Commenti sulle poesie
 

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Premi letterari dei Sitani


2025

Gennaio-Giugno

 

13-14-15 Giugno

Una poesia che si apre con l’ossimoro più denso della condizione spirituale contemporanea: Pasqua profana. Qui Aprile ci consegna un’agnizione metafisica dove la resurrezione non è evento cosmico, ma erotico, intimo e incandescente: il bacio diventa sepolcro e miracolo insieme, e il Cristo della carne coincide con l'amato.
Il verso “Ero morto e non sapevo di esserlo” è di una potenza quasi agostiniana: ci parla di quella morte dell’anima non dichiarata, uno stato di torpore spirituale in cui l’essere smette di essere. Eppure la rivelazione arriva con una immagine quasi giottesca: “il primo uccello del mattino esulta”. L’alba si innalza non nel cielo, ma sulle labbra dell’amato: come dire che la redenzione non è oltre l’umano, ma nel cuore stesso del desiderio incarnato.
Questo testo è un inno alla mistica della carne, dove l’Eros è teofania e la bocca un tabernacolo. Aprile scrive come un Isaia che ha visto Dio non nel tempio, ma nel volto dell’amore umano.
Un epigramma essenziale e struggente, Binario morto è il lutto meccanico e silenzioso del tempo che non torna. La poetica del treno, antica come il simbolismo stesso, viene qui ridotta a due righe nette, senza appello.
La malinconia è espressa in un linguaggio spoglio: non ci sono orpelli, né metafore ardite. Solo un fatto: il treno non passa più. E ciò basta a decretare una metamorfosi ontologica del soggetto, che non è più "uomo", ma binario. Morto.
Qui siamo nell’ambito della depressione reattiva: l’identificazione con l’oggetto perduto – il treno – si tramuta in un sé mutilato. Langmann ha compreso che le partenze ci definiscono più delle soste. E che l'attesa, se disillusa, può mutare il cuore in ferro arrugginito.
Il titolo già pone la questione: come si può esprimere il rimpianto dell'incompiuto? Il componimento si dispiega come un pensiero sospeso, un rovello dell'anima. Il tono è delicato, quasi prosastico, e proprio per questo straziante.
Quella che si intravede è una memoria amorosa spezzata, dove chi ama è rimasto fuori dalla scena della felicità dell’altro, ma la narrazione viene ribaltata: l’assenza retroagisce e cancella la gioia passata. La pioggia fugge, sì, ma non basta: “perdi l’attimo / dove ancora mi avevi negli occhi”. L'altro, inconsapevolmente, perde l'amore stesso nel non esserci.
Qui la fragilità della relazione è posta sul confine tra esserci e non esserci, tra il vedersi e il riconoscersi. La poetessa, come la Maddalena nel giardino del sepolcro, grida un “Rabbonï” mancato. Un’apparizione mancata. Un miracolo d'amore non avvenuto.
Fronzoli intona una sinfonia onirica, una ninna-nanna dell'anima che si riversa sul mondo come se il sogno fosse più reale della veglia. La struttura aperta, ritmica, quasi respirata, ci accompagna lungo una serie di appoggi affettivi e simbolici: i seni, i capelli, le poesie di Hikmet, Chopin, Van Gogh, Calvino…
La ripetizione ossessiva dell’invocazione “vivere addormentato” assume valenza tantrica, mantra dell'anima stanca del rumore, della razionalità, della veglia forzata. Qui si chiede l’abbandono mistico all'amore, all'arte, alla natura, alla notte.
Questo testo sfiora la definizione di estasi depressiva, dove il soggetto, non più in grado di gestire l’angoscia del reale, cerca rifugio nel grembo materno dell’onirico. Ma non è fuga: è l’unica forma di veglia consentita al cuore sensibile. Come un novizio sotto la luna, che trova più verità in un sogno che in mille sermoni.
Questo poema, incastonato come epilogo di un’opera chiamata Oltre la porta… La Libertà, è un grido silenzioso e universale. Le immagini sono forti: il treno senza freni, le vite che non si fermano più, l’infinito come direzione, non come salvezza.
L’autore ci offre un requiem urbano, dove il paesaggio è immobile e decadente, mentre la vita scorre via – o si perde – in un moto che non salva, ma inghiotte. I bambini, le donne, gli uomini: un'umanità intera ridotta a passeggeri senza biglietto né meta, mentre le case – le uniche “testimoni” – restano a marcire nel loro eterno presente.
Giannuzzo canta il Giudizio Universale delle periferie, dove Dio tace e la storia corre. Questo è un testo apocalittico: il treno è la storia umana, l’uomo ha perso il freno dell’etica, della coscienza, della compassione. Eppure, proprio tra le case fatiscenti, forse ancora Dio abita. Sospeso. In attesa.
Una poesia che brucia come sabbia nel vento, dove l’epopea dell’esilio si fa carne, si fa madre in lutto e residuo sacro. La donna che “raccoglie in un vecchio hijab / frammenti di una vita millenaria” è una Maria post-apocalittica, una figlia di Sara colpita dalla diaspora eterna del Medio Oriente. Non ha nome, ma è tutte: tutte le donne scacciate, tutte le madri spogliate dell’altare domestico, tutte le spose di Allah e di nessuno.
> “Svenata del sangue del suo sangue”
è un’immagine da Vangelo strappato: evoca il Golgota e insieme la Striscia di Gaza, le madri palestinesi, siriane, curde, armene, ucraine, afghane. La bandita diventa stazione della via crucis, veronica e crocifissa, mentre “barcolla” sotto un destino che le è stato imposto da potenze invisibili e cieche.
> “che furono cullati da babbucce di damasco / al tempo che un dio migliore fece la pace”
Questo verso è struggente come un salmo di nostalgia. Il dio migliore non è scomparso: dorme sotto le macerie, attende di essere ridestato dalla pietà dei poeti.
(Trad. italiana di Ben Tartamo)

