Commenti sulle poesie
 

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Cari Sitani,
se per caso riceveste e-mail firmate Miu, in cui si chiede di iscriversi subito ad un altro sito, perché il sito poetare.it sta traslocando, eliminatele: è falso. Jacqueline Miu non scrive su altri siti e non ha intenzione di farlo. Poetare.it non si trasferisce e sarà sempre presente ad accogliere poeti e poetesse, come già succede dal 17 Aprile del 2002.
Grazie a voi tutti per la partecipazione e auguri di una buona estate.
Lorenzo De Ninis, titolare di poetare.it.


 

16-17-18 Settembre

Un testo di intensa malinconia urbana, dove il quotidiano si mescola con la riflessione sulla vecchiaia e sulla perdita di senso. La piazza non è più agorà vitale ma “guazzo”, pantano stagnante, specchio di un tempo che scivola senza redenzione. Il gesto di guardarsi nel telefonino, “specchio moderno per allodole invecchiate”, è un’immagine folgorante: il dispositivo tecnologico come vanità narcisistica, surrogato del lago di Narciso. La poesia si muove tra ironia amara e constatazione elegiaca: l’osservazione di sé si intreccia al ricordo di un eros consumato, ora riflesso nell’ombra di una donna che ha “rinunciato ad un ultimo amore”. Una lirica di realismo crepuscolare che ricorda i poeti post-bohémiens del primo Novecento, con l’aggiunta di un gusto quasi pasoliniano per la scena di provincia.
Breve e densissima, questa poesia gioca sull’eco della legge di Lavoisier (“nulla si crea, nulla si distrugge, tutto si trasforma”) trasfigurata in chiave amorosa ed esistenziale. L’immagine della “vetrofania del cielo” e la divisione del volto tra ombra e luce danno un tocco quasi caravaggesco, come se il testo fosse un quadro in cui la materia e la spiritualità si incontrano. Serino lavora sulla sospensione e sull’allusione: la brevità si fa intensità, il verso spezzato diventa respiro metafisico.
Visionaria, surreale, frammentata. Tartagni attinge alla tradizione dell’avanguardia (dai Novissimi al cut-up beat) per costruire un flusso che mescola “catarsi”, “metafisico ripiano” e “acqua benedetta” in una sorta di liturgia profana. Il “cervello vuoto” non è solo il vuoto dell’assenza, ma campo da riempire con un atto di creazione e purificazione. Il titolo, che richiama un noto profumo, diventa ironico contenitore di un’esperienza estatica e paradossale: il sacro e il commerciale, l’estasi e il banale, fusi in una stessa voce.
Un esempio di lirica classicheggiante, scandita da immagini delicate e solenni: la stella che “si vela nel passo”, la rosa che “scolora”, l’usignolo che tace. Qui la Natura è personificata e attraversata dal ritmo delle stagioni, ma il sottotesto è esistenziale: la fine dell’estate coincide con la percezione della finitudine umana. La musicalità dei versi, le anafore, la struttura tripartita danno al testo il respiro di una canzone leopardiana, che si conclude con un sentimento di dolce malinconia.
Poesia stratificata, dove la riflessione sul tempo si mescola alla percezione paesaggistica. L’Arno “gelato” diventa scena sospesa, teatro di mutamenti stagionali e di interrogativi ontologici. L’autrice sembra interrogare il senso della memoria e della fede, oscillando tra festa e assurdo, tra la promessa di un senso e il rischio del nulla. Lo specchio d’acqua come rivelatore è immagine centrale: fragile e potente, svela la natura effimera dell’esistenza. Il testo ricorda certi tratti di Zanzotto: il lessico nitido che si fa veicolo di un pensiero sfuggente.
Qui la poesia irrompe con una forza nuova: è voce indigena, contemporanea, spezzata, che usa il frammento come arma politica ed emotiva. L’amore è “foresta vergine” e “taglio netto”: la stessa frase contiene creazione e distruzione. L’uso di immagini quotidiane (“un bol di macaroni alle salsicce”) intrecciato con il dolore e l’ansia produce un effetto straniante, come accade in certa poesia nordamericana (ricorda Louise Glück per la nuda intensità, ma con una corporeità più ruvida). La traduzione restituisce fedelmente la tensione originaria.
Un componimento che si muove su registri più tradizionali: metrica quasi regolare, lessico classico. Il tema è quello antico della ricerca della felicità, con echi petrarcheschi e un tono che sfuma nell’elegiaco cristiano. L’ultimo verso, rivolto a Dio, trasforma la vicenda personale in atto di fede: il tempo sottrae, ma la luce raccolta potrà essere offerta al Creatore. Un testo che conserva la nobiltà della lirica ottocentesca, in bilico tra romanticismo e spiritualità.
Essenzialità e immediatezza. In pochi versi, Silenzi evoca il torpore di un mezzogiorno estivo, dove il “sole giallo” illumina la “dorata noia”. È una poesia che si avvicina all’haiku per concentrazione e impressionismo: immagini leggere, delicate, che invitano al sonno e al sogno. La chiusa (“il cuore batte, e non si sa perché”) riporta al mistero originario della vita.
Una confessione intima, aspra, dolente. Il filo della vita diventa gomitolo da srotolare, percorso obbligato in cui non c’è scelta. L’autore oppone agli “aquiloni arlecchinati” i propri “cavalli alati uccisi”: metafora potente dell’occasione mancata, del rifiuto del volo. La presenza finale dell’ “asino esitante” è immagine di umiltà e fallimento insieme, di un destino che non ha potuto sublimarsi. È una poesia esistenziale, quasi testamentaria, che ricorda l’angoscia di certi testi di Pavese.
Surrealismo ironico e grottesco. Le “cascate” negli “occhi appuntiti delle stranezze umane” e i “gatti-fantasma” sui tetti evocano un mondo deformato, dove la follia diventa passeggiata quotidiana. La poesia abbraccia il nonsense con lucidità critica: la “demenza premiata dalla scemenza altrui” è denuncia e liberazione. Testo che gioca tra comicità e amara constatazione sociale.
Meditazione sul tempo che diventa laccio, corda, vento. Il poeta intreccia immagini naturalistiche e metafore drammatiche (l’impiccato, lo scoiattolo, il vento ululante). Il tempo appare come forza che ci sfugge e ci consuma, inafferrabile e crudele. La lunghezza del testo e il suo ritmo quasi prosastico rendono bene l’impressione di una corsa senza tregua. In filigrana, echi di Montale e Ungaretti, ma con un tono più narrativo.
Una lunga dichiarazione amorosa che si muove tra semplicità e lirismo. Il testo, con le sue ripetizioni e la disposizione visiva dei versi, mira a ricreare il ritmo di un respiro affettivo. È poesia spontanea, genuina, in cui la quotidianità (gesti, capelli, ginocchia al petto) si intreccia con scenari naturali (mare, prato, gelsomini). Ricorda l’ingenuità voluta della poesia amorosa popolare, ma con punte di tenerezza autentica.
Una poesia che si colloca nell’alveo lirico tradizionale, con rime e ritmo regolare. È canto d’amore serale, sospeso tra intimità e malinconia. L’uso della luna, delle stelle, della lampada tremolante richiama l’immaginario romantico. Non vi è ricerca di sperimentazione, ma solidità formale e chiarezza emotiva.
Testo di spiritualità mistica. La voce del poeta si fa strumento del divino, corpo e sangue diventano strumenti del Signore. Il linguaggio è biblico, solenne, con ripetizioni che rafforzano la dimensione orante. Non vi è compiacimento estetico, ma devozione pura. Una poesia che richiama i Salmi e la tradizione della mistica cristiana.
Qui la poesia si fa preghiera civile e teologica insieme. L’Ave Maria è rivisitata in chiave femminista: Maria non solo madre, ma donna che ha sofferto sotto il peso del patriarcato. Il testo è un atto politico e religioso allo stesso tempo, che denuncia la permanenza di sessismo e maschilismo. Romanini rinnova la funzione sociale della poesia, trasformandola in resistenza.
Componimento dedicato, breve e delicato. Il tema del “seminare bene” è reso con semplicità e immediatezza. È poesia della gratitudine e della memoria, senza artifici, ma con sincerità di tono.
Peccato solo che...il soggetto sia lo scrivente, asino ragliante con la presunzione di commentare le altrui poesie!
Comunque, grazie di cuore cara Sandra Beatrice.
Un testo sperimentale, denso di immagini urbane e visionarie. La città diventa scenario liquido e cangiante, i semafori si trasformano in occhi, le auto in corpi nudi. La fronda in fiamme è cuore e natura insieme, in dialogo con l’asfalto. La poesia procede per accumulo di visioni, vicina alla scrittura automatica surrealista e alla poesia visiva. Potente e irregolare, è atto di libertà.
Un testo lirico classico, dedicato all’amore come forza che supera l’impossibile. Il gabbiano, simbolo di libertà, si specchia nel mare e trova compagnia. La poesia evoca leggerezza e speranza, con un tono che ricorda la tradizione poetica femminile del Novecento, tra leggerezza lirica e aspirazione trascendente.
Una meditazione filosofica sull’inevitabilità del nulla. Le stelle che cadono, la memoria che si affievolisce, il vuoto che rimane: qui si avverte l’influenza dell’esistenzialismo novecentesco (da Heidegger a Sartre) e di certa poesia cosmica. Il ritmo cadenzato, con ripetizioni (“il vuoto, il vuoto, il vuoto”), accresce l’effetto drammatico. Un testo che guarda all’abisso senza consolazione e, di questo, da fratello credente, mi si stringe il cuore in un abbraccio che si fa preghiera. Per te, caro Piero, fratello poeta.

 
Con affetto e stima:
Vostro, pur sempre vostro 
Ben Tartamo 

 

 

 

 

13-14-15 Settembre

 

Siamo al cospetto di una poetica dell’ellisse affettiva, una composizione che prende la retorica — nella fattispecie, la figura della brachilogia, ossia la concisione pregnante — e la trasforma in messaggera d’amore. La voce poetica non indugia, non arzigogola: elenca con la grazia della necessità.
Labbra, occhi, mani, cuore: è l’anatomia affettiva della lontananza. Tutto converge verso la speranza del ritorno, e proprio questa speranza è la chiave semiotica del testo: è il “non ancora” che dà senso al “già”.
L'autore, in un'opera che sembra semplice, compie un atto filosofico: ci mostra come la brevità, se nutrita d’amore, diventa eternità concentrata.


Qui il tono muta, il registro si fa epico-lirico, e la pioggia — figura antica, archetipica — diventa il battito costante di un tempo civico in decomposizione. Santoro ci dona una ballata della disillusione politica, ma intrisa di un'umiltà commossa. Il Borgo — entità metafisica e concreta — si sbriciola nell’indifferenza, e la voce poetica è testimone e Cassandra, stanca di denunciare.

La seconda parte, con l’arrivo della “nuova gente”, è una fenditura luminosa nella tela scura. Ma è una luce tenue, quasi colpevole, un raggio che non riesce a dissolvere del tutto la nebbia dell’abbandono.
Straordinaria la chiusa: la pioggia come “dono del cielo” a supplire l’assenza del potere umano. In questo gesto, il poeta si fa teologo laico, affidando alla natura ciò che la politica ha tradito.

Un testo che va letto ad alta voce, lentamente, per cogliere la sua partitura musicale e morale.


Questa lirica breve è un'apostrofe sognante all’ispirazione, e Ungaretti — Ungà, col diminutivo quasi da amico immaginario — appare come mentore e fantasma, come spirito guida in una veglia trasfigurata.
Serino scrive in trance, appunto, e l'immagine della balaustrata è prodigiosa: luogo di appoggio ma anche confine, soglia, limen. È lì che il daimon, quella forza creativa ambivalente e inquieta, cerca riposo.

Il componimento è quasi haikuico nella sua densità, e si chiude lasciandoci nella febbre dell’incompiuto, come ogni autentico sogno poetico dovrebbe fare.


Tartagni ci scaraventa nell'urlo visionario di un'anima assediata, dove il delirio e la chiaroveggenza si intrecciano come due serpenti attorno all’albero della parola. C’è un tono quasi biblico, apocalittico, ma reso tenero da immagini come il “bianco gatto di Persia” — figura che irrompe come un angelo felpato nel caos interiore.
Il testo ha la struttura di un flusso semi-onirico, ma si avverte in filigrana una volontà pedagogica: “Provo a insegnare / In questa terra spezzata”. L’amore, come “ultimo segreto”, non è sentimentalismo: è resistenza ontologica, è ciò che si oppone all’entropia del disincanto.

Si avverte qualcosa di rimbaudiano, una scrittura come allucinazione lucida, come urlo in faccia al destino telematico (“leggo da solo internet e il mio destino”). È una poesia che brucia e consola, che accende corto circuiti e poi accarezza.


Lapietra ci consegna un elogio della resilienza amorosa, un atto reiterato e consapevole d’amore che non chiede garanzia alcuna. Il titolo, “Ancora”, è già una dichiarazione poetica: l’eterno ritorno del sentimento, la volontà sacrificale di chi ama nonostante.

I versi sono cuciti con la pazienza dell’orfana che spera, e brillano nella loro dolcezza lancinante. “Ho scoperto ancora / il mio sguardo d'amore inerme”: ecco il cuore del componimento — la nudità volontaria del sentire, offerta come balsamo sulla scialuppa incerta dell’altro.

L’ultima strofa è degna della lirica moderna più alta: la felicità imprigionata, l’impossibilità del dono, l’anelito al “porto dove addormentarsi senza soffrire” — un ossimoro d’amore che ci frantuma e ci eleva.

Una poesia che profuma di malinconia greca e di carezze mai sprecate.


Borghesi scrive con l’urgenza di chi si è svegliato nel cuore del disastro. Il componimento è una specie di autoaccusa lirica, un’analisi psicologica in versi, dove l’autore è carnefice e vittima, giudice e imputato.

La struttura anaforica iniziale (“quando... quando... quando...”) crea un effetto di crollo preannunciato, una valanga emotiva. Poi il crollo avviene: l’“alta marea” chiude l’orizzonte, il “fuoco deturpa il sorriso”.

E poi l’immagine più potente:

“barcolli indifeso e decrepito / verso ipotesi siderali” —
versi che sembrano usciti da un Cioran in poesia, sospesi tra cosmico e intimo.

È un testo di rimorso post-esistenziale, ma anche un invito ad ascoltare il silenzio che ci giudica. Commovente, diretto, doloroso come uno specchio incrinato.


Qui siamo nell’empireo delle relazioni disgregate dal pensiero, delle sinapsi sentimentali che si inceppano. Il “silenzio d’ordinanza” è un’arma bianca, un comportamento programmato, e il testo ne svela la teatralità.

Notarfrancesco gioca con i registri alti e bassi, con un’intelligenza linguistica rara: ci sono la Parigi simbolista e la quotidianità della crisi amorosa, il “preavviso” dell’amore e l’“odio blando”, come moti atmosferici dell’anima.

La poesia è costruita come un monologo interiore che si disintegra in aforismi lirici. C’è la filosofia, c’è il disincanto, ma anche l’intuizione finale: che il ricordo, anche se doloroso, è una piccola variante dell’eternità.

Una poesia che va letta come si sfoglia una fotografia sbiadita: con amore e con un nodo in gola.


E infine... il vertice, il poema epico-contemplativo di Huenún, che affonda le sue radici nelle mitologie mapuche, nel dolore coloniale e nell’onirismo sciamanico.

Siamo in una dimensione post-mortem: il poeta-cavaliere non narra la vita, ma la sua trasfigurazione nella leggenda. Le immagini sono sacrali: “la mia vita crivellata dalle pallottole”, “il cavallo che adesso cavalco sopra l’acqua”, “la mia faccia trasparente dove brillano le stelle della sera”.

