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29 Marzo

Le origini del potere.

La saga di Giulio II, il papa guerriero

di Alessandra Selmi

TEA Edizioni

Narrativa

Pagg. 384

ISBN9788850266081

Prezzo Euro 13,00

Un grande affresco storico

Papa Giulio II (Albisola, 5 dicembre 1443 – Roma, 21 febbraio 1513), al secolo Giuliano della Rovere, è anche conosciuto come il Papa guerriero, perché, nel periodo del suo pontificato, che va dal 1503 al 1513, promosse numerose guerre per liberarsi dei vari poteri che prevaricavano la sua autorità temporale, e lo fece con la massima determinazione e con il coraggio propri più di un uomo d’armi che di un religioso al comando della Chiesa.

Però avviso che chi si dispone a leggere questo romanzo storico che riguarda appunto Giulio II potrebbe non dico restare deluso, ma arrivato alla fine potrebbe chiedersi notizie sul suo pontificato, perché in queste 384 pagine si parla solo del prima, cioè del periodo che va dal 1471, anno in cui fu eletto al trono di Pietro con il nome di Sisto IV lo zio Francesco della Rovere. E’ pertanto molto indovinato il titolo dell’opera, perché le origini del potere sono quelle degli anni in cui Giuliano della Rovere brigò per diventare il capo della Chiesa.  Per quanto si tratti di un romanzo storico l’autrice si è attenuta sempre a fatti veritieri, eventi che sono la testimonianza di un mondo in cui la spiritualità era decisamente messa da parte e nella lotta che vediamo, aspra, con delitti anche, fra Giuliano della Rovere e Rodrigo Borgia c’è tutto un periodo storico che ha caratterizzato l’Italia nella seconda metà del XV secolo, con sullo sfondo altre figure che non sono proprio comparse, come Lorenzo de’ Medici e gli Sforza, in un grande e riuscito affresco che nobilita un lavoro ben strutturato, che non ha mai un momento di cedimento e che avvince dall’inizio alla fine. Fra l’altro c’è tutto ciò che può piacere al lettore, dalla figura carismatica del fraticello Giuliano che arriva a Roma a piedi per assistere all’incoronazione dello zio, che subito mette in pratica il nepotismo nominandolo cardinale insieme ai cugini Pietro e Girolamo Riario, alla sua lunga storia d’amore con Lucrezia Normanni, da cui avrà una figlia, un amore per niente platonico, ma molto carnale. E poi c’è la descrizione della Roma dell’epoca, della guerra fra le famiglie Orsini e Colonna, della miseria diffusa fra i suoi abitanti, dalla morte che, sotto forma di pestilenza, livella tutti. Non manca anche un’analisi psicologica approfondita, a cui non sfugge nessuno dei principali protagonisti, insomma  Le origini del potere è un’opera senz’altro riuscita e ci si augura che sia la prima parte, visto che il sottotitolo è La saga di Giulio II, il papa guerriero, e considerato che che appunto il libro finisce con la notizia che quella mattina nel conclave,  al primo scrutinio, viene eletto pontefice Giuliano della Rovere, che poi scelse di chiamarsi Giulio II. Era stata una lunga attesa, piena di intrighi, con altri papi prima di lui, ma alla fine tanto aveva brigato che c’era riuscito. Come ogni buona saga sarebbe logico un seguito con un libro sul suo pontificato, che durò dal 1503 al 1513. Tuttavia, non posso esimermi dall’evidenziare la particolare bellezza delle ultime pagine, allorché a fronte del tradimento di un suo compaesano  che aveva avviato alla carriera religiosa, pronto a punirlo nel modo più atroce, Giuliano, sentite le motivazioni che tanto gli ricordavano i patimenti e gli affronti subiti da lui stesso in convento, ha un crollo momentaneo, lui che è sempre inflessibile scopre di possedere anche il senso di colpa, tanto da indurlo piangendo a chiedere perdono, graziando altresì quella vittima che era pronta a espiare la sua colpa.

Da leggere, lo merita.

Alessandra Selmi (Monza, 1977) è una scrittrice ed editor italiana. Ha collaborato come editor con diverse case editrici, e` titolare dell’agenzia letteraria Lorem Ipsum, dove si occupa di scouting ed editing, insegna Scrittura editoriale nell’ambito dei master dell’Universita` Cattolica di Milano. Dalla sua esperienza sono nati i libri E così vuoi lavorare nell’editoria. I dolori di un giovane editor (Editrice Bibliografica, 2014) e Come pubblicare un giallo senza ammazzare l'editore (Editrice Bibliografica 2016). La terza (e ultima) vita di Aiace Pardon è il suo primo romanzo, edito da Baldini e Castoldi nel 2015, cui sono seguiti Le origini del potere. La saga di Giulio II, il papa guerriero (2020) e Al di qua del fiume. Il sogno della famiglia Crespi (2022) entrambi pubblicati da Nord.

Renzo Montagnoli

 

 

 

25 Marzo

Sulle rive dei fossi

di Ernesto Flisi

Premessa di Silvana Luppi

Edito in proprio

Poesia

Pagg. 62

Prezzo Euro 10,00 (*) Gli eventuali proventi derivanti dalla vendita di questa pubblicazione, una volta detratte le spese vive, saranno devoluti in beneficenza.

Natura e ricordi

Si tratta di un nuovo autore, nuovo per me, perché Ernesto Flisi non è al suo esordio con questa raccolta che sostanzialmente raggruppa tre sillogi tematiche (Il pentagramma della vita, Il succedersi del tempo, Caratterizzazioni umane). Se anche gli argomenti trattati sono diversi c’è un legame fra tutti ed è dato da una vena crepuscolare che accompagna le poesie. Non è tristezza, bensì qualcosa di meno gravoso, ma che evidentemente è innato, perché è più esatto parlare di malinconia. E questa nota mi sembra una caratteristica degli autori rivieraschi del Po che fino ad adesso ho esaminato, dai viadanesi Ernesto Flisi e Gabriele Oselini alla sermidese, ormai da tempo extra muros, Daniela Raimondi, e potrei inserirmi anch’io, visto che da più di una quarantina di anni risiedo a Borgo Virgilio. Questa comunanza non mi sembra un caso, perché evidentemente il fiume, il grande Po, anche se ora è ridotto quasi a un rigagnolo, esercita un influsso su chi è radicato sulle sue sponde, tanto è vero che ci unisce un comune amore per la natura e per i ricordi. Sono questi ultimi soprattutto a determinare una vena malinconica, forse per un inconscio rimpianto di ciò che è stato (ovviamente di bello) e che mai più ritornerà. In ordine a questo preambolo non intendo andare oltre perché  mi pare giusto approfondire il discorso della poetica di Ernesto Flisi.

Mi sembra un autore dall’animo mite, visti i toni pacati, mai ridondanti e senza che sia incline a una perniciosa retorica. Quasi a voler confermare ciò che dianzi ho esposto il rimpianto è tangibile nei versi come nel caso di Passato  (Non torneranno più / i fiori di questa estate. / / I sorrisi negati, / saranno, / irrimediabilmente, / perduti. / Forse resterà / un amaro rimpianto, o, / peggio, / un inconsapevole astio. /…). E’ vero, ci sono stagioni, quelle della vita di ognuno, che non torneranno più e si potrà arrivare a un punto che si rimpiangerà ciò che si avrebbe potuto fare, e non si è fatto, e ci si lamenterà di ciò che si è fatto e non si sarebbe dovuto fare.

Peraltro Flisi scrive dei punti  fermi della vita di ogni individuo, come la casa e l’amore, nonché del succedersi del tempo con cui prendiamo coscienza del nostro esistere, grazie a precisi punti di riferimento, che possono essere, per esempio, il Capodanno (All’alba / si ricompone / la gelida notte, / dopo l’amara festa, a celebrar la vita che fugge. /…)., ma soprattutto ai Ricordi (Ricordo un’aia / in un assolato meriggio ( di abbacinante luce / e festosi bimbi / a rimescolar, disteso, / il granturco a seccare. /…).  Come si può notare, sono ricordi tipicamente padani e rurali, come l’aia con sopra il mais raccolto e sgranato, di continuo rimescolato affinché si secchi uniformemente. Per quanto ovvio poi ce ne sono altri, ma motivi di tempo e spazio mi impediscono di parlarne, tanto più che mi corre l’obbligo di un’ultima annotazione sulle caratterizzazioni umane, fra le quali mi ha colpito Soffio, con quell’accenno misurato e pacato, ma che costituisce un’inesorabile premessa (Ci passa accanto / come soffio di brezza / la vita / imperscrutabile, / inarrestabile, impalpabile. /…), una poesia che è il paradigma della malinconia, con la consapevolezza della nostra temporaneità che ci costringe a vivere su un palcoscenico in cui siamo precari attori che cercano di comprendere il senso della commedia prima che cali il sipario.

La raccolta mi sembra riuscita, sia per la struttura che rende piacevole la lettura, sia per i contenuti che di certo non mancano, e graziose sono anche le illustrazioni che di tanto in tanto si accompagnano ai versi. Per un’opinione abbastanza esauriente sull’autore invece occorrono altri testi da esaminare, ma ho la sensazione che possano essere dell’ottimo livello di questo.

Ernesto Flisi è nato a Viadana, in provincia di Mantova. Ha trascorso tutta la sua vita nella scuola, da docente e dirigente scolastico. Come autore di versi, ha pubblicato nel 2016  “Fiori di campo” per Book Sprint edizioni. Altre composizioni sono state pubblicate in vari anni nei “Quaderni del caffè letterario”, guidato da A.M. Cirigliano, editi a Mantova da Il Rio; altre ancora in pubblicazioni sparse. Ha collaborato a diversi studi di storia locale. Da segnalare una monografia edita nel 2019 dalla Società Storica viadanese, intitolata “Il Commissario e l’Arciprete”, incentrata su un forte contrasto tra l’autorità religiosa e quella austriaca poco prima della proclamazione

dell’Indipendenza dell’Italia. Nel presente lavoro emerge l’attenzione alle vere

questioni della vita umana, che non trovano quasi mai riscontro nelle comunicazioni di massa. Sullo sfondo campeggia sempre l’occhio

meravigliato per la campagna padana. Sono gradite valutazioni, suggerimenti e altro all’indirizzo flisiernesto@libero.it

Renzo Montagnoli

 

 

 

21 Marzo

Sotto la Sua mano

di Piero Chiara

Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Narrativa

Pagg. 168

ISBN   978-8804115649

Prezzo Euro 10,00

 

Contro il logorio della vita

Anni fa c’era una pubblicità in televisione di un noto amaro definito come il rimedio contro il logorio della vita moderna. Se a questo logorio aggiungiamo attualmente i drammi della guerra in Ucraina e in Siria, quelli del terremoto che ha colpito soprattutto la Turchia e quello dei naufragi in cui incappa gente disperata, una persona normale non si può dimostrare insensibile, ma ci sono evidenti contraccolpi sulla sua psiche. Non è più sufficiente la magica bevanda, ma  per avere un minimo di tranquillità occorre estraniarsi e il modo migliore è di leggere un libro che non ponga ulteriori problemi, ma che costituisca un sano svago pur senza che riporti delle totali banalità. Per questo abbiamo un autore, purtroppo già scomparso, che è senz’altro uno dei migliori narratori che ci sia stato nel nostro paese e mi riferisco a Piero Chiara, il cantore delle piccole realtà e anche l’uomo che con la sua innata ironia, nel prendere in giro i comportamenti umani, finisce con l’accettare se stesso, riservando analogo trattamento a chi legge le sue opere.