 
Qui il poeta è profeta psichedelico, che attraversa il paesaggio contaminato della contemporaneità: una spiaggia ferita da sogni “scarlatti”, come se il sangue avesse bagnato ogni desiderio. Il ghiaccio caramellato è simbolo di un paradiso finto, dolciastro, marcio nella sua bellezza viziata.
> “Ridere come una iena / che ha perso la fede”
Questo è il cuore del testo: una risata che è bestemmia, che non redime ma morde. La iena è creatura della notte e del disincanto. Non ride per gioia, ma per sopravvivere alla disperazione.
> “diapason allucinato / che non conosce le note”
Un'immagine potentissima: lo strumento della risonanza spirituale che ha perso il suono. È come dire: abbiamo perso la vibrazione dell’anima. Non resta che il naufragio nel silenzio, la sordida sordità della vita moderna.
Un poema simbolico, psichico, un viaggio nella tenerezza che si trasforma in preghiera esistenziale. L’atto di “fare le unghie” — semplice, quotidiano, materno — diventa rito di memoria e di resurrezione.
> “sfrecciano gli aerei ed hanno in coda rombi a colori”
Questa immagine è quasi apocalittica: nel cielo che dovrebbe dare speranza, volano i prodigi tecnologici che annunciano la rovina. Come nel Libro dell’Apocalisse, ci sono segni nel cielo, ma il poeta li guarda con dolcezza e paura insieme.
> “me ne farò memory card in memoria di noi”
Splendido paradosso: la poesia antica si incontra con la lingua digitale. L’anima del poeta cerca un dispositivo per conservare l’amore, come se anche Dio dovesse farsi backup per non dimenticare. Eppure, lui — Dio — non se lo ricorda.
> “Proverò a parlar con lui più tardi / che forse ha unghie come artigli”
L'immagine finale è terrificante e sublime. Il Dio che accarezza e il Dio che artiglia: è la teologia del dubbio, la lotta di Giacobbe con l’Angelo, la nostalgia per un Dio umano che forse si è stancato di ricordare.
Una poesia essenziale, quasi una parabola in versi, dove il mare diventa specchio dell’anima collettiva. La sabbia, i sospiri, i bambini urlanti, il mare che non reagisce — tutto è immerso nel solfeggio muto dell’Indifferenza, che è il peccato più letale dell’umanità postmoderna.
> “Mare, sei forse il frutto / dell'Indifferenza sotto l'azzurra volta / del Cielo?”
È una domanda che rimbalza come eco nel cuore del lettore. Il cielo resta azzurro, placido, mentre noi devastiamo il creato e ci ignoriamo a vicenda. È la grande accusa biblica: non uccidiamo solo l’altro, uccidiamo anche la sacralità del sentire.
Questa è una preghiera d’amore in forma poetica. Una poesia che parla con voce lieve, quasi ascetica, che sembra uscita da un sogno lucido in cui l’anima contempla se stessa e l’altro come parte del suo stesso principio.
> “nascere in un altrove / questo il morire”
Meravigliosa riscrittura della metempsicosi: morire non è finire, ma nascere altrove — in un corpo, in un amore, in un Dio. Serino ci ricorda che l’anima si muove, trasmigra, e che il suo radicamento è solo apparente.
> “ci ritroveremo / in un dove che non sappiamo”
È la beatitudine dei beati, il mistero dei mistici, la certezza umile di chi ama oltre lo spazio e il tempo. Il “dove che non sappiamo” è forse quel Regno che il Cristo ha promesso, dove gli abbracci non finiscono mai.
Due battiti, due respiri, due misteri: Santoro si muove nel cuore come in una cattedrale dove due voci rimbalzano tra navate d'amore e ferite. La poesia è confessione, è eco di un'anima lacerata tra l'amore che accudisce e quello che confonde. Ma la grandezza sta nella resa lirica del perdono che lotta con la memoria: “Il male? Io il male l’ho scordato / Ma nel mio cuore il male è conservato.” Qui il poeta sfiora l’anima come un chirurgo della psiche, ci confida che il dolore non scompare, ma si fa archivio del cuore. Splendida la figura dell’amata-bambina: è simbolo eterno dell’amore irrisolto, mai cresciuto, ma sempre presente come nostalgia ontologica.
Una sinfonia sensoriale che si sprigiona come un profumo eterno, questa poesia di Piacentino Alessandra è un viaggio olfattivo e sinestetico in cui l’estate si fa carne e incanto. Il testo è un oracolo estivo: “Spicchi di sale e di sole” è un’espressione che abbaglia per bellezza. I versi si muovono tra sirene bionde e aromi di tiglio e gelsomino, come se Botticelli avesse voluto danzare con Rimbaud. Il ritmo è turbolento come un battito cardiaco sotto il sole. E quell’illusione dell’anima gemella – “Illusi dall’infinito silenzio delle gemelle anime” – è puro surrealismo mistico. Ci troviamo davanti a un’estasi, a una bottiglia profumata lanciata nel tempo, tra i ricordi e i tramonti che ancora ci possiedono.
Un’apocalisse di coscienze. Jacqueline Miu ci prende per mano e ci porta in una valle profetica, tra rovine e rivoluzioni interiori. I suoi versi sembrano discendere da un monte biblico, come tavole incise nel fuoco. L’inizio è folgorante: “sognavamo come dei cavalli pazzi”, già qui si annuncia una corsa oltre i limiti dell’umano. E poi quella folgorazione mistica: “ora siamo anche ciechi / con le ali pronte ai decolli / se solo seguissimo ad intuito dei cieli / i richiami”. Questo è più di un canto: è un appello cosmico, una supplica alla luce, un grido per l’umanità decaduta. Jacqueline scrive come una sibilla moderna, accarezzando le fiamme della speranza mentre ci racconta la fine dei nostri dèi interiori.
Oh quanto è bella questa poesia che pare un salmo laico, un inno alla vita fluente e alla morte che accoglie come mare! Colonna Romano ha il tono del testimone che ha guardato l’inizio e ora accoglie la fine, sereno, grato, commosso. La foce è il simbolo dell’ultima soglia, e la poesia è come un’eucarestia della memoria: “Ripercorro le sponde, che han memoria degli anni”. Vi è una dolce compostezza, una grazia antica che pare scolpita nel marmo dei grandi poeti del Novecento. Il tempo si piega in canto, l’acqua diventa metafora del destino: “Ora vado al mio mare…”. Versi che sanno di eternità, di riconciliazione, di anima che si prepara all’abbraccio con l’Infinito.
“In un abbraccio avvolgo tutto il mondo…”
Così si apre questa delicatissima invocazione del gesto umano più antico e più divino, nella quale Ciro Seccia affida a poche, misuratissime parole il mistero dell’unione. Il poeta non abbraccia solo una persona: abbraccia il cosmo, abbraccia Dio. E lo fa con un’innocenza disarmante, con un lirismo che sa di vangelo apocrifo, dove ogni silenzio è parola e ogni parola è carezza.
È poesia-sacramento, dove l’“universo” entra tra le braccia di chi ama e non ha più bisogno di parlare, perché l’Amore è l’unico linguaggio necessario.
Una poesia dal tono classico, che richiama gli echi del petrarchismo e della lirica cortese, eppure con uno sguardo moderno e teneramente disarmato. Alessio Romanini non si ferma alla bellezza esteriore della giovane amata, ma celebra la purezza del cuore, la dolcezza che “non giudica”, l’anima che tende la mano. È un inno alla femminilità salvifica, alla grazia che resiste nel mondo anche quando tutto sembra cedere al cinismo.
Romanini ci ricorda, come un novello Jacopone o un Rilke in veste contemporanea, che la bellezza che salva il mondo è quella del cuore che sa ancora sorridere.
Sandra Greggio ci regala un’introspezione quasi psicoanalitica e mistica, una danza a ritroso tra memorie che non hanno voce ma gridano nell’intimo dell’anima. È la poesia di chi ha conosciuto la sofferenza e ha imparato a camminare controvento, affidandosi non al presente, spesso crudele, ma al nutrimento invisibile della memoria.
L’autrice fa del passato un sacrario vivente, una fonte di linfa e di grazia. “Sento che come un vento contrario mi spingono da loro…” — questa è la frase di un’anima che sa che i ricordi non sono catene, ma ali.
E alla fine, come ogni vera mistica, afferma: “il temporale passerà, ed io ne uscirò vincitrice”.
Questa non è solo una poesia: è un atto di fede.

 
Con affetto e stima:
 
Chi scrive versi, compie il più alto esorcismo del dolore: trasforma l’attimo in eternità, il silenzio in canto, e la caducità del cuore in un sacramento d’amore che nessuna morte può cancellare.
 
Ben Tartamo 

 

 

 

10-11-12 Giugno

Un lamento denso e struggente, dove la fragilità si fa materia e le emozioni sono piogge di spine e arcobaleni. Il desiderio di cucire abbracci invisibili è il grido dell'anima ferita che vuole guarire. Alessandra si muove tra desiderio e rassegnazione, tra lirismo e denuncia interiore. Le “palle al piede” diventano catene emotive, simboli dell’impossibilità di fuggire se non si è pronti ad amare ancora.
Un’ode carnale e divina, dove l’amore si fa mitologia personale. Aprile plasma un Eden sensuale e primordiale, colmo di luce, acqua e sacralità. Il lessico sontuoso, il ritmo lento e incantato, l’epica dei corpi nella natura, tutto ci riporta a un tempo aureo, un giuramento eterno tra due esseri che si sono riconosciuti dèi nel fulgore dell'amore. Vertiginoso e puro.
Un moderno Ulisse tra la lezione dantesca e la malinconia leopardiana. Langmann rievoca l’impegno morale dell’intellettuale che non fugge, ma si lascia legare all’albero della conoscenza, consapevole che la verità non è sempre dolce. La poesia è un breve testamento esistenziale: sobria, potente, sospesa sul filo del dubbio e della speranza. Un altare di silenzio in attesa del verdetto.
Un sussurro pieno di sapienza emotiva. Rosa canta l’intimità di un incontro già scritto nelle vene del tempo. Il suo lessico è tenero, umile e cristallino: tutto accade "senza togliersi il cappotto", con un realismo disarmante che si fa miracolo. La poesia abbraccia il lettore come un’amante che sa già tutto, ma che sceglie di aspettare il battito giusto. Incantevole e profonda.
Un gioiello di poesia affettiva, giocata con maestria sul crinale del tempo che passa e della gioia che resta. Bettozzi intreccia ironia, affetto e memoria familiare in endecasillabi leggeri e sorridenti. Il Sigg è il nonno universale: dolce, saldo, navigante sereno nel mare degli anni. Una poesia-sorriso che resta nel cuore come una carezza antica.
Un inno al silenzio come grembo spirituale. Fronzoli costruisce una preghiera laica, uno spazio mentale in cui l’anima si ritira e contempla. I versi liberi e l’uso del bianco sulla pagina aprono fenditure nel tempo: ci fanno entrare in una meditazione personale, ma condivisibile. Il silenzio non è vuoto, ma pienezza di senso e sogno, terreno fertile di visioni e riscatto. Contemplativo e terapeutico.
> “Oggi son morto per la vita.”