Qui la poesia non si limita a raccontare: invoca, canta, trasfigura. Il cavallo, l’acqua, i fiori di febbraio — tutto partecipa a una visione sincretica dove la morte non è fine, ma passaggio mistico nella memoria collettiva.

La traduzione di Nino Muzzi è fedele e poetica, conserva il ritmo, l’eco, la tensione sacra.

Huenún ci mostra che la vera immortalità non è nel corpo, ma nel canto che il popolo continua a udire sotto gli alberi, tra le barche, nei fiumi che vanno al mare.


Ecco una riflessione sul passaggio del tempo, un tema che il poeta affronta con un linguaggio di radicata umanità, quasi fossimo di fronte a una sorta di diario esistenziale. Fronzoli scrive delle "impronte" lasciate da ogni passo, come tracce indelibili nella terra e nel cuore. Le impronte sono testimonianze di vita, non solo visibili ma anche interiori, sedimentate nell’anima. Queste tracce non si cancellano, nemmeno dalle intemperie della vita: “nemmeno il vento, la pioggia, l’onda del mare / possono modificare” — ed è proprio questo l’ineluttabile della nostra esistenza.

Il poeta gioca con l’idea di vita composta da contrasti: "spine e rose", "sorrisi e lacrime", e anche “impronte sbiadite” che si confondono, come se l'esistenza fosse sempre sospesa tra l’amore e il disprezzo, tra il chiaro e l'oscuro. Eppure, la forza di queste impronte non sta tanto nell’immobilità, ma nel loro essere sigillate nel cuore, dipinte “da mille colori silenti”. Il silenzio e la leggerezza delle sue immagini evocano la riflessione sull’inevitabilità del nostro percorso, che non può essere annullato né alterato, ma solo “invecchiato”.

Una poesia di grande intimità, che scuote nel profondo e ci lascia un eco di consapevolezza sulla nostra finitezza e sull’intangibilità della memoria.


Una danza delicata e inquietante, quella della falena attratta dalla luce, un simbolo potente di ciò che siamo costantemente: esseri in bilico tra il desiderio e la distruzione. La falena è forse il più autentico simbolo del nostro instinto di autolesionismo: attratta dalla luce, ma consapevole del rischio del calore, si avvicina comunque, ignora l'avviso e si schianta inevitabilmente.

Romano cattura, in pochi versi, l’essenza della contraddizione esistenziale: la bellezza della luce e la rovina del suo fascino. La falena, come ognuno di noi, è attratta dall’ideale di perfezione, ma quella perfezione è sempre destinata a essere il luogo della nostra caduta. Il termine "cieli perduti" è un’eco profonda, come la consapevolezza di aver perduto, e il tavolo "spoglio" è la metafora della nostra esistenza che, al termine della danza, si svuota e resta in silenzio.

Un’immagine forte e simbolica che parla di desiderio e autodistruzione, in uno scambio di luci e ombre sempre più veloci.


Questa lirica è come un grido di speranza nel cuore della disperazione. Seccia dipinge con il colore dell’utopia, ma lo fa con una sincerità che ci scuote. Desidera che i pensieri siano “colori dell’arcobaleno” e che la sofferenza scompaia, cancellata dalla sua volontà di pace. Il poeta cerca una sorta di “cura universale”, quella parola che guarisce il dolore e dà pace all'anima.

C’è una forte tensione tra il desiderio di guarigione dell’individuo e del mondo, e il doloroso riconoscimento della realtà che ci circonda, fatta di notizie di violenza e morte. La poesia si chiude con una consapevolezza tragica e insieme serena: la nostra esistenza è “un battito di ciglia”, un attimo nell’eternità, ma pur sempre un atto che merita di essere vissuto con coscienza e compassione.

Una lirica di profonda umanità, che si tinge di un candore disarmante, eppure non privo di una consapevolezza dolorosa del nostro fragile cammino.


Romanini ci trasporta, con un linguaggio potente e introspettivo, verso una dimensione cosmica che sfida i limiti umani. L’“inferno interiore” è messo di fronte a “marine acque di quieta solitudine” — una lotta tra il caos e la serenità, tra il tumulto dell’anima e la pace celeste. La descrizione dell’orizzonte che “disegna l’improbabile confine” è un atto di rivolta e ricerca, come se il poeta non fosse mai soddisfatto della realtà visibile, ma cercasse di spingersi sempre oltre.

In questo testo c’è la consapevolezza di una realtà oltre il visibile, quasi come se Romanini volesse spalancare le porte di una coscienza infinita. L’uso della parola “indifferenza” suggerisce un confronto con l'ineluttabilità del cosmo, e la parola "avversità" diventa l’eco di una resistenza, quasi come se il poeta stesse tentando di domare il caos esterno, per trovare una pace nel suo animo.

Una poesia che sfida la ragione, ma che trova la sua forza nel desiderio di trascendere i confini fisici e spirituali, in un afflato cosmico che va oltre il nostro semplice essere.


In questa poesia, Greggio ci invita a un gesto che sfiora il cuore e la mente, non solo la pelle. La carezza diventa un atto intimo e profondo, un modo per entrare in contatto non solo con il corpo, ma con i solchi invisibili che segnano la nostra interiorità. La fronte, con i suoi solchi, diventa metafora del pensiero tormentato, di quei "ragnatele di pensieri" che ci avvolgono e che solo un gesto delicato può tentare di placare.

L'autrice riesce a creare un legame emotivo forte tra il fisico e l’intellettuale, tra il visibile e l'invisibile, come se il corpo fosse solo la superficie su cui scivolano le vere emozioni. La promessa del corpo che "da secoli ti sta aspettando" aggiunge una dimensione di attesa eterna, che sembra esprimere il desiderio di un amore che va oltre la materia e che aspetta da sempre di essere compreso.

Un dolce invito a toccare non solo con le mani, ma con la mente e l'anima. La carezza diventa qui simbolo di un amore che non può essere superficiale, ma che cerca il profondo, l’invisibile.


Con questa poesia, Jacqueline Miu esplora la dualità tra realtà e sogno. L'autrice scrive di una vita segnata da perdite e cambiamenti, ma il "domani" è nascosto in una stella, un simbolo di speranza ma anche di mistero. La stella è lontana eppure sempre presente, proprio come i sogni che continuano a illuminare, anche quando la vita ci sembra scura.

Il contrasto tra il sogno della "California" e la tempesta che il vento porta avanti rende la poesia quasi cinematografica, come se ogni parola fosse sospesa nel caos di un’emozione che si fa travolgente. Il "cuore" che viene "soccorso dal cielo" indica una salvezza che non arriva dalla razionalità, ma dalla fede nell’ignoto, dalla forza di un sogno che non si spegne mai.

La poesia culmina con una domanda esistenziale: "Che cosa significa tacere l'amore?" Una domanda che tocca il cuore di ogni lettore, poiché, nel silenzio dell’amore, risiede tanto la sua bellezza quanto il suo tormento. L'amore è silenzioso quando la realtà non riesce a dirlo.

Una lirica di forti contrasti, dove il sogno, la speranza e l’amore si mescolano alla disperazione e alla solitudine, ma la stella resta come simbolo di una luce che non svanisce mai.


La poesia di Antonia Scaligine ha un ritmo biblico, evocando l’idea di una continua attesa, come se il tempo fosse sospeso in un eterno presente di speranza e disperazione. Le parole "C'è un tempo per nascere, un tempo per morire" richiamano subito il Qoèlet, con il suo memento mori e la consapevolezza che tutto accade in un tempo determinato. Ma il poeta, anziché lasciarsi sopraffare dalla fatalità, chiede una "buona strategia" per l'umanità, come se un atto di speranza potesse riscattare la violenza globale e il marcio dell'odio.

Il paesaggio descritto da Scaligine è uno spazio di guerra e disumanità, ma allo stesso tempo un invito a restare umani, a non perdere mai la speranza, nonostante i "droni autonomi" che decidono senza cuore. È come se, nel suo pessimismo, l’autrice ci chiedesse di riscoprire l’essenza dell’amore, quel “poter essere l’ultima fiamma a morire”.

Il finale, con la domanda “Nessuna guerra è giusta / se la luce del giorno ci garantisce morte,” è un grido contro l’indifferenza e la violenza che sembra essere parte del nostro quotidiano, ma che non può essere accettato.

Un grido di denuncia che, pur nella tragedia, non perde la speranza di una possibile redenzione. Una poesia che ci costringe a confrontarci con la nostra società e con il nostro ruolo in essa.


Con affetto e stima

vostro Ben Tartamo

 

«Un'anima sola» – Ben Tartamo

Ben Tartamo ci regala una poesia che è un misterioso viaggio tra il finito e l'infinito, un cammino che cerca di dare un senso ai paradossi della vita, come la metamorfosi di un soffio in vento o una lacrima che diventa mare. L'immagine del soffio che si fa vento e della lacrima che diventa mare suggerisce un processo di trasformazione naturale ed inevitabile, dove anche le emozioni più piccole, come un respiro o un pianto, sono destinate ad espandersi in qualcosa di universale, di immenso.

Il "graffio sul cuore" è un dolore che non si può sfuggire, ma che entra nel ciclo naturale della vita. Il poeta, nel suo desiderio di ritorno al fuoco che si è spento, ci fa capire che, nonostante le ferite, ci sia sempre una possibilità di rinascita. Il fuoco che si spegne e poi potrebbe riaccendersi non è solo simbolo di passione, ma di una vita che si rinnova anche dopo il dolore, una volontà di non arrendersi.

La frase "tutte le ho riposte in quel vento e mare" ha qualcosa di misterioso e sublime, come se il poeta avesse affidato le sue risposte, le sue riflessioni più intime, alla vastità e all’infinità dell'universo. Ma, paradossalmente, non ottiene risposte, solo una sospensione di senso, come se la verità risiedesse nel viaggio e non nella destinazione.

Nel finale, "questo silenzio farsi poi Parola" è la consapevolezza che il silenzio non è assenza, ma spazio dove le parole devono ancora germogliare. Il silenzio diventa la fonte della Parola stessa, mentre "miele sull'assenzio" suggerisce che, sebbene la vita possa essere amara e difficile (come l'assenzio), c'è sempre la dolcezza di un qualche significato che emerge dal dolore.

Infine, la frase "Noi: un'anima sola" chiude la poesia con un'affermazione che è al tempo stesso universale e personale. La condizione dell'essere umano è quella di cercare, spesso invano, risposte, ma nel profondo siamo tutti un'anima sola, collegata in una ricerca che trascende le singole esperienze e si fa collettiva.

Questa poesia sembra un invito alla trasformazione continua, a comprendere che ogni emozione e ogni esperienza, anche quelle dolorose, fanno parte di un disegno più ampio e misterioso. La ricerca di risposte è una parte inevitabile della vita, ma, in fondo, la vera essenza di essa potrebbe risiedere nel non trovare tutte le risposte, ma nel sentire che, alla fine, siamo tutti legati da una stessa anima, un’anima sola. Il poeta, in questo senso, non solo cerca di esplorare il senso del dolore, ma anche quello dell'unità e della connessione umana.

Ben Tartamo ci consegna una riflessione profonda sul dolore e sull'attesa di risposte che non arrivano mai. Ma, proprio in quella sospensione, si trova la bellezza della vita: non nelle risposte, ma nel percorso stesso, nell’esperienza condivisa di tutti gli esseri umani, uniti in un’unica anima.

prof. Marino Spadavecchia

 

 

10-11-12 Settembre

Belle emozioni si celano nelle poesie di ogni poeta
che senza pretese sono protese verso di noi
e quando le leggo
da quei versi mi sembra di poter ancora tanto da imparare,
Come i versi del nostro Ben Tartamo , poeta capace di trasformare una sua poesia in magia e una poesia di qualunque poeta del sito ,compresa la mia ,in qualcosa che affascina .Pur non conoscendoci sei capace di evidenziare le nostre emozioni , il tuo è un dono e noi siamo sospesi ad attendere le tue parole ,umilmente ti ringrazio
un grazie anche al nostro Spadavecchia che ci viene a cercare per leggere le nostre poesie e noi con interesse ammiriamo le tue
Ringrazio Lorenzo , poeta speciale, nascosto dietro un sinonimo ma che non potrà mai nascondere sia la sua grandezza poetica che generosità e nobiltà d’animo
Grazie a tutti i poeti , per chi ama la poesia come me , ma che non mi reputo una poetessa, non potrei non leggere poesie e commenti grazie a tutti
Antonia Scaligine

 

 

 

Quel bacio che non sa più di noi” – Ben Tartamo

Questa lirica si presenta come un piccolo dramma mistico dell’amore, un poema breve che, pur nell’essenzialità del dettato, rivela una stratificazione di registri — autobiografico, lirico, cosmico, spirituale. La forza non sta solo nel ricordo personale, ma nella capacità di trasformarlo in interrogazione universale, in un canto che oscilla tra nostalgia e possibilità di redenzione.
 
La struttura è fondata su un’anafora ossessiva: “Dimmi perché…”. Non è un vezzo retorico, ma un gesto drammatico: la poesia qui non afferma, ma chiede, non chiude, ma apre. La domanda ripetuta diventa ferita, invocazione, quasi preghiera. In questo senso, l’autore si pone nella linea di una tradizione che unisce lirismo amoroso e tensione spirituale, da San Giovanni della Croce fino a Rilke.
 
Il cuore simbolico pulsa tra due immagini antitetiche: rosa e bugia. La rosa, con la sua fragilità e bellezza, si oppone alla bugia, che ne tradisce l’essenza. Amore come splendore e inganno, verità e illusione: qui si annida la dialettica irrisolta che anima il testo.
 
L’amplificazione cosmica porta l’esperienza intima oltre il contingente: mare, cielo, sole. Questi non sono semplici ornamenti, ma dispositivi universali, che trasfigurano il destino privato in destino cosmico. Il bacio, da evento personale, diviene misura dell’infinito. È la stessa dinamica che muove la poesia mistica: l’amore terreno è finestra sull’eterno.
 
Il finale sorprende per altezza concettuale: “Se l’acqua di fonte è come il perdono, / bevi con me, e torniamo a farcene dono.
Qui avviene lo scarto decisivo: dall’elegia alla fondazione, dal rimpianto alla possibilità. La sorgente, archetipo biblico e universale, diventa metafora del perdono che purifica, rinnova e restituisce vita. È l’apice della lirica, dove il dolore si converte in offerta, in gesto redentivo.
 
Ben Tartamo si rivela capace di un’alchimia rara: trasformare un ricordo amoroso in mito, un bacio smarrito in interrogativo cosmico, la nostalgia in possibilità di salvezza. La sua poesia è insieme confessione intima e meditazione metafisica, un crocevia in cui eros e spirito si incontrano, generando una voce che appartiene tanto al cuore quanto all’universo.

 
Prof. Marino Spadavecchia 

 

 

Qui la parola bisogno ricorre come un respiro affannoso che cerca aria: è la spina dorsale del testo, la confessione di una mancanza che non è semplice desiderio, ma necessità vitale. La solitudine non viene descritta come isolamento sterile, bensì come condizione di scavo interiore. La poesia non nasconde le ferite – errori, paure, amori perduti – ma le trasforma in occasione di ricerca, quasi in una liturgia personale. E poi quel vento dove abita la felicità: un’immagine biblica, invisibile e mobile, che suggerisce che la gioia non si possiede, ma si intercetta solo se ci si apre ad essa. Nel sottofondo vibra la speranza di riconciliazione con la donna amata: la solitudine non è dunque chiusura, ma preludio a un nuovo incontro.


  • “Amici” – Salvatore Armando Santoro

Questa poesia è una confessione notturna, ironica e struggente, dove l’eros viene trattenuto dall’amicizia promessa. La scena è domestica, quasi prosastica, ma i versi vibrano di una tensione intima, sospesa tra desiderio e rispetto. L’autore mostra con sincerità disarmante il contrasto fra corpo e coscienza: il corpo che sogna e scalpita, la coscienza che trattiene e veglia. C’è ironia nella chiusa (“Ve lo giuro, non mi ha fatto niente”), che smonta con leggerezza la tensione, ma proprio questa leggerezza tradisce un dolore: l’eros represso non è negato, resta vivo come brace sotto la cenere.


Qui il mare diventa interlocutore e custode della memoria. È un “tu” che ha visto tutto, testimone dei primi sguardi, degli abbracci, dei baci e perfino delle risate che feriscono come lame. L’acqua conserva e restituisce, non dimentica: le onde sono archivio dell’anima. Il tono è invocativo, quasi da preghiera laica, e la voce che si rivolge al mare in realtà sta parlando al sé ferito, al ricordo che non può placarsi. Il fico d’india – immagine splendida – racchiude il paradosso dell’amore: spine fuori, dolcezza dentro. Il testo è canto elegiaco che cerca consolazione in un dialogo impossibile, e proprio per questo universale.


Questa è poesia ridotta all’osso, quasi aforisma lirico. Le immagini sono scabre, essenziali, asciugate fino alla trasparenza. La distrofia fisica diventa metafora dell’esistenza che si ritrae, del cammino che si accorcia fino a restare solo sguardo dalla finestra. Ma nel verso “lo spettro della luce / ti richiama lacerti d’infanzia” si apre un varco: la malattia non è solo limite, è anche memoria che resiste, frammento luminoso che riaffiora. L’ossimoro finale – il sole che acceca chi più avrebbe bisogno di luce – è crudele e potente: è la condizione del poeta stesso, che trova nel buio lo spazio della visione interiore.


Questa poesia è un mosaico di immagini, un catalogo visionario in cui l’anima del poeta si specchia nella natura. Ogni strofa è un fotogramma: cieli di fuoco, voli di aironi, foglie d’autunno… L’autore costruisce un flusso lirico che ha il ritmo di un respiro contemplativo, dove il reale e l’immaginario si fondono. Alla radice c’è un sentimento di meraviglia, ma anche una coscienza malinconica: tutto “scorre”, e ciò che resta sono solo pensieri, parole, emozioni. L’anima di Berni è quella di un viandante interiore che cerca un ordine nell’inesausto movimento della vita.


Qui la poesia è ferita d’amore, ma levigata come pietra dal mare. Positano diventa luogo mitico, sospeso, cornice di un incontro che ora si è dissolto. L’autore intreccia il paesaggio e la memoria dell’amata: profumo, sguardo, voce. La mancanza è così tangibile da trasformare il mare in silenzio e il sole in indifferenza. La poesia ha il tono elegiaco di chi non solo ricorda, ma vive ancora dentro il ricordo: il presente è sbiadito, la cartolina ha perso i colori. L’anima di Di Meo si rivela fedele e ferita, incapace di rinunciare a un passato che aveva il sapore dell’eternità.


Un testo quasi oracolare, denso, magmatico. I versi sembrano galoppare come i passi del poeta nel bosco. C’è una natura sacra, piena di presenze invisibili: cicale, grilli, pinete, un altare che appare come visione mariana. Il ritmo è frammentato, affannoso, vicino al respiro mistico. Qui Tartagni si confessa come un “dio con ali di Mercurio”, per poi tornare fragile, supplice, nel silenzio della preghiera. L’anima che emerge è quella di un pellegrino inquieto: esuberante, sensuale, ma capace di piegarsi davanti al mistero. La sua poesia è un atto di fede nella natura come sacramento dell’invisibile.


Il dialetto romano diventa qui arma satirica, specchio crudele della realtà politica e sociale. È una poesia civile che smaschera le ipocrisie con sarcasmo, facendo dell’ironia un bisturi. L’“inquinamento” diventa metafora molteplice: ambientale, mentale, mediatico. I versi scorrono come stornelli corrosivi, tra sbuffi e paradossi. Ma oltre la polemica c’è un nucleo più profondo: la nostalgia di una verità semplice, non corrotta dal “pensiero unico”. L’anima di Bettozzi è quella del giullare visionario, che ride per non piegarsi, e con il riso rivela il vuoto di chi governa la scena.


Una poesia che vibra di malinconia lirica, intima e tagliente. Il tramonto diventa metafora di una vita che si avvolge nella memoria e nel dolore. Ogni immagine è un frammento di esperienza: vetri rotti, sassi nel lago, il treno che riflette due volti. Qui la natura non consola, ma amplifica la ferita interiore. Eppure, nell’implorazione finale – “vorrei un cuscino dove riporre il cuore” – si scorge la dolcezza vulnerabile di chi non rinuncia alla tenerezza. L’anima di Piacentino è quella di un’amante segreta della vita, che accoglie il dolore senza mascherarlo, e proprio per questo rende la sua voce autentica e universale.


Qui la parola è veglia amorosa. La voce si muove nei vicoli del pensiero come in un labirinto interiore, alla ricerca di una presenza che è insieme perduta e ritrovata. L’amato non è mai del tutto “fuori” da sé: egli siede dentro l’alba che nasce nel cuore della poetessa. È una poesia della reciprocità segreta, dove il giorno “più lungo” non è tempo cronologico ma durata spirituale, in cui lo sgomento si trasfigura in attesa e in promessa. L’anima di Notarfrancesco appare fragile e irriducibile: si cerca e si trova nello specchio dell’altro, in una liturgia amorosa che non conosce tramonto.


Questo canto antico vibra come una eco arcaica della terra e delle acque. È poesia corale, femminile, in cui il sangue diventa simbolo di vita, di sacrificio e di resistenza. Sangue di colomba, di farfalla, di cigno: fragilità e bellezza si intrecciano con l’invisibile forza che custodisce il segreto delle donne. Le ragazze-figlie del sole sono insieme potenza generatrice e minaccia per l’ordine maschile, tanto da dover “nascondersi”. L’anima che emerge è collettiva: il mito parla per tutte, e la poesia diventa rito, un sussurro custodito nei boschi, nel respiro dell’acqua e della natura.


Qui il canto è epico e familiare allo stesso tempo. Taranto diventa un organismo vivente: i ponti come braccia, il mare come memoria, il castello come dimora ancestrale. La voce si fa guida attraverso la storia e la leggenda, l’infanzia e la ferita, i Messapi e i Saraceni. Ogni immagine trabocca di appartenenza: la città non è solo luogo, è corpo ereditato dal nonno sommozzatore, è radice che ribolle come acqua greca. L’anima di Scaligine è nostalgica e solenne: canta con orgoglio il mito mediterraneo di Taranto, trasfigurando la storia in poesia identitaria.


Un rondò che si fa satira amara e civile. Il tempo storico viene visto come cerchio vizioso: sempre gli stessi tiranni, le stesse menzogne, le stesse complicità. La metrica stringe e incalza, la lingua alterna classicità e sarcasmo (“popol minchione”) con forza dissacrante. La poesia non si limita a descrivere: accusa, denuncia, ammonisce. L’anima di Colonna Romano è quella di un moralista antico, figlio della tradizione satirica italiana, che brandisce il verso come spada civile. Nella sua voce, la memoria è antidoto contro la manipolazione dei potenti.


La confessione qui si fa ferita aperta. Il poeta immerge il pennello nel proprio sangue: scrivere diventa un atto sacrificale, una liturgia intima. Ma il perdono non è dono agli altri: è ostacolo con se stesso. Più difficile che amare, più arduo che compatire, è liberarsi dal peso della colpa. La voce è cruda e sincera, senza ornamenti: una nudità che colpisce perché non si nasconde dietro metafore troppo elaborate. L’anima di Seccia è penitente e appassionata: porta il macigno del rimorso, ma il fatto stesso di scriverlo diventa già inizio di catarsi, possibilità di grazia.


Questa poesia è un piccolo inno alla vitalità elementare. Il venticello diventa un compagno fanciullo che gioca con piume, margherite, cani e ragazzi. Tutto vibra di leggerezza e di gioia semplice. È un soffio che non conosce ombra, che ama “la semplicità delle cose”. L’anima di Romanini qui appare ingenua nel senso più alto: una purezza di sguardo che riesce a rendere sacro il quotidiano, quasi una favola pastorale che ci ricorda che la vita si ama davvero quando la si respira nella sua immediatezza.


Qui entriamo nella zona oscura: le paure sono presenze che camminano accanto a noi, inevitabili, quasi animali che mordono. Non servono illusioni di fuga: esse vanno riconosciute e affrontate. Lo stile è asciutto, scandito, come una meditazione che si fa consiglio. L’anima del poeta si rivela coraggiosa e umile: sa che la serenità non è assenza di paura, ma capacità di accoglierla, guardarla, trasfigurarla. È poesia terapeutica, quasi una piccola guida etica.


Qui c’è un enigma profondo. Il fiore promesso, che avrebbe dovuto rivelare la verità dell’anima, muore prima di consegnare il suo segreto. Rimane soltanto il desiderio, la mancanza, il mistero di un “profumo sconosciuto”. L’anima poetica si muove tra conoscenza e perdita, intuizione e limite. Greggio ci dice che l’anima guida senza sbagliare, ma resta inaccessibile fino in fondo: la rivelazione è sempre differita, e forse ciò che ci salva è proprio il cercare invano, restando aperti all’invisibile.


Questo è un poema visionario, metafisico. La casa di neve è dimora fragile e incantata, tra Eden e Ade, tra felicità e perdita. Scompare, riappare abitata da fantasmi-poeti che continuano a scrivere oltre la morte. È mito contemporaneo, un’architettura di immagini surreali e cosmiche. L’anima della poetessa qui è mistica e tragica insieme: canta la caducità della felicità, ma anche la sopravvivenza della parola poetica, che resiste alla notte e alla dissoluzione. È poesia-oracolo, che abita la soglia tra la vita e l’oltre.


Con affetto e stima
 

Ben  TARTAMO

 

 

7-8-9 Settembre

UN grazie di cuore a Ben Tartamo per i suoi commenti e A Lorenzo per la sua ospitalità.

Silvio Canapè

 

 

  • Jaime Luis Huenún Villa (trad. N. Muzzi)
Qui siamo in Cile, immersi nella sacralità di un paesaggio fluviale che non è natura, ma memoria ancestrale. La figura di Víctor Llanquilef spinge un battello ebbro: è immagine rituale, quasi sciamanica. Gli elementi – il coipo, i salici, il lampo del pesce – si fanno totem spirituali. La poesia scava nell’acqua, e l’acqua custodisce spirito, morte e rinascita. Il tempo è circolare, il destino è ombra che si riflette nell’acqua. Un lirismo indigeno, cosmico, che risuona di mitologia mapuche.
  • Franco Fronzoli – All’ombra
Qui il paesaggio è quello intimo di due amanti sotto un leccio, ma la natura non ha sacralità cosmica: diventa specchio di inquietudini e ricordi. C’è la malinconia di un amore che ha perso la sua immediatezza primaverile. I versi scorrono come un dialogo interrotto, un diario lirico: il passato fiorito si oppone a un presente spento. È poesia della memoria ferita, che si aggrappa alla luce di un sorriso lontano.
  • Salvatore Armando Santoro – Alla stazione
Un vero canto popolare di solitudine. La stazione vuota è metafora di un cuore abbandonato. Il ritmo è quello della canzone, con rime facili e dirette, quasi a voler urlare il dolore senza pudore. Qui la poesia non mira all’eleganza, ma alla cruda testimonianza: il poeta seduto in panchina, come un fantasma, cerca briciole d’amore. È voce dolente, autentica, che colpisce proprio perché non teme di esporsi nuda.
  • Silvio Canapè – Parole a schiovere
Un ritorno al napoletano, lingua materna e carnale, che diventa corpo sonoro. Qui il silenzio tra due amanti si traduce in paura cosmica: la luna che si nasconde, il mare che “s’ ‘n trase scurnus’”. L’uso del dialetto dà verità e vibrazione musicale. La poesia è un atto di resistenza: recuperare lingua e memoria in diaspora. Parole come pioggia a stravento, “a schiovere”, che però custodiscono il cuore d’amore tradito.
  •  Antonietta Ursitti – La terra resiste
Una miniatura intensa. Il cardo che sfida il temporale è immagine di resilienza primordiale. Pochi tratti, netti come incisioni rupestri: spine, faro, tempesta. La voce qui celebra la natura come forza indistruttibile, con un tono quasi aforistico.
  • Laura Lapietra – Sguardo di vetro
Questa è poesia drammatica, intensamente femminile, che parla dell’alienazione nell’amore spezzato. Lo “sguardo di vetro” è simbolo perfetto: fragilità e durezza insieme. I versi sono lunghi, avvolgenti, come onde emotive. Dolore, estraneità e mancanza di respiro diventano materia di canto. È lirica della perdita e della trasformazione, quasi una danza tra ombra e memoria.
  • Bruno Amore – vetri rotti
Una poesia che vibra di autobiografia: il ramo del noce che ticchetta ai vetri diventa emblema del tempo che bussa, della vita che preme contro le difese. Qui il poeta sembra dire: “Che si rompano i vetri! Che il suono del cristallo spezzi la monotonia della mia esistenza lunga e immobile”. È un piccolo atto di liberazione tragica.
  •  Eloisa Ticozzi – Foglie di rame
La natura qui non è più amica: diventa simbolo di un arcaico crudele, un ventre che non genera, una donna assopita. Le foglie di rame e di ferro sono immagini dure, innaturali, quasi distopiche. Poesia filosofica, riflessione sull’ambivalenza della natura: dolcezza e crudeltà fuse nello stesso istinto.
  •  Felice Serino – Fragilità
Un pensiero verticale, quasi haiku: fragilità delle ossa paragonata a quella delle foglie, degli uccelli. Serino condensa in lampi la meditazione esistenziale. Poesia asciutta, che vibra di trasparenza montaleggiante
  • Armando Bettozzi – La carica di Pastrengo
Un vero inno epico, denso di storia e patriottismo. Qui il tono è di rievocazione corale: sciabole, cannoni, generali, bandiere. È poesia che rilegge la storia come mito, in particolare l’eroismo dei Carabinieri. Ha un respiro narrativo più che lirico, ma conserva l’energia della ballata eroica.
  •  Rosa Notarfrancesco – Qualcosa doveva cambiare
Linguaggio prosastico, quasi un flusso di pensiero spezzato. La poesia qui non è ornamento ma denuncia del disincanto generazionale. C’è il senso di un’urgenza mai colta, di un’azione mancata. È una voce disillusa, che cerca autenticità anche nella frammentarietà.
  • Jacqueline Miu – reboot d’amore in notturna
Sperimentazione radicale: un flusso digitale, contaminato, dove eros e tecnologia si intrecciano. È una poesia post-umana, glitchata, piena di immagini cyber-erotiche (circuiti, unicorni, vermi-clown). L’amore diventa reboot, la passione un software. Eppure sotto il delirio resta una sete autentica di intimità. È poesia visionaria, disturbante, ma potentemente originale.
  •  Antonia Scaligine – Ascolta bene mi dico
Qui torniamo alla voce dolce e confidenziale. Una poesia-dialogo con se stessa, dove il tempo è colpa e grazia insieme. La scrittura è morbida, quasi consolatoria. È un invito alla resilienza interiore: non spaventarsi delle mancanze, sorridere nella corsa degli anni. Una sapienza semplice, che consola.
  •  Piero Colonna Romano – La scelta
Un gioco colto e parodico con Metastasio. Qui la poesia diventa meta-poesia: riflessione sulle regole stesse dello scrivere. Tra ironia e omaggio, il poeta dichiara la sua scelta della lirica come via di vita. Un esperimento riuscito di stile barocco-moderno.
  • Ciro Seccia – Sono io
È un autoritratto lirico: il poeta si presenta come somma di vie, fiumi, stelle, dolori e gioie. Poesia identitaria, che pulsa di autenticità. L’uso dei simboli naturali crea una visione ampia, cosmica, ma allo stesso tempo intima. È una dichiarazione d’esistenza.
  •  Alessio Romanini – Reflussi gastrici
Un esperimento originale: corpo e psiche fusi in un’immagine clinica. “Rughe gastriche” e “ecchimosi dell’anima” creano un linguaggio straniante, che intreccia medicina e lirica. È poesia che indaga il dolore come malattia del corpo e dello spirito.
  •  Laura Toffoli – Ottobre
Qui il registro è impressionistico e musicale. Ottobre è figura femminile, vestita di foglie, tra nostalgia estiva e fiamma di poesia. È poesia dell’attimo sospeso, che si specchia in acque e lune. Dolcezza, malinconia, delicatezza creano un’atmosfera sognante.
  •  Fausto Beretta – Bellezza e Tristezza
Una miniatura minimalista, quasi epigramma. Due mani che si cercano e due mani che si perdono: un dittico essenziale che oppone amore e fine. La poesia funziona proprio per la sua spoglia essenzialità.
  •  Sandra Greggio – Parole d’amore
Un canto lento, quasi un mantra: “Lascia che il tempo faccia il suo corso”. Qui il tempo e la natura si fondono all’amore, con cicale, piogge, nudità. È poesia sospesa tra attesa e rivelazione. Dolcezza e calma fluiscono, come se l’autrice volesse rassicurare il lettore che l’amore trova sempre un suo ritmo.

