Commenti sulle poesie
 

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Premi letterari dei Sitani

 

Inviare i commenti a poetare976@gmail.com


2025

Luglio - Dicembre

 

Avviso

Cari Sitani,
se per caso riceveste e-mail firmate Miu, in cui si chiede di iscriversi subito ad un altro sito, perché il sito poetare.it sta traslocando, eliminatele: è falso. Jacqueline Miu non scrive su altri siti e non ha intenzione di farlo. Poetare.it non si trasferisce e sarà sempre presente ad accogliere poeti e poetesse, come già succede dal 17 Aprile del 2002.
Grazie a voi tutti per la partecipazione e auguri di una buona estate.
Lorenzo De Ninis, titolare di poetare.it.


 

29-30-31 Agosto

Commento alla Poesia di Felice Serino
Bellezza e' apice dell'essere.
Accanto a lei l'uomo s'eleva, capendo che la vita e' lei stessa bellezza. Un mezzo, dunque, la bellezza per l'uomo, dove, in questa breve pennellata poetica e' rappresentata come un mondo, che naturalmente la poesia deve far intendere e non svelarne subito il contenuto, quindi, far immaginare a sua volta.
Laura Toffoli

 

 

26-27-28 Agosto

  • Salvatore Armando Santoro – “Ciechi”

Santoro ci mostra l’amore come esperienza dolorosa e totalizzante. Le donne “cieche” non vedono la realtà che le circonda, ma vivono profondamente la propria percezione del sentimento. L’io poetico diventa osservatore di un mondo di inganno e fragilità emotiva: l’amore profondo convive con disgusto e nausea, con la consapevolezza che la propria dedizione può non essere corrisposta.

La poesia è crudele, diretta, con un linguaggio fisico e quasi corporeo (“nausea che il Plasil non basta a fermare”), e allo stesso tempo metafisica: il cuore umano viene scandagliato come un mare di emozioni contraddittorie. Qui, l’anima del poeta emerge come veggente dei sentimenti, capace di leggere la verità nascosta dietro i gesti e le parole.


  • Felice Serino – “Poesia che nasci”

Serino ci riporta alla dimensione archetipica della poesia stessa: nascita, fragilità, viaggio. La metafora della barchetta di carta sui flutti evoca la precarietà dell’atto creativo, il rischio e la speranza insita nel fare poesia. L’anima del poeta è qui fragile e coraggiosa, sospesa tra luce e tenebra, tra il desiderio di realizzare un sogno e la consapevolezza dei pericoli del mondo.

Il testo si inserisce perfettamente nel filone della memoria e del tempo: la poesia nasce fragile, ma diventa veicolo di esperienza, conoscenza e trascendenza.


  • Armando Bettozzi – “Tesori”

Bettozzi esplora il tempo interiore, il ricordo e la continuità dei legami affettivi. I “tesori” sono esperienze e memorie che, anche quando apparentemente perse, continuano a vivere dentro di noi. La poesia evoca la nostalgia e la cura con cui l’io poetico preserva ciò che conta: le gioie semplici, i giochi dell’infanzia, le relazioni autentiche.

Qui la metafisica emerge attraverso il rapporto tra memoria e eternità: i ricordi diventano gemme, nodi luminosi che sopravvivono al tempo, capaci di illuminare anche il buio dell’esistenza.


  • Silvio Canapè – “Ammassati compatti”

Canapè ci offre una visione cosmica e simbolica: l’oscurità accumulata e compatta viene interrotta da un lampo di luce, effimero ma rivelatore. La poesia è breve, essenziale, ma potente: cattura l’istante in cui il reale e l’invisibile si toccano. La “perpetua sera” suggerisce l’eterna alternanza tra luce e buio, tra speranza e dolore, tra caos e ordine.

L’anima del poeta emerge qui come veggente del cosmo, capace di leggere nei mutamenti della luce e dell’ombra un significato più grande dell’esperienza umana.


  • Rosa Notarfrancesco – “Non hai nulla dell’indomani”

Qui l’io poetico esplora la complessità dell’amore e della percezione del tempo. La poesia ha un tono riflessivo, quasi filosofico, in cui l’“indomani” rappresenta il futuro pieno di possibilità e inganni, contrapposto alla purezza e immediatezza del sentimento dell’altro. La poesia diventa metafisica perché indaga la struttura stessa dell’esperienza amorosa: la gioia, l’illusione, il dolore, e la memoria si intrecciano in un tessuto che trascende il semplice vissuto per diventare riflessione sull’essenza dell’amare e del percepire il tempo.


  • Jaime Luis Huenún Villa – “Envio a Anahí”

Villa fonde elementi di sogno, natura e simbolismo. La poesia è immersiva: il sogno diventa realtà, e la realtà si riflette nel sogno, con una dimensione quasi onirica e cosmica. Gli elementi naturali (fagioli, farfalle, liepri) e l’atto di cogliere fiori nei libri di poesia evocano una sacralità della vita quotidiana e un’adorazione dell’attimo. La morte, contemplata come scrittura dell’acqua sull’acqua, è percepita come parte del ciclo vitale, non come fine: una meditazione metafisica sulla caducità e sull’inalterabile bellezza del vivere.


  • Cristiano Berni – “Pègaso”

Berni esplora il conflitto tra desiderio di libertà e timore di osare. Il cavallo alato diventa metafora di elevazione spirituale e gioia potenziale: la poesia è un invito alla liberazione dei sentimenti più puri. L’io poetico osserva una giovane donna intrappolata nella paura, trasformando la scena in un’allegoria della condizione umana: la vulnerabilità e il desiderio di spiccare il volo rappresentano la tensione tra ciò che l’anima vuole e ciò che la mente teme. La poesia fonde realismo psicologico e simbolismo metafisico.