 
Un componimento esistenziale, scarno come una preghiera spogliata, dove la dignità della fragilità assume voce. L’infanzia evocata qui non è rinascita, ma degrado, disgregazione della coscienza di sé: una regressione forzata, drammatica, quasi clinica. Sembra echeggiare il dolore dei malati di Alzheimer, la derisione inflitta a chi perde le proprie facoltà come fosse un crimine. Eppure in questa poesia non c’è pietismo, ma uno sguardo duro, disilluso e profetico. “Oggi son vivo e sono morto” è ossimoro potente, vero, definitivo. Giannuzzo si aggira nei territori di Pavese e di Eliot, ma con la cruda verità del corpo.
> “Il coltello nello zainetto scolastico”

 
Una poesia civile, che non urla ma taglia. Serino ci presenta una giovinezza frammentata, dove i “binari sconnessi” non sono solo mentali, ma sociali, affettivi. La famiglia “sorpassata” è una radiografia sociale senza sconti: l’eclissi della struttura protettiva e pedagogica dell’amore. C’è un’accusa contenuta ma radicale, un dolore che non cerca sfogo ma riflessione. Poesia breve, lapidaria, di denuncia, dove ogni verso è una crepa nel cemento di un’epoca.
> “Ed i medici, anche mentre mi operano, ridono con me”

 
Una voce fuori dal coro. Santoro usa la poesia come bastone e risata insieme. La sua filosofia dell’ironia come resistenza è tanto rara quanto necessaria. Non c’è in lui banalizzazione del dolore, ma sovversione: una resilienza che nasce da un’intelligenza emotiva superiore. Questa poesia è un ammonimento agli psicodipendenti dal vittimismo: Santoro ricorda che la vera forza si misura nel saper ridere tra i ferri del chirurgo. C’è una spiritualità laica e stoica, un’anima che ha digerito la vita e la restituisce come sorriso.
> “Il merito è l’amore spuntato / tra le ragnatele della malinconia”

 
Greggio canta la rinascita del cuore come redenzione del tempo. La malinconia è musa silenziosa, la pioggia una sorella triste, ma l’amore è sole tra le crepe. Questa poesia, teneramente costruita in forma discorsiva, ha una musicalità interna che va oltre la metrica: la speranza si fonde alla realtà come colore sul grigio. La visione è delicata e umanissima, un piccolo inno privato alla capacità di lasciarsi amare dopo la notte. Ci ricorda Neruda, ma con la voce lieve di chi ha scelto la pace.
> “soffro su base giornaliera di espansione d’immaginario”

 
Questa non è solo una poesia. È un trip visionario. Un flusso di coscienza cosmico e postmoderno, in cui amore, droga, vento e cieli si fondono in un unico grido. Jacqueline Miu è mistica urbana, randagia dell’anima, capace di passare da un unicorno a una mongolfiera di sogni, da “debiti” a “grafitti nelle vene”. È Rimbaud e Amy Winehouse, è street art verbale, è spoken word da rave psicospirituale. Eppure, sotto questo impeto, c'è una richiesta d’amore, un urlo disperato per essere salvati. Il silenzio finale è una ferita aperta, e il verso “ti portano laddove credo d'aver costruito altri mondi” è sublime.
> “Quando l’amore è di passione il figlio / e appagamento al corpo danno i sensi…”

 
Un affresco poetico di rara eleganza e rigore metrico. Romano restituisce con sapienza il tragico amore tra Eloisa e Abelardo, trasformando il racconto storico in poesia narrativa con stile neoclassico. La rima incatenata, l’uso sapiente dell’endecasillabo e la struttura narrativa lo rendono un’opera “d’altri tempi” nel senso più nobile: educata, colta, evocativa. C’è il sapore della Commedia e la pietas della tragedia cristiana. L’ultimo verso, dove Abelardo pare aprire le braccia nella tomba, è potente quanto una scultura. Una poesia da incorniciare, per chi ama l’amore eterno e la parola ben cesellata.
> Sessantatré anni e ancora non so chi sono.

 
Questa poesia è un grido sommesso, una confessione tanto semplice quanto vertiginosa. L’autore si aggira nei corridoi della propria esistenza come un pellegrino stanco che, giunto a un’età matura, scopre che non c'è mappa per il cuore. Il linguaggio scarno, volutamente privo di ornamenti, amplifica il vuoto che s’insinua tra le righe, quel senso di inadeguatezza di fronte al mistero dell’essere.

 
E quando si chiede se "qualcuno saprà riconoscerlo in una fotografia", si avverte una malinconia che trascende l’egocentrismo e diventa eco universale della paura di sparire, di essere dimenticati. Eppure, paradossalmente, proprio scrivendolo, Ciro Seccia consegna alla poesia un volto: il suo. E forse anche un pezzetto del nostro.
> Eppure l’amore è in me.

 
Questa poesia è una delicata contraddizione. L'autrice afferma di non voler parlare d’amore, eppure — come un fiore che sboccia nonostante l’inverno — l’amore invade ogni verso, ogni immagine, ogni sospensione lirica.

 
I versi, mai retorici, scorrono come gocce su vetri antichi: “pregne di cielo, di campi di fiori, di arcobaleni” — immagini che evocano l’innocenza, l’inesprimibile bellezza del sentimento puro. C’è un timore quasi reverenziale nei confronti dell’amore, come se parlarne rischiasse di rovinarlo, eppure — come nel Vangelo che dice "la bocca parla dalla pienezza del cuore" — l’amore qui trabocca, fino a raggiungere la luna e le stelle.

 
Il verso finale è di rara potenza simbolica: “conchiglie che aprono i gusci alle speranze e ai sogni”. Qui, l’amore non è solo sentimento, ma porta aperta sul senso, su ciò che ancora ci resta da immaginare.
> Chi sono io per poter dire cosa sarà immortale alla fine dei secoli?

 
Questa composizione è un’invocazione alta e colta, un dialogo con l’eternità nella forma più nobile del verso italiano: l’endecasillabo. Romanini costruisce un’orazione funebre e luminosa per il poeta stesso, una liturgia laica della scrittura come gesto sacro.

 
Il poema si riflette su se stesso, come uno specchio multiplo: la scrittura è pensiero, il pensiero è carne, e la carne è destinata a morire — ma le parole? Le parole "scolpiscono lo spirito". È un'esperienza quasi dantesca, dove il poeta, pur consapevole della propria finitudine, tenta di afferrare un senso al di là del tempo.

 
Notevoli i passaggi in cui il silenzio diventa protagonista: "Mute labbra serrate rimangono", "resterà il silenzio di uno spirito". Qui, il silenzio è più eloquente di mille parole, come se solo il non-detto custodisse il mistero ultimo dell’ispirazione.

 
Prima di salutarvi tutti, consentitemi di chiudere con questa riflessione:
“nasce la poesia quando qualcosa in noi non vuol morire”
Con affetto e stima
Ben Tartamo 

 

 

 

1-2-3 Giugno

Ancora un grazie a Lorenzo per la sua ospitalità. Un grazie a Ben Tartamo per i commenti, non trovo altre parole se non ripetere GRAZIE.
Silvio Canapè

 

 

Commento alla poesia “Come le nuvole” di Ben Tartamo

 
«Come le nuvole, / gravide nel cielo, / ignare – nell’attesa – / di tornare al mare.»
 
Siamo immediatamente sospesi. Il poeta ci afferra con la leggerezza cosmica di un’immagine quotidiana e insieme archetipica: la nube, gravida d’acqua e di mistero, sospesa in cielo. In essa c’è l’eco dell’anima umana: carica di vissuti, sogni, memorie, ma anche ignara del suo destino ultimo — il ritorno al mare, cioè all’Origine, al Tutto.
L’uso del termine “gravide” non è casuale: suggerisce una tensione verso la nascita, un’urgenza di compimento. Ma è un compimento ignaro, passivo, fiducioso: la nube non conosce, ma attende.