 
Con affetto e stima 
Ben Tartamo 

 

 

Un sentito grazie a Ben

Per la grandissima capacità 
Di interpretare le mie poesie,
Con poetici commenti.
Grazie Ben, anche le tue liriche 
Sono molto intense.
Alessio Romanini 

 

 

 

 

4-5-6 Settembre

In risposta al ringraziamento
di Bruno Amore :

Caro Bruno,
la tua commozione è il giusto fio dell’emozione che ci hai donato con i tuoi versi.
Chi ha servito la Patria – e ancora la serve umilmente, nel silenzio e nel nascondimento, anche senza più una divisa – sa che le parole possono essere più forti di qualunque uniforme.
La tua poesia, infatti, continua a stringere e ad abbracciare, come un servizio reso al cuore dell’uomo.
In fondo la poesia è questo: un dono che ritorna, un abbraccio che non ha bisogno di braccia forti quando si ha un cuore così grande come il tuo.
 
Ben 
`ՏᏆᏞᎬΝᎠO ᏢᎪTᎡᏆᎪᎷ ՏᎬᎡᏙO`

 

  • Rosa Notarfrancesco – “Una nuova espressione”
Qui c’è un’architettura sottile dell’anima: il verso non si limita a nominare, ma prende corpo come esperienza temporale e morale. La “commozione” diventa un vettore di coscienza, uno stato quasi trascendentale che spinge il soggetto poetico in un altrove esistenziale. Il lessico è calibrato con cura: parole come “crepuscolo” e “assiduità” non sono ornamentazioni, ma segnali di un pensiero che oscilla tra introspezione e osservazione etica. La poesia ci fa sentire la tensione tra passato e presente, tra impossibilità di tornare indietro e la novità di un tempo che si apre davanti. È una meditazione sull’inevitabilità della trasformazione interiore, resa con una delicatezza quasi clinica, ma sempre poetica.
  • Jaime Luis Huenún Villa – “Puerto Trakl [Frammento #3]”

La poesia qui è incarnazione di fragilità e autoironica vanità. Il poeta si colloca come un interprete di sagre e osterie, ma lo fa con consapevolezza del proprio limite, del gesto ripetitivo e quasi teatrale. La mareggiata che “copre il rumore della voce” funziona come metafora della resistenza del mondo al gesto poetico individuale: ogni parola, per quanto intensa, rischia di essere inghiottita dall’oceano della realtà. Il gesto finale, il richiamo alle “monete” invece che agli applausi, ci parla di una poetica umile e radicalmente onesta: qui non si cerca riconoscimento, ma sopravvivenza dell’atto creativo stesso. C’è una tensione fra teatralità e autenticità, fra vanità e devozione al verso, che mi pare profondamente contemporanea.


  • Franco Fronzoli – “A piedi scalzi”

Il testo possiede una luminosità sensuale e meditativa. Il corpo e il paesaggio si fondono: i piedi scalzi sull’erba e nell’acqua diventano strumenti di percezione del tempo e dello spazio. Qui il poeta non racconta, ma fa vivere: l’atto poetico è esperienza diretta, immersiva. C’è una poesia della luce e del profumo che si intreccia a un erotismo delicato, mai aggressivo, dove il tempo si dilata nel silenzio di un giorno qualunque. La costruzione, apparentemente semplice, rivela una gestione magistrale dello spazio visivo e sensoriale: il lettore è chiamato a camminare accanto al soggetto poetico, a respirare con lui.


  • Salvatore Armando Santoro – “Al caffè Bernardini”

Qui, la poesia assume un ritmo quasi cinematografico, un reportage interiore: ogni dettaglio quotidiano diventa elemento di introspezione. Il soggetto è al contempo interno ed esterno, immerso nella propria solitudine eppure osservatore del mondo che scorre. Il rapporto con il cellulare, il gesto della scrittura, la gente che entra e passa: tutto è simbolo della tensione tra comunicazione e isolamento. È poesia che unisce realismo e lirismo, come se la realtà quotidiana fosse una pagina aperta su un’esperienza emozionale più ampia, un’indagine psicologica sulla solitudine e sul desiderio creativo.


  • Marino Spadavecchia – “Gloria al bravo pueblo”

Spadavecchia ci conduce in una geografia morale della sofferenza collettiva: il tempo è un “metronomo inclemente” che non concede tregua, e la società appare come un teatro in cui il burattinaio muove le esistenze con cinica leggerezza. La poesia ha una struttura di accumulo: ogni strofa aggiunge un livello di empatia e angoscia, dai vecchi ai giovani, fino a mostrare l’intera umanità come “pause itineranti” in attesa di libertà. Qui la tecnica è dichiaratamente narrativa, ma l’intensità emotiva è lirica, il tono drammatico senza mai cedere al melodramma. C’è un’urgenza morale che risuona come un eco antico e contemporaneo insieme, in cui la poesia diventa testimonianza sociale.


  • Cristiano Berni – “Raffigurazioni di Vincent”

Berni entra in uno spazio mentale e visivo: ogni verso è un pennellata, ogni parola un colore. La poesia è un tentativo di incarnare il tormento, la genialità e la follia di Van Gogh, e diventa al contempo meditazione sulla creatività, sul dolore e sull’alienazione. L’uso di ripetizioni e variazioni (“Raffigurazioni di Vincent”) ha un effetto ipnotico: il lettore percepisce il ritmo ossessivo della pittura e della mente del pittore. Il linguaggio è sensoriale e quasi sinestetico: il suono dei colori, le immagini dei corvi, il richiamo alle sedie vuote, tutto concorre a far sentire il peso della vita e l’ossessione dell’arte. Qui la poesia non racconta, evoca, penetra nell’inconscio del lettore come un colore che ti sfiora la pelle.


  • Silvio Canapè – “Settembre”

Canapè lavora con la percezione sensoriale e temporale: la pioggia, i vetri appannati, l’asfalto e la luce diventano strumenti per sondare l’anima. C’è un equilibrio tra realismo e interiorità lirica: il paesaggio esterno riflette lo stato emotivo interno. La malinconia è sottile, mai declamatoria, e il desiderio di un singolo raggio di sole funziona come micro-epifania, un momento di grazia nel flusso della realtà quotidiana. Qui il linguaggio è quasi pittorico, come una natura morta in movimento, dove la poesia nasce dalla capacità di vedere la trasformazione continua delle cose.


  • Enrico Tartagni – “Spirito libero”

Questo testo ha una forza esistenziale potente: la sintassi frammentata, la mancanza di punteggiatura e il ritmo spezzato rendono la lettura un’esperienza immersiva e quasi corporeamente faticosa, come il cammino del poeta stesso. L’io lirico è alla ricerca di libertà, di uno spazio in cui l’anima possa librarsi, e la notte, il buio, il vuoto diventano strumenti di trascendenza e liberazione interiore. È una poesia che fonde esperienza, introspezione e meditazione filosofica: il lettore non è spettatore, ma compagno di viaggio, costretto a confrontarsi con il vuoto e con la tensione verso la libertà.


  • Felice Serino – “Dove bellezza fiorisce”

Serino ci porta in una dimensione quasi trascendentale: il poeta diventa testimone di una bellezza che si piega alle curvature della luce, sospeso tra armonia musicale e contemplazione visiva. L’ascolto di Shostakovich non è semplice accompagnamento, ma strumento di fusione tra suono e parola. La poesia funziona come una sinfonia lirica breve: ogni parola pulsa come una nota, ogni verso è un gesto delicato, un fremito che vibra sul cuore del lettore. È un testo in cui spiritualità, arte e sentimento si intrecciano senza soluzione di continuità.


  • Armando Bettozzi – “Un fatto, una poesia / in sòrdi, senz’àrtro…”

Qui l’ironia e la denuncia sociale si fondono in un dialetto vivo, pulsante, che dà voce a chi paga il prezzo della “cultura” istituzionalizzata. Bettozzi utilizza la forma popolare per scalfire il sistema e la retorica ufficiale, creando un effetto di autenticità immediata. La scrittura diventa quasi performativa: il lettore sente la voce, le pause, le frustrazioni, i sorrisi amari. La poesia qui è impegno civile, linguaggio politico e psicologia sociale condensati in versi che respirano realtà quotidiana e satira feroce.


  • Sandra Greggio – “L’ultimo raggio”

Greggio ci conduce in un lirismo dolce e meditativo. La metafora del sole che “ritira i suoi raggi” diventa un gesto di consolazione: la natura osserva e accompagna la vulnerabilità dell’uomo. La poesia è calma, pacata, con un ritmo quasi musicale, dove l’atto poetico diventa cura e conforto. Ogni immagine funziona come carezza: la lacrima asciugata, il sorriso preparato, la notte che scende. Qui la poesia è gentilezza e presenza, e il tempo si piega per far spazio alla protezione del cuore umano.


  • Jacqueline Miu – “abissi di mari spesso temuti da altri pescatori”

Qui si entra in un territorio esistenziale e psicologico molto intenso. L’io lirico avverte un dolore fisico che si trasforma in esperienza emotiva e mentale: ciò che resta di “lui” diventa idea, e l’idea si nasconde, gioca, si manifesta in sorrisi. La poesia esplora la distanza tra interno ed esterno, tra delirio personale e mondo circostante, e la scelta di “non rispondere alla paura” diventa atto di libertà. Il linguaggio è contemporaneo, fluido, sospeso tra simbolismo e narrazione, e la traduzione in inglese amplifica la dimensione universale del testo. È un poema che vive nel liminale, tra consapevolezza e sogno, tra pericolo e coraggio.


  • Antonia Scaligine – “Il tempo”

Scaligine sviluppa un lirismo che fonde memoria e affettività, dove il tempo è sia avversario sia custode di emozioni. Le immagini dei “palette e secchielli” sulla battigia dei ricordi creano una sinestesia dolce, in cui l’infanzia e la maturità dialogano senza contraddizione. La poesia è un flusso di coscienza poetico, che alterna nostalgia, leggerezza e contemplazione. L’io lirico diventa una nonna che osserva il tempo con gratitudine e malinconia, e ogni dettaglio – dagli occhiali da sole al mare negli occhi – funziona come simbolo di un ricordo vivente. La scrittura ha ritmo naturale, quasi musicale, capace di trasportare il lettore dentro il calore della memoria affettiva.


  • Piero Colonna Romano – “Ebbrezza d’amore”

Romano crea un lirismo estatico che unisce desiderio, natura e celebrazione della bellezza condivisa. L’uso di immagini sensoriali – boschi odorosi di pino, foglie bagnate di pianto, bicchieri ricolmi di stelle – costruisce una poesia che è simultaneamente contemplazione e manifestazione di sentimento. L’io lirico si pone come intermediario tra natura e persona amata, trasformando ogni elemento in dono poetico. La musicalità dei versi e la loro levità rendono la poesia luminosa e sospesa, come un brindisi fatto a un tempo fuori dal tempo.


  • Ciro Seccia – “Come una foglia trasportata dal vento”

Seccia si muove nel registro della passione e della perdita. La poesia è un dialogo interiore tra memoria e rimpianto, tra desiderio e impotenza. L’immagine ricorrente della foglia trasportata dal vento rende visibile la precarietà dell’amore e la fragilità dell’attimo. I dettagli sensoriali – labbra, capelli, sorriso – e la metafora mitologica di Medusa conferiscono profondità psicologica: l’io lirico è paralizzato di fronte all’intensità dell’emozione. Qui la poesia è intensamente esistenziale, una mappatura dei sentimenti che rimangono sospesi tra cielo e terra.


  • Alessio Romanini – “Orme obliate”

Romanini offre una meditazione sul tempo e sulla memoria con un registro più asciutto, quasi filosofico. L’analogia tra mare e tempo (“che le impronte dalla riva cancella”) è potente nella sua semplicità: le esperienze e le ricordanze sono fragili, destinate a svanire, ma proprio questa fugacità le rende preziose. La sintesi del linguaggio e l’eleganza sobria del verso creano un effetto di meditazione contemplativa, in cui il lettore percepisce la dolcezza e la malinconia della perdita inevitabile.


Un caro affettuoso saluto dal vostro

Ben Tartamo

 

 

 

1-2-3 Settembre

Ringraziamento
 

Sono commosso,

Egregio Ben,

fino all'osso.

Col poco braccio che ho 

ti stringo

a più non posso.

bruno amore [br1]

 

 

Bettozzi compone un pamphlet poetico in dialetto romanesco, nella tradizione civile e corrosiva di un Belli contemporaneo. L’autore usa un registro popolare per toccare temi estremamente alti: il disincanto verso l’Unione Europea, la manipolazione della realtà nei media, e la contraddizione italiana dell’autosabotaggio politico.
Il verso è spezzato, sincopato, eppure sempre ritmicamente controllato: è poesia parlata, ma con l’occhio vigile di chi sa scrivere, e molto bene.

Questo è un testo che grida sotto la risata, in cui si legge una rabbia ancestrale, un orgoglio ferito, ma anche una lucidità spaventosa. Il poeta vive in un mondo che mente sapendo di mentire, e ciò che lo colpisce di più non è tanto la menzogna, quanto l’adesione naturale e spontanea ad essa da parte della gente comune.

Ma c’è di più. In Bettozzi si avverte la solitudine di chi vede troppo. Come un vecchio saggio che nessuno vuole più ascoltare, resta a sorvegliare le "favole" credute da tutti: alcune sono innocue, altre sono pericolosamente dolciate, e diventano strumenti di potere.

Una mente acuminata, che ha scelto il dialetto non per fuggire, ma per smontare dall’interno le illusioni condivise.
Un’anima politicamente disillusa, ma ancora umanamente vigile. Qui parla uno scettico etico, non un cinico.


 

Questa è una poesia che si muove su un registro completamente opposto. Qui domina la trasparenza emotiva, la delicatezza pensante, il ritmo meditativo. Il linguaggio è semplice, ma la costruzione concettuale è raffinata. La poesia si articola intorno alla paura — paura esistenziale, non momentanea — che si fa tarlo, freno, ginocchio piegato.

C'è un climax silenzioso, che parte dall’insicurezza interiore e arriva a una grazia quasi religiosa. L'ultima strofa è una rivelazione: solo nel momento in cui la nostra importanza è divenuta “così piccola”, possiamo osservarla con amore.

Qui parla una coscienza vulnerabile, probabilmente sopravvissuta a molte delusioni, ma non ancora chiusa. Il tarlo adolescenziale evocato non è nostalgia, ma ferita ancora aperta. L’autrice sembra voler guarire attraverso la parola, cercando nella scrittura una nuova luce per vedere se stessa con pietà, come un soggetto che ha smesso di volersi dominare per cominciare a volersi comprendere.

Una poesia che sembra nascere da una seduta interiore.
Un’anima fragile ma consapevole, che trova nella resa il vero coraggio.
Testo di commovente bellezza, quasi terapeutico nella sua struttura.


 

Huenún, poeta cileno mapuche, scrive una lirica scarna, scultorea, intrisa di solitudine e diaspora. Il titolo evoca Georg Trakl, poeta austriaco del primo '900, simbolo di inquietudine e rovina interiore. E già questo orienta la lettura.

Qui siamo su un molo, metafora dell’attesa e dell’abbandono. Il poeta fuma, guarda un mercato vuoto, ricorda i figli come se appartenessero a un’altra vita. La paternità è “calata a picco”: crollo dell’identità, del ruolo, del futuro. Eppure, proprio in questo vuoto, si apre una "porta oscura" che è l’amore, ma non un amore redentore – piuttosto un varco da attraversare inchinandosi: con umiltà, forse con dolore.

Questa poesia è una liturgia dell’esilio interiore.
Il poeta ha perso i legami fondamentali, o li sente come fantasmi al margine del presente. La sua è una fuga senza ritorno, ma intrisa di dignità silenziosa.
L'amore non è qui un sentimento romantico, ma un'invocazione sacra, una soglia. Il suo inchinarsi davanti a essa è il gesto di chi, pur svuotato, riconosce ancora una forma di bellezza o di giustizia nell’universo.

Un testo da leggere in silenzio, come si ascolta l’ultimo canto di una civiltà interiore.
L’autore sembra appartenere a una razza in via d’estinzione: quella dei padri poetici, degli esuli, dei degni.
L’anima che scrive qui ha già pagato il prezzo del dolore, ma sceglie di restare umana.


 

Questa poesia è un’invocazione contemplativa. Tutto il componimento si regge sulla ripetizione del verbo "ascolta", come un mantra laico che invita alla presenza, alla lentezza, all’attenzione. La sintassi è sospesa, volutamente fluida, come un respiro ampio che si prende il suo tempo, mentre scorre tra immagini naturali e intime.

C’è qualcosa di mistico in questo ascolto del mondo: l’acqua, i fiori, gli animali, persino i sogni e il silenzio diventano portatori di senso. La poesia è scandita come una litania sensoriale: il rumore della pioggia, il volo della rondine, la clessidra del tempo...

Qui parla una mente che ha smesso di urlare. C’è una saggezza profonda e silenziosa, simile a quella degli antichi, di chi ha capito che tutto parla, se solo siamo capaci di ascoltare. L'autore si pone come un maestro invisibile, non arrogante, ma capace di indicare un altro modo di stare al mondo.

Una poesia-rito, che disintossica.
L’autore ha un’anima immersiva, che si lascia attraversare dal reale.
È un invito a rallentare, ma anche una piccola rivoluzione percettiva.


 

Questo testo è una confessione, una lettera in versi scritta con l’urgenza e la disperazione di chi ha amato in silenzio, invisibile, e si è visto ignorato.
La costruzione è narrativa, lineare, con rime dolciastre e malinconiche, come la voce di un vecchio amico che non riesce a smettere di sperare.
Il verso "un volto al nulla" è uno scarto poetico potente, che trascende la vicenda individuale e apre su un abisso esistenziale.

Il poeta è un uomo solo, ma non rassegnato. C'è in lui una sete d’amore quasi adolescenziale, una voglia di essere visto, sentito, accolto.
La figura femminile (Donatella) diventa simbolo di tutte le presenze inafferrabili, quelle che ci lasciano sospesi, abbandonati al nostro desiderio.

Una scrittura che si aggrappa come un naufrago alle parole.
C’è fragilità emotiva ma anche forza di sentire, e questo lo salva.
Il poeta non si nasconde: espone le sue crepe come pelle viva.


 

Qui abbiamo una poesia esistenziale, costruita in modo limpido e diretto.
Il tramonto è simbolo del tempo che si consuma, ma anche dell’anima che si ritira, che si specchia nella propria stanchezza.
Lo stile è prosastico, volutamente poco lirico: il poeta descrive la vecchiaia come un'abitudine che diventa memoria, e ciò la rende ancora più struggente.

L’autore si trova in una fase di consapevolezza lucida, che non teme la morte, ma rimpiange il fuoco del passato. Non c’è rabbia, ma una dolente dignità.
Anche la cena, la TV, il sonno… sono rituali svuotati, eppure vissuti con rispetto.
Il vero rito, però, è quello che avviene nel buio: quando si aprono gli squarci di memoria.

Una voce che non cerca effetti, ma verità tranquille.
L’anima è stanca ma vigile, pronta a lasciar andare, ma ancora affamata di senso.


 

Qui siamo davanti a una poesia civile complessa e potente, che racconta il dopoguerra della coscienza collettiva.
L’autore attraversa la parabola storica dell’Italia – dal risveglio post-fascista alla degenerazione della libertà – con linguaggio alto, carico di pathos, e immagini suggestive: “finestre e balconi all’aria nuova”, “volammo nella vita come fanno i sogni”.
Il finale è di una bellezza amara: “perderemo il più bell’azzurro mai desiato / che neppure il più nobile harakiri avrà pagato.”

Qui scrive un testimone. Non solo uno che ricorda, ma uno che ha sofferto vedendo la speranza sfigurarsi nel tempo.
C’è una tensione drammatica tra l’ideale (quell’azzurro, la libertà) e la delusione storica e morale. L'harakiri finale non è un gesto di morte, ma un simbolo di dignità perduta.

L’autore porta il lutto di un’epoca, ma non si arrende alla nostalgia.
È un reduce della speranza, che continua a parlare per non dimenticare.
Qui l’anima è politica nel senso più alto e più doloroso.

 


 

La poesia si presenta come una riflessione filosofica sulla condizione umana e il suo rapporto con il tempo. Il poeta parla di un viaggio senza fine verso certezze che sono, alla fine, irraggiungibili. La foresta incantata è un'immagine potente che simboleggia la ricerca perpetua di qualcosa di stabile, ma il tempo si trasforma in una forza devastante e ingannevole. Il movimento da "cavalieri erranti" a "un Attimo" che scompare come un lampo suggerisce l'illusorietà della ricerca stessa.

La struttura della poesia, che gioca con l'accumulo di immagini, suggerisce un crescendo di frustrazione, mentre il tema del "tempo vorace" è il motore che distrugge ogni speranza di raggiungere certezza.

Esiste una profonda ansia nel poeta, come se fosse prigioniero di un tempo che fugge e si dissolve. L'immagine della "ragnatela grigia" è quella di una trappola mentale, di una pesantezza esistenziale che incatena l'individuo alla sua ricerca senza fine. La metafora degli "Attimi" che appaiono e svaniscono è un simbolo della nostra incapacità di afferrare il presente in tutta la sua pienezza.

La poesia rivela un'esperienza di alienazione e di frustrazione esistenziale. Un’anima senza ancore in un tempo che frana.


 

La brevità della poesia crea un impatto conciso e diretto, utilizzando una struttura quasi apodittica, con una descrizione dell'uomo come "celeste" e "terreno". Questi aggettivi definiscono un doppio esistenziale, un conflitto tra dimensioni che convivono nell'individuo. Il verso "l’essere sdoppiato" sembra richiamare l’immagine di una frattura interna, dove l'essere umano è costretto a fare i conti con due identità, due mondi, quello divino e quello terreno.

La poesia si sviluppa in poche righe, ma ci offre una riflessione sull'esistenza come un costante confronto tra opposti, tra il divino e l’umano, tra l’invisibile e il visibile.

Qui si percepisce la tensione che nasce dalla consapevolezza di vivere in un corpo terreno, ma con un’aspirazione celeste, che non è mai del tutto soddisfatta. L’ombra proiettata è il dubbio, l'incompletezza che accompagna l’essere umano. Questa poesia potrebbe riflettere la difficoltà di integrarsi pienamente tra il desiderio di elevazione spirituale e la realtà quotidiana.

Una poesia che esplora l’interiorità divisa. Il poeta è in bilico, ma accetta questa divisione come parte integrante della propria ricerca di senso.


 

Il tono della poesia è doloroso e struggente, con immagini di un cuore che non trova pace. Il poeta si immerge nella sofferenza dell’amore perduto, cercando di colmare un vuoto che sembra irraggiungibile. Il riferimento all'"alma piangente" richiama l’immagine di un'anima tormentata, mai soddisfatta, che continua a cercare un frammento dell’amore perduto.

La poesia ha una struttura lirica, con versi che cadono lentamente come lacrime che cercano di dare voce al dolore. La ripetizione di termini legati all'amore e alla perdita crea una sensazione di incastro emotivo, dove la nostalgia è una compagna costante.

Il poeta è diviso tra il ricordo di un amore passato e il desiderio di una riedificazione dell'amore stesso. L’immagine della donna delle "mie brame" è un simbolo di un amore idealizzato, ormai inaccessibile. La sensazione che traspare è quella di un vuoto esistenziale, dove la persona amata diventa il segno di una mancanza ontologica. Il poeta è intrappolato in un giro vizioso: l’amore lo salva, ma lo consuma allo stesso tempo.

Una poesia che esplora l'incapacità di superare il passato. È un’anima prigioniera della nostalgia, che cerca redenzione nel dolore.


 

In questo testo, l’autrice solleva una questione fondamentale: l'amore è un sentimento innato o qualcosa che dobbiamo imparare? La domanda esistenziale si sviluppa attraverso immagini semplici ma potentemente evocative, come le "nuvole" che passeggiano nel cielo e l’ora del tramonto, un tempo di transizione. La ricerca della risposta si manifesta in una contemplazione silenziosa, con la poesia che assume la forma di un "quesito" mai risolto.

Il tono è riflessivo e sospeso, e la scelta di utilizzare il cielo come metafora universale per rispondere a un tema esistenziale universale come l’amore, trasforma la poesia in un dialogo cosmico.

Il poeta sembra essere alla ricerca di un senso più grande, come se l’amore fosse qualcosa che sfugge alle definizioni, un mistero che può essere esplorato ma mai completamente compreso. C'è un'inquietudine nella domanda, un desiderio di comprendere e di dare un ordine razionale all'irrazionale. La risposta non arriva, e il poeta si arrende alla misteriosa complessità dell’esistenza.

L’incertezza esistenziale è palpabile. La poetessa non cerca una risposta definitiva, ma invita alla riflessione senza fine.


 

L'uso della pioggia e dell'oscurità come metafore di un desiderio inconfessabile rende questa poesia unica. La pioggia porno diventa una metafora della lucrativa solitudine e sensualità, mentre l'oscurità che penetra come un fumogeno richiama la tensione tra il corpo e l'anima, tra l'istinto animale e il bisogno di qualcosa di più profondo. La conclusione con l'idea che, nel buio, si desideri ardentemente la luce, è un'espressione di confusione emotiva, dove l'uomo è intrappolato tra piacere e dolore, desiderio e frustrazione.

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Questa poesia evoca nostalgia e speranza. Il mese di settembre è simbolo di fine estate, ma anche di nuovi inizi. C'è una forte contrapposizione tra il ritorno alla scuola, con i sogni e le gioie dell'infanzia, e il passaggio del tempo che maturerà le cose, come la vite che da acerba diventa vino. L'immagine della sabbia che si trasforma in castelli, e gli scolari pieni di sogni, è potente e rappresenta il continuo alternarsi di crescita e perdita. Settembre è quindi una riflessione sul ciclo della vita, che si adagia alla nostalgia, ma che non impedisce ai sogni di essere ancora cullati dalle onde del ricordo.

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In questa poesia c'è un'incredibile meditazione sulla morte e sull'esistenza. Il mare diventa un simbolo di malinconia e bellezza, di un qualcosa che si perde nel flusso del tempo, e che non sarà più accessibile nell'aldilà. Il poeta si confronta con l'idea della morte come un passaggio verso l'ignoto, ma non senza lasciare dietro di sé interrogativi: "Qual è il senso di questo viaggio?". La riflessione sugli atomi che restano, come se l'essere umano fosse solo una combinazione di elementi che si disperdono, è un richiamo all'incredibile transitorietà della vita, mentre l'idea di "frammenti verso le stelle" suggerisce una ricerca metafisica di immortalità.

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Questa poesia si apre con una bellezza lirica che esprime il passaggio dalla vita alla morte come una continua oscillazione tra l'interno e l'esterno. La brezza fatta di sguardi che invade l'animo suggerisce la potenza dei sentimenti che, in modo delicato ma profondo, travolgono il poeta. La spuma dell'onda rappresenta l'energia vitale che si dissolve in un "fragore" dell'anima, un forte contrasto tra il desiderio che si libera e la tristezza che si nasconde nella lacrima. La chiusura con l'immagine di lasciare il corpo per raggiungere l'infinito dà alla poesia un senso di trascendenza, come se la morte fosse solo un passaggio verso un'unione più profonda con l'universo.

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Con affetto e stima

Ben Tartamo

 

 

«Icona d’Amore» 

Eccoci davanti a un inno che si erge come preghiera e canto, quasi un salmo laico e mistico insieme. Già dal titolo, Icona d’Amore, percepisco la tensione verticale: l’amore non è più semplice sentimento terreno, ma immagine sacra, “icona” appunto, finestra spalancata sul trascendente.

Il poema si costruisce in strofe che respirano in invocazione, quasi una litania: “Amore, che mi hai atteso… / Amore, che ti struggi… / Amore, che sei vita…”. L’anafora (“Amore”) diventa campana che batte nel cuore e nel cosmo: il poeta non descrive, invoca; non spiega, prega. Qui la parola non è analitica ma liturgica.

Sul piano psicologico, si avverte il dialogo tra due dimensioni: da un lato la fragilità dell’uomo (“che tutto è un soffio… che passa e fugge”), dall’altro l’anelito a una presenza eterna che non inganni, che non lasci “solo incanto” ma diventi sostanza. La tensione è tra fugacità e assoluto: il poeta si aggrappa al vento che strazia e brucia, ma lo trasfigura in segno di eternità.

Vi è inoltre un tratto profondamente metafisico: l’Amore qui è persona, potenza, fuoco, vento, mare, creatore. Non è eros soltanto, ma Agápe cosmica, principio generatore che tesse e scioglie i destini. L’ultima strofa è un’esplosione d’abbandono: “null’altro sappia fare / che amare, sì… che amare”. Qui la poesia diventa auto-annientamento mistico: l’io non vuole più esistere se non nell’atto stesso di amare, come una candela che non conosce altra vocazione che bruciare.

C’è anche un respiro biblico, quasi paolino: “se non ho l’amore, non sono nulla”. Eppure la voce non si perde nella dottrina: resta carne, vento, fiamma viva.

Il lettore sensibile sentirà che questa poesia non è costruita per esercizio, ma scaturisce da un’urgenza: l’autore cerca un Amore che giustifichi la vita, che non tradisca nella sua mutevolezza. È come se Tartamo alzasse una icona verbale davanti agli occhi: non dipinta con tempera e oro, ma con respiro e invocazione.

In sintesi: un testo che ha la solennità di un inno e la fragilità di una confessione, dove ogni verso non si limita a cantare l’amore, ma ne implora il volto eterno.

prof. Marino Spadavecchia

 

 

Commento alla Poesia di Felice Serino
Bellezza e' apice dell'essere.
Accanto a lei l'uomo s'eleva, capendo che la vita e' lei stessa bellezza. Un mezzo, dunque, la bellezza per l'uomo, dove, in questa breve pennellata poetica e' rappresentata come un mondo, che naturalmente la poesia deve far intendere e non svelarne subito il contenuto, quindi, far immaginare a sua volta.
Laura Toffoli

 

 

26-27-28 Agosto

  • Salvatore Armando Santoro – “Ciechi”

Santoro ci mostra l’amore come esperienza dolorosa e totalizzante. Le donne “cieche” non vedono la realtà che le circonda, ma vivono profondamente la propria percezione del sentimento. L’io poetico diventa osservatore di un mondo di inganno e fragilità emotiva: l’amore profondo convive con disgusto e nausea, con la consapevolezza che la propria dedizione può non essere corrisposta.

La poesia è crudele, diretta, con un linguaggio fisico e quasi corporeo (“nausea che il Plasil non basta a fermare”), e allo stesso tempo metafisica: il cuore umano viene scandagliato come un mare di emozioni contraddittorie. Qui, l’anima del poeta emerge come veggente dei sentimenti, capace di leggere la verità nascosta dietro i gesti e le parole.


  • Felice Serino – “Poesia che nasci”

Serino ci riporta alla dimensione archetipica della poesia stessa: nascita, fragilità, viaggio. La metafora della barchetta di carta sui flutti evoca la precarietà dell’atto creativo, il rischio e la speranza insita nel fare poesia. L’anima del poeta è qui fragile e coraggiosa, sospesa tra luce e tenebra, tra il desiderio di realizzare un sogno e la consapevolezza dei pericoli del mondo.

Il testo si inserisce perfettamente nel filone della memoria e del tempo: la poesia nasce fragile, ma diventa veicolo di esperienza, conoscenza e trascendenza.


  • Armando Bettozzi – “Tesori”

Bettozzi esplora il tempo interiore, il ricordo e la continuità dei legami affettivi. I “tesori” sono esperienze e memorie che, anche quando apparentemente perse, continuano a vivere dentro di noi. La poesia evoca la nostalgia e la cura con cui l’io poetico preserva ciò che conta: le gioie semplici, i giochi dell’infanzia, le relazioni autentiche.

Qui la metafisica emerge attraverso il rapporto tra memoria e eternità: i ricordi diventano gemme, nodi luminosi che sopravvivono al tempo, capaci di illuminare anche il buio dell’esistenza.


  • Silvio Canapè – “Ammassati compatti”

Canapè ci offre una visione cosmica e simbolica: l’oscurità accumulata e compatta viene interrotta da un lampo di luce, effimero ma rivelatore. La poesia è breve, essenziale, ma potente: cattura l’istante in cui il reale e l’invisibile si toccano. La “perpetua sera” suggerisce l’eterna alternanza tra luce e buio, tra speranza e dolore, tra caos e ordine.

L’anima del poeta emerge qui come veggente del cosmo, capace di leggere nei mutamenti della luce e dell’ombra un significato più grande dell’esperienza umana.


  • Rosa Notarfrancesco – “Non hai nulla dell’indomani”

Qui l’io poetico esplora la complessità dell’amore e della percezione del tempo. La poesia ha un tono riflessivo, quasi filosofico, in cui l’“indomani” rappresenta il futuro pieno di possibilità e inganni, contrapposto alla purezza e immediatezza del sentimento dell’altro. La poesia diventa metafisica perché indaga la struttura stessa dell’esperienza amorosa: la gioia, l’illusione, il dolore, e la memoria si intrecciano in un tessuto che trascende il semplice vissuto per diventare riflessione sull’essenza dell’amare e del percepire il tempo.


  • Jaime Luis Huenún Villa – “Envio a Anahí”

Villa fonde elementi di sogno, natura e simbolismo. La poesia è immersiva: il sogno diventa realtà, e la realtà si riflette nel sogno, con una dimensione quasi onirica e cosmica. Gli elementi naturali (fagioli, farfalle, liepri) e l’atto di cogliere fiori nei libri di poesia evocano una sacralità della vita quotidiana e un’adorazione dell’attimo. La morte, contemplata come scrittura dell’acqua sull’acqua, è percepita come parte del ciclo vitale, non come fine: una meditazione metafisica sulla caducità e sull’inalterabile bellezza del vivere.


  • Cristiano Berni – “Pègaso”

Berni esplora il conflitto tra desiderio di libertà e timore di osare. Il cavallo alato diventa metafora di elevazione spirituale e gioia potenziale: la poesia è un invito alla liberazione dei sentimenti più puri. L’io poetico osserva una giovane donna intrappolata nella paura, trasformando la scena in un’allegoria della condizione umana: la vulnerabilità e il desiderio di spiccare il volo rappresentano la tensione tra ciò che l’anima vuole e ciò che la mente teme. La poesia fonde realismo psicologico e simbolismo metafisico.


  • Franco Fronzoli – “Vita”

Fronzoli cattura la totalità dell’esistenza attraverso un elenco di frammenti, che oscillano tra il quotidiano e l’eterno. Ogni oggetto, emozione o evento diventa simbolo della complessità della vita: la poesia diventa un mosaico in cui gioia, dolore, ricordi e istanti minimi convivono, riflettendo la percezione del tempo come concatenazione di attimi. La forza metafisica emerge nella consapevolezza che ogni elemento, anche il più effimero, partecipa al disegno complessivo della vita, che è insieme nulla e tutto.


  • Piero Colonna Romano – “Rosa e di raso”

Qui il lirismo è immerso nella celebrazione della femminilità e della grazia. La poesia ha una musicalità quasi barocca: i versi accarezzano l’orecchio come le immagini accarezzano l’occhio. La “rosa e di raso” diventa simbolo di purezza, bellezza e delicatezza spirituale, mentre la memoria del nascere e la grazia concessa al mondo proiettano la figura femminile come un tramite tra umano e divino. L’autore crea una tensione tra l’amore terreno e quello quasi sacro, trasformando il sentimento in un atto di contemplazione metafisica.


  • Ciro Seccia – “Parla con me”

Seccia tocca temi di lutto, dolore e speranza. La poesia è un dialogo diretto, intimo e terapeutico con il figlio, un invito a uscire dall’ombra dell’incubo. La scrittura ha una qualità quasi liturgica: il “parla con me” è un appello all’anima a riappropriarsi della vita. Il linguaggio evoca metafore di nascita e rinascita, con immagini di luce che penetrano l’oscurità, simboleggiando la capacità di guarigione emotiva e spirituale.


  • Alessio Romanini – “Una foglia sul balcone”

Romanini combina il paesaggio naturale con la percezione sensoriale. La foglia diventa veicolo di un dialogo tra stagioni e sentimenti: la poesia è un’osservazione meditativa in cui la natura rispecchia lo stato d’animo del soggetto poetico. La musicalità del testo si avverte nell’onomatopea degli uccelli e dei suoni dei binari; la poesia diventa metafisica perché trasforma il quotidiano (una foglia, il balcone) in simbolo della transitorietà e della bellezza della vita.


  • Sandra Greggio – “La carezza del mare”

Greggio entra nella dimensione autobiografica e infantile, ricreando il rapporto tra memoria, identità e tempo. La bambina interiore che non osa tuffarsi nelle onde è metafora dell’anima che teme di affrontare l’ignoto, pur mantenendo una connessione profonda con la vita. La poesia è contemporaneamente emotiva e metafisica: il mare diventa simbolo di possibilità, crescita e paura, un luogo dove l’esperienza del tempo e dell’infanzia si fondono in una visione universale della vita.


  • Jacqueline Miu – “Poets and Lovers”

Miu esplicita l’idea che la poesia sia il battito vitale dell’umanità stessa. Non è solo il poeta a vivere nei versi, ma ogni essere umano che sogna, spera e ama. Qui la metafisica è evidente: la poesia è un medium tra l’individuo e l’universale, un dispositivo per illuminare l’anima, risvegliare i sensi e rendere tangibile l’invisibile. L’atto poetico diventa un rito di sopravvivenza spirituale.


Con stima e affetto
 

Ben Tartamo

 

 

 

 

 

23-24-25 Agosto

Sono davvero lusingata per la poesia che Ben mi ha dedicato e che coglie gli aspetti più positivi della mia personalità per cui lo ringrazio tantissimo e spero di poter ricambiare in un futuro non troppo lontano non appena la Musa mi darà l’ispirazione.  Grazie anche a Lorenzo che ci ospita in questo mare azzurro e a tutti i Sitani.
Sandra Greggio

 

 

Grazie Ben per i tuoi commenti danno anima e essenza ai versi. 
Grazie a Lorenzo che fa vivere la Poesia.
Silvio Canapè
 

 

 

  • Franco Fronzoli – “Non lasciamo che una giornata si consumi”

Questa poesia è un manifesto, un appello che sembra voler gridare dall’intimo dell’uomo verso l’umanità intera. Non è lirismo intimista, bensì etica poetica: 'non lasciamo' diventa ritornello, quasi una litania civile e spirituale. Fronzoli qui non parla solo d’amore, ma della difesa di tutto ciò che ci rende umani: il bacio, l’abbraccio, la libertà, la dignità, la poesia stessa.
L’anima del poeta è quella di un profeta laico, un uomo che avverte il pericolo della spoliazione del cuore e delle coscienze, e che oppone la fragile ma invincibile resistenza dei gesti semplici. La sua voce sembra dire: siamo vivi solo finché nessuno riesce a spegnere la luce nei nostri occhi.
Il messaggio è cristallino e insieme universale: la bellezza e la libertà sono i sacramenti quotidiani di cui non possiamo essere derubati.


 

  • Renzo Montagnoli – “Alla fine di una vita”

Qui si entra nel crepuscolo dell’esistenza. Non più un appello corale, ma il sussurro intimo della vecchiaia che si specchia nel proprio destino. Montagnoli mostra con lucidità psichiatrica e tenerezza disarmata ciò che abita gli ultimi anni: il rifugio nel passato, il timore del “capolinea”, l’illusione di continuare a stringere ciò che inevitabilmente sfugge.
Eppure, in mezzo alla malinconia, c’è la redenzione dell’essere in due. Il poeta lo sa: anche nel dolore, anche nell’egoismo di chi vorrebbe “lasciar per primo” per non sopportare la solitudine, la presenza condivisa è già salvezza.
Il testo è di una onestà crudele e tenera insieme: alla fine di una vita, ciò che resta non è la gloria, non è il possesso, ma la mano dell’altro che stringe la nostra, a resistere insieme al tempo.


 

  • Salvatore Armando Santoro – “Autunno colpevole”

Santoro prende l’autunno e lo trasforma in un imputato esistenziale: stagione come colpa, come processo naturale che diventa allegoria del disincanto. L’autunno non è solo cadere delle foglie, ma arrugginirsi del cuore, sonnolenza della mente, scorrere implacabile del tempo.
Eppure, nella malinconia, il poeta non cede al nulla: già intravede l’attesa della primavera, la resurrezione del verde, e soprattutto l’immagine salvifica di una donna “piena di vita e ricca d’allegria”.
Qui la psicologia si fa chiara: il poeta trasfigura la natura nei suoi stati interiori, ma affida la redenzione non solo alle stagioni, bensì all’incontro con l’alterità amorosa. Nonostante la consapevolezza del tempo che corre via, la vita si rinnova in quell’attimo di sorriso che la donna gli riporta.


 

  • Felice Serino – “In ondivaghi spazi”

Un lampo, un’epifania, un haiku metafisico. Serino, con pochissime parole, spalanca un orizzonte cosmico. “In ondivaghi spazi” ci trasporta in una dimensione oltre il sensibile, dove le “ali d’angeli” non si posano sulla terra, ma lasciano cicatrici di luce “nella carne del cielo”.
Il verso breve, essenziale, quasi biblico, si fa simbolo di una visione: l’invisibile che irrompe nell’immenso, l’eterno che imprime un segno nel tempo.
Qui l’anima del poeta non parla dell’uomo, ma del cosmo. È poesia come rivelazione, sguardo profetico che non descrive ma evoca, non narra ma apre fenditure nel silenzio.

 

  • Armando Bettozzi – “L’inganni”

Qui troviamo un canto epico e popolare insieme, una commistione di lingua vernacolare e archetipi biblici che rimanda al mito originario del peccato. La voce del poeta è ironica, graffiante, ma profondamente lucida nel cogliere la follia e la ripetitività dell’umano: Adam ed Eve non sono più individui isolati, ma simboli di miliardi di persone intrappolate in una rete di inganni seriali, di “serpentacci” quotidiani che assumono le forme di media, politici, poteri invisibili.
L’anima del poeta qui è tragica e satirica insieme: non c’è condanna morale astratta, ma una visione psichiatrica della società come organismo malato che ha interiorizzato l’inganno. La struttura verbale, con i “co” e gli apostrofi che imitano il parlato, avvicina il lettore alla coralità di questo dramma, rendendo la poesia quasi orale, epica nella sua moralità distruttiva e nel suo ritmo di accento popolare. È una metafora del presente che diventa cosmica, una denuncia morale intrisa di humour nero.


 

  • Silvio Canapè – “Amore Amore”

Canapè, invece, abita uno spazio completamente altro: la poesia è delicatezza e sospensione, una contemplazione dell’amore in tutte le sue sfumature, da quelle più dolci a quelle più dolorose. L’anima del poeta si manifesta come sensibile percezione del mondo: gli astri, il mare, i boschi diventano strumenti di risonanza interiore, amplificando un sentimento antico e universale.
Qui il ritmo è musicale, quasi canoro, e la struttura dilatata dei versi simula il respiro stesso dell’emozione. La psichiatria della poesia emerge nella tensione tra desiderio e repressione, tra il non detto e il pianto disperato: Canapè ci mostra l’amore come esperienza fisica, sensoriale, ma anche come processo di riflessione interiore, un indagare l’anima attraverso la natura e la memoria dei sensi.


 

  • Rosa Notarfrancesco – “Dell’amore il tempo”

Notarfrancesco sposta la lente verso un’introspezione più sospesa, quasi filosofica. Il tempo è qui protagonista e filtro dell’amore: non un mero sentimento, ma un’esperienza che si salda con la coscienza del presente e del passato. La poesia è ascendente e discendente insieme: il pensiero “scivola” nel dirupo dei ricordi e dei desideri, mentre la fretta dell’amore crea tensione e verticalità nel verso.
L’anima del poeta è qui meditativa, quasi mistica, come se il cuore si misurasse contro il tempo stesso. C’è una delicatezza clinica, psichiatrica quasi: il poeta osserva l’emozione dall’interno, decodificandola, senza abbandonarsi all’illusione, ma cogliendo ciò che resta nell’oggi interrogato dalle verità del tempo.


 

  • Jaime Luis Huenún Villa – “En la casa de Zulema Huaiquipán”

Huenún Villa ci porta in un mondo concreto e insieme metafisico: la costruzione della casa diventa simbolo di memoria, di vita, di legame tra i morti e i vivi. Ogni oggetto, ogni tavola, ogni soglia è intrisa di tempo, di storia, di spiritualità. L’attenzione ai dettagli della natura — fiume, cieli, animali — si fonde con la fisicità della costruzione, creando una poesia che è architettura e canto insieme.
L’anima del poeta emerge nella capacità di fondere il mondo sensibile con quello interiore: ogni gesto quotidiano diventa gesto sacro, ogni ombra piantata nella rena è un segno di presenza, resistenza e memoria. La traduzione di Nino Muzzi conserva intatto questo equilibrio, rendendo la poesia accessibile senza snaturarne la densità simbolica.

 

Silenzi cattura la transitorietà della vita in un lampo, in un singolo istante sospeso tra luce e ombra. Il sentiero di terra battuta diventa metafora del cammino esistenziale, un percorso che termina non in una meta definita, ma in un pendio dolce dove il tempo si dissolve, lasciando spazio al “Fior di loto / Oblio / Profumo di vita”.
La poesia ha una qualità contemplativa, quasi mistica: l’anima del poeta si manifesta come una percezione delicata e fugace della realtà, come se cercasse di imprimere nel cuore del lettore l’eco di ciò che passa senza ritorno. L’istante diventa esperienza assoluta, condensato di memoria e consapevolezza, e la brevità dei versi amplifica il loro potere sospensivo.


 

Jacqueline Miu ci catapulta in un universo di simboli e immagini dense, dove l’emozione si fa visione fisica e psichica. Il “vespro rosso” non è solo tramonto: è un cuore che pulsa tra dolore e desiderio, una fusione tra interiorità e mondo esterno. L’uso di elementi come vulcani, oceani, microscopi alieni e tempeste rende il sogno concreto, quasi tangibile, mentre l’anima del poeta si dilata fino a inglobare l’universo.
La poesia diventa laboratorio di esperienza emotiva: l’io è simultaneamente preda e predatore, mare senza abissi, soggetto e oggetto della contemplazione. Qui il dolore, la malinconia e la ricerca dell’amore assumono una dimensione quasi sacra, mentre la tecnica visiva di Miu — immagini frammentate e potenti — induce nel lettore un senso di vertigine e di espansione interiore.


 

Colonna Romano celebra la bellezza come incanto quotidiano. Il sorriso descritto non è solo gesto fisico, ma catalizzatore di emozione e armonia universale. La poesia vibra di un lirismo classico, con rime e musicalità che enfatizzano l’incanto e la leggerezza.
L’anima del poeta è permeata di gratitudine e ammirazione, quasi religiosa nella devozione verso ciò che illumina la vita altrui. Il testo rivela la capacità della poesia di trasformare un momento ordinario in esperienza trascendente, e mostra come il sentimento amoroso possa essere elevato a gesto di generosità cosmica.


 

Seccia trasforma l’osservazione del mondo in denuncia e dolore universale. Le immagini forti — missili, distruzione, corpi frantumati — evocano un orrore reale, mentre l’io lirico cerca rifugio in desideri elementari: amore, cibo, un cielo sereno.
La poesia ha una dimensione etica e metafisica insieme: parla della brutalità del tempo storico, dell’ingiustizia e della fragilità della vita umana. L’anima del poeta appare straziata ma testimone, capace di esprimere non solo l’angoscia personale, ma il grido collettivo dell’umanità. La brevità e la ripetizione accentuano il senso di impotenza e urgenza, rendendo la voce poetica profondamente empatica e morale.

 

Romanini ci mostra il mare come testimone e custode di vite spezzate, diventando al contempo Sorella Morte e custode di compassione. La poesia è essenziale, quasi cristallina nella sua forma, ma potente nella risonanza emotiva: il mare diventa specchio della nostra coscienza, mentre ogni corpo restituito sulla spiaggia è un richiamo alla responsabilità morale dell’umanità.
L’anima del poeta è qui profondamente empatica, capace di trasformare la tragedia collettiva in esperienza simbolica. La struttura dei versi, frammentaria e ritmica, imita il respiro delle onde e l’oscillazione tra presenza e assenza, tra vita e morte. Il messaggio è universale: l’indifferenza umana è messa a nudo, e il mare diventa giudice silenzioso e maestoso.


 

Scaligine esplora il rapporto tra sogno e memoria, tra esperienza vissuta e desiderio di rivivere il passato. Il mare qui è luogo di fusione tra reale e onirico, tra perdita e nostalgia, un territorio dove il tempo si dilata e si dissolve. L’io poetico tenta di arrestare l’estate passata, di dischiudere la notte e di interpretare i sogni come realtà alternativa.
La poetessa mostra una consapevolezza psicologica raffinata: il sogno è terapia, inganno e rivelazione insieme. La nostalgia diventa strumento di introspezione, e la poesia agisce come ponte tra memoria e presente, tra desiderio e accettazione. L’anima del testo vibra di tensione emotiva e vulnerabilità, mentre la forma lunga e meditativa riflette l’oscillazione dell’io tra controllo e abbandono.


 

Greggio ci conduce in un paesaggio notturno di silenzi e profumi. La luna diventa interlocutrice e amante, il gelsomino diventa simbolo di connessione tra natura e emozione. L’anima del poeta appare immersa nel mistero, in un’intimità sensoriale che unisce silenzio, odore e visione: la poesia è incantamento, esperienza quasi sensoriale della realtà trascendente.
La struttura semplice e l’assenza di punteggiatura eccessiva amplifica l’effetto meditativo, come se il verso stesso fluisse tra i sensi e l’inconscio. Qui non c’è dolore sociale né ricordo struggente: c’è contemplazione e fusione tra l’io e il cosmo, tra presenza e assenza, tra luce e profumo.

Con affetto e stima

Ben Tartamo

 

 

 

19-22 Agosto

  • “Chi sei? Chi sono?” di Nino Silenzi

Questa poesia è una lama di vetro che frantuma l’identità: un dialogo impossibile con lo specchio, con il proprio volto che non si riconosce più. È l’angoscia moderna dell’io che si smarrisce, un grido esistenziale che ricorda Pirandello e le sue maschere, ma anche l’eco di Rimbaud con il suo “Je est un autre”. La sera che avvolge e l’alba che acceca diventano le forze cosmiche che smantellano ogni certezza. Il poeta ci consegna il dramma dell’estraneità a sé stessi: l’io diventa uno straniero, e forse proprio lì nasce la poesia, nel buio interstizio tra riconoscimento e perdita.


 

  • “Se saprai” di Franco Fronzoli

Qui l’anima si apre come un campo sconfinato: promessa d’amore che diventa viaggio iniziatico. Il poeta si fa guida, profeta amoroso che conduce l’amata oltre le soglie del mondo tangibile: dalle aquile al mare, dalle vette alla neve. È un canto che si avvolge su sé stesso con ritmo ipnotico, quasi liturgico, che ricorda le litanie dell’amore eterno. Ogni “Se saprai starmi vicina” è invocazione, quasi un mantra, che non chiede ma afferma: l’amore vero è condizione, è adesione, è complicità assoluta. Non è solo un dono, ma una iniziazione mistica, in cui l’amore si rivela come forza cosmica capace di unire stagioni, sogni e silenzi.


 

  • “La sera della pieve” di Renzo Montagnoli

In questa poesia si respira un tempo arcaico, intriso di sacralità contadina. La campanella che si diffonde nella valle non è solo richiamo religioso, ma vibrazione ancestrale che lega terra e cielo. Montagnoli sa restituire l’immagine di una comunità raccolta, fatta di scialli, pipe, ombre lunghe: un teatro di umanità che si muove dentro la cornice eterna della fede e della natura. C’è in questi versi una nostalgia per il sacro perduto, una liturgia della memoria che ricompone i passi dei vivi e dei morti sui lastroni consunti. E quando il rosario inizia, la poesia stessa diventa preghiera: il tempo profano è sospeso, e ciò che resta è il silenzio sacro dell’attesa.


 

  • “Andrea” di Salvatore Armando Santoro

Questa poesia è un dialogo con l’aldilà, un sorriso oltre la soglia della morte. Andrea appare con leggerezza disarmante: fuma, sorride, scherza, ironizza sulla vita che ha lasciato, eppure resta presente in un cappellino, in un sorriso sopra un comodino. Qui la poesia non indulge nel dramma della perdita, ma nell’intimità del ricordo, che diventa un filo ironico, complice, quasi cameratesco. Santoro ci restituisce la morte non come abisso ma come altra parte del percorso: “Io credo, la mia”, dice Andrea, e in quella frase c’è la saggezza semplice di chi sa che la vita è solo un tratto di cammino. È una poesia che consola, che ride nel dolore, che accarezza il lutto con la dolcezza del quotidiano
 

 

  • “Il nostro sì” di Felice Serino

Un testo essenziale, quasi aforismatico, che affonda la sua radice nel minimalismo poetico contemporaneo. Le parole sono pietre sparse, scolpite nello spazio bianco: ogni termine ha il peso di un cosmo. L’affermazione “noi siamo” diventa dichiarazione ontologica, che va oltre la fisicità, oltre la “terra che limita il volo”. È una poesia che sembra farsi preghiera nuziale, ma anche atto metafisico: il “sì” è insieme consenso d’amore e assenso alla vita, alla trascendenza. Serino, con il suo linguaggio asciutto, costruisce un canto che potrebbe stare inciso sul marmo di un altare interiore: il poeta ci dice che l’essere vince il vuoto, che l’anima è già oltre le sue catene materiali.


 

  • “A … ‘braccia aperte’” di Armando Bettozzi

Qui il tono cambia radicalmente: siamo nel vivo della satira civile, aspra, corrosiva, quasi dantesca nella sua fustigazione. Il “togato” diventa maschera di corruzione, di ipocrisia, di giustizia tradita. La rima morde, la cadenza incalza, l’anafora ribadisce indignazione. Bettozzi costruisce un pamphlet poetico che denuncia, svela, accusa: il “traditor di Patria” non è chi ha difeso il territorio, ma chi ha tradito il mandato. È poesia che non cerca armonia ma scossa, che non consola ma incendia. In essa vibra l’antica voce di un Pasolini civile, ma anche l’eco di certi versi satirici latini: corrosione morale e rabbia politica che diventano materia di poesia.


 

  • “Sempre a metà” di Rosa Notarfrancesco

Un testo di sospensione, lieve ma carico di nostalgia. Il tema è l’incompiutezza, l’essere “sempre a metà”: mai del tutto dentro un tempo, mai pienamente soddisfatti. La poesia è costruita come un flusso riflessivo, senza orpelli, quasi diaristico, eppure la sua forza risiede nel non detto, nelle pause che si insinuano tra i versi. Qui la parola diventa eco del rimpianto: “altri tempi… completamente felici di sé”. La Notarfrancesco cattura l’essenza del vivere come frammento, mai totalità, e lo restituisce con tono quieto ma denso di malinconia. È un pensiero lirico che resta aperto, senza chiusura, come la vita stessa.


 

  • “Mezzanotte, ombre dolci alle porte e astri” di Jacqueline Miu

Qui entriamo nella poesia sperimentale, densa e caleidoscopica. La Miu frammenta e ricompone la realtà notturna in una sequenza visionaria: città, icone religiose, televisione, amanti, rifiuti, stelle. Tutto si mescola in un mosaico metropolitano che sa di beat generation e surrealismo. La lingua è fluida, stratificata, le immagini si inseguono con ritmo spezzato: “sciroppo di nuvole / e lunghe carcasse / la spazzatura dipinge la strada”. È una poesia che non descrive ma assorbe, non narra ma trasfigura. L’amore qui non è intimità domestica, ma energia che si manifesta nelle pieghe della notte, tra icone e vampiri, tra ombre e abbracci. L’effetto è quello di un canto cosmico urbano: mistico e profano insieme.

a poesia stessa diventa preghiera: il tempo profano è sospeso, e ciò che resta è il silenzio sacro dell’attesa.
 



 

 

  • “Topante” di Piero Colonna Romano

Un apologo in forma poetica, quasi favola morale che scivola in parabola universale. La vicenda del topo e dell’elefantessa non è solo ironia amorosa, ma diventa allegoria del pregiudizio, della diversità e del potere purificatore dell’amore. La lingua gioca con la rima narrativa, dal sapore antico e popolare, ma non rinuncia a lampi lirici che culminano nella nascita del piccolo Topante, elevato a figura messianica. Qui l’amore trasgressivo diventa forza cosmica che redime il mondo: la favola animale svela un Vangelo nascosto, in cui il diverso diventa salvezza. È poesia che fonde satira sociale, fiaba popolare e mito sacro.


 

  • “Un attimo” di Ciro Seccia

Pochi versi, ma intensi come un lampo. La brevità diventa qui la cifra dell’assoluto: l’amore, scoperta che abbatte ragione e distanze, è un istante che contiene l’infinito. Struttura semplice, quasi epigrafica, dove le parole “scintilla”, “sguardo”, “Oceano” si fanno simboli di immensità. C’è un eco pascaliano: il cuore conosce ragioni che la ragione ignora. E nel frammento, come un haiku occidentale, Seccia ci consegna l’esperienza fulminea e vertiginosa dell’amore che si rivela come eternità compressa in un battito.


 

  • “Malumore” di Alessio Romanini

Romanini unisce la concretezza quasi diaristica (“mi duole la cervicale”) con aperture liriche che evocano colombe, mare, vapori celesti. È poesia ironica e malinconica, dove la fragilità del corpo e la noia dell’età si intrecciano al paesaggio naturale. La lingua si muove tra altezze e cadute: la colomba, la cupola azzurra, e poi la cervicale e lo stress. È in questa frizione che il testo trova forza: la tensione tra sublime e quotidiano genera un effetto straniante, che rende la condizione esistenziale più vera. L’ultima sentenza, “il tedio è l’oblio di ogni intrinseca attività”, ha quasi un tono filosofico, come una definizione tratta da un manuale di vita interiore.


 

  • “Fino all’ultimo respiro” di Sandra Greggio

Una poesia che si apre come un diario intimo, e si sviluppa in forma di confessione amorosa. Il “tu” evocato è presenza discreta e costante, un enigma che diventa destino. La scrittura procede in ritmo fluido, con immagini di delicatezza sensuale (“carezza sul cuore”, “onda che ha trovato il suo mare”). È un canto che racconta la trasformazione dell’attesa in compimento, del sogno in realtà, fino alla promessa estrema: “Finché avrei avuto respiro”. Qui l’amore non è solo sentimento ma approdo, totalità, senso ultimo dell’esistenza. La Greggio scrive con limpidezza, ma sotto la linearità si avverte una vibrazione metafisica: l’amore come respiro dell’anima che sopravvive al tempo.

con stima ed affetto

Ben Tartamo

 

 

 

14-18 Agosto

Buon Ferragosto a tutti i sitani!!!

Un saluto particolare a Lorenzo
che ospita noi poeti.
Alessio Romanini

 

 

 

10-13 Agosto

Qui siamo di fronte a una costruzione poetica che ha l’aria di una piccola “commedia dell’arte” in versi: quartine, rime baciate o alternate, un’andatura da filastrocca riflessiva. È una parabola dell’esistenza, scandita dalla metafora del percorso di montagna: salite ardue, discese insidiose, rare vie piane. L’autore inserisce il tono confidenziale (“pe’ un percorso accidentato”) che avvicina il lettore e smorza la serietà con ironia bonaria. Se la tecnica metrica può sembrare talvolta più “artigianale” che cesellata, è proprio in questa vena schietta che si percepisce un sapore genuino. La chiusa con “anta” è un piccolo colpo di teatro: il tempo che passa diventa occasione di bilancio, ma senza cedere al lamento. 

Qui il registro cambia: siamo in un minimalismo lirico che assomiglia più a un frammento diaristico che a un componimento strutturato. Brevi frasi, enjambement naturali, quasi prosa poetica. È un testo che parla di un rapporto segnato dal gioco ambiguo tra orgoglio e perdono, attrazione e distanza. Non c’è punteggiatura rigida, e questo crea un flusso emotivo che riflette l’instabilità del legame. La “vita a sé” e le “distanze meditate dallo scoraggiamento” sono immagini più mentali che sensoriali: l’amore e il disincanto non vengono raccontati, ma lasciati sospesi, come un volto in penombra.  Osservo che non siamo davanti a un affresco ricco di colore, ma a un disegno a matita: pochi tratti, ma essenziali.
Un testo drammatico, quasi cinematografico. Il temporale diventa metafora della disillusione e del tempo perduto. L’incipit “Il cielo s’è fatto nero” prepara subito l’occhio del lettore a un quadro tempestoso: bagliori ferrigni, fulmini zigzaganti, vento maligno… è una scenografia che ha qualcosa di barocco per abbondanza di dettagli visivi e sonori (“rullano cupi i tamburi”). La tempesta esteriore e quella interiore coincidono, e l’uso ripetuto di “Ormai è tardi” scandisce un senso di ineluttabilità. È poesia che si presta bene a essere letta ad alta voce, quasi come un recitativo.  Un “Caravaggio” in piena tempesta: forti contrasti, luci che squarciano il buio, e un senso di destino già sigillato.
Un haiku dilatato, essenziale come un’incisione su pietra d’acqua. L’immagine iniziale – camminare sull’acqua senza lasciare traccia – è di grande forza simbolica: parla di transitorietà, ma anche di presenza discreta. Ogni verso sembra un respiro misurato, e il bianco della pagina diventa parte integrante del testo. Qui non c’è pathos drammatico: c’è un’attesa, un essere “nell’eco leggera di ciò che non si vede”. È una poesia che lavora per sottrazione, e la sua forza sta proprio nel lasciare lo spazio al lettore per completare il senso.  Una miniatura orientale: due pennellate, ma nessuna superflua.
Un notturno estivo intriso di sensualità e malinconia. Qui l’autore fa leva su immagini tattili e olfattive – i gelsomini, il respiro che si ferma – per avvolgere il lettore in un’atmosfera sospesa. La “ricerca del baricentro del mondo” è il cuore simbolico: l’amore come fulcro momentaneo dell’universo, effimero ma assoluto. La chiusa con la stella che “potrebbe ritornare” fonde speranza e consapevolezza dell’irreversibile. È una poesia che si legge come si ascolta una canzone estiva francese anni ’60: un po’ languida, un po’ segreta, tutta giocata su una luce che si spegne e un profumo che resta. Qui c’è un piccolo quadro impressionista – un Renoir notturno – dove più che le forme contano i bagliori.
Qui siamo nel territorio della lirica utopica. La ripetizione anaforica “C’è un posto nel mondo…” è un martello dolce che scolpisce, verso dopo verso, un Eden ideale. L’elenco accumulativo non è solo descrizione, ma anche denuncia: ciò che si sogna è proprio ciò che manca. Alcune immagini – i tramonti che vanno oltre la notte, la luna che spunta due volte – hanno una qualità naïf che tocca il cuore proprio perché non si preoccupa di essere “verosimile”. È un catalogo poetico che alterna delicatezza e colpi di frusta morali (“le mani degli uomini non si macchiano di sangue”), e alla fine si rivela: è un mondo di illusione. È un polittico votivo senza la pala centrale: ci mostra la gloria, ma ci dice che non è mai stata esposta”.
Qui la poesia vira verso il racconto in versi. C’è un impianto narrativo forte: una stazione vuota, un altoparlante stonato, un addio che brucia ancora sulla pelle. Il tono è diretto, quasi colloquiale, e alterna versi regolari a spezzature di pensiero. Non è tanto la stazione a essere il soggetto, quanto la disillusione amorosa che vi si consuma. Colpisce la crudezza con cui l’autore introduce il tema dell’interesse materiale (“apprezza solo qualche suo quattrino”), spegnendo il pathos romantico. È un testo che si muove tra la canzone popolare e il diario poetico. È un realismo da bozzetto ottocentesco – niente veli, la scena è cruda, con l’amore che ha già preso il treno e non tornerà”.
Una poesia brevissima, ma dal respiro ampio. Siamo quasi in un fotogramma di cinema muto: un mare incantevole, l’illusione di portarlo fuori dal sogno, poi il risveglio. La punteggiatura ridotta al minimo e la disposizione verticale dei versi accentuano la sensazione di sospensione. Serino lavora per sottrazione: non descrive il mare nei dettagli, ma lascia che il lettore lo veda nel bianco che separa le parole. È poesia zen: un’immagine, un pensiero, un dissolversi. È una miniatura giapponese incorniciata in un foglio bianco: la forza sta in quello che non si vede.
Un testo breve, diretto, di respiro civile. Qui non ci sono metafore elaborate né compiacimenti estetici: la parola è dichiarativa, volutamente “nuda”, come uno striscione esposto in piazza. L’amore è contrapposto alla violenza patriarcale in un registro quasi di manifesto politico, e il messaggio viene scolpito in modo inequivocabile. Non è un dipinto da galleria, ma un’incisione su lastra di rame: colpo secco, senza sfumature, pensato per essere visto da lontano e ricordato.
Qui invece la scrittura si avvolge su se stessa come le linee ornamentali che il titolo promette. È un tessuto di immagini sensoriali — stelle, nuvole, sabbia, lacrime — legato da una musicalità morbida. Il lessico alterna dolcezza (“brezza”, “ruggiada”) a toni più freddi (“algida come la luna”), creando un chiaroscuro emotivo. L’io poetico si muove “a piedi nudi” dentro una cornice marina e lunare: è un arabesco che non è solo decorativo, ma anche percorso interiore. Come in certe maioliche islamiche, la bellezza sta nel disegno che non finisce, ma si prolunga oltre il bordo della pagina.
Qui ci troviamo in piena espressione visionaria e confessionale. È un flusso di coscienza potente, non addomesticato, che alterna lampi biografici, dichiarazioni quasi teatrali e improvvise aperture mitiche (“aspirazione drago”, “carrozza partita da Baltimore”). È poesia fitta, convulsa, che non si concede pause: la sintassi franta e la densità di immagini danno la sensazione di un diario scritto nella notte. È un testo che non teme l’eccesso, anzi ci si abbandona come un pittore espressionista che lavora solo con rossi e neri. Non c’è prospettiva rinascimentale: qui siamo dentro un Pollock emotivo, dove il gesto conta più della figura.
Questa poesia è una meditazione filosofica che si serve di immagini naturali come ancore sensoriali. L’interrogazione iniziale — “Perché quel mondo è invisibile?” — attraversa tutta la composizione, ma non per trovare risposta: la poesia diventa un catalogo di fenomeni visibili (luna, sole, vento, mare) che rinviano a un’origine misteriosa. La chiusa spirituale (“Il tutto è riassunto nell’amore…”) restituisce un senso mistico, quasi teologico. È come un’iconostasi: dietro la materia visibile, intravediamo uno spazio sacro che non possiamo penetrare del tutto.
Un omaggio esplicito a Prévert, e se ne riconosce la leggerezza. La costruzione è semplice, basata su parallelismi (“Negli occhi tuoi / vagan piccole onde”) e su un’immagine centrale — l’acqua come specchio e destino d’amore. È una poesia immediata, breve come un fotogramma rubato al tramonto. È un acquerello ben fatto: non serve cornice dorata, basta lasciarlo al sole perché il colore faccia il suo gioco.
Qui il registro è intimo, doloroso, segnato da un’assenza assoluta: l’attesa di un figlio. Il lessico è semplice, ma carico di pathos (“catena senza fine”, “lava che taglia la terra”). La ripetizione di “Aspetto te” è un battito cardiaco, un metronomo emotivo che accompagna tutta la lettura. Non è poesia che gioca sulla metafora astratta: è voce che parla da dietro una porta chiusa. È un ritratto a carboncino di un volto amato, fatto in un’unica seduta: il tratto dimostra l’urgenza del momento.

 
11agosto2025
Con stima e affetto 
Ben Tartamo 

 

 

 

6-8 Agosto

I vostri commenti mancano come l'aria che respiriamo.

Ossigeno puro della pagina Azzurra.
Spero di poter leggere tra breve la bellezza che voi
commentate e vedere nella poesia d coloro Che scrivono sulla pagina Azzurra.
Auguro a tutti i poeti del sito buone vacanze.
Ed un Grazie al Prof.De Ninis,Ben Tartamo,Prof.Spadavecchia.
 
Grazie.....Ciro Seccia 

 

 

 

13-16 Luglio

Grazie dei vostri commenti,in questi giorni ne sento vivamente la mancanza,

Il tempo le Parole la vostra empatia Con tutti i poeti del sito,sono per me la Base per cui scrivo Ed apro il Mio cuore  sulla pagina azzurra.
Porgo i miei Saluti a Ben Al Prof.Spadavecchia Ed ovviamente Al Vate Lorenzo De Ninis.
Grazie...
Ciro Seccia 

 

 

 

 

7-8-9 Luglio

Saluti per i sitani
Un caro saluto con l'augurio di "Buone Vacanze!" alle giovani e meno giovani divinità cosmiche di Poetare. 
Che siano la creatività e l'amore i vostri amici di viaggio. Tornate ricchi di ispirazione e felici. 
Passate un'estate meravigliosa. Ringrazio il magnifico Magister Lorenzo, generoso creatore di Poetare Tempio Azzurro per la letteratura di qualità, per l'onore che mi offre nell'ospitare le mie umili opere. Ringrazio tutti i sitani per i loro commenti e la gioia che mettono nei loro appassionanti lavori. 
 
Auguro a tutti una meravigliosa estate
Miu

 

 

Buongiorno a tutti
Di tanto in tanto se pur per un breve commento devo dire grazie a tutti ,
alle parole , emozioni che voi poeti trasformate in versi e in commenti
In particolare modo a Marino Spadavecchia
Umiltà calpestata,
che prende il sole
sulla spiaggia d’Oriente.
a Ben Tartamo
Giorni su giorni,
sassi su sassi...
sabbia che nasce
in riva al mare.
grazie per i vostri commenti
per la vostra poesia semplice e complessa
Piero Colonna Romano
Via delle monache, bellissima poesia ,e poi con tutti quei premi non ci sono parole che potrei aggiungere

Mi dicono che gli angeli perdano le ali quando amano
Non posso aggiungere nulla di ciò che penso io, ma la tua poesia merita molto , molto bella come tutte del resto Jacqueline Miu

Grazie Lorenzo che ci fornisci la possibilità e la gioia espressionistica
grazie alla tua sensibilità e generosità
alla tua bella poesia Nino Silenzi
Al Mare che culla i sogni , i ricordi , ciò mi fa capire che vivi , come me vicino al mare ,perché quella distesa verde o azzurra come un cielo capovolto ci fornisce la possibilità di vedere il fuori dentro di noi che allieta il nostro spirito grazie con un abbraccio
Buone vacanze a tutti
Antonia Scaligine

 

 

Commento poesia "U Me' Sognu" di Rosa Venuto di Acquedolci.
Bellissima poesia "U me' Sognu", è un omaggio struggente e affettuoso a Franco Battiato, maestro dell’anima e della musica, filtrato attraverso la memoria, il sogno e l’identità siciliana. Rosa Venuto intreccia ricordi familiari, tradizioni antiche e versi evocativi in dialetto, riportando in vita un mondo perduto fatto di armonia e semplicità. Il testo vibra di nostalgia e desiderio: quello di tornare indietro nel tempo, di varcare la soglia della casa di Battiato a Milo, per sentire ancora l’eco della sua voce. Un sogno che è anche preghiera, una ricerca del sacro nella quotidianità, dove l’arte diventa ponte tra generazioni, tra chi resta e chi è già “trasitatu".O per meglio dire ..U me' Sognu" è un omaggio poetico, intimo e sincero, che la poetessa messinese Rosa Venuto di Acquedolci dedica al Carissimo Maestro Franco Battiato. In queste righe scritte in dialetto siciliano, si intrecciano memoria e desiderio, antiche tradizioni e riflessioni profonde sul tempo che passa. Il sogno di poter visitare la casa di Battiato a Milo diventa simbolo di un bisogno più grande: quello di ritrovare l’armonia, la bellezza e la semplicità di un tempo che oggi pare perduto. È un canto d’amore per la Sicilia, per la famiglia, e per un figlio – Franco – che, con la sua arte, ha saputo portare la luce oltre i confini dell’isola.
Commento edito da
MariaAntonietta Chiovetta

 

 

 

 

4-5-6 Luglio

Con immenso piacere mi accosto a commentare questa composizione di Marino Spadavecchia, un’opera che si staglia con forza nella contemporaneità della poesia latinoamericana ed europea e oltre, offrendo un’indagine profonda sul dolore esistenziale e sulla condizione umana nel nostro tempo.

 
“Meteoritos perdidos / en la constelación / de los desechables impenitentes.”
L’incipit ci catapulta immediatamente in un paesaggio cosmico e metaforico, dove i “meteoritos perdidos” diventano simbolo di anime e vite scagliate in orbite senza meta, perdute in una galassia di “desechables impenitentes” — gli esseri scartati, i dimenticati, forse persino coloro che si sono condannati a un’esistenza di inutile consumo e spreco. Questa immagine di vastità siderale carica di solitudine e inutilità plasma un’aura di malinconia che pervade tutta la poesia.

 
“Gotas de almas errantes / en el océano de la soledad / sin regreso.”
Il fluire di “gocce di anime erranti” sospese in un “oceano di solitudine senza ritorno” costruisce una metafora liquida e struggente che richiama la fragilità e la vulnerabilità dell’essere. L’oceano, eterno e implacabile, diviene un simbolo dell’isolamento totale, la condizione umana ridotta a particelle perse nel flusso di un dolore inarrestabile. L’assenza di ritorno sottolinea un’irreversibilità della condizione, un destino che si compie senza speranza.

 
“Delfines anémicos, / apesadumbrados, estériles, / que no saben / si seguir nadando / o morir aguantando.”
Qui la poesia abbraccia un’immagine ancora più terrena e struggente: i “delfini anemici” rappresentano forse creature una volta vitali, ora prosciugate, gravate dal peso della tristezza e dell’incapacità di rigenerarsi, riflesso dell’anima umana in crisi. La tensione tra continuare a nuotare o arrendersi alla morte è la resa poetica della lotta interna tra vita e annichilimento, un interrogativo universale che Spadavecchia pone con grande delicatezza e forza.

 
Infine, per quanto riguarda l'Analisi stilistica e l'impatto emotivo:
la poesia si distingue per una limpida economia di parole e immagini potenti che, nonostante la brevità, evocano un panorama emotivo vasto e coinvolgente. La scelta di simboli cosmici e marini crea un doppio orizzonte di solitudine sia universale che intimamente umana. La musicalità asciutta e il ritmo cadenzato conferiscono alla composizione un tono meditativo e quasi liturgico, mentre la progressione dalle stelle agli oceani fino ai delfini conduce il lettore in un viaggio che è insieme metafisico e terreno.

 
In conclusione, Marino Spadavecchia offre un frammento di poesia che si impone per la sua onestà emotiva, la profondità filosofica e la chiarezza espressiva. “Meteoritos perdidos” è un appello a riconoscere le anime smarrite in un mondo che sembra essere sempre più fatto di “desechables”, e al contempo una meditazione sul limite fragile e doloroso della condizione umana. In questo testo la poesia europea trova una nuova, luminosa voce di tormento e bellezza.

 
Ben Tartamo 

 

 

 



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