  • Franco Fronzoli – “Vita”

Fronzoli cattura la totalità dell’esistenza attraverso un elenco di frammenti, che oscillano tra il quotidiano e l’eterno. Ogni oggetto, emozione o evento diventa simbolo della complessità della vita: la poesia diventa un mosaico in cui gioia, dolore, ricordi e istanti minimi convivono, riflettendo la percezione del tempo come concatenazione di attimi. La forza metafisica emerge nella consapevolezza che ogni elemento, anche il più effimero, partecipa al disegno complessivo della vita, che è insieme nulla e tutto.


  • Piero Colonna Romano – “Rosa e di raso”

Qui il lirismo è immerso nella celebrazione della femminilità e della grazia. La poesia ha una musicalità quasi barocca: i versi accarezzano l’orecchio come le immagini accarezzano l’occhio. La “rosa e di raso” diventa simbolo di purezza, bellezza e delicatezza spirituale, mentre la memoria del nascere e la grazia concessa al mondo proiettano la figura femminile come un tramite tra umano e divino. L’autore crea una tensione tra l’amore terreno e quello quasi sacro, trasformando il sentimento in un atto di contemplazione metafisica.


  • Ciro Seccia – “Parla con me”

Seccia tocca temi di lutto, dolore e speranza. La poesia è un dialogo diretto, intimo e terapeutico con il figlio, un invito a uscire dall’ombra dell’incubo. La scrittura ha una qualità quasi liturgica: il “parla con me” è un appello all’anima a riappropriarsi della vita. Il linguaggio evoca metafore di nascita e rinascita, con immagini di luce che penetrano l’oscurità, simboleggiando la capacità di guarigione emotiva e spirituale.


  • Alessio Romanini – “Una foglia sul balcone”

Romanini combina il paesaggio naturale con la percezione sensoriale. La foglia diventa veicolo di un dialogo tra stagioni e sentimenti: la poesia è un’osservazione meditativa in cui la natura rispecchia lo stato d’animo del soggetto poetico. La musicalità del testo si avverte nell’onomatopea degli uccelli e dei suoni dei binari; la poesia diventa metafisica perché trasforma il quotidiano (una foglia, il balcone) in simbolo della transitorietà e della bellezza della vita.


  • Sandra Greggio – “La carezza del mare”

Greggio entra nella dimensione autobiografica e infantile, ricreando il rapporto tra memoria, identità e tempo. La bambina interiore che non osa tuffarsi nelle onde è metafora dell’anima che teme di affrontare l’ignoto, pur mantenendo una connessione profonda con la vita. La poesia è contemporaneamente emotiva e metafisica: il mare diventa simbolo di possibilità, crescita e paura, un luogo dove l’esperienza del tempo e dell’infanzia si fondono in una visione universale della vita.


  • Jacqueline Miu – “Poets and Lovers”

Miu esplicita l’idea che la poesia sia il battito vitale dell’umanità stessa. Non è solo il poeta a vivere nei versi, ma ogni essere umano che sogna, spera e ama. Qui la metafisica è evidente: la poesia è un medium tra l’individuo e l’universale, un dispositivo per illuminare l’anima, risvegliare i sensi e rendere tangibile l’invisibile. L’atto poetico diventa un rito di sopravvivenza spirituale.


Con stima e affetto
 

Ben Tartamo

 

 

 

 

 

23-24-25 Agosto

Sono davvero lusingata per la poesia che Ben mi ha dedicato e che coglie gli aspetti più positivi della mia personalità per cui lo ringrazio tantissimo e spero di poter ricambiare in un futuro non troppo lontano non appena la Musa mi darà l’ispirazione.  Grazie anche a Lorenzo che ci ospita in questo mare azzurro e a tutti i Sitani.
Sandra Greggio

 

 

Grazie Ben per i tuoi commenti danno anima e essenza ai versi. 
Grazie a Lorenzo che fa vivere la Poesia.
Silvio Canapè
 

 

 

  • Franco Fronzoli – “Non lasciamo che una giornata si consumi”

Questa poesia è un manifesto, un appello che sembra voler gridare dall’intimo dell’uomo verso l’umanità intera. Non è lirismo intimista, bensì etica poetica: 'non lasciamo' diventa ritornello, quasi una litania civile e spirituale. Fronzoli qui non parla solo d’amore, ma della difesa di tutto ciò che ci rende umani: il bacio, l’abbraccio, la libertà, la dignità, la poesia stessa.
L’anima del poeta è quella di un profeta laico, un uomo che avverte il pericolo della spoliazione del cuore e delle coscienze, e che oppone la fragile ma invincibile resistenza dei gesti semplici. La sua voce sembra dire: siamo vivi solo finché nessuno riesce a spegnere la luce nei nostri occhi.
Il messaggio è cristallino e insieme universale: la bellezza e la libertà sono i sacramenti quotidiani di cui non possiamo essere derubati.


 

  • Renzo Montagnoli – “Alla fine di una vita”

Qui si entra nel crepuscolo dell’esistenza. Non più un appello corale, ma il sussurro intimo della vecchiaia che si specchia nel proprio destino. Montagnoli mostra con lucidità psichiatrica e tenerezza disarmata ciò che abita gli ultimi anni: il rifugio nel passato, il timore del “capolinea”, l’illusione di continuare a stringere ciò che inevitabilmente sfugge.
Eppure, in mezzo alla malinconia, c’è la redenzione dell’essere in due. Il poeta lo sa: anche nel dolore, anche nell’egoismo di chi vorrebbe “lasciar per primo” per non sopportare la solitudine, la presenza condivisa è già salvezza.
Il testo è di una onestà crudele e tenera insieme: alla fine di una vita, ciò che resta non è la gloria, non è il possesso, ma la mano dell’altro che stringe la nostra, a resistere insieme al tempo.


 

  • Salvatore Armando Santoro – “Autunno colpevole”

Santoro prende l’autunno e lo trasforma in un imputato esistenziale: stagione come colpa, come processo naturale che diventa allegoria del disincanto. L’autunno non è solo cadere delle foglie, ma arrugginirsi del cuore, sonnolenza della mente, scorrere implacabile del tempo.
Eppure, nella malinconia, il poeta non cede al nulla: già intravede l’attesa della primavera, la resurrezione del verde, e soprattutto l’immagine salvifica di una donna “piena di vita e ricca d’allegria”.
Qui la psicologia si fa chiara: il poeta trasfigura la natura nei suoi stati interiori, ma affida la redenzione non solo alle stagioni, bensì all’incontro con l’alterità amorosa. Nonostante la consapevolezza del tempo che corre via, la vita si rinnova in quell’attimo di sorriso che la donna gli riporta.


 

  • Felice Serino – “In ondivaghi spazi”

Un lampo, un’epifania, un haiku metafisico. Serino, con pochissime parole, spalanca un orizzonte cosmico. “In ondivaghi spazi” ci trasporta in una dimensione oltre il sensibile, dove le “ali d’angeli” non si posano sulla terra, ma lasciano cicatrici di luce “nella carne del cielo”.
Il verso breve, essenziale, quasi biblico, si fa simbolo di una visione: l’invisibile che irrompe nell’immenso, l’eterno che imprime un segno nel tempo.
Qui l’anima del poeta non parla dell’uomo, ma del cosmo. È poesia come rivelazione, sguardo profetico che non descrive ma evoca, non narra ma apre fenditure nel silenzio.

 

  • Armando Bettozzi – “L’inganni”

Qui troviamo un canto epico e popolare insieme, una commistione di lingua vernacolare e archetipi biblici che rimanda al mito originario del peccato. La voce del poeta è ironica, graffiante, ma profondamente lucida nel cogliere la follia e la ripetitività dell’umano: Adam ed Eve non sono più individui isolati, ma simboli di miliardi di persone intrappolate in una rete di inganni seriali, di “serpentacci” quotidiani che assumono le forme di media, politici, poteri invisibili.
L’anima del poeta qui è tragica e satirica insieme: non c’è condanna morale astratta, ma una visione psichiatrica della società come organismo malato che ha interiorizzato l’inganno. La struttura verbale, con i “co” e gli apostrofi che imitano il parlato, avvicina il lettore alla coralità di questo dramma, rendendo la poesia quasi orale, epica nella sua moralità distruttiva e nel suo ritmo di accento popolare. È una metafora del presente che diventa cosmica, una denuncia morale intrisa di humour nero.


 

  • Silvio Canapè – “Amore Amore”

Canapè, invece, abita uno spazio completamente altro: la poesia è delicatezza e sospensione, una contemplazione dell’amore in tutte le sue sfumature, da quelle più dolci a quelle più dolorose. L’anima del poeta si manifesta come sensibile percezione del mondo: gli astri, il mare, i boschi diventano strumenti di risonanza interiore, amplificando un sentimento antico e universale.
Qui il ritmo è musicale, quasi canoro, e la struttura dilatata dei versi simula il respiro stesso dell’emozione. La psichiatria della poesia emerge nella tensione tra desiderio e repressione, tra il non detto e il pianto disperato: Canapè ci mostra l’amore come esperienza fisica, sensoriale, ma anche come processo di riflessione interiore, un indagare l’anima attraverso la natura e la memoria dei sensi.


 

  • Rosa Notarfrancesco – “Dell’amore il tempo”

Notarfrancesco sposta la lente verso un’introspezione più sospesa, quasi filosofica. Il tempo è qui protagonista e filtro dell’amore: non un mero sentimento, ma un’esperienza che si salda con la coscienza del presente e del passato. La poesia è ascendente e discendente insieme: il pensiero “scivola” nel dirupo dei ricordi e dei desideri, mentre la fretta dell’amore crea tensione e verticalità nel verso.
L’anima del poeta è qui meditativa, quasi mistica, come se il cuore si misurasse contro il tempo stesso. C’è una delicatezza clinica, psichiatrica quasi: il poeta osserva l’emozione dall’interno, decodificandola, senza abbandonarsi all’illusione, ma cogliendo ciò che resta nell’oggi interrogato dalle verità del tempo.


 

  • Jaime Luis Huenún Villa – “En la casa de Zulema Huaiquipán”

Huenún Villa ci porta in un mondo concreto e insieme metafisico: la costruzione della casa diventa simbolo di memoria, di vita, di legame tra i morti e i vivi. Ogni oggetto, ogni tavola, ogni soglia è intrisa di tempo, di storia, di spiritualità. L’attenzione ai dettagli della natura — fiume, cieli, animali — si fonde con la fisicità della costruzione, creando una poesia che è architettura e canto insieme.
L’anima del poeta emerge nella capacità di fondere il mondo sensibile con quello interiore: ogni gesto quotidiano diventa gesto sacro, ogni ombra piantata nella rena è un segno di presenza, resistenza e memoria. La traduzione di Nino Muzzi conserva intatto questo equilibrio, rendendo la poesia accessibile senza snaturarne la densità simbolica.

 

Silenzi cattura la transitorietà della vita in un lampo, in un singolo istante sospeso tra luce e ombra. Il sentiero di terra battuta diventa metafora del cammino esistenziale, un percorso che termina non in una meta definita, ma in un pendio dolce dove il tempo si dissolve, lasciando spazio al “Fior di loto / Oblio / Profumo di vita”.
La poesia ha una qualità contemplativa, quasi mistica: l’anima del poeta si manifesta come una percezione delicata e fugace della realtà, come se cercasse di imprimere nel cuore del lettore l’eco di ciò che passa senza ritorno. L’istante diventa esperienza assoluta, condensato di memoria e consapevolezza, e la brevità dei versi amplifica il loro potere sospensivo.


 

Jacqueline Miu ci catapulta in un universo di simboli e immagini dense, dove l’emozione si fa visione fisica e psichica. Il “vespro rosso” non è solo tramonto: è un cuore che pulsa tra dolore e desiderio, una fusione tra interiorità e mondo esterno. L’uso di elementi come vulcani, oceani, microscopi alieni e tempeste rende il sogno concreto, quasi tangibile, mentre l’anima del poeta si dilata fino a inglobare l’universo.
La poesia diventa laboratorio di esperienza emotiva: l’io è simultaneamente preda e predatore, mare senza abissi, soggetto e oggetto della contemplazione. Qui il dolore, la malinconia e la ricerca dell’amore assumono una dimensione quasi sacra, mentre la tecnica visiva di Miu — immagini frammentate e potenti — induce nel lettore un senso di vertigine e di espansione interiore.


 

Colonna Romano celebra la bellezza come incanto quotidiano. Il sorriso descritto non è solo gesto fisico, ma catalizzatore di emozione e armonia universale. La poesia vibra di un lirismo classico, con rime e musicalità che enfatizzano l’incanto e la leggerezza.
L’anima del poeta è permeata di gratitudine e ammirazione, quasi religiosa nella devozione verso ciò che illumina la vita altrui. Il testo rivela la capacità della poesia di trasformare un momento ordinario in esperienza trascendente, e mostra come il sentimento amoroso possa essere elevato a gesto di generosità cosmica.


 

Seccia trasforma l’osservazione del mondo in denuncia e dolore universale. Le immagini forti — missili, distruzione, corpi frantumati — evocano un orrore reale, mentre l’io lirico cerca rifugio in desideri elementari: amore, cibo, un cielo sereno.
La poesia ha una dimensione etica e metafisica insieme: parla della brutalità del tempo storico, dell’ingiustizia e della fragilità della vita umana. L’anima del poeta appare straziata ma testimone, capace di esprimere non solo l’angoscia personale, ma il grido collettivo dell’umanità. La brevità e la ripetizione accentuano il senso di impotenza e urgenza, rendendo la voce poetica profondamente empatica e morale.

 

Romanini ci mostra il mare come testimone e custode di vite spezzate, diventando al contempo Sorella Morte e custode di compassione. La poesia è essenziale, quasi cristallina nella sua forma, ma potente nella risonanza emotiva: il mare diventa specchio della nostra coscienza, mentre ogni corpo restituito sulla spiaggia è un richiamo alla responsabilità morale dell’umanità.
L’anima del poeta è qui profondamente empatica, capace di trasformare la tragedia collettiva in esperienza simbolica. La struttura dei versi, frammentaria e ritmica, imita il respiro delle onde e l’oscillazione tra presenza e assenza, tra vita e morte. Il messaggio è universale: l’indifferenza umana è messa a nudo, e il mare diventa giudice silenzioso e maestoso.


 

Scaligine esplora il rapporto tra sogno e memoria, tra esperienza vissuta e desiderio di rivivere il passato. Il mare qui è luogo di fusione tra reale e onirico, tra perdita e nostalgia, un territorio dove il tempo si dilata e si dissolve. L’io poetico tenta di arrestare l’estate passata, di dischiudere la notte e di interpretare i sogni come realtà alternativa.
La poetessa mostra una consapevolezza psicologica raffinata: il sogno è terapia, inganno e rivelazione insieme. La nostalgia diventa strumento di introspezione, e la poesia agisce come ponte tra memoria e presente, tra desiderio e accettazione. L’anima del testo vibra di tensione emotiva e vulnerabilità, mentre la forma lunga e meditativa riflette l’oscillazione dell’io tra controllo e abbandono.


 

Greggio ci conduce in un paesaggio notturno di silenzi e profumi. La luna diventa interlocutrice e amante, il gelsomino diventa simbolo di connessione tra natura e emozione. L’anima del poeta appare immersa nel mistero, in un’intimità sensoriale che unisce silenzio, odore e visione: la poesia è incantamento, esperienza quasi sensoriale della realtà trascendente.
La struttura semplice e l’assenza di punteggiatura eccessiva amplifica l’effetto meditativo, come se il verso stesso fluisse tra i sensi e l’inconscio. Qui non c’è dolore sociale né ricordo struggente: c’è contemplazione e fusione tra l’io e il cosmo, tra presenza e assenza, tra luce e profumo.

Con affetto e stima

Ben Tartamo

 

 

 

19-22 Agosto

  • “Chi sei? Chi sono?” di Nino Silenzi

Questa poesia è una lama di vetro che frantuma l’identità: un dialogo impossibile con lo specchio, con il proprio volto che non si riconosce più. È l’angoscia moderna dell’io che si smarrisce, un grido esistenziale che ricorda Pirandello e le sue maschere, ma anche l’eco di Rimbaud con il suo “Je est un autre”. La sera che avvolge e l’alba che acceca diventano le forze cosmiche che smantellano ogni certezza. Il poeta ci consegna il dramma dell’estraneità a sé stessi: l’io diventa uno straniero, e forse proprio lì nasce la poesia, nel buio interstizio tra riconoscimento e perdita.


 

  • “Se saprai” di Franco Fronzoli

Qui l’anima si apre come un campo sconfinato: promessa d’amore che diventa viaggio iniziatico. Il poeta si fa guida, profeta amoroso che conduce l’amata oltre le soglie del mondo tangibile: dalle aquile al mare, dalle vette alla neve. È un canto che si avvolge su sé stesso con ritmo ipnotico, quasi liturgico, che ricorda le litanie dell’amore eterno. Ogni “Se saprai starmi vicina” è invocazione, quasi un mantra, che non chiede ma afferma: l’amore vero è condizione, è adesione, è complicità assoluta. Non è solo un dono, ma una iniziazione mistica, in cui l’amore si rivela come forza cosmica capace di unire stagioni, sogni e silenzi.


 

  • “La sera della pieve” di Renzo Montagnoli

In questa poesia si respira un tempo arcaico, intriso di sacralità contadina. La campanella che si diffonde nella valle non è solo richiamo religioso, ma vibrazione ancestrale che lega terra e cielo. Montagnoli sa restituire l’immagine di una comunità raccolta, fatta di scialli, pipe, ombre lunghe: un teatro di umanità che si muove dentro la cornice eterna della fede e della natura. C’è in questi versi una nostalgia per il sacro perduto, una liturgia della memoria che ricompone i passi dei vivi e dei morti sui lastroni consunti. E quando il rosario inizia, la poesia stessa diventa preghiera: il tempo profano è sospeso, e ciò che resta è il silenzio sacro dell’attesa.


 

  • “Andrea” di Salvatore Armando Santoro

Questa poesia è un dialogo con l’aldilà, un sorriso oltre la soglia della morte. Andrea appare con leggerezza disarmante: fuma, sorride, scherza, ironizza sulla vita che ha lasciato, eppure resta presente in un cappellino, in un sorriso sopra un comodino. Qui la poesia non indulge nel dramma della perdita, ma nell’intimità del ricordo, che diventa un filo ironico, complice, quasi cameratesco. Santoro ci restituisce la morte non come abisso ma come altra parte del percorso: “Io credo, la mia”, dice Andrea, e in quella frase c’è la saggezza semplice di chi sa che la vita è solo un tratto di cammino. È una poesia che consola, che ride nel dolore, che accarezza il lutto con la dolcezza del quotidiano
 

 

  • “Il nostro sì” di Felice Serino

Un testo essenziale, quasi aforismatico, che affonda la sua radice nel minimalismo poetico contemporaneo. Le parole sono pietre sparse, scolpite nello spazio bianco: ogni termine ha il peso di un cosmo. L’affermazione “noi siamo” diventa dichiarazione ontologica, che va oltre la fisicità, oltre la “terra che limita il volo”. È una poesia che sembra farsi preghiera nuziale, ma anche atto metafisico: il “sì” è insieme consenso d’amore e assenso alla vita, alla trascendenza. Serino, con il suo linguaggio asciutto, costruisce un canto che potrebbe stare inciso sul marmo di un altare interiore: il poeta ci dice che l’essere vince il vuoto, che l’anima è già oltre le sue catene materiali.


 

  • “A … ‘braccia aperte’” di Armando Bettozzi

Qui il tono cambia radicalmente: siamo nel vivo della satira civile, aspra, corrosiva, quasi dantesca nella sua fustigazione. Il “togato” diventa maschera di corruzione, di ipocrisia, di giustizia tradita. La rima morde, la cadenza incalza, l’anafora ribadisce indignazione. Bettozzi costruisce un pamphlet poetico che denuncia, svela, accusa: il “traditor di Patria” non è chi ha difeso il territorio, ma chi ha tradito il mandato. È poesia che non cerca armonia ma scossa, che non consola ma incendia. In essa vibra l’antica voce di un Pasolini civile, ma anche l’eco di certi versi satirici latini: corrosione morale e rabbia politica che diventano materia di poesia.


 

  • “Sempre a metà” di Rosa Notarfrancesco

Un testo di sospensione, lieve ma carico di nostalgia. Il tema è l’incompiutezza, l’essere “sempre a metà”: mai del tutto dentro un tempo, mai pienamente soddisfatti. La poesia è costruita come un flusso riflessivo, senza orpelli, quasi diaristico, eppure la sua forza risiede nel non detto, nelle pause che si insinuano tra i versi. Qui la parola diventa eco del rimpianto: “altri tempi… completamente felici di sé”. La Notarfrancesco cattura l’essenza del vivere come frammento, mai totalità, e lo restituisce con tono quieto ma denso di malinconia. È un pensiero lirico che resta aperto, senza chiusura, come la vita stessa.


 

  • “Mezzanotte, ombre dolci alle porte e astri” di Jacqueline Miu

Qui entriamo nella poesia sperimentale, densa e caleidoscopica. La Miu frammenta e ricompone la realtà notturna in una sequenza visionaria: città, icone religiose, televisione, amanti, rifiuti, stelle. Tutto si mescola in un mosaico metropolitano che sa di beat generation e surrealismo. La lingua è fluida, stratificata, le immagini si inseguono con ritmo spezzato: “sciroppo di nuvole / e lunghe carcasse / la spazzatura dipinge la strada”. È una poesia che non descrive ma assorbe, non narra ma trasfigura. L’amore qui non è intimità domestica, ma energia che si manifesta nelle pieghe della notte, tra icone e vampiri, tra ombre e abbracci. L’effetto è quello di un canto cosmico urbano: mistico e profano insieme.

a poesia stessa diventa preghiera: il tempo profano è sospeso, e ciò che resta è il silenzio sacro dell’attesa.
 



 

 

  • “Topante” di Piero Colonna Romano

Un apologo in forma poetica, quasi favola morale che scivola in parabola universale. La vicenda del topo e dell’elefantessa non è solo ironia amorosa, ma diventa allegoria del pregiudizio, della diversità e del potere purificatore dell’amore. La lingua gioca con la rima narrativa, dal sapore antico e popolare, ma non rinuncia a lampi lirici che culminano nella nascita del piccolo Topante, elevato a figura messianica. Qui l’amore trasgressivo diventa forza cosmica che redime il mondo: la favola animale svela un Vangelo nascosto, in cui il diverso diventa salvezza. È poesia che fonde satira sociale, fiaba popolare e mito sacro.


 

  • “Un attimo” di Ciro Seccia

Pochi versi, ma intensi come un lampo. La brevità diventa qui la cifra dell’assoluto: l’amore, scoperta che abbatte ragione e distanze, è un istante che contiene l’infinito. Struttura semplice, quasi epigrafica, dove le parole “scintilla”, “sguardo”, “Oceano” si fanno simboli di immensità. C’è un eco pascaliano: il cuore conosce ragioni che la ragione ignora. E nel frammento, come un haiku occidentale, Seccia ci consegna l’esperienza fulminea e vertiginosa dell’amore che si rivela come eternità compressa in un battito.


 

  • “Malumore” di Alessio Romanini

Romanini unisce la concretezza quasi diaristica (“mi duole la cervicale”) con aperture liriche che evocano colombe, mare, vapori celesti. È poesia ironica e malinconica, dove la fragilità del corpo e la noia dell’età si intrecciano al paesaggio naturale. La lingua si muove tra altezze e cadute: la colomba, la cupola azzurra, e poi la cervicale e lo stress. È in questa frizione che il testo trova forza: la tensione tra sublime e quotidiano genera un effetto straniante, che rende la condizione esistenziale più vera. L’ultima sentenza, “il tedio è l’oblio di ogni intrinseca attività”, ha quasi un tono filosofico, come una definizione tratta da un manuale di vita interiore.


 

  • “Fino all’ultimo respiro” di Sandra Greggio

Una poesia che si apre come un diario intimo, e si sviluppa in forma di confessione amorosa. Il “tu” evocato è presenza discreta e costante, un enigma che diventa destino. La scrittura procede in ritmo fluido, con immagini di delicatezza sensuale (“carezza sul cuore”, “onda che ha trovato il suo mare”). È un canto che racconta la trasformazione dell’attesa in compimento, del sogno in realtà, fino alla promessa estrema: “Finché avrei avuto respiro”. Qui l’amore non è solo sentimento ma approdo, totalità, senso ultimo dell’esistenza. La Greggio scrive con limpidezza, ma sotto la linearità si avverte una vibrazione metafisica: l’amore come respiro dell’anima che sopravvive al tempo.

con stima ed affetto

Ben Tartamo

 

 

 

14-18 Agosto

Buon Ferragosto a tutti i sitani!!!

Un saluto particolare a Lorenzo
che ospita noi poeti.
Alessio Romanini

 

 

 

10-13 Agosto

Qui siamo di fronte a una costruzione poetica che ha l’aria di una piccola “commedia dell’arte” in versi: quartine, rime baciate o alternate, un’andatura da filastrocca riflessiva. È una parabola dell’esistenza, scandita dalla metafora del percorso di montagna: salite ardue, discese insidiose, rare vie piane. L’autore inserisce il tono confidenziale (“pe’ un percorso accidentato”) che avvicina il lettore e smorza la serietà con ironia bonaria. Se la tecnica metrica può sembrare talvolta più “artigianale” che cesellata, è proprio in questa vena schietta che si percepisce un sapore genuino. La chiusa con “anta” è un piccolo colpo di teatro: il tempo che passa diventa occasione di bilancio, ma senza cedere al lamento. 

Qui il registro cambia: siamo in un minimalismo lirico che assomiglia più a un frammento diaristico che a un componimento strutturato. Brevi frasi, enjambement naturali, quasi prosa poetica. È un testo che parla di un rapporto segnato dal gioco ambiguo tra orgoglio e perdono, attrazione e distanza. Non c’è punteggiatura rigida, e questo crea un flusso emotivo che riflette l’instabilità del legame. La “vita a sé” e le “distanze meditate dallo scoraggiamento” sono immagini più mentali che sensoriali: l’amore e il disincanto non vengono raccontati, ma lasciati sospesi, come un volto in penombra.  Osservo che non siamo davanti a un affresco ricco di colore, ma a un disegno a matita: pochi tratti, ma essenziali.
Un testo drammatico, quasi cinematografico. Il temporale diventa metafora della disillusione e del tempo perduto. L’incipit “Il cielo s’è fatto nero” prepara subito l’occhio del lettore a un quadro tempestoso: bagliori ferrigni, fulmini zigzaganti, vento maligno… è una scenografia che ha qualcosa di barocco per abbondanza di dettagli visivi e sonori (“rullano cupi i tamburi”). La tempesta esteriore e quella interiore coincidono, e l’uso ripetuto di “Ormai è tardi” scandisce un senso di ineluttabilità. È poesia che si presta bene a essere letta ad alta voce, quasi come un recitativo.  Un “Caravaggio” in piena tempesta: forti contrasti, luci che squarciano il buio, e un senso di destino già sigillato.
Un haiku dilatato, essenziale come un’incisione su pietra d’acqua. L’immagine iniziale – camminare sull’acqua senza lasciare traccia – è di grande forza simbolica: parla di transitorietà, ma anche di presenza discreta. Ogni verso sembra un respiro misurato, e il bianco della pagina diventa parte integrante del testo. Qui non c’è pathos drammatico: c’è un’attesa, un essere “nell’eco leggera di ciò che non si vede”. È una poesia che lavora per sottrazione, e la sua forza sta proprio nel lasciare lo spazio al lettore per completare il senso.  Una miniatura orientale: due pennellate, ma nessuna superflua.
Un notturno estivo intriso di sensualità e malinconia. Qui l’autore fa leva su immagini tattili e olfattive – i gelsomini, il respiro che si ferma – per avvolgere il lettore in un’atmosfera sospesa. La “ricerca del baricentro del mondo” è il cuore simbolico: l’amore come fulcro momentaneo dell’universo, effimero ma assoluto. La chiusa con la stella che “potrebbe ritornare” fonde speranza e consapevolezza dell’irreversibile. È una poesia che si legge come si ascolta una canzone estiva francese anni ’60: un po’ languida, un po’ segreta, tutta giocata su una luce che si spegne e un profumo che resta. Qui c’è un piccolo quadro impressionista – un Renoir notturno – dove più che le forme contano i bagliori.
Qui siamo nel territorio della lirica utopica. La ripetizione anaforica “C’è un posto nel mondo…” è un martello dolce che scolpisce, verso dopo verso, un Eden ideale. L’elenco accumulativo non è solo descrizione, ma anche denuncia: ciò che si sogna è proprio ciò che manca. Alcune immagini – i tramonti che vanno oltre la notte, la luna che spunta due volte – hanno una qualità naïf che tocca il cuore proprio perché non si preoccupa di essere “verosimile”. È un catalogo poetico che alterna delicatezza e colpi di frusta morali (“le mani degli uomini non si macchiano di sangue”), e alla fine si rivela: è un mondo di illusione. È un polittico votivo senza la pala centrale: ci mostra la gloria, ma ci dice che non è mai stata esposta”.
Qui la poesia vira verso il racconto in versi. C’è un impianto narrativo forte: una stazione vuota, un altoparlante stonato, un addio che brucia ancora sulla pelle. Il tono è diretto, quasi colloquiale, e alterna versi regolari a spezzature di pensiero. Non è tanto la stazione a essere il soggetto, quanto la disillusione amorosa che vi si consuma. Colpisce la crudezza con cui l’autore introduce il tema dell’interesse materiale (“apprezza solo qualche suo quattrino”), spegnendo il pathos romantico. È un testo che si muove tra la canzone popolare e il diario poetico. È un realismo da bozzetto ottocentesco – niente veli, la scena è cruda, con l’amore che ha già preso il treno e non tornerà”.
Una poesia brevissima, ma dal respiro ampio. Siamo quasi in un fotogramma di cinema muto: un mare incantevole, l’illusione di portarlo fuori dal sogno, poi il risveglio. La punteggiatura ridotta al minimo e la disposizione verticale dei versi accentuano la sensazione di sospensione. Serino lavora per sottrazione: non descrive il mare nei dettagli, ma lascia che il lettore lo veda nel bianco che separa le parole. È poesia zen: un’immagine, un pensiero, un dissolversi. È una miniatura giapponese incorniciata in un foglio bianco: la forza sta in quello che non si vede.
Un testo breve, diretto, di respiro civile. Qui non ci sono metafore elaborate né compiacimenti estetici: la parola è dichiarativa, volutamente “nuda”, come uno striscione esposto in piazza. L’amore è contrapposto alla violenza patriarcale in un registro quasi di manifesto politico, e il messaggio viene scolpito in modo inequivocabile. Non è un dipinto da galleria, ma un’incisione su lastra di rame: colpo secco, senza sfumature, pensato per essere visto da lontano e ricordato.
Qui invece la scrittura si avvolge su se stessa come le linee ornamentali che il titolo promette. È un tessuto di immagini sensoriali — stelle, nuvole, sabbia, lacrime — legato da una musicalità morbida. Il lessico alterna dolcezza (“brezza”, “ruggiada”) a toni più freddi (“algida come la luna”), creando un chiaroscuro emotivo. L’io poetico si muove “a piedi nudi” dentro una cornice marina e lunare: è un arabesco che non è solo decorativo, ma anche percorso interiore. Come in certe maioliche islamiche, la bellezza sta nel disegno che non finisce, ma si prolunga oltre il bordo della pagina.
Qui ci troviamo in piena espressione visionaria e confessionale. È un flusso di coscienza potente, non addomesticato, che alterna lampi biografici, dichiarazioni quasi teatrali e improvvise aperture mitiche (“aspirazione drago”, “carrozza partita da Baltimore”). È poesia fitta, convulsa, che non si concede pause: la sintassi franta e la densità di immagini danno la sensazione di un diario scritto nella notte. È un testo che non teme l’eccesso, anzi ci si abbandona come un pittore espressionista che lavora solo con rossi e neri. Non c’è prospettiva rinascimentale: qui siamo dentro un Pollock emotivo, dove il gesto conta più della figura.
Questa poesia è una meditazione filosofica che si serve di immagini naturali come ancore sensoriali. L’interrogazione iniziale — “Perché quel mondo è invisibile?” — attraversa tutta la composizione, ma non per trovare risposta: la poesia diventa un catalogo di fenomeni visibili (luna, sole, vento, mare) che rinviano a un’origine misteriosa. La chiusa spirituale (“Il tutto è riassunto nell’amore…”) restituisce un senso mistico, quasi teologico. È come un’iconostasi: dietro la materia visibile, intravediamo uno spazio sacro che non possiamo penetrare del tutto.
Un omaggio esplicito a Prévert, e se ne riconosce la leggerezza. La costruzione è semplice, basata su parallelismi (“Negli occhi tuoi / vagan piccole onde”) e su un’immagine centrale — l’acqua come specchio e destino d’amore. È una poesia immediata, breve come un fotogramma rubato al tramonto. È un acquerello ben fatto: non serve cornice dorata, basta lasciarlo al sole perché il colore faccia il suo gioco.
Qui il registro è intimo, doloroso, segnato da un’assenza assoluta: l’attesa di un figlio. Il lessico è semplice, ma carico di pathos (“catena senza fine”, “lava che taglia la terra”). La ripetizione di “Aspetto te” è un battito cardiaco, un metronomo emotivo che accompagna tutta la lettura. Non è poesia che gioca sulla metafora astratta: è voce che parla da dietro una porta chiusa. È un ritratto a carboncino di un volto amato, fatto in un’unica seduta: il tratto dimostra l’urgenza del momento.

 
11agosto2025
Con stima e affetto 
Ben Tartamo 

 

 

 

6-8 Agosto

I vostri commenti mancano come l'aria che respiriamo.

Ossigeno puro della pagina Azzurra.
Spero di poter leggere tra breve la bellezza che voi
commentate e vedere nella poesia d coloro Che scrivono sulla pagina Azzurra.
Auguro a tutti i poeti del sito buone vacanze.
Ed un Grazie al Prof.De Ninis,Ben Tartamo,Prof.Spadavecchia.
 
Grazie.....Ciro Seccia 

 

 

 

13-16 Luglio

Grazie dei vostri commenti,in questi giorni ne sento vivamente la mancanza,

Il tempo le Parole la vostra empatia Con tutti i poeti del sito,sono per me la Base per cui scrivo Ed apro il Mio cuore  sulla pagina azzurra.
Porgo i miei Saluti a Ben Al Prof.Spadavecchia Ed ovviamente Al Vate Lorenzo De Ninis.
Grazie...
Ciro Seccia 

 

 

 

 

7-8-9 Luglio

Saluti per i sitani
Un caro saluto con l'augurio di "Buone Vacanze!" alle giovani e meno giovani divinità cosmiche di Poetare. 
Che siano la creatività e l'amore i vostri amici di viaggio. Tornate ricchi di ispirazione e felici. 
Passate un'estate meravigliosa. Ringrazio il magnifico Magister Lorenzo, generoso creatore di Poetare Tempio Azzurro per la letteratura di qualità, per l'onore che mi offre nell'ospitare le mie umili opere. Ringrazio tutti i sitani per i loro commenti e la gioia che mettono nei loro appassionanti lavori. 
 
Auguro a tutti una meravigliosa estate
Miu

 

 

Buongiorno a tutti
Di tanto in tanto se pur per un breve commento devo dire grazie a tutti ,
alle parole , emozioni che voi poeti trasformate in versi e in commenti
In particolare modo a Marino Spadavecchia
Umiltà calpestata,
che prende il sole
sulla spiaggia d’Oriente.
a Ben Tartamo
Giorni su giorni,
sassi su sassi...
sabbia che nasce
in riva al mare.
grazie per i vostri commenti
per la vostra poesia semplice e complessa
Piero Colonna Romano
Via delle monache, bellissima poesia ,e poi con tutti quei premi non ci sono parole che potrei aggiungere

Mi dicono che gli angeli perdano le ali quando amano
Non posso aggiungere nulla di ciò che penso io, ma la tua poesia merita molto , molto bella come tutte del resto Jacqueline Miu

Grazie Lorenzo che ci fornisci la possibilità e la gioia espressionistica
grazie alla tua sensibilità e generosità
alla tua bella poesia Nino Silenzi
Al Mare che culla i sogni , i ricordi , ciò mi fa capire che vivi , come me vicino al mare ,perché quella distesa verde o azzurra come un cielo capovolto ci fornisce la possibilità di vedere il fuori dentro di noi che allieta il nostro spirito grazie con un abbraccio
Buone vacanze a tutti
Antonia Scaligine

 

 

Commento poesia "U Me' Sognu" di Rosa Venuto di Acquedolci.
Bellissima poesia "U me' Sognu", è un omaggio struggente e affettuoso a Franco Battiato, maestro dell’anima e della musica, filtrato attraverso la memoria, il sogno e l’identità siciliana. Rosa Venuto intreccia ricordi familiari, tradizioni antiche e versi evocativi in dialetto, riportando in vita un mondo perduto fatto di armonia e semplicità. Il testo vibra di nostalgia e desiderio: quello di tornare indietro nel tempo, di varcare la soglia della casa di Battiato a Milo, per sentire ancora l’eco della sua voce. Un sogno che è anche preghiera, una ricerca del sacro nella quotidianità, dove l’arte diventa ponte tra generazioni, tra chi resta e chi è già “trasitatu".O per meglio dire ..U me' Sognu" è un omaggio poetico, intimo e sincero, che la poetessa messinese Rosa Venuto di Acquedolci dedica al Carissimo Maestro Franco Battiato. In queste righe scritte in dialetto siciliano, si intrecciano memoria e desiderio, antiche tradizioni e riflessioni profonde sul tempo che passa. Il sogno di poter visitare la casa di Battiato a Milo diventa simbolo di un bisogno più grande: quello di ritrovare l’armonia, la bellezza e la semplicità di un tempo che oggi pare perduto. È un canto d’amore per la Sicilia, per la famiglia, e per un figlio – Franco – che, con la sua arte, ha saputo portare la luce oltre i confini dell’isola.
Commento edito da
MariaAntonietta Chiovetta

 

 

 

 

4-5-6 Luglio

Con immenso piacere mi accosto a commentare questa composizione di Marino Spadavecchia, un’opera che si staglia con forza nella contemporaneità della poesia latinoamericana ed europea e oltre, offrendo un’indagine profonda sul dolore esistenziale e sulla condizione umana nel nostro tempo.

 
“Meteoritos perdidos / en la constelación / de los desechables impenitentes.”
L’incipit ci catapulta immediatamente in un paesaggio cosmico e metaforico, dove i “meteoritos perdidos” diventano simbolo di anime e vite scagliate in orbite senza meta, perdute in una galassia di “desechables impenitentes” — gli esseri scartati, i dimenticati, forse persino coloro che si sono condannati a un’esistenza di inutile consumo e spreco. Questa immagine di vastità siderale carica di solitudine e inutilità plasma un’aura di malinconia che pervade tutta la poesia.

 
“Gotas de almas errantes / en el océano de la soledad / sin regreso.”
Il fluire di “gocce di anime erranti” sospese in un “oceano di solitudine senza ritorno” costruisce una metafora liquida e struggente che richiama la fragilità e la vulnerabilità dell’essere. L’oceano, eterno e implacabile, diviene un simbolo dell’isolamento totale, la condizione umana ridotta a particelle perse nel flusso di un dolore inarrestabile. L’assenza di ritorno sottolinea un’irreversibilità della condizione, un destino che si compie senza speranza.

 
“Delfines anémicos, / apesadumbrados, estériles, / que no saben / si seguir nadando / o morir aguantando.”
Qui la poesia abbraccia un’immagine ancora più terrena e struggente: i “delfini anemici” rappresentano forse creature una volta vitali, ora prosciugate, gravate dal peso della tristezza e dell’incapacità di rigenerarsi, riflesso dell’anima umana in crisi. La tensione tra continuare a nuotare o arrendersi alla morte è la resa poetica della lotta interna tra vita e annichilimento, un interrogativo universale che Spadavecchia pone con grande delicatezza e forza.

 
Infine, per quanto riguarda l'Analisi stilistica e l'impatto emotivo:
la poesia si distingue per una limpida economia di parole e immagini potenti che, nonostante la brevità, evocano un panorama emotivo vasto e coinvolgente. La scelta di simboli cosmici e marini crea un doppio orizzonte di solitudine sia universale che intimamente umana. La musicalità asciutta e il ritmo cadenzato conferiscono alla composizione un tono meditativo e quasi liturgico, mentre la progressione dalle stelle agli oceani fino ai delfini conduce il lettore in un viaggio che è insieme metafisico e terreno.

 
In conclusione, Marino Spadavecchia offre un frammento di poesia che si impone per la sua onestà emotiva, la profondità filosofica e la chiarezza espressiva. “Meteoritos perdidos” è un appello a riconoscere le anime smarrite in un mondo che sembra essere sempre più fatto di “desechables”, e al contempo una meditazione sul limite fragile e doloroso della condizione umana. In questo testo la poesia europea trova una nuova, luminosa voce di tormento e bellezza.

 
Ben Tartamo 

 

 

 



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