Prendiamo questi tre racconti, riuniti in un unico volume a cui è stato dato come titolo quello del primo, Sotto la Sua mano. Sono pochi, certamente, ma oltre a essere abbastanza lunghi sono anche vari. L’inventiva dello scrittore è dimostrata ampiamente, cosa di cui non dubitavo, ma in uno dei tre arriva a superarsi e mi riferisco proprio al primo, quello del titolo. Come noto ad Arona c’è il santuario eretto in onore di San Carlo Borromeo, con la sua gigantesca statua, da tutti chiamata il Sancarlone, meta di continui pellegrinaggi, complice anche il panorama che si può godere salendo dall’interno fino in cima, alla testa. Ebbene, la creatività di Chiara trasfusa ad ampie mani nel racconto parte da epoca remota, addirittura romana ai tempi dell’imperatore Settimio Severo, allorché il procuratore Tito Cornasidio, appassionato di antichità, compra, pur con i dubbi del caso, i resti del famoso colosso di Rodi, resti costituiti da una certa parte anatomica che per decenza non nomino, ma che con un po’ d’intuito il lettore può indovinare, reperto che, attraverso diverse peripezie, giunge in Italia fino ad arrivare nei pressi di Arona dove per cause di forza maggiore viene abbandonato per essere poi ritrovato secoli dopo e utilizzato nella fusione della statua del Sancarlone, per la precisione per la testa e per le mani. A rendere un po’ più attendibile l’invenzione Chiara parla di una sua visita a un sacerdote suo lontano parente per una ricerca in cui viene casualmente a conoscenza di questo ritrovamento in epoca romana. L’ironia è assicurata, lo stile fresco, giovanile dell’autore coinvolge il lettore che si costringe a credere come vera la vicenda e proprio per questo le risate non mancano. Chi pensa che possa trattarsi di un’offesa alla religione stia tranquillo, perché San Carlo Borromeo non viene toccato nella sua santità, anzi è pure lui vittima di questa sorta di scherzo che è tuttavia una necessità, stante la penuria di bronzo e la necessità di ultimare la statua.

Il secondo racconto si intitola La banca di Monate e già da qui è più che mai logico aspettarsi qualcosa di particolare, perché se è vero che Monate, con il suo lago, esiste, è altrettanto vero che con quel termine sono designate le fesserie, o per restare nello spirito di Chiara, le coglionate. Si tratta di una satira del mondo finanziario, ritratto garbatamente, ma anche con tono deciso; è inoltre rappresentativo dell’Italia nel periodo che si apre con la fine della Grande Guerra e che si chiude con l’avvento del fascismo, in un luogo in cui si sviluppano tante iniziative industriali, accompagnate dal sistema bancario. Sinteticamente è quasi un giallo con una soluzione finale che ahimè anticipa i tempi e rispecchia di come adesso va il mondo.

Terzo e ultimo è Il giocatore Coduri, una descrizione perfetta di questo personaggio, quasi un’istituzione del bar del paese, un personaggio a suo modo misterioso che sembra insostituibile, anche perché perde regolarmente e altrettanto regolarmente paga, tanto che ci si chiede come faccia ad avere così tanto denaro; per il resto è insignificante tanto che quando muore, se ci si attendeva qualche contraccolpo, questo non c’è, perché era  una figura che si notava quando era presente, ma la cui assenza si fa presto a dimenticare.

Da leggere.  

Piero Chiara nacque a Luino nel 1913 e morì a Varese nel 1986. Scrittore tra i più amati e popolari del dopoguerra, esordì in narrativa piuttosto tardi, quasi cinquantenne, su suggerimento di Vittorio Sereni, suo coetaneo, conterraneo e grande amico, che lo invitò a scrivere una delle tante storie che Chiara amava raccontare a voce. Da Il piatto piange (Mondadori, 1962), che segna il suo esordio vero e proprio, fino alla morte, Chiara scrisse con eccezionale prolificità, inanellando un successo dopo l'altro.

E’ stato autore particolarmente fecondo e fra le sue numerose pubblicazioni figurano Il piatto piange (1962), La spartizione (1964), Il balordo (1967), L’uovo al cianuro e altre storie (1969), I giovedì della signora Giulia (1970), Il pretore di Cuvio (1973), La stanza del Vescovo (1976), Il vero Casanova (1977), Il cappotto di Astrakan (1978), Una spina nel cuore (1979), Vedrò Singapore? (1981), Il capostazione di Casalino e altri 15 racconti(1986).

Renzo Montagnoli

 

 

16 Marzo

Sotto la sabbia dorata

Prigionia in Africa

di Daniele Astolfi

Edizioni Tabula Fati

Pagg. 144

ISBN 979-12-5988-159-5

Prezzo Euro 12,00

 

Guerra e prigionia

Fra le cose lasciate alla sua morte da Antonio Astolfi figura anche un manoscritto ingiallito, centoquindici fogli di carta che costituiscono il suo diario della guerra in Africa e della successiva prigionia. Il nipote Daniele, oltre a sentirsi in dovere di leggerli, li ha anche opportunamente trascritti, a beneficio non solo suo e dei familiari, ma, grazie alla pubblicazione, anche di terzi che così, leggendo, sono venuti a conoscenza del dramma che ha colpito tanti italiani che hanno combattuto in Libia. Personalmente il mio interesse è stato un po’ diverso, perché pagina dopo pagina ho cercato di ripercorrere gli stessi itinerari, di rivivere gli stessi eventi della guerra mio padre, che era presente nella stessa epoca e nei medesimi luoghi, non come fante delle Camicie nere, bensì come sottufficiale dell’artiglieria contraerea. Avevo sperato, dalla foto di copertina che riproduce un cannone da 90/53 (il pezzo antiaereo più moderno in dotazione al Regio Esercito) che anche Antonio Astolfi fosse un artigliere e magari un compagno di batteria di mio padre, ma come ho indicato non è così; rimane però la stessa esperienza, nello stesso teatro e nei medesimi giorni. Quindi leggendo del nonno dell’autore è come se rivivessi l’analoga vicenda di mio padre, con gli stessi sentimenti e perfino le stesse sofferenze. Antonio Astolfi aveva già una pratica d’Africa avendo militato in Libia prima della guerra e mi par di capire che gli fosse maturato qualche dubbio sull’invincibilità degli italiani, dubbio accentuato già all’inizio del conflitto, con i disordini organizzativi, con i mezzi inadeguati, con lo scarso cibo e la ancor più scarsa acqua; la controffensiva nel dicembre 1940 del generale inglese Archibald Wavell tolse ogni dubbio, acclarò drammaticamente la nostra impreparazione e così Antonio Astolfi fu partecipe di una sanguinosa ritirata che si concluse per lui con la prigionia. Come mio padre fu tradotto al campo di Ismailia in Egitto, un lager dei peggiori, dove il cibo era una rarità e pure l’acqua non abbondava, forse più simile a un lager tedesco che a una struttura di detenzione. Per fortuna mio padre vi rimase poco a differenza di Antonio che vi soggiornò diversi mesi. E poi i trasferimenti in treno, con gli egiziani che non si limitavano a sfottere i prigionieri, ma tiravano loro dei sassi e, quando passavano sotto i ponti, gli orinavano in testa. Poi, finalmente, uscì un raggio di sole con il trasferimento, via nave, in Sud Africa, al grande campo di Zonderwater dove, per fortuna, il comandante, il sudafricano Hendrik Prinsloo, si rivelò persona dotata di grande umanità (mio padre mi ha parlato spesso di questo campo, di un soggiorno che non poteva definirsi ideale perché mancava la libertà, ma di mesi trascorsi senza più patemi d’animo, nell’attesa con la certezza, più che con la speranza, di un ritorno in patria che ogni giorno si avvicinava).

E infine il rientro in Italia, un’Italia tutta da ricostruire, e con la gente che stentava a credere a quanto raccontavano i reduci. Ma la vita, quella vera, fra gli affetti, ricominciava.

Da leggere, per chi desidera una diretta testimonianza storica, per chi non può sapere cosa significhi il sacrificio, affinché si possa comprendere che i libri di storia, per quanto utilissimi e completi, non possono mai riportare i timori, le ansie e il dolore di chi, in quei fatti così scientificamente descritti,  è stato  ignoto protagonista. 

Daniele Astolfi, nato ad Arsita (Te) nel 1959, risiede a San Giovanni Teatino (CH). Laureato in Sociologia all’Università “Carlo Bo” di Urbino. Giornalista pubblicista, collabora con il quotidiano “Il Messaggero”. Vicesegretario (collaboratori) del Sindacato Giornalisti Abruzzesi. Ha pubblicato alcune sue poesie in Cuore, viaggio nel pensiero (Alfonso Mammarella Editore 1991) e in Una luce in fondo al tunnel a cura di Luigi A. Medea (Cannarsa Editore, 1992). Attualmente ricopre il ruolo di export manager in un’azienda italiana

Renzo Montagnoli

 

 

11 Marzo

Implicita missione

La fotosintesi della memoria

di Claudia Piccinno

Fara Editore

Poesia

Pagg. 80

ISBN 978-88-9293-027-8

Prezzo Euro 12,00

Virtuosismo con contenuti

Non si può certo dire che Claudia Piccinno non ritragga soddisfazioni dal suo “poetare”, perché, a parte i gradimenti espressi dai suoi molti lettori, le note critiche e le recensioni sempre gratificanti, ha anche riconoscimenti in concorsi di pregio, dove si misura con altri artisti di grande qualità, tenzoni involontarie, ma da cui esce quasi sempre bene, insomma al podio è certamente abituata.  E’ accaduto così anche per il Narrapoetando 2023 che l’editore Fara propone da tempo ogni anno a verseggiatori e a prosatori. Implicita missione è la raccolta presentata in concorso e che ha ottenuto il prestigioso riconoscimento. Ho potuto leggere con calma, a tratti, ponderando se del caso di volta in volta le riflessioni che sorgono spontaneamente e ho rilevato innanzitutto che le quattro sezioni di cui si compone la silloge (Poesie varie, Haiku, Tautogrammi e Dediche) rappresentano la capacità dell’autrice di variare nel campo stesso di quest’arte antica e immortale (basti pensare al riguardo la presenza degli Haiku, di questa forma direi anche tecnica tipica del lontano Oriente, del Giappone, ma che ha preso piede un po’ ovunque; se non bastasse, il ricorso ai tautogrammi rispolvera una specie di gioco di origine medievale.). E’ una ecletticità che non sacrifica l’arte poetica per stupire, no, è funzionale alla stessa, e non si tratta nemmeno di accademismo, bensì di capacità, di virtuosismo, che restano qualitativamente quelli a cui ormai ci ha abituato, virtuosismo che porta Claudia Piccinno a giocare con le parole, ma senza sacrificare i contenuti.

Ciò premesso, mi sembra che in questa silloge la poetessa ci proponga la sua visione metafisica del mondo e dell’esistenza, partendo dal presupposto dell’astrazione dal presente che è l’unica soluzione per poter espandere la propria voce quale risultato di un procedimento di analisi interiore. E in questo lavorio emergono, filtrati, ma non appannati, i sentimenti come in Tra gli Ulivi (Tornano / quando si soffre / i volti di chi / abbiamo amato. / Vuoto il battito / muta la voce / ci si aggrappa / a un sentire lontano. /…). E fra questi volti non possono mancare quelli familiari, quelle persone che per noi hanno rappresentato un esempio e che ci hanno insegnato gli scopi dell’esistenza, come nel caso di A mio padre (Profumano delle tue arance / le mie mani. / E ti rivedo in sogno / nei momenti di pace / quando ti si allargava il cuore / in un sorriso. / Profumavano di terra le tue mani / Di tabacco e eau d’Hermes. / Contraddizioni e friselle / mandorle e fichi / dolcezza e stupore. / Grama fu la tua infanzia / ma nel bello trovavi conforto. / Profumano delle tue arance / le mie mani / / in quel profumo… rivedo te.). Questi, versi, palpitanti, capaci di trasmettere emozioni quasi con violenza presentano tanti aspetti positivi, come il ritmo, il preambolo di una storia di affetti e la chiusa che è fulminante, ma poi quasi olfattivo è anche  un miscuglio di profumi, da quello delle arance, del tabacco e, penetrante, l’afrore della terra. Viene voglia di respirare a pieni polmoni, è una poesia che profuma e questo profumo si trasmette, come quello delle arance dalle mani del padre a quelle della figlia. Queste composizioni fanno parte delle poesie varie, la sezione più ampia, sulla quale ci sarebbe tanto ancora da dire, ma purtroppo il tempo e lo spazio sono pochi.

Per chi non conoscesse il tautogramma dico subito che non è un esercizio facile  perché comporre versi le cui parole cominciano tutte con la stessa lettera e ovviamente dando un senso compiuto non è da tutti. Un esempio? Eccolo fra quelli “in b” (Biascicavi bavose balbuzie, / bellicosamente blateravi. / Beccheresti briciole di baci / ballando bruschi boleri / boicottando belle ballerine / borseggiatori e bombaroli./ …).

Salto gli Haiku che sono ampiamente gradevoli e passo alle dediche che chiudono la raccolta e sigillano così nel migliore dei modi un’opera di indubbio valore. Sono poche, mirate, e la mia preferita non è quella a un poeta famoso o comunque a personaggi del passato anche lontano, ma quella che riguarda una bimba al suo primo compleanno, con tutta una vita davanti e con gli auguri di chi è già nel corso della vita e che con ogni probabilità guarda a quella piccina con una inconscia punta d’invidia, perché adesso che sappiamo come è, che abbiamo le nostre esperienze, ci viene spontaneo  pensare come sarebbe bello poter ricominciare.

Da leggere, senza dubbio.

 Claudia Piccinno è docente, traduttrice, autrice di numerosi libri di poesia, di prefazioni e saggi critici. Direttrice per l’Europa del World Festival Poetry fino a settembre 2021, medaglia d’oro al Frate Ilaro 2017, vincitrice Ossi di Seppia 2020, ambasciatrice per l’Italia del World Institute for Peace e di Istanbul Sanat Art, Ape d’argento del Comune di Castel Maggiore per meriti culturali. Tra i vari premi internazionali, gli ultimi: Global Icon Award 2020 for Writers Capital International Foundation, The Light of Galata (Turchia 2021), Sahitto International Jury Award (Bangladesh 2021), Premio alla Cultura Città del Galateo (Roma 2021), Aco Karamanov (Macedonia 2021), Ajtan Zhiti (Kosovo 2021). È responsabile della rubrica Poesia per La Gazzetta di Istanbul e redattore per l’Europa della rivista turca Papirus (Artshop).

Collabora con vari blog, e-magazine e riviste cartacee, tra cui: MenabòVerbumpressCiaoMagOur PoetryIl PorticcioloFarapoesia

Renzo Montagnoli

 

 

10 Marzo

1977. ALLA VALLE DEI MULINI DI GRAGNANO DI VINCENZO PATIERNO (IVVI)

recensione di Salvatore Amato

La vita da scout forma il carattere e crea amicizie che possono durare tutta la vita, ed è proprio quello di cui ha bisogno il protagonista Vincenzo, un ragazzo da burla facile e dagli scherzi non sempre ortodossi.

Ma certa gente ha un gene talmente ribelle che rischia di farsi radiare anche dagli scout, ma non c’è tempo per pensarci; qualcuno grida: “Al fuoco” e la vicepreside finisce “a culo in terra”.

I mulini imperano sulla valle, sembrano i Titani padri delle divinità dell’Olimpo, hanno sorrisi verticali a cui si arrampicano storie di risa e gioventù, amori e drammi, reminiscenze catartiche e misteri, sembrano destinati all’abbandono e hanno la certezza che qualcuno si ricorderà di loro.

I ricordi pascolano a piedi scalzi, l’aroma dei campi è sapore di casa, la pizza è ancora più buona quando offre la casa, le abilità di Aurelio mandano il pubblico in visibilio, la gente recita la preghiera prima della processione, Don Alfonso è un po’ effeminato, ha occhiali con lenti più spesse dei vetri antiproiettile e una nonna che trova un sacco di lavori di restaurazione, se le si offre la possibilità di usufruire di una manodopera gratuita.

La vita degli scout responsabilizza i ragazzi e serba sempre qualche avventura, per i profani è interessante scoprirla, per chi l’ha fatto è sempre un piacere rievocarli dall’almanacco delle rimembranze.

Tra le pagine c’è odore agreste, di spensieratezza e gioventù, i ricordi sono vivi, lasciano segni indelebili che gli anni non sbiadiranno, trascinano il lettore dentro la storia e lo guidano con un sorriso sornione in un passato che sembra risplendere sul fondale della maturità. Come coralli, incantano e si prendono in carico la responsabilità estetica, rovistano nel verbo, affinché questo possa rendere almeno l’idea della gioia di quei ragazzi che non avevano smartphone per guardare il mondo e dovevano “accontentarsi” di farlo con i propri occhi.

Un romanzo che si consuma in fretta questo di Patierno, un romanzo che si fa leggere a cuor leggero con notevole appagamento; scorre e cattura, forse è meglio se leggi solo un’altra pagina che si è fatto tardi, sussurra la voce interiore, ma neanche lei è immune dai piaceri letterari e senza accorgersi si divorano altri tre capitoli.

Dallo scoutismo alle tinte dei gialli d’annata è un battito di ciglia, l’intrigo e il mistero donano nerbo a una lettura già potente di suo per altri espedienti, poi a risolvere l’enigma potrebbe essere chi meno ti aspetti.

Le sorti dei mulini lasciano un sapore posticcio, ma ci si può solo consolare con quello che furono per ritrovarli maestosi, amici giganti, guardiani della vallata, testimoni silenti di amicizie, amori, misteri e passioni.

 

 

6 Marzo

Come vento cucito alla terra

di Ilaria Tuti

Edizioni Longanesi

Narrativa

Pagg. 384

ISBN 9788830459175

Prezzo Euro 20,00

 

Una storia di ribellioni e d’amore

“L’amore è sutura./ Sutura e non benda, sutura - non scudo /

(Oh, non chieder difesa!),/ sutura, con cui il vento è cucito alla terra,/ con cui io a te sono cucita.” (Marina Cvetaeva)

I romanzi gialli di Ilaria Tuti con protagonista il commissario Teresa Battaglia non mi hanno convinto, per i motivi che ho spiegato nelle mie recensioni. Invece mi è piaciuto Fiore di roccia, un’opera che dà giustamente risalto alle portatrici carniche della Grande Guerra e in cui, oltre all’abnegazione di chi rischiando la vita portava in trincea munizioni e viveri, sono ben tratteggiate queste figure femminili che, per fame, si sostituiscono agli uomini  in un ingrato e pericoloso lavoro.

In Come vento cucito alla terra protagoniste sono ancora le donne, le prime lady doctors; infatti Ilaria Tuti porta alla luce una storia forse dimenticata, vale a dire quella del Women's Hospital Corps (WHC), la prima unità medica fondata da Flora Murray e Louisa Garrett Anderson.  Quindi, anche in quest’opera viene posta in risalto la preziosa figura della donna che si rivela di grandissimo aiuto con interventi chirurgici a militari francesi e inglesi feriti nel corso della Grande Guerra. Queste dottoresse, autentiche suffragette, sono esistite veramente, così come non è un’invenzione il Women’s Hospital Corps; invece la trama, ben articolata e anche molto avvincente, è frutto di creatività.  

Il libro è quindi una storia di donne, ma è anche una storia di emancipazione, una tappa dell’infinito percorso, ancor lungi dall’esser concluso, per arrivare alla parità fra sessi diversi. Agli inizi del secolo scorso le donne  potevano anche studiare da medico e laurearsi pur fra mille difficoltà, ma esisteva il preconcetto che il gentil sesso, per sua natura, incline all’emozione e alla commozione, non fosse adatto a eseguire interventi chirurgici. Il Women’s Hospital Corps dimostrò invece che questi pregiudizi erano del tutto infondati, preconcetti che erano radicati in qualsiasi classe sociale, al punto che agli inizi non pochi feriti si opponevano fermamente all’idea di essere operati da una donna. In questo quadro generale, nell’orrore di una guerra (al riguardo le descrizioni dei campi di battaglia sono veramente notevoli) si innestano due storie che sembrano procedere parallele, ma che progressivamente si avvicinano fino a incontrarsi. I protagonisti di queste due vicende che finiscono per intersecarsi sono Cate, una dottoressa di padre inglese e madre italiana, di famiglia benestante, che però in pratica l’ha rinnegata, nubile con una figlia piccola a carico, e Alexander, capitano di fanteria, proveniente da una famiglia di alto lignaggio, ma di altrettanto alta insensibilità. La prima soccorre Alexander nella terra di nessuno e ricuce con notevole abilità il suo viso sfregiato da un colpo di baionetta; Cate fa delle suture che sono degli autentici ricami, ricami che inizieranno a fare i soldati feriti nella convalescenza al Women’ Hospital, attività dapprima osteggiata, perché ritenuta non virile, ma che darà i suoi frutti allentando le tensioni da guerra, aiutando gli invalidi ad accettare la propria sorte, insomma costituendo uno svago creativo indispensabile per una guarigione soprattutto della mente.

Come vento cucito alla terra è una storia di ribellioni e d’amore, perché ribellione è quella di Cate che reclama la dignità femminile attraverso la parità fra uomo e donna e ribellione è pure quella di Alexander alle convenzioni, alla rigida educazione familiare la cui l’ubbidienza deve essere cieca; ma è anche una storia d’amore fra loro due, una relazione che non avrebbe potuto nascere se non avessero saputo alzare la testa e ritrovare quella libertà innata che solo le regole non scritte di una società rigida possono soffocare.

Non vado oltre, perché mi pare che sia opportuno, oltre che giusto, lasciare ai lettori la scoperta di come procederà e finirà il romanzo.

Si tratta indubbiamente di un’opera eccellente e pertanto la lettura è sicuramente consigliata.

Ilaria Tuti è nata il 26 aprile 1976 a Gemona del Friuli, in provincia di Udine. Ha studiato Economia. Appassionata di pittura, nel tempo libero ha fatto l’illustratrice per una piccola casa editrice. Nel 2014 ha vinto il Premio Gran Giallo Città di Cattolica. Il thriller Fiori sopra l'inferno, edito da Longanesi nel 2018, è il suo libro d'esordio. Tra i suoi libri ricordiamo anche: Ninfa dormiente (Longanesi, 2019) e Fiore di roccia (Longanesi, 2020). Del 2021 il romanzo La luce della notte, il ritorno dell'amatissima Teresa Battaglia in un romanzo di rinascita e speranza. Sempre per Longanesi pubblica nel 2021, Figlia della cenere e nel 2022, Come vento cucito alla terra.