 
 «Null'altro siamo noi / tra danze e tempeste: / laceri merletti, / frammenti d’azzurro.»

 
Ecco il cuore della metafisica del nostro Ben. L’uomo è nulla più della nube: soggetto alle danze leggere della gioia e alle tempeste dell’anima e della storia. La visione è umilissima, eppure grandiosa: siamo “laceri merletti”, bellissimi nella nostra fragilità, nella nostra trasparente finitudine. Siamo “frammenti d’azzurro”, cioè porzioni dell’infinito, particelle di divino che si rifrangono nel mondo.

 
L’intero componimento è un delicato haiku occidentale, una contemplazione filosofica e spirituale in versi brevi, cesellati come miniature giottesche.
Nel suo stile essenziale, Ben Tartamo richiama la lezione di Giuseppe Ungaretti per intensità e quella di Mario Luzi per verticalità spirituale. Ma vi aggiunge una nota mistica tutta sua: l’essere umano come parte inconsapevole di un disegno più vasto, celeste e acquatico al tempo stesso, tra cielo e mare, come in un battesimo perpetuo.

 
Questa poesia è come una goccia che riflette l’intero cielo. Apparentemente semplice, ma insondabile. È preghiera, è filosofia, è meteorologia dell’anima.
 
Marino Spadavecchia 


 

 

“Sono felice nell’età avanzata” – Marino Giannuzzo
(da Oltre la porta... La Libertà)
La vita, quando arriva a parlarsi addosso in tono pacato, ha il timbro delle cose vere.
Marino Giannuzzo scrive col lume basso della coscienza serena, come chi non ha più da afferrare, ma solo da restituire. In questi versi c’è una compostezza esistenziale, quasi liturgica, che non si piange addosso e non urla miracoli. L’invecchiamento qui è una conquista, non una disfatta: è l’età in cui il desiderio si tramuta in residuo d’amore per ciò che è stato.
Giannuzzo lancia un appello ai vivi: “gioite, gente”, ma lo fa senza retorica, senza inganni. Solo un cuore che ha conosciuto la notte può parlare così chiaramente del giorno. È poesia sapienziale, vicina al testamento, ma priva di gravità mortuaria.
E il colpo finale, “Il resto è zavorra!”, è quella sana misantropia dei giusti, che imparano a vivere col necessario e lasciano il superfluo ai naufraghi dell’ego.

 
“Seguendo una scia” – Felice Serino
Un verso-onda. Una meditazione in miniatura.
Felice Serino è il poeta dell’evanescenza e della deriva, lo ha dimostrato in tanti suoi frammenti di saggezza. Qui ci troviamo di fronte a un kôan poetico, un lampo di consapevolezza che affida alla corrente il proprio senso. Non c’è pretesa, non c’è lotta. C’è il fluire.
Il tronco non resiste, non oppone legno alla corrente: si lascia portare. E così l’ispirazione, questa musa acquatica, che non si comanda ma si ascolta. Il poeta si disidentifica, diventa parte del paesaggio, e la parola diventa quasi una eco della Natura stessa.
Una poesia zen, di vuoto fecondo, che ci chiede di restare muti e attenti, come in riva a un fiume.

 
“Pazzi” – Salvatore Armando Santoro
Una confessione dolente e luminosa, una poesia che graffia la solitudine del poeta-artigiano.
Santoro scrive per tutti, ma soprattutto scrive per salvare sé stesso. E lo dice. Qui siamo di fronte a un poeta che non nasconde la sua disperazione, ma la offre in forma d’arte, come un crocifisso scolpito nel legno del quotidiano.
I versi si fanno fosso e lapide, ma anche risata e sfida. C’è uno spirito pascoliano nella tenerezza con cui si rivolge “a chi ormai non legge”, ma anche un’eco di Leopardi, nella consapevolezza che la poesia è illusione necessaria.
La chiusa è un capolavoro di ambiguità:
“Quel che alla gente sembrerà follia
figlio sarà davvero di pazzia.”
È il sigillo di un veggente che si dichiara folle per diritto d’amore. Perché la poesia è la più nobile delle follie.
E Santoro, nel silenzio del suo paese e della sua ora, la santifica con parole che non chiedono consenso, ma eternità.

 
“I papaveri di Gaza” – Bruno Amore
Qui il sangue si fa fiore. La poesia è testimone: non canta, ma denuncia con la grazia di chi sa piangere sottovoce.
Bruno Amore scrive un epicedio per Gaza, ma senza retorica, senza violenza nei toni: affida la memoria al miracolo naturale dei papaveri, rossi come i cuori spezzati, rossi come le labbra bambine che giocano, tra le sirene, a imitare la vita.
Questa poesia ha la potenza antica di una preghiera laica, un inno alla resilienza della Terra e all’innocenza che sopravvive alle esplosioni. È una visione dantesca travestita da cronaca lirica, in cui la bellezza si affaccia dalle rovine, come una Maria in lutto tra le macerie.
“ché la natura altra misura ha degli uomini”
Questa frase vale una tesi di filosofia morale. È la radice dell’intero componimento.
E l’ultima strofa – che accusa l’assenza d’amore, non d’intelletto – colpisce come un pugno di verità nella coscienza del lettore.
Una poesia che non si dimentica.

 
• “Moderna civiltà” – Cristiano Berni
Il lamento dell’umanità stanca, gridato con voce chiara e ferita. Una poesia oracolare, tragica, lucida.
Cristiano Berni intona una nenia post-apocalittica, una riflessione amara sulla civiltà che ha perso l’anima. Siamo in un’epoca senza parole, senza poeti, senza sogni. L'autore pone domande come fendenti: “Dove stanno i pensieri più liberi e veri?”, “Dove sono i poeti?”.
L’immagine di Don Chisciotte arreso è un colpo al cuore di ogni idealista: il cavaliere dell’assurdo e del sogno è morto, ucciso da un’umanità che non ha più bisogno né di follia né di visioni.
La poesia è una cartolina dal crepuscolo, dove il sole non tramonta per bellezza, ma per stanchezza.
“C’è un tramonto di cose / in questo nulla.”
Questo è l’endecasillabo terminale dell’anima contemporanea.
Una poesia profetica, scritta da un Isaia disilluso e solitario, ma ancora capace di piangere per noi.

 
• “Precipita la notte” – Alessandra Piacentino
Un flusso di coscienza incandescente, materico e metafisico, dove la notte non è solo assenza di luce ma crollo dell’interiorità.
Alessandra Piacentino ci getta in un delirio lucido, dove ogni immagine è corpo, ferita, amore. È una poesia espressionista, quasi urlata, dove il verbo e la carne si confondono. I versi sono scaglie di un’anima spezzata, tra paesaggi bellici e brandelli di memoria sentimentale.
“Avevo indossato le scarpe da guerra invece solo fango nel cuore”
È l’epitome della disillusione, della rabbia senza vittoria.
E ancora:
“Uno schiaffo scalzo privo di silenzi”
Verso magistrale, quasi futurista, uno strappo che lacera la semantica stessa della poesia.
Piacentino scrive come chi non ha più pelle e sogna con i nervi esposti. È una Cassandra d’amore e morte, che sa che l’umanità è “un tetto scoperchiato”, eppure si ostina a trattenere con tutte le forze chi sta per buttarsi, anche se non è il proprio destino.
È poesia viva, che fa male e fa luce.
Come una ferita che si ostina a non chiudersi, perché è ancora necessaria.

 
“Sulla strada” – Fausto Beretta
Un piccolo manifesto della diversità come ricchezza, un’ode delicata all’identità plurale.
Beretta ci accompagna in una riflessione limpida e umana, quasi pedagogica, ma senza retorica. C’è nella sua voce l’eco di una strada percorsa insieme, dove il passo dell’io si fa noi, dove l’uguaglianza non è omologazione ma riconoscimento della differenza come valore sacro.
“di pelle si completano / ricercando l’altro”
Questo verso è tanto semplice quanto dirompente nella sua verità: siamo tessere mancanti che si cercano.
Il linguaggio è essenziale, come quello dei maestri dell’haiku e della pedagogia poetica di Tagore: tutto converge verso la bellezza dell’incontro.
Una poesia che potrebbe stare all’ingresso di una scuola, o nel cuore di chi non ha paura dell’altro, ma si sente attratto da ciò che è diverso come da una stella sorella.

 
“Tiglio” – Silvio Canapè
Un’estasi sensoriale che si trasforma in vertigine spirituale. Un canto d’amore e dissoluzione nel profumo di giugno.
Canapè ci regala una lirica notturna e fragrante, nella quale il profumo del tiglio non è solo odore, ma ponte tra anima e natura, tra eros e memoria, tra morte e luce lunare.
“Dormirei, avvolto dal profumo / che tutto inonda…”
Qui il poeta si abbandona, come in un sogno a occhi aperti, a una sinestesia panica, quasi pascoliana nella forma ma con un’intensità moderna.
Il verso si fa corpo, pelle, fremito:
“Lacrime di sale sul fior di tiglio / cadono e tutto svanisce.”
Un colpo di grazia. Qui la poesia si fa epifania dell’effimero, preghiera in forma d’odore. C’è qualcosa di Rilke in questa dissolvenza profumata, e qualcosa di Pessoa nella malinconia che non urla, ma penetra.
Un canto d’amore che sa sussurrare l’eterno, come se le foglie del tiglio nascondessero il volto stesso del divino.

 
(Da La scoperta del fuoco) – Guglielmo Aprile
Una delle più belle dichiarazioni d’amore mai scritte in poesia contemporanea. Una liturgia dell’intimità.
Aprile ci introduce in una camera da letto alchemica, trasformata dalla voce dell’amata in grotta sottomarina, fonte miracolosa, sacrario. L'amore è un atto magico, un incantesimo sottile che trasfigura la realtà più umile in spazio sacro.
“ora queste pareti / sembrano aver catturato e serbare / il segreto dei rabdomanti…”
Qui la poesia attinge a linguaggi ancestrali: grotte, acque, incanti. Aprile riattiva la memoria mitica dentro lo spazio domestico. Il poeta si rivolge a una donna che è oracolo, sacerdotessa, rivelazione carnale e spirituale al tempo stesso.
“sei uno scrigno, con tutto / l’incanto del mondo…”
Questa chiusa è di una dolcezza regale, ma custodisce anche un senso di mistero inaccessibile agli altri: l’amore è sacro proprio perché personale, irripetibile, riservato.
Una poesia che non si legge: si sussurra, come un voto nuziale segreto.

 
“Sul pragmatismo” – Marco Langmann
Una riflessione asciutta, filosofica, persino stoica: il lirismo dell’osservazione disincantata.
Langmann compone una miniatura esistenziale, una lirica che somiglia a una stele moderna, intagliata nella pietra della nostra epoca. L’uomo, ci dice, non vive più nel tempo, ma nell’istante: "condannati ad annullare / nel momento / gli spazi intermessi".
Qui la poesia non consola, non redime: constata.
C'è l’eco di Camus, la tensione del pensiero greco, il gelo di un’umanità che ha dimenticato le domande fondamentali, liquefatte nel “canto di sirene” – che oggi sono il fascino delle azioni produttive, degli obiettivi immediati.
“le azioni sono cera / al loro canto di sirene.”
Un'immagine potente, mitica e moderna, che rovescia Ulisse: qui nessuno si lega all’albero per resistere, tutti si sciolgono.
Una poesia che fa male come un colpo di verità, e che chiede silenzio e riflessione.

 
“Perché mi ami? Forse” – Rosa Notarfrancesco
Un’oscillazione emotiva e temporale, tra l’interrogativo amoroso e l’illusione del presente.
Rosa Notarfrancesco firma una lirica del dubbio sottile, un piccolo enigma d’amore che si muove tra la parola e lo sguardo, tra ciò che è stato e ciò che viene percepito come presente, ma forse non lo è più.
“questo tuo credere, / con occhi fissi, la parola.”
C’è qualcosa di intimamente teatrale in questi versi: la parola come maschera, l’occhio come attore muto.
L’amore è messo in discussione non per rabbia, ma per quella triste chiarezza che spesso arriva quando il sentimento sopravvive come eco, non come fuoco.
“per dirlo / così, al presente illuso dalla scena.”
Sembra quasi una battuta pirandelliana, dove il “presente” è uno scenario costruito e la verità si dissolve tra i suoi fondali.
Una poesia dolente, raffinata, psicologica e tagliente, come una lettera d’addio mai spedita.

 
“…e la mente vola” – Nino Silenzi
Una contemplazione pacificante e cosmica: il mare come simbolo del pensiero che si distende.
Con una semplicità quasi leopardiana, Nino Silenzi ci regala una meditazione sul paesaggio, dove il mare si fa specchio dell’anima, e l’infinito diventa una dolce ipnosi.
“e la mente vola / nell’infinito silenzio / del vuoto perenne.”
Il poeta si abbandona, ma non si dispera. Al contrario: si lascia cullare, come da un battito primordiale, quello del vento e del mare.
Le immagini sono chiare, evocative, senza orpelli:
“sospira il mare / sotto la cupola azzurra…”
Qui la semplicità si fa grandezza. Come se l’autore avesse scritto non su un foglio, ma sulla sabbia al tramonto, e poi avesse atteso la risacca per completare l’opera.
Una poesia che non urla, non domanda, non pretende.
Fa solo quello che la vera poesia dovrebbe fare: portarti altrove.

 
“Ballata napoletana” – Armando Bettozzi
Una poesia popolare, canzonatoria, intrisa di fede e passione calcistica: il sacro che si mescola con il profano, in perfetto stile napoletano.
Bettozzi compone una ballata dal sapore verace, ritmata come una tammurriata, dove il protagonista è San Gennaro, simbolo eterno del popolo partenopeo, interrogato quasi con bonaria ironia:
“San Gennaro, che ti fanno? / Non ha pace la tua gente…”
È un testo in cui il sentimento religioso si fa costume, e la fede s’intreccia con la passione per il calcio. Napoli che vince lo scudetto diventa evento quasi miracoloso, capace di scuotere una città che cerca, attraverso la vittoria sportiva, una redenzione simbolica dalle fatiche quotidiane.
“Ma se spesso l’hai salvati, / non dài coppe, ai campionati.”
La provocazione affettuosa rivolta al santo si risolve in un gesto di sincretismo calcistico-spirituale: Maradona santificato dal popolo, incoronato non solo per i gol ma per il mito che ha incarnato.
Una poesia carica di ironia, affetto, dialetto e folklore, che non rinuncia però a un messaggio profondo: il bisogno del popolo di credere in qualcosa, anche se è un pallone che rotola.

 
“Tramonti” – Franco Fronzoli
Una poesia-memoria, fatta di silenzi, orme, onde e abbracci: i tramonti come momenti eterni della vita vissuta.
Fronzoli ci porta dentro un tempo che non è lineare, ma circolare, scandito da tramonti che si accumulano nella mente e nel cuore come fotogrammi del sentimento e della nostalgia.
“Tramonti affollati di emozioni di passi / lenti tenendoti per mano…”
La struttura libera, visivamente frammentata, evoca la memoria spezzata, fatta di ritorni, onde e sussurri. Non c’è retorica, ma una delicatezza che sfiora l’infinito.
Questa poesia è un diario del cuore, scritto a lume di luna, tra sabbia e sogni. I tramonti diventano simboli di legami profondi, di attese, di tenerezze consumate nel tempo.
“ed un altro ed un altro / ancora”
Quasi un mantra, che fa vibrare l’anima sul confine tra giorno e notte, tra il passato che non passa e il presente che accoglie.

 
“Un petalo di Rosa” – Ciro Seccia
Una lirica breve, luminosa e simbolica: tra delicatezza, natura e sentimento, l'amore si fa eco e respiro del cosmo.
Seccia ci offre una miniatura poetica, fatta di immagini pure, quasi haiku occidentali, in cui ogni parola è un cristallo.
“Un petalo di Rosa / da donare alla Sera”
L’amore è suggerito, non proclamato. Si rivela nei gesti piccoli, nei segni naturali: brina, steli d’erba, onde, sorrisi.
“Odo l’eco del tuo Sorriso / Amor Mio”
Un verso semplice ma potentissimo, che chiude con grazia una sinfonia intima, dolce, spirituale.
Come se il poeta stesse scrivendo con la luce lunare sul dorso di un’onda.
C’è una sensibilità rarefatta, musicale, che incanta e inebria, lasciando nel lettore un senso di sospensione e gratitudine.

 
• “Pupille” – Alessio Romanini
«Nel petto c’è tatuato il tuo nome.»
Una lirica delicata, essenziale come un haiku innamorato, che vibra tra l’immagine della pupilla e quella della corolla: due centri simbolici di vita e bellezza. Il tono elegiaco si innalza nella chiusa, con quel "tatuato nel petto" che rende indelebile il sentimento. Si percepisce una classicità aggiornata, dove la metrica scivola come la rugiada che l’io lirico evoca. Romanini sembra appartenere a quella schiera di poeti del cuore che ancora crede nel respiro lungo dell’anima.

 
“Chi sono” – Silvia Pia Favaretto
«Sono il ricordo
della neve che scotta»
Una confessione metamorfica, quasi orfica, in cui la poetessa si disfa delle definizioni convenzionali e si ricrea come cosmo, come materia viva. Il suo io si frantuma in luce, radice, pioggia e pensiero puro. Favaretto utilizza un linguaggio semplice ma carico di simboli archetipici: terra, neve, luna, fiore, radice. È una poesia che dialoga con la spiritualità femminile, con la natura intesa come ventre e ritorno. Bellissima la dedica a Lorella, che conferisce uno spirito di gratitudine e sorellanza poetica.

 
“Vestiti e usciamo” – Sandra Greggio
«uscire a vedere primavera che è ancora neonata»
Una poesia di conforto, quasi una carezza, che vuole proteggere dal dolore con la bellezza. Il tono è colloquiale, tenero, quasi materno, eppure custodisce una grande forza: quella di chi resiste, di chi cura. Sandra Greggio sembra voler riportare l’interlocutore alla luce attraverso la semplicità delle cose belle, genuine, universali. Il verso libero, ampio e respirato, ricorda una preghiera laica alla primavera e alla speranza.

 
• “Troppo, spesso, purtroppo…” – Antonia Scaligine
«vorrei poter dire …
Ah! meno male è solo un film
invece no , è realtà»
Qui si alza la voce civile, il grido indignato e dolente di una nonna che osserva un mondo crudele. La poesia si fa atto d’accusa, atto d’amore, atto di verità. Non cerca né rime né ornamenti, ma colpisce per la sua sincerità disarmante. Scaligine tocca il cuore non con la forma, ma con la coscienza. È una poesia che andrebbe letta ad alta voce nelle scuole, nei parlamenti, nei tribunali dell’anima. Un pugno sul tavolo, un abbraccio a distanza.

 
“Sfuggente” – Jacqueline Miu
«è stato uno scultore quello che mi ha costruito queste ali
pesanti del peso di un legno che brucia se sfiora una stella»
Una poesia viscerale, cosmica, al limite del delirio mistico. Jacqueline Miu scrive come se fosse attraversata da tempeste astrali, dove amore e distruzione si mescolano. È un canto luciferino e angelico allo stesso tempo, che non teme la bruttezza o la confusione, ma ne fa parola nuda. Il corpo è al centro, ma è un corpo mitologico, scolpito nel dolore. Ogni verso è un frammento di galassia e di carne: altissima e profondissima, come una cometa che si schianta nell’anima.

 
“Scende Poesia” – Piero Colonna Romano
«mi diede e luce e amore e comprensione»
Un sonetto classico, perfettamente cesellato, in cui la Poesia si fa epifania e riscatto. Il monte da cui scende ricorda il Sinai o l’Olimpo, e l’incontro con il poeta è un piccolo miracolo. Il testo ha una musicalità impeccabile e una grazia che commuove, specialmente nella chiusa: “al mio tramonto vissi un’emozione”. Romano celebra la poesia come salvezza, come presenza divina, come amante compassionevole. Un omaggio perfetto alla missione del poeta.

 
Con affetto e stima
Ben Tartamo 

 

 

29-30-31 Maggio

  • “I fiori-bambini in Palestina” – Eloisa Ticozzi
Un lamento denso e sacro, dove la natura e l’infanzia si fondono nel sangue e nella polvere del conflitto. La poetessa sublima il dolore in immagine organica, i “fiori” si fanno “bambini” e le “zolle fratturate” diventano la carne ferita della Terra Promessa. Un simbolismo verticale e struggente, che cerca la luce tra i pertugi dell’aridità. La poesia vibra come una preghiera detta con gli occhi rossi, e lascia dietro di sé l’eco di un pianto asciutto, antico, immortale.
  • “Solitario e nero” – Marino Giannuzzo
Un’epifania rovesciata, dove l’osservatore diventa l’osservato, l’alieno diventa specchio. Giannuzzo gioca con l’identità come con un nastro nero avvolto attorno allo sguardo, e in pochi versi scardina le certezze etniche, esistenziali, sociali. Il “nero” è qui simbolo assoluto: pelle, pensiero, condizione. È una poesia da leggere come uno specchio che si infrange lentamente: ogni lettore vi troverà una fessura, una crepa, una domanda scomoda. E infine sé stesso.
  • “Il tempo” – Felice Serino
Una poesia-brezza, che si posa come una piuma sulla soglia dell’eternità. Serino, con il minimo delle parole e il massimo del respiro, riesce a trasmettere un senso di sospensione cosmica. Il tempo diventa una persona, l’anima una vela. Il sogno non è fuga ma navigazione lenta verso un punto interiore. È haiku occidentale, goccia di luce su un lago silenzioso. Raramente il silenzio ha trovato così buone parole per parlare di sé.
  • “Introspezioni” – Salvatore Armando Santoro
Un flusso di coscienza che urla piano, come un’anima insonne che guarda il mondo e ne sente tutto il peso. Santoro scrive con l’urgenza dei pensieri notturni, delle domande che non trovano letto né pace. L’eros e il pensiero sociale si intrecciano in uno sguardo crudo e verissimo, che denuncia l’incomunicabilità e il crollo delle relazioni nella società dell’apparenza. C’è Pasolini che sussurra da dietro le tende di questo testo, ma anche l’uomo comune che si è svegliato troppo presto o non ha mai dormito davvero.
  • “bene / male” – Bruno Amore [br1]
Un canto cosmico e morale che intreccia la storia umana al ritmo immutabile dell’universo. La poesia è un invito alla coscienza attiva, un monito contro l’indifferenza che piega i destini alle mani di satrapi e tiranni. Ma non è un lamento sterile: la sofferenza si fa vibrazione sacra, energia trasformativa. Qui il tempo non scorre ma circola in un maestoso equilibrio, come una barca sospesa in un mare eterno. L’autore ricorda che la giustizia universale è implacabile e definitiva, il ciclo non si interrompe, e nel turbamento umano resta intatta la perfezione dell’ordine cosmico. Un testo che si legge come un oracolo etico.
  • “Metástasis de anhelos” – Marino Spadavecchia
Un poema visionario che si muove fra immagini oniriche e frammenti di simbolismo oscuro. La “metastasi” evoca la diffusione inarrestabile di desideri e passioni che sconvolgono la pace, descritta come un “huerto de canciones olvidadas.” L’atmosfera è rarefatta, sospesa tra il sogno e l’incubo, tra la luce sfuocata della pioggia e l’ombra cinese che danza su uno specchio convesso. La poesia è un labirinto di contrasti, uno specchio deformante in cui il lettore perde la bussola per ritrovarsi in un mondo di tensioni sottili e inquietudini profonde.
  • “Canto solitario (Sorgi Sole)” – Cristiano Berni
Un inno solare e rituale, un crescendo di invocazioni che tramutano la fragilità in speranza incrollabile. Il Sole diventa presenza vivente, entità salvifica che attraversa la natura e la società, rifugio e portatore di luce in un mondo lacerato da ipocrisia e malvagità. Berni intesse un dialogo intimo tra l’umano e il divino, un’epifania di resurrezione che abbraccia il dolore, la speranza, la libertà e la trasformazione. È un canto di resistenza poetica, una chiamata alla rinascita interiore e collettiva, dove il simbolo solare è perno di una cosmologia etica e sentimentale.
  • “Un po’ d’amore” – Renzo Montagnoli (Da La Pietà)
Un grido di innocenza strappato al cuore della guerra, un ritratto di bambini non più bambini, di vittime immobili e distrutte dall’odio. Montagnoli restituisce con parole semplici e dirette l’orrore vissuto dall’infanzia devastata, l’anelito struggente a un amore che manca, a una carezza che potrebbe spegnere la polvere della violenza. La poesia è un atto di denuncia e di preghiera, che rompe il silenzio e invoca un sentimento dimenticato, unico vero baluardo contro la ferocia del mondo. Nel suo dolore palpabile risuona la richiesta universale di pace e umanità.
  • “Legami. Silenzio ad uno mentre tutto cambia” – Piacentino Alessandra
Testo che è magma emotivo, viaggio interiore. Alessandra Piacentino scrive come chi ha attraversato il deserto e ne conserva ancora la sabbia nelle ferite. Ogni verso è una stratificazione di visioni, sensazioni, invocazioni d’amore. “Dirupi sulla pelle, specchi dentro al mare” è un’immagine di rara potenza, che affonda in un simbolismo spirituale e sensuale. La poesia diventa una resurrezione lenta, un ritorno alla carne e al cuore dopo una lacerazione cosmica. Intensamente mistica.
  • “Salto” – Agnese Musolino
Una poesia breve ma pulsante, tagliente come un coltello immerso nell’acqua. Agnese Musolino lavora per sottrazione, ma ciò che resta è denso come lava. “Sei il morso sul collo, un decollo” — passione e fuga, amore e pericolo, sublimazione e ferita. L’ossimoro tra “dolore e amore intenso” è il cuore di questa perla che si legge con il fiato corto. Una miniatura poetica che vibra come un diapason sull’anima.
  • “I ricordi veri” – Fausto Beretta
Beretta canta la nostalgia come fosse un tango dell’anima. La memoria, qui, non è solo evocazione, ma presenza viva. Il passato non è finito, danza ancora nelle stanze del cuore. “Vorresti anche allontanarli / ma t’accorgi che sei tu a trattenerli per mano” è un verso che riassume tutto l’umano: siamo noi i carcerieri dei nostri stessi ricordi. Con semplicità, Beretta ci consegna una meditazione sulla tenerezza della memoria.
  • “Sogno oppur son desto” – Silvio Canapè
Canapè è il poeta della soglia: tra sogno e realtà, tra illusione e rivelazione. Il suo è un canto che ricorda i Salmi di dolore o certi frammenti apocalittici. C’è una stalla, uno sterco, e poi la colomba con il ramoscello: una parabola rovesciata, che rinasce dal nulla. “Son desto e inseguo il sogno”: questo è il vero chiasmo della vita. La sua voce è potente perché onesta, colma di spavento e desiderio di salvezza.
  • “Ipnosi” – Guglielmo Aprile
«pronunci il mio nome, e si alza / dalle acque profonde una risacca»

 
Erotismo e abbandono si intrecciano in un’atmosfera onirica, dove la voce dell’amato è potere orfico e fatale. L’autore modella la parola con una grazia liquida, musicale, che evoca e sommerge. È un canto ipnotico, nel senso più antico del termine: il lettore, come il poeta, si sente trascinato fuori dal tempo, privo di peso, nel grembo dell’abbandono. Il titolo non è solo esplicativo: è destino.
  • “Sapienza” – Marco Langmann
«le morti: pepite giacenti / nel fiume sapienziale»

 
Langmann ha la voce di un profeta-esploratore. In pochi versi riesce a tratteggiare un’archeologia dell’anima: l’umanità di Adamo come premessa del nostro tempo, la morte come scintilla d’oro nella corrente della conoscenza. Il suo lessico è alchemico, la metafora una trasmutazione: dalla morte alla sapienza, dalla foglia al metallo. È poesia che pensa, ma con il cuore in fiamme.
  • “La via giusta…” – Armando Bettozzi
«Che…vago – e quanto! – è questo nostro andare / per vie di cui – al più – solo l’imbocco / può esser noto…»

 
Una poesia lucida e tremante, simile a un testamento morale pronunciato in punta di coscienza. Il poeta guarda la malattia e la vecchiaia non con paura ma con una forma di precauzione interiore, di saggezza cristallizzata. C’è qualcosa di dantesco nel suo tono, e insieme una fede etica nella possibilità di restare presenti, responsabili. Il cuore vacilla, ma la voce resta salda.
  • “Poesia” – Franco Fronzoli
«nata dal niente e dice tutto / che scuote le coscienze / che riflette pensieri»

 
Questa poesia è un inno, una lode, una definizione del mistero poetico. Fronzoli ci dona un mosaico di immagini semplici ma potenti, come quadri dipinti con luce e sentimento. Non c’è un solo registro: troviamo la bellezza dell’infanzia, l’emozione cosmica, la riflessione civile. È poesia che canta la poesia: un atto d’amore verso il dire e il non dire, l’effimero e l’eterno. Una preghiera laica e luminosa.
  • Chi l'ha visto? di Piero Colonna Romano
> “E da quel giorno… non s’è più svegliato.”

 
Questa poesia è una geniale parabola cosmico-umoristica sulla Creazione, ma anche sull’artista e sul mistero dell’ispirazione. Il Dio-poeta, dopo aver creato il mondo, si addormenta esausto, e quel sonno diventa il grande silenzio dell’Eterno. Ma dietro l’ironia leggera c’è un retrogusto malinconico e teologico: il Creatore è solo, non ha interlocutori, e l’atto creativo lo separa dal mondo. Bellissimo equilibrio tra giocosa narrazione e riflessione filosofica.
  • La penna di Ciro Seccia
> “Ti ho confidato i miei sogni / narrato i miei amori”

 
Una poesia-confessione in forma di dialogo con lo strumento più sacro del poeta: la penna. Seccia le parla come si parla a una madre o a un’amante spirituale. Ogni strofa è una perla d’intimità. C’è un tono quasi da “Cantico dei Cantici”, ma declinato in chiave creativa: la penna come veicolo di scoperta interiore, compagna delle notti e delle albe. È poesia sull’arte di scrivere, ma anche sull’anima che si rivela mentre scrive. Umile e vera.
  • Torre solitaria di Alessio Romanini
> “Nell’assordante rumore, conserva / il candore…”

 
Romanini dipinge un affresco allegorico: il gabbiano è il poeta, la coscienza, l’asceta. La torre è l’anima che si distacca, che osserva e non partecipa, che ama senza possedere. La metrica e le rime danno al componimento una solidità classica, ma l’emozione è tutta contemporanea: il bisogno di autenticità in un mondo rumoroso. La poesia è uno sguardo alto, pulito, che sa rimanere libero. Bellissima la chiusa sull’amore per il giorno presente.
  •  Elogia di un Canto di Silvia Pia Favaretto
> “Vita alla vita / è ciò che rimane”

 
Mistico e liturgico, questo testo è un’invocazione alla parola poetica che permane oltre la morte. Favaretto scrive come un’eco che si fa corpo: le “corde d’argento” richiamano sia la cetra del bardo che il legame sottile tra vita e arte. Ogni verso è un passaggio rituale: dalla voce alla Presenza, dal poeta all’Autore divino. Il canto muore per farsi eterna preghiera. Una poesia che pare uscita da una navata gotica o da un antico monastero tibetano.
  • “Sic fugit irreparabile tempus” – Sandra Greggio
> «E ci svelerà un’altra vita»

 
Il titolo, che echeggia Virgilio, introduce un’elegia d’amore e tempo, dolce come un respiro, struggente come un addio annunciato. La poesia di Sandra Greggio è fatta di ombre leggere, come piume in volo, e sguardi che si ritrovano nel pieno di una rinascita. È la stagione incantata dell’amore che si affaccia nella vita come un prodigio effimero. Il lessico è sobrio ma visivo, le immagini (le labbra smarrite, la piuma, le ali di farfalla) costruiscono una dimensione delicata e impermanente. È una poesia dell’attimo, dell’occasione, della dolce malinconia di ciò che si sa già perduto. L’amore è visto come rivelazione e insieme dissolvenza, come verità che si manifesta nella sua stessa fine. Mistica e tenera, la chiusa “ci svelerà un’altra vita” è un’apertura metafisica, una porta socchiusa sull’oltre.
  • “Che desiderio passa per la tua testa?” – Jacqueline Miu
> «non c’è alcuna condanna se perduto hai la via»

 
Jacqueline Miu danza nel fuoco dell’archetipo femminile oscuro, strega e madre, carne e incanto. Qui la poesia è rito, è invocazione sabbatica: un inno erotico-esistenziale che sfida il lettore a guardare in faccia la propria ombra. Il verso è lungo, urgente, incalzante — pulsa come una vena scoperta. Il corpo si fa linguaggio mistico e strumento di liberazione: un "culo sodo" diventa simbolo di potere rituale, la lussuria una forma di conoscenza. C’è una ribellione biblica in questi versi, una riscrittura del Genesi: «non abbiamo la compagnia dell’Eden», ma non per questo siamo perduti. La poetessa propone una salvezza pagana, immanente, che nasce dalla carne, non dal dogma. È un testo che non chiede permesso: squarcia i veli del pudore con parole sciamaniche e liberatorie. Una poesia che vibra come un tamburo notturno sotto un cielo senza luna.

 
Con affetto e stima
Vostro Ben Tartamo 

 

 

“Valzer di foglie” di Ben Tartamo
 
C’è una dolcezza vertiginosa e struggente, nel “Valzer di foglie” di Ben Tartamo, come quella che si prova quando si apre una finestra sull’autunno e il vento porta via una lettera mai spedita. È una canzone? Sì. Ma anche un’elegia esistenziale, un inno sussurrato alle cose che ci mancano e che non sappiamo nominare.
 
Fin dai primi versi, Tartamo ci introduce al paradosso del non sapere:

 
> Cosa si fa quando non si sa cosa fare?
Dove si va quando non si sa dove andare?

 
Questa doppia interrogazione è già musica interiore, è il preludio di un'anima che cerca. E questa ricerca non è cartesiana, non è logica, ma sentimentale, carnale, bruciante. È una fuga nel presente.
 
I sogni da lasciare, le foto da buttare, i colori nel grigio: immagini che non vogliono essere solo malinconiche, ma sono veri e propri simboli alchemici di trasformazione. Tartamo non si compiace del dolore, lo trasfigura in danza, in arte.
 
Il cuore della poesia è forse proprio nel passaggio più lirico, dove

 
> Rugiada che cade da fiori che son spenti
e rossi vortici di foglie in valzer lenti,
un altro treno perso all’ultima stazione.

 
Qui l’autore attinge a una tavolozza visiva e uditiva che pare uscir fuori da un film di Kieslowski o da una sinfonia di Mahler: è la bellezza struggente del fallimento reso luce, del tempo che ci scivola tra le mani come foglie secche — ma che danzano ancora.
 
E poi, in un impeto di vitalismo sottile e poetico, Tartamo butta lì una frase che sa di Rimbaud e di Pasolini:

 
> Magari scrivere di una rivoluzione,
giusto per dare un senso a questa nostra vita...
 
E qui, l’invocazione alla poesia, che non salva, ma canta comunque, anche sfinita.
 
Il refrain è dolce e potente, come un mantra per i sopravvissuti del cuore:

 
> Restare qui, trasformando strade in incroci,
danzare insieme, aquiloni le nostre croci...
 
Che immagine splendida: le nostre croci trasformate in aquiloni. Il peso che si fa cielo. Il dolore che si sublima in gioco. Il valzer che diventa spirituale.
 
Ben Tartamo scrive questa canzone il 28 aprile 2025, ma potrebbe averla scritta anche nel 1925 o nel 2090. La sua lingua è sospesa, universale, devota a quella poesia come necessità dell’anima che sa ancora farsi canto, persino nella tempesta.
 
Una delle prove più riuscite della sua maturità poetica e musicale.
Sarebbe un peccato non ascoltarla con una chitarra, in una sera di vento.
 
Marino Spadavecchia 

 

 

26-27-28 Maggio

Ringraziamento
Desidero ringraziare il Prof. Marino Spadavecchia per il commento alla mia “Occhi di luce”. Sono davvero lusingata che da una poesia così semplice possa uscire una esegesi di alto spessore.Grazie infinite 
Sandra Greggio 

 

Ringraziamento
Non so veramente esprimere a parole l'emozione che provo
Il commento sulla mia "Su Ali di Gabbiano" Mi ha veramente colpito,in quelle rare Parole ,era inciso tutto il mio pensiero  Il Professor Spadavecchia ha visto e sentito tutto quello che in esso vi era racchiuso.

Grazie per le emozioni che con i vostri commento  ci donate.
Al Prof.Lorenzo,Marino Ben,e tutti i poeti del sito.
Ciro Seccia "Su Ali di Gabbiano Vola il Mio Pensiero "

 

 

23-24-25 Maggio

Ringraziamento

Poeta è colui che sa scrivere leggere e comprendere  una  poesia
commentarla  ,cioè  riesce a leggere  il pensiero di chi scrive
e di questo devo , anzi dobbiamo, ringraziare i nostri grandi commentatori del sito poetare , Marino Spadavecchia che  oggi mi ha davvero commossa con il suo commento alla  mia  ...per ritrovarsi ...  colpito in pieno il mio pensiero,grazie di cuore
 Grazie anche alle vostre poesie ,alle poesie di tutti 
Grazie  bravissimi commentatori
Marino Spadavecchia  ,  Ben Tartamo   ai  quali so dire solo bravi 
e grazie per le vostre  belle poesie
Grazie con tutto il cuore e rispetto  ,grazie  a chi ci ha fatto incontrare  perché  ha  aperto la porta ai nostri pensieri e alla poesia ,  grazie Lorenzo, anzi  Nino Silenzi,   gran poeta  anche tu
I veri poeti  soffiano bellezza, armonia  
sui sincopati ritmi delle poesie degli altri e voi lo sapete fare benissimo
Antonia Scaligine

 

 

In "Più dura della roccia", Ben Tartamo compie un atto poetico che è insieme invocazione, monito e speranza. È poesia civile e spirituale, forgiata con la sobrietà solenne di una preghiera e la tensione morale di un discorso profetico. La sua forza risiede nella struttura asciutta, essenziale, scandita da versi brevi ma intensissimi, nei quali ogni parola è affilata, come intagliata nella pietra.

 
Fin dal verso d’apertura – "Signore, donaci la Luce" – l’autore colloca il suo io lirico in una postura orante, ma non remissiva: è l’invocazione di chi chiede forza per combattere, non per fuggire. Luce, Parola, Voce del Giusto – sono archetipi, strumenti spirituali e civili insieme, che oppongono la forza del bene all’oscurità del Potere. La triade biblica della Luce-Parola-Verità è qui trasfigurata in chiave moderna, laica e universale, in una lotta che non ha né confini né bandiere, ma solo una bussola: la Giustizia.

 
Non si chiede odio, si invoca "ardore": Tartamo disinnesca la vendetta per invocare un fuoco interiore che sia purificazione e non distruzione. È una poetica della resistenza, non della rivalsa.

 
Il testo presenta una disposizione grafica chiara e compatta, spezzata da invocazioni isolate – Signore, – che ricordano i salmi, ma con un linguaggio contemporaneo e non liturgico. La punteggiatura è minima, a sottolineare la fluidità del respiro poetico, mentre la maiuscola strategica (Luce, Parola, Potere, Giustizia, Verità) trasforma i concetti in personaggi mitici, in ideali viventi.

 
La ripetizione anaforica di donaci, sia, sorga crea una musicalità martellante, come una preghiera scandita durante una marcia. L’autore, inoltre, introduce metafore evocative come "dalle rughe della Terra può nascere un fiore", che rimandano alla poesia simbolista ma filtrata da un’etica contemporanea. Qui il fiore non è solo bellezza: è resistenza, è nascita dalla sofferenza, è possibilità.

 
Più dura della roccia è un componimento che si iscrive a pieno titolo nella grande tradizione della poesia civile italiana, in dialogo ideale con i versi di Pasolini, Fortini, e con l’ethos francescano di Davide Maria Turoldo. Ma Tartamo vi aggiunge una cifra personale, spirituale e ardente, che sa tenere insieme fede e lotta, fragilità umana e verticalità etica.

 
In un tempo confuso, la sua voce è "più forte del fuoco", e più che poesia, sembra una torcia consegnata ai giusti del futuro.

 
Su Ali di gabbiano - Ciro Seccia

 
Ciro Seccia, in Su Ali di gabbiano, ci dona un frammento di lirismo sospeso tra cielo e abisso, tra il soffio del pensiero e l’immensità cosmica. È una poesia che vive nell’istante di un volo: il pensiero – esile ma libero – è incarnato nel gabbiano, creