioni – ha il
suo “nocciolo duro” in “Io e me” con circa la metà delle liriche.
L’altra metà è rivolta all’altro da sé: primariamente alla natura
con le sezioni “Mare” e “Notte”, poi “Lei” e “Io e gli altri” ed
infine “Lui”, di cui via via si dirà.
Nei monologhi
dell’io poetante, i suoi tormenti sono ben evidenti in liriche quali
“Chissà” (dal significativo incipit: “Chissà se basterà
una vita / per dire poi d’averla ben vissuta”) o “I sogni che
non ho fatto mai”, la cui chiusa è: “E odorano, odorano di rosa,
/ la specie più esclusiva inesistente, / aspettando che almeno li
accarezzi, / i sogni che non ho fatto mai”.
Se va a ritroso lungo sentieri memoriali,
è forte la presa di coscienza che la macina del tempo tritura sogni
e speranze, come in “Stand-by” (“Nasceranno ancora, lo so, / le
sofferenze per gli affetti persi. / Mi stringeranno nella morsa /
del recinto che sarà blindato”) oppure “In sella ad un cavallo
bianco”: “Tra gli insistenti sguardi al mio futuro / e le carezze
del passato prepotente, / ahimé ho smarrito il filo...”.
La fondatezza delle
conclusioni dell'io dialogante con se stesso finisce per avere
riscontro in un puntuale esame di momenti quotidiani, scremandoli di
banalità che appiattiscono encefalografie e elettrocardiografie
comportamentali, per rilevarne invece gli aspetti più dolenti e
laceranti.
Ed ecco che
poeticamente il gioco si fa duro: si va dalle ansie che
paradossalmente possono anche passare inosservate – si veda in “Come
zucchero leccato in una latta”: “Il pane della felicità sempre
lontano, / lungo la strada io l’annuso, l’assaggio / e quando mai
l’inghiottirò?” – a quelle che
lasciano morti sul campo e ferite nell'animo,
come nei versi di “Cerco poesia in questo tempo strano”: “e
splende il luccichio d’indegna vanità / mentre la terra geme,
insieme a me. / Ridatemi il prezzo che ho pagato / per l’illusione
di abitare in pace”.
Non c'è scampo,
allora? E qui, naufrago nel mare esistenziale, il poeta cerca, nel
gioco di rimandi tra sé e il mondo, approdi o appigli, mettendocela
tutta. Quale possibile via salvifica?
Forse l'amore,
quello universale e solidale in “Dell’amore secondo me” da cercare
“tra una bomba e un’altra ancora / tra le polveri delle vite
ignare / o tra sagome d’innocenti in fuga” e finalmente
conquistare perché “è tipo che t’ascolta, / che si
scioglie in mille pezzi e te ne
regala uno. / Non prendiamoci la briga di rimproverarlo, /
dicono che lui ha sempre ragione”. O l’amore
per la letteratura, icasticamente richiamato nella lirica il cui
titolo è esteso all’intera silloge: “Da parte lascerò la
solitudine, / sopra il lavello la caffettiera vuota / e,
fischiettando mezzo pomeriggio, / un libro, aperto al primo
capoverso” quale parte integrante, irrinunciabile, della propria
quotidianità. O ancora l’amore in senso stretto della sezione “Lei”.
Forse il sogno, che si è già visto
affiorare qua e là, sia quello che, nonostante tutto, riesce a
trovare spazio in un fare poesia sempre con i piedi ben saldi a
terra e mai con la testa fra le nuvole, sia quello che, "mixato"
alla fantasia, esplode in forma tra l’onirico e il visionario in “35
agosto 2007”.
Forse la fede, cui è dedicata la sezione
“Lui” con liriche che vibrano d’intensa pìetas.
Forse la poesia,
quale extrema ratio sì, ma non certo
rassegnata scelta, come ben espresso in “Respirare me”:
“implorerò un alfabeto in più / e sceglierò perfetti i suoni / per
ogni cosa di cui io parli”.
In definitiva, come
volevasi dimostrare, l’Autore sceglie la poesia ed il perché è
chiaro: lo fa da poeta sapendo – come scrive in “Tentativi” – che
“La buon’idea / di chi libera il giardino / dalle foglie marce,
corre”. Questo correre è la sua conclusione esistenziale e
poetica.
Aggiungo qualche
altra considerazione. Sotto il profilo antropologico, i versi di
Aurelio Zucchi sono definibili dei "cortometraggi" del quotidiano,
scelti nell'ampia parte di vissuto necessariamente convissuto
insieme ad altri. Ogni giorno è segmentato, in misura più o meno
variabile, da momenti "singolari" – rientranti esclusivamente nella
sfera individuale – e "plurali" che ciascuno, volente o nolente,
deve condividere o comunque convivere. L'Autore disbosca una giungla
di tipologie e comportamenti umani in cui c'è poca condivisione e
molta collisione o almeno il rischio, ma il suo ritrarsi o
partecipare è di volta in volta un giudizio di valore che
esplicitamente dà o suggerisce.
Scrivere versi
intrisi di vita vissuta, attentamente osservata, e dei suoi tanti
aspetti nel bene e nel male è, in ultima analisi, un modo per
esorcizzare le pulsioni dell'inconscio e farne il prezioso uso
indicato da Robert Musil (ne "L'uomo senza qualità"), cioè di
considerarlo "zona d'irresponsabilità della persona cosciente,
donde vengono le fiabe e le poesie".
Raimondo Venturiello
Le due chiese
di
Sebastiano Vassalli
Introduzione dell’autore
Edizioni Einaudi
Narrativa romanzo
Il novecento
italiano in 322 pagine
Quello che può sembrare impossibile a
volte si avvera ed è così che Sebastiano Vassalli ci offre con Le
due chiese un grande e prezioso affresco del XX secolo in
Italia. Giunti alla fine del libro c’è lo stupore di avere letto la
storia del nostro paese in un romanzo scritto con uno stile
innovativo, ma di notevole e rara efficacia.
Gli anni, i fatti, le rivoluzioni, le guerre sono viste in un
microcosmo costituito da un piccolo paese alpino, Rocca di Sasso,
nome inventato come quello della montagna che lo sovrasta, il
Macigno Bianco, ma, conoscendo Vassalli è certo che corrispondono a
entità reali, almeno nelle loro linee generali. E del resto le
descrizioni paesaggistiche sono così puntuali e sicure nel tratto
che non possono che essere il frutto di una visione diretta da parte
dell’autore. E’ assai più probabile, invece, che i personaggi
risultino di pura fantasia, fatta eccezione per il maestro Prandini,
insegnante elementare, socialista, dapprima contro la guerra, poi ad
essa favorevole, tanto che vi parteciperà coprendosi di gloria, e
infine fascista della prima ora, onorevole, sgherro della repubblica
di Salò, condannato poi a morte e fucilato.
In questo protagonista si ravvisano infatti alcuni tratti familiari,
propri di Benito Mussolini, anche se la somiglianza è pur generica,
ma non tanto da non indurre al sospetto (al riguardo basti pensare
che l’amante giovanissima si chiama Clara…).
Quello di Rocca di Sasso è agli inizi del secolo un mondo fermo, in
cui i giorni, scanditi dal ritmo delle stagioni, sono senza
sussulti, con una comunità coesa dallo spirito religioso espresso
non solo con l’assiduità alle funzioni, ma anche con l’edificazione
di templi, che nella zona sono un centinaio. Sopravvivono nel
ricordo degli avi, nelle superstizioni che portano a individuare il
paradiso oltre la cima del grande Macigno Bianco e l’inferno sotto i
suoi ghiacci eterni. Nascite, matrimoni, morti si susseguono con una
monotona regolarità, in una vita dura, di fatiche quotidiane per
contrastare la miseria. E’ vero che ci sono in giro teste calde che
aspirano a una rivincita del proletariato, ma i più sembrano
disinteressati, oppure rassegnati, nonostante che sia stato un
maestro di musica della valle a comporre L’Internazionale.
Sarà la prima guerra mondiale a scardinare per prima le porte di
quest’eremo, con i coscritti che, per supplicare la salvezza della
vita, costruiranno una chiesetta.
Ne torneranno pochi e non tutti integri, ma questi reduci
decideranno di innalzare un altro tempio, come ringraziamento per
averla scampata. Lo spirito però è diverso, perché la guerra ha
cambiato profondamente uomini nel complesso semplici, abituati a un
evolversi secondo antichi stilemi e messi improvvisamente di fronte
alle barbarie di un conflitto e alla paura di soccombervi.
Prandini, pluridecorato, non crede più alla dittatura del
proletariato, ma solo al proprio tornaconto personale, che lo
porterà ad abbracciare il fascismo. In netto contrasto è invece
Ansimino, uomo di cuore che ha nelle mani l’intelligenza, fedele a
se stesso, coerente prima e dopo.
Saranno loro a due a lasciare una traccia, così come nei secoli
precedenti lo erano stati L’Eretico e il Beato << due contrari, in
cui si riassumono e si annullano tutti i possibili contrari di
questo mondo>, come la luce e il buio, il bene e il male.
Terminata la seconda guerra mondiale, a cui in verità Vassalli ha
dedicato poche pagine, nel trionfo del tecnicismo piano piano
scompare Rocca di Sasso, non come paese, ma nella sua atmosfera, con
i templi sempre meno gremiti di fedeli, spesso vuoti di parroci, con
le due chiese, quella dei coscritti e quella dei reduci, abbattute
per far posto a un parcheggio, con la vecchia officina di Ansimino
adibita a Centro culturale islamico
Resta solo il Macigno Bianco, eterno spirito della natura, non
toccato dalla furia degli eventi; alla illusione di una dittatura
del proletariato si è sostituita la speranza più equa e quindi
irrealizzabile di un domani in cui l’Internazionale sarà il
genere umano.
Scritto con grande abilità, venato da una provvidenziale e feconda
ironia Le due chiese è un romanzo imperdibile, la conferma
dell’elevato valore di Sebastiano Vassalli, di cui ho avuto già modo
di apprezzare lo splendido La chimera.
Sebastiano Vassalli
è nato a Genova e vive in provincia di Novara. Presso Einaudi, dopo
le prime prove sperimentali, ha pubblicato La notte della cometa,
Sangue e suolo, L'alcova elettrica, L'oro del mondo,
La chimera, Marco e Mattio, Il Cigno, 3012,
Cuore di pietra, Un infinito numero, Archeologia del
presente, Dux, Stella avvelenata, Amore lontano,
La morte di Marx e altri racconti, L'Italiano, Dio
il Diavolo e la Mosca nel grande caldo dei prossimi mille anni e
Le due chiese.
Renzo Montagnoli
26/07/2010
Dedicato a Lorenzo
di Mara Faggioli
Prefazione di Neuro Bonifaci
Cenni critici di Giovanni Nocentini e
di Lia Bronzi
In copertina "Lorenzo" opera dell'autrice
Edizioni Helicon
www.edizionihelicon.com
Favole, poesie e sculture
Sensibilità e dolcezza
Per uno strano gioco del destino il nipotino di Mara Faggioli è
stato chiamato Lorenzo, come il mio, assai più giovane, essendo nato
il 27 aprile del corrente anno. L'artista fiorentina, che nella
gentilezza ha una delle sue non poche virtù, mi ha fatto avere
questo libro, anche con la convinzione che, con l'omonimia, mi
sarebbe risultato ancor più gradito.
Ciò è stato, anche se la mia valutazione resta indipendente dalla
circostanza.
Dedicato a Lorenzo è un libro strano, perché ricomprende
favole, poesie e sculture, ma lo scopo per cui è stato scritto è
veramente encomiabile, con quella sua ricerca del fermo della
memoria sia per Mara Faggioli, sia per raccontare un giorno al
nipotino quanto a lui potrà interessare del periodo che ha preceduto
il lieto evento.
Questo del ricordo, patrimonio personale da trasmettere ai posteri,
affinché sappiano da dove sono venuti, è indubbiamente un motivo che
dimostra l'attenzione per le radici di ciascuno, indispensabili per
poter iniziare la vita con
l'esperienza altrui.
Fra le favole - ma questo è più un racconto di un fatto realmente
accaduto, anche se la sensibilità dell'autrice tende a renderlo
soffuso di un alone fiabesco - appare di indispensabile lettura
Dedicato a Zahra, presente peraltro su Arteinsieme.
Frutto di un'esperienza di volontariato, appare in tutta la sua
dolcezza come un'apertura dell'animo di una madre, se pur
temporanea, verso una creatura indifesa. Fra l'altro questo brano ha
colto nel segno grazie alla raffinata e per nulla retorica
esposizione di un afflato, tanto d'aver meritato il 1° premio al
Concorso Letterario "L'arcobaleno della vita" e, se pur ex-aequo, al
Concorso Letterario "G.Gronchi".
Analoga valenza hanno le poesie, testimonianza di sentimenti di
madre e di nonna, e anche di figlia, sempre esposti con rara
sensibilità e dolcezza.
E per finire ci sono le sculture di terracotta, visi, figure,
madonne, nelle cui espressioni si riflette limpida quella di Mara.
E' inutile che aggiunga che il libro merita di essere letto, anche
da chi non ha nipoti di nome Lorenzo.
Mara Faggioli è nata a Firenze e
vive a Scandicci (FI).
Ha pubblicato "Dedicato a Lorenzo" (ovvero storia di un
bambino dolce e tenero, molto amato, chiamato "Kom Ombo") -Ed.
Helicon (2001) con prefazione di Neuro Bonifazi.
Nel 2004 ha pubblicato la raccolta poetica "Piuma Leggera" -
Ed. Masso delle Fate con saggio introduttivo di Vittorio Vettori,
vincitrice del 1° premio "FIORINO d'ORO" al Premio Firenze-Europa ed
il Premio "Città di Vienna".
Renzo Montagnoli
17/07/2010
Il Vampiro
La storia segreta di Lord Byron
di Tom Holland
Tre Editori
www.treditori.com
Narrativa romanzo
Poeta e vampiro
George Gordon Noel Byron nasce a Londra il 22 gennaio 1788 e muore
di meningite a Missolungi (Grecia) il 19 aprile 1924.
La fama di poeta è contesa con quella di uomo dissoluto, dal
carattere forte, ma accompagnato da una malvagità che in famiglia
non era cosa nuova, visto che un prozio era soprannominato Il
malvagio.
Peraltro, come riferisce anche la moglie, la sua cattiveria si
rivolge a chi più ama, pur nella consapevolezza di sbagliare. Si
potrebbe dire che il male che portava dentro era più forte di lui.
Su questa base caratteriale, Tom Holland, uno storico inglese che
normalmente scrive di greci e persiani, ha imbastito un romanzo
della sua vita in cui si ripercorrono tutti gli eventi salienti, ma
con una visione fantastica secondo la quale Lord Byron era un
vampiro.
Quest'ipotesi, per quanto frutto di creatività, trova tuttavia
elementi di ipotesi quanto mai abbondanti, anche se rivenienti da
opere letterarie. Il suo medico personale, John William Polidori,
pubblicò nel 1819 il primo romanzo di successo sui non morti,
intitolato appunto Il vampiro. Nel testo il protagonista ha
il nome inventato di Lord Ruthven, ma descrizioni e vicende
sono proprie di Lord Byron. Inoltre Caroline Lamb, amante del poeta
e da questi poi allontanata, diede alle stampe un'altra opera,
intitolata guarda caso, Lord Ruthven, in cui il personaggio
principale è chiaramente il poeta baronetto, descritto in tutte le
sue nefandezze al punto da destare scandalo.
Sulla base di questi scritti e di ricerche effettuate Tom Holland ha
elaborato un romanzo senz'altro avvincente, aderente alla realtà dei
fatti (viaggi, amicizie, turpitudini), da cui esce un Byron
straordinariamente vivo, un'incarnazione del potere assoluto del
male che qui lo trasforma in un vampiro dalle infinite facoltà, in
pratica un vero e proprio monarca dei non-morti.
Può far sorridere questa visione, ma non si possono dimenticare il
rapporto incestuoso con la sorellastra, il fascino perverso che
esercitava sulle donne e anche la sua omosessualità, quest'ultima
più per un'esigenza cerebrale che fisica, anche se non disdegnava
saltuariamente la compagnia di giovani uomini.
La vita di Byron resta comunque un mistero e come se tutto quanto a
lui attribuito non bastasse occorre ricordare che le sue Memorie,
già purgate dallo stesso autore - che al riguardo scrisse "omettendo
tutte le parti davvero pertinenti e importanti, per rispetto verso i
morti, verso i vivi e verso coloro che debbono essere l'una e
l'altra cosa" -, furono poi bruciate dal suo editore per evitare uno
scandalo senza precedenti. Dall'ipotesi che di tali memorie
esistesse una copia prende avvio il romanzo di Holland con la
ricerca del manoscritto da parte di Rebecca, una sua discendente, e
così finisce con l'imbattersi nelle stesso avo, il quale racconterà
la vera storia della sua vita.
La scrittura fluida, una tensione costante che a tratti si accentua,
i rapporti con personaggi realmente vissuti, come il poeta Percy
Shelley e la sua compagna Mary, la sorellastra di quest'ultima
Claire Clairmont, una delle sue numerose amanti, da cui ebbe una
figlia, Allegra, strappata alla madre e morta giovanissima in
convento, la descrizione di un mondo quasi in disfacimento, la
presenza di pagine di chiara ispirazione poetica sono tutti fattori
che, sapientemente accostati, tengono avvinto il lettore, scosso
ogni tanto da sottili brividi quando il male appare in tutta la sua
cieca potenza.
Ne esce in ogni caso una figura di Byron grandiosa e tremendamente
negativa al tempo stesso, animata dalla molla della vanità di
raggiungere e dimostrare l'onnipotenza. Sì, perché un tipo come il
baronetto non si accontentava di essere un vampiro, ma doveva essere
sopra tutti, una specie di Supervampiro. In proposito ricorderò
sempre quella parte del racconto in cui Byron descrive la sua visita
al luogo in cui avvenne la battaglia di Waterloo, con il terreno
impregnato del sangue dei caduti che inizia a ribollire e con gli
eserciti dei deceduti che escono dalle zolle, acclamando in lui il
loro imperatore.
Da leggere, senza ombra di dubbio, perché è un gran bel romanzo.
Tom Holland è autore di romanzi
e saggi storici che hanno vinto importanti premi. Ha adattato Omero,
Tucidite, Erodoto e Virgilio per la radio della BBC. Vive a Londra
con la moglie e le due figlie.
Renzo Montagnoli
15/07/2010
Sputami a mare
(Le voci)
di Stefano Bianchi
Prefazione di Rita M. Astolfi e Guido Lucchini
Postfazione di Alessandro Ramberti
Fara Editore
www.faraeditore.it
Collana Sia cosa che
Poesia
Pace
Scorta appena tra i filari delle viti
intravista nei grappoli succosi
che mi porgi con le dita
e di cui gravi la mia mano
piena di tutto ciò che è
niente.
…..
Le foglie di novembre
Vivo solo di parole
aria e fumo
son le foglie di novembre
sui marciapiedi colorati
dell'autunno.
….
Nebbia
I miei occhi respirano nebbia a pieni polmoni
con tutto il fiato che la bicicletta
mi lascia.
….
Che un poeta veda
diversamente dagli altri è più che mai ovvio, perché l’osservazione
in lui non è mai fine a se stessa, ma è l’inizio di un processo di
spesso inconscia ricerca dentro di sé. E’ così che in poche parole
giunge l’immagine dell’autunno, venata da una malinconia propria
dell’incedere di questa stagione, oppure il velo lattiginoso assume
consistenze materiali, grevità ed affanni che si inspirano
pedalando.
La poetica di Stefano Bianchi, pur inserita nel presente che la sua
ancor non veneranda età giustifica, è però il risultato di
esperienze che sempre accompagnano gli uomini dagli albori della
vita.
A scorrere questi versi, proposti e mai imposti, mi sono sovvenuto
degli Amores di Ovidio; è stato un attimo, un imbarazzo
improvviso, il paragone mi è sembrato eccessivo. Eppure, a pensarci
bene, ci sono comuni elementi, a parte il linguaggio ovviamente
diverso che può farli sembrare distanti anni luce. No, i sentimenti
non sono mutati e il poeta continua a interrogarsi sui perché
dell’esistenza, sull’irrazionalità delle emozioni, oggi, come
allora, incapaci dopo così tanto tempo di dare una definitiva
risposta razionale.
Ma tutto deve essere ridotto a logica? I numeri devono prendere il
sopravvento su di noi? No, fino a quando ci sarà poesia.
Bianchi sposta nel tempo l’espressione delle emozioni, ma si avvale
di iscrizioni antiche, ricorre perfino all’epigramma come in
Frammento ( E’ difficile a volte / stare nel presente / i ricordi ed
i sogni / costano meno).
Verrebbe da dire che non vi è nulla di nuovo sotto il sole e invece
balza agli occhi la forma espressiva, un verso libero, scevro da
regole metriche, costruito però in un disegno di organicità
dell’intero testo in grado di ottenere un risultato equilibrato ed
armonico.
E una certa ironia di Stefano Bianchi evidenzia, a dispetto delle
apparenze, la capacità di non prendere mai tutto troppo sul serio,
perché Le voci, di Nino Pedretti – A volte da per me / nel letto,
in un corridoio / in un treno per Milano / ascolto le voci./ E
allora mi faccio / più grande / perché risuonano dentro / di me /
come campane.
Quanta verità in questi versi, sicura fonte d’ispirazione per
l’intera silloge, perché sono sicuro che Bianchi abbia sentito
queste voci.
Da leggere, non c’è il minimo dubbio.
Stefano Bianchi nasce nel 1972 a Rimini. È diplomato al
Liceo classico e Laureato in Economia e commercio. Ha pubblicato le
raccolte di poesie La bottiglia (Edizioni
Pendragon, Bologna, 2005) e Le mie scarpe son sporche di sabbia
anche d’inverno (Fara Editore, 2007), che ha presentato assieme a
testi inediti in vari contesti pubblici, compresa una breve
apparizione televisiva. Alcune sue poesie sono presenti in rete (ad
esempio, nel blog
farapoesia), nelle antologie tematiche: Il desiderio,
Sogno, Il Ricordo, Nella notte di Natale. Racconti e poesie sotto
l’albero presentata alla fiera Più libri più liberi 2007) edite
da Perrone Editore, Roma, tra il 2007 e il 2009, e nella raccolta
Poeti romagnoli d’oggi e Federico Fellini, Società Editrice
<< Il Ponte Vecchio >>, Cesena, 2009. Attualmente collabora con il
«Corriere Romagna».
Renzo Montagnoli
13/07/2010
Profili critici
di Vincenzo D'Alessio
Presentazione di Alessandro Ramberti
Postfazione di Massimo Sannelli
Fara Editore
www.faraeditore.it
Mi riesce un po' difficile scrivere la recensione di un libro che
raccoglie numerose recensioni scritte da un unico autore. In effetti
mi pongo una domanda un po' sibillina, ma che esige una risposta che
forse con difficoltà riuscirò a darmi.
Mi chiedo: che diritto ho di buttar giù due righe, insomma di
scrivere la recensione delle recensioni?
Vincenzo D'Alessio ha una sua sensibilità, una sua metodologia
nell'esaminare un lavoro, nel trarne l'esito e poi nell'esporlo che
differisce dal mio. Non è una questione di lana caprina, perché in
questo contesto tutto sommato oggettivo entrano poi fattori
soggettivi che possono esulare dalla qualità dell'opera e che sono
rappresentati dalla sua piacevolezza istintiva. E' in fondo lo
stesso problema che mi pongo quando metto nero su bianco le
impressioni di lettura di un lavoro ed è un tarlo sempre presente,
anche se ricacciato giù negli anfratti più nascosti: che titolo e
diritto ho per giudicare un poeta, un narratore, un saggista?
Sono tante le risposte e nessuna mi convince; pertanto spero che
Vincenzo D'Alessio abbia la bontà di comprendermi per quello che
andrò a scrivere e lo consoli il fatto che le mie non eccelse
capacità saranno espresse al massimo, come l'atleta che non vince
pur spremendosi a fondo.
A complicare le cose, poi, è il fatto che la quasi totalità delle
opere recensite non sono da me conosciute e allora ho deciso di
calarmi nei panni di un lettore normale che segue, per orientarsi, i
consigli di lettura.
Senza parlare di un articolo in particolare le impressioni che ho
avuto si estrinsecano in questi elementi:
1) L'indipendenza del giudizio che mi sembra chiara, senza che
insorgano sospetti, merce rara si direbbe, considerata l'epoca in
cui il dio denaro induce non pochi editori a condizionare numerosi
critici:
2) Una struttura espositiva sperimentata e che si ripete, perché
ormai radicata nella logica di D'Alessio; quindi niente
improvvisazioni, tanto che, se non fossimo in campo letterario,
direi che il metodo ha connotati scientifici;
3) L'indole poetica che, a volte di più, a volte di meno, lo conduce
a diventare, peraltro piacevolmente, un coprotagonista nel testo e
anche a ricorrere a un ragionamento metaforico;
4) La semplicità e la praticità, insomma il giudizio che può farsi
l'eventuale lettore dell'opera recensita appare supportato da tutti
gli elementi indispensabili, esposti razionalmente e in modo
accessibile ai più.
Viene da chiedersi, quindi, che valore attribuire a questi Profili
critici e allora nei panni del comune lettore posso dire che l'opera
di volta in volta trattata viene enunciata, richiamandone gli
aspetti essenziali, ma non svelata, insomma D'Alessio fornisce tutti
gli elementi che servono per comprendere se il libro recensito può
interessare oppure no.
Poco? No, tanto, perché il critico deve essere di supporto nella
scelta e non imporla, deve essere chiaro senza raccontare tutto.
Compito non facile, vero?
Vincenzo D'Alessio, però, è sicuramente riuscito ad assolverlo, e
anche bene.
Vincenzo D'Alessio è nato a
Solofra (AV) nel 1950. Vive a Montoro Inferiore (AV). Laureato in
materie letterarie presso l'Università di Salerno, ha ideato il
Premio Nazionale Biennale di Poesia "Città di Solofra", ha fondato
il Gruppo Culturale "Francesco Guarini" e la casa editrice omonima.
Ha pubblicato diversi saggi di archeologia e storia locale e le
seguenti raccolte poetiche: La valigia del meridionale
(1975), Un caso del Sud (1976), Oltre il verde (1989), Lo scoglio
(1990), Quando sarai lontana (1991), L'altra faccia della luna
(1994), Costa d'Amalfi (1995), La mia terra (1996), Ippocampo
(1998), D'amore e
d'altri mali (1999), Elementi (2003), Versi di lotta e di passione
(2006).
L'ultima raccolta, Figli (2009), è dedicata al figlio Antonio,
prematuramente scomparso. La raccolta Padri della terra è inserita
nell'antologia Pubblica con noi 2007 (Fara) che raccoglie le opere
dei vincitori dell'omonimo concorso. È presente in numerosi blog
letterari e siti web, ne ricordiamo solo alcuni:
farapoesia.blogspot.com
viadellebelledonne.wordpress.com
www.viacialdini.it
lucaniart.wordpress.com
Renzo Montagnoli
10/07/2010
Claire Clairmont
di Marco Tornar
Presentazione di Roberto Mussapi
Edizioni Solfanelli
www.edizionisolfanelli.it
Narrativa romanzo
Collana Pandora
Quando termino la lettura di un libro e mi sento scosso
profondamente, so di aver avuto per le mani una perla rara; se poi
questo stato emozionale si ripresenta dopo alcuni giorni al solo
riaffiorare di alcune immagini o situazioni che ho ritenuto
particolarmente significative e provo un turbamento interiore che
gradualmente si scioglie in un senso di serenità, sono consapevole
che quanto ho letto è un'autentica opera d'arte, un capolavoro che
rimarrà sempre dentro di me.
A essere del tutto sincero, prima della lettura nutrivo il timore di
potermi trovare di fronte a un feuilleton, insomma a un romanzo
d'appendice, in questo indotto dal poco che sapevo della
protagonista, sorellastra di Mary Shelley e quindi cognata del
poeta, amante di Lord Byron, da cui ebbe Allegra, una figlia morta
in tenera età. La vicenda di Percy Shelley, perito in un naufragio,
e del poeta baronetto inglese morto di meningite a Missolungi, unita
a quella della prematura scomparsa della bimba lasciavano infatti
presagire una narrazione volta a commuovere facilmente il lettore,
non rivestendo la figura di Claire Clairmont un interesse
particolare, se non quello di essere stata privata dei suoi più
stretti affetti ancora in età giovanile.
Per fortuna mi sbagliavo, e anche di molto, perché la protagonista
principale è una donna di eccezionali qualità, forse non versata per
la poesia, ma testimone di fatti, di eventi importanti, lei stessa
attrice e vittima dei medesimi, condannata a vivere moltissimi anni
con il suo dolore, una figura che si riassume nell'epitaffio che lei
volle fosse scolpito sulla lapide della sua tomba nel cimitero di
Antella: Passò la vita soffrendo, espiando non solo le proprie
colpe ma anche le proprie virtù.
Scomparsa dal ricordo, a differenza di Percy e Mary Shelley e di
Lord Byron, Claire Clairmont è tornata a vivere in questo
meraviglioso romanzo di Marco Tornar che ha sollevato i veli
dell'oblio, realizzando ciò che unisce i morti ai vivi, quella
memoria che diventa patrimonio comune, che ci permette di volgerci
all'indietro e di saper proseguire in avanti.
L'autore è l'io narrante, sia nel momento in cui percorre il viaggio
alla ricerca dei luoghi di questa memoria, sia quando si cala nei
panni di Edward Silsbee, ricco americano, docente universitario, che
nella seconda metà del XIX secolo viene in Italia e si reca a
Firenze con la speranza di avere un colloquio con l'unica che ancora
sia in grado di dire qualche cosa di nuovo sui coniugi Shelley e su
Byron.
Così si svolge la vicenda, in una tensione sottile, quasi
evanescente, ma sempre presente, e come in un palcoscenico
l'apertura del sipario rivela gli attori, qui si scostano
progressivamente drappi polverosi per svelare una vita e un
personaggio straordinario.
L'atmosfera di quell'epoca, la luce di Firenze nelle stagioni, la
passione amorosa che divampa fra Edward e Georgina, pronipote di
Claire, i dialoghi, spesso monologhi, fra l'americano e la
protagonista, uno spaccato di vita sociale in un'Italia nel periodo
immediatamente successivo all'unità, il funerale di Shelley sono un
grande esercizio di stile da cui traspare la natura poetica di
Tornar, che riesce a mantenere per tutta la narrazione un ritmo
equilibrato, proprio di una cosa del passato, come una fotografia
ingiallita la cui osservazione ci porta poco a poco a scoprire e a
definire i soggetti ritratti.
In un italiano estremamente preciso e corretto, sempre più raro
oggi, pagina dopo pagina si passa da un'iniziale curiosità alla
necessità di conoscere, anche perché sapere di Claire Clairmont vuol
dire scoprire un passato che è nostro patrimonio, significa
riflettere sull'esistenza e sulle tante domande che
inconsapevolmente ci poniamo.
A un certo punto del romanzo Claire dice: Penserei volentieri che
la mia memoria possa non perdersi nell'oblio com'è accaduto alla mia
vita; ebbene questo suo desiderio si è realizzato grazie a Marco
Tornar, che ci ha fatto dono di un libro di stupefacente bellezza.
Marco Tornar (Pescara 1960) ha
pubblicato le raccolte di poesia Segni naturali (Bastogi,
Foggia 1983) e La scelta (Jaca Book, Milano 1996); le prose
Rituali marginali (Bastogi, Foggia 1985) ed Errando di
notte in luoghi solitari (Quaderni del Battello Ebbro, Porretta
Terme 2000); il romanzo Niente più che l'amore (Sperling &
Kupfer, Milano 2004). Ha curato l'antologia di poesia italiana La
furia di Pegaso (Archinto, Milano 1996).
Renzo Montagnoli
06/07/2010
Stefano Borgia
Governatore del Ducato Pontificio
di Benevento nel XVIII secolo
di Pietro Zerella
Presentazione di Andrea Mugione Arcivescovo di Benevento
Secolo XVIII, quello dell'illuminismo per intenderci, Ducato di
Benevento spina pontificia nel fianco del Regno di Napoli, un nobile
avviato a una carriera ecclesiastica di prestigio, briganti e
grassatori, miseria diffusa, terremoti, epidemie, carestie, un
quadro storico che la penna di Pietro Zerella delinea in modo
encomiabile e convincente, tutto questo ed altro è Stefano
Borgia, Governatore del Ducato Pontificio di Benevento nel XVIII
secolo.
Premetto che, più che una biografia, è una valida rappresentazione
di un'epoca in una piccola città del meridione, eseguita con
scrupolo, sulla base di documentazioni d'archivio riportate con
neutralità, senza esprimere giudizi che, anche a posteriori,
sarebbero più che opinabili.
Benché ci troviamo di fronte a un saggio storico, l'esposizione non
è mai greve, anzi scorre come un placido fiume, senza infastidire,
ma interessando il giusto, e cioè la naturale curiosità del lettore
di conoscere come si vivesse, come si patisse soprattutto, come si
morisse nell'Italia meridionale quasi quattro secoli fa.
E' soprattutto in questo il pregio del libro, perché la figura di
Stefano Borgia, omonimo ma non parente del nefasto casato che diede
alla Chiesa uno dei pontefici più negativi, è quella di un uomo che,
inviato a governare il Ducato, compie il suo incarico con capacità,
ma senza eccellere in modo particolare, visto che alla fin fine i
suoi principali meriti risiedono nella capacità di aver limitato i
danni della terribile carestia del 1763-1764 e di aver scritto pure
lui di storia, in particolare Le Memorie Istoriche della
Pontificia Città di Benevento.
Non fu certamente un illuminista, né avrebbe potuto esserlo, e del
resto è notorio l'avversione della Chiesa per questa corrente di
pensiero; forse il Borgia può essere definito meglio un politico a
tratti illuminato, ligio nel portare a termine il suo incarico,
volto a un sostanziale mantenimento dello status quo.
Infatti, nulla cambia di sostanziale nel Ducato, con i nobili che
restano sempre ricchi e potenti e con il popolo che sembra avere
come destino prefissato la miseria, non l'indigenza, ma quella
miseria fatta di una vita di stenti e senza speranza.
Ecco, le pagine di Zerella scorrono impietose su questo esercito di
straccioni e, pur nella sua equidistanza, si avverte come l'autore
nutra nei confronti di questi diseredati un profondo senso di pietà.
Miserabili erano prima dell'arrivo del nuovo governatore Stefano
Borgia e miserabili furono anche dopo. Per l'uomo di governo
Benevento rappresentò la prima tappa di una carriera ecclesiastica
che lo vedrà prima cardinale e poi addirittura candidato a
pontefice.
Morirà nel 1804 a Lione, così lontano da quella città dei suoi
esordi e che tutto sommato, considerando l'inazione dei governatori
precedenti, vide in lui qualche cosa di diverso, rilevò almeno
l'interesse dell'uomo per adempiere con cura all'incarico conferito,
senza dimenticare che contribuì con i suoi studi e i suoi libri a
far conoscere agli stessi beneventani un po' della loro storia.
La lettura è più che consigliata.
Pietro Zerella, nato a Beltiglio
di Ceppaloni (BN) il 1938, vive a San Leucio del Sannio (BN), Dott.
in Scienze Politiche e Sociali. Promotore culturale.
E' inserito in tre Edizioni (1996 - 2001 - 2006) del "Dizionario
Autori Italiani Contemporanei" Ed. Guido Miani, Milano ed in altre
antologie.
Ha vinto premi letterari e di poesia (Città di Telese, Apice…) Negli
ultimi anni si è dedicato con particolare passione alla ricerca
storica.
Ha pubblicato:
- "Frammenti di vita", Raccolta di poesie Ed. Ibiskos. Empoli 1994;
- San Leucio del Sannio - Frammenti di Storia, Poligrafica S.
Giorgio del Sannio (BN) 1994;
- San Leucio del Sannio - Viaggio nel tempo, tipografia A.G.M.
Ceppaloni /BN) 1996;
- Ho conosciuto il nonno del mio bisnonno, tipografia A.G.M.
Cepppaloni (BN), 1997; (Menzione speciale Comune di Montecelio
Romano Ed. 1998-1999, Roma;
- Il Clero Sannita nella crisi dell'Unificazione (1860-1862) saggio
pubblicato nella Rivista Storica del Sannio, 3^ Serei, Anno IV, Arte
tipografica Napoli, 1997;
- San Leucio del Sannio- Ieri e Oggi in Bianco e Nero - Tipogr.
A.G.M. Ceppaloni (BN) 1998;
- Preti Contadini e Briganti nell'Unità d'Italia (1860-1862) Ed. La
Scarna, Benevento, 2000. ( Premio Speciale 2001 alla 7^ Edizione del
Premio letterario "Giuseppe D'Alessandro", Benevento;
- Arturo Bocchini e il mito della sicurezza (1926 - 1940) Ed. Il
Chiostro, Benevento, 2002;
- Il Sole dei Lupi, Ed. Il Chiostro, Benevento , 2006; Ristampa nel
2007. A:G:M: Ceppaloni, (BN) 2007. (Vincitore Premio di Merito al
concorso letterario di Anquillara Sabazia. VI Edizione).
- Fondatore e organizzatore Premio Letterario "Città di San Leucio
del S."
- Collabora con il periodico Specchio del Sannio;
- Il quotidiano "Il Sannio Quotidiano".
Renzo Montagnoli
26/06/2010
Sinfonia per
l'imperatore
di Donato Altomare
Introduzione di Ugo Malaguti
Elara S.r.l.
www.elaralibri.it
Narrativa romanzo
Collana Narratori europei di science fiction
L'apoteosi della fantasia
Ricordo che, nel corso di un mio viaggio in Puglia svoltosi alcuni
anni fa, ebbi l'occasione di visitare il famoso Castel del Monte. Vi
arrivai che il sole iniziava a tramontare, con un cielo carico di
nubi plumbee, che di li a poco si sarebbero accumulate in uno strato
uniforme, dando inizio a un temporale, con saette che sembravano
scaricarsi sulle mura del maniero. L'atmosfera, intrisa di
elettricità, l'oscurità quasi improvvisa mi sembrarono più proprie
di un vecchio castello inglese o tedesco, abitualmente frequentato
da fantasmi.
Per fortuna, a fugare ogni mio timore non ero l'unico visitatore, ma
ve n'erano altri, anche se pochi, tutti intenti a rimirare l'interno
di una fortezza assai più appagante vista dal di fuori. Mi sorse
subito una domanda: che scopo aveva quella costruzione in cima al
colle? Aveva una funzione strategica? No, di certo, perché non
arroccava su strade di accesso alla Puglia uniche o di vitale
importanza. Era forse una dimora gentilizia, base per battute di
caccia? No, troppo spoglia e, soprattutto, eccessivamente protetta
da possenti mura, anche se non cinta da un fossato. Era
eventualmente una prigione? Forse, ma per rinchiudervi ben pochi
detenuti, vista la limitata e inadeguata superficie coperta. E poi
perché quella ricorrenza del numero otto? La pianta ottagonale e le
otto torrette, pure loro ottagonali, sono insomma un richiamo
continuo a quella figura geometrica intermedia fra il quadrato e il
cerchio, vale a dire fra la terra e il cielo.
Ho pensato allora, da profano, che l'edificio potesse avere una
funzione religiosa, insomma potesse considerarsi una sorta di tempio
ibrido fra paganesimo e cristianesimo. Del resto il castello fu
costruito dietro preciso ordine di Federico II Hohenstaufen, una
figura quasi leggendaria, già mitizzato nella sua epoca (XIII
secolo), al punto che, vox populi, si divulgava la profezia che dopo
la sua morte sarebbe ritornato nelle sue terre trascorsi mille anni.
Le stranezze del castello, quest'alone mitologico che ha sempre
avvolto Federico II devono avere interessato e affascinato in modo
particolare Donato Altomare, tanto da indurlo a scrivere un romanzo
di genere fantastico, con la vicenda che appunto si svolge in due
epoche distinte, il XIII e il XXI secolo.
Premetto che la realtà storica costituisce solo la base di partenza,
sulla quale l'autore pugliese costruisce pure lui un castello, in un
intreccio di passato e futuro, con ammiccamenti al presente attuale,
che, anziché stancare, come spesso accade quando si alternano epoche
diverse, è una delle chiavi di valore di quest'opera, una vera e
propria apoteosi della fantasia.
Per rispetto nei confronti del lettore e anche perché un pur
sintetico sunto risulterebbe estremamente difficile mi limito
pertanto a evidenziare i tanti meriti di questo romanzo, fra i quali
di sicuro rilievo vi è la capacità di avvincere con invenzioni
creative che non capitano a caso, ma si inseriscono perfettamente
nella struttura narrativa. Le pagine scorrono veloci, grazie
all'italiano fluente e di uso corrente, tranne forse nelle
digressioni di carattere architettonico e musicale, comunque sempre
comprensibili pur nella loro complessità. Né mancano riflessioni
pertinenti, ma di logica corrente, su tematiche come la religione e
le guerre per la religione (vedasi il colloquio fra Federico II e
l'emiro Fakhr al-din ibn ash-Shaikh), oppure osservazioni sul potere
temporale della chiesa, che non potevano non essere presenti, dato
il carattere dell'Imperatore, non certo ateo, ma comunque
anticlericale.
Ho parlato prima di apoteosi della fantasia e questo termine mi
sembra particolarmente appropriato, perché Donato Altomare, nello
scrivere Sinfonia per l'imperatore, ha anche composto una sinfonia
della fantasia, con idee e intuizioni che arrivano continuamente,
tanto da farmi pensare che di materiale a disposizione ce n'era per
scrivere certamente più di un romanzo.
Ma quel che più conta è che l'abbuffata non satura, non sazia
l'appetito del lettore, che anzi si trova naturalmente disposto a
chiedere ancora di più, senza che per questo si corra il rischio di
essere infastiditi, perché appunto tutto rientra in un equilibrio
armonico che, in alcuni passi, mostra pure accenni poetici.
Duecentoottantotto pagine non sono poche, ma se non si legge tutto
d'un fiato poco ci manca ed è i con sensi tesi al massimo che si
arriva alla fine, a una naturale e positiva conclusione che, forse,
lascia aperto lo spiraglio per un auspicato seguito.
Da leggere, non ve ne pentirete, perché questo romanzo, altamente
avvincente, è veramente splendido.
Donato Altomare
nasce a
Molfetta nel 1951 e vi risiede. È laureato in Ingegneria Civile
presso l’Università di Bari ed esercita la libera professione.
Ha vinto due Premi
Italia a San Marino e Courmayeur, il Premio Urania 2000 col romanzo
inedito Mater Maxima,
il Premio Urania 2007 con
Il dono di Svet
e nel 2005 il Premio Le Ali della
Fantasia per l’inedito col romanzo Surgeforas.
Tra le varie
pubblicazioni da ricordare i volumi Cuore di
ghiaccio (La Vallisa,
Bari 1989), La risata di Dio
(Solfanelli, Chieti 1993), L’albero delle
conchiglie (Milella,
Bari 1994), Prodigia
(Tabula fati, Chieti 2001), Mater Maxima
(Mondadori, Milano 2001), Uno spettro,
probabilmente (Mondo
Ignoto, Roma 2004), E la padella disse…
(Delos Books, Milano 2004), Il fuoco e il
silenzio (Perseo
Libri, Bologna 2005), Il tesoro della Grancia
(BESA, Nardò 2005), Surgeforas
(Tabula fati, Chieti 2006). Sono stati pubblicati all’estero:
Cas je spiràla
(tit. orig. Dolcissima Roberta, romanzo breve, Svet Fantastiky n. 1,
Praga 1990); Il popolo del cielo
(testo in cirillico, Gradina, Belgrado 1993); La
casa degli scheletri
(testo in cirillico, Gradina, Belgrado 1996).
Renzo Montagnoli
25/06/2010
Acqua in bocca
di
Camilleri
Lucarelli
Ed.
Minimum fax
Narrativa Giallo
Quarta di copertina.
Per la prima volta
Salvo Montalbano e Grazia Negro indagano
insieme
Camilleri ha rinverdito il romanzo
epistolare e insieme a Lucarelli ha dato
vita ad un esperimento a dir poco originale. La genesi dell’opera è
quanto mai inusuale e casuale, niente di
progettato a tavolino e tanto meno nella mente dei due scrittori.
Come raccontato dalla nota dell’editore Daniele di Gennaro riportata
alla fine della storia, tutto ha inizio nella primavera del 2005. A
Roma nello studio di Andrea Camilleri,
con Luca Lucarelli si girano le immagini
di un documentario per Raitre
A quattro mani prodotto
da minimum fax media per parlare di letteratura poliziesca, e tra
battute e rimandi di frasi tra i due scrittori, l’editore butta lì
una domanda su come si comporterebbero i due personaggi letterari,
l’ispettrice Grazia Negro e il commissario Salvo Montalbano, le
rispettive creature di Lucarelli e
Camilleri, con un cadavere in mezzo, come avrebbero interagito in
un’inchiesta… E’ stato il là d’inizio di una sorta di
jam session
letteraria, in cui l’uno parla, l’altro ascolta in un continuo
sorprendere e sorprendersi. Da una semplice
provocazione azzardata di scrivere una storia, nasce in nuce una
trama che tramite uno scambio epistolare, ha trasformato la
jam session
iniziale in una partita a scacchi senza esclusione di colpi.
Il gusto del rischio, dell’imprevedibile ha preso entrambi gli
scrittori, il cui cimento per il gioco ha
prodotto questo libro, dal plot rimaneggiato e smontato durante la
lunga gestazione, con varie interruzioni, durata ben 5 anni.
L’Acqua in bocca già dal
titolo e dalle prime righe di lettura assume connotazioni semantiche
diverse: significato letterale e metaforico.
Infatti un cadavere rinvenuto con la testa dentro ad un
sacchetto di plastica e tre pesciolini rossi stecchiti vicino, apre
la scena del crimine: è l’inizio di un’indagine non autorizzata che
in una sorta di dialogo a distanza cioè a colpi di lettere più o
meno segrete Grazia Negro e Salvo Montalbano collaborano alla
risoluzione del mistero. Si dà vita al genere
crossover
già inaugurato al cinema con
Chi ha incastrato
Roger Rabbit,
il cosiddetto gioco degli incontri di
autori, personaggi in una stessa narrazione, in uno scarto della
fantasia semplicemente siderale. Questo trucco combinatorio, o
pastiche o incrocio narrativo dei due campioni letterari è un vero
gioco divertente sia per gli autori sia per i lettori.
Ma in barba ad ogni logica Montalbano
subisce due mutazioni: una fisica, è calvo; una linguistica, parla
in italiano con un
cabasisi
ogni tanto, tanto per non perdere l’abitudine del
dialetto. L’effetto prodotto è uno “straniamento
brechtiano” (Camilleri), che trasferisce
il lettore in quei mondi possibili e paralleli in cui tutto può
accadere. I due geniali artefici di questo puro esercizio letterario
non subiscono mutazioni di stile, si alternano e si completano a
vicenda in un clima narrativo che di stupefacente ha l’atto
della scrivere per il piacere di
raccontare storie.
Autori. Andrea Camilleri (1925),
è autore di oltre 60 romanzi tra storici, civili e polizieschi, e di
diverse raccolte di racconti, tradotti in più di 30 lingue.
Vincitore di numerosi premi in Italia e all’estero, è noto al
grande pubblico anche per i romanzi
dedicate alle inchieste del commissario Montalbano, da cui è stata
tratta la fortunata serie televisiva. Tra i tanti titoli ricordiamo:
“La forma dell’acqua”, “Il cane
di terracotta”, “Il ladro di merendine”, “La voce del violino”, “La
stagione della caccia”, “Il birraio di Preston”,
“La concessione del telefono”, “La gita a
Tindari”, “Maruzza Musumeci”, “Il
casellante”, “Il campo del vasaio”, “L’età del dubbio”, “Un sabato,
con gli amici” “Il sonaglio” “ La caccia al tesoro”…
Luca Lucarelli
(1960) ha pubblicato 14 romanzi e una dozzina
di opere di non-fiction sulla recente
storia criminale del nostro paese, riscuotendo vasti consensi di
pubblico e riconoscimenti critici (premio
Scerbanenco, Silver Dagger
Award).E autore e conduttore del
programma televisivo Blu notte,
e ha scritto numerosi soggetti e sceneggiature per il cinema e la
tv.
Arcangela Cammalleri
24/06/2010
La vittoria del 1934
I campionati mondiali di calcio
nella politica del regime
di Alessandro D'Ascanio
Edizioni Solfanelli
www.edizionisolfanelli.it
Saggistica
Collana Faretra
Il gioco del calcio non è mai stato per me una passione, ma
un'occasione di svago e divertimento, e solo nel caso che le partite
vedano di fronte due squadre disposte a dar spettacolo. Siamo
comunque in periodo di mondiali e mi sembra giusto dare un po' di
spazio a questo sport che ha rappresentato più di mezzo secolo fa
uno strumento di sostegno di un regime all'interno del paese e di
supporto anche a una certa politica estera fatta di proclami
roboanti, seguiti spesso da azioni moderatrici, del tipo insomma
proprio della tattica del bastone e della carota.
E in questo sta l'interesse di questo bel saggio di Alessandro D'Ascanio
che ha come punto di partenza la nostra prima vittoria dei mondiali
calcio, quella del 1934, con la nazionale italiana guidata dal
mitico Vittorio Pozzo.
Il testo è un lucido spaccato di un periodo nel quale anche una
partita di calcio e soprattutto la conquista del primato
rappresentavano un biglietto da visita di un paese che voleva
emergere a tutti i costi, rinsaldando il fronte interno con la
comune passione per questo sport e cercando di conferire uno spirito
nazionalistico, indispensabile al regime per poter avere basi
solide. Non è che questo consenso sportivo si rivelò poi
inossidabile, anzi si poté notare e ancor oggi si vede l'assenza di
una forte identità di popolo, quella coesione ferma e irremovibile
che invano il fascismo tentò di realizzare richiamandosi anche alle
glorie dell'antica Roma.
La manifestazione sportiva del 1934 fu voluta fortemente da
Mussolini e, grazie anche a un ingente sforzo finanziario, riuscì
bene, culminando con il meritato successo dei nostri giocatori. Il
tutto appare come una delle più efficaci campagne di propaganda,
come detto rivolta non solo all'interno, ma anche all'esterno.
L'impressione che si voleva dare era quella di un paese unito e
orgoglioso, pacifico, ma non disponibile a cedere ad altri le
proprie ambizioni di riscatto per arrivare ad essere alla pari con
le grandi potenze.
Era il 1934 e quindi mancavano sei anni alla nostra entrata in
guerra, evento che in breve avrebbe dissolto un'immagine così
faticosamente costruita anche attraverso quel campionato del mondo.
Il libro di D'Ascanio è un'analisi di quella Coppa Rimet (come
allora si chiamava), di quanto fosse sentita dal fascismo, e quindi
degli scopi che si proponeva il regime, delle sue ricadute, cioè dei
risultati, sempre in funzione politica.
Si respira nelle pagine una storia ancor recente, si scoprono tante
cose che ignoravamo, ma, soprattutto, si comprende come il gioco del
calcio ad alto livello possa costituire anche una risorsa per chi
detiene il potere in un paese.
Da leggere, ne vale senz'altro la pena.
Alessandro D’Ascanio,
laureato in Scienze politiche con una tesi in Storia dell’Italia
contemporanea dal titolo Lo scacchiere mediorientale nella
politica estera italiana. Il centro-sinistra e la guerra
dei sei giorni, ha conseguito il
Dottorato di ricerca in “Critica storica giuridica e economica dello
sport” presso l’Università di Teramo. Cultore della materia presso
la cattedra di sociologia dei fenomeni politici dell’Università “G.
D’Annunzio” di Chieti, collabora
all’attività della cattedra di Storia del Novecento della Facoltà di
Scienze politiche dell’università di Teramo.
Ha pubblicato saggi e articoli su riviste di storia
contemporanea tra i quali: Lo
scacchiere mediorientale nella politica estera italiana. Il
centrosinistra e la Guerra dei sei giorni,
in “Italia Contemporanea”, n. 250, marzo 2008, pp. 121-145; Lo
sport come strumento di politica estera nella prima metà degli anni
trenta: una peculiarità solo italiana?, in “Sportlex”,
anno I, n. 10, ottobre 2008, pp. 3-11; I gravi fatti di
Roccamorice del 1904. Il brusco impatto
del mondo industriale in una provincia rurale dell’età giolittiana
(in corso di pubblicazione su “Abruzzo contemporaneo”) e contributi
in volumi collettanei tra i quali Il mare tra le terre, in
Luigi Mastrangelo (a cura di), Giochi
e sport in Abruzzo dall’antichità ai giorni nostri (Edizioni
Scientifiche Abruzzesi, Pescara 2009) e Una rassegna
bibliografica, con Luca Gasbarro e
Francesca Mazzarini, in Giuseppe Sorgi
(a cura di), Lo sport dopo le ideologie (Guaraldi,
Rimini 2009), La concezione neo-marxista
dello sport nell’analisi dei comunisti italiani, in Anna Di
Giandomenico (a cura di), Le luci dello sport (Franco Angeli,
Milano, in corso di pubblicazione).
Renzo Montagnoli
22/06/2010
Il nipote del Negus
di Andrea Camilleri
Sellerio Editore
Narrativa romanzo
Collana La memoria
“Montelusa – Albergo
Trinacria 20/12/1929 0re 14
-
Oddiodiodiodiodiodiodiodiodiodiodiodiodio…
Montelusa – Albergo
Trinacria 20/12/1929 Ore 17
-
Cosìcosìcosìcosìcosìcosìcosìcosìcosìcosì...
Montelusa – Albergo
Trinacria 20/12/1929 Ore 19
-
Ancoraancoraancoraancoraancoraancora...”
Sono frasi che non
necessitano di ulteriori spiegazioni, quasi tipiche della miglior
commedia all’italiana, ma Il nipote del Negus, di Andrea
Camilleri, se può avere la parvenza di una commedia fra l’umoristico
e il boccaccesco è invece una satira spietata attraverso la messa in
scena di una commedia sugli italiani.
E quando s’apre il sipario sul palcoscenico si stenta a notare
la differenza fra attori e pubblico, i primi impegnati al massimo
della loro capacità a tratteggiare un regime dietro la cui parvenza
di grandezza i piccoli e i grandi protagonisti si muovono come
marionette fra ipocrisie, timori e apparente fierezza, mentre gli
altri, il pubblico in sala, sorride, ride, anche fragorosamente, non
accorgendosi di trovarsi dinnanzi a uno specchio.
Il periodo fascista descritto da Camilleri è quello di un’Italia dai
roboanti proclami a cui si finge di credere affinché nulla possa
turbare i propri traffici privati, spesso illeciti, nella totale
assenza di senso per lo stato.
La storia è ambientata nel 1929, ma per come agiscono i personaggi,
per come insomma gira la carrozza del paese, si ha l’impressione di
un qualche cosa di già visto e che, purtroppo, è sotto ai nostri
occhi tutti i giorni, una lenta assuefazione tale da non accorgerci
di questa perenne recita a soggetti, tutto uno sbandierare di
apparenze, di deformazione della verità, una sorta di sogno
infantile il cui risveglio potrebbe tramutarsi in incubo.
Fra l’altro Camilleri per raccontare si è rifatto all’esperienza de
“La concessione del telefono” e così è tutto un
fiorire di carteggi fra commissari di Pubblica Sicurezza, Questori,
Federali, Podestà, ministeri degli Interni e degli Esteri,
intercalati da prime pagine di giornali che più di tutti rivelano un
totale asservimento a un regime in cui la notizia non è il fatto
come accaduto, ma come, secondo la illogicità di un sistema, viene
offerto, anzi imposto, agli occhi di un lettore che ormai non può
più discernere fra vero e falso.
Non mancano anche siparietti colloquiali, inseriti nel momento
giusto e tesi soprattutto a dimostrare che fra l’ufficialità dei
comportamenti e la relativa sicurezza del privato tutto era
completamente diverso, come se ciascuno potesse contare su una
doppia, e distorta, personalità.
L’autore siciliano parte così da un evento vero, e cioè il fatto che
negli anni 1929 – 1932 si trovava a Caltanissetta il principe Brhané
Sillassiè, nipote del Negus Ailé Sellassié, come studente della
Regia Scuola Mineraria, da cui uscì diplomato.
Di lui si sa che era bello, focoso, gran spendaccione e questa è la
realtà, tanto che opportunamente il buon Camilleri ci precisa alla
fine che tutto il resto è solo frutto di fantasia.
Senza descrivere la trama, per non dispiacere al lettore, dico solo
che questo etiopico, dalla pelle nera, si rivelerà pagina dopo
pagina non lo sprovveduto e quasi selvaggio di cui Mussolini intende
avvalersi, ma un attore astuto e consumato tanto da prendersi gioco
del regime.
Allora un nero in Italia era una rarità, ora non lo è più, ma in un
contesto socio-comportamentale assai analogo non oso pensare quello
che un altro nipote del Negus, o di un capo tribù del Ciad, o
addirittura anche un ex morto di fame del Biafra potrebbe combinare.
Perché se c’è un posto in cui tutto può accadere e anche accade è
proprio l’Italia, ove grazie a personali ragion di stato, a furberie
da asilo infantile e a soporiferi intrattenimenti dei media, tutto
procede in una irreale realtà in cui anche “un alieno” di pelle
scura potrebbe dimostrare che la logica vince sempre, soprattutto
quando opera in un terreno in cui è assente.
Ho riso, più volte, ma è un riso amaro che si allarga nello specchio
in cui mi rifletto.
Semplicemente un libro imperdibile.
Andrea Camilleri
nasce a Porto Empedocle (Ag) nel 1925.
Scrittore particolarmente prolifico, ha pubblicato, fra l’altro,
oltre a tutta la serie con protagonista il commissario Montalbano,
Il corso delle cose (1978), Il birraio di Preston (1995), La
concessione del telefono (1998), La scomparsa di Patò (2000), Il re
di Girgenti (2001), Le inchieste del commissario Collura (2002), La
presa di Macallé (2003), La pensione Eva (2006), Il colore del sole
(2007), Le pecore e il pastore (2007), Pagine scelte di Luigi
Pirandello (2007), Maruzza Musumeci (2007), Il casellante (2008), La
vuccina (2008), La tripla vita di Michele Sparacino (2009), La
rizzagliata (2009).
Renzo Montagnoli
21/6/2010
L’americano
tranquillo
di
Graham Greene
Titolo originale
The Quiet American
Ed.
Arnoldo Mondadori
Narrativa: giallo
politico
Da questo romanzo sono stati tratti due film, uno del 1958 e uno più
recente made in USA
del 2003 di Philip
Noyce.
Nella dedica iniziale a degli amici di Saigon,
Greene precisa che questo è un racconto, non un libro di
storia, per cui i fatti reali sono stati
in qualche modo rimaneggiati, ciò non toglie che i fatti stessi
narrati rispecchiano riflessioni, considerazioni ed attività
realmente vissuti dallo scrittore durante la sua esperienza come
inviato speciale anche in Indocina.
Siamo nel marzo 1952, a Saigon, durante la guerra tra Francia e
Indocina, il cinquantenne cronista, o
meglio come ama definirsi reporter, inglese
Thomas Fowler conosce un giovane
funzionario americano della Missione per gli aiuti economici
Alden Pyle;
tra i due nasce, nel breve rapporto intercorso, una forma labile
di amicizia messa in crisi dall’amore per
una stessa giovane vietnamita, la dolce Phuong
“Fenice”. Il giallo assume i connotati del poliziesco psicologico
nell’istante in cui Pyle
viene ucciso in circostanze misteriose e
Fowler cercherà la verità ripercorrendo
nella memoria i momenti passati insieme, da quando tutto era
cominciato, a Pyle che si era seduto al
suo fianco al Continental e…alla sua
morte che gli arreca dispiacere. Al centro dell’opera si pone il
confronto tra due personaggi implicati in uno stesso conflitto, ma
con atteggiamenti opposti: Fowler
disincantato e cinico, con un matrimonio in rotta di collisione,
ricorre all’oppio come rimedio al tormento delle sue angosce
private e Pyle, apparentemente ingenuo,
è considerato un uomo tranquillo, mosso da ideali patriottici che
legittimano la presenza degli USA nei punti caldi del mondo.
Emergono due tipologie umane bifronti,
Fowler considera con triste distacco e
consapevolezza e la ruvidezza di cui è fatta la sua professione:
“Ero un corrispondente e pensavo per titoli:
Funzionario americano assassinato a
Saigon.
Nel giornalismo non si impara come
comunicare le cattive notizie” e gli accadimenti bellici che
diventano una sorta di amara riflessione sugli uomini e il mondo,
Phyle imbevuto del
sogno americano non
esita a diventare complice di una serie di sanguinosi attentati su
civili per favorire il sospetto dell’opinione pubblica contro i
comunisti. La storia narrata ha tutti gli ingredienti tipici del
giallo e del giallo di marca Greene: la
suspense, i colpi di scena, il messaggio
altamente etico sugli uomini sia carnefici sia vittime,
l’amore tormentato per una donna più giovane.
Greene nell’intreccio privilegia
la dimensione morale e una posizione personale emotiva più che
politica di fronte ai tragici eventi militari; i dubbi interiori di
Fowler cozzano con le certezze
granitiche di Pyle, ma “prima o poi
bisogna scegliere con chi stare, se si vuole restare esseri umani”.
Sul piano linguistico, la scrittura scivola come la sabbia nella
clessidra, regolare, precisa e chiara: un formidabile uso dello
strumento espressivo che rende agevole e interessante la lettura.
L’Autore: Graham
Greene nacque a
Berkhamsted, in Inghilterra, nel 1904 e
morì a Vevey, in Svizzera. Laureatosi
a Oxford, fra il 1926 e il 1927 si
convertì al cattolicesimo, abbandonando la fede protestante della
sua famiglia. Redattore del
Times,
lasciò il lavoro nel 1929 per dedicarsi interamente
all’attività letteraria. Nel 1935 tornò al giornalismo come inviato
speciale, e viaggiò in tutto il mondo, rimanendo a lungo in
Indocina. Durante la seconda guerra
mondiale collaborò con il controspionaggio britannico. La sua
produzione narrativa, che inizia nel 1929 con il
romanzo L’uomo
dentro di me, è vastissima: fra i molti titoli sono da
ricordare Un campo di battaglia,
1934, Il potere e la gloria,
1940, Quinta colonna
1943, Il nocciolo della
questione 1948, Il
nostro agente
all’Avana 1958, Il
console onorario 1973,
Il fattore umano 1978,
etc…Da segnalare anche i due volumi autobiografici
Una specie di vita 1971
e Vie di scampo 1980,
le opere saggistiche Viaggio
senza mappa 1936,
Due diari africani 1961,
J’accuse 1982.
Arcangela Cammalleri
17/06/2010
Intervista a Claudio Magris
di
Sergio Sozi
Historica Edizioni
www.historicaweb.com
Saggistica letteraria
E’ indubbio che i
libri di Sergio Sozi, fatta eccezione per il romanzo Il menù,
presentino caratteristiche del tutto particolari, ricomprendendo
forme espositive diverse. E’ accaduto con Ginnastica d’epoca
fredda, con un bel racconto intitolato appunto così,
accompagnato da un breve, ma esaustivo saggio sulla
Storia della Letteratura degli italiani
d'Istria, Quarnaro e Dalmazia.
In Intervista a Claudio
Magris, un vero e proprio dialogo culturale avvenuto nel
2006, è ricompresa l’analisi di una lettera, pubblicata nell’estate
del 2009 sul Corriere della sera, e indirizzata dallo stesso Magris
al Ministro della Pubblica Istruzione Mariastella Gelmini, epistola
che fra l’ironico e il satirico è una decisa presa di posizione
sull’unità linguistica e sull’identità nazionale, .
Ora, le interviste possono magari incuriosire, ma è meno frequente
il caso che possano veramente interessare e quella presente in
questo libro è una di quelle, rare, che veramente costituiscono
un’occasione da non dimenticare. I motivi della pregevolezza di
questo scambio di domande e di risposte risiedono da un lato nella
capacità di Sozi di formulare quesiti che, pur nell’ambito della
cultura, sono di portata ampia e tale da essere considerati
imprescindibili nell’attuale contesto sociale, e dall’altro
nell’elevato livello intellettuale di Claudio Magris, disponibile a
un dialogo schietto, sincero, non dogmatico e, soprattutto, non
politicizzato.
E’ fuor di dubbio che l’autore triestino rappresenti ormai da tempo
un faro per la cultura non solo italiana, ma mondiale; in lui
convivono, interagendo, un profondo senso etico che tende a
restituire alla conoscenza il valore di accrescimento spirituale
dell’uomo, e la capacità di analizzare i fenomeni mettendo a frutto
la corposa cultura assimilata con spirito critico nel corso della
sua esistenza.
Magris è certamente un nome conosciuto, ma ritengo opportuno
brevemente sintetizzare chi sia veramente. Triestino, laureato in
Lingua e Letteratura tedesca, che insegna nell’università di
Trieste, saggista di primo piano (suoi sono i Tre studi su
Hoffmann, Lontano da dove, Joseph Roth e la tradizione
ebraico-orientale, ancora Tre saggi su Hoffmann,
Utopia e disincanto), è anche narratore (Un altro mare,
Le voci, Microcosmi, con cui ha vinto il Premio
Strega). Figura di assoluto rilievo in campo letterario, è sovente
nella rosa dei papabili per il Premio Nobel.
Per quanto concerne Sergio Sozi mi permetto di rimandarvi alla breve
biobibliografia esposta in calce.
Ritorno all’intervista, un vero e proprio dialogo, fra un uomo di
frontiera come Magris e un italiano proiettato nella complessa
realtà di quella frontiera come Sozi; la stessa inizia prendendo
spunto da Microcosmi, il romanzo dell’autore triestino
che ha avuto come riconoscimento il Premio Strega, e in particolare
dalle pagine riguardanti il Monte Nevoso (Sneznik). Non ho letto
questo libro, ma sono dell’opinione che quel rapporto-conflitto tra
uomo e natura non possa che suscitare il mio più pressante
interesse. Credo che Magris abbia saputo cogliere quel problema
esistenziale che, nel mentre ci porta a fuggire da una vita convulsa
e irrazionale, ci pone di fronte anche a un dilemma, un dubbio
amletico sui motivi della nostra presenza e sull’accettazione di
essere umili parti di un caos perfetto.
Non vado oltre, evitando anche di riferirmi alle successive domande,
perché l’interesse diretto e immediato che può offrire solo la
lettura del libro finirebbe inevitabilmente con il disgregarsi,
tentando un lezioso e tutto sommato inutile riassunto.
Il breve saggio invece sulla citata lettera al Corriere della sera è
l’occasione, ghiotta, per Sozi, che ovviamente condivide i contenuti
di quest’epistola, per rivendicare la nostra italianità, tema a lui
sempre caro, al punto da costituire l’oggetto delle sue opere di
narrativa, e che si tratti di un uso corretto della nostra lingua,
oppure della riaffermazione di una comune nazionalità, le cose non
cambiano.
Bella, ironica, anche sarcastica è la lettera di Magris, puntuale,
esauriente e senza retorica ne é il commento di Sozi.
Quindi ci troviamo di fronte a un libro strano, senz’altro di
estremo interesse, parole distillate per compendiare concetti e
forme in modi più che corretti, decisamente comprensibile, l’ideale
per una lettura gradevole, ma che induce a frequenti riflessioni.
Gli antichi romani, ma anch’io, lo definirebbero con una semplice,
ma efficace locuzione: jucunde docet.
Sergio
Sozi è vissuto in Umbria e in
Slovenia. Giornalista culturale per testate italiane e slovene,
poeta e narratore, già Premio Scritture di Frontiera di Trieste e
Primorska Srecanja, ha pubblicato colloqui con Dacia Maraini,
Sebastiano Vassalli, Diego Marani e Claudio Magris.
Il suo primo libro fu la raccolta poetica ''Oggetti volanti''
(Perugia 2000, segnalato dal Premio Sandro Penna 1999), seguito da
''Il maniaco e altri racconti'' (Roma 2007, racconto eponimo
segnalato dal Concorso Scritture di Frontiera).
Il racconto ''Ginnastica d'epoca fredda'', prima di essere
pubblicato nel 2009 in Italia da Historica Edizioni, è stato
segnalato e antologizzato in Croazia nel 2008 a cura del Premio
Fulvio Tomizza – Lapis Histriae.
Interessato alla conservazione dell’autentica lingua italiana e
dell’identità nazionale ha pubblicato nel 2009 per i tipi delle
Edizioni Historica il romanzo “Il menù”.
Renzo Montagnoli
15/06/2010
ISLAM NAZISMO FASCISMO
Storia di un'intesa ideologica e strategica
che avrebbe potuto modificare l'assetto geopolitico mediorientale ed
euroasiatico
di Alberto Rosselli
Edizioni Solfanelli
www.edizionisolfanelli.it
Saggistica
Collana Faretra
Muhammad Amin al-Husayni è un nome certamente a molti non noto, ma
ben conosciuto dagli ebrei e dal mondo arabo in generale. Quest'uomo
fu a lungo il Gran Mufti di Gerusalemme, cioè la massima autorità
giuridica islamica sunnita responsabile della corretta gestione dei
luoghi santi islamici in Gerusalemme.
Costui, fra il 1934 e il 1945, intrattenne complessi rapporti con
Adolf Hitler e più in generale con il nazismo tedesco e con il
fascismo italiano. Riesce difficile comprendere una stretta
relazione fra un capo religioso e il dittatore, notoriamente ateo,
di una nazione impregnata di antisemitismo, tanto più che se gli
ebrei sono semiti, altrettanto lo sono gli arabi.
Questo bel saggio storico di Alberto Rosselli si propone di fare
chiarezza su questi rapporti, delineandone i motivi alla base e le
finalità, e lo fa in modo convincente, con una scrittura precisa, ma
accessibile anche ai non addetti ai lavori.
Due realtà, apparentemente inconciliabili, trovarono punti di
contatto nella comune avversione nei confronti dei sistemi
democratici e verso quel mondo occidentale (Inghilterra e Francia)
che, se da un lato costituiva per Hitler un naturale ostacolo al suo
espansionismo, per il Gran Mufti invece era simbolo di colonialismo,
lo stesso di cui molte popolazioni arabe scontavano gli effetti,
anche se Francia e Inghilterra agivano in Siria, Libano, Iraq,
Algeria, Tunisia, Egitto, Palestina non come pieni proprietari, ma
come esercenti un mandato volto a consentire con gradualità il
passaggio alla piena autonomia delle popolazioni di quei territori.
Meno comprensibile è il rapporto con il fascismo, stato coloniale
che aveva represso sanguinosamente la rivolta senussita in Libia, ma
qui entrano in gioco ragioni di stato, le stesse per le quali
Mussolini varò le leggi razziali, unico effettivo punto di contatto
e di condivisione con il Gran Mufti.
Del resto Mussolini mirava ad ampliare l'area d'influenza italiana e
questa gli sembrò l'occasione buona. Agì tuttavia con prudenza in
una visione politica volta a tenere sotto pressione l'Inghilterra
senza giungere a un punto di rottura.
Hitler invece perseguì una politica più strettamente militare, volta
da un lato ad alimentare l'irredentismo islamico onde creare
complicazioni ai suoi avversari e dall'altro a mettere le mani sulle
corpose riserve petrolifere dell'Iraq.
Non è improbabile, invece, che il Gran Mufti fosse animato da una
sincera infatuazione per il nazismo che, per quanto ateo, propugnava
idee di forza, volontà e coraggio che ben si sposavano con il suo
acceso radicalismo religioso, tanto che, nel corso della seconda
guerra mondiale, furono costituiti reparti di SS di fede islamica,
composti per lo più da elementi europei dei paesi occupati dalla
Germania.
La vicenda, complessa, anche se appassionante, si delinea nelle
pagine con scorrevolezza, senza pervenire a facili semplificazioni e
a conclusioni di comodo.
Il merito di Rosselli non è di scrivere la Storia, ma di mettersi al
servizio della stessa, di indagare, di reperire documenti, di
esporre, senza un indirizzo politico, ma solo i fatti, mai
giudicati, o al più formulando logiche ipotesi.
Questo libro è senz'altro da leggere, perché in questo viaggio nel
passato è possibile comprendere il presente, l'instabilità del Medio
Oriente e la sanguinosa guerra non dichiarata che da così tanti anni
vede combattersi israeliani e palestinesi.
ALBERTO ROSSELLI,
giornalista e saggista storico, collabora da tempo con diversi
quotidiani e periodici nazionali ed esteri e con svariati siti
internet tematici. Come studioso di storia moderna e contemporanea e
di geopolitica ha al suo attivo diversi saggi tra cui Québec 1759
(Erga Edizioni); Il Conflitto anglo-francese in Nord America
1756-1763 (Erga Edizioni), opera tradotta anche in lingua
inglese; Il Tramonto della Mezzaluna. L’Impero Ottomano nella
Prima Guerra Mondiale (Rizzoli BUR); La resistenza
antisovietica in Europa Orientale 1944-1956 (Settimo Sigillo);
L’Ultima Colonia. La guerra coloniale in Africa Orientale Tedesca
1914–1918 (Iuculano Editore); Il Ventennio in celluloide
(Settimo Sigillo); Sulla Turchia e l’Europa (Solfanelli);
L’Olocausto armeno (Solfanelli); Storie Segrete (Iuculano
Editore); Il Movimento Panturanico e la "Grande Turchia"
(Settimo Sigillo) e La persecuzione dei cattolici nella Spagna
repubblicana. 1931-1939 (Solfanelli).
Renzo Montagnoli
14/06/2010
Oltre il sipario
di AA.VV.
a cura di Giuseppe Gambini
Immagine di copertina e disegni all'interno
di Antonia Perrini
Albus Edizioni
www.albusedizioni.it
Poesia antologia
Il Teatro è Vita e la Vita è Teatro, così Giuseppe
Gambini ha voluto sotto intitolare questa antologia poetica da lui
curata e ora fresca di stampa per i tipi della Albus Edizioni,
opportunamente inserita nella collana Le parole per te.
Non è un caso se il poeta, napoletano d'origine, ma milanese
d'adozione, ha inteso rendere omaggio a una sua vecchia e costante
passione, vale a dire la rappresentazione teatrale, da lui da anni
coltivata, anche se l'intento va oltre le semplici parole, si
articola più in là del palcoscenico, andando a cercare, a esplorare
in un mondo metaforico che appunto è Oltre il sipario.
Infatti, se vogliamo ben guardare, tutta la nostra vita ci vede al
contempo protagonisti e spettatori, con un interscambio dei ruoli
del quale nemmeno ci accorgiamo. E non è sempre detto che qualora
facciamo parte dell'anonimo pubblico non siamo in effetti i più
incisivi attori, muovendoci in silenzio nell'ombra del palcoscenico,
figure che non si notano, che non appaiono alla ribalta, ma che sono
lì, servono, sono necessarie, come i macchinisti, gli scenografi, il
regista.
Ognuno ha un suo ruolo ben preciso, perché la vita si compone, si
scompone, come le pietruzze di un mosaico, e se una c'è è perché
esistono le altre, in un'interdipendenza di cui nemmeno ci
accorgiamo se non quando qualcuno viene a mancare, una comparsa,
anzi un attore che si allontana in silenzio per sfumare dietro le
quinte del palcoscenico della vita.
Gambini ha scelto bene le poesie, in modo da presentare una varietà
di liriche che, nel tema, hanno la dignità della loro diversità.
Si va così dalle quattro pareti in cui si consuma ogni sera il
dramma della vita, lirica opera dello stesso Gambini all'ultima
danza, che muore col sogno, di Gloria Venturini, passando per
l'esplicito sipario della vita, di Giuseppina Iaccarino, e per i
tasselli ribelli di un pianoforte, di Antonella Marseglia.
Cosa resterà di questa commedia dell'esistenza?
Forse il rimpianto di aver recitato un copione che abbiamo per forza
dovuto accettare.
E' una bella antologia, varia e veramente interessante, e quindi
senz'altro da leggere.
Gli autori
Giuseppe Gambini, Renzo Montagnoli, Rita Pagliara, Gloria Venturini,
Anna Maria Consolo, Fernando Ciriolo, Geo Vasile, Annabella Mele,
Carmelo Di Pena, Maria Pia De Martino, Giambattista Bergamaschi,
Davide Niero, Paolo Meneghini, Maddalena De Leo, Mattia De Poli,
Adele Bevacqua, Salvatore D'Aprano, Giuseppe Vetromile, Liliana
Arena, Antonio Beozio, Cristiano Maria Carta, Antonella Marseglia,
Marzia Cabano, Maria Chiara Quartu, Valeria Tomasulo, Nicoletta
Corsalini, Agnese Monaco, Fernando Antonio Buccelli, Giuseppina
Iaccarino, Andrea Bertolaso, Marco Managò, Mariapia Altamore,
Roberto Marzano, Ludovica Mazzuccato, Michela Del Priore, Milvia Lo
Forte, Alessia Mocci, Marina Bisogno, Ivana Mereu, Anna Gala.
Il curatore
Giuseppe Gambini nasce a Torre del Greco (NA) nel 1948, ma da oltre
30 anni vive e fa il pensionato a Garbagnate Milanese. Da
giovanissimo, aldilà della professione esercitata, si è sempre
interessato di teatro e poesia, recitando e scrivendo un po' di
tutto. Per il teatro, nelle vesti di regista, di solito presenta
lavori di autori contemporanei poco conosciuti, non disdegnando
autori noti. Per la poesia e la narrativa solo da alcuni anni ha
partecipato ad alcuni concorsi nazionali, riscuotendo premi e
menzioni varie. Sinora ha pubblicato solo una silloge "L'amaro caffè
della Vita", il cui ricavato l'ha devoluto in beneficenza. Alcuni
suoi testi sono presenti in diverse antologie letterarie e su alcuni
siti letterari
Renzo Montagnoli
28/05/2010
La firma del diavolo
di Fiorella
Borin
Copertina di Gian
Luca Peluso
Edizioni Tabula
Fati
www.edizionitabulafati.it
Narrativa romanzo
Collana Malacandra
Biastemo il giorno che me innamorai,
Biastemo il giorno che ti misi amore,
Biastemo il giorno che in te mi fidai,
Biastemo il giorno che ti déi il mio core;
Biastemo il bene ch’io te volsi mai,
Biastemo l’alma mia, che per te more…
E’ l’anno di grazia
1588 e a Triora, un paesino della Valle Argentina, sito nel
retroterra di Ventimiglia, corre la paura, c’è la caccia alle
streghe, ree di aver fatto mancare la pioggia e di aver ridotto alla
fame gli abitanti. Sono giorni di sospetti, di calunnie, di
confessioni estorte con la violenza, di nomi di innocenti fatti
sotto tortura, con i nuovi incolpati che, per lenire le sofferenze,
chiamano in causa altri incolpevoli, in una spirale di crescente
terrore. Spadroneggia, forte della sua carica, il commissario Giulio
Scribani, feroce persecutore di seguaci del diavolo e fra queste
Magdalena, la più bella del paese, amante di un nobile soldato,
peraltro coniugato, e che farà di tutto per salvarla dal rogo.
I fatti accaduti in quell’anno sono veri e sono documentati da
incartamenti d’epoca e da saggi storici. Pure vero è il commissario
Scribani, mentre la vicenda di Magdalena e del suo amante è frutto
di fantasia, innestata però con perizia nella realtà degli eventi,
al punto di apparire del tutto verosimile.
Fiorella Borin si destreggia abilmente fra realtà e invenzione
scrivendo un romanzo, in cui superstizione, fanatismo religioso e
amore contribuiscono a costruire una storia di grande interesse e
anche di notevole bellezza.
C’è solo follia, la follia della gente ignorante e pavida che
soggiace alla volontà della Chiesa tramite le parole del vicario
Gerolamo Dal Pozzo che di fatto insinua il sospetto e indica le
prove, gli elementi di chi potrebbe essere una strega e trasformando
così la paura in terrore; c’è la follia ancor più malvagia di Giulio
Scribani, un fanatico che vede intorno a lui solo streghe; e infine
c’è la follia di un innamorato che cerca inutilmente di salvare la
propria amata.
E per tutto il romanzo arde costante un solo fuoco, quello di un
amore che va oltre ogni limite, al punto che, proprio per amore, si
può anche dare la morte affinché non si abbia troppo a soffrire.
Lei, rea confessa, la cui assunzione di colpa appare, oltre che
inspiegabile, stupefacente, finisce con il diventare la vera
protagonista, lei e tutte le donne che nei secoli sono state comodi
capri espiatori. Il fuoco del rogo brucia tutto, anche ogni
speranza, ma non l’amore e solo dopo, per un caso fortuito, sapremo
il perché delle strane parole della confessione, un ulteriore,
supremo e sublime atto d’amore.
Così, dopo aver letto e apprezzato due libri concernenti processi di
stregoneria (Tu non dici parole, di Simona Lo Iacono,
e La chimera, di Sebastiano Vassalli), ho seguito con
passione ed emozione questa storia, con un senso di presenza ai
crudeli interrogatori, alla disperazione dell’innamorato, sotto un
cielo cupo e in un’atmosfera dal pungente lezzo della paura.
Presunte streghe, povere donne innocenti sacrificate all’altare
della superstizione, volti sconosciuti, ma quello di Magdalena me lo
sono immaginato, provato, scavato, ma radioso nell’amore che la
sosteneva, questa forza quasi immortale che resta anche dopo povere
ceneri.
La firma del diavolo è un romanzo semplicemente stupendo.
Nata a Venezia nel 1955, laureata in
psicologia, Fiorella Borin
si è dedicata per qualche anno all’insegnamento di scienze umane e
storia negli istituti superiori. Ha collaborato con l’Università di
Padova come cultrice della materia; in seguito ha maturato qualche
esperienza in seno a piccole case editrici e nelle redazioni di
riviste letterarie. Attualmente collabora con un settimanale
femminile del più importante gruppo editoriale italiano.
Oltre duecento suoi piccoli lavori di narrativa, poesia e
saggistica sono presenti in antologie e riviste; il racconto La
tela di Penelope è uscito sul mensile “Vera” (settembre 1995)
commentato dallo scrittore Alberto Bevilacqua. Ha pubblicato il
romanzo breve Le putine del Canal Gorzone (Montedit, Milano
2002), la raccolta di racconti La Signora del Tempio Nascosto
(Alberto Perdisa Editore, Bologna 2003), il racconto
storico-fantastico Il bosco dell’unicorno (Tabula fati,
Chieti 2004), e i sei brevi romanzi storici: Mir i dobro (Montedit,
Milano 2005), La sciarpa azzurra (Era Nuova, Perugia 2005),
La congiura degli Olderichi (Edizioni Cofine, Roma 2007),
Lo scrivano (Montedit, Milano 2007), Il pittore merdazzèr
(Tabula fati, Chieti 2007) e La strega e il robivecchi
(Tabula fati, Chieti 2010).
Ha vinto una novantina di primi premi in concorsi letterari
nazionali e internazionali.
Renzo Montagnoli
26/05/2010
Finestre e balconi
di Luigi Panzardi
Pubblicato tramite Unibook.com
Poesia
Già il titolo, con quel fiorire di aperture, più o meno ampie, sui
muri di palazzi evoca vie di fuga, ma anche di contatto, dalle
realtà opprimenti di una società che sembra aver smarrito i più
elementari, nonché primordiali, concetti di esistenza.
La visione del mondo che ha l'autore non è pessimista, o di rigetto,
ma drasticamente di chiusura, nella consapevolezza che il farne
parte non dipende da lui, presente nella materialità corporea, ma
non partecipe, membro di un consesso senza alcuna volontà di
esserlo.
Per quanto questo libro si componga di più raccolte, con tematiche e
modi espressivi anche diversi, spaziando dal verso libero al
sonetto, inscindibile appare il pathos che ha condotto la mano alla
scrittura.
Il risultato può essere un grido lancinante come in Sonetti di
guerra, oppure una desolata rassegnazione come in Smarrimenti
urbani, ma la filosofia del poeta è sempre la stessa, una
disillusione che tende a svellere dal suo ruolo abituale la materia
inerte, la carne, carrozzeria del corpo, per permettere all'IO di
subentrare nella realtà di ogni giorno, contestandola, rifiutandola,
una voce forte lanciata all'umanità da una finestra o da un balcone,
un lamento per una vita non più accettata e dalla quale c'è la
disperata ricerca di una via d'uscita, nel presupposto, logico, che
debba essere necessariamente condivisibile.
Così l'identificazione dell'uomo Panzardi con il poeta Panzardi non
è più solo un artificio, una finzione che artisticamente serva allo
scopo di rappresentare un pensiero, bensì è uno sfogo e al tempo
stesso un ritratto impietoso della propria inquietudine, che poi è
quella di un'umanità sempre più confusa, vagante senza meta nella
nebbia, perché ormai priva di quel senso di orientamento interiore
costituito da valori di cui si è persa la memoria.
Finestre e balconi sul mondo e dal mondo, squarci sulla propria
anima sbigottita, ma soprattutto un grido forte, intenso, benché
silenzioso, quasi l'urlo di Munch si potrebbe dire, una disperata
rassegnazione per una vita che poco a poco perde il suo ieri, non
s'accorge dell'oggi e ignora cosa sia il domani.
Luigi Panzardi è nato a San
Giorgio Lucano in provincia di Matera il 27 maggio 1942 e vive a
Taranto. Ha pubblicato, oltre a questa, due raccolte di poesie
intitolate Parole bianche e Istanze e sogni, nonché
una raccolta di racconti(Addii di un rosso inconscio).
Renzo Montagnoli
25/05/2010
RacCorti - Storie brevi e brevissime che
sembrano film
di Adalberto Fornario
Edizioni Jamm, 2010
DI CUORE E DI PENSIERO
Trame di films, appunti di vita, tracce di racconti autobiografici e
non. Sono prodotti e pulsioni della fervida fantasia di Adalberto
Fornario, che, come lui stesso a volte ama sottolineare divertito,
non interrompe mai la sua attività. La curiosità è la molla
principale che pompa ossigeno e sangue nel cuore e nella testa :
cinema, al primo posto, narrativa, soprattutto noir, teatro, musica,
soprattutto l'amato Faber, arti visive, insomma Adalberto è un
divoratore onnivoro di tutto quanto l'umana creatività può produrre.
E da queste abbuffate culturali sortiscono le sue elaborazioni
creative, che diventano un impellente bisogno di misurarsi con se
stesso e condividere con gli altri. Così scrive e pubblica poesie
(Faccia a faccia 2006), gira e monta videoclip e corti, ipotizza
trame di film mai visti e che magari prima o poi film diverranno.
Divertendosi prima di tutto e divertendoci con la sua arguta e
visionaria capacità che si traduce in nobili "pensieri e parole".
Ivana Jachetti
24/05/2010
La caccia al tesoro
di
Andrea Camilleri
Sellerio
edizioni Palermo
Genere noir
Il sedicesimo libro della serie con Montalbano ha un incipit
diverso: il commissario non ha passato una nottata
fitusa, non s’arroviglia
tra le lenzuola, ma più avanti si legge: “e
fu accussì che
inveci d’essiri, come al solito,
arrisbigliato dalla prima luci del
jorno, fu lui a
vidiri il jorno che s’arrisbigliava”.
Sembra di entrare subito nell’atto criminoso, ma poi Camilleri ci
svia, ci addentra in un commissariato sonnolento, intorpidito, senza
fatti violenti o cruenti sia pure di
scarsa entità, Montalbano che non sa come passare il tempo tra un
libro di Simenon, una
Domenica del Corriere
del 1920 e l’osservazione entomologa del percorso di una mosca
intorno alla scrivania.
Montalbano primo che interloquisce con Montalbano secondo sulla
vecchiaglia, riflessioni sul suo modus
operandi più
cauteloso: si rimprovera e poi si assolve.
Catarella con le sue proverbiali storpiature
lessicali, sciddricate della mano sulla
porta e divagazioni con rebus e cruciverba
allenta la tensione che tra le pagine s’insinua. La
sempiterna e slapita
Livia distante anni luce, solo
telefonicamente rivendica ancora un minimo di
attenzione da parte di Salvo. Fazio,
Mimì Augello, Gallo, Galluzzo, la
svedese Ingrid cristallizzati nei loro
ruoli, ci accompagnano in questa nuova e più noir storia: due vecchi
fanatici religiosi, due bambole gonfiabili, lettere anonime che in
giochi enigmistici invitano il commissario ad una strana e poco
credibile caccia al tesoro, la scomparsa di una giovane e bella
ragazza e un giovane aspirante epistemologo, tutto questi elementi
sparsi e apparentemente slegati tra loro trovano la giusta
collocazione. Montalbano rimette a posto
con la sottile arguzia che lo contraddistingue tutti i pezzi del
puzzle, quando un lapsus e due omissioni gli illuminano la mente e
la risoluzione del caso prende forma anche senza uno straccio di
prova, ma “la mancanza di prove non è prova della mancanza”, (Rumsfield).
Da “L’età del dubbio”
e “La danza del gabbiano”
il commissario di Vigàta, 57
enne, s’interroga, si analizza sempre più nel profondo: sì, ripete i
suoi rituali legati alla cucina, la buona cucina
di Adelina o di Enzo, la passiata
al molo, fino sutta al faro, l’assittatina
supra allo scoglio con relativa
sicaretta, le parole che lo fanno
arraggiari, il guasto della natura,
della politica, dell’animo umano che lo feriscono, l’offendono, ma
ad una certa età s’addiventa
insofferenti su tutto. Conferme per lui che sta
diventando vecchio. Una forma di spleen cova nel suo cuore e
squieta la mente, la solitudine che
prima era quasi uno status naturale ora l’avverte con più sofferta
sensibilità. Camilleri attinge a piene mani alla sua fantasia, ma
anche alle sue eccellenti letture, echi e riferimenti letterari,
come il nome della via
Brancati al
Don Giovanni in Sicilia,
bambole gonfiabili comprate all’estero, espressione di un erotismo
stravagante e alla moda e altro.
La caccia al tesoro è
un’altra gemma letteraria di Camilleri che
ci emoziona fino all’ultima riga. Come il
personaggio Arturo Pennisi, il
picciotto ventino, preciso
intifico a un Harry
Potter, è interessato al funzionamento
del cervello di Montalbano quando conduce un’indagine, così noi
lettori siamo incuriositi e affascinati della mirabolante struttura
linguistica di Camilleri e degli architettonici ed ingegnosi
intrecci narrativi delle sue opere. E
come se Camilleri sfidando se stesso in un gioco di specchi
lanciasse una sfida anche ai suoi lettori facendoli giostrare
a più livelli mentali e ingannandoli-
da ottimo giallista- per gran parte del
testo.
L’autore. Andrea
Camilleri è nato a Porto Empedocle nel
1925. Ha esordito come romanziere nel 1978 con
“Il corso delle cose”.
Della sua ricchissima produzione letteraria
tutti i romanzi con protagonista il commissario Montalbano
sono pubblicati dalla casa editrice
Sellerio e altri, tra questi ricordiamo: “La
forma dell’acqua”, “Il cane di terracotta”, “Il ladro di merendine”,
“La voce del violino”, “La stagione della caccia”, “Il birraio di
Preston”, “La concessione del telefono”,
“La gita a Tindari”, “Maruzza
Musumeci”, “Il casellante”, “Il campo
del vasaio”, “L’età del dubbio”, “Un sabato, con gli amici” “Il
sonaglio” “Il cielo rubato” “La danza del gabbiano”, “Il nipote del
Negus”.
Arcangela
Cammalleri
22/05/2010
Raimondo Mirabile, futurista
di Graziano Versace
Edizioni XII
www.xii-online.com
Narrativa romanzo
Collana Eclissi
Già dalle prime pagine l'IO narrante, rappresentato da Gregorio
Valli, il maggiordomo di Raimondo Mirabile, l'effettivo
protagonista, mi ha fatto venire in mente un altro personaggio,
Archie Goodwin, il segretario di Nero Wolfe; poi, nello svolgimento
della trama, un vero e proprio feuilleton ambientato in una fosca
Milano degli inizi del secolo scorso, l'autore ha attinto a piene
mani ad altri generi e sottogeneri. Così, nell'ambito di una vicenda
di extraterrestri e quindi propria della fantascienza, si innestano,
oltre a elementi del giallo, anche aspetti e situazioni tipiche del
gotico, dell'esoterico, con una puntata nell'atmosfera dello
steampunk. Nasce così un curioso cocktail in cui Graziano Versace
sembra trovarsi, tutto sommato, a suo agio e di questa costruzione
narrativa il lettore non potrà che essere appagato, costantemente
teso a scoprire come i nostri eroi riusciranno finalmente a sventare
una diabolica cospirazione messa in atto da esseri alieni. Giova
molto, peraltro, l'agilità di una scrittura dal tono velatamente
distaccato, quasi di epoca vittoriana, che più che tendere a
drammatizzare induce ad alimentare una curiosità sull'evolversi
della vicenda che cresce progressivamente, fino a quasi il
parossismo delle pagine finali, con una discesa in una cripta,
gigantesca, di una tomba monumentale del cimitero di Milano in cui
ritroviamo strumenti e macchinari tipici dei romanzi di Jules Verne
Viaggio al centro della terra, Dalla Terra alla Luna, L'isola
misteriosa e Ventimila leghe sotto i mari.
L'impressione è così di immergersi nei ricordi delle letture della
giovinezza, allorché attiravano maggiormente le avventure narrate
dallo scrittore francese anziché quelle di Asimov, forse perché le
prime avevano un sapore pionieristico, quasi artigianale, meno
tecnologico del mondo dei robot.
Oggi la fantascienza è una proiezione della scienza nel futuro ed è
quasi scontato che un giorno sarà così, ma il sapore di qualche cosa
che sembra più dimensionato all'uomo si ritrova in opere come quelle
di Verne, di Wells e anche in questo piacevolissimo romanzo di
Versace.
Peraltro, il richiamo al futurismo non è solo opportunistico, vista
l'epoca, ma va ben oltre e sembra avere un significato profetico,
con quel delirio di volontà e di potenza con il quale gli alieni
intendo asservire i terrestri. Le loro parole circuiscono, nel dire
una cosa se ne imprime un'altra nelle menti, un'allusione
all'attuale comunicazione televisiva che non libera, ma assoggetta.
Fra trovate geniali, come quella dell'olio sostituito al sangue, e
altre con vaghi richiami letterari, come la serata futurista, è un
salto nel passato per comprendere il presente, e, secondo me, sta in
questo la reale grandezza del romanzo, peraltro godibilissimo anche
come letteratura fantastica.
Da leggere, non ve ne pentirete.
Graziano Versace è nato a
Belmore (Australia) nel 1964. Laureatosi in Lettere Moderne, ha
svolto l'attività di psicoterapeuta umanistico-esistenziale, lavoro
che ha svolto occupandosi di Bioenergetica reichiana e loweniana, e
di altre terapie umanistiche, approfondendo anche la ricerca sugli
studi di Carl Gustav Jung e dei neo-junghiani in genere,
privilegiando l'aspetto del sogno, o meglio della dimensione
onirica. Attualmente, insegna Materie Letterarie a Sant'Agata di
Militello (ME) dove vive insieme alla moglie Ketty e al figlio
Davide. Ha pubblicato un libro di narrativa per la scuola dal titolo
Biglie colorate. A settembre 2009 è uscito per San Paolo un
suo romanzo: Ladri di locandine. Finalista due volte al
Premio Urania, coltiva da sempre la passione per la Fantascienza.
Renzo Montagnoli
21/05/2010
L’isola della paura
Di
Dennis
Lehane
Thriller
Ed. Piemme
LineaRossa
Titolo originale
Shutter Island
“Dobbiamo sognare
i nostri sogni e dar loro vita?”
Elisabeth Bishop.
Question of travel
Questo romanzo è un thriller ad alta
tensione, psicologico e coinvolgente. La trasposizione
cinematografica di Martin
Scorsese ricrea le stesse atmosfere cupe
e claustrofobiche del libro, scene
apocalittiche durante l’imperversare dell’uragano e personaggi
tetri e foschi, alcuni dei quali hanno solo parvenze umane. L’isola
è la protagonista assoluta della storia, una cosa che cattura nelle
sue spire chi approda e non sa che è un viaggio senza ritorno. Ciò
che appare sembra, ma non è reale, la vita reale è labile come
foschia che dirada all’orizzonte, solo gli incubi depredano il
cervello umano e come alieni invadono i
gangli nervosi. L’agente federale Teddy
Daniels, eroe di guerra ( nella seconda
guerra mondiale), porta i suoi fantasmi interni sull’isola. Nel
settembre del 1954, da Boston dove abita, è inviato nell’isola di
Shutter, a
Ashecliffe Hospital, un manicomio
criminale per indagare la scomparsa di una certa paziente Rachel
Solando. La trama non si può raccontare,
come ogni noir degno di questo nome deve rimanere nel mistero e solo
chi lo legge può trarne le sue
conclusioni. Ma si può sottolineare i
temi di fondo sottesi alla storia: la guerra che fabbrica eroi
mediante omicidi legalizzati e devasta il cervello e il fisico fino
a, volte, all’annientamento, le pratiche psichiatriche da camicia di
forza e pene detentive, spacciate per cure per le malattie mentali,
la società americana con i suoi perversi meccanismi di supposta
autodifesa che annega i suoi fantasmi nell’alcool e in un rigido
moralismo patriottico. Un finale aperto sorprende e le ultime pagine
e le ultime righe sono un colpo mancino
da parte dell’autore assestato con astuzia e con una buona dose di
perfidia. Lambiccarsi il cervello e indurre alla riflessione sono i
messaggi sublimali che Dennis
Lehane lancia al lettore. Come
rimanerne? Delusi? No, perché il protagonista ci
entra nella mente, in quel suo continuo arrovellarsi; le
visioni, i sogni, sono così fisici da frantumare l’interezza
dell’io. Le sue sofferenze così tangibili dilaniano ogni fibra del
suo corpo che sembra quasi di sentire e percepire, attraverso le
pagine, tutte le sensazioni più intime. I traumi passati diventano
un’arma che si ritorce su stessi, ci sono esperienze, quali la
guerra, la morte violenta che segnano
inesorabilmente l’animo sconvolgendo la psiche. In questa narrazione
l’amore del protagonista per la moglie è totalizzante, terribile”Lei
era stato tutto l’amore che avesse mai provato” e questo
amore è descritto come gioia, esaltazione prima, dopo sofferto,
tormentato e senza tregua consuma il suo spirito.
Lehane coglie ogni dettaglio dei
sentimenti che vivono nella mente di Teddy,
esplora l’animo umano con grande psicologia. E
come se svegliasse la memoria intorpidita dal troppo dolore e
scavando in profondità facesse affiorare tutto l’indicibile non
altrimenti sopportabile. La verità non sempre è il bene,
l’apparenza di essa è
eticamente accettabile quando la pretesa
di possedere una verità assoluta è relativa all’individuo. Una
bella scrittura, un bell’intreccio ben
congegnato, una intensa riflessione
sull’uomo quando la sua vita si trasforma in dramma e tutto
precipita, dei motivi per leggere questo libro ed apprezzare
l’intenzione profonda che muove l’autore a raccontare questa
vicenda.
L’autore. Dennis
Lehane
Di origine irlandese, vive a Boston, dove
ha ambientato tutti i suoi romanzi. Dopo aver fatto i mestieri più
disparati, si è dedicato interamente alla scrittura. I suoi romanzi
sono venduti con grande successo in tutto
il mondo e pubblicati in Italia da Piemme.
Tra gli altri ricordiamo La casa
buia.
Gone
Baby Gone, diventato un film
per la regia di Ben Affleck.
Mistic
River.
La morte non dimentica,
bestseller internazionale da cui è stato tratto il celebre film di
Clint Eastwood,
e Quello era l’anno,
con cui si cimenta nel grande romanzo
epico. Da L’isola
della paura
Martin Scorsese
ha tratto il film
Shutter
Island, con Leonardo
DiCaprio e il Premio Oscar Ben
Kingsley.
Arcangela
Cammalleri
I racconti del cavolo
di Marino Solfanelli
II Edizione
Presentazione di Giuliana Cutore
In copertina Filosofo in meditazione, di Rembrandt (1632)
Edizioni Tabula Fati
www.edizionitabulafati.it
Narrativa racconti
Il titolo può trarre in inganno, ma state tranquilli che questi
racconti non sono bagatelle, bensì piacevoli incursioni nel
quotidiano che, arricchito da una buona dose di creatività, finisce
con l'apparire degno di considerazione, a volte divertendo e altre
inducendo alla riflessione.
Non è la prima volta che un editore invade il campo degli autori, ma
Marino Solfanelli sembra che abbia voluto, più che altro, aprirsi
agli altri attraverso storie, per lo più brevi, desunte da
osservazioni guidate dall'occhio esperto e attento del giornalista.
Si passa così dal surreale "Furto al supermercato", una
satira graffiante del paradigma giudiziario, che si riconferma in "Il
processo" con protagonista un avvocato di manzoniana memoria,
all'aneddoto, come in "Il comizio", per confluire
maestosamente nel didascalico "In cerca dell'amore", passando
attraverso l'amara constatazione di "Il creditore del terzo
giorno" e il brevissimo, ma intenso "L'uomo dalle stampelle".
E' un microcosmo di personaggi, di situazioni, di vita di ogni
giorno che emerge alla ribalta impreziosito dalla creatività
dell'autore e dal garbo, peraltro colloquiale, dell'esposizione.
Sono tutti racconti che si leggono alla svelta e con piacere, ma non
crediate che servano solo a trascorrere un paio d'ore, magari mentre
si viaggia in treno. Infatti, arrivati all'ultima pagina, dopo aver
scorso un brano un po' fuori dal coro, un'esperienza certamente di
vita vissuta, quale quella di "La città verboten", un quadro
realistico e allucinante di ciò che ci capita pressoché ogni giorno,
asfissiati dallo smog, incolonnati nelle nostre scatole di latta in
gironi quasi danteschi, è d'obbligo tirare le somme, ripensando alla
lettura fatta, a certe osservazioni, ad alcuni personaggi, e solo
allora ci si accorge che è rimasto dentro qualche cosa, che non è
stato solo svago e che in fondo Marino Solfanelli è riuscito a
comunicare con noi.
No, credetemi, non sono proprio racconti del cavolo, ma ben altro.
Marino
Solfanelli, iscritto all'Albo
dei Giornalisti dal 1957 (Tessera N. 60323), il 23 marzo 2002 ha
ricevuto una medaglia ricordo per i 45 anni di iscrizione.
Dal 1955 al 1970 è stato Redattore Capo della Redazione di
Chieti del quotidiano Il Tempo.
In tempi diversi ha collaborato con i quotidiani: Il
Corriere della Sera, Il Gazzettino di Venezia, Il Mattino di Napoli,
Il Secolo d'Italia, Linea.
Esperto di Pubbliche Relazioni, Promozioni vendite, Ricerche di
mercato, ha collaborato con Istituti di Ricerche, Fondi Comuni di
Investimento, Assicurazioni.
Negli anni '60 è stato consulente per le Pubbliche Relazioni
della Marwin Gelber (già Camiceria Adriatica)
Esperto di editoria, nel '72 ha fondato e diretto, sino al
1995, la Casa editrice Solfanelli, di rilevanza e prestigio
nazionale.
Attualmente collabora
con la casa editrice Tabula fati del figlio Marco.
Ha fondato e diretto diversi periodici fra i quali
L'Alternativa del Centro Studi Politici e Costituzionali del
prof. Giacinto Auriti. Attualmente è direttore responsabile di
alcune pubblicazioni, tra cui la rivista di cultura teatrale
InTeatro
Da oltre 50 anni, è editore e direttore dell'Agenzia di
informazione ABRUZZOpress. Prima Agenzia di notizie a
diffusione settimanale sorta in Italia, negli anni '50, con la
testata ABRUZZO-MOLISE-press, trasformatosi in
ABRUZZOpress dopo il distacco amministrativo della Regione
Molise (1963); per decenni ha diffuso - per le pubblicazioni
abruzzesi sparse nel mondo - notizie di attualità, politica, cultura
e tradizioni popolari della nostra Regione. ABRUZZOpress,
dall'anno 2000 diffonde, con periodicità quotidiana (via E-mail o
per Fax), notizie ad Agenzie di Informazioni (italiane e straniere),
Quotidiani e Periodici, Tadio-Tv (locali e nazionali), Organi dello
Stato, Parlamentari, Amministrazioni, Enti, Associazioni, Partiti.
ABRUZZOpress dispone del
sito internet che viene quotidianamente aggiornato con le notizie
diffuse dal quotidiano.
Svolge di quando in quando lezioni di giornalismo - con
particolare soddisfazione di insegnanti ed allievi "speciali" - in
alcune classi di V Elementare.
Renzo Montagnoli
09/05/2010
Nonostante il Vaticano
di Gianluca Ferrara
Castelvecchi Editore
www.castelvecchieditore.com
Collana Tazebao
Alcuni giorni fa ho letto sul n. 17 dell'Espresso un interessante
editoriale di Eugenio Scalfari intitolato Il potere e il Vangelo.
In esso l'autore, notoriamente ateo, evidenzia che dalla lontana
donazione di Costantino la Chiesa è dibattuta fra la realizzazione
del messaggio di Cristo e la difesa, o meglio ancora, il
rafforzamento del potere temporale. E' una discrasia ormai più che
millenaria, un conflitto che sembra insanabile e che in alcuni
periodi si riduce, per poi riprendere vigore e riaffermarsi.
In pratica è di ciò che parla anche questo interessante e pregevole
libro di Gianluca Ferrara, con un fondo di amarezza tipico
dell'autentico credente che soffre nel vedere quanto la realtà
differisca dai propositi, quanto il messaggio evangelico entri in
aperto contrasto con un "fare" istituzionalizzato non difforme da
logiche e da scelte di potere.
Mi si potrà far osservare che la questione è vecchia, che nulla è in
effetti cambiato e nulla cambierà, che i difetti della Chiesa come
istituzione sono tanti e facilmente evidenziabili e che quindi
parlarne è facile, ma soprattutto inconcludente, perché il problema
non si risolve.
Ferrara, però, non spara nel mucchio; la sua è un'analisi che cerca
di essere la più fredda possibile per spiegare i motivi, additando
una soluzione tanto semplice quanto, proprio per questo, di
difficile, ma non impossibile realizzazione. Il percorso è quello
segnato, è il messaggio di Gesù Cristo e basta seguirlo, così come
hanno fatto e fanno tanti religiosi.
Questi preti scomodi, umili perché non mossi dalla brama del potere,
in effetti finiscono con l'essere la salvezza della Chiesa,
un'istituzione che, quando loro non possono più nuocere, li eleva ad
esempio, magari anche beatificandoli, se non santificandoli.
Eppure in vita hanno dovuto subire mortificazioni, disagi,
emarginazioni, proprio come tutti coloro che si attivano per ridare
dignità all'essere umano, per fare in modo che le disuguaglianze
vengano eliminate, per ridare vita e speranza
agli oppressi, ai diseredati.
E così Ferrara ci parla di Don Milani, della sua opera, di quanto
sia stato osteggiato dalla gerarchia ecclesiastica, come pure scrive
di altri religiosi, facendoli addirittura parlare, come nel caso di
Don Gallo, di Don Della Sala, di Padre Zanotelli, tutti sacerdoti
scomodi, perché portano avanti il messaggio di Cristo mettendolo in
pratica in prima persona, senza trincerarsi dietro motivi di comodo
o, peggio ancora, di aspirazioni di potere.
Se la Chiesa come istituzione ancora esiste è anche per merito loro,
per questi uomini fra gli uomini, per queste schegge di Cristo, come
li ha ben definiti Beppe Grillo nella sua introduzione.
Nonostante il Vaticano non è un libro per soli credenti, ma è
il libro per tutti gli uomini che sperano in un mondo più giusto.
Gianluca Ferrara, laureato in
Scienze Politiche a pieni voti presso l'università Federico II di
Napoli, ha collaborato su Internet a riviste letterarie e culturali
su argomenti d'attualità e saggi a sfondo sociale.
Nel 2000 ha pubblicato "Viaggio nella droga proibita" ,
presentato al Salone del Libro di Torino, e vincitore del premio
letterario internazionale "Mondolibro", è stato inserito in
prestigiose antologie letterarie. Un saggio sulla droga, la cui
introduzione è stata effettuata dall'onorevole Ernesto Caccavale,
che ha riscosso notevole interesse tra gli addetti ai lavori. Ad
esso hanno partecipato attraverso interviste e testimonianze l'ex
commissaria europea Emma Bonino, il ministro Maurizio Gasparri, il
direttore del giornale di San Patrignano Forquet. Nel 2005 gli è
stato conferito il diploma speciale dalla giuria del Gran Premio
Letterario Europeo Penna d'Autore.
Renzo Montagnoli
06/05/2010
L'amante dell'Orsa Maggiore
di Sergiusz Piasecki
Mondadori Editore
Narrativa romanzo
Se c'è un romanzo che incarna il desiderio di libertà e lo spirito
di avventura è proprio L'amante dell'Orsa Maggiore. L'autore
è riuscito a narrare una sua esperienza di vita innestando anche
fatti ed eventi di pura fantasia con straordinaria abilità, rendendo
così la sua opera particolarmente attraente tanto da trovare non
pochi entusiasti al punto tale da indurre il regista Valentino
Orsini a trarre un buon film nel 1971 e Anton Giulio Majano a
dirigere uno sceneggiato televisivo nel 1983.
La trama, densa di avvenimenti, ruota intorno alla figura di Vladek,
nome che si attribuisce l'autore e che altri non è se non un
contrabbandiere che percorre di notte sentieri appena tracciati per
passare dalla Polonia all'Unione Sovietica.
Il pericolo sempre presente, le suggestive descrizioni di cieli
stellati, di una natura solo in apparenza ostile e le innumerevoli
vicende che si susseguono con ritmo serrato danno a questo romanzo
un'atmosfera di ribellione a tutto ciò che è imposto dagli uomini
per restituire così all'individuo la originaria libertà.
Vladek non è un eroe, ma solo un uomo che ama correre nel vento come
un cavallo selvaggio, forse anche un anarchico ammantato da un velo
di istinti primitivi che lo portano a vivere un'esistenza
avventurosa giorno per giorno fino a quando anche lui si accorgerà
che non è più il tempo di una spensierata giovinezza trascorsa
all'insegna di una beata incoscienza, ma che l'ultima stagione va
sempre più approssimandosi.
In questo romanzo ciò che è emerge è la bellezza di vivere, il
desiderio di esistere intensamente ogni giorno come se questo fosse
l'ultimo; l'ho letto che ero giovane e mi ha letteralmente
entusiasmato, l'ho riletto molti anni più tardi con un senso di
rimpianto per il tempo andato, per giorni trascorsi a rilento, per
un'esistenza che non è che una pallida ombra di quella di Vladek.
E non c'è più un'Orsa Maggiore a guidare il mio cammino nell'oscuro
sentiero della vita.
Leggete questo romanzo, riscoprite il significato della vera
libertà.
Sergiusz Piasecki (Lachowicze, 1
aprile 1901 - Londra, 12 settembre 1964). Scrittore polacco molto
apprezzato, combatté prima contro i bolscevici, poi contro i
tedeschi, nell'ambito di una vita avventurosa che lo vide svolgere
l'attività di contrabbandiere, conclusa nel 1929 con il suo arresto.
Di questo periodo di illegalità ha scritto nel suo romanzo più
famoso, L'amante dell'Orsa Maggiore.
Renzo Montagnoli
03/05/2010
L'opera al nero
di Marguerite Yourcenar
Nota dell'autore
Giangiacomo Feltrinelli Editore
Narrativa romanzo
Quando Marguerite Yourcenar scrive nel 1968 L'opera al nero
sono già trascorsi più di cinque lustri dalla prima edizione di
Memorie di Adriano, che può essere considerato il suo libro più
riuscito e, in assoluto, un capolavoro. Il suo è un ritorno al
romanzo storico, un genere che le è indubbiamente congeniale e che
appunto con Memorie di Adriano le ha dato fama e risonanza a
livello mondiale. Se però nel descrivere la crisi che colpisce
l'imperatore illuminato, ormai prossimo alla morte, evoca anche
l'atmosfera della grande Roma ormai incamminata verso la sua fine,
con L'opera al nero, nel narrarci della vita del medico e
alchimista Zenone, ci mostra splendidamente il passaggio storico dal
Medioevo al Rinascimento. Marguerite Yourcenar non si limita a un
grande affresco di un'epoca di transizione all'evo moderno, in cui
convivono le rigide e apparentemente immutabili regole di un periodo
oscuro con i primi bagliori di luce della nascita di una nuova era
in cui l'uomo ambisce a squarciare il pesante telo di ignoranza e di
superstizione, ma va più a fondo, e come nel caso di Adriano,
instaura un dialogo fra l'essere e la sua anima, fra la materialità
del corpo e la sua essenza spirituale, in una ricerca della verità
interiore di rara e stupenda bellezza.
Mentre Adriano è esistito veramente, Zenone è esclusivo frutto della
creatività, pur se influenzata indubbiamente dalla vita di
personaggi dell'epoca quali Paracelso e Tommaso Campanella. Al pari
di questi uomini dotti e famosi, il povero medico e alchimista ha
dovuto subire le conseguenze derivanti dall'essere un anticipatore
dei tempi nuovi. Precorrere nuove idee che un giorno andranno ad
affermarsi è sempre un rischio e a tal riguardo basti pensare al
processo che dovette subire Galileo Galilei. Si viene a determinare
così uno scontro fra la razionalità che ammette possibilità diverse
e il pensiero dominante che può e deve essere solo unico. Non a caso
Zenone, processato per eresia, discutendo con i teologi dice loro
queste parole "Non esiste accomodamento durevole tra coloro che
cercano, pensano, analizzano e si onorano di pensare domani
diversamente da oggi, e coloro che credono o affermano di credere, e
obbligano con la pena di morte i loro simili a fare altrettanto.".
E' un'evidente accusa al dogma, a quel credere ciecamente che porta
a un assolutismo tale in base al quale anche gli altri sono
costretti a credere. Lo sviluppo culturale non può quindi che essere
frutto del dubbio, ma ciò significa entrare in aperto contrasto con
le religioni imperanti monoteiste, quali il cattolicesimo, il
luteranesimo, l'islamismo, in eterno contrasto con la razionalità
della scienza e sempre inclini a negarla, non riuscendo, né volendo,
tenere separati il soprannaturale e la realtà materiale del mondo in
cui si vive.
Zenone è uno spirito libero e come tale vuole condurre la sua
esistenza, costretto però per professare le sue idee a usare un nome
falso, a nascondersi, a una clandestinità che tuttavia lo ripaga
dell'immenso piacere di porsi domande cercando risposte. Come altri
uomini nuovi (basti pensare a Giordano Bruno) finirà con l'essere
scoperto, processato e condannato a morte; lo spirito di libertà che
lo anima, tuttavia, gli impedirà di essere consegnato al carnefice e
così la sera prima dell'esecuzione in un ultimo atto di ribellione
si toglierà la vita.
L'opera al nero è un romanzo avvincente e dai profondi
significati; la lettura, quindi, è vivamente raccomandata.
Marguerite Yourcenar, pseudonimo
di Margherite de Crayencour, nasce a Bruxelles l'8 giugno 1903 e
muore a Mount Desert il 17 dicembre 1987, dopo una vita avventurosa
ed errabonda. Le sue opere principali sono Alexis o il trattato
della lotta vana (1928), Il colpo di grazia (1939),
L'opera al nero (1968) e, soprattutto, Memorie di Adriano
(1951).
Renzo Montagnoli
02/05/2010
L’eleganza del riccio
di
Muriel Barbery
edizioni
e/o
Se volessi
sintetizzare in quattro parole questo libro direi: Elogio del buon
gusto.
Mi ha fatto molto piacere leggerlo perché ho trovato un netto
contrasto con quanto avevo letto in una recensione che lo liquidava
come “romanzo disturbato da citazioni dotte” che non ne avrebbero
fatto fruire in modo agevole la trama, e come “una sorta di
esibizione di cultura filosofica e artistico-letteraria” da parte
dell’autrice che, con questo sistema di citazioni, avrebbe spogliato
il romanzo delle sue essenziali caratteristiche strutturali e di
contenuto facendone una cosa diversa senza riuscire ad attirare che
pochi lettori cervellotici.
In un primo momento avevo deciso che non valesse la pena leggere un
romanzo presentato in modo così poco accattivante. Ma poi ho voluto
provare a leggerlo per avere la possibilità di confermare quelle
opinioni o di smentirle.
E mi ritrovo qui a scrivere questa recensione breve, per dire appena
due cose su un romanzo che a me è piaciuto molto.
La prima cosa che voglio evidenziare è che il romanzo ha una
caratteristica di struttura forse non originale, (in quanto altri
romanzi precedenti sono stati scritti in modo simile), ma che ne
semplifica molto la lettura: è come se fossero due racconti di vita
affiancati, quello di una portinaia e quello di una ragazzina di
famiglia bene di appena dodici anni.
Le loro narrazioni, ciascuna in prima persona in quanto le due
protagoniste parlano della propria esperienza, si incrociano spesso
nel richiamo che entrambe fanno alle conoscenze accumulate e/o allo
stile di vita che preferiscono. E sono proprio le citazioni
culturali che in qualche modo sottendono i legami psicologici delle
due narratrici.
Il secondo rilievo che voglio fare riguarda proprio l’elemento messo
sotto accusa nella recensione che avevo letto: le citazioni, ancora
una volta. Ma smentisco che siano di peso nella lettura del libro,
prima di tutto perché non è affatto vero che sono eccessive, e in
secondo luogo perché catalizzano l’attenzione del lettore proprio su
ciò che le protagoniste hanno in comune, lasciando in tal modo che
si formi nella sua mente, in maniera quasi automatica, una sorta di
complicità con entrambe.
La lettura quindi tiene legato il lettore alle vicende raccontate e
alternativamente ci si trova a simpatizzare ora con l’una e ora con
l’altra.
Lo stile di scrittura è limpido, elegante, non ricercato, ed è
funzionale ai due diversi stili di narrazione. È un libro che si
legge con attenzione mai forzata, anzi trascinata inconsapevolmente
in avanti, come per voler arrivare fino in fondo tutto d’un fiato.
Ma anche con l’imporsi dovute pause allo scopo di far durare di più
la magia degli incontri con i fatti e con i personaggi.
Carmen Lama,
2 maggio 2010
Mille volte niente
di
Emma La Spina
Di Piemme
Romanzo autobiografico
Dopo Il suono di mille silenzi,
il seguito dell’opera è Mille
volte niente, una narrazione sul filo dell’incredibile:
una serie di sventure che si abbattono sulla protagonista in un
crescendo di sofferenze inaudite. Come può una
sola persona vivere un carico di dolore così pesante? Come può il
destino accanirsi con così tanto accanimento? Si
resta sgomenti dinanzi a tanto patimento e, in questa fase della
vita dell’autrice, non si risparmiano le offese e le
avversità. Dopo la lettura rimane nella mente l’eco delle parole
scritte con l’animo straziato, così penetranti da permanere per più
giorni senza tregua.
Dopo l’orfanotrofio, si apre un nuovo capitolo per
la diciottenne Emma alle soglie
dell’esame di maturità: le insidie della vita esterna sembrano
sempre più trascinarla in abissi senza fine: sperimenta i bassi
estremi dell’animo umano altrui e con pervicacia riemerge con
fatica e rinnovata speranza. E’ un continuo risorgere alla luce
quando il buio sembra inghiottirla e fagocitarne tutte le risorse.
Ma la speranza sia pure flebile e lontana
illumina il suo percorso di vita, le gioie fugaci si alternano alle
cocenti delusioni. L’autrice, però, non soccombe mai, come un’eroina
intrepida pur tra mille difficoltà, va avanti, soprattutto quando
l’essere madre le dà una forza interiore e
quell’affetto tanto desiderato e non corrisposto. Una piccola
e grande donna sempre in continua lotta
per la sopravvivenza, alla ricerca di una vita dignitosa e
indipendente. La paura di ritrovarsi al punto di partenza, povera,
sola al mondo e abbandonata diventa paradossalmente la
spinta ad aiutarsi a vivere meglio.
Il degrado sociale in cui viene
a trovarsi, suo malgrado, la giovane Emma
non intacca la sua purezza di fondo, in una sorta di romanzo
ottocentesco, tra un’umanità miserabile e brutale, l’anima il
desiderio di un riscatto finale: la nebbia che avvolgeva la sua vita
si dirada e il presente offre possibilità migliori. Certo le
ferite dell’infanzia, della giovinezza
sono rimarginate, ma non si cancellano, nell’espressione degli
occhi traspare una velata e dolce malinconia, ma i suoi scritti,
oggi, testimoniano la sua lotta per la vita “con incrollabile
fiducia”.
Il suo racconto autobiografico è un concentrato d’angoscia che
lascia sconcertati e solo il tempo potrà diluirne il denso
contenuto.
Leggere e conoscere la storia
di Emma è un’esperienza di vita.
L’autrice: Emma La Spina è nata a
Catania nel 1960. Ha scritto "Il
suono di mille silenzi", il suo primo romanzo.
Arcangela Cammalleri
27/04/2010
Presagio triste
di Banana
Yoshimoto
Ed. Super UE
Feltrinelli
Titolo dell’opera
originale
Kanashii
Yokan 1988
Traduzione dal
giapponese di Giorgio
Amitrano
Narrativa -
romanzo
Yayoi, la
protagonista del romanzo, è una ragazza diciannovenne che vive
apparentemente felice con i suoi genitori, amorevoli e comprensivi e
il fratello Tetsuo. Tutto sembra
scorrere in un clima idilliaco e calmo, ma come lampi nella mente di
Yoyoi turbinano pensieri molesti che la turbano e la rendono
inquieta; immagini e sogni di un passato confuso che non riesce a
decifrare. Tanti sono gli interrogativi che si affollano nell’animo
della giovane e la tormentano; le sue fughe improvvise sono i
segnali di un disagio lontano da superare. La figura della giovane
zia, insegnante di musica, che conduce una vita solitaria e
fuori dai canoni soliti, l’affascina e la
spinge a ricercarne la vicinanza. Il
disvelamento del mistero della sua infanzia maturerà Yoyoi
rendendola consapevole di certi aspetti del suo carattere e della
sua rappresentazione della realtà. Un breve romanzo dallo stile
lieve e carezzevole, in cui la sensibilità della scrittrice si
condensa in suggestive impressioni
paesaggistiche e mentali Le tante domande che la protagonista si
pone prefigurano risposte incerte e aperte sulla vita, riflessioni
interiori che imprimono spessore ai personaggi. Il ritmo narrativo
ha un andamento poetico, la fluidità espressiva scorre
limpida e cristallina come ruscello di
montagna, i suoni diventano immagini e viceversa.
E la protagonista immersa nell’ascolto di
una dolce melodia, si sente trascinata nelle profondità marine e un
triste presagio l’avvince come se il buio fosse sceso di colpo e
l’avesse trascinata lontano dalla marea con il rischio di perdersi.
È la discesa negli inferi dell’animo per poi risalire in una
parabola ascendente che la porta alla scoperta di sé, di una sorella
e un compagno. Un bel romanzo, nella sua brevità racchiude una
storia esistenziale, ammantata di fascino, sfumata e contenuta nei
toni.
L’autrice.
Banana
Yoshimoto è nata a
Tokyo nel 1964, ha conquistato un grandissimo numero di lettori in
Italia a partire da
Kitchen,
pubblicato da Feltrinelli
ne 1991. Suoi libri:
N.P.
1992, Sonno
profondo 1994,
Tsugumi
1994, Lucertola, 1995,
Amrita 1997,
L’ultima amante di
Hachiko e tanti altri.
Arcangela Cammalleri
24/04/2010
La luna è tramontata
di John Steinbeck
Mondadori Editore S.p.A.
Narrativa romanzo
Collana Oscar classici moderni
Quando nel 1962 a John Steinbeck fu conferito il premio Nobel per la
letteratura la motivazione fu la seguente: Per le sue scritture
realistiche ed immaginative, unendo l'umore sensibile e la
percezione sociale acuta.
In effetti lo scrittore americano è riuscito nei suoi libri a
sondare l'animo umano inserendo la sua ricerca in un contesto
sociale, in forza di un'interdipendenza che si attua in un doppio
flusso: dal singolo uomo alla collettività e da questa ancora al
singolo uomo. Steinbeck ha ben compreso che gli aspetti interiori di
ognuno si riflettono socialmente e che sempre il comportamento
individuale è influenzato dal contesto in cui l'individuo opera.
Con diverse sfumature questo concetto è base di opere di notevole
livello, quali I pascoli del cielo, Pian della Tortilla, Uomini e
topi, Furore, L'inverno del nostro scontento e La valle dell'Eden;
tuttavia, almeno secondo la mia opinione, dove risulta esposto più
chiaramente è ne La luna è tramontata, romanzo edito per la
prima volta nel 1942 allorché le sorti della seconda guerra mondiale
non erano ancora ben definite.
In questo romanzo, ambientato in Norvegia, contano più i personaggi,
le situazioni, le riflessioni dei protagonisti che la trama stessa,
in sé in verità abbastanza semplice. Un piccolo paese viene occupato
dai tedeschi con un vero e proprio blitz e con l'aiuto di un
traditore, quello che tutti i cittadini fino ad allora consideravano
un autentico benefattore. Colti di sorpresa, provano un generale
disorientamento, una sorta di annichilimento della volontà e,
soprattutto, della propria identità, ma poi la dignità di essere
uomini ancora liberi emerge e ha inizio una guerriglia non solo
bellica in senso stretto, ma anche psicologica nei confronti degli
invasori che poco a poco si scoprono non macchine da guerra, ma
uomini, con le loro debolezze e le loro paure.
In questo contesto i protagonisti di maggior spessore a cui lo
scrittore attribuisce il compito di portare avanti il suo messaggio
sono da un lato il colonnello tedesco Lanser che è dibattuto fra
l'assurdità degli ordini ricevuti e i contrasti della sua coscienza.
Non viene meno al suo dovere, ma gradualmente subentra in lui la
disperazione di compiere azioni sanguinarie che ritiene del tutto
inutili, maturando di pari passo una crescente stima verso il
sindaco, ben diversamente motivato dalla necessità di costituire un
punto di riferimento per i suoi concittadini, senza remore o
tentennamenti, arrivando perfino al sacrificio personale.
Sono due uomini in antitesi, ma se il tedesco si accorge della
progressiva perdita della sua dignità, il norvegese è invece
consapevole del suo graduale riacquisto.
Su tutto regna un tragico dolore: quello degli occupanti, che nel
loro indottrinamento credevano di essere accolti festosamente e che
invece sono costretti a vigilare nel timore di attentati; quello dei
cittadini occupati che non possono tollerare di perdere la loro
liberta e che intendono riprendersela, a qualsiasi costo.
Se la Luna è tramontata è un romanzo antibellico e
antimilitarista è però anche un libro che, partendo dalla stupidità
della guerra, travolge i normali schemi del patriottismo per rendere
giustizia agli oppressi, a chi è stato vinto senza aver voluto una
guerra, a chi crede che la dignità valga più della vita. Ma è anche
un'opera con cui si evidenzia che, deteriorando i dogmi inculcati
negli uomini da un regime, si ottengono un disorientamento e una
progressiva disaffezione per una missione che da vincitori li rende
vinti, prima ancora che sul campo di battaglia con il risveglio
della coscienza.
La luna è tramontata non è solo un bel romanzo, ma è anche un
libro con cui, attraverso la creatività, si giunge a una visione
realistica, senza appelli, senza attenuanti, della guerra e della
sua inutilità.
Da leggere, senz'altro, anche e soprattutto nelle scuole, affinché i
giovani comprendano che con un conflitto tutto è perduto, mentre con
la pace tutto è possibile.
John Steinbeck (Salinas, 27
febbraio 1902 - New York, 20 dicembre 1968), premio Nobel per la
letteratura nel 1962.
Ha scritto: La santa rossa, I pascoli del cielo, Al Dio
sconosciuto, Pian della Tortilla, La battaglia, Uomini e topi,
Furore, La luna è tramontata, La valle dell'Eden, Quel fantastico
giovedì, Il breve regno di Pipino IV, L'inverno del nostro
scontento, Viaggio con Charley, Le gesta di Re Artù e dei suoi
nobili cavalieri, Diario russo, Diario di bordo dal mare di Cortez,
C'era una volta una guerra, L'America e gli americani e altri
scritti.
Renzo Montagnoli
14/04/2010
IL SUONO DI MILLE SILENZI
di
EMMA LA SPINA
ED.
PIEMME
E’ l’opera prima di un’esordiente che, come confessa
nell’introduzione, ha scritto spinta da
un autentico bisogno interiore.
L’autrice narra i suoi primi diciotto anni trascorsi in un istituto
per bambini abbandonati, subendo sevizie fisiche
e psicologiche indicibili, ogni sorta di sofferenze tra
umiliazioni, miseria e privazioni totali. E
tutto questo in tempi recenti (anni “60) e nella nostra società
“evoluta”.
Il sentimento che muove il lettore leggendo già le prime pagine del
libro è di veemente indignazione e
profonda commozione, in cui serpeggia un moto di scetticismo e
incredulità…Può essere vero, tutto questo? La letteratura che
prevale sull’autenticità dei fatti per non diventare cronaca?
Ma le parole della scrittrice sono
autentiche e ciò che può sembrare invenzione è terribilmente vero.
I fatti narrati rimbombano come i silenzi, i mille silenzi di bimbi
sfortunati su cui la sorte si accanisce e li colpevolizza come se
fossero carnefici e non già vittime sacrificali. La redenzione potrà
sceglierne alcune di voci o solo “una voce delle mille bambine in
silenzio nelle grandi stanze di un istituto”.
Colpisce la storia, colpisce lo stile del narrare piano,
chiaro, essenziale; senza retorica. Senza orpelli psicologici, con
estrema semplicità, Emma La Spina ci restituisce una figura di bimba
e poi di ragazza intrepida, dotata di grande
forza d’animo, indomita nella sua lotta e per la sopravvivenza e per
l’affermazione di sé. Alla ricerca disperata di un riscatto morale,
sociale, la sua intelligenza perspicace l’avrà vinta sugli
accadimenti avversi e difficili. Il processo di
emancipazione rimane sospeso alla fine del libro e lascia uno
strappo in chi legge come lo strappo subito dai tanti bambini soli,
senza affetto e privi di amorevoli cure famigliari. Il lato oscuro
degli esseri umani traspare sia pure senza toni accesi e accusatori,
quello che poteva essere un libro solamente a tinte fosche,
dall’autrice è temperato da sfumature più sottili e variegate in cui
la ricerca d’amore, di comprensione domina in una sorta d’invicibile
speranza. Lo scoramento, le inevitabili cadute nell’abisso più nero
si alternano a una riconquistata
iniezione di fiducia in se stessa, nell’amore verso la conoscenza,
lo studio vissuto come riscatto di sé. Un libro
da conoscere e amare e da consigliare a chi si ama e non.
L’autrice:
Emma La Spina è nata a Catania nel 1960.
Il suono di
mille silenzi, è il suo primo romanzo.
Arcangela Cammalleri
12/04/2010
IL NIPOTE DEL NEGUS
di ANDREA CAMILLERI
Ed.
SELLERIO
Quest’ultimo
libro di Camilleri di genere storico, come espresso dall’autore, ha
la stessa struttura narrativa de “La concessione del telefono”-
documentazioni d’archivio o missive che sembrano dispacci perentori
s’intersecano a frammenti dialogici-narrativi
in un rimando continuo di stampo tipico
camilleriano. Secondo notizie veritiere,
si narra di un nipote del Negus etiopico,
Haileè Sellassiè che negli anni
1929-1930, frequentò a Caltanissetta la
Regia Scuola Mineraria presso la quale si diplomò perito minerario
nel 1932. Qui finisce “la verità” e da qui inizia la fantasia! Sì,
lo sfondo storico fa da fondale alla rappresentazione teatrale della
vicenda, ma i cerchi concentrici che attorniano i fatti, i
personaggi, sono frutto esclusivo
dell’inventiva dello scrittore: la retorica tronfia dell’epoca
investe come vento impetuoso e trascina sentimenti e azioni in una
sorta d’irriverente pantomima di memoria goliardica. Tra le righe
entriamo da spettatori in una sorta di film in 3D, ci sembra di
rivivere, certo in toni farseschi e burleschi,
situazioni quasi reali ed attuali e non già fantasmi del
passato ormai desueti. Come non ridere con un
retrogusto amaro agli ossequi inverecondi verso i superiori, ai
titoli onorifici così ridondanti ed enfatici, alla supponente
grandeur di una nazione piccina
piccina. Con
sarcastica vis Camilleri ci presenta una verità storica in
modo talmente burlesco da risultare falsa e una falsità storica così
pronunciata da risultare vera. E’ il gioco degli inganni di chi si
crede furbo e s’inganna e a sua volta viene
ingannato. Una farsa che ha le movenze di un
minuetto e il tono scanzonato e irriverente di uno sberleffo.
L’intreccio ricorda una novella boccaccesca, tra intrighi ed
intrecci amorosi, tra ragion di stato e convenienze personali, tra
vizi confusi con desideri in un carosello umano più farsesco che
reale. Camilleri ci diverte e ci delizia, ma forse avremmo voluto
ridere meno su noi stessi, su quello che siamo stati e siamo, perché
c’è poco da ridere quando i sogni dei più vengono meno e non
albergano speranze di reali cambiamenti positivi
per tutti.
L’autore. Andrea
Camilleri è nato a Porto Empedocle nel 1925. Ha
esordito come romanziere nel 1978 con
“Il corso delle cose”.
Della sua ricchissima produzione letteraria
tutti i romanzi con protagonista il commissario Montalbano
sono pubblicati dalla casa editrice
Sellerio e altri, tra questi ricordiamo: “La
forma dell’acqua”, “Il cane di terracotta”, “Il ladro di merendine”,
“La voce del violino”, “La stagione della caccia”, “Il birraio di
Preston”, “La concessione del telefono”,
“La gita a Tindari”, “Maruzza
Musumeci”, “Il casellante”, “Il campo
del vasaio”, “L’età del dubbio”, “Un sabato, con gli amici” “Il
sonaglio” “Il cielo rubato”etc…
Arcangela Cammalleri
05/04/2010
Il leone rosso
Elisir di vita eterna
di Maria Szepes
Tre Editori
www.treditori.com
Narrativa romanzo
La vita, qualunque sia, potrebbe essere accettabile se non vi fosse
la sua inevitabile conclusione, quel vero e proprio salto nel buio
che tutte le religioni hanno cercato di addolcire con l'idea di una
prosecuzione nel "dopo", sia pure in altra forma. Non ci sono però
certezze al riguardo e quindi, soprattutto in passato, in epoche in
cui gli alchimisti inseguivano risultati miracolosi, quali la
fabbricazione dell'oro, non poteva mancare nelle loro ricerche
quella dell'Elisir di vita eterna. Ubbie di ciarlatani, si potrebbe
obiettare, idee strampalate che ancor oggi potrebbero prendere
piede, soprattutto nel nostro paese, guidato da un personaggio che
non accetta non solo la morte, ma anche la vecchiaia.
E' di questo desiderio di immortalità che si parla nel Leone
rosso, un romanzo che mi ha profondamente avvinto, perché va ben
oltre queste storie un po' strampalate di gente che non muore, ma,
pur restando nell'ampio campo dell'esoterismo, abbozza un concetto
di esistenza per nulla in contrasto con la religione cristiana e che
affascina in quanto potrebbe rispondere al vero. Queste
reincarnazioni in una serie di passaggi in cui l'individuo ascende a
gradi sempre più alti di trascendenza propone una visione non solo
dell'umanità, ma dell'intero universo in un crescendo quasi
rossiniano che lascia ampi spazi per riflessioni su avvenimenti
realmente accaduti, come nel caso della rivoluzione francese.
L'abilità di Maria Szepes, l'autrice, è quella di saper correre in
equilibrio sul sottile confine fra ipotetico credibile e pura
astratta fantasia. In verità qualche volta incespica, il racconto si
fa meno convincente, ma poi, nel giro di un paio di pagine, riesce a
ritrovare la giusta via e a ricreare nel lettore la convinzione che
quanto narrato sia effettivamente avvenuto. In questo l'aiuta una
notevole capacità di saper comunicare imponendo un ritmo quasi da
pellicola cinematografica in una serie di sequenze, anche d'effetto,
che non fanno mai venir meno l'attenzione che, anzi, si acuisce nel
legittimo desiderio di sapere come andrà a finire questa storia così
irreale, sebbene convincente. Se in ciò è aiutata dall'esperienza
maturata come sceneggiatrice, vi è anche da rilevare una profondità
di pensiero del tutto ragguardevole, una sicurezza di esposizione,
pur nella complessità del tema, che accresce la fiducia del
fortunato lettore, consapevole ormai di trovarsi fra le mani un
libro straordinario.
Si assiste così a una cavalcata attraverso i secoli, grazie alla
quale questo formidabile romanzo sull'immortalità riesce ad
avvincere anche i più scettici, in forza delle componenti
psicologiche e filosofiche che emergono, splendidamente esposte, e
che non possono lasciare indifferenti. Si potrà non credere a tutte
queste reincarnazioni, ma alle dottrine concettuali sull'universo e
sul destino dell'umanità nulla si può eccepire, anzi solo prendere
atto, magari anche dissentendo, perché si tratta di interpretazioni,
di teorie che, senza avere la pretesa di essere dei dogmi, hanno una
base logica tale da costituire oggetto di discussione.
Il viaggio di Hans Burgner, il personaggio principale, diventa così
una metafora del percorso sempre più complesso dentro di noi, alla
ricerca di un assoluto che possa dare un autentico senso alla nostra
esistenza.
Non aggiungo altro, se non il consiglio di leggerlo, perché anche
chi non vorrà approfondire rimarrà stregato da un libro di rara
bellezza.
Maria Szepes (14 dicembre 1908 -
3 settembre 2007).
Attrice, poi sceneggiatrice, questa signora ungherese, che si
interessava di filosofia ermetica, scrisse Il leone rosso nel
corso della seconda guerra mondiale. Il libro, pubblicato nel 1946,
diventò subito un autentico best seller della letteratura esoterica.
Di grande successo a livello mondiale, in Italia fu pubblicato per
la prima volta nel 2001 dalla Tre Editori, che ora lo ripropone con
questa terza ristampa.
Renzo Montagnoli
04/04/2010
Il segreto del Morbillaio
di Danilo Giovanelli
Edizioni XII
Narrativa romanzo
www.xii-online.com
Fra la fine del XIX e l'inizio del XX secolo visse a Vermiziano,
paese di gente ignorante, analfabeta e polentona, Saturnetto
Vinceslovo, da ricordare e da venerare per le sue qualità poetiche,
tanto più sorprendenti qualora si consideri l'ambiente in cui si
sviluppò a livello eccelso la sua qualità artistica. Prima che si
vada a cercare su un libro di storia della letteratura italiana o su
internet il nome di questo personaggio è doveroso premettere che è
solo frutto della fervida fantasia di Danilo Giovanelli, autore di
questo romanzo di genere fantastico che ha vinto nel 2008 il
Premio iNarratori. Del resto bastano poche righe per comprendere
che Saturnetto Vinceslovo non è mai esistito e sono quelle con cui
si spiega il suo soprannome, Morbillaio, che nulla ha a che fare con
la nota malattia infantile, se non per le piccole cicatrici che
portava sul volto provocate dalle forchettate dei parenti, tutti
presi dalle gran mangiate di polenta al punto che nemmeno riuscivano
a distinguere questo cibo dal volto giallognolo del futuro poeta e
quindi affondavano i rebbi dove capitava, anche nella carne del
pargoletto.
A distanza di molti anni, morto già da tempo Saturnetto, la vicenda
prende corpo partendo dalla scuola costruita in suo onore ed
edificata sulla sua stessa vecchia casa.
Ogni pagina che scorrevo, prendendo le annotazioni del caso, mi
veniva continuamente alla mente un romanzo ben più famoso, I
ragazzi della via Pal di Ferenc Molnar. Non è che lo sviluppo
della trama sia uguale, ma ci sono analogie in un ritratto garbato
del passaggio dall'infanzia alla pubertà.
Impostato come un giallo il racconto non presenta tuttavia tensioni
particolari o spasmodiche e anche lo scioglimento del mistero su cui
è intessuta la fragile vicenda non è di quelli che faranno epoca fra
gli appassionati.
Non era sicuramente uno scopo dell'autore imperniare il tutto
sull'atmosfera del thrilling, perché lui voleva scrivere un romanzo
i cui personaggi contano più della vicenda.
E sono protagonisti godibilissimi, azzeccati al meglio, una squadra
di figure che, pur nell'evidenza caricaturale, riporta simboli di
salti generazionali con una vena comica che induce il lettore ad
amarli tutti.
Dal plurilingue Ebète, che mescola le parole in una sorta di
personale esperanto, a Elio Sumello, gran secchione, ma simile a un
batrace, dalla dotta Donnetta al bizzarro maestro Tomino è tutto un
agitarsi di ombre che poco a poco schiariscono per essere
focalizzate dalla mente e quindi diventare più familiari.
Sinceramente, a un certo punto ho quasi dimenticato la trama per
godermi le situazioni, anche umoristiche, in cui i protagonisti si
ficcano quasi spontaneamente, come se fossero liberi di costruire la
storia, indipendentemente dalla volontà del loro creatore, che più
che imporre suggerisce.
Ne esce un romanzo di straordinaria freschezza e assai gradevole,
179 pagine che volano via e con loro le inevitabili fantasie dei
lettori, in un sano divertimento sia per gli adulti che per i
ragazzi.
Danilo Giovanelli è nato a
Sassuolo, Modena, nel 1976. Si è laureato in Ingegneria Informatica
coltivando parallelamente la passione per la lettura, il disegno e
la scrittura.
E' autore del romanzo pulp-surreale L'enigma dei bastardi,
uscito nel 2004, e di diversi racconti pubblicati in antologie.
Illustratore e vignettista, alcune sue creazioni sono state
selezionate ed esposte alla seconda e terza edizione di BilBOlbul
- Festival Internazionale di Fumetto di Bologna. Altre cadono
sparpagliate sul suo blog.
Renzo Montagnoli
17/03/2010
Siddharta
di Hermann Hesse Edizioni
Adelphi
Nota introduttiva e traduzione di Massimo
Mila
Collana Piccola Biblioteca 32
Narrativa romanzo
Hermann Hesse è un
autore che con ogni sua opera lascia un segno indelebile, perché
racconta del viaggio dell’uomo alla ricerca del senso della vita.
Già con Il Lupo della steppa aveva trattato il tema
del dolore di vivere, fornendo una soluzione logica, per quanto
semplice: per superarlo, mai prendere troppo sul serio se stessi e i
propri sentimenti, e ciò grazie a una salvifica autoironia.
Con Siddharta,
il cui successo venne solo dopo il conferimento del Nobel, il tema
dell’esistenza è più generale e finisce con il diventare in questo
“romanzo indiano” una lezione di vita e proprio per questo al suo
apparire entusiasmò la generazione dell’epoca. A distanza di tempo,
comunque, il testo presenta ancora quell’interesse e nelle
conclusioni resta di immutata validità.
Ambientato in India
nel VI secolo a.C. narra di Siddharta, un ragazzo che cerca la sua
strada, ambisce sapere quale è il suo ruolo e per far questo
intraprende un viaggio che lo porterà alla sua verità attraverso una
serie di esperienze, tipiche peraltro della realtà umana. In effetti
si tratta di un lungo cammino all’interno di se stesso, in cui prova
un po’ tutto quello che può essere colto nel percorso di una vita.
Dall’esperienza mistica al piacere carnale, ma anche cerebrale
dell’amore, il giovane invecchia, adottando sensi e scopi che poi
magari rivelano un’insoddisfazione o comunque un mancato totale
appagamento.
Ogni incontro, ogni
esperienza sono un banco di prova, un confronto con il proprio “io”
da cui trarre degli insegnamenti, e, se nell’apparenza sono solo gli
eventi positivi atti a questa funzione, si comprenderà come anche
quelli negativi entrino a far parte di quel grande patrimonio
individuale che è l’esperienza.
Hesse nel raccontare
questa metafora in fondo ci vuole dire che è necessario conoscere il
mondo che ci circonda e, specialmente, quello interiore tramite un
percorso materiale e spirituale che porta alla scoperta di noi
stessi. Nel nostro intimo non c’è nulla di tutto buono o di tutto
cattivo, esiste, è latente il peccato, frutto di un errore da cui
trarre insegnamento, ma in fondo, purché si abbia voglia di vivere
veramente, ci sono tante possibilità per ogni uomo di trovare una
pace interiore che non sia solo di aspetto, ma che radichi in
profondità. Tutto questo può e deve avvenire solo per mezzo della
conoscenza, del dubbio, che deve essere una costante, e
dell’esperienza, tutti elementi che arricchiscono dando la certezza
di avere vissuto.
Il libro è quindi
indubbiamente di assoluto interesse e in questa ricerca filosofica
ha il suo effettivo pregio. L’unica nota negativa, se così può
essere chiamata, è la costante pesantezza della narrazione, tipica
del resto di molti autori di lingua tedesca del XIX e del XX secolo.
Comunque, proprio
perché si tratta di un discorso filosofico, è inevitabile
soffermarsi spesso sulle righe e quindi la complicazione
nell’esposizione risulta meno fastidiosa.
Siddharta
resta, a distanza di anni dalla sua pubblicazione, un libro di
assoluto valore, una tappa fondamentale nella storia della
letteratura ed è proprio questa inalterata qualità che lo fa
rientrare fra i capolavori di ogni tempo.
Hermann Hesse
(Calw,
2 luglio 1877 – Montagnola, 9 agosto 1962) è stato uno scrittore,
poeta e pittore tedesco.
Ha scritto i romanzi Peter Camenzind,
Demian, Siddharta,
Il lupo della steppa, Narciso e Boccadoro,
Il mago della pioggia, Il gioco delle perle di vetro.
Nel 1946 gli fu conferito Il Premio Nobel per la Letteratura.
Renzo Montagnoli
16/03/2010
Emanuela, Barbara, Flavia e Simonetta,
le quattro figlie della poetessa recentemente scomparsa
Alda Merini presentano il nuovo sito dedicato alla madre.
I tristi rintocchi funebri delle campane del
Duomo di Milano pesano ancora sui nostri cuori mentre
ricordiamo quello che raccontava di noi:
Ho avuto quattro figlie. Allevate poi da altre famiglie.
Non so neppure come ho trovato il tempo per farle. Si
chiamano Emanuela, Barbara, Flavia e Simonetta. A loro
raccomando sempre di non dire che sono figlie della poetessa
Alda Merini. Quella pazza. Rispondono che io sono la loro
mamma e basta, che non si vergognano di me. Mi commuovono.
Nonostante le parole della nostra amatissima madre siamo
onorate di comunicare che in sua memoria abbiamo fortemente
voluto la realizzazione del sito internet
http://www.aldamerini.it/.
Un’antologia in ricordo di Alda, un elogio all' "ape
furibonda”, alla sua figura di scrittrice e madre perché
niente per una donna è più simile al paradiso di un
figlio che le farà sognare l’amore per sempre.
Il sito sarà aggiornato periodicamente con nuove poesie, video,
aforismi e una sezione interattiva per gli amanti della poesia.
Le figlie di Alda
Nutrimenti per
l’anima di Maria Teresa Santalucia
Scibona Edizioni Joker
www.edizionijoker.com
Postfazione di Sandro Montalto
In copertina: Enzo Santini, Cello player,
1990,
encausting painting
Poesia
Collana I Fuori Collana
C’è chi scrive
poesia, grazie a un naturale talento, magari rafforzato e affinato
dalla lettura di versi di altri autori. Ma c’è anche chi è “poesia”,
cioè persone che intimamente hanno una visione di qualsiasi aspetto
della vita, anche il più semplice e normale, che li porta a
permearsi con lo stesso, trasferendo sensazioni, del tutto normali
per i più, in versi, un linguaggio forse inconsueto, ma che è
l’unico con cui riescono a dialogare prima con se stessi e poi con
gli altri.
Maria Teresa
Santalucia Scibona è una rara avis, perché è poesia.
Possono essere tante le occasioni, da un viaggio a un panorama, da
un fatto a una persona conosciuta, ma resta comunque il fatto che le
stesse sono intraviste e avvertite poeticamente. E’ una visione che
travalica l’ordinario, che dona importanza alle piccole cose del
Creato, in un’ottica religiosa e spirituale che è talmente radicata
da esondare spontaneamente dalle righe.
Che sia il ritratto
di un amico, oppure la metafora della vita, lei è sempre presente
con questa sua grande caratteristica, con un linguaggio armonioso
che sgorga come un’antica fonte dall’anima.
Questa raccolta di
poesie si compone in realtà di quattro sillogi, di cui la prima
potrebbe essere definita delle dediche, la seconda ha invece un
titolo esplicativo (Elogio dell’amore), come del resto la terza
(Elogio per la giustizia), mentre la quarta è più esplicitamente
l’immagine da noi conosciuta di Maria Teresa Santalucia Scibona,
perché l’Elogio dello spirito riconduce il libro a un’aura di
misticismo, che, tuttavia, più larvatamente è presente in tutte le
altre liriche del libro.
Ciò che è
rimarchevole, comunque, è la soavità che permea i versi, che
sembrano quasi scritti in un connaturato distacco dalle cose
terrene, anche se invece è la consapevolezza che, esistendo in
quanto parte di un disegno perfetto, tutte, nessuna esclusa, sono
motivo di stupore, da un lato, e di rafforzamento della fede
dall’altro.
Nulla ci può più
stupire di quanto c’è a questo mondo, dal piccolo sasso alla grande
montagna, e così ogni cosa ha sua inalterata dignità, a cui
all’occorrenza dedicare versi.
Frequenti sono
queste attenzioni per gli amici, fra i quali Salvatore Niffoi e
Massimo Maugeri, intravisti fra le righe con gli occhi di chi sa
cogliere l’essenza di ognuno ( Salvatore, vaga meteora / che appare
e scompare / dalla mia stanca vita /…; Dopo aver schivato le ire /
dell’arcigno Poseidone / e i vortici infidi / delle onde sonore; /
un giorno approderai / con felice attracco / nella Trinacria solare
/ odorosa di zagare. /….).
Fra gli Elogi,
quello dell’amore, vola L’allodola felice ( L’allodola messaggera
dell’alba / si dondola lieve su un bocciolo di rosa. / Si è
invaghita del salice leggiadro/ …). Non più persone, ma
rappresentanti delle meraviglie del creato a cui riconoscere uguale
stupita dignità . E’ quasi un canto questa poesia, con i versi
portati sule ali dell’allodola, più che lievi, meglio leggiadri.
La giustizia, la
giustizia giusta, la giustizia vinta, la giustizia sepolta; qui la
voce di Maria Teresa si fa più forte, ferma senza essere dura, un
desiderio di equità che mai trascende se non nel sogno, magari una
speranza ( …Alta si proclami la verità, pura e splendente come l’oro
di Ofir. / Liberi dalle trame degli iniqui / da codarde omertà, sarà
un ritorno / dalla morte alla vita.).
Non poteva che
essere alla fine del libro, ma L’ultimo tempo rivela, nelle
consapevolezze, la certezza di una vita vissuta appieno, nel saluto
agli amici che tanto mi ricorda come grande serenità Il mio funerale
di Nazim Hikmet, senza nessun timore, ma con una ultima gratificante
speranza (…/ Di me, vorrei solo che diceste, / ha seguito le orme di
sua madre. / Come lei, bella nell’anima / e ornata di sobria
dignità. ). Io mi permetto di aggiungere un ultimo verso: Lei fu
poesia.
M. TERESA SANTALUCIA SCIBONA, è
nata e vive a Siena, già Presidente Provinciale della FENALC
(Federazione Nazionale Liberi Circoli),è Presidente per Siena del
MOPOEITA ( Movimento per la diffusione della Poesia in Italia).
La Biblioteca Universitaria senese della Facoltà di Lettere e
Filosofia, ha istituito un Fondo Letterario a suo nome.(Seduta
27/4/2005).
Il 15 Agosto
2000, dal Concistoro del Mangia, è stata insignita di medaglia
d’oro di civica riconoscenza, per alti meriti culturali. Il 17
Ottobre 2009, è stata insignita del Premio “ Idilio Dell’Era,
“alla Carriera dal Comitato Associativo “ Idilio Dell’Era”. E’ Socia
effettiva del P.E.N. Club Italiano, del Sindacato Liberi
Scrittori Italiani, della Fondazione Letteraria “ Luciano
Bianciardi “di Grosseto, del Centro di Documentazione sulla
Poesia contemporanea
“ Lorenzo
Montano” di Verona. Fa parte del Consiglio “Cateriniani nel
Mondo” per la Letteratura, con diritto al voto. Per oltre un
decennio ha curato le serate letterarie del “Salotto della
Cultura e del Vino” della Enoteca Italiana di Siena. Come
giornalista ha seguito per 17 anni, le sorti del “Premio
Letterario Viareggio – Rèpaci”
Ha
pubblicato i seguenti libri di Poesia:-
“ IL MIO TERRENO
LIMITE” 1984 Ed. La Nuova Fortezza (Li), a cura di Miriana
Bogi
“ I GIORNI DEL
DESIDERIO” 1988 Piovan Ed. Abano Terme, a cura di Gabriella
Sobrino
“ IL TEMPO
SOSPESO” 1993 Edizioni del Leone (Ve), prefazione di
Giorgio Luti.
“ MOSE’ ”
1996 Edizioni dell’Oleandro (Roma), prefazione di Angelo Lippo.
“ VARIANTI
D’AMORE” Suppl.to n. 35 (gennaio-marzo 1988) Rivista
“Portofranco” (Ta)
“ IL VIAGGIO
VERTICALE” 2001, I Quaderni della Valle N. 27 Edizioni di Emilio
Coco.
“ LE TEMPS
SUSPENDU ET LA VIE ASSISE” 2002 Prospettiva Editrice a cura di
Giorgio Luti, postfazione di Walter Nesti, traduzione di Ben Felix
Pino.
“ L’AMORE
IMPERFETTO” 2003 Helicon Edizioni - Arezzo, a cura di Neuro
Bonifazi
“ LA CONTESA DEI
VINI” 2005 Pascal Editrice (Siena), a cura di Vinicio
Serino.
“ IL SOGNO DEL
CAVALLO “ 2008 Pascal Editrice (Siena) a cura di Mario
Comporti e Fausto Tanzarella
“ NUTRIMENTI PER
L’ANIMA” 2009 Joker Editore a cura di Sandro Montalto
“ VERSI E CROMIE”
Solodieci Poesie 2009 Lieto Colle Editore
Audio CD
POESIE SCELTE (2005), disco recitato dall’attrice Paola Lambardi
CD
“MISCELLANEA POETICA”(2007) recitano, gli attori Walter Maesosi,
Daniela Barra, al piano M°.Giovanni Monti. Edizioni Le Carrozze
Records di Vanni Vincenzo- Siena
Il suo
testo di Lauda “ Accanto a Te Signore”, è stato musicato
dal M° Gian Paolo Luppi, tradotto in tedesco e
pubblicato dalle dalle Edizioni Musicali Peters di Francoforte.
Alle sue opere
si sono ispirati i pittori Giuseppe Amadio, Angelo Battista,
Angela Carli, Ida Negrini, Paola Imposimato, Enzo Santini,
Anna Sticco, gli scultori Michele Donadoni e Andrea Roggi.
La
recitazione del poemetto in versi “MOSE’ con gli attori
Paola Lambardi, Guido Bocci, Erminio Jacona , è alla sua
tredicesima replica
E’
inserita in numerose Antologie di autori contemporanei come :- “
Greta Garbo e Sergio Vacchi nel Palazzo del Ridotto di
Cesena” – Catalogo del Novembre 2003 - Fondazione Vacchi -
Castello di Grotti – Ville di Corsano-
Siena
“ La Donna e gli
Amori” a cura di Gabriella Sobrino e Antonietta Garzia
(giugno 2001) – Introduzione di
Paolo Crepet - Loggia de’ Lanzi Editori -Firenze
“ C come Cuore”
saggio di Gabriele La Porta ( Ottobre2003) Pratiche Editrice
Mondadori
“P come Passioni –
Dizionario delle emozioni e dell’estasi” a cura di Gabriele La
Porta (Ottobre 2005) Marco Tropea Editore – Mondadori Printing
S.p.A – Milano
EDIZIONI SCETTRO
DEL RE - ROMA“ Appunti Critici” La poesia Italiana del tardo
Novecento tra conformismi e nuove proposte “- saggio a cura di
Giorgio Linguaglossa - (Dicembre 2002)- “ Poeti Italiani Verso
il Nuovo Millennio”- saggio a cura di Dante Mafia ( Dicembre.
2000)
- E’ inclusa nel
Dizionario Autori e nella Letteratura Italiana del
Secondo Novecento -Edizioni Bastogi (Foggia), Helicon (Ar), Guido
Miano (Mi).
Sulla sua poetica Pina Frascino Panussis ha scritto :-
“Saggi e interventi” (1995) -Edizioni. Pisangrafica - Pisa ; “ LE
OCCASIONI DEL PENSIERO ” (1997) Masso delle Fate Edizioni -
Signa, con interventi critici di Sandro Briosi, Guido. Cecchi,
Gaetano Chiappini, Marcello Fabbri, Giorgio Luti, Carmelo Mezzasalma,
Walter Nesti, Vinicio Serino, Gabriella Sobrino e testimonianze di
Oreste Macrì, Giuliano. Manacorda, Giorgio Saviane, Ferruccio
Ulivi,Vittorio Vettori ed altri noti scrittori.
Renzo Montagnoli
27/02/2010
Stagioni sovrapposte e confuse
di Franca Canapini
In copertina fotografia dell'autrice
Montedit Editrice
www.montedit.it
Poesia silloge
Collana Le schegge d'oro (i libri dei premi)
L'immagine di copertina ritrae una bimba (l'autrice) a cavalcioni di
un pennuto in legno o bronzo, ma quel che colpisce è lo sguardo,
apparentemente solo imbronciato, ma che se osservato con attenzione
sembra essere quasi di sfida. Probabilmente cela l'inconscio
desiderio di essere realmente presente nella vita, un "adesso ci
sono io" che vuole ipotecare il futuro. E' sempre così, perché si è
alla prima stagione e si guarda solo in avanti, ma poi, con gli anni
che passano, si arriva a un punto che ci si rivolge all'indietro, si
ricorre alla memoria per delineare un quadro esistenziale di luci e
di ombre che non ci soddisferà mai pienamente.
E così le stagioni di questo libro non sono propriamente quelle
astronomiche, che ben conosciamo, ma esprimono metaforicamente il
ciclo della vita ed è in questa ottica che deve essere letta la
bella raccolta di Franca Canapini.
Che poi il percorso inconscio del ricordo riaffiorante a tratti
faccia sì che nascano sovrapposizioni e confusioni è nell'ordine
dell'esistenza, perché mai saremo in grado di controllare gli
stimoli improvvisi della nostra memoria, sollecitata da fatti ed
eventi che spesso non sono strettamente correlati al presente.
Si alternano così a note gioiose anche riflessi malinconici, in un
quadro generale che è inutile scomporre perché è la reale immagine
di un presente e di un passato che si avvicendano, quasi a voler
testimoniare l'imprescindibilità per una vita corrente
dall'esperienza trascorsa.
Abbandono
(omaggio alla mia vecchia auto)
Come mi hai lasciata
spenta
desolata
nella piazza assolata.
…..
Non è che un oggetto, un agglomerato di lamiera che tuttavia ha
accompagnato la persona nel suo andare, creando quindi un legame
quasi affettivo che nel ricordo delinea altri fatti ad essa
correlati; è un bene inanimato che in un transfer psicologico assume
una valenza vitale attraverso l'identificazione con ciò che a suo
tempo ha rappresentato.
La poesia di Franca Canapini può essere definita di esperienza,
quindi, di sentimenti e di emozioni fotografate, come in Gioia
( Vola in alto/spirito mio/ risorto/straripante di gioia/così
calmo/così grande/infine/…), senza dimenticare una naturale
inclinazione verso toni malinconici, che si esprimono soffusamente,
come in Lari (…Non ti chiedo che tu torni per me /
ma ti prego, proteggi la casa) o come in Cosa pensavi
allora (a mio padre) (…E tu / cosa pensavi allora? / Come
passasti la giornata? / Con chi parlasti? / Persi ancora una volta /
un giorno della tua vita).
Quest'ultima poesia collega il ricordo al rimpianto, a fatti
accaduti e ad azioni non concretizzate, l'aspetto negativo della
memoria il cui affiorare a volte infonde un senso di colpa tanto più
acuto quanto maggiore è il nostro bisogno nel presente di renderci
disponibili a comunicare, per liberarci dell'ansia che stritola
dentro quando si comprende ciò che si poteva fare e che non si è
fatto, né più potrà mai essere realizzato. Sono occasioni perdute,
frequenti in tutti noi, e il rammentarle vena di tristezza un
momento della realtà nel quale abbiamo la necessità di confessarci
le nostre presunte colpe. E' uno sfogo, un tentativo in un bilancio
generale per trovare spunti che possano permetterci di sperare in un
futuro che ogni giorno che passa diventa sempre più opaco.
Ci sono anche due poesie, fra le più interessanti della raccolta,
che rappresentano un primo abbozzo di ricorrere all'epica. La prima
è Risiera di San Sabba, con la confessione di una mazza di
acciaio e di legno utilizzata per uccidere dei poveri deportati.
Poesia non veemente, che sposta il discorso dal carnefice al suo
strumento di morte, conferendo ad esso una dignità che disonora
ulteriormente l'uomo che l'utilizzava. Anche in questo caso c'è
quindi un transfer, finalizzato alla possibilità di un dialogo con
il poeta, destinatario di una supplica che condanna
irrimediabilmente i tanti Fritz ed Helmutt di quel lager.
L'altra è Cornacchie, una metafora che si esprime nel
contrasto fra le cornacchie sui tetti e la gente rinchiusa nelle
case, con l'evidente significato che la libertà per gli animali sta
nella loro indole e per gli umani nel calore della propria famiglia,
accrescendo però così la tendenza all'incomunicabilità. Gli uccelli
nascono liberi, come gli uomini, ma questi ultimi finiscono con il
rinchiudere poi se stessi e così la propria libertà.
Quale è la poesia migliore? E' difficile a dirsi e molto dipende dal
gusto di chi legge, dal suo stato d'animo in quel momento, dalla
maggiore o minor propensione a dialogare emotivamente con l'autore.
Secondo me, considerato l'argomento trattato, credo che Fuori
stagione sia altamente sintomatica di quell'avvicendarsi di
stagioni che è proprio della vita, e in cui l'autunno, secondo
Franca Canapini, è indubbiamente quella che ci pone di fronte a
domande che prima non ci eravamo mai poste. Troppo tardi per
ricominciare, nasce la consapevolezza di una sterile utilità a noi
stessi e agli altri. Come in un palcoscenico in cui gli attori
interpretano ora solo se stessi (…Fantasmi di un tempo giocondo /
aspettano estenuate / la gelata della fine.) inizia un conto
alla rovescia a cui invano cercheremo di por rimedio per
abbandonarci, ormai vinti, alla gelida attesa nell'ultima stagione.
Il lavoro di più anni ha trovato così compendio in questa silloge
vincitrice, meritatamente, del Premio di Poesia Jacques Prévert
2009.
Quindi per varietà e per svolgimento c'è tutto quello che può
interessare l'appassionato di buona poesia ed è anche per questo che
caldeggio la lettura di Stagioni sovrapposte e confuse.
Franca Canapini è nata a
Chianciano Terme (SI) il 17 ottobre 1951. Sposata, due figli e due
nipotine, vive ad Arezzo e insegna Lettere in una scuola media della
città. Alcune sue poesie sono state pubblicate nel 2004 in
un'antologia di poesia contemporanea, ma solo da qualche anno ha
trovato il tempo necessario per dedicarsi seriamente alla scrittura.
Stagioni sovrapposte e confuse è la sua prima raccolta
poetica edita.
Renzo Montagnoli
25/02/2010
Il sole dei lupi
Un sopravvissuto ai Gulag di Stalin
di
Pietro Zerella
Prefazione dell’autore
Copertina di Alessio Zuzolo
Opera stampata in proprio
Narrativa romanzo
La storia di un “uomo qualunque”.
Dei gulag di Stalin,
i famigerati campi di prigionia situati in Siberia, abbiamo più di
una testimonianza letteraria, dal noto Ho scelto la libertà,
di Viktor Andrijovyč Kravčenko al più conosciuto Arcipelago
Gulag, di Aleksandr Isaevič Solženicyn. Sono opere di denuncia,
di chi vi è stato rinchiuso e che ha inteso così testimoniare la
brutalità di un regime totalitario che si reggeva esclusivamente sul
terrore. Si tratta però di oppositori, anche se blandi, di un
sistema, rinchiusi per aver espresso una semplice opinione e danno
un quadro di un’epoca e di un folle dittatore quale fu Stalin che
parrebbe irripetibile.
Il sole dei lupi, scritto da Pietro Zerella, è una
storia vera, magari un po’ romanzata, della vita di Anatolio
Molinari, italiano, nato a Odessa, certamente non un oppositore e
nemmeno uno che si lasciava andare a facili commenti. In effetti
bastavano semplici sospetti, anche delazioni non verificate, per
segnare la sorte di un uomo e questo è il caso del protagonista, non
un politico, né un rivoluzionario, nemmeno un eroe, ma un semplice
uomo qualunque, uno come la maggior parte di noi.
Se la narrazione di Zerella si fermasse a questa fase dell’arresto,
del processo farsa, dei lunghi anni trascorsi in un gulag fino alla
liberazione, Il sole dei lupi sarebbe un libro che
avrebbe il senso del déjà vue, non raccontando sostanzialmente nulla
di nuovo rispetto a quanto già non sia a nostra conoscenza grazie al
lavoro letterario di Solženicyn.
Invece, il romanzo assume inaspettate valenze con il ritorno in
Italia del protagonista, in piena epoca fascista, con
quell’inevitabile raffronto fra due regimi sostanzialmente analoghi,
fatta eccezione per la più blanda repressione di quello
mussoliniano. Però è la stessa aria che si respira, c’è l’identica
paura di esprimere un’opinione, e nemmeno vi sono differenze sul
concetto di cittadino, da considerarsi al servizio dello stato e non
viceversa.
Zerella però va ancora più in là, a un dopoguerra di speranze, di
libertà, di eguaglianza, in cui tuttavia ci sono i germi, sempre
presenti, di un tentativo di prevaricazione, come se fosse nel
codice genetico dell’umanità. L’autore campano scrive, a proposito
della competizione elettorale all’epoca del Fronte popolare: “
Tutti parlavano di libertà, progresso, pane e lavoro. Tutti erano
bravi ad illustrare i loro programmi. Ognuno era il migliore, il più
bravo, il più capace. Gli altri erano chi servi dei russi e chi
dell’America.”.
Insomma, non avversari, ma nemici, per quanto in politica si debba
rimanere sorpresi di quanto i programmi siano analoghi, pur in
fazioni nettamente contrapposte.
Quel definire il contendente o servo dei russi o dell’America non
era una semplice risorsa elettorale, ma nascondeva la realtà e cioè
che il Fronte popolare era foraggiato dai sovietici e che la
Democrazia cristiana esisteva solo grazie ai fondi americani.
In pratica erano tutti servi di qualcuno e l’essere tali comportava
anche la supina accettazione degli ordini o delle immagini di comodo
predisposte dai padroni, il terreno ideale per coltivare nuove
dittature.
Anatolio è un personaggio che desta subito simpatia, è l’umile che
entra nella storia non per sua scelta e lotta strenuamente per
conservare la sua silenziosa dignità. Non crede a nessuno, riflette,
pensa e parla solo il necessario. Tuttavia dentro di lui c’è una
fierezza che lo porta a essere il naturale oppositore di qualsiasi
regime che soffochi la naturale personalità. Zerella sembra volerci
dire che qualsiasi dittatura può privarci della libertà, tranne
quella che conserviamo dentro di noi, a patto che lo vogliamo e che
siamo disposti a non cavalcare l’onda, ma a farci portare
passivamente da essa.
Il sole dei lupi, per la sua originalità e il suo messaggio, è un
libro che merita sicuramente di essere letto, da tutti, ma
soprattutto dai giovani, affinché sappiano che la libertà si deve
conquistare e poi difendere ogni giorno.
Pietro Zerella,
nato a Beltiglio di Ceppaloni (BN) il 1938, vive a San Leucio del
Sannio (BN), Dott. in Scienze Politiche e Sociali. Promotore
culturale.
E’ inserito in tre Edizioni (1996 – 2001 - 2006) del “Dizionario
Autori Italiani Contemporanei” Ed. Guido Miani, Milano ed in altre
antologie.
Ha vinto premi letterari e di poesia (Città di Telese, Apice…) Negli
ultimi anni si è dedicato con particolare passione alla ricerca
storica.
Ha pubblicato:
- “Frammenti di vita”, Raccolta di poesie Ed. Ibiskos. Empoli 1994;
- San Leucio del Sannio – Frammenti di Storia, Poligrafica S.
Giorgio del Sannio (BN) 1994;
- San Leucio del Sannio – Viaggio nel tempo, tipografia A.G.M.
Ceppaloni /BN) 1996;
- Ho conosciuto il nonno del mio bisnonno, tipografia A.G.M.
Cepppaloni (BN), 1997; (Menzione speciale Comune di Montecelio
Romano Ed. 1998-1999, Roma;
- Il Clero Sannita nella crisi dell’Unificazione (1860-1862) saggio
pubblicato nella Rivista Storica del Sannio, 3^ Serei, Anno IV, Arte
tipografica Napoli, 1997;
- San Leucio del Sannio- Ieri e Oggi in Bianco e Nero - Tipogr.
A.G.M. Ceppaloni (BN) 1998;
- Preti Contadini e Briganti nell’Unità d’Italia (1860-1862) Ed. La
Scarna, Benevento, 2000. ( Premio Speciale 2001 alla 7^ Edizione del
Premio letterario “Giuseppe D’Alessandro”, Benevento;
- Arturo Bocchini e il mito della sicurezza (1926 – 1940) Ed. Il
Chiostro, Benevento, 2002;
- Il Sole dei Lupi, Ed. Il Chiostro, Benevento , 2006; Ristampa nel
2007. A:G:M: Cdeppaloni, (BN) 2007. (Vincitore Premio di Merito al
concorso letterario di Anquillara Sabazia. VI Edizione).
- Fondatore e organizzatore Premio Letterario “Città di San Leucio
del S.”
- Collabora con il periodico Specchio del Sannio;
- Il quotidiano “Il Sannio Quotidiano”.
Renzo Montagnoli
18/02/2010
Unità senza identità
Come il Risorgimento ha schiacciato le differenze fra gli Stati
italiani
di Giuseppe Brienza
Edizioni Solfanelli
www.edizionisolfanelli.it
Saggistica
Collana Saperi/Storia
Sono evidenti, sotto gli occhi tutti, i problemi che affliggono lo
stato italiano, che appare non ancora maturo e consolidato dopo
quasi un secolo e mezzo dalla presa di Roma. In particolare il
popolo è affetto da particolarismi, da spinte eccessivamente
autonomiste che finiscono con il minare la struttura, già di per sé
debole in origine. Manca una forte identità nazionale, circostanza
che impedisce la realizzazione di quelle riforme indispensabili per
l'essere al passo dei tempi.
Unità senza identità affronta questo problema cercando di far
emergere i motivi per i quali, se si è realizzata l'unità d'Italia,
l'unificazione degli italiani è invece ancora ben lungi da essere
concretizzata, con il fondato timore che la cosa sia ormai
impossibile.
Per far questo parte necessariamente da una rigorosa analisi
storica, al di là di ciò che è da sempre insegnato nelle scuole
relativamente al risorgimento italiano.
Precisiamo subito che non è stato un moto di popolo quale si vuol
far credere, anzi i nostri concittadini di quell'epoca furono
abbastanza indifferenti.
Del resto i Savoia mai ambirono a unire l'Italia, già divisa in
stati e staterelli, ma concepirono la loro azione solo come
conquiste di territori da annettere allo stato piemontese, senza
tener conto delle aspirazioni di chi li popolava, da secoli
costituenti autonome realtà accomunate, come oggi, solo dalla
lingua.
Vittorio Emanuele II, sempre descritto come un fervente patriota, in
effetti considerava l'Italia solo come una mera espressione
geografica, tanto che nei giorni precedenti alla proclamazione
ufficiale del Regno d'Italia si oppose decisamente a questa
denominazione del nuovo stato, intendendo invece mantenere quella di
Regno di Piemonte. La presa di posizione del monarca fu tuttavia
contrastata con successo da Cavour, timoroso che la decisione del re
potesse costituire una palese smentita di ciò che era stata promesso
da anni, con immaginabili conseguenze nei territori annessi e con
riflessi non certo positivi nei confronti dell'alleato occulto
(Inghilterra) che tanto si era prodigato per l'unità del nostro
paese; e non si creda che questo aiuto fosse motivato solo da
simpatia, perché da un lato la politica inglese mirava a temperare
con una nuova realtà abbastanza forte le mire espansionistiche di
Francia e Austria, e dall'altro intendeva indebolire lo stato
pontificio, da sempre inviso alle logge massoniche di oltremanica.
Quindi già la premessa per la concretizzazione dell'unità era debole
e lo fu ancor di più nella realizzazione pratica, perché non si
tenne conto del fatto che i territori annessi avrebbero dovuto
almeno godere di quell'autonomia a cui erano abituati, magari
armonizzandola in un contesto di prudente trattativa, un po' come
fece la Prussia con i non pochi staterelli che costituivano la
Germania, ancora sola espressione geografica, ma che in breve
divenne uno stato federale coeso e con gli abitanti dotati di una
forte comune identità.
Il Regno di Sardegna, anche perché poco esteso e influenzato dal
concetto di stato sorto con la rivoluzione francese, e poi
indirettamente riconfermato con la restaurazione, era un forte
accentratore e si oppose decisamente alla soluzione proposta da
qualche parlamentare e volta a dividere amministrativamente l'Italia
in comuni e regioni, più o meno corrispondenti queste ultime alla
realtà antiunificazione.
In questo contesto si può quindi comprendere come i mali, forse
insanabili di oggi, abbiano avuto origine da decisioni sbagliate, da
un risorgimento sabaudo che in effetti risorgimento non era e da una
visione proprietaria dello stato tipica proprio dei Savoia.
Il saggio storico di Giuseppe Brienza ha il pregio di ricercare le
cause del malessere, con l'unico limite di non approfondire più di
tanto il tema, il che avrebbe giovato non poco a fare luce completa
su quanto invece fino ad ora divulgato per interessi di parte.
Resta comunque un'opera che incide su una vulgata tramandata nel
tempo e che introduce a riflessioni di non poco conto sui tanti come
e perché si è realizzata l'unità d'Italia, ma non l'unificazione
degli italiani.
Giuseppe Brienza, giornalista
pubblicista, è dottore di ricerca presso la Facoltà di Scienze
Politiche dell'Università di Roma "La Sapienza".Ha pubblicato una
cinquantina di saggi scientifici ed i libri: Famiglia e politiche
familiari in Italia (Carocci editore, Roma 2001), Famiglia,
sussidiarietà e riforma dei servizi sociali (Città Nuova
Editrice, Roma 2002), Libertà ed identità religiosa nell'Unione
europea (Edizioni Solfanelli, Chieti 2006, vincitore Selezione
saggistica edita del Premio letterario internazionale Arché "Anguillara
Sabazia-Città d'Arte", Roma 2007), I Gesuiti e la Rivoluzione
italiana nel 1848 (Edizioni Solfanelli, Chieti 2007) e
Identità cattolica e anticomunismonell'Italia del dopoguerra. La
figura e l'opera di mons. Roberto Ronca (D'Ettoris Editori,
Crotone 2008).
Renzo Montagnoli
16/02/2010
L’ISOLA SENZA PONTE
Uomini e storie di Sicilia
Di Matteo Collura
Ed. Longanesi
In questi saggi e storie l’autore ci addentra dentro le cose della
Sicilia, nel cuore dell’Isola il cui respiro soffia in chi
dall’isola è andato via, ma anche solo con la mente è ritornato
dopo. In paesaggio e destino, l’ambizione di essere isola è
un archetipo da Omero in poi, passando per Dante, la letteratura ha
attinto riccamente al concetto di isola come valore aggiunto o
perlomeno pieno di insiti significati. Giuseppe Tomasi di Lampedusa
diceva che bisogna partire presto dall’Isola, altrimenti la crosta è
già fatta. Leonardo Sciascia evase, ma rimase attaccato come una
patella allo scoglio. Gli isolani, affermava Pirandello, avvertono
il contrasto tra il loro animo chiuso e la natura aperta, chiara di
sole; è il mare che li isola e li fa soli, diffidano, e ognuno è e
si fa isola a sé. Gesualdo Bufalino coniò il termine isolitudine,
con ciò intendendo il trasporto di complice sudditanza che avvince
al suo scoglio ogni naufrago. In Ombre nei luoghi dei romanzi,
la citazione del bellissimo titolo di un libro dell’argentino
Osvaldo Soriano: “Un’ombra ben presto sarai” per indicare
l’importanza della forma che i veri artisti danno alla letteratura e
usano darne la consistenza di un’ombra. L’artista è un visionario
perché la visione che egli riesce a costruirsi è forma perfetta:
Borges la considerava prerogativa e privilegio della letteratura. I
luoghi visitati o natii, attraverso il punto di vista dei grandi
scrittori, vedi Pirandello - Agrigento, si trasfigurano e si
cristallizzano in visioni avvinte strettamente alla loro sensibilità
e al loro attaccamento sentimentale. La poesia di Pirandello
Ritorno chiude con i seguenti versi:
“…guarda la casa accanto
dall’aereo terrazzo, ove felice
visse la famigliola,
ma serra in cuore il pianto;
e sconsolata e sola
neppur tra sé con un sospiro dice:
“ Quando stavamo là…”
Sciascia, dice Collura, forse nessun scrittore italiano del ‘900, ha
mostrato di essere così legato al suo paese d’origine, restringeva
la Sicilia a Racalmuto” il desiderio acuto di lei”
Collura ripercorre i luoghi in cui la letteratura ha trovato casa,
Santa Margherita Belice, Palma Montechiaro, … tappe dell’epopea del
Gattopardo.
Una storia d’amore e di guerra racconta di due giovani siciliani che
decisero di continuare la guerra secondo i loro ideali. In Luigi
e Antonietta nella vampa della follia spiega quanto la
drammatica vicenda umana di Pirandello è teatro allo stato puro: un
teatro di natura da cui scaturisce quello artistico.. La capacità di
fare teatro delle proprie angosce, dell’inferno che per lui fu il
rapporto con la moglie (folle), al punto che è difficile distinguere
i drammi rappresentati sui palcoscenici da quelli vissuti dal loro
autore. In Enigmi analizza il dipinto L’uomo ignoto di
Antonello da Messina (Museo Mandralisca, Cefalù), comunica in quel
suo enigmatico ed irritante sguardo di un uomo compiaciuto di se
stesso, un realismo che rende l’opera oltremodo misteriosa. Ebbene
come tanti messaggi criptici inserite in opere di artisti forse il
mistero sta in una virgola, una goccia, un capriccio grafico
disegnato al centro di un rettangolo di colore bianco che traspare
dalla giubba. Una piega? No. Le pieghe non presentano rotondità,
Ecco il perché di quel sorriso beffardo. Antonello avrebbe lasciato
un segno della sua virile gioia di vivere…
Disorienta e sconcerta l’epitaffio che Sciascia lascia su un
biglietto alla moglie per la sua tomba perché non gli assomiglia,
“Ce ne ricorderemo, di questo pianeta”. Nel libro-intervista La
Sicilia come metafora aveva scritto che di lui si dicesse “Ha
contraddetto e si è contraddetto”.
In Cimitero e Teatro si racconta dell’epitaffio di un
monumento funebre ad Agrigento, dettato dalle sue alunne, di un
professore del Piemonte, che per effetto della legge Casati aveva
fatto confluire nel Mezzogiorno un cospicuo numero di insegnanti
piemontesi.
Su un altro monumento funebre, un epitaffio in latino racconta la
terribile fine di una famiglia nel terremoto di Messina del 27
dicembre 1908, La messa in scena della morte, spiega
l’autore, come nelle rappresentazioni sacre in Sicilia, è una forma,
forse, di elaborazione del dolore, del lutto. Una particolare
ritualità dei siciliani nel celebrare il mistero della morte.
In Gattoparderie ricorda quando a Palermo negli anni
Cinquanta Giuseppe Tomasi di Lampedusa stava lavorando al suo
Gattopardo e delle lettere private dimostrano quanto fosse
interessato alle vicende politiche dell’Italia e dell’Europa. In un
altro saggio dedicato alle donne siciliane, Collura parla del
personaggio Concetta, la seconda delle tre figlie del principe di
Salina nel Gattopardo. Con lei si conclude il romanzo, un archetipo
letterario magnifico, quel suo bagliore ferrigno, si coglie nelle
donne siciliane più di quanto si pensi. Collura scorge delle dirette
somiglianze tra le donne siciliane guardiane ferree del potere in
famiglia e nella società, sottovalutandone il loro vero ruolo e il
personaggio Concetta che in questo suo rimanere in secondo piano
regge su di sé un intero romanzo. Il cospicuo contributo dato alla
letteratura nazionale dagli scrittori siciliani dall’Unità d’Italia
ai nostri giorni, s’impone con un dato costante: la delusione per la
mancata rivoluzione promessa dal Risorgimento. Le tante, molte
Sicilie che emergono da quanti ne hanno scritto e detto i
viaggiatori che l’hanno visitata, perché ciascuno viaggiando visita
ciò che si vuole visitare, e si vede ciò che si vuole vedere. Gli
strani percorsi che sceglie la letteratura come nel romanzo Paolo
il caldo di Vitaliano Brancati. In Uomo disperato, scrittore
felice l’omaggio è rivolto ad un altro grande scrittore
siciliano, Gesualdo Bufalino. Dal ricordo emerge un realistico, ma
affettuoso ritratto dello scrittore che vive in Sicilia, ma non la
vive. Un po’ come Borges con l’Argentina: la canta, la ricorda
standone sempre fuori come un aristocratico inglese in una colonia
del Regno Unito. In Due promontori Palermo e Cefalù
affacciate sul mare ai piedi di un promontorio, come due sorelle che
si specchiano, l’una pittorescamente simile all’altra., ma nei loro
segreti recessi, uniche. Il ponte dei giganti una sorta di
breve racconto fanta-realistico: da un’astronave l’io narrante
avvista un’isola riportata su un libro antico, ma a distanza non era
né un deserto né una terra fertile, ma qualcosa di morto. Inizia
l’esplorazione di un’isola o quel che rimaneva di un’intera
isola…Nella nota dell’autore, il giornalista-scrittore dice che
scrivendo, molte volte, abbia cercato di evadere dalla Sicilia,
ritrovandosi sempre in una posizione più interna da dove era
partito. Non perché la Sicilia è una prigione, ma perché non si
finisce mai di parlare della propria terra, più si cerca altrove,
più si trovano nuove occasioni per meglio comprendere il luogo dove
si è nati e per un certo tempo vissuti. E’ questa “la scienza certa”
di cui parla Borges. E Collura la conosce perché, come diceva
Sciascia, la Sicilia è metafora del mondo: un’isola che non
potrà essere collegata con un ponte, perché è impossibile collegare
un continente a un altro, anche servendosi delle tecniche
ingegneristiche più strabilianti.
E’ un libro “forse” che può essere apprezzato da chi è siciliano e
della Sicilia condivide la storia e il sentimento che suscita in chi
c’è nato e da lontano volge lo sguardo. Ho scritto, forse, perché si
potrebbe in modo speculare parlare di un’altra terra e viverla con i
medesimi e contrastanti stati d’animo. La propria terra diventa
l’ombelico del mondo, più che un raffronto con il mondo e così ogni
territorio diventa metafora del mondo. Si parla di luoghi amati, di
scrittori amati e di momenti di vita propria e altrui vissuti.
Interessante, ricco di annotazioni letterarie e scritto con grande
garbo, questo libro offre un’occasione per conoscere aspetti e lati
di una Sicilia multiforme e affascinante nella sua unicità.
L’autore: Matteo Collura è nato
ad Agrigento nel 1945, ha pubblicato Il Maestro di Regalpetra,
Eventi - Il racconto dell’Italia del Novecento, Alfabeto
eretico, In Sicilia, Sicilia sconosciuta etc…Scrive per Il
Corriere della Sera e vive a Milano.
Arcangela Cammalleri
15/02/2010
Giolina
di Valentino Rocchi
In copertina Maternità di Bruno Baratti
Edizioni Agemina
www.edizioniagemina.it
Narrativa romanzo
E' fuor di dubbio che l'ultimo romanzo di Valentino Rocchi,
pubblicato alcuni giorni prima della sua scomparsa, segni, dopo la
parentesi giallistica di Confrontarsi con Karolina, un
ritorno a un mondo e a temi a lui particolarmente cari, già oggetto
di precedenti narrazioni. La civiltà contadina, che fa da sfondo
alla Magia del fuoco e che è invece teatro, palcoscenico di
La saggezza di Toni, L'eredità di Venanzio, Gli
uomini di Bluma, La Padrona di Santa Maria, sembra quasi
riemergere dai ricordi per un ultimo saluto al suo autore.
Certo è che Rocchi è stato un profondo conoscitore della realtà
rurale fra le due guerre e negli anni immediatamente successivi
all'ultima, descrivendola in modo tale da costituire una visione
storica di vita, usi, costumi e condizioni di quel periodo. Quindi,
in aggiunta agli interessanti e importanti temi trattati, i suoi
lavori finiscono con l'essere schemi archeologici di un'epoca e di
una società che non esiste più.
Ha ragione Ferdinando Camon quando dice e scrive che la civiltà
contadina è finita e perciò va dato merito all'autore padovano e a
quello pesarese per averla riportata alla luce, per averla fatta
conoscere a generazioni che ignoravano e che ignorano tuttora di
come fosse il mondo delle campagne tanti anni fa.
Valentino Rocchi guarda a quella società, composta per lo più da
miseri, con uno straordinario affetto, proprio di chi è giustamente
convinto che il tempo delle stagioni, che regola la vita dei campi,
sia l'unico per gli uomini, con quelle ore di lavoro che vanno dal
sorgere del sole al suo tramonto, una metafora della vita che ogni
giorno si rinnova.
Se ha un occhio pietoso per i casanti, cioè coloro che offrivano le
loro braccia per brevi periodi o anche per alcune ore, ha un
particolare riguardo per i mezzadri, illusi di avere le mani sulla
terra che lavorano e sempre indebitati nei confronti dei padroni,
che così li soggiogavano e li rendevano simili ai servi della gleba.
Da figlio di quella terra Rocchi non può evidentemente dimenticare
l'indigenza di questi coltivatori, mai tale da farli morir di fame,
ma al limite della sussistenza, con la certezza pressoché totale che
nulla sarebbe potuto cambiare. Del resto i padroni erano per lo più
esosi, prepotenti, alcuni pregni di stravizi, come nel caso di
Pietro, giocatore incallito e galletto della zona, in cui è forte il
senso della potenza al punto di violare le donne che non intendono
cedere.
Quindi, anche l'aspetto femminile rientra in un quadro generale di
soggezione, di cui è parte anche la padrona, Bianca, moglie di
Pietro, una donna che nonostante l'epoca (siamo agli inizi del XX
secolo) riuscirà a riemergere da quel fango di prepotenze, riservato
al suo rango di "non maschio".
Se il titolo del libro è Giolina e non è il soprannome di una
femmina come invece si potrebbe pensare, la vera protagonista,
attorniata da numerosi comprimari, alcuni dei quali quasi con la sua
stessa evidenza, è proprio lei, Bianca, capace di reagire alla sua
condizione imposta di essere inferiore e di dimostrare, con
l'intelligenza e con quell'intuito che è proprio del gentil sesso,
che il mondo può cambiare, che questo non deve essere solo dei
maschi, ma che su questa nostra terra siamo tutti uguali al punto
che identiche devono essere le opportunità.
Ne nasce un affresco corale di grande bellezza, dove i protagonisti,
il paesaggio, gli animali, le storie hanno un nesso logico; non ci
sono comparse nel senso stretto del termine, perché anche i volti
anonimi di coloro che ascoltano la messa sono nell'insieme l'emblema
di un ceto e qui si innesta un altro discorso caro all'autore, vale
a dire quel senso innato di solidarietà, di riscatto sociale senza
violenza, di rivendicazione della propria dignità che pagina dopo
pagina emerge dalle righe divenendo palpabile e che dona all'opera
un ampio anelito di libertà e di uguaglianza.
In questo contesto non si può non evidenziare come in Valentino
Rocchi non alberghi mai l'odio, anche nei confronti dei personaggi
più esecrabili, bensì sia diffuso e tangibile un autentico senso di
pietà. Quindi siamo ben lontani da rivendicazioni di giustizia
violente e foriere di scontri insanabili, perché tutto viene
stemperato in un generale quadro di misericordia che porta, a
piccoli passi, a una visione di speranza di un mondo in cui tutti
abbiano la consapevolezza di essere egualmente indispensabili.
In Giolina ci sono pagine che portano alla commozione, mai pretesa,
mai reclamata, nel pieno rispetto della personalità del lettore e
s'accompagnano spesso allo sfondo di una natura ancora in sintonia
con l'uomo, una natura amica perché di essa l'uomo ha rispetto.
Mentre leggevo, scorrevano nella mia mente tutti i personaggi,
immaginati a modo mio, come appunto voleva Rocchi, non imponendo, ma
proponendo.
Giolina è l'ultimo canto a una civiltà scomparsa, sostituita dalla
freddezza delle macchine, da un'attività divenuta quasi industriale,
spersonalizzante, non più secondo gli atavici ritmi della natura.
Bianca, il burbero ma buon Simone, la sfortunata Sabina vi
resteranno nella memoria, perché vi accorgerete di averli accanto a
voi.
Quanto a Giolina, questo personaggio è quasi una metafora, il
passaggio da un mondo all'altro, senza che sia cosciente di quel che
è, da dove viene e dove va.
Nei primi rilievi dietro a Pesaro, alla Badia, ove è ambientato il
romanzo, voglio sperare che fra quei personaggi inventati, magari su
delle piccole basi concrete, ombre ideate dalla fantasia, aleggi lo
spirito di Valentino, riunito per sempre alle sue creature.
La lettura è senz'altro più che raccomandata.
VALENTINO ROCCHI (Savignano sul
Rubicone, 1929 - Pesaro, 2010)
Ha pubblicato: "Una Storia a Castelvecchio" (Società editrice Il
Ponte Vecchio - Cesena); "L'Eredità di Venanzio" (Guaraldi - Rimini)
Vincitore del Premio letterario "Il Pungitopo" 2001."Notte all'Hotel
La Guercia" (Argalìa Editore);"Gli uomini di Bluma" (Giraldi
Editore) II Classificato al Premio "Palazzo al Bosco", 2002;"La
saggezza di Toni" (Giraldi Editore);Esce nell'anno del V centenario
della morte di Pandolfo Collenuccio, uomo di corte e di legge, dalla
vita straordinariamente avventurosa: "Notte all'Hostaria La
Guercia", Pandolfo Collenuccio, uomo di corte del XV secolo, (Giraldi
Editore) ambientato nel XV secolo, di cui è l'autore è profondo
studioso e conoscitore; nel 2008 "La Magia del fuoco" (Agemina) e
"1504 - Notte all'Hostaria La Guercia" (Agemina); nel 2009 "Il
pianoforte a coda" (Giraldi Editore), "La padrona di Santa Maria" (Giraldi
Editore), "Confrontarsi con Karolina" (Agemina), nel 2010 "Giolina"
(Agemina)
Renzo Montagnoli
10/02/2010
TESORETTO SICILIANO
Compendio storico-culturale regionale
di Ezio Biuso-Rizzo
Presentazione di Marco Solfanelli
Edizioni Solfanelli
www.edizionisolfanelli.it
Saggistica storica
Collana Faretra
Non è infrequente che si viva di impressioni, o che comunque non si
possa prescindere dalle stesse. A volte ci si azzecca, altre no, ed
è quest'ultimo il caso di Tesoretto Siciliano che, prima di
accingermi a leggerlo, immaginavo come un volumetto a uso del
turista che intenda visitare la Sicilia e prima desideri avere
un'infarinatura della sua storia. E invece non è così, ma è molto di
più e penso che possano trarre giovamento dalla sua lettura gli
stessi siciliani per sapere da dove sono venuti, come si è evoluta
la struttura sociale nel corso dei secoli e il perché di una certa
arretratezza economica che, dopo decenni di Cassa del Mezzogiorno,
non è ancora stata sanata. Quest'isola è sempre stata una terra di
frontiera, preda di diversi contendenti che ambivano a
impossessarsene per la sua indubbia posizione strategica.
Biuso-Rizzo, l'autore, senza approfondire troppo, riesce a
condensarne la storia in modo tale che chi legge può comprendere
facilmente e senza la necessità di ricorrere a fonti alternative,
perché in quelle pagine c'è tutto quello che serve per farsi
un'idea, abbastanza completa, dell'isola.
Dalla colonizzazione greca a quella romana, e poi a quella araba,
soppiantata da quella normanna, per approdare a quella spagnola,
matura chiaramente l'opinione della trascuratezza dei vari "padroni"
per questa terra, mai considerata parte integrante e indispensabile
del loro dominio, fatta eccezione per i Normanni, che lì posero le
fondamenta di uno stato in una identità geografica che dagli altri
era considerata invece una lontana periferia. La dominazione
ispanica fece poi regredire la Sicilia a semplice territorio
coloniale e proseguì questo atteggiamento anche con i Borboni,
l'ultima dinastia prima dell'avvento dei Savoia e quindi dell'unità
d'Italia. Resta il fatto che l'averla sempre considerata solo come
una terra oggetto di scambio fra regnanti finì con il determinare
non solo la mancanza di una forte identità regionale, ma anche una
struttura statale debole e spesso vacante. Dal punto di vista
economico è sempre stata vista come una zona agricola, ma il
fenomeno dei latifondi portò sempre a produzioni modeste, quasi di
sussistenza, di cui fece le spese un numeroso proletariato agricolo
che, oppresso dalla miseria, nutrì sempre sfiducia nei confronti dei
padroni, visti come rappresentanti di un potere feudale. Di
conseguenza, l'assenza di un vero e proprio concetto di stato,
fenomeno che è presente tuttora, è stato ed è il terreno fertile per
lo sviluppo dell'attività mafiosa. A questa organizzazione criminale
l'autore dedica un intero capitolo con osservazioni e conclusioni
che mi trovano per lo più d'accordo e esprimono bene le difficoltà
per debellare definitivamente un fenomeno ormai ben radicato.
La storia, però, non è fatta solo di dinastie e di eventi, ma anche
di cultura ed ecco che allora ci son ben tre capitoli dedicati
all'arte, alla musica e alla letteratura. Se, come mi sembra di aver
compreso, le prime due non sono state produttive di nomi prestigiosi
- per quanto tuttavia non sia possibile dimenticare il barocco
siciliano e le opere di Vincenzo Bellini - , la terza è invece di
notevole rilievo, visto che vi sono autori che esulano ampiamente il
ristretto spazio regionale e che ormai sono considerati dei
classici, conosciuti in tutto il mondo. Capuana, Verga, Pirandello,
Rapisardi, Martoglio, Tomasi di Lampedusa, Quasimodo, Sciascia,
Bonaviri, Camilleri - per brevità ne ometto molti altri di rilievo -
hanno donato a quest'isola, ma soprattutto alla cultura opere che
lasciano il segno, romanzi e poesie indimenticabili. Questa terra,
arretrata, emarginata, quasi soffocata dalla mafia, ha nella
letteratura degli autentici tesori e non sembra stanca di produrne
di nuovi, quasi si trattasse, e forse lo è, di una scuola, in cui il
rapporto fra uomo e natura, fra materia e spirito,
nell'impossibilità di una verità assoluta, segue una ferrea logica
narrativa, secondo un processo di elaborazione filosofica di
altissimo livello.
Concludono l'opera delle utili tavole sinottiche, a carattere
informativo, affinché il turista sappia cos'altro visitare.
Tesoretto siciliano è un autentico scrigno di conoscenza e
quindi la lettura è senz'altro raccomandabile.
Ezio Biuso-Rizzo è nato a Adrano
nel 1960 e ivi risiede. Dopo la Laurea in storia e filosofia (1985)
ha partecipato ai concorsi a cattedra, ottenendo quattro
abilitazioni all'insegnamento. Al lavoro scolastico accompagna una
intensa attività di ricerca nel campo delle scienze sociali, della
filosofia della scienza e delle attività cinematografiche.
Questi interessi sono confluiti nella pubblicazione di numerosi
articoli su riviste specializzate e in alcune pubblicazioni tra le
quali: "Dalla fine dell'urbanistica alla civiltà della crisi" (Aesse
Edizioni, Santa Maria di Licodia 1997), "Cultura e società" (Aesse
Edizioni, Santa Maria di Licodia 1999), "Manuale ragionato del
Mondialismo" (Aesse Edizioni, Santa Maria di Licodia 2006).
Renzo Montagnoli
09/02/2010
LA MORTE
(di Vladimir Jankélévitch
- Ed. Einaudi)
…………………………………
Recensione a cura di Carmen Lama
La morte, di V. Jankélévitch, è stato definito un libro
"sconvolgente".
Si può fare Filosofia della morte e scriverne per 474 pagine dopo
aver affermato fin dall'incipit della Premessa che sia "dubbio che
la morte sia un problema specificamente filosofico" e che sulla
morte "Non c'è proprio nulla da dire"?
È quanto ha fatto in modo veramente sconvolgente questo filosofo
ebreo di origine russa e naturalizzato francese, vissuto dal 1903 al
1985, la cui opera filosofica è un vero e proprio compendio di idee
originali e di cultura raffinata ed amplissima.
Il libro si suddivide in tre parti, i cui titoli già orientano il
lettore riguardo ai contenuti specifici su cui sarà portato a
riflettere.
Nella prima parte, che occupa quasi la prima metà del libro,
l'autore disserta su "La morte al di qua della morte",
portandoci effettivamente ad una lunga riflessione su quanto della
morte è possibile confusamente intuire stando all'erta mentre siamo
vivi. La sua non è una vera e propria indagine sulla morte, poiché
di ciò che è assolutamente impossibile conoscere non si saprebbe
neppure come e su cosa indagare. Vi è, invece, un esame approfondito
delle varie teorie della morte, dell'anima, dell'essere, del
non-essere, del divenire, del nulla, su cui la filosofia classica ha
lungamente dibattuto, ed anche un esame delle teosofie, delle
visioni filosofico-religiose sugli stessi temi.
Lo scopo principale di quest'analisi è, ovviamente, quello di poter
poi confutare le precedenti teorie, dimostrando, per quanto sia
possibile su temi così sfuggenti all'ambito razionale, la fallacia
di tali visioni o, nel migliore dei casi, come esse siano semplici
tentativi di portare una sorta di consolazione e di speranza di
fronte all'angoscia del nulla che attende al varco ciascun essere
umano, senza peraltro che ci sia alcuna possibilità di sfuggire alla
tragedia estrema, al punto ultimo di ogni esistenza, e senza alcuna
eccezione per alcuno. Consolazione e speranza che, di fronte alla
realtà empirica, ineludibile quanto assurda e tuttavia necessaria,
sono forse motivo di maggior disperazione e non offrono comunque
alcun appiglio per poter cambiare le carte del destino. Jankelevitch
tiene a sottolineare l'impossibilità di rendere "univoco", certo,
definitivo, il concetto di morte che è invece un concetto
"equivoco", in quanto tiene insieme dei contraddittori, la vita e la
morte, e su cui non ci potranno mai essere delle verità definitive.
La dimostrazione di Jankelevitch, pur ammesso che nulla si possa
dimostrare con metodi empirici quando l'oggetto su cui si discute è
di ordine metaempirico, procede con uno specifico ordine, molto
convincente in effetti, poiché il processo filosofico di
avvicinamento all'evento straordinario (ma del tutto ordinario), che
egli ci propone, risulta a dir poco lampante come una verità di La
Palisse. Ci guida, infatti, a distinguere la morte in terza persona,
dove ciascuno di noi è semplice spettatore della morte di altri,
cosa del tutto naturale, ordinaria, e persino scontata da che esiste
il mondo, dalla morte in seconda persona, dove si è spettatori della
morte di un congiunto o di una persona cara, la cui scomparsa già
appare più ingiusta della precedente, meno naturale ed ordinaria,
dalla morte in prima persona, la morte-propria, che contrariamente
al buon senso e all'evidenza, appare a ciascuno di noi come
altamente improbabile, comunque lontana nel tempo e come un evento
del tutto straordinario.
Ponendoci nelle diverse prospettive, potremmo insieme a Jankelevitch
seguire il processo di conoscenza di questo istante tragico che è la
morte, senza tuttavia poterne avere effettiva conoscenza; al più
potremmo giungere ad una "scienza nesciente", che nulla ci dice del
nucleo profondo di quell'istante, se mai quell'istante abbia un
nucleo essenziale che possa essere oggetto di conoscenza.
Jankelevitch porta avanti il suo discorso servendosi di moltissimi
esempi, tratti tutti, com'è ovvio, dal mondo di quaggiù,
dall'empiria, da ciò che solo può essere oggetto di discorso e di
comprensione per un essere razionale, utilizzando anche un'efficace
ed originale terminologia, come quando definisce la "semelfattività"
della morte, indicando con ciò l'accadere di un evento di tale
portata come quello che avviene una e una sola volta e in modo
necessario.
La realtà tragica dell'istante mortale è ciò che tutti sanno in
quanto si tratta di una "quoddità", ma nessuno conosce la "quiddità"
di tale istante: in altri termini, tutti conoscono "il fatto che" ma
non conoscono il "che", cioè nessuno conosce le modalità effettive
del quod, le sue coordinate spazio-temporali e il modo in cui
accadrà. In questa prospettiva, e solo per questa ambiguità della
morte che è certa nel suo quod, ma incerta nel suo quid, la vita
assume il grande ed inestimabile valore che ha. Valore che si
esprime in tutte le azioni che siamo continuamente spinti a
compiere, quasi con il sottinteso ed implicito intento di
allontanare quanto più sia possibile l'istante supremo ed ultimo.
La morte, inoltre, svolge un compito essenziale quando accade,
perché è solo e soltanto da quell'ultimo istante in poi che si ha il
quadro completo di un'esistenza. Salvo che per il diretto
interessato, per il quale questa nozione specifica non può essere
mai posseduta, poiché prima è troppo presto (il quadro non è
completo) e dopo è troppo tardi (non c'è più nessuno che possa
sapere).
Viene analizzato il va-da-sé del divenire, nel quale consiste la
continuazione dell'intervallo che costituisce la vita vera e
propria, e che si situa tra il precedente non-essere, da cui ogni
esistenza è tratta nel momento della nascita, e il nulla che mette
fine a questo intervallo, senza che ci sia null'altro dopo, perché
il nulla della fine è un nulla-più, un mai-più-nulla, un nulla
definitivo ed una volta per tutte, un nulla eterno. E non ci sono
misure comuni per comparare il non-essere precedente all'esistenza
con il nulla che segue all'ultimo istante, il quale è un nulla del
tutto, nulla di tutto l'essere, in quanto non c'è alcunché a
seguire.
Nella sua lunga dissertazione Jankelevitch ci spiazza, anche perché
mentre si aggira nei dintorni della morte, afferma categoricamente
che mentre siamo in vita la morte non esiste affatto, ogni momento
della nostra esistenza è vissuto in tutta la sua pienezza di vita,
anche quando incalza l'invecchiamento, tanto è vero che la morte
arriva sempre "all'improvviso" anche se sorprende una persona più
che novantenne. In questo caso, si è solo percepita una maggiore
probabilità, ma mai la sua approssimazione. La morte, vicinissima
alla vita in quanto può arrivare in qualsiasi momento senza chiedere
affatto il parere, è sempre lontanissima dalla vita. Ed è questa una
fra le tante difficoltà di saperne alcunché. Non ci può essere
neppure un apprendimento della morte, come certe religioni
pretendono quando stimolano i credenti a "prepararsi alla morte".
Risulta del tutto inutile prepararsi, vivere continuamente
mortificandosi, vivere le piccole morti quotidiane e le rinunce in
vista di un bene postumo, poiché non si può apprendere ciò che
nessuno ci può insegnare perché nessuno ha mai vissuto l'esperienza,
unica - singolare - estrema, della morte-propria, per potercene poi
dare neppure la più pallida idea, e perché nulla si sa di questo
incerto bene postumo.
In questa prima parte del libro, sono moltissimi i concetti di volta
in volta messi in luce, senza tuttavia raggiungere una certezza
sull'essenziale: è come fare una sorta di giro panoramico intorno ad
una località sconosciuta, ma restando sempre alla periferia, poiché
non ci sono mezzi che arrivino al centro.
Nella seconda parte, dal titolo che appare quasi come una sfida per
quanto appena detto, Jankelevitch affronta "La morte nell'istante
mortale". Qui la dissertazione si fa più insistente, più
pericolosa, più dettagliata e sempre più tragica, mano a mano che
cerca di avvicinarsi a quel centro inesplorabile che continuamente
sfugge e si allontana quanto più sembra stia per essere raggiunto.
È come se il centro fosse dappertutto e per ciò stesso da nessuna
parte. Come si può fare per individuarlo in modo esatto per poterlo
poi ben esaminare? Ancora una volta si frappongono questioni
puramente filosofiche che sono assolutamente ineludibili: la morte è
un evento soltanto fisico, biologico, non può essere indagato con
strumenti metafisici. Si può tentare di entrare nel dettaglio di
cosa rappresenti l'ultimo istante rispetto a tutti gli istanti che
l'hanno preceduto, ed affermare la sua assoluta particolarità, senza
tuttavia poterlo mai cogliere "sul fatto", neppure quando si tratti
dell'ultimo istante di una seconda o terza persona.
In questa seconda parte del libro, sono anche molto interessanti i
raffronti che Jankelevitch ci presenta tra i modi in cui in
letteratura sono state affrontate le situazioni di morte da parte di
alcuni protagonisti di romanzi, di drammi, di opere musicali. Ed è
pertanto molto ampia anche la mole di testi indicati nelle note, a
cui il filosofo ha fatto riferimento nel suo lungo e complesso
discorso filosofico sulla morte.
I quattro capitoli che si susseguono in questa seconda parte
analizzano nel dettaglio quell'ultimo istante mortale
fuori-categoria, di tutt'altro ordine rispetto a tutti gli altri
istanti che compongono il nostro intervallo, cioè il divenire e la
continuazione della vita, arrivando fino al quasi-niente
dell'articolo di morte, ma eludendo la vera e propria soglia della
morte.
Inoltre, viene mostrato come nel tempo dell'intervallo di vita sia
l'irreversibilità temporale ad avere la meglio, in quanto, mentre ci
permette un'andata e ritorno nello spazio, ci impedisce di fatto un
ritorno indietro nel tempo.
Ed infine, una sola nota di vera consolazione (ma di consolazione si
tratta?) ci viene offerta da Jankelevitch nel capitolo in cui, pur
affermando l'irrevocabilità sia dell'istante mortale sia
dell'irreversibile temporalità vissuta, ci mette davanti
all'impossibilità di cancellare e nichilizzare, insieme a tutto
l'essere, anche il fatto di esser-stato. Una volta che un'esistenza,
che poteva anche non-essere, sia venuta alla luce con la nascita,
diventando un essere, nessuna morte potrà mai cancellare il fatto
che questo essere sia vissuto.
Nessun olocausto con l'annichilimento di milioni di esseri potrà mai
cancellare il fatto che questi esseri siano stati.
A questo proposito, vorrei sottolineare come Jankelevitch, filosofo
ebreo, la cui esperienza è stata fortemente segnata
dall'innominabile tragedia della "morte di massa" di milioni di
ebrei, non faccia mai esplicito riferimento a quella mostruosa e
immane e gratuita carneficina dettata solo da menti demoniache e
folli, tranne in un punto, ma quasi di sfuggita, come uno fra i
tanti esempi che adduce per spiegare meglio i concetti che esprime.
Ma molto probabilmente, come ci dice nell'Introduzione Enrica
Lisciani Petrini che ha curato l'edizione italiana del libro,
quell'esperienza è lo sfondo costante e ineludibile di tutta la sua
riflessione filosofica sulla morte.
Nella terza ed ultima parte del libro, Jankelevitch torna su alcuni
concetti già affrontati, approfondendoli ancora, pur senza darci una
virgola in più di conoscenza sul concetto di morte vero e proprio.
Se l'indagine riguarda "La morte al di là della morte", e se
Jankelevitch ha avuto sin dall'inizio del libro l'intento dichiarato
di mostrare l'inutilità delle teorie profetiche o consolatorie circa
l'al di là, è del tutto evidente che nulla avrebbe da dire su
qualcosa che ritiene assolutamente inesistente. E tuttavia, nei
quattro capitoli che compongono quest'ultima parte, prova a
chiedersi se l'al di là è un avvenire, che senso ha la paura
dell'istante estremo, quali speranze sostengono la capacità di
affrontare questo istante tragico in vista di qualcosa di
completamente incerto che ci attenderebbe dall'altra parte della
soglia. E si sofferma, in particolare, nel dimostrare l'assurdità
della sopravvivenza, i concetti di immortalità, di resurrezione e di
vita perpetua, distinguendo l'anima dal corpo, ma non nel senso
consueto delle filosofie tradizionali. L'anima, per il nostro
autore, non è altro che l'essere pensante, l'anima può esser tale
solo se esiste un essere pensante, essa non ha un luogo determinato
nel corpo, così come i pensieri non risiedono nel cervello ma sono
impossibili senza di esso. Dimostrando infine l'assurdità della
nichilizzazione dell'individuo, cioè di tutto l'essere pensante,
prodotta dalla morte, indugia sulla continuazione della specie che
può aver luogo solo a partire dalle singole morti individuali. Sono
queste ad innescare quel processo generativo per il quale le nascite
sembrano in qualche modo compensare le morti, ma, - ahimé! - c'è di
mezzo quell'insostituibilità di ogni singola esistenza che alla fine
non rende giustizia, in nessun modo, al singolo individuo. Perché la
compensazione quantitativa non ha nulla a che vedere con la
sostituzione qualitativa. E questo anche a prescindere che si tratti
di un nuovo individuo o che si tratti di una "rinascita" nell'al di
là. Non fosse altro perché una rinascita si compie in un diverso
momento temporale, e dunque non può che trattarsi di individui
diversi.
Mai due volte una cosa, mai due volte un evento! Figuriamoci una
persona!
La riflessione conclusiva porta Jankelevitch sul terreno della
surcoscienza e poi sui concetti di Amore, Libertà, Dio, nei
confronti dei quali afferma la superiorità della morte, ma
reciprocamente la loro superiorità sulla morte dal punto di vista
generale, in quanto l'eternità della Vita è la stessa eternità della
Verità, che nessuna morte individuale potrà mai scalfire.
E dunque, non ci resta che prendere atto che tutto ciò che di noi
resterà saranno le azioni giuste che avremo compiuto in quest'unica
vita che abbiamo avuto in sorte e, insieme a ciò, il nostro
esser-stati, sì minima parte, ma non insignificante, anzi unica,
irripetibile e di inestimabile valore, della totalità di un
universo. Il fatto d'esser-stati, il fatto d'aver-fatto le cose che
abbiamo fatto, il fatto d'aver-amato, nessuna morte potrà mai
cancellarlo.
E grazie alla nostra esistenza, la Vita continuerà a dispetto della
Morte.
La lettura di questo libro è senz'altro molto impegnativa, ma per
chi volesse cimentarsi con un modo nuovo di filosofare intorno a
Quella-Cosa che mentre ci appartiene singolarmente non ci appartiene
affatto finché viviamo, potrà essere un ottimo esercizio per tenerla
lontana, abbordandola con l'appellativo "la morte, questa
sconosciuta!", stigmatizzandola e rimandandola alle calende greche.
Un ottimo antidoto, insomma. Una sorta di vaccino, per cercare di
curare la malattia delle malattie, l'unica davvero incurabile, se
non guardandola dall'alto della surcoscienza universale.
P.S.: Ne ho ricavato una semplice "Equazione" che si conclude con
un augurio:
La vita sta alla morte
come il sole a una notte
senza luna né stelle,
a cui non seguirà
alcuna nuova alba.
Su questo fondo buio
cupo nero profondo
tanto più sfolgorante
appare a noi la vita.
Che sia un felice intervallo
tra il non-essere e il nulla!
Carmen Lama, 3/2/2010
08/02/2010
Mali di famiglia.
Maltrattamenti, stalking, mobbing, gambling,
dai racconti dei protagonisti agli aspetti psicologici e giuridici.
Gina Lupo e Vittorio Ricapito
Casa editrice Edit@
Copertina di Pillinini
Mali di famiglia.
Nuove difficoltà dai risvolti giuridici e psicologici esaminate da
chi le affronta quotidianamente.
Si raccontava di famiglie intorno al fuoco, ove il fuoco era al
centro di tutto. Scoppiettava nel camino e la sua era la voce più
importante. La famiglia in cerchio si uniformava a lui arrossando le
guance. Aveva la spalla gelida, oltre la quale regnava il buio e il
freddo. La schiena serviva da baluardo e in schiera quadrava il
nucleo. Ciascuno schermava la famiglia come avrebbero difeso se
stesso. Era, ed è questa la verità inconfutabile: solo difendendo la
famiglia si provvede a se stessi. Ce lo insegnano i padri. Volendo
riportare la definizione aristotelica di sapore giuridico "La
famiglia è l'associazione istituita dalla natura per provvedere alle
quotidiane necessità dell'uomo". L'uomo non è nato per vivere solo.
Non è neanche nato per vivere in un mondo virtuale, come inizia ad
accadere. La famiglia, ancora adesso, è un bene insostituibile.
"A parte i beni materiali, l'unica vera eredità che possiamo
lasciare ai nostri figli è l'amore. Amore per il prossimo, per la
vita. L'unica nostra chance di immortalità, di sopravvivenza alla
nostra vita terrena, sta nel trasmettere quel riconoscimento
simbolico, attraverso il nostro esempio alle future generazioni.
Pensare di fermare il tempo e il mondo che si modifica intorno a
noi, è utopia pura. Chi cerca di propagandare sotto forma di valori
tradizionali una bieca restaurazione, è destinato ad essere
condannato dalla storia. Dobbiamo imparare a governare gli eventi,
impedire al "vento di cambiamento" di spazzare via quei valori che
sono state le fondamenta del nostro sviluppo e che sono e saranno
indispensabili alla buona riuscita del naturale progetto di
organizzazione della famiglia che ha reso possibile la nostra
evoluzione filtrandoli però ed eliminando elementi storici
anacronistici. La parola d'ordine è compromesso: trovare
l'equilibrio tra gli antichi valori di unione della famiglia e il
moderno stile di vita imposto dall'attuale contesto. Sarà questa la
nuova sfida che attende il nostro futuro. L'ingrediente essenziale è
l'amore."
Nel prologo, di cui ho riportato solo una parte, si parla di vento
di cambiamento. In effetti, la famiglia sta evolvendosi forse in più
di una direzione. Si parla di famiglia malata non ancora di famiglia
moribonda. Al termine "famiglia" si aggiunge "a tempo" per la
facilità della sua disgregazione. Causa la vita frenetica,
l'intensità dei ritmi, la coppia ha ridotto il tempo del colloquio e
dell'ascolto. Ci si sposa, comunque, con poco interesse per l'altro,
ma pronti a soddisfare nel matrimonio, come nel resto della vita,
unicamente il proprio egoismo, come stabilisce questa società che
premia solo lo sfrenato carrierismo. L'affettività, una futilità da
non perderci la testa, è ritenuta null'altro tenerezza. Purtroppo,
senza, non si conosce né ci si fida di nessuno.
Uomo e donna, marito e moglie, secondo la formula religiosa un solo
corpo e una sola anima. Ne servono due di forze e due di attenzioni
per reggere le insidie quotidiane. E quelle esterne hanno potenza
distruttiva sempre più accesa, nel loro numero centuplicato.
Ma rientriamo tra le mura domestiche. Appena in casa ci si libera di
scarpe, vestiti e maschera di compiacenza. Che si viva soli o in
famiglia si è se stessi. La famiglia però pretende il rispetto delle
regole che si è creata. Sono sane quelle in cui la violenza non è
eccezione né regola. Quelle che fanno sì che il proprio nido non sia
peggiore dell'inferno.
I guai di famiglia nascono dalla e nella famiglia stessa. I
maltrattamenti hanno una connotazione comune: il dover mantenere il
segreto. Secondo un proverbio ancora recitato e applicato "i panni
sporchi si lavano in famiglia". Tempo non troppo addietro, questi
era lecito lavarli anche col sangue in virtù del diritto d'onore. La
concezione della famiglia patriarcale includeva il dominio totale
del pater familias su tutti i componenti, i quali, non avevano alcun
diritto di replica. C'era un vertice che era anche un collante, ed
un'unica direzione. La mentalità del capofamiglia sceglieva quali
comportamenti si potessero assumere all'interno e all'esterno di
essa. Erano leciti atteggiamenti violenti, senza che se ne
prevedesse alcuna giustificazione. Spesso vigono tuttora le stesse
regole: violenza e segreto. Infrangere questi precetti, con i quali
si è nati e cresciuti, è più doloroso del sopportare la violenza
stessa. Vergogna e pudore sembrano sentimenti in disuso, invece
esistono. Tagliano l'anima. E la forza non sembra sufficiente per
superarli. Eppure è indispensabile farlo. Il non reagire in tempo
conduce a situazioni irreversibili. In Italia c'è un omicidio in
famiglia ogni 2 giorni: in 7 casi su 10 la vittima è una donna. A
Fabio, chiamiamo così un bambino di tre anni il protagonista di una
vicenda giudiziaria di pedofilia, era stato chiesto dalla maestra di
mantenere il segreto. Le parole non dette impediscono di dare un
senso a ciò che è successo e autorizzano implicitamente la
ripetizione dell'abuso. Ancor più nei bambini per i quali il segreto
rientra nella sfera del magico e del fantastico, e quindi assume un
fascino difficilmente scalfibile. Bisogna imparare a parlare perché
esistono leggi e strutture che possono prestare soccorso, e bisogna
imparare a dire no.
La violenza assume forme svariatissime che solo da poco tempo hanno
un nome come, ad esempio, stalking, mobbing familiare, gaslighting.
Personalità psicologicamente deformate producono comportamenti
inammissibili ormai sanzionati affinché le vittime ritrovino la
serenità. Persecutori e vittime, per uscire dalla situazione
creatasi, hanno bisogno di aiuto. La relazione distorta sconvolge
nell'intimo facendo perdere la psiche in labirinti sconfinati. Non
si torna indietro da soli. Per questo, vecchie e nuove figure
professionali approfondiscono la loro preparazione su questi
comportamenti emergenti.
Si da la colpa alla solitudine. Un dramma che non si accetta, perché
contrario alla natura umana. Si racconta che lo stesso Creatore si
sia immediatamente reso conto del bisogno di Adamo e gli abbia
creato la compagna Eva. E il primo appellativo di Eva è proprio
"compagna". Sarebbe stata la complice in tutte le vicende della
vita, buone o brutte. E Adamo ed Eva, insieme, sono usciti dal
Paradiso terrestre, ed, insieme, hanno creato l'intera umanità.
Adesso si è soli, senza sentirsi in simbiosi col compagno, e sempre
fuori dal paradiso.
Per solitudine si diventa stalker. Nel 1987 ha enorme successo un
thriller erotico sentimentale dal titolo "Attrazione fatale". La
trama è un'escalation di ferocia di una donna, respinta dopo
un'intesa notte d'amore, ai danni della famiglia dell'amato. Quella
che avrebbe dovuto essere solo l'avventura di una notte culmina in
un finale alla Psyco. Il film scolpisce irreversibilmente lo stalker,
l'affetto dalla sindrome di Clèrambault, tanto che difficilmente
un'altra produzione artistica potrebbe apportarvi aggiunte o
modifiche significative. Glenn Close, Alex nel film, interpreta
magistralmente la pazzia di una donna che ritiene di aver incontrato
l'amore ma è, forse per l'ennesima volta, abbandonata. Lo stalker è
appunto questo, una persona che vive in una profonda condizione di
solitudine e idealizza un partner, non sopportando l'abbandono
diventa persecutore. Traduce il suo fallimento in ripicca. Non è
legalmente necessario che la vendetta diventi sanguinaria, bastano
minacce o insistenze, pedinamenti, aggressioni e comportamenti
simili. Angelo lascia Mariapia dopo due anni di fidanzamento e
riceve sms con "Non ti libererai mai di me. Ovunque vai, guardati
intorno, io ci sarò. Sarò tua e tu sei mio. Per sempre. A qualsiasi
costo". Ma questo è solo il primo passo. Angelo permetterà alla sua
stalker di braccarlo ancora a lungo prima di rivolgersi alle forze
dell'ordine. Le vittime maschili hanno molta più difficoltà a
chiedere aiuto, in più, Angelo ha un carattere mite e introverso.
La solitudine è anche la caratteristica dominante della vittima di
mobbing e di mobbing familiare. È sempre una persona con difficoltà
di contatti, introversa, sensibile e debole. La violenza psicologica
porta il mobbizzato a chiudersi ulteriormente verso l'esterno,
motivata dall'impossibilità di esprimere il disagio, poiché si è
sottoposti ad una terribile limitazione della libertà. Il suo
carattere diventa sempre più cupo e depresso, a volte sino a
conseguenze estreme. Il mobbizzato perde del tutto la capacità
comunicativa. Mobbing, letteralmente significa "assalto di un gruppo
all'individuo". Uno contro tanti, forse proprio contro tutti. Il
mobber è di diversi tipi. C'è il frustrato, il sadico, il criticone,
il leccapiedi, il tiranno, il carrierista, etc., ma è sempre uno che
esegue una linea d'azione ben precisa in quanto utilizza
l'intelligenza cognitiva e strategica. Al contrario, il mobbizzato
si relaziona in modo intuitivo ed emotivo, risultando sempre il
perdente. Una generalizzazione vorrebbe lo stalker sempre donna e il
mobber uomo. Al contrario, l'emancipazione porta la donna ad
assumere atteggiamenti sempre più prevaricatori tipici maschili ma
con l'aggiunta di sottigliezze indiscutibilmente femminili. Anche la
donna può essere una formidabile mobber, acutamente sadica, e l'uomo
uno stalker.
Vivere in famiglia non è mai stato facile. Anche in essa si misurano
le forze, le astuzie, i rancori. Alle grane ataviche, la famiglia ne
sta aggiungendo di nuove. Ho accennato solo di alcune, poche
rispetto a quelle presenti nella realtà societaria. In modo molto
professionale se ne sono occupati Lupo e Ricapito nel libro "Mali di
famiglia". Un avvocato e un giornalista, coadiuvati da un
validissimo team di esperti, hanno pubblicato, con la casa editrice
Edit@, un testo che prende in considerazione avvenute cause
processuali per analizzare psicologicamente e giuridicamente
situazioni diventate comuni. Sarebbe presuntuoso dare formule per un
matrimonio riuscito. Lupo e Ricapito, infatti, evitano accuratamente
di elargire facili consigli, ma mettono soltanto in guardia contro
possibili disavventure.
L'epilogo di Ruggero Ruggeri, docente di psicologia dinamica presso
l'università di Salerno, si presenta con questo titolo: "Famiglia
Mulino Bianco o Famiglia Addams?". Il professore attribuisce
validità ad entrambe. Ambedue basate sul rispetto, accoglienza e
fiducia reciproca. Riconosce soprattutto il legame saldo e
inscindibile tra i componenti. Talmente tenace da far passare in
secondo piano le personali esigenze. Identifica il mito che queste
due famiglie rappresentano. La trasposizione del mito nella realtà
non sembra possibile, a giudicare dai fatti di cronaca nera e dagli
atti giudiziari. Sarebbe, come sempre, giusta soluzione la via di
mezzo: la famiglia con saldi legami e opportuni conflitti da
smussare giornalmente. Il benessere non è determinato dalla mancanza
di divergenza, ma dalla continua ricerca di'equilibrio.
Quando le difficoltà sovrastano non è matematico vincerle. Incidono,
che siano interne o esterne alla famiglia stessa. L'ago della
bilancia, della risoluzione, lo muove solo la fiducia. È lei che
stabilisce se il legame è la catena di un carcerato o la risorsa per
superare qualsiasi avversità. È il laccio che, una volta
sfilacciato, non c'è niente che possa ricucirlo. Ruggero Ruggieri
suggerisce caldamente di ricorrere alla mediazione familiare prima
del passo irreparabile. Se le proprie forze non bastano, non è
ancora il caso di arrendersi. Si può ricorrere ad un nuovo anello
che ricongiunga la catena, cioè che ristabilisca una relazione.
Capirsi non è mai facilissimo, nei momenti di crisi molto meno. A
volte, queste aiutano ad accrescere il rapporto, non consideriamole
solo come negative. Buttare via tutto, senza manco un piccolo
tentativo di riconciliazione, come se non si fosse vissuto insieme
niente, né costruito, né progettato, né superato mai alcun ostacolo,
non è la decisione giusta. La relazione spesso si guasta perchè si
danno per scontate cose che non lo sono affatto, sono presunte e mai
verificate. Altre perchè non si ha una giusta modalità per
rapportarsi al coniuge, ma questa la si può imparare. E così tanti
altri scogli. Ogni coppia ha il suo personalissimo problema e
l'unicità di risolverlo.
Si raccontava di famiglie intorno al fuoco, ove il fuoco era il
centro di tutto. La pioggia scrosciava a raffiche senza penetrare le
mura. Diluviava. Forte, sempre più forte.
Il fuoco scaldava e illuminava. A volte le lingue erano molto alte,
a volte bisognava scuotere le ceneri, altre gettarvi dentro un
ceppo. Sul fuoco un pentolone colmo di minestra. Il suo profumo
diventava quello della casa. Una donna rimescolava ripetutamente. Un
uomo a capotavola tagliava il pane, mentre bambini e adulti
suonavano piatti e bicchieri battendo le mani sul tavolo. Un anziano
sdraiato sulla poltrona poggiava le mani scheletriche su un gatto
ugualmente spelacchiato. E l'allegria risuonava forte. Sempre più
forte.
Il televisore acceso richiamava l'attenzione. I bimbi corsero a
tuffarsi sul divano, dove li accolse un bacio della mamma. Il padre
infilò un DVD e premette il comando play, poi si rannicchiò contro
la moglie. La strinse forte, sempre più forte. Come si stringe il
più agognato trofeo di gara. Aveva vinto la sfida della vita.
Angela Plati
06/02/2010
La principessa di ghiaccio
di Camilla Läckberg
Traduzione di Laura Cangemi
Marsilio Editori
www.marsilioeditori.it
Collana Farfalle / I GIALLI
Narrativa romanzo
Occorre premettere che ho sempre diffidato dei best sellers, libri
in genere di piacevole svago, ma di modeste qualità letterarie,
tranne rari casi. Così, quando ho preso in mano La principessa di
ghiaccio, oggetto di una notevole campagna pubblicitaria, ero un
po' scettico, immaginando il solito romanzo giallo, dal meccanismo
ben oliato, magari di gradevole lettura, ma privo di spunti che
potessero andare oltre il genere. Tuttavia, già dalle prime pagine,
ho dovuto ricredermi , riscontrando che l'aspetto investigativo
volto alla ricerca del colpevole o dei colpevoli di un delitto è
quasi marginale, costituendo l'ossatura intorno alla quale costruire
uno spaccato della società svedese. La morte violenta di una giovane
e bella donna, Alexandra Carlgren, avvenuta a Fjällbacka, un tempo
piccolo paese di pescatori, trasformatosi successivamente in ridente
località turistica, innesca una serie di reazioni e mette a nudo le
pecche di una società che, per abitudine, consideriamo assai più
progredita della nostra.
Mano a mano che procedono le indagini, a cui partecipa attivamente
anche Erica Falck, scrittrice di biografie e alla ricerca di dare
una svolta alla sua vita ormai avviata a un destino da nubile, si
scopre la tipica mentalità gretta di un piccolo borgo, in cui la
maldicenza sembra imperare, nonostante i tempi moderni in cui svolge
la storia.
Non è tuttavia solo una questione di mentalità ristretta, ove ciò
che conta è l'apparenza oltre ogni logica, ma anche di una chiara
invalicabile separazione fra le classi sociali, in cui una borghesia
ricca cristallizza il suo mondo, rendendolo inaccessibile agli
altri.
E' una visione della società svedese che stupisce, pur se
indubbiamente veritiera, e che lascia molto a pensare sulle nostre
convinzioni di un popolo molto più evoluto e libero del nostro.
Anche per quanto concerne l'aspetto sessuale appare in netto
contrasto con quanto abbiamo sempre pensato degli svedesi, al punto
che perfino una violenza subita diventa motivo di vergogna per i
familiari della vittima, quando addirittura non viene usata per
tornaconti meramente economici.
Scopriamo così cosa c'è dietro la facciata, un mondo fatto di
silenzi, di urla mute di chi subisce senza poter reagire, di come
con il denaro si compri tutto, anche la dignità e la vita delle
persone.
Camilla Läckberg non si dimostra per nulla tenera nei confronti dei
suoi connazionali, additando invece come elementi positivi uomini e
donne che cercano di condurre la loro esistenza nel pieno rispetto
di sé e degli altri, fieri di essere quello che sono e che della
loro umiltà fanno una ragione d'orgoglio, mai disponibili a scendere
a compromessi, alla ricerca continua della verità, anche la più
scomoda.
Pagina dopo pagina incontreremo personaggi che non possono che
destare simpatia, oppure altri che finiremo con il detestare,
nonostante le apparenze, in un intreccio che si fa sempre più fitto,
una matassa di nodi intricati che si scioglierà solo alla fine, con
l'inevitabile scoperta del colpevole nei confronti del quale non
potremo che provare un autentico senso di pietà, in quanto anche lui
vittima della sua condizione sociale.
Scritto benissimo, mai greve, con un'attenta e precisa
caratterizzazione dei ruoli, La principessa di ghiaccio è uno
dei pochi best seller di elevata qualità letteraria.
Camilla Läckberg (1974), prima
di diventare una delle più celebri e vendute autrici di polizieschi
della Svezia, ha lavorato per diversi anni nel marketing. Oggi,
madre di due figli, vive a Stoccolma dove continua a scrivere la sua
fortunata serie tradotta in ventisette paesi, che ha venduto finora
nel mondo più di sei milioni di copie. Da questo primo episodio
della serie, vincitore in Francia del Grand Prix de Littérature
Policière, sarà realizzato un film.
Renzo Montagnoli
Un altro giro di giostra
Viaggio nel male e nel bene del nostro
tempo
Di Tiziano
Terzani
Ed.
Longanesi
Autobiografia
L’autore ricorda
quando un’immagine attraversò la sua mente: gli parve che tutta la
sua vita fosse stata come su una giostra: su un cavallo bianco a
girare a piacimento, senza che qualcuno mai gli avesse chiesto il
biglietto. Ora passava il controllore e pagava il dovuto e se gli
andava poteva fare ancora …un altro giro di giostra.
Quando lessi su L’ESPRESSO del libro di Terzani, rimasi colpita
dalla recensione e lo comprai leggendolo con grande partecipazione.
A distanza di qualche anno mi è ricapitato tra le mani e l’impulso
irresistibile di rileggerlo è stato istantaneo. Come la prima
lettura, questa seconda ha affondato nelle radici dell’essere ed ha
lasciato una scia indelebile nell’animo. Terzani come giornalista fu
un viaggiatore di paesi, profondo conoscitore di angoli del mondo
lontani, in questo libro il viaggio verso la ricerca di una
risoluzione del suo male diventa anche un’introspezione dentro e
fuori di sè. Con speranza e con perseveranza inizia un
pellegrinaggio che lo porta dagli Stati Uniti all’India alla Cina in
una spasmodica ricerca e sperimentazione di medicina alternativa,
tibetana, ayurveda, reiki, yoga, omeopatica, pozioni, erbe,
diete…Alla fine quello ch’era stato un percorso esterno, ricco di
contatti umani, tra città affollate e villaggi sperduti si volge in
un percorso interno, nel silenzio immanente di paesaggi solitari
ritrova un contatto diretto con la natura in un’armonia e un
equilibrio tra il mondo e se stesso. Quando un problema sembra senza
una soluzione, improvvisamente compare fuori della logica delle
soluzioni a cui si è abituati. La domanda che Terzani si pone negli
ultimi tre mesi :”Io, chi sono?” cerca risposte nelle varie
religioni orientali; spesso, non si conclude con una risposta, la
risposta sta nel porsi la domanda, la risposta è senza parole, è
nell’immergersi silenzioso dell’Io nel Sé. La prolungata solitudine
e il silenzio creano un vuoto, la mente si concentra, si ha
l’impressione di capire tutto. Il tempo è solo presente, perché solo
al presente se ne fa esperienza. Gli esercizi per impratichirsi a
morire alla maniera dei sufi, non cambiano nulla dentro di lui. La
lezione dei Vedanta: tutto ciò che nasce muore, tutto ciò che muore
rinasce.. Solo il Sé, la coscienza pura che non è mai nata, che è
fuori del tempo, resta.
“Come il grano
L’uomo matura,
Come il grano
Egli di nuovo rinasce”
La morte non è negativa, grazie a lei ci poniamo le grandi domande
sulla vita.
Però dopo mesi di isolamento, il ritorno alla vita normale lo
spaventa, capisce che dipendere dalla solitudine per essere in pace
non è la soluzione. Ritorna nel suo eremo, nell’Himalaya, dove aveva
sì trovato il silenzio fuori, ma non aveva fatto pace con se stesso,
in quanto la lontananza dal mondo è ancora una condizione necessaria
del suo stare in equilibrio. Compie degli esercizi che i sufi, i
tibetani e altri hanno fatto per secoli: disteso a guardare il cielo
e le nuvole e come una nuvola vagare, aleggiare fino a disfarsi e
scomparire. La nuvola non c’è più, lui non c’è più. Resta solo la
coscienza, libera, senza legami, una coscienza che si espande.
Lavora su se stesso per trovare pace in qualsiasi luogo si trovi.
Forse, riflette, senza questo malanno che lo ha colpito non avrebbe
fatto il viaggio che ha fatto e non si sarebbe posto le domande che
contavano. Aspira a raggiungere quel distacco che un grande poeta ha
descritto con questo famoso haiku:
L’ombra del bambù spazza gli scalini di pietra
Ma la polvere resta.
La luna si riflette sul fondo dello stagno
Ma non tocca l’acqua.
Terzani non ha trovato nessuna medicina per guarire, ma il malanno
l’ha spinto a rivedere le sue priorità, a riflettere, a cambiare
prospettiva e cambiare vita. Cambiare vita per curarsi, cambiare
vita per cambiare se stessi. I libri sacri, i maestri, i guru, le
religioni servono, dice, come gli ascensori per risparmiare le
scale, ma l’ultimo pezzo del cammino va fatto a piedi, da soli. Non
aspettarsi risultati, senza sperare in ricompense. Terzani vive con
la sensazione che l’universo è straordinario, che niente mai ci
succede per caso e che la vita è una continua scoperta. Si sente
fortunato perché, ora più che mai, ogni giorno è davvero un altro
giro di giostra. Dopo poco tempo Terzani morì, come le sue parole
lasciano presagire, probabilmente in pace con se stesso.
Questo libro oltre ad essere un testamento spirituale, è la
testimonianza di una vita vissuta fino alle radici dell’esistenza,
intensamente e profondamente in un continuo lavoro su se stessi. Una
straordinaria vita nella sua ordinaria umanità.
L’autore:
Tiziano Terzani
nasce a Firenze nel 1938 e per
trent’anni vive con la moglie e i
due figli in Asia. Come corrispondente del settimanale tedesco
Der
Spiegel risiede a Singapore,
Hong Hong, Pechino,
Tokyio, Bangkok e Nuova Delhi, da dove collabora anche
a La
Repubblica,
L’Espresso e Il
Corriere della Sera. Nel corso della sua vita asiatica
pubblica molti libri, tutti editi dalla
Longanesi e tradotti in altre lingue, sulle grandi storie di
cui si trova a essere testimone:
Pelle di
leopardo e
Giai
Phong!
La liberazione di Saigon
sulla guerra in Vietnam: La
porta proibita, sulla Cina del
dopo Mao;
Buona notte, signor Lenin,
sul crollo dellUnione Sovietica. Il
volume In Asia
raccoglie le sue migliori corrispondenze dai paesi d’Oriente. Sono
del 1995 le riflessioni su dove va il mondo
contenute in Un indovino
mi disse; del 2002 Le
lettere contro la guerra che mettono in guardia contro il
pericolo dell’uso della violenza per la sopravvivenza dell’umanità.
In Un altro giro
di giostra, Tiziano
Terzani si pone le domande finali sul
senso della vita dell’uomo. Muore ad Orsigna
nel luglio del 2004. Dalle conversazioni avute con il figlio negli
ultimi mesi di vita è nato il libro
La fine è
il mio inizio, pubblicato nel 2006. Dal 1999 gli è stato
dedicato il sito
www.tizianoterzani.com.
Arcangela Cammalleri
05/02/2010
NGF
L'ultimo trapianto
di Giuseppe Magnarapa
Copertina di Stefano Marinetti
Edizioni Tabula Fati
www.edizionitabulafati.it
Narrativa racconto
Collana Malacandra
Racconto primo classificato alla quinta edizione del Premio
letterario "Tabula Fati" 2007
Chi non ha mai letto Frankenstein, o il moderno Prometeo,
di Mary Shelley, da cui furono tratte alcune fortunate trasposizioni
cinematografiche con l'indimenticabile Boris Karloff nei panni del
mostro?
L'associazione fra lo scienziato, Victor von Frankenstein, e "la
creatura" è stata tale che spesso quest'ultima viene identificata
con il nome del suo ideatore.
Giuseppe Magnarapa, sulla scia di questo celebre romanzo, allestisce
un racconto ambientato in epoca moderna e quindi plausibile alla
luce delle sue conoscenze mediche, con una geniale variante:
scienziato e creatura diventano un tutt'uno.
Era difficile inventare qualche cosa di nuovo, ma la vicenda del
dottor Varaldi, il più famoso chirurgo esperto in trapianti, che
vuole sfuggire alla morte a causa di un cancro che gli devasta il
corpo, ma non è ancora arrivato alla testa, è congegnata in modo del
tutto originale ed avvincente. Non si tratta più di confezionare un
"mostro" con organi recuperati esclusivamente da cadaveri, ma di
innestare nel corpo, sano, di un morto per incidente l'intera testa
di Varaldi, grazie al compiacente aiuto del suo allievo prediletto
Wender e di altri tre medici di chiara fama. L'intervento di per sé
si presenta già difficilissimo, ma c'è anche il rischio che, qualora
positivamente riuscito, le terminazioni nervose del donatore e del
ricevente non riescano a dialogare fra loro. Varaldi, però, ha un
asso nella manica: una sostanza chiamata NGF (Nerve Groving
Factor) , già sperimentata da Rita Levi Montalcini, in grado di
ripristinare l'integrità delle fibre nervose.
Non vado oltre, perché il seguito è troppo piacevole e a sorpresa
per togliere al lettore il gusto di sapere cosa avverrà.
Caratteristica del racconto è di partire con un fantastico quasi
convenzionale, assumendo via via maggiore credibilità, anche perché
l'autore è, come si suol dire, un addetto ai lavori. Infatti è
medico e specialista in Neurologia e Psichiatria e trasfonde
nell'opera le sue conoscenze scientifiche al punto di riuscire a
convincere piano piano che la vicenda narrata potrebbe essere
possibile. Fra l'altro, dopo le prime pagine interviene un positivo
connubio di horror e di noir che consente di pervenire a un finale
inaspettato e che penso che risulterà più che gradito al lettore.
Esposto con uno stile mai greve, anzi piuttosto agile, NGF
L'ultimo trapianto è veramente un bel racconto, tanto che ne
consiglio senz'altro la lettura.
Giuseppe Magnarapa è nato a Roma
nel 1947: come è facile intuire, è un medico specialista in
Neurologia e Psichiatria che ha lavorato in Ospedali Psichiatrici e
Carceri, ed è stato Dirigente Responsabile del Centro di Salute
Mentale di Guidonia (Roma) presso cui ha svolto la sua attività per
circa vent'anni.
È autore di diversi saggi di argomento criminologico, ma ha anche
pubblicato cinque romanzi di genere thriller, horror, fantapolitico:
Complotto Finale (Solfanelli, Chieti 1991), I sogni degli
altri (Silver Press, Genova 1995), La Morte non basta -
Obiettivo Berlusconi (Edizioni Associate, Roma 2007), L'altro
capo del filo (Runde Taarn, Varese 2008), Psicomicidio
(Il Rovescio, Roma 2008). È autore, inoltre, di diversi racconti di
genere analogo pubblicati su riviste ed antologie varie. Nel 1990 ha
vinto il Premio Tolkien per la Letteratura Fantastica col racconto
dal titolo "Liofilìa".
Renzo Montagnoli
30/01/2010
La banalità del bene
di Enrico
Deaglio
Storia di Giorgio
Perlasca
Ed.
Feltrinelli
Genere:
giornalismo-storico
La banalità del bene. Storia di Giorgio
Perlasca (Como, 1910-1992) è costruita da un reportage
giornalistico, il cui materiale è servito prima per una trasmissione
televisiva: “Omaggio a Giorgio Perlasca”,
andata in onda nell’aprile 1990, rivelando una vicenda rimasta
ignota nel nostro paese per 40 anni, poi come stesura di questo
libro. La storia di Giorgio Perlasca ha
ispirato nel 2002 il film TV “ Perlasca
- Un eroe italiano” di forte impatto emotivo.
L’autore ha raccontato la vicenda dalla viva voce del protagonista
Giorgio Perlasca, ormai ottantenne, nel
1989, il commerciante italiano che a Budapest, nell’inverno del
1944, riuscì a salvare migliaia di ebrei
spacciandosi per un diplomatico spagnolo, dalle pagine del diario
che aveva scritto Perlasca stesso per
fissarne il ricordo e da alcuni testimoni diretti, salvati e
sopravvissuti. Diventa lo scritto una testimonianza a più voci, un
resoconto storico di ciò che accadde in Ungheria durante
l’occupazione nazista, una riflessione sul presente pericolosamente
intriso di rigurgiti d’intolleranza, violenza e razzismo
striscianti e subdoli. Non un politico, non ricco né tanto meno
famoso, un uomo come ce ne sono tanti, dice l’autore, ma si
comportò come pochi sanno comportarsi.
“Non potevo sopportare la vista delle persone marchiate come
animali, non potevo sopportare di vedere uccidere i bambini, credo
che sia stato questo, non credo di essere
stato un eroe. Io ho avuto un’occasione e l’ho usata”. Chi era
Giorgio Perlasca? Un commerciante di
carni, bloccato a Budapest dall’8 settembre, si era trovato
nella capitale ungherese solo e senza
documenti. Trovato rifugio nella sede diplomatica spagnola e avendo
ricevuto dall’ambasciatore un falso passaporto, si era messo al
servizio di un programma umanitario di salvataggio degli ebrei, che
la Spagna conduceva insieme ad altre
delegazioni di paesi neutrali e alla Croce Rossa Internazionale.
Ma quando l’ambasciatore lasciò l’Ungheria,
Perlasca invece di cercare di salvarsi,
si autonominò rappresentante della
Spagna e come rappresentante di una nazione neutrale protesse più
di 5.000 ebrei ungheresi destinati alla deportazione nei campi di
concentramento, nascondendoli in edifici posti sotto la
giurisdizione spagnola, a rischio più volte della vita. (Lo
sterminio organizzato degli ebrei ungheresi durò otto mesi, dal
marzo 1944 al gennaio 1945, quando Hitler
aveva perso la guerra, nel corso dell’avanzata dell’Armata Rossa da
est e degli anglo-americani da ovest. Fu
l’unico olocausto a rimanere interrotto a causa della precipitosa
ritirata dell’esercito nazista e Budapest l’unica città dell’Europa
centrale a non vedere completamente i suoi ebrei sterminati). Dopo
la guerra, tornato in Italia, aveva provato a raccontare la storia,
ma sembrava che nessuno gli credesse, così successe che, piano
piano, se ne
dimenticò anche lui. A Perlasca
successe quello che capitò a tante vittime; cercare di raccontare le
sofferenze patite e di non essere creduti, anzi, neppure ascoltati
fu comune a molti prigionieri del lager, come
ebbe a ricordare Primo Levi in
I sommersi e i salvati.
Lo stesso Primo Levi solo dopo tredici anni dalla fine della guerra
riuscì a pubblicare Se questo è
un uomo. Così come si seppe con
cautela delle vittime, per tacita legge di compensazione, si tacque
dei salvatori. Di Perlasca come di
colui che aiutò migliaia di
ebrei durante gli anni dell’Olocausto ci
si ricordò solo dopo mezzo secolo e solo in seguito alla tenace
ricerca condotta da alcuni sopravvissuti, i riconoscimenti ufficiali
vennero dopo anni di silenzio (a Gerusalemme è tra i Giusti delle
Nazioni) e quando ormai la sua storia rischiava di cadere
nell’oblio. Questa libro è un genere
misto, informazione e letteratura, quando i giornalisti si fanno
scrittori o viceversa quando gli scrittori, per esempio Natalia
Ginzburg, scrivono su casi di cronaca,
in cui i personaggi destano nel pubblico senso morale, passione
civile ed emozioni personali. “ Perlasca
ha dato la prova che esiste - perché è propria dell’animo umano -
una tentazione irriducibile, indicibile, alla “ banalità del bene”.
Una storia toccante, lontana da ogni retorica, la scelta del bene
quando era più comodo seguire il male, nella generale morte della
coscienza, perché il male, nel Terzo Reich,
aveva perduto la proprietà che permette ai più di riconoscerlo per
quello che è; in Perlasca e in altri
come lui era inculcata la volontà di
perseguire e far trionfare “il bene”.
L’autore Enrico
Deaglio è nato nel 1947 a Torino dove ha studiato
laureandosi in medicina. Ha abbandonato in questi ultimi anni la
professione di medico per quella di giornalista, che esercita sia
come collaboratore del quotidiano “La Stampa” che come autore
di inchieste televisive. E’ stato
direttore del quotidiano “Lotta Continua”, negli anni dell’impegno
politico giovanile. Ha scritto brevi testi
narrativi in una sorta di reportages
immaginari: Cinque storie quasi
vere (Palermo, Sellerio,
1989), Il figlio della
professoressa Colomba (Palermo,
Sellerio, 1992).
Arcangela Cammalleri
27/01/2010
Le città invisibili
di Italo Calvino
Presentazione dell'autore
Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.
Narrativa romanzo
"Che cos'è oggi la città per noi? Penso d'aver scritto qualcosa
come un ultimo poema d'amore alle città, nel momento in cui diventa
sempre più difficile viverle come città."
Da una conferenza di Calvino tenuta a New York nel
1983
Il fantastico in Calvino è quanto di più ancorato alla realtà che ci
possa essere. Per certi aspetti l'avveniristico nelle sue opere è un
ritorno a un mondo più a misura d'uomo, un rientro nel perfetto
ordine della natura da cui con il tempo ci siamo allontanati
credendo di non essere sue semplici parti, ma dominatori. Del resto
nel Barone rampante quella vita vissuta sugli alberi del
bosco, anziché rinchiuso fra le quattro mura domestiche, è una
metafora di un'evidente ritorno a una primigenia libertà che
l'essere umano, nel tempo, ha sacrificato in funzione di un gretto
principio di tornaconto, così come l'armatura che rinserra il
Cavaliere inesistente richiama la spersonalizzazione dell'uomo
che trascorre molto del suo tempo fra le lamiere di un automobile.
I primitivi all'inizio vivevano in una grotta, poi costruirono
capanne, magari le une vicine alle altre per evidente difesa, ma
conservando così quel principio di libertà che rende l'umano isolato
quando vuole, senza togliergli la possibilità di contatto con i suoi
simili. Le attuali città, fatte da condomini di molti appartamenti,
finiscono invece con l'essere celle di un alveare in cui trascorrere
il minor tempo possibile, forzatamente, e dentro rigide norme che,
anziché regolamentare la convivenza, di fatto l'impediscono. Si
conosce tutti e non si conosce nessuno; in strada c'è lo stesso
scenario di una vita frenetica in cui le possibilità di contatto
sono sporadiche, un saluto, per educazione, e via.
Quindi in Calvino il fantastico non è una società avveniristica e
tecnologica, ma un ritorno al passato, un desiderio, forte, ma anche
sussurrato, affinché l'uomo ritrovi la sua strada e la sua naturale
collocazione.
Se poi vogliamo avere un esempio di scrittura del "fantastico" ai
suoi massimi livelli occorre per forza di cose leggere Le città
invisibili, un libro che è necessario quasi spiluccare come se i
vari capitoli fossero gli acini di un grosso grappolo d'uva. Del
resto l'intento dell'autore non è solo quello di darci una
rappresentazione metafisica della realtà, ma anche di stimolare le
nostre percezioni sensoriali affinché possiamo costruire un nostro
libro sul suo libro partendo dalla base che ci viene offerta. Se il
pretesto è un resoconto di Marco Polo all'imperatore Kublai Kan del
regno che ha attraversato e delle città che ha visto e conosciuto,
tutte identificate da nomi femminili vagamente classicheggianti, in
effetti lo scopo è quello di far giungere il lettore in un'altra
dimensione, in cui l'aggancio con la realtà si affievolisce per
lasciare spazio allo sviluppo della fantasia secondo la volontà di
ognuno.
Così è possibile leggere descrizioni di questi agglomerati urbani,
completamente diversi l'uno dall'altro, perché diversi sono i loro
abitanti, non coincidenti sono le loro necessità e i loro desideri.
Se già questo è molto, occorre considerare i dialoghi surreali fra
Polo e l'imperatore all'inizio e alla fine di ogni descrizione,
quasi una cornice del discorso che è il fulcro di tutta l'opera,
vale a dire entrambi tendono ad avere una visione di questi abitati
trascendentale, ben oltre l'aspetto materiale delle costruzioni, ma
volto alla ricerca di un significato, che potremmo definire assoluto
e divino pur in una dimensione umana, non solo delle città, ma anche
dei suoi abitanti, e dell'uomo in generale.
La loro visione della città è funzionale agli uomini che ne fanno
parte e al centro del tutto vi sono proprio essi, così che il grande
agglomerato urbano non sia semplicemente uno stanco e depauperante
dormitorio, destinato progressivamente a svuotarsi, ma uno spazio in
cui, anziché relegare i suoi abitanti, li proietti verso una libertà
sempre più ampia.
Il vivere comune non deve essere motivo di un isolamento
individuale, perché in caso contrario la città muore e i suoi
abitanti, già morti dentro, l'abbandonano. Ritorna quindi un tema
caro a molti letterati, cioè quell'incomunicabilità a cui sembra
destinata sempre di più l'umanità.
Il grande insegnamento di Calvino è però che è sempre possibile
intraprendere o riallacciare un dialogo, lo stesso che Marco Polo e
Kublai Kan intrecciano nel corso delle pagine, pur essendo due
esseri del tutto isolati e prigionieri dei loro ruoli, il primo
reduce da un deserto che non è solo quello che ha attraversato, ma
che l'animo umano tende a costruire quando cozza contro la chiusura
altrui, e il secondo, per la sua natura d'imperatore, ristretto
nella gabbia d'oro della sua funzione.
Per quanto possa sembrar strano, Calvino, con la sua grandiosa
fantasia, non avrebbe potuto descrivere meglio il tema della città
in funzione degli uomini in contrapposizione di quella che, giorno
dopo giorno, nonostante i proclami di politici ed architetti,
diventa un luogo di dissociazione.
Le città invisibili finisce con l'essere, con il suo alone
poetico, un atto d'amore, forse l'ultimo, per quell'agglomerato di
case, di persone che vogliono vivere e non vegetare, e che noi
chiamiamo genericamente città.
Italo Calvino (Santiago de Las
Vegas, 15 ottobre 1923 - Siena, 19 settembre 1985).
Ha scritto numerosi testi di narrativa, fra i quali:
Il sentiero dei nidi di ragno (1947), Ultimo viene il corvo (1949),
Il visconte dimezzato (1952), Fiabe italiane (1956), Il barone
rampante (1957), Il cavaliere inesistente (1959), Marcovaldo ovvero
Le stagioni in città (1963), La giornata di uno scrutatore (1963),
Il castello dei destini incrociati (1969), Le città invisibili
(1972).
Renzo Montagnoli
25/01/2010
Gli scorridori infernali
di Luca Rocchi
Copertina di Stefano Marinetti
Edizioni Tabula Fati
www.edizionitabulafati.it
Narrativa racconto
Collana Malacandra
Racconto secondo classificato alla quinta edizione del Premio
letterario "Tabula Fati" 2007.
L'historia di Gaspare Barbarigo, raccontata dal medesimo, inviato
dalla Serenissima Repubblica di Venezia per investigare sui
terribili fatti di sangue che, sul finire dell'anno del Signore
1475, sconvolsero il contado bergamasco.
Sono gli ultimi anni del Medioevo e già il Rinascimento, con la
riforma di Lutero, bussa alle porte del tempo. Tuttavia l'epoca
storica, prima di finire, ha gli ultimi guizzi di quell'oscurantismo
che in parte l'ha contrassegnata, con fatti straordinari, da inferno
in terra, nei possedimenti bergamaschi della Serenissima. Morti
misteriose, senza una precisa logica se non quella della violenza,
si susseguono, con vittime che sembrano frutto della casualità. Più
che opera di esseri umani si ha l'impressione che la ferocia dei
delitti sia più ricollegabile a bestie, o meglio ancora a
uomini-bestie, secondo i canoni tipici della "Caccia Selvaggia", o
della "Katertempora", comunque la si voglia chiamare.
Questa serie impressionante di fatti di sangue si svolge nel feudo
del vecchio Bartolomeo Colleoni, il grande condottiero, Capitano di
Terra della Serenissima Repubblica Veneta, e nel suo castello di
Malpaga giunge Gaspare Barbarigo, su incarico del Doge, per svolgere
le indispensabili indagini.
Benché la vicenda si svolga nello spazio ristretto di un racconto,
l'autore è riuscito a condensare notevolmente la narrazione, così da
essere completa, esauriente e appassionante nelle sole 40 pagine del
libro.
Premetto che l'aspetto "horror" dell'inizio poco a poco sfuma in un
thriller la cui soluzione, peraltro logica, si ha, come si conviene,
solo alla fine, in una specie di duello tacito fra il colpevole e un
rappresentante della fede, più portato alla stringente razionalità
che alla superstizione, propria invece di un popolino terrorizzato
da eventi inspiegabili.
Per quanto ovvio non anticipo nulla, al fine di non togliere il
piacere della scoperta che conclude degnamente un racconto ben
scritto e dove i caratteri dei protagonisti emergono pagina dopo
pagina, portando alla considerazione, tema anche di altri scrittori,
che sovente le persone non sono quel che sembrano e che quindi anche
la verità ha molte facce, tanto da non essere mai assoluta.
La lettura, assai piacevole, è quindi senz'altro consigliata.
Luca Rocchi è nato nel 1976 e
risiede nelle vicinanze di Bergamo. Autore per diletto da qualche
anno, svaria dalla poesia alla narrativa non disdegnando di scrivere
fiabe e abbandonarsi a una vena fantastica.
Di recente è stato tra i finalisti, o menzionati, in alcuni premi
nazionali e suoi lavori compaiono in antologie e siti letterari.
Amante del genere storico, i suoi racconti sono ambientati quasi
esclusivamente nel passato; sua massima aspirazione è, infatti,
cercare di far rivivere luoghi e persone avvolti dalle nebbie del
tempo.
Renzo Montagnoli
21/01/2010
Racconti dal sottobosco
di Silva Ganzitti
Copertina di Elena Bertoni
Illustrazioni frutto della collaborazione
fra Silva Ganzitti e Carolina Savonitto (8 anni)
Edizioni Tabula Fati
www.edizionitabulafati.it
Narrativa per l'infanzia
La narrativa per l'infanzia riserva a volte delle vere e proprie
sorprese, lavori adatti indubbiamente a dei bimbi, ma che riescono a
soddisfare culturalmente anche gli adulti. Sono casi non frequenti
in verità, ma Racconti dal sottobosco è uno di questi.
Il pretesto per la narrazione di alcuni racconti è prettamente
naturalistico: una passeggiata lungo un itinerario del Friuli
precollinare, chiamato Ippovia del Cormôr, che segue il corso di un
torrente in un paesaggio dolce e atto a suscitare fantasie.
L'osservazione dell'ambiente, fatta in modo non superficiale, fa
scoprire anche un microcosmo costituito dagli animaletti del
sottobosco, esseri tutti con uguale dignità di vivere, in un
contesto di raro equilibrio in cui è assente ancora l'intervento
destabilizzatore dell'uomo.
Nascono così le storie in cui si immaginano questi piccoli esseri
simili agli umani, pur con le loro peculiari caratteristiche, e sono
racconti che mirano da un lato ad avvicinare i bimbi al meraviglioso
mondo della natura e dall'altro a fornire indirizzi comportamentali
in cui prevale quella solidarietà che nel mondo attuale diventa
sempre più rara.
Diviso in tre parti, corrispondenti ad altrettante prose, il libro è
costituito soprattutto dalla prima, di una sessantina di pagine, in
cui la rappresentazione di questo microcosmo cela metaforicamente
quella del nostro mondo, con esseri buoni e altri malvagi, come il
mago scorpione Poisonio, che per il potere uccide, ma che poi farà
una brutta fine. Nulla di diverso, quindi, dagli stilemi
favolistici, in cui a prevalere, come dovrebbe essere, è sempre il
bene, ma la capacità dell'autrice di destare simpatia per i
protagonisti con piccoli tocchi, quasi sfumati, è indubbiamente di
tutto rispetto.
A ciò aggiungo che è un'opera scritta bene, in un italiano ricercato
e più che corretto, circostanza non frequente al giorno d'oggi, in
cui l'uso della nostra lingua è spesso caratterizzato da un lessico
ridotto, non di rado anche sgrammaticato.
Racconti dal sottobosco, per i temi trattati e il modo di
esporli, è in grado quindi di soddisfare anche gli adulti,
caratteristica che determina però un limite nella fruibilità da
parte dei minori, perché secondo me è adatto a un'infanzia già in
parte scolarizzata, cioè bimbi di 9-10 anni.
Ciò non toglie che, se letto dai genitori, può risultare
comprensibile anche ai più piccoli, che finiranno col porre quelle
inevitabili domande che sono proprie della curiosità della loro età.
Racconti dal sottobosco è quindi un testo più che
raccomandabile.
Nata nel 1962 in Friuli, Silva Ganzitti
alla scrittura c'è arrivata d'un tratto. Passione tardiva, ma
ugualmente coinvolgente, in pochi anni ha riempito quaderni di
appunti e fiabe abbozzate, che sono poi diventate storie e racconti
non solo dedicati all'infanzia.
Ha pubblicato quattro testi per l'infanzia con 0111 edizioni:
Amici di Duna (2005), Mistero nel Sottobosco (2005),
Domitilla voleva un Unicorno (2007) e Abdul genio in ribasso
(2007). Tutti i testi sono prevalentemente commercializzati online.
Abdul genio in ribasso, è entrato nel catalogo Danae in
seguito ad una bella recensione di un autore di racconti e romanzi
per l'infanzia, Beppe Forti.
Racconti dal Sottobosco raccoglie tre storie legate tra loro
da una cornice geografica che le ambienta nella pedemontana
friulana, territorio di origine dell'autrice.
Renzo Montagnoli
20/01/2010
Diceria dell'untore
di Gesualdo Bufalino
Nota dell'editore
In copertina
La donna della scodella
di Felice Casorati
Sellerio editore Palermo
Collana La rosa dei venti
Narrativa romanzo
E questo era bello: andarsene così a spasso con passi d'aria per
montagne e pianure, clandestini senza biglietto, contrabbandieri di
vita.
Ci sono romanzi che iniziano in sordina, quasi che l'autore sia
timoroso di offendere il lettore travolgendolo da subito, ma che poi
pagina dopo pagina, riga dopo riga si intrufolano, ma sempre in
punta di piedi, nell'animo di chi dapprima scettico sente crescere
in sé un entusiasmo che non lo lascerà fino alla fine.
C'è una narrativa che, pur non cercando di indulgere alla
commozione, poco a poco insinua nel cuore una vena di malinconia,
mettendo a nudo e alla prova la capacità di sentire e di umanamente
comprendere.
C'era un vecchio insegnante che ha voluto parlare della vita di
uomini vicini alla morte e in tal modo è riuscito a far comprendere
quanto, in quell'attesa, si possa ancora essere uomini.
Ecco, Diceria dell'untore di Gesualdo Bufalino è tutto
questo.
Pubblicato per la prima volta nel 1981 ottenne subito un grande
successo di critica e di pubblico, vincendo il Campiello lo stesso
anno.
E' stato, quindi, un debutto clamoroso, sia per la qualità
dell'opera che per l'età dell'autore, che all'epoca aveva
sessant'anni.
Bufalino racconta l'esperienza autobiografica della degenza nel
sanatorio della "Rocca" di Palermo, un percorso della memoria che
dapprima lo portò ad abbozzare il testo verso il 1950, scrivendolo
poi nel 1971 e dedicando i successivi dieci anni a continue
revisioni.
La trama in sé, che potremmo definire "una tresca d'amore e di
morte", si può ben riassumere, senza per questo togliere il piacere
della lettura, in quel che al riguardo dice Bufalino:
"Si racconta la convivenza di alcuni reduci di guerra moribondi in
un sanatorio della Conca d'Oro, nel '46. Fra il protagonista e una
paziente dai trascorsi ambigui (Marta) nasce un amore, puerile e
condannato in partenza, più di parole che d'atti, il cui sbocco è
una fuga a due senza senso, e, subito dopo, la morte di lei in un
alberghetto sul mare. Egli, invece, guarisce, inaspettatamente, e
rientrando nella vita di tutti, vi porta un'educazione alla
catastrofe di cui probabilmente non saprà servirsi, ma anche la
ricchezza di un noviziato indimenticabile nel reame delle ombre."
E' una interpretazione dell'eterno connubio di eros e thanatos, in
cui nulla è lasciato al caso, tanto che Marta, amante dell'io
narrante, ha le stesse consonanti della morte.
Fra l'altro, in questo romanzo stupiscono lo stile e l'abbondanza
del linguaggio, che a tratti presenta caratteristiche
baroccheggianti, soprattutto prima di introdurre profonde
riflessioni, quasi che il ricorso a parole inconsuete, anche se nel
passato utilizzate da letterati, servisse a procedere con maggior
lentezza, predisponendosi così a una pausa meditativa.
Resta il fatto che sovente ci si trova di fronte a ampi laghi di
parole, messe in bocca anche a personaggi che per le loro
caratteristiche dovrebbero avere invece un lessico più modesto, il
che dapprima mi ha indotto a pensare che in tal modo Bufalino
volesse dare dimostrazione della sua erudizione, ma poi riflettendo,
accostando le parti dell'opera fra di loro, credo d'aver capito i
motivi e cioè evidenziare la forza dirompente del verbo in un
ambiente immobile quale quello di individui che si trascinano alla
fine, dove i suoni normalmente dovrebbero essere solo i frequenti
colpi di tosse, e che invece danno un senso di intensa vitalità -
potremmo quasi pensare agli ultimi fuochi - in chi è solo in attesa.
I personaggi, che potremmo chiamare i morituri, non sono mai
semplici comparse, perché ognuno ha la sua storia nella storia
comune dell'imminente fine, un residuo di vita che ogni giorno si
spegne e che è retta da un patto tacito di non sopravvivere gli uni
agli altri.
Compagni di sventura, emblemi di un'umanità che è parte del ciclo
generale della vita, un cerchio infinito di nascite e morti che
Bufalino ben tratteggia nel corso della fuga dei due protagonisti
principali con l'immagine dell'agave, a cui occorrono dieci anni per
fiorire, ma che, subito dopo, muore, una metafora per dire che la
vita necessariamente salda con la morte il debito contratto per
esistere.
Del resto, nell'opera sono contenuti diversi messaggi, anche se
elementi salienti sono certamente il sentimento della morte, il
sanatorio visto come luogo di sicurezza, più dalla vita che dalla
morte, e addirittura quasi incantato, nonché l'imprevista guarigione
considerata come un tradimento nei confronti dei compagni di
sventura, quasi una diserzione da un destino che si è comunemente
accettato.
Diceria dell'untore è sicuramente un romanzo stupendo.
Gesualdo Bufalino (Comiso, 15
novembre 1920 - Comiso, 14 giugno 1996).
Ha scritto, fra l'altro, Diceria dell'untore (Sellerio, 1981), Argo
il cieco ovvero i sogni della memoria (Sellerio, 1984), La luce e il
lutto (Sellerio, 1988), Saldi d'autunno (Bompiani, 1990), Qui pro
quo (Bompiani, 1991).
Renzo Montagnoli
15/01/2010
Finzioni di
Jorge Luìs
Borges
Ed.
Einaudi
Narrativa
Quarta di copertina
“Pubblicati in Argentina nel 1944, gli
otto racconti che compongono
Finzioni, tradotti per la “Nuova Universale
Einaudi” nel 1955, possono ormai
considerarsi come classici di questo genere narrativo.
Pietro Citati presentava l’opera come
racconti che esprimono l’universo borghesiano
dalla logica alla sofistica di Schopenauer,
tra gli eresiarchi medievali ai pensatori gnostici ed esoterici
raccoglie citazioni vere ed immaginarie. Pensatore mistico ed empio
uomo moderno in Borges convivono le
anime del visionario immaginifico, dell’erudito lettore dove,
secondo Citati, la ragione di
Borges è solo una facoltà
illusionistica che, dopo aver servito a sconcertare e a stupire, si
compiace infine di dissolvere, insieme a se stessa, la natura del
mondo”.
Nella premessa dell’autore:
“L’ottavo racconto, “Il giardino dei sentieri che si biforcano” è un
poliziesco, gli altri sono fantastici, simbolici”.
Borges si compiace di scrivere su libri
immaginari articoli brevi a fronte di altri che hanno scritto
moltissime pagine quando potevano risparmiarsi con un riassunto o un
commentario.
I racconti di Borges non
possono essere riassunti secondo il senso comune della narrazione,
siamo su piani di livello altissimi e i contenuti sono come scatole
cinesi che racchiudono tesori. In Borges
la fantasia, l’immaginazione danno vita
a personaggi deprivati di note biografiche, ma con propositi
impossibili o soprannaturali, progetti magici che esauriscono lo
spazio della propria anima; scaturiscono paesaggi indefiniti dalle
caratteristiche universali che si rispecchiano e si
rinfrangono in schegge di luce. La
scrittura borghesiana è poesia allo
stato puro, così faconda, ricercata ed effusiva che suscita incanto
e stupore in chi legge; il pensiero, l’analisi, l’invenzione
sono la normale respirazione della sua
intelligenza, la sua letteratura si fa metafisica e la filosofia in
lui si trasmuta in un gioco dialettico o in sofismi concatenati come
frammenti di uno stesso elemento. La narrazione è un moltiplicarsi
di espressioni, un indefinito fluire
della memoria che si sperde in meandri labirintici, regno di
specchi e falsi piani, non segue percorsi orizzontali e dunque
sequenze temporali ordinate: citazioni dotte, letture rare e
misconosciute o inventate, teorie filosofiche, scientifiche, ci
rapiscono e non sempre la bussola dell’orientamento ci aiuta. Le
parole stesse hanno un intrinseco valore metaforico, le voci
neologiche non ancora consacrate dall’uso sono impiegate
in modo temerario e non tutti gli
intendimenti di affabulazione sono
comprensibili. Borges è scrittore
poliedrico e multiforme: non solo modella una forma forbita ed
estremamente limata, ma contiene nella
materia narrativa, impressa, una pluralità
argomentativa con tutte le permutazioni possibili.
Borges informa le sue opere di una
soggettività indivisibile con altri autori e le sue storie assumono
dimensioni atemporali.
L’autore.
Jorge Luis
Borges è nato
il 24 agosto 1899 a Buenos Aires. Dal 1914 al ’21 segue i suoi
genitori in Europa. Frequenta gli studi a Ginevra e in Spagna. Nel
1925 incontra Victoria Ocampo, la musa
che sposerà quarant’anni dopo. Con lei
stabilisce un’intesa intellettuale destinata a
entrare nella mitologia della letteratura argentina.
Borges è afflitto da
una forma incurabile di miopia, la cecità progressiva, da fattore
fisiologico, esplode con virulenza in un nucleo metaforico
nelle sue opere. I suoi capolavori sono stati raccolti e pubblicati
nel ’44 con il titolo di
Ficciones.
Ha scritto I racconti
di Aleph,
la biografia “Inventata” di
Evaristo Carriego, i racconti
“falsificati”: Storia universale
dell’infamia, i saggi a carattere “ divagante”:
Discussione, Storie dell’eternità…Le
prose de L’artefice,
L’elogio dell’ombra
etc…Libri di poesia: L’altro,
L’oro delle tigri…Le
opere di saggistica: Altre
inquisizioni, Nove saggi danteschi.
Borges è uno degli scrittori più importanti del
‘900 e i suoi scritti sono innumerevoli e racchiudono
conoscenze enciclopediche e generi molteplici. È morto il 14 giugno
1986.
Arcangela Cammalleri
14/01/2010
Un onorevole siciliano
Le interpellanze parlamentari di Leonardo
Sciascia
di
Andrea Camilleri
Ed.
Passaggi Bompiani
Saggistica
Quarta di copertina. “Secondo me, questo è il punto; l’illecito
arricchimento. Questa proposta va benissimo, ma bisogna allargarla,
estenderla; il controllo, cioè, deve
estendersi anche a noi, che stiamo su questi banchi, a coloro che
siedono sui banchi del senato, a coloro che siedono nelle assemblee
regionali e nei consigli municipali, non trascurando nemmeno certi
funzionari e certi ufficiali che hanno il compito di prevenire e
reprimere appunto il fenomeno mafioso.”
Leonardo Sciascia,
Sul fenomeno mafioso
Andrea Camilleri in questo scritto riporta e commenta
Sciascia politico, le interrogazioni e
le interpellanze che fece quando (il suo primo impegno politico
risale al 1975 quando si candidò come indipendente nelle liste del
partito del PCI alle elezioni comunali di Palermo), fu deputato alla
Camera come indipendente nelle liste dei radicali nell’arco
di tempo tra il 1979 e il 1983. Fece parte della commissione
per gli Affari esteri e della commissione parlamentare d’inchiesta
sul caso Moro. L’impegno politico dello scrittore siciliano fu
diretto come deputato e indiretto attraverso degli articoli che
pubblicò prima sul
Corriere della Sera e
poi sulla Stampa
relativi all’evolversi delle BR, al terrorismo. Veemente, incisivo
ed eticamente impegnato sia nella
scrittura sia nella politica profuse idee, energie e
grande forza espressiva. Nella realtà
politica vedeva come una specie di proiezione dei fatti immaginati
nei suoi scritti, la prefigurazione e poi il verificarsi di
essi erano la comprova di quanto
smarrimento e preoccupazione potesse destare una classe politica
criticabile nei suoi atti; “il mio essere contro lo Stato” va visto
– diceva - come una delusione e non come un’avversione”.
Infatti affermava che la politica fosse
un’attività mediocre per uomini mediocri. Ma a chi gli
chiedesse perché facesse politica lui che
mediocre non era né pensava di esserlo rispondeva che un uomo vivo
ha diritto alla contraddizione, in nome della vita, della speranza.
Occuparsi di politica nel senso etico, anche se
è confusione voler scambiare la politica con l’etica; sarebbe stato
felice se gli italiani cadessero in tale ben salutare confusione.
Camilleri riporta fedelmente gli undici interventi di
Sciascia che sicuramente
risultano di suo pugno e li commenta
brevemente evidenziando i punti cardine di ciascuna.
Come deputato, Sciascia partecipò
attivamente alle sedute della commissione d’inchiesta sul sequestro
e l’assassinio di Moro, redigendo una relazione di minoranza; fu
attivo con interrogazioni e interpellanze (in tutto 19) su diversi
argomenti: sull’uso delle armi da parte delle forze dell’ordine, sul
fenomeno della mafia, sulla vicenda dei petroli e sul caso
Pecorelli, sull’uccisione del magistrato
Ciaccio Montalto…Ricorda
Marco Boato che nell’aula della camera parlò pochissimo e sempre
con interventi di pochi minuti, leggeva con voce lenta e roca, dopo
averli preparati con una scrittura minuta e minuziosa.
Emblema dell ‘icasticità
di parole brevi e quasi scolpite sulla pietra… mentre un silenzio
assoluto regnava in aula. Attraverso alcune interpellanze
veniamo a conoscere le idee di
Sciascia: in merito all’uso delle armi
da parte delle forze dell’ordine, affermava che il dare alla polizia
più poteri e ai colpevoli pene più dure non avrebbe fatto diminuire
di un millesimo i fenomeni delinquenziali; non di leggi speciali, di
poteri più vasti e arbitrari, la polizia aveva bisogno, ma di una
buona istruzione, di un addestramento accurato, di una direzione
intelligente; leggi speciali e poteri più ampi fanno demagogia e
sarebbero pericolosi per noi cittadini e per la polizia stessa (
tutte cose che vennero a mancare per esempio alle forze dell’ordine
durante ilG8 di Genova). Queste leggi servono “A fare tabula rasa in
questo paese dell’idea stessa del diritto”. Nell’interpellanza
riguardante il fenomeno della mafia faceva riferimento ad un suo
racconto paradossale Filologia
cioè un dialogo
sull’etimologia della parola mafia; ebbene,
Sciascia, dice che si è rimasti alla filologia, alla
sociologia del fenomeno non perché i carabinieri, i marescialli di
pubblica sicurezza non facevano il loro dovere, ma più in alto non
si era fatto quello che si doveva fare. Cita l’esempio del
commissario Giuliano quando indagava sul caso De Mauro, un uomo
riservatissimo, Sciascia aveva notato
nel suo comportamento una sorta di diagramma, era partito con una
certa euforia, poi era subentrata la delusione. Per
Sciascia il fenomeno mafioso si poteva
combattere “Riformando il sistema delle misure di prevenzione
secondo criteri che introducano forme di controllo sugli illeciti
arricchimenti”…( Quarta di copertina).
Nella nota bibliografica Camilleri
annota di aver attinto il materiale del libro dalla rivista “Euros”
diretta da Vittorio Nisticò
(maggio-agosto 1993), dove sono raccolte le interpellanze e le
interrogazioni d Leonardo Sciascia con
note e commenti di Alfonso
Madeo, Marco Boato, Igor Man, Fernando
Savater. Inoltre è stato fondamentale
anche il volume-intervista
La
palma va a nord
Gammalibri, 1982.
Noi lettori possiamo ringraziare Camilleri per averci fatto
conoscere Leonardo Sciascia come
politico e di quanto il suo pensiero sia
attuale in un’Italia di ieri e di oggi immutabile nelle sue
anomalie, viziata da un immobilismo ignorato dai politici
professionisti, ma additato da quella razza rara di scrittori il cui
acume e la cui indignazione non li mette a tacere.
E Sciascia è
stato uno di quella speciale razza.
L’autore. Andrea
Camilleri è nato a Porto Empedocle nel 1925. Ha
esordito come romanziere nel 1978 con
“Il corso delle cose”.
Della sua ricchissima produzione letteraria
tutti i romanzi con protagonista il commissario Montalbano
sono pubblicati dalla casa editrice
Sellerio e altri, tra questi ricordiamo: “La
forma dell’acqua”, “Il cane di terracotta”, “Il ladro di merendine”,
“La voce del violino”, “La stagione della caccia”, “Il birraio di
Preston”, “La concessione del telefono”,
“La gita a Tindari”, “Maruzza
Musumeci”, “Il casellante”, “Il campo
del vasaio”, “L’età del dubbio”, “Un sabato, con gli amici” “Il
sonaglio” “Il cielo rubato”etc…
Arcangela Cammalleri
La strega e il robivecchi
di Fiorella Borin
Copertina di Gian Luca Peluso
Edizioni Tabula Fati
www.edizionitabulafati.it
Narrativa
Fiorella Borin, veneziana trapiantata ormai da tempo in terraferma,
sembra di casa a questo concorso (il Premio Tabula Fati) alle cui
edizioni partecipa con puntualità, ottenendo lusinghieri risultati,
come testimonia il secondo posto nell'edizione 2008 di questo suo
racconto (in verità, nel 2009 è andata ancor meglio, vincendo la
settima edizione con Christe Eleison).
Narratrice esperta, dotata di uno stile snello, scorrevole, è
naturalmente portata alla narrativa storica o di ambientazione
storica, come dimostrano Il pittore Merdazzer, secondo
nell'edizione 2006, e anche Il bosco dell'unicorno, pure
secondo nel 2003.
Fiorella Borin ha la capacità di essere accattivante inserendo in
contesti storici degli elementi fantastici, così che sempre riesce a
dare forma a un'originalità che non può che sorprendere
piacevolmente il lettore.
Anche con La strega e il robivecchi, una vicenda da epoca di
Santa Inquisizione, ricrea abilmente la vita di un borgo, Triora, a
suo tempo famoso per le streghe, senza che però il periodo storico
sia esattamente identificabile. Eppure la grande carestia, le
superstizioni, la miseria, l'amore offerto e quello bramato
finiscono con il fornire un convincente quadro in cui a fianco di
due personaggi che hanno tutta l'apparenza di essere reali (il
robivecchi Bigiarino e il riuscitissimo notaio Basadonne), si
profilano dapprima, per poi concretizzarsi in modo del tutto
naturale nella vicenda, elementi che sono propri del fantastico.
E' dalla superstizione che condanna al rogo le presunte streghe che
emerge, in modo sottile, la creatività dell'autrice, capace di
rendere credibili fatti e soggetti che la nostra logica tende a
considerare frutto di fantasia.
Del resto l'inquisizione c'era per debellare le adepte di Satana,
quasi sempre vittime di calunnie, oppure povere pazze; e se il
tribunale religioso credeva all'esistenza delle streghe, per quale
motivo questa convinzione non avrebbe dovuto entrare nella modesta,
per dire inesistente cultura del popolo?
Così la vicenda di Bigiarino, innamorato in silenzio di Isotta la
Bella, finita poi sul rogo, trova quel substrato di plausibilità che
riesce a convincere e ad avvincere il lettore su una domanda che
alla fine per forza si pone: sono solo superstizioni?
Fresco e spumeggiante come un vino novello questo è un racconto che
merita senz'altro di essere letto.
Nata a Venezia nel 1955, laureata in psicologia,
Fiorella Borin si è dedicata per
qualche anno all'insegnamento di scienze umane e storia negli
istituti superiori. Ha collaborato con l'Università di Padova come
cultrice della materia; in seguito ha maturato qualche esperienza in
seno a piccole case editrici e nelle redazioni di riviste
letterarie. Attualmente collabora con un settimanale femminile del
più importante gruppo editoriale italiano. Da una quindicina d'anni
si dedica con passione allo studio della storia di Venezia.
Oltre duecento suoi piccoli lavori di narrativa, poesia e saggistica
sono presenti in antologie e riviste; il racconto La tela di
Penelope è uscito sul mensile "Vera" (settembre 1995) commentato
dallo scrittore Alberto Bevilacqua. Ha pubblicato il romanzo breve
Le putine del Canal Gorzone (Montedit, Milano 2002), la
raccolta di racconti La Signora del Tempio Nascosto (Alberto
Perdisa Editore, Bologna 2003), il racconto storico-fantastico Il
bosco dell'unicorno (Tabula fati, Chieti 2004), e i cinque brevi
romanzi storici: Mir i dobro (Montedit, Milano 2005), La
sciarpa azzurra (Era Nuova, Perugia 2005), La congiura degli
Olderichi (Edizioni Cofine, Roma 2007), Lo scrivano (Montedit,
Milano 2007) e Il pittore merdazzèr (Tabula fati, Chieti
2007) ambientati nella Venezia del Cinquecento.
Ha vinto una novantina di primi premi in concorsi letterari
nazionali e internazionali.
Renzo Montagnoli
13/01/2010
Atti relativi alla morte di Raymond Roussel
di Leonardo Sciascia
Nota dell'editore
Sellerio editore Palermo
Narrativa
La prima cosa che mi sono chiesto, prima di leggere questo lavoro di
Sciascia, è stata molto semplice, una domanda quasi naturale: chi
era Raymond Roussel, che personaggio è stato da indurre il grande
scrittore siciliano a scrivere un libro sulla sua morte, indagando
come al solito per cercare una verità nascosta da molte omissioni
volontarie e da colpevoli negligenze?
Ai tempi di Internet non è difficile, si digita nel motore di
ricerca Raymond Roussel fra virgolette ed ecco diversi link, fra i
quali ho scelto quello di Wikipedia. Non che questo sia la verità
assoluta, ma ha almeno il pregio di essere sintetico e così ho
letto: Raymond Roussel (Parigi, 20 gennaio 1877 - Palermo, 14 luglio
1933) è stato uno scrittore, drammaturgo e poeta francese. Nel
prosieguo della pagina scopro che era di famiglia molto ricca e che
aveva una sorta di passione sfrenata per l'ostentazione della sua
immensa fortuna, che serviva forse da contrappeso alle notevoli
delusioni provate in campo letterario. Insomma, la sua fama derivava
unicamente dalla sua ricchezza e dai suoi atteggiamenti strani e
dandistici, non certo dai suoi libri e dalle sue commedie che non
risultavano apprezzati né dalla critica né dal pubblico.
Questo spiega anche il notevole successo che ebbe il testo di
Sciascia in Francia, peraltro confortato da analoghi riscontri
positivi in Italia.
Il libro prende spunto dal decesso avvenuto nella stanza 224 del
Grand Hotel delle Palme a Palermo appunto di Raymond Roussel, che
interessa a Sciascia per la particolare vicenda umana del francese,
perché pone in modo emblematico il tema dell'identità così caro a
Pirandello. In effetti, di Roussell si può dire che era un letterato
talmente misterioso da apparire in una sola foto ufficiale, quasi
che lui stesso rifiutasse la propria identità; da un lato si portava
appresso il fardello di una grande fortuna e dall'altro il
tentativo, non riuscito, di affermarsi letterariamente solo per
qualità intrinseche, che tuttavia difettavano. E' un personaggio
talmente oscuro nelle sue caratteristiche che anche la sua morte non
ha la normale chiarezza. E' stato un incidente? Si è suicidato? O
forse è stato ammazzato?
Sciascia, partendo dalle indagini giudiziarie, lacunose e
frettolose, esamina tutte le varie possibilità, soppesando con un
bilancino da farmacista i pro e i contro e se anche non arriva a
determinare la verità sulle cause del decesso, sconfessa però,
almeno così come dedotta dagli inquirenti, l'ipotesi del suicidio.
Quello che ne risulta, però, è uno straordinario saggio narrativo
sulla morte, squallida, avvenuta in una camera d'albergo, mentre
avvengono due festeggiamenti, per Santa Rosalia a Palermo e in tutta
l'Italia per la trasvolata atlantica di Balbo. E' il 14 luglio 1933
e ulteriore stranezza è pure l'anniversario della presa della
Bastiglia. Tutte celebrazioni importanti che si contrappongono alla
fine di un uomo che, schiavo del suo nome e del suo denaro, aveva
cercato inutilmente la fama con la sola forza del suo intelletto, ma
fallendo il proprio obiettivo.
Si dice spesso che il denaro non è tutto, ed è vero, ma nel caso di
Raymond Roussel non è stato nulla, fonte invece di
un'insoddisfazione divenuta lancinante con l'esito infausto del suo
tentativo di diventare "Raymond Roussel, lo scrittore".
Da leggere? Senz'altro, perché Sciascia non sbaglia un colpo.
Leonardo Sciascia (Racalmuto, 8
gennaio 1921 - Palermo, 20 novembre 1989). E' stato autore di saggi
e romanzi, fra cui: Le parrocchie di Regalpietra (Laterza,
1956), Il giorno della civetta (Einaudi, 1961), Il
consiglio d'Egitto (Einaudi, 1963), A ciascuno il suo
(Einaudi, 1966), Il contesto (Einaudi, 1971), Atti
relativi alla morte di Raymond Roussel (Esse Editrice, 1971),
Todo modo (Einaudi, 1974), La scomparsa di Majorana
(Einaudi, 1975), I pugnalatori (Einaudi, 1976), Candido,
ovvero Un sogno fatto in Sicilia (Einaudi, 1977), L'affaire
Moro (Sellerio, 1978), Il teatro della memoria (Einaudi,
1981), La sentenza memorabile (Sellerio, 1982), Il
cavaliere e la morte (Adelphi, 1988), Una storia semplice
(Adelphi, 1989).
Renzo Montagnoli
12/01/2010
Gocce di Sicilia di
Andrea Camilleri Piccola
Biblioteca Oscar Mondadori
Breve raccolta di racconti che
impressionano immagini dense e antiche di una Sicilia evocata con
dolce nostalgia.
In sette scintillanti storie, il nostro autore distilla immagini di
una Sicilia personale ed intima e nel contempo
collettiva, di tutti.
Nel suo stile inconfondibile, nella sua parlata distintiva di un
siciliano ragionato e strutturato, Camilleri pennella ritratti di
persone, evoca fatti e detti che trasferisce
dalla memoria sulla carta e sa renderli unici ed irripetibili.
In Gocce di Sicilia
sono raccolti gli scritti originali comparsi
sull’Almanacco dell’Altana
negli anni 1995-96-97-98-99-2000. Parte di
Piace il vino a San Calò
è stata revisionata e rielaborata dal
romanzo Il corso delle cose
(1978 Sellerio 1998). Il racconto
Ipotesi sulla scomparsa
di Antonio Patò
è comparso in forma ridotta sul quotidiano
La Stampa e poi
ampliato, è diventato il volume
La scomparsa di Patò (Mondadori
2000). Il cappello e la coppola
fa parte delle
Favole del tramonto (ed.
Dell’Altana 2000). Ne
Lo zù
Cola, persona pulita, l’autore specifica che è un falso
monologo e si usa dire a teatro quando chi parla non si rivolge a se
stesso, ma ad un interlocutore che non risponde o le cui risposte
non vengono riferite. A parte questo dettaglio tecnico, il contenuto
è vero.
A Roma in un pomeriggio del 1950 in una banca, Camilleri incontrò il
noto boss dell’Agrigentino Nicola “Nick”
Gentile. Nel colloquio avuto, Camilleri prese nota a casa, per, poi,
scriverne la storia. Il giornalista Felice
Chilanti riportò l’intervista avuta con il boss in un libro
intitolato “Vita di gangster”. Il mafioso era ritornato
clandestinamente in Italia dagli U.S.A.,
nell’aprile del ’43 per preparare lo sbarco degli Alleati in
Sicilia. Camilleri afferma che a rileggere adesso l’incontro, appare
anacronistica la figura del boss lontana da certi schemi
operandi della mafia. Riguardo a
convincere qualcuno a fare qualcosa che non vuol fare, dice il boss,
ci vuole pazienza e persuasione senza perdere la pazienza ed
arrivare all’omicidio. Perché muore la
persona, ma il mafioso perde la battaglia perché è stato incapace.
“Ad ammazzare tutti sono buoni!” Logica distorta e criminale certo,
ma lontana da quella di oggi in cui la
morale, la deontologia a modo loro erano rispettate.
“U zz’Arfredu” :
la memoria di uno zio speciale, colto, ricco di interessi è
ammantata da affettuosa nostalgia e dolce rievocazione; grazie a
lui, l’amore per i libri divenne sacro.
“Piace il vino a San Calò”: le feste religiose legate strettamente
alle tradizioni, al folclorismo, quando
la statua del Santo portata in processione è oggetto di culto
semi-pagano e diventa tutta la scenografia parossismo collettivo.
Con una sorta di compiacimento e allegria, Camilleri ricorda queste
rappresentazioni sacre come quadri oleografici in cui la voce del
popolo è la vera anima di una sacralità fattasi spettacolo.
“Il primo voto”: Camilleri ricorda, divertito, la paradossale guerra
scatenatasi tra i Separatisti, i Comunisti e i Democristiani per il
colore di una bandiera alla vigilia delle prime elezioni regionali
in Sicilia.
“L’ipotesi sulla scomparsa di Antonio
Patò”: il nostro autore fa riferimento a
teorie scientifiche sull’universo fluttuante in un continuum
spazio-temporale, oggetto di accanite discussioni accademiche. La
scomparsa di qualcuno in un fosso del tempo, non materiale, ma
all’interno di quel continuum spazio-temporale dentro il quale
fluttua l’universo, spiegherebbe il
fenomeno. Chi cade all’indietro di questa piega
comporta una risalita verso il passato, chi in avanti comporta una
risalita verso il futuro. La scala dei Penrose
sarebbe la materializzazione di un
incubo; essa obbligherebbe chi si viene a trovare in cima ad una
singola scala quadrata e intraprende la discesa, a scendere sempre.
Così Patò impersonando Giuda, nella
rappresentazione del venerdì santo de“Il
Mortorio” nel momento dell’impiccagione, cadde nella botola del
palco e scomparve.
“L’incontro tra il cappello e la coppola”: ambigua e singolare
metafora di un incontro tra due cose inanimate e chi li indossa in
una sorta di sineddoche.
“Vicenda di un lunario”: è la storia di un mensile
letterario“Lunario siciliano”, pubblicato intorno agli anni 1927/28,
attento ai valori e agli apporti isolani, in un tentativo di saldare
la letteratura e la cultura alla creatività popolare. Un articolo
merita menzione, “Le considerazioni sui punti cardinali”, un
rovesciamento dell’atlante in modo che le Alpi siano la base di un
tronco che ha come cielo, il mare mediterraneo. Il Sud al posto del
nord. Il lunario dopo due annate (1927/28),
ebbe una ripresa nel 1931, ma la rivista, ormai, prescindeva
dalla realtà per arroccarsi nello studio delle tradizioni popolari.
“Gocce di Sicilia” si legge, tutto di un fiato; la forza
dell’evocazione trova riscontro nella forza delle parole fattesi
persone, pensieri. L’intensità concreta della parola scritta, in
Camilleri, densa e corposa, esprime con vigore quello che racconta,
la realtà prosaica nel ricordo assume dimensioni fantastiche e
suggestive.
L’autore. Andrea
Camilleri è nato a Porto Empedocle nel 1925. Ha
esordito come romanziere nel 1978 con
“Il corso delle cose”.
Della sua ricchissima produzione letteraria
tutti i romanzi con protagonista il commissario Montalbano
sono pubblicati dalla casa editrice
Sellerio e altri, tra questi ricordiamo: “La
forma dell’acqua”, “Il cane di terracotta”, “Il ladro di merendine”,
“La voce del violino”, “La stagione della caccia”, “Il birraio di
Preston”, “La concessione del telefono”,
“La gita a Tindari”, “Maruzza
Musumeci”, “Il casellante”, “Il campo
del vasaio”, “L’età del dubbio”, “Un sabato, con gli amici” “Il
sonaglio” “Il cielo rubato”etc…
Arcangela Cammalleri
09/01/2010
Maria Grazia Niutta : " RASPODIE "
- vita e pensieri di un gatto " indoor
" - Arpabook , collana "Minicomics " , Milano , 2009 .
L' Autrice , pediatra in Roma , appassionata di fumetti dall'
età di cinque anni , ha sempre coltivato il disegno anche come "
reazione " ( afferma lei stessa nella prefazione ) all'
incomprensione dei suoi insegnanti durante gli anni di scuola
verso questo genere a torto considerato " minore " . Le "
strips " di questo agile volumetto ci offrono dei disegni dal
tratto etereo , quasi impalpabile , limitati veramente all'
essenziale , quasi che l' Autrice non abbia voluto che il
lettore distogliesse lo sguardo dalla parola scritta . Il
messaggio che ci viene proposto é la riflessione di un gatto d'
appartamento , iperprotetto dai suoi padroni che non si rendono
conto delle sue naturali e legittime aspirazioni : la caccia ai
topi , la passeggiata sui tetti , le graffiature dei mobili e
delle pareti ... Va bene l' amore per gli animali - sembra dirci
l' Autrice - ma i nostri amici a quattro zampe non vanno tenuti
nella bambagia : dobbiamo cercare di " adattarci " al loro mondo
, di " capirli " . Specialmente il gatto , apparentemente
indifferente all' Uomo , ha bisogno di un dialogo con il suo
padrone che non sia fatto solo di " coccole " , ma anche di
attenzione verso i suoi naturali bisogni . Definirei il libro
di Maria Grazia Niutta un piccolo " manuale di Etologia " che
può dare un contributo alla campagna contro l' abbandono degli
animali .
05/01/2010
L'altra storia -
Aldo G. Gargani - Ed. Il
Saggiatore
RECENSIONE a cura di Carmen Lama
Perché "L'altra storia"…?
Ciò che viene narrato nel libro L'altra storia, di Aldo Giorgio
Gargani, ed. Il Saggiatore, è un discorso al confine tra filosofia e
psicologia; lo stile dell'autore ricorda un po' quello di un romanzo
molto particolare (e, a sua volta, molto significativo, ma per
aspetti molto diversi), Le ceneri di Angela, di Frank McCourt,
irlandese trapiantato a New York.
Questo di Gargani è un po' più ordinato, ma mi sorprende la
ripetizione quasi ossessiva di certe espressioni, il fatto che
l'autore giri intorno alla stessa idea praticamente per tutto il
libro. Forse così vuole confermare quello che lui stesso afferma,
cioè che la nostra vita è il racconto di una frase, sempre la
stessa, che continua all'infinito e che non si completa mai.
Ci sono dei pensieri profondi, che fanno riflettere su chi siamo,
come ci rapportiamo tra noi, perché viviamo, come e perché non
comunichiamo mentre crediamo di comunicare, ecc…
Il tutto però mi pare pervaso da un certo pessimismo, che forse per
l'autore è più realismo. Egli ammette che questa è la vita: un misto
di felicità e di infelicità e la felicità sta soprattutto nel
riuscire a mantenere la nostra infelicità senza assumerci l'altrui
infelicità e senza permettere agli altri di interferire con la
nostra infelicità.
In certe espressioni mi pare di cogliere un pensiero filosofico,
quasi come fosse filosofia teoretica, ma subito dopo si concretizza
in esempi che vorrebbero illuminare meglio quel pensiero e alla fine
ci girano intorno così tanto che sembra perdere di vista il pensiero
originario ma, nel frattempo, altri pensieri si sono presentati e
anche per loro c'è lo stesso procedere. In realtà, anche questo fa
parte di affermazioni sul modo di procedere dei pensieri e, con
l'andamento della scrittura, si confermano quelle stesse
affermazioni.
Alcune cose non riesco a condividerle, anche se, a pensarci bene,
potrebbero far parte, a buon titolo, della realtà così come noi
riusciamo a rappresentarcela.
L'impressione più forte che mi ha fatto, il leggere questo libro, è
quella continua ossessione di ripetere più e più volte le stesse
cose, in modi e con esempi sempre diversi, ma che portano sempre
nello stesso luogo, per dimostrare l'implausibilità di quel luogo e
del soggetto che racconta, in quanto quello che racconta è in realtà
una cosa diversa da quella che noi crediamo di comprendere e da
quella che l'autore stesso crede di raccontare: quello che
effettivamente racconta non è quello che leggiamo e che lui ha
scritto, ma una seconda storia che sta fuori e oltre quello
che è stato scritto e che noi leggiamo: da qui, il senso del titolo…
Insomma, un bel ginepraio, dentro il quale ci siamo dentro a
capofitto, e questa è la complessità della nostra vita!
Forse sarebbe meglio non pensarci e non pensare più.
Anche questo dice infatti Gargani, ad un certo punto: egli sostiene
che se il nostro pensiero serve sempre per pensare allora vuol dire
che non riusciremo mai a vedere null'altro che il rumore del mondo,
riflesso dal nostro pensiero; se invece dopo tanto leggere e pensare
e riflettere, ci fermiamo e smettiamo di pensare, di leggere e di
riflettere, allora potremmo vedere le cose in modo nuovo, forse nel
modo nuovo in cui le cose stesse saranno state illuminate dalle
letture, dai pensieri e dalle riflessioni.
Questa parte mi piace in modo particolare. Tutto il libro è comunque
interessante, anche se sembra quasi che l'autore faccia di tutto per
avvitare su se stesso il suo pensiero e, di riflesso, il pensiero
del lettore.
Un paragrafo che voglio segnalare, perché molto istruttivo per la
vita di tutti i giorni, riguarda "Le persone metafisiche": qui,
Gargani parla degli amici del tipo delle persone metafisiche e
sostiene che queste fanno di tutto per dimostrare di voler aiutare,
ma in realtà quell'aiuto è tanto più volentieri dato quanto più
porta al risultato di annientare l'altro, di farlo sentire umiliato
dal fatto stesso e solo dal fatto stesso di dover avere bisogno di
aiuto da qualcuno.
D'altra parte, a chi si può o si vuole chiedere aiuto se non a chi
si dimostra amico/a?
Ed ecco che così si entra in una trappola e l'aiuto che viene
concesso con così grande generosità ed espansione d'animo, in realtà
maschera lo scopo di far sentire superiore colui che offre il suo
aiuto, non di una spanna ma di mille e più spanne, proprio
"metafisicamente!" in quanto, chi aiuta e protegge con i suoi
consigli, con le sue attenzioni e preoccupazioni, lo fa perché ha il
potere, i mezzi intellettuali e la forza psicologica per poterlo
fare. Non così chi viene aiutato, che altrimenti non sarebbe stato
spinto dal bisogno di chiedere aiuto…!
Ma da cosa dipende la metafisicità di certe persone? Sta forse nel
non saper discendere dal piedistallo della cultura (libresca) per
farla diventare parte di sé come persona (fisica) e per metterla a
disposizione degli altri considerati come persone (a loro volta,
fisiche).
Infine, in questo libro c'è anche un bel concetto della vita e della
morte e della stretta relazione tra loro, che fa molto riflettere…
Ma ora… è giunto per me il momento di smettere di pensare e di
riflettere, per… vedere le stesse cose di sempre in modi nuovi, se
possibile.
Buona lettura a voi, se la curiosità vi avrà tentato.
Carmen Lama
Esperienza degli affanni di
Nicola Vacca
Edizioni Il Foglio Letterario
www.ilfoglioletterario.it
Poesia
Collana Plaquette I Blu
Per come vanno le cose a questo mondo c'è più di un motivo che
induce a riflessioni sulla nostra e l'altrui condizione e che porta
a esprimere in versi o una protesta o un dissenso.
Nicola Vacca, né più né meno di chi ha autonomia di coscienza ed è
portato pertanto a esaminare con spirito critico, con Esperienza
degli affanni, plaquette delle Edizioni Il Foglio Letterario, volge
il suo sguardo all'intorno, poi si confronta con sé, quasi
attingendo allo specchio dell'anima, e in tono sommesso, ma non
sussurrato, senza veemenze, ma con fermezza, esprime il suo dissenso
(La vita non è facile / lo sanno i poeti. / Tutte le mattine /
fanno i conti con le parole / camminano senza mappa. / Tengono tra
le mani / la poesia che succede nella crudeltà / di un altro giorno
di paura.).
Tuttavia, non si tratta di una raccolta di impressioni e di giudizi
fini a se stessi, perché, pur essendo presente l'aspetto
introspettivo, è anche poesia civile, intesa nel duplice aspetto di
richiamo ai valori fondamentali e per il tono estremamente corretto
che viene utilizzato. Peraltro, ben consapevole del rischio insito
in questo genere, Vacca ricorre a un linguaggio per niente aulico,
rifuggendo da ogni retorica, anzi esponendo e proponendo con grande
calma, non disgiunta da una determinazione che incontriamo più
volte: da È condannato alla notte più buia solo chi non sa
raccontare il male a Si dissangua la vita perché uccidiamo sempre le
cose che amiamo.
C'è anche una dominante in questa raccolta ed è data dal ricorso ai
termini "buio", "oscurità", che con ogni probabilità nelle
intenzioni dell'autore servono ad esprimere il senso di sgomento che
si prova nel guardare il mondo con spirito critico. Ma è un buio che
per me va oltre il significato di assenza di luce e in pratica
rappresenta quel senso di vuoto che prende anima e corpo
nell'impotenza di ogni giorno, nella certezza che ogni denuncia non
sortirà l'effetto auspicato (Il vuoto afferra la realtà / la
distruzione non molla la presa / con le lacrime si resta appesi a un
perché.).
Eppure il poeta continua a segnalare, a indicare gli errori, mostra
una realtà di cui molti non si accorgono e in questo la sua funzione
è esemplarmente civile. Forse non verrà ascoltato, probabilmente
verrà anche deriso proprio da quelli che lui vuole mettere
sull'avviso, un destino ingrato, che però non lo scoraggia,
consapevole di avere occhi anche per chi ne è privo.
Ne consiglio senz'altro la lettura.
Nicola Vacca è nato a Gioia del
Colle, nel 1963, laureato in giurisprudenza vive a Roma . È
scrittore, opinionista, critico letterario, collabora alle pagine
culturali di quotidiani e riviste.
Svolge, inoltre, un'intensa attività di operatore culturale,
organizzando presentazioni ed eventi legati al mondo della poesia
contemporanea. È il curatore del blog Nel verso giusto (
http://nicolavacca.splinder.com ). Ha pubblicato: Nel bene e
nel male (Schena,1994), Frutto della passione (Manni,
2000), La grazia di un pensiero (prefazione di Paolo Ruffilli,
Pellicani, 2002), Serena musica segreta (Manni, 2003),
Civiltà delle anime (Book editore, 2004), Incursioni
nell'apparenza (prefazione di Sergio Zavoli, Manni,2006), Ti
ho dato tutte le stagioni (prefazione di Antonio Debenedetti,
Manni,2007) Frecce e pugnali (prefazione di Giordano Bruno
Guerri, Edizioni Il Foglio, 2008).
Renzo Montagnoli
04/01/2010
Il teatro della memoria
La sentenza memorabile
di Leonardo Sciascia
Edizioni Adelphi
Collana Piccola Biblioteca
Le identità usurpate, uomini che si sostituiscono ad altri,
prendendone in pratica il nome e il ruolo, abbandonando quella che
era la personalità innata, è questo il tema di questi due saggi
storici che Leonardo Sciascia ha affrontato con la sottile capacità
di analisi che gli è propria.
Non so quanti siano a conoscenza dell'incredibile vicenda Bruneri o
Canella che appassionò, meglio ancora infiammò l'Italia sul finire
degli anni venti del XX Secolo. Non sto a raccontarla perché sarebbe
inutile per chi non la ignora e costituirebbe invece un'indebita
ingerenza nella curiosità dei futuri lettori che, cono certo,
saranno avvinti da una trama che sembra quasi inventata.
Ma da un fatto certo, oggetto di numerosi dibattiti giudiziari, che
cosa avrebbe potuto dire di nuovo Leonardo Sciascia?
Ecco che qui si mostra, nel pieno del suo vigore, quella capacità di
andare a fondo nei fatti, di porsi domande, di cercare risposte, più
che per arrivare a una verità - che una volta tanto non è di comodo,
ma corrisponde alla realtà - per pervenire a una spiegazione del
perché dilemmi di così facile soluzione finirono invece per dare
luogo a vere e proprie battaglie contro ogni logica.
C'è così chi riconosce il Bruneri nel prof. Canella senza la benché
minima razionalità, per non parlare della moglie, che più di altri
dovrebbe essere in grado di smascherare l'usurpatore e invece se lo
tiene stretto solo perché vuole credere che quell'individuo sia il
marito disperso in guerra.
Eppure la soluzione è facilissima, perché basta confrontare le
impronte digitali e allora senza ombra di dubbio quello che si fa
passare per Canella è il tipografo e pregiudicato Bruneri.
Ma anche quando viene portata dall'accusa la prova dattiloscopica e
la sentenza smentisce "i canelliani" non è finita, perché ormai
turbina nel paese una tifoseria quasi calcistica fra i fautori
dell'usurpatore e invece quelli che non gli credono.
E' una pantomima che dissacra perfino le aule giudiziarie e questo
con il tacito assenso del regime fascista, che approfitta del
clamore dell'evento per imporre in sordina la sua dittatura. Quindi
matura ed evolve un'altra usurpazione, ben più pericolosa, poiché le
basi democratiche piano piano vengono sostituite da un unico partito
che continua a professarsi liberale, ma che da lì a poco potrà in
tutta tranquillità inneggiare alla dittatura del fascio.
Se con Il teatro della memoria Sciascia ha analizzato la
vicenda Bruneri e Canella, con La sentenza memorabile si
occupa di un caso analogo avvenuto molto prima in Francia nella
seconda metà del XVI secolo: l'affaire Martin Guerre.
Analogo non vuol dire uguale e anche se la comunanza è per
l'usurpazione di un'identità la vicenda, pur presentando alcuni
aspetti simili, è completamente diversa.
Certo, si tratta di un'altra epoca, forse altrettanto se non
maggiormente oscura, però resta il fatto che l'usurpatore, che
finirà condannato a morte, desta una naturale simpatia, in quanto
assume sì l'identità di un altro, ma non cela la propria naturale
personalità e anche perché il reato non è commesso per lucro, bensì
per amore, un amore così forte al punto che, nonostante la donna che
ha voluto riconoscerlo come legittimo marito poi lo disconosca in
corso d'udienza nel timore di fare una brutta fine, lui si precipita
a salvarla, confessando e così determinando la sua infausta sorte.
Nel lavoro Sciascia si avvale delle memorie del caso lasciateci da
Montaigne, altra mente raffinata che non prendeva mai nulla per
certo e al riguardo l'autore siciliano accompagna questi due saggi
da alcune note che finiscono con l'introdurre all'appendice finale,
una riflessione di grande valore dello stesso Montaigne intitolata "Degli
zoppi", assolutamente da non perdere e che conclude il tutto nel
migliore dei modi.
La lettura è senza dubbio caldamente raccomandata.
Leonardo Sciascia (Racalmuto, 8
gennaio 1921 - Palermo, 20 novembre 1989). E' stato autore di saggi
e romanzi, fra cui: Il giorno della civetta (Einaudi, 1961), A
ciascuno il suo (Einaudi, 1966), Il contesto (Einaudi, 1971), Todo
modo (Einaudi, 1974), La scomparsa di Majorana (Einaudi, 1975), I
pugnalatori (Einaudi, 1976), Candido, ovvero Un sogno fatto in
Sicilia (Einaudi, 1977), L'affaire Moro (Sellerio, 1978), Il
cavaliere e la morte (Adelphi, 1988), Una storia semplice (Adelphi,
1989).
Renzo Montagnoli
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