Renzo Montagnoli

 

 

 

28 Febbraio

HAIKU per un anno

di Franca Canapini

Disegni di Alice Bigozzi

Youcanprint

Pagg. 104

ISBN  979-1221446012

Prezzo Euro 10,00

 

Ricami d’oriente

E’ da tempo che cerco di scrivere poesie, con risultati che a volte mi soddisfano, ma che più spesso non mi appagano. Comunque sono cocciuto e continuo imperterrito, anche perché mi diverto. Ho provato diverse tipologie di componimenti poetici, ma non mi sono mai cimentato con l’haiku. Al di là della forma canonica di tre versi di complessive diciassette more (che noi chiamiamo sillabe) ha lo schema 5/7/5. Però l’haiku non si differenzia solo per la metrica, ma anche perché rappresenta l’estrema sintesi di un pensiero, senza la necessità di un titolo, però con la presenza di un riferimento a una delle stagioni dell’anno. In questo senso il tema svolto, o meglio la riflessione, finisce per avere come oggetto la natura. Forse mi sbaglio, ma l’impressione che ne ho ritratto è che si tratti di versi dolci, gentili, ornamentali, ma anche con contenuto, una specie di ricami, meglio ancora di ricami d’oriente.

Premetto che non mi azzarderò a cimentarmi con gli haiku, ma ho voluto vedere un po’ più chiaro dopo aver letto un libriccino di un’amica, i cui haiku mi sono risultati in buona parte gradevoli. Per quanto abituato a scrivere recensioni anche di libri di poesia, questa volta me ne guardo, preferendo eventualmente dimostrare i motivi del mio gradimento. Sarebbe da dire che, più che note critiche, intendo esporre delle sensazioni, come per esempio per questo: Slancio vitale / il cappero sul muro / a tutto sole. (L’impressione è che si ponga il risalto la voglia di vivere del cappero nonostante le difficoltà di un terreno non proprio ospitale).

Altro esempio è Rosa canina / intenerisce maggio / acute spine. (In questo caso è evidente una specie di ossimoro fra un maggio tenero e le spine che feriscono).

Non intendo però tediare oltre, anche perché, essendo profano in materia, correrei il rischio di deragliare. Però voglio chiudere con un ultimo haiku: Furiosa l’acqua / gorgoglia tra le pietre /Cerca la valle. (Caratteristico è il dinamismo del fluido che piomba dall’alto dei monti per arrivare nella valle, cioè al piano).

Da che libro sono stati tratti questi haiku? Da HAIKU per un anno. Chi è l’autore? E’ un’autrice, una vecchia conoscenza che già mi ha abituato con le poesie delle sue riuscite raccolte e che si diletta anche con la narrativa (molto bello il suo Dal fondo. I miei primi dieci anni). 

Insomma si tratta di Franca Canapini, un nome, una garanzia.

Franca Canapini, nata a Chianciano Terme (Si), risiede ad Arezzo dal 1975. Laureata in Materie Letterarie presso l’Università degli Studi di Perugia, è stata Maestra nella Scuola Primaria e Professoressa di Lettere nella Scuola Secondaria di primo grado.

Della poesia (e della scrittura in generale) dice “ La poesia, per me, è folgorazione da cui scaturisce una piena magmatica di suoni, immagini, pensieri, emozioni che necessita trovare foce in parole scritte. Scrivere è stato il sogno più bello della mia giovinezza. Ora, in età matura, il sogno è diventato esaltante progetto di vita.”

A partire dal 2010 ha pubblicato 7 raccolte di poesia, un romanzo, una raccolta di favole, un romanzo breve e un racconto, per le quali pubblicazioni ha ricevuto premi e segnalazioni. Fa parte del Consiglio dell’Associazione degli Scrittori Aretini Tagete ed è membro di giuria di alcuni premi letterari.

Suoi lavori si trovano in diverse antologie e riviste di poesia, in vari siti e blog letterari e nel suo blog personale: www.lie­ve2011.wordpress.com

Sito personale: www.francacanapini.weebly.com

Renzo Montagnoli

 

 

 

24 Febbraio

Omaggio alla Catalogna

di George Orwell

Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Storia

Pagg. 280

ISBN 9788804509844

Prezzo Euro 9,50

 

Forse il miglior reportage sulla guerra di Spagna

George Orwell partecipò alla Guerra di Spagna in qualità di miliziano del POUM (Partito Operaio di Unificazione Marxista), partito quindi di sinistra, ma decisamente antistalinista. Pertanto, la sua narrazione è il frutto dell’esperienza maturata, che se non ha una valenza generale per questo conflitto, tuttavia comprende una disamina approfondita dei contrasti, spesso violenti, esistente nella variegata compagine antifascista. Come testimonianza dell’aspetto bellico sono rimasto sorpreso per quanto risulti diverso da quello descritto in romanzi sullo stesso teatro di guerra, uno per tutti Per chi suona la campana di Ernest Hemingway. Infatti vi è descritta una campagna statica, in trincee, simile a quella della Prima Guerra Mondiale, con l’unica differenza, non da poco ovviamente, rappresentata dalle rare occasioni di scontri e quindi con perdite limitatissime. Con ogni probabilità ebbe occasione di operare in un settore del fronte relativamente quieto, ma se il pericolo di restare ucciso era tutto sommato modesto, per il resto c’erano tutti i problemi della guerra di posizione, la cui descrizione è veramente pregevole. La pioggia incessante, il fango che rende difficile camminare, la promiscuità in ricoveri di fortuna, la scarsità delle armi e delle munizioni, il vestiario inadeguato e ridotto a brandelli, la compagnia certamente non desiderata di topi e pidocchi sono un palcoscenico dove di importante dal punto di vista bellico non accade nulla, così che fra i miliziani regna la noia nell’attesa dell’avvicendamento che li porterà nelle retrovie a Barcellona.  Il tanto sospirato riposo nella capitale della Catalogna non si rileverà però tale, perché scoppia quella che appare una rivoluzione e invece è il tentativo di prendere il potere dei comunisti stalinisti per niente favorevoli  alla rivoluzione permanente che vorrebbero gli anarchici. Dagli scontri, in verità di modesta entità, Orwell esce indenne, ma ritornato al fronte viene colpito alla gola da una pallottola, che gli impedirà a lungo di parlare e gli imporrà una lunga convalescenza, resa complicata anche dal fatto che, abolito il POUM, i comunisti gli danno la caccia, tanto che con notevole difficoltà troverà riparo e salvezza all’estero.

Al di là della narrazione dell’esperienza maturata di particolare rilievo è l’analisi svolta della situazione e del voltafaccia dei comunisti che non esitarono, per liberarsi del POUM, di arrivare ad accusarlo di connivenza con le forze franchiste, insomma di essere una quinta colonna fascista volta a impedire quella rivoluzione che i comunisti stessi volevano invece fermare. Per far questo non esitarono a corrompere giornalisti di testate estere, una tecnica di disinformazione che è una costante prima dei sovietici e poi dei russi.

Omaggio alla Catalogna costituisce pertanto uno dei più importanti reportage sulla guerra civile in Spagna e per Orwell una presa di coscienza che lo porterà a un rifiuto netto di ogni totalitarismo.

Imperdibile.

George Orwell, pseudonimo di Eric Arthur Blair, nacque a Motihari (India) il 25 giugno 1903 e morì a Londra il 21 gennaio 1950. Giornalista e scrittore è giustamente ricordato soprattutto  per due suoi romanzi di notevole spessore: La fattoria degli animali e 1984.

Renzo Montagnoli

 

 

19 Febbraio

Guarda le luci, amore mio

di Annie Ernaux

L’orma Editore

Narrativa

Pagg. 112

ISBN 9788831312844

Prezzo Euro 13,00

 

Uno specchio della realtà sociale

L’origine di questo libriccino (112 pagine) è un incarico che Annie Ernaux ha ricevuto nel 2017 dall’editore francese Seuil di un libro per la sua collana “Raccontare la vita”. In pratica, con un tema così vasto, c’è solo l’imbarazzo della scelta, ma la narratrice, recente premio Nobel per la letteratura, ha avuto un’idea originale e ha pensato che non ci può essere miglior specchio della realtà sociale parlando di ciò che si incontra e si vede in un grande polo d’attrazione quale può essere l’ipermercato. E’ così che Ernaux registra, come in un diario, le visite che effettua in un anno al suo Auchan, a questo tempio del consumismo in cui la gente affluisce nel corso di una giornata, gente di tutti i tipi. C’è chi deve fare i conti con il magro portafoglio, altri che sono attratti irresistibilmente da pseudo sconti e acquistano assai di più di quel che sarebbe necessario. Insomma, fra i richiami melliflui del capitalismo commerciale si aggira una varia umanità che l’occhio attento di Ernaux è riuscito a cogliere e che poi con la consueta abilità ha trasferito su carta. Le visite della scrittrice sono anche dovute alla necessità di acquistare i prodotti per l’indispensabile alimentazione, ma non manca mai l’ironia con cui riesce a cogliere le contraddizioni di questo grande mercato che affascina e disorienta, che invoglia a fare acquisti (penso che sia capitato a tutti che, entrati per acquistare due prodotti, se ne vedano altri in offerta, altri ancora a prezzo normale, ma che o per novità o per altro sono un richiamo irresistibile; il risultato è che si finisce con l’arrivare alle casse con il carrello pieno o quasi). Con così tanta gente che vi accorre l’ipermercato sembrerebbe un luogo di aggregazione e invece non lo è,  è un posto dove chi si sente solo acuisce questa sensazione, perché tutto è attrezzato affinché il cliente entri, compri e paghi, senza che ci sia la possibilità di sedersi e parlare con qualcuno, dialoghi anonimi che invece si presentano puntuali nelle file delle casse.

Con questo libro Ernaux ci presenta i tanti difetti e i pochi pregi della nostra società, non facendo sconti nemmeno per se stessa, e lo fa con il solito garbo, con quella scrittura scorrevole, semplice, ma anche efficacissima, che la contraddistingue. Certo non siamo ai livelli del superlativo Una donna, ma si tratta di un’opera piacevole in cui troveremo anche tanto di noi.

Annie Ernaux  (Lillebonne, 1 settembre 1940) è una scrittrice francese vincitrice del Premio Nobel per la Letteratura 2022. Di famiglia operaia, ha vissuto fino all’adolescenza in Normandia, mantenendo in seguito un forte legame con l’ambiente sociale d’origine e le tematiche della differenza di classe. Ha esordito con il romanzo Gli armadi vuoti (Les Armoires vides, 1974), nella tradizione del realismo sociale, cui è seguito Il posto (La place, 1984), ricostruzione del proprio ambiente familiare. Nei romanzi successivi ha continuato a indagare, in un linguaggio «vero», che si vuole oggettivo e depurato da evasioni stilistiche o di finzione romanzesca, i luoghi e le sensazioni della propria autobiografia al femminile: Passione semplice (Passion simple, 1991), La vita esteriore (La vie extérieure, 2000, nt), Perdersi (Se perdre, 2001, nt), L’uso della foto (L’usage de la photo, 2005, nt), L'altra figlia (L'autre fille, 2016). Gli anni (Les années, 2008), pubblicato da L'orma nel 2016, è vincitore del Premio Strega Europeo 2016 e finalista del Premio Sinbad 2015 - Narrativa straniera. Con L'Orma ha pubblicato Memoria di ragazza (2017), La vergogna (2018) e La donna gelata (2021).
Nel 2022 è vincitrice del Premio Nobel per la letteratura con la seguente motivazione: "per il coraggio e l'acutezza clinica con cui scopre le radici, le estraneità e i vincoli collettivi della memoria personale".

Renzo Montagnoli

 

 

14 Febbraio

La Sanseverino.

Giochi erotici e congiure nell'Italia della Controriforma

di Gigliola Fragnito

Edizioni Il Mulino

Storia

Pagg. 216

ISBN 9788815290632

Prezzo Euro 24,00

 

La frenesia di vivere

Se si passa per Colorno, grazioso paese nei pressi del Po in provincia di Parma, è pressoché doveroso fare una visita alla sua famosa Reggia, soprattutto da quando è stata restaurata dopo anni di utilizzo inappropriato (era un ospedale psichiatrico). Le sue oltre 400 sale e il magnifico giardino rappresentano un’indubbia attrattiva, ma non è solo una questione artistica l’interesse per questo palazzo ducale, perché lì, sul finire del 1500 e gli inizi del 1600, ci fu una corte assai famosa e questo per merito di Barbara Sanseverino Sanvitale, contessa di Sala e signora di Colorno. Era una donna esuberante, famosa per la sua bellezza e anche per la frenesia con cui conduceva la sua esistenza, tutta dedita al divertimento, non escluso quello erotico. Anzi sotto quest’ultimo aspetto Barbara Sanseverino e i componenti della sua corte erano piuttosto noti; in quelle sale si folleggiava, ma anche si parlava di poesia, si ascoltava la bella musica, si tenevano feste che duravano giorni e giorni, insomma la reggia era un autentico tempio del piacere. Ma, anche quando era in trasferta, Barbara continuava in questa vita di eccessi, un autentico faro che chiamava a sé tutti i gaudenti. E questo benché fosse sposata, con prole anche, insomma era un carattere del tutto particolare, invocava una libertà che per i tempi era un po’ troppo in anticipo. Le feste, i piaceri della carne però non la distraevano dal difendere i suoi piccoli possedimenti, ambiti notevolmente da Ranuccio I Farnese, duca di Parma, un personaggio a tinte fosche teso continuamente ad ampliare il suo potere. Per quanto ovvio fra lui e i Sanvitale non correva buon sangue, tanto più che questi ultimi erano in stretta amicizia con Vincenzo I Gonzaga, duca di Mantova, che era detestato da Ranuccio a causa del matrimonio con sua sorella Margherita durato appena due anni e annullato per una malformazione fisica della sposa che non permetteva di consumarlo.

Il Signore di Parma, peraltro, sempre teso ad ampliare il suo potere, provvide a limitare i diritti dei nobili del suo ducato provocando un generale malcontento al punto che ordirono una congiura, probabilmente anche stimolati dal potente Vincenzo I. Scoperta la cospirazione, la reazione di Ranuccio fu spietata, i partecipanti furono imprigionati e quasi tutti condannati alla pena capitale. Fra essi c’era anche Barbara Sanseverino, la cui testa fu mozzata ricorrendo a un mannarino, che si usa solitamente per gli animali, .anziché a una mannaia. Si concludeva così tragicamente la vita di una donna che comunque spese bene, come desiderava, gli anni della sua esistenza.

Di lei ci parla la storica Gigliola Fragnito con La Sanseverino, un saggio ben strutturato, in grado di presentare un ritratto completo, sia dal punto di vista degli eventi che della psicologia del personaggio. Se c’è un appunto da fare, l’unico è lo stile un po’ accademico che, per restare strettamente connessa ai fatti, implica una narrazione che in alcuni punti può apparire greve. Nel complesso però l’opera ha una sua valenza perché permette di comprendere un’epoca e una protagonista, la cui spumeggiante vitalità era frutto di una libertà  del genere femminile troppo avanti per quegli anni.

Gigliola Fragnito ha insegnato Storia moderna nell’Università di Parma. Con il Mulino ha pubblicato anche «La Bibbia al rogo. La censura ecclesiastica e i volgarizzamenti della Scrittura» (1997, nuova ed. 2015), «Proibito capire. La Chiesa e il volgare nella prima età moderna» (2005), «Cinquecento italiano. Religione, cultura e potere dal Rinascimento alla Controriforma» (2012), «Storia di Clelia Farnese. Amori, potere, violenza nella Roma della Controriforma» (2013, nuova ed. 2016), «Rinascimento perduto. La letteratura italiana sotto gli occhi dei censori» (2019).

Renzo Montagnoli

 

 

7 Febbraio

Le Vergini di Pietra

di Ben Pastor

Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Narrativa

Pagg. 412

ISBN 9788804683896

Prezzo Euro 14,00

 

Un Cuore di tenebra nel terzo secolo d.C.

Un’altra avventura di Elio Sparziano, incaricato dall’imperatore Galerio di rintracciare il generale romano Paullo Curzio, che ha disertato in Armenia, dove di fatto avrebbe dato vita a un regno facendosi chiamare Ter Vishap, il signore dei draghi. Dei tre episodi che finora ho letto questo è senza ombra di dubbio il migliore, presentando elementi di giudizio particolarmente validi, al di là di quella che può essere la trama, in verità intricata, ma ben congegnata. Il lungo viaggio che porterà Elio da Trebisonda, porto sul Mar Nero alle Vergini di Pietra, picchi rocciosi che vegliano sul passo che immette nei domini di Ter Vishap è uno di quelli che è ben difficile dimenticare, per ricchezza di informazioni, per capacità descrittive in grado di presentare agli occhi del lettore panorami inconsueti, facendo entrare gradualmente in un’atmosfera che sembra sospesa nel tempo. Come tutti i percorsi umani che presentano diversi gradi di difficoltà a cui l’itinerante viene sottoposto è un lungo viaggio dentro di sé, a scoprire le proprie qualità, a far emergere i difetti, a maturare esperienze che gettano basi solide per il futuro. E’ una terra selvaggia, di terremoti, di piogge dirompenti, di arsure devastanti, infestata da ragni giganteschi e da predoni per i quali la vita di un uomo vale meno di zero. La scrittura di Ben Pastor è particolarmente immaginifica ed è al servizio di ciò che è la perfetta antitesi del bene, cioè il male, un male che può assalire inconsapevolmente un uomo nel suo sfrenato desiderio di potenza fino a poter decidere dell’esistenza dei suoi simili; in fin dei conti Ter Vishap, che Elio Sparziano troverà, non è altro che un uomo simile al Kurtz di Cuore di tenebra, un individuo che nel suo desiderio di onnipotenza crede di essere un Dio. In un drammatico scontro finale, pagine che sono un capolavoro, emergerà la miseria morale di Ter Vishap, ritornato, in prossimità della morte Paulo Curzio, un mortale come tutti, la caduta di un dio ritornato uomo. In questo viaggio Elio incontrerà tanti personaggi, alcuni stimabili, altri laidi, ma da tutti avrà da imparare qualcosa, né mancherà un’occasionale parentesi di un amore erotico con una ex prostituta in origine circense, Tarantula, che negli amplessi che gli riserverà gli farà tanto più apprezzare il desiderio di un amore fatto di sentimenti, come quello con Anubina, l’ex prostituta egiziana che lui aveva comprato e che, innamorandosene, aveva liberato.

Le Vergini di Pietra è quello che si può definire un romanzo stupendo.

Scrittrice italo americana Ben Pastor, all'anagrafe Maria Verbena Volpi, nata a Roma il 4 marzo 1950 ma trasferitasi ben presto negli Stati Uniti, ha insegnato Scienze sociali presso le università dell'Ohio, dell'Illinois e del Vermont. Oltre a Lumen, Luna bugiarda, Kaputt Mundi, La canzone del cavaliere, Il morto in piazza, La Venere di Salò,  Il cielo di stagno, - ovvero il ciclo del soldato-detective Martin Bora (pubblicati da Hobby&Work a partire dal 2001 e poi da Sellerio) - è autrice di I misteri di Praga (2002), La camera dello scirocco, omaggi in giallo alla cultura mitteleuropea di Kafka e Roth (Hobby &Work), nonché de Il ladro d'acqua (Frassinelli 2007), La voce del fuoco (Frassinelli 2008), Le vergini di pietra La traccia del vento (Hobby & Work 2012), una serie di quattro thriller ambientata nel IV secolo dopo Cristo.
Nel 2006 ha vinto il Premio Internazionale Saturno d'oro come migliore scrittrice di romanzi storici.

Le sue opere sono pubblicate negli Stati Uniti e in numerosi Paesi europei.
Un suo racconto è incluso nell'antologia Un Natale in giallo (Sellerio 2011).
Nel 2014 esce La strada per Itaca (Sellerio) e nel 2020 Il ladro d'acqua (Mondadori).

Renzo Montagnoli

 

 

2 Febbraio

Una donna

di Annie Ernaux

L’orma Editore

Narrativa

Pagg. 99

ISBN 9788899793470

Prezzo Euro 15,00

L’elaborazione del lutto

Mi è occorso poco tempo per leggere questo libriccino e ancor meno per rileggerlo, perché le pagine sono poche (in tutto 99) e lo stile è talmente scorrevole che scivola via, come una goccia di pioggia sul vetro di una finestra.

In breve la storia è questa: la madre dell’autrice, anziana e malata di Alzheimer, ricoverata in una struttura specializzata, muore. L’evento, per quanto certo e comune a tutti gli esseri viventi, diventa un dramma per la figlia; quella consapevolezza che chi l’ha messa al mondo e l’ha cresciuta non c’è più e che non potrà più rivedere accanto a sé necessita di un inconscio, ma indispensabile processo di elaborazione che si estrinseca nel ricordo, a partire da quello che ha appreso da altri della vita della sua genitrice quando questa era ancora una bimba. Poi, il tempo scorre e dal matrimonio della madre nasce lei, Annie, ed è allora che la memoria frutto di accadimenti che l’hanno toccata si fa più dolorosa, emergono caratteri, dolcezze, contrasti, è un film la cui pellicola si svolge senza poterla fermare. Affiorano anche punte di rimorso per quello non detto o fatto e che si sarebbe dovuto dire o fare, e anche quello che si è detto e si è fatto, e non si sarebbe dovuto né dire né fare. E’ un percorso obbligato, l’unico perché possa essere attutito il dolore e sia accettata la morte di una persona cara come un evento del tutto naturale. E’ una cesura netta con il passato, tanto che il libro si conclude con queste parole: “Non ascolterò più la sua voce. Era lei, le sue parole, le sue mani, i suoi gesti, la sua maniera di ridere e camminare, a unire la donna che sono alla bambina che sono stata. Ho perso l’ultimo legame con il mondo da cui provengo.”.

A primo colpo può sembrare un racconto banale, perché in fin dei conti tutti ci siamo passati, ma il genio dell’artista è nel rendere del tutto eccezionale ciò che è solitamente normale, è la capacità di dire e scrivere con parole semplici, ma mirate quella che è la vita, appassionando chi legge, avvincendolo, consentendogli di essere partecipe all’elaborazione di un lutto che, se non ha già sperimentato, prima o poi diventerà una fase della sua esistenza.

E’ il primo libro che leggo di questa autrice francese che ha ricevuto nel 2022 il prestigioso Premio Nobel per la letteratura e mi è piaciuto, mi ha avvinto dalla prima all’ultima pagina, ho partecipato alla elaborazione del suo dolore come se sua madre fosse stata mia madre, perché anch’io ho percorso dentro di me lo stesso doloroso itinerario dopo la scomparsa della mia genitrice. Io non ho saputo però raccontarlo, mentre lei ha vergato sul foglio le parole di un intimo tormento, fino a quando – ne era ben consapevole, avendone timore – lo stratagemma della memoria, che tanto serve a mantenere in vita un defunto, sarebbe crollato con la definitiva certezza della perdita della persona cara.

E’ un libro di grande sensibilità e di rara bellezza e quindi è senz’altro più che meritevole di lettura.
Annie Ernaux  (Lillebonne, 1 settembre 1940) è una scrittrice francese vincitrice del Premio Nobel per la Letteratura 2022. Di famiglia operaia, ha vissuto fino all’adolescenza in Normandia, mantenendo in seguito un forte legame con l’ambiente sociale d’origine e le tematiche della differenza di classe. Ha esordito con il romanzo Gli armadi vuoti (Les Armoires vides, 1974), nella tradizione del realismo sociale, cui è seguito Il posto (La place, 1984), ricostruzione del proprio ambiente familiare. Nei romanzi successivi ha continuato a indagare, in un linguaggio «vero», che si vuole oggettivo e depurato da evasioni stilistiche o di finzione romanzesca, i luoghi e le sensazioni della propria autobiografia al femminile: Passione semplice (Passion simple, 1991), La vita esteriore (La vie extérieure, 2000, nt), Perdersi (Se perdre, 2001, nt), L’uso della foto (L’usage de la photo, 2005, nt), L'altra figlia (L'autre fille, 2016). Gli anni (Les années, 2008), pubblicato da L'orma nel 2016, è vincitore del Premio Strega Europeo 2016 e finalista del Premio Sinbad 2015 - Narrativa straniera. Con L'Orma ha pubblicato Memoria di ragazza (2017), La vergogna (2018) e La donna gelata (2021).
Nel 2022 è vincitrice del Premio Nobel per la letteratura con la seguente motivazione: "per il coraggio e l'acutezza clinica con cui scopre le radici, le estraneità e i vincoli collettivi della memoria personale".

Renzo Montagnoli

 

 

29 Gennaio

Ucraina. Alle radici della guerra

Tutti i perché sull’invasione russa

di Diversi Autori

a cura di Matteo Zola

Paesi Edizioni

Saggistica

Pagg. 222

ISBN 9791280159885

Prezzo Euro 13,00

 

Guerra in Ucraina, come e perchè

L’attuale conflitto fra Russia e Ucraina pone indubbiamente molte domande, a cui i talk show televisivi non sanno dare risposte attendibili, stante le posizioni in contrapposizione degli intervenuti che quasi sempre esprimono opinioni senza avere conoscenza approfondita del problema. Si aggiunga poi la capillare politica di disinformazione praticata dalla Russia da decenni e si può quindi ben comprendere come la gente possa apparire disorientata, non riuscendo a comprendere soprattutto che cosa ci sia all’origine di questa guerra.

East Journal è un quotidiano di attualità e politica dell’Europa orientale che si può leggere su Internet  e come tale ovviamente dà largo spazio al conflitto in Ucraina con servizi che nel complesso, oltre a essere sufficientemente attendibili, non sono spiccatamente di parte pur prendendo le difese di uno stato sovrano invaso da un altro, come nel caso appunto dell’Ucraina.

E Ucraina. Alle radici della guerra, è appunto il libro di East Journal, con il quale, in modo equilibrato, seppure non equidistante, come ha scritto Anna Zafesova nella prefazione, si cerca di dare le risposte ai tanti quesiti che in proposito si pone la gente comune. Quindi, per ogni domanda, c’è una risposta che cerca di far luce sul quesito posto, senza la pretesa che sia l’assoluta verità, ma con la certezza che chi scrive sia persona competente, che da anni studia i problemi dell’Europa orientale e soprattutto quello dei rapporti mai idilliaci fra i paesi satelliti dell’ex Unione Sovietica e la Russia. Sono ben quindici le domande, del tipo: perché proprio l’Ucraina? E’ colpa della Nato? Ci sono i nazisti al governo? Ecc. Se non fosse per un senso di rispetto verso gli autori che hanno cercato di essere il più possibile esaurienti in modo semplice e quindi facilmente comprensibile ai più, potrei definire questo libro un manuale sull’attuale conflitto in Ucraina, ma in realtà è molto di più. Personalmente seguo, sulla base delle notizie giornalistiche, Putin fin dal 2002, perché in occasione del suo brutale intervento in Cecenia già allora paventai un pericolo concreto per l’umanità, e quindi non sono del tutto a digiuno in ordine a quelle che sono le origini di questa guerra; di conseguenza posso dire che il libro non è un semplice manuale, ma presenta gli approfondimenti indispensabili per essere di notevole aiuto a chi vuole  capire, a tutti quelli che non amano i preconcetti, ma che desiderano almeno un po’ di verità. Per ricerche che vadano ulteriormente in profondità si dovranno chiamare in causa gli storici che, però, in costanza degli eventi, sono impossibilitati a intervenire, perché la storia richiede che i tempi che studia siano già trascorsi, lasciando appunto ad altri la cronaca, l’attualità.

Ucraina. Alle radici della guerra mi è piaciuto e pertanto lo ritengo meritevole di lettura.

Alessandro Ajres, slavista all’università di Torino; Ilona Babkina, redattrice e allieva del MIREES; Oleksiy Bondarenko, docente all’università di Warwik; Andrea Braschayko, giornalista di Valigia Blu e Il Foglio; Giovanni Catelli, scrittore e giornalista; Davide Denti, dottore di ricerca a Trento e funzionario alla Commissione europea; Michael L. Giffoni, diplomatico; Sofiya Stetsenko, redattrice e allieva MIREES; Matteo Zola, giornalista professionista e direttore di East Journal. Questi i nomi di chi ha scritto il libro.

Renzo Montagnoli

 

 

 

24 Gennaio

Ipotesi di misura

di Francesca Bavosi

Fara Editore

Poesia

Pagg. 96

ISBN 978-88-9293-067-4

Prezzo Euro 10,00

opera poetica I classificata al Faraexcelsior

Così è la vita

Ogni volta che mi trovo per le mani un libro di poesia di un autore che mi è sconosciuto sono preso da un torpore agitato, quasi un ossimoro che cerca di rendere più chiaro il mio stato d’animo, perché leggere è semplice, ma accogliere in se stessi le parole e i pensieri di un altro non è facile. Che vorrà dire, dove vorrà andare a parare, che motivazioni sono alla base, sono tutte domande che mi frullano per il cervello e a cui cerco di dare risposta tentando di immedesimarmi nell’autore. Francesca Bavosi per me è una sconosciuta, e mi scuso con l’interessata, perché questa mia affermazione non vuole essere un pregiudizio, ma spiega le difficoltà che incontro, a volte maggiori, a volte minori, dipende soprattutto dalla chiarezza dei versi, dall’interpretazione che  può essere data agli stessi, dalle tematiche affrontate. Dopo questa premessa, che ritengo opportuna, voglio passare alla disamina dell’opera, alle mie sensazioni, alle emozioni che mi ha fatto nascere.

Innanzi tutto rilevo, con piacere, che la forma dei versi è funzionale allo scopo, senza svolazzi o ricorsi a immagini d’effetto, ma quel che più conta mi è sembrata una poesia che già in prima lettura è capace di trasmettere il messaggio che inevitabilmente porta. E’ un mondo concreto, non evanescente, né astrattamente costruito quello che è alla base delle poesie; si tratta di riflessioni su aspetti del contingente, come in Torpore (Questo finire d’estate degradante / gorgoglia nei tombini zuppi / e intorbida il sangue, arrivano / dalle finestre zaffate di bitume / come il rantolo della stagione /e scandiscono le ore – troppo poche – / che mi separano da lunedì. / Arranco – le valigie sopra il letto – / tra i gusci di conchiglia e le provviste / per l’inverno pensando alla cicala / che muore da qualche parte muta / e ringraziando la sua vita /

della mia più feconda.). Ci sono tutti gli aspetti di una stagione, l’estate, la cui fine è imminente, compreso lo stato d’animo della poetessa, con quella certezza che il tempo delle vacanze è finito e che si dovrà tornare al lavoro, con quelle ore, troppo poche, che separano dal lunedì. E cosa resta di questa stagione? I gusci di conchiglia raccolti in riva al mare, ma questo è già il passato, occorre pensare al futuro con le provviste per l’inverno. Si riprende il solito ripetitivo tran tran, in una vita che non è piena come quelle delle cicale che sono prossime a morire.

Resta il fatto che la natura ha un aspetto preminente, come nel caso dell’elegia equinoziale, equinozio di primavera, con la soffusa descrizione delle sensazioni  che affiorano con la nuova stagione ( Ai racconti segreti dei tetti / ai fantasmi tra i ciliegi / / alle parole importanti nelle sporte / e all’eco delle mani stupite / / alla casa antica sotto il passo / all’amico pino / / la primizia notturna della mite stagione. / / La tua primavera ha già / un nuovo sole. ).

Stagioni che iniziano, altre che finiscono, ritmano il trascorrere del tempo  e in questo srotolarsi di ore, di giorni, di mesi si vive, pronti a recepire i segnali della natura che cambia, anche noi parte della stessa.

In fin dei conti, con queste poesie Francesca Bavosi, parlando della vita, parla di se stessa, delle sue sensazioni, delle sue emozioni, si apre non nel cantuccio di un confessionale, ma in un libro in cui si svolgono le pagine non come elenco di peccati, ma come una silenziosa voce che scaturisce dall’anima. 

Francesca Bavosi è nata e vive a Fano (PU). Laureata in Lettere classiche all’Università di Urbino, insegna con gratitudine in una scuola della sua città. Alcuni suoi testi sono stati selezionati in concorsi nazionali e internazionali (5° Premio De Palchi Raiziss, Presidente di giuria Giovanni Raboni; 4° Premio Nazionale Novella Torregiani; VI Premio Città di Conza; Premio Zeno 2021).

Renzo Montagnoli

 

 

20 Gennaio

 

Recensione del libro “Fiorita di stelle”, raccolta poetica di Paola Mara De Maestri

Prefazione di Hafez Haidar (candidato al Premio Nobel per la pace e la letteratura)

Copertina dell’artista sondriese Marinella Milani

             

Un Cosmo Poetico, di Alfred Palma

Ho sempre amato e rispettato il ruolo, il talento e il contributo delle donne in ogni genere d’arte: fra tante altre le pittrici Mary Cassatt (americana), Rosa Bonheur (francese) e Frida Kahlo (messicana); le scrittrici George Sand, ossia Aurore Dudevant (francese), Françoise Sagan (francese), Agatha Christie e le sorelle Brönte (inglesi); i soprano Maria Callas (greca) e Renata Tebaldi (italiana) opera lirica; altre cantanti in diverse forme musicali, particolarmente quelle classiche, soprattutto nel campo lirico e pianistico. Poi le poetesse: Elizabeth Barrett Browning (inglese) Sylvia Platt ed Emily Dickinson (americane), Mary Meilak (gozitana), Doreen Micallef (maltese), e le tre poetesse italiane: Antonia Pozzi, Alda Marini e Paola Mara De Maestri.

   Ed è stata proprio quest’ultima, che pochi giorni fa mi ha gentilmente regalato una delle sue più  recenti collezioni di poesie,  col titolo deliziosamente etereo Fiorita di Stelle (Aletti Editore); un libro di 82 pagine, con una copertina cattivante e 40 poesie davvero belle, scritte con la mano e le penne dell’anima e del cuore; poesie raggruppate con cura sotto titoli diversi come: Inno alla vita, Canto d’amore, All’ombra del ricordo, Donne, La prima roccia, Ritratti, Il tempo e Pensieri.

   E proprio ogni titolo estende e intensifica con una grande sensitività  il senso poetico di Paola Mara De Maestri oltre l’anima, il cuore, i sentimenti dolcemente musicali e femminili, che spesso diventano macchioline scintillanti di un’aura cosmica. Veramente, ogni poesia sa di armonie eteree, piccoli preludi fioriti e profumati, che passano ritmicamente da un  sentimento all’altro; l’umanità della poetesse vola come una dolce brezza primaverile da un titolo all’altro; ogni poe-preludio varia in chiave, colore e armonia, per fare finalmente un vero inno affascinante e glorioso alla Poesia.

   Fiorita di stelle, dedicato dalla poetessa al figlio Gioele, inizia con una prefazione molto interessante di Hafez Haidar e si chiude con una nota biografica della De Maestri, che contiene tutto ciò che uno vorebbe sapere di questa donna, di questa bravissima poetessa, che continua ad abbellire e nobilitare la poesia italiana

Alfred Palma, è un poeta, autore e il traduttore maltese per eccellenza, che con grande maestria ha affrontato la traduzione maltese della Divina Commedia di Dante. Si è anche occupato in passato della traduzione dei 38 drammi e sonetti di Shakespeare, oltre ad altre grandi opere di Oscar Wilde, Voltaire, DH Lawrence e Thomas Mann. Ha ricevuto il prestigioso Premio “Dante” nel 2021, riconoscimento assegnato dal Comitato di Malta a chi promuove e tutela la lingua italiana nel mondo.

Breve nota biografica:

Paola Mara De Maestri, nata a Sondrio il 3 marzo 1970, insegnante, poetessa, pubblicista, collabora con il portale internet Tellusfolio ed è Direttore del periodico “Il Talamonese”. È Consigliere di È Valtellina ed è responsabile della sezione Laboratorio Poetico. Ideatrice e curatrice della “Bottega Letteraria de ‘l Gazetin" e di tante iniziative e concorsi letterario-figurativi per adulti e bambini, realizzate in collaborazione di enti, scuole e associazioni italiane ed estere. Come autrice ha conseguito numerosi riconoscimenti a concorsi nazionali ed internazionali ed è stata pubblicata in molte antologie poetiche. Alcuni suoi componimenti sono impressi su stele o su monumenti (Valtellina, Piemonte, Calabria). Nel 2014 la poesia “Il milite”, già presente nella pubblicazione “Anni perduti” (memorie di guerra) di Emilio Tonelli è stata  riportata su una delle targhe che sono state infisse alle steli in pietra,  del  Viale dei Caduti  di Piea (Asti). Nel luglio 2017 la poesia “Ricordo l’alluvione” è esposta sul monumento realizzato dall’Amministrazione Comunale di Fusine in occasione dei trent’anni dall’alluvione del 1987. Il 4 agosto 2019 la poesia “Madre” impressa su stele di ceramica viene adagiata ad un muro di un edificio storico di Rocca Imperiale (Cosenza), ne “Il Paese della Poesia, in quanto vincitrice dell’XI edizione del Concorso Internazionale di Poesia “Il Federiciano 2019”.Nell'autunno 2001 ha pubblicato con la Casa Editrice Libroitaliano il primo libro intitolato "Dentro la vita". Nel 2004 ha visto le stampe la seconda raccolta di poesie dal titolo "L'amore parla piano" Bellavite Editore. Nel 2008 è uscita la sua terza raccolta personale dal titolo “Il pane del sorriso” edita dalla Casa Editrice Giulio Perrone. Nel giugno 2010 è uscito il quarto libro dal titolo "Aquiloni d'argento", edito dal Circolo Culturale F/N Morbegnese Nel 2014 esce “Con gli occhi del cuore”, edita da Ti pubblica. È del 2018 “Un noce fa primavera” edito da  Kimerik. Del 2022 l’ultima pubblicazione dal titolo “Fiorita di stelle” con Aletti Editore.


 

 

 

18 Gennaio

Chiamate la levatrice

di Jennifer Worth

Sellerio editore Palermo

Narrativa

Pagg. 493

ISBN 9788838931444

Prezzo Euro 15,00

 

Dedicato a chi aiuta a nascere

In tutta sincerità non avrei mai letto questo libro se non mi fosse stato segnalato da un amico, che l’aveva particolarmente apprezzato e che a sua volta l’aveva preso in mano probabilmente in forza della professione di ginecologo da lui svolta. Onestamente devo dire che non ero particolarmente entusiasta dell’idea di leggerlo, temendo, chissà perché, descrizioni di carattere medico, ma per fortuna non è stato così; anzi, Chiamate la levatrice, frutto dell’esperienza maturata in diversi anni dall’autrice in qualità appunto di levatrice, è un’opera particolarmente interessante, anche perché, pur essendo basata su un diario, è stata stilata come un vero e proprio romanzo, con un “IO” narrante che è appunto Jennifer Worth.  

Ambientato a Londra, nell’Est Side, il porto della città, agli inizi degli anni Cinquanta, al di là della descrizione degli eventi, cioè dei parti, di cui l’autrice è stata protagonista, Chiamate la levatrice è anche un ritratto impietoso, ma sincero, delle condizioni di vita della povera gente, inasprite dalle difficoltà economiche conseguenti la guerra da poco finita. Ci sono descrizioni che richiamano le situazioni di estrema indigenza così ben descritte da Archibald Cronin e da Charles Dickens in tante loro opere con la differenza che i due narratori, pur osservando situazioni reali, erano ricorsi alla loro vena creativa, cioè inventando fatti e personaggi, mentre nel caso di Jennifer Worth si tratta di vicende realmente accadute in cui lei è stata testimone e sovente coprotagonista.

Il grigio di una metropoli la cui aria è ammorbata dalle industrie finisce con il diventare anche quello della vita di tanti miserabili senza speranza e in quanto tali particolarmente prolifici, tanto che famiglie con una decina di figli non erano da considerare una rarità (nel libro c'è una donna al suo ventiquattresimo parto); tuttavia, l’autrice è capace di descrivere situazioni e personaggi con un senso di autentica pietà e con un profondo rispetto per ogni individuo, per il ricco e per il povero, per l’erudito e per l’incolto.

Comunque, se uno non ha mai assistito a un parto, qui ha l’opportunità di essere reso opportunamente edotto, ma in modo semplice ed efficace, così che  si finisce con l’appassionarsi a quel grande evento che è la nascita. Peraltro, accanto a tanti umili personaggi, ci sono anche le figure delle giovani levatrici e delle suore del convento di Nonnatus House, descritte con autentica tenerezza e se agli inizi della sua esistenza con queste religiose Jennifer è agnostica, poco a poco sente maturare qualcosa in lei che se forse non è ancora fede, però è in corso di divenire, e questo senza un insegnamento religioso, senza approfondimenti teologici, ma con l’esempio della vita quotidiana di queste monache, votate a soccorrere la povera gente e a far nascere i bambini.

Chiamate la levatrice si legge con grande piacere e quindi è sicuramente consigliabile.

Jennifer Worth (Clacton-on-Sea, 25 settembre 1935 – 31 maggio 2011),  infermiera fino agli anni Settanta, e dopo musicista, ha scritto una trilogia dedicata alla sua esperienza come levatrice nell’antica zona proletaria di Londra: Call the midwife (2002), Shadows of the Workhouse (2005) e Farewell of the East End (2009).
La prima opera, Chiamate la levatrice, è stata pubblicata in Italia nel 2014 da Sellerio. In Gran Bretagna ha venduto oltre un milione di copie e la BBC ne ha tratto una serie televisiva, distribuita in numerosi Paesi.

Renzo Montagnoli

 

 

11 Gennaio

Il cappotto di astrakan

di Piero Chiara

Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Narrativa

Pagg. 205

ISBN 9788804720485

Prezzo Euro 12,00

 

Un gioiellino

L’anno è il 1950 e un italiano di quarant’anni arriva a Parigi, con lo scopo di trascorrervi un tempo non predeterminato e magari di poter imprimere una svolta decisiva alla propria vita, nonché per non essere da meno di alcuni suoi compaesani che vi hanno soggiornato e che di questa permanenza raccontano al caffè del paese. Dopo un breve periodo in un alberghetto trova una camera presso la vedova Lenormand a un prezzo irrisorio, a particolari condizioni, quali non portare ospiti, non spostare nulla di quello lasciato dal precedente abitante  e sopportare la presenza ostile del gatto Domitien. Nel corso delle sue escursioni parigine ha modo di conoscere una ragazza, Valentine, con cui allaccia una relazione. Quando non è a zonzo per le vie della città si diverte a leggere i numerosi libri della biblioteca presente nella camera ammobiliata e in particolare alcuni scritti non molto chiari presumibilmente di chi lì l’ha preceduto. La vedova Lenormand, personaggio d’altri tempi e di struttura ampiamente robusta, gli racconta di avere un figlio, Maurice, che gli somiglia moltissimo, fuggito in Indocina con una giovane di quel paese; dato che l’inverno è prossimo e comincia a far freddo gli dona un cappotto di astrakan che era stato in precedenza del figlio. Non vado oltre, perché la trama, sebbene non gialla, merita di non essere completamente svelata, presentando certi eventi che danno una svolta a una vicenda fino a lì nel complesso non particolarmente originale, ma nemmeno banale.

A prima vista si potrebbe pensare a un racconto autobiografico, visto che il protagonista proviene da Luino, che c’è la citazione del caffè del paese con i frequentatori dediti al gioco del biliardo, che si parla di una precedente visita, per quanto da internato in Svizzera, ma così non è, atteso che lo stesso Chiara alla fine del romanzo precisa che è da escludere una sua partecipazione ai fatti narrati. Personalmente credo che invece, sia pure un po’ camuffata, ci sia la personalità dell’autore in un’opera all’apparenza di poco conto, ma che presenta più piani di lettura. Il desiderio di evasione dalla quieta e monotona vita di paese verso la grande città è un’aspirazione plausibile, come quella di lasciarsi condurre per mano dal fato, con quella ineluttabilità degli eventi che scandiscono la vita di ognuno di noi. Inoltre c’è anche l’impossibilità di opporsi al proprio destino, con il protagonista che è e resterà un provinciale, magari con l’ebrezza di un salto in un mondo molto diverso dal suo, ma con l’inevitabile ritorno alle proprie radici, dove condurre un’esistenza senza scossoni, in un grigio che anziché deprimere finisce con il confortare.

Quindi, sotto un’apparenza dimessa si cela un’opera di notevole livello, scritta in modo impeccabile e di facile e assai gradevole lettura.

Piero Chiara nacque a Luino nel 1913 e morì a Varese nel 1986. Scrittore tra i più amati e popolari del dopoguerra, esordì in narrativa piuttosto tardi, quasi cinquantenne, su suggerimento di Vittorio Sereni, suo coetaneo, conterraneo e grande amico, che lo invitò a scrivere una delle tante storie che Chiara amava raccontare a voce. Da Il piatto piange (Mondadori, 1962), che segna il suo esordio vero e proprio, fino alla morte, Chiara scrisse con eccezionale prolificità, inanellando un successo dopo l'altro.

E’ stato autore particolarmente fecondo e fra le sue numerose pubblicazioni figurano Il piatto piange (1962), La spartizione (1964), Il balordo (1967), L’uovo al cianuro e altre storie (1969), I giovedì della signora Giulia (1970), Il pretore di Cuvio (1973), La stanza del Vescovo (1976), Il vero Casanova (1977), Il cappotto di Astrakan (1978), Una spina nel cuore (1979), Vedrò Singapore? (1981), Il capostazione di Casalino e altri 15 racconti(1986).

Renzo Montagnoli

 

 

 

10  Gennaio

L’alveare assopito

di Angela Caccia

Fara Editore

Poesia

Pagg. 72

ISBN 978-88-9293-070-4

Prezzo Euro 10,00

Opera poetica I classificata al  Faraexcelsior

Quando la classe non è acqua

Già il titolo di questa raccolta mi ha incuriosito, perché ho pensato a un’arnia, sempre brulicante di api al lavoro, silenziosa nei mesi invernali mentre gli insetti provvedono al riposo stagionale.  Mi sono detto che forse il titolo vuole significare un momento di quiete, di riflessione dell’umanità sempre presa dalla frenesia del lavoro, dagli impegni quotidiani, da faccende consuete o anche inventate in un una società che sembra trovare la sua ragione di essere solo nella rincorsa del successo e del guadagno. E’ stata un’impressione e come tale la riporto per spiegare come io abbia poi affrontato la lettura delle poesie che non sono monotematiche e per certi aspetti è tanto meglio, ci sono più occasioni per divertirsi. Sono rimasto colpito inoltre dalla ricerca del colore, sì perché non poche poesie hanno a che fare con i colori, che finiscono con il diventare tante pietruzze di un mosaico che, accostate, danno immagini alla silloge.

“….Il po’ di verde sconsolato / annusava ovunque luce / rovistava in sacche di grigio / ed abbandono / la condanna del colore / fu la fatica di nascere rosa”

“Navigatori del liquido celeste / in formazione serrata verso / rotte radiose sui tanti canti della terra /…”

“ Si spegne l’azzurro e / la senti strisciare arrampicarsi / cadere e nel tonfo asfaltare l’opaco…”

Forse, mi sono detto, la fonte di ispirazione è stata unica ed è arrivata al punto di dare alle pennellate di colore la vena di un artista, un grande artista:  “Questa finestra ora / incupita era un Van Gogh /…”.

Con ogni probabilità sono stato tuttavia troppo impulsivo, troppo precipitoso, perché i colori rappresentano una parte, peraltro abbastanza esigua delle poesie, ma non essendo la silloge monotematica sono presenti altri argomenti di cui scrivere, come  ho potuto apprezzare soprattutto nel caso della natura: “ Infallibile regia della natura / partecipiamo al congedo della rondine / sulla rampa ripida dell’autunno / e tutti a cercare l’ultima rosa/…”.

Certo se è più piacevole leggere poesie che trattano più argomenti però è più difficile scrivere poi una recensione, si corre il rischio di essere prolissi, di  divagare un po’ troppo, insomma si rischia di porre l’autore in secondo piano. Se è poi vero che  l’Autore, con la “a” maiuscola, è in quanto tale per la qualità del suo prodotto, non posso che piacevolmente constatare che anche qui ritrovo quell’Angela Caccia sensibile, precisa, raffinata e armonica che ho potuto apprezzare in tanti lavori precedenti. Verrebbe da dire, e non si sbaglierebbe, che la classe non è acqua. Al riguardo basta leggere questi pochi versi, presi da alcune poesie:

“ Le case basse di un villaggio di pescatori / la riva a poche spanne / il rumore della risacca come certi / rosari nella bocca degli anziani / le barche un po’ /

tediate al pari di auto in sosta al market /…”;

“ Il cielo di stanotte sta in una ciglia / di luna – intorno e distanti – costellazioni / …”;

“ Dell’alba l’adagio di suoni / furtivi come piccole ossa di / uccelli che sgranchiscono / …”.

Credo che sia possibile per tutti rilevare le felici scelte creative, vere e proprie invenzioni che in poche parole propongono visioni e atmosfere di grande effetto, e non si tratta di preferenze determinate da virtuosismo, ma di periodi che sono strettamente legati alla poesia e al concetto che si vuole esprimere, perché è evidente come il risveglio del mondo all’alba presenti una serie di suoni che piano piano si espandono, superando la soglia del silenzio, e annunciando, con il sole che sorge, il nuovo giorno. In così poco c’è molto, direi c’è tanto, e soprattutto non asetticamente, con grazia, e questa è la poesia che dona la “a” maiuscola all’autore.

Non è un caso pertanto se ha vinto anche questo premio  nel periodico concorso indetto dall’editore, ma attenzione, io non mi faccio influenzare dai risultati, il valore di un’opera è intrinseco, indipendente da coppe e medaglie, e qui c’è tutto, per il piacere di chi leggerà e anche per la soddisfazione che ho ritratto scrivendo la presente.

Angela Caccia ha pubblicato con Fara: Il fruscio feroce degli ulivi (2013), Il tocco abarico del dubbio (2015) e Accecate i cantori (2017). Con Lietocolle Piccoli forse (2017). Vari i contributi nel web, in particolare in Versante Ripido. È stata recensita in poesia.corriere.it, Satura, Patria Letteratura, RAI Poesia, Oubliette magazine, La Repubblica di Napoli nella rubrica di Eugenio Lucrezi e La Repubblica di Firenze nella rubrica di Alba Donati. Finalista al Morra 2022 con liriche contenute nel presente libro, ha tre superbe passioni: poesia, ceramica e scacchi.

Renzo Montagnoli

 

 

 

Le ciociare di Capizzi

di Marinella Fiume

Iacobellieditore

Saggistica storica

Pagg. 128

ISBN 9788862525275

Prezzo Euro 16,00

Le marocchinate

Forse sono più note le violenze perpetrate dai goumier marocchini dopo lo sfondamento della linea Gustav, avvenuto nel maggio del 1944, probabilmente per effetto di quel capolavoro di cinematografia italiana che risponde al nome di La Ciociara. Purtroppo questi soldati dell’Africa del Nord si comportarono così in Italia ovunque furono impiegati, in pratica dalla Sicilia alla Toscana, e a farne  conoscenza per primi e a sopportarne le violenze furono proprio i siciliani, soprattutto donne di qualsiasi età, dalla bambina alla vecchietta, ma non furono risparmiati nemmeno gli uomini, in particolare i giovinetti.

In pratica quasi tutta la penisola ebbe a conoscere l’orrore delle marocchinate, un neologismo che potrebbe indurre a credere a fatti di poca importanza e invece si trattò di un fenomeno rilevante, che ebbe pesanti conseguenze su chi ne fu vittima: malattie veneree, danni fisici, a seguito di percosse e altro, turbe psichiche, e in non pochi casi dopo circa nove mesi il frutto dello stupro.

Di quel che accadde in Sicilia (correva l’estate del 1943 e l’isola era teatro di grandi combattimenti dopo lo sbarco degli alleati che avevano dato vita all’operazione Husky), in particolare a Capizzi, un piccolo centro dei Nebrodi, viene raccontato in Le ciociare di Capizzi, un libro con cui Marinella Fiume, sempre dalla parte delle donne, parla del terrore diffuso da queste truppe marocchine, che non si accontentavano di rubare, ma usavano anche violenza alle donne e ai giovinetti. A raccontare  verbalmente alla scrittrice siciliana quei fatti non sono le vittime, che molto spesso hanno preferito tacere, per pudore, ma anche per sconforto, bensì le nipoti, che hanno saputo dalle nonne, perché quel silenzio osservato in pubblico non c’è stato ovviamente in privato, un po’ per uno sfogo da femmina a femmina, un po’ per mettere in guardia le discendenti da ipotetici, ma non infondati pericoli.

Grande merito di Marinella Fiume è non aver generalizzato, non avere insomma intavolato uno spirito razzista, preferendo invece la ricerca del contesto e delle responsabilità, da ascrivere queste ai comandanti francesi, che in pratica diedero carta bianca a gente che veniva da tribù in cui la violenza poteva considerarsi lecita. A ciò inoltre si deve aggiungere che le lamentele rivolte ai comandi alleati, con la preghiera di far cessare le violenze, rimasero inascoltate. Per fortuna ci furono i siciliani che si difesero e non pochi di questi taglia gole non ritornarono più in Africa, uccisi con bastonate, oppure evirati e poi sepolti ancora vivi.

In questo contesto assume particolare valenza uno studio sociologico di queste popolazione marocchine per comprendere il perché del loro comportamento; è fin troppo evidente che c’era una base costituita da convinzioni ataviche sui diritti assoluti dei combattenti, ma proprio per questo chi di dovere avrebbe dovuto limitarli e non lo fece, il che equivalse a una tacita autorizzazione a consentire gli eccessi. Del resto, proprio nella stessa seconda guerra mondiale, si fecero notare, usando sistematicamente violenza alle donne tedesche, anche i russi, che, guarda caso, stanno mostrando analoghi comportamenti anche in Ucraina, nel corso di questo conflitto, segno che c’è probabilmente un’attitudine al riguardo, che però i comandanti si guardano bene dal contrastare.

E’ un libro che Marinella Fiume ha sentito in modo particolare, sia per la sua costante politica volta al riscatto femminile, sia perché fra tutti gli abusi di cui sono vittime le donne quello sessuale è il più grave, è quello che lascia strascichi pesanti che non scompariranno mai. In particolare è riuscita, pur conservando l’anonimato delle interlocutrici, a dare voce a chi voce non ha più, ma soprattutto, senza giustificare i marocchini autori di violenze, poveri selvaggi utilizzati militarmente per la loro capacità di usare nel migliore dei modi il pugnale, è stata capace di alzare il dito accusatore verso chi ha permesso questo, vale a dire i comandi alleati, sovente inclini a considerare gli italiani inferiori e fra questi, ancor più inferiori, i siciliani. Completa questo interessante saggio storico un’appendice di Maria Pia Fontana dal titolo Una prospettiva psicosociale sugli stupri di guerra, un’analisi attenta sulle cause e sugli effetti delle battaglie sul corpo delle donne.

Se a parlare, per interposta persona, sono le abusate di Capizzi, il fenomeno è però molto più esteso, così che si tratta di uno studio sulla violenza dei maschi nei confronti delle femmine nel corso delle guerre.

Da leggere, senza dubbio.

Marinella Fiume, nata a Noto (Sr), laureata in Lettere classiche, è dottore di ricerca in Lingua e letteratura italiana. È stata sindaca del Comune di Fiumefreddo di Sicilia (Ct) e socia fondatrice e presidente dell’Associazione fiumefreddese antiracket e antiusura “Carlo Alberto Dalla Chiesa”. Già responsabile della Commissione Arte e cultura della Fidapa e presidente del Soroptimist “Val di Noto”. Ha pubblicato saggi, biografie, racconti, romanzi, sceneggiature, canzoni; nella rivista Notabilis cura la rubrica fissa “Donne che ballano coi lupi”. Ha ricevuto diversi premi per il suo impegno sociale e la sua produzione letteraria, tra gli altri, il Premio “Franca Pieroni Bortolotti” della Società delle Storiche e del Comune di Firenze (2000).

Tra le sue opere: Feudo del mare La stagione delle donne (2010); Di madre in figlia – Vita di una guaritrice di campagna (2014); La bolgia delle eretiche (2017); Ammagatrìci (2019); Le ciociare di Capizzi (2020).
Renzo Montagnoli

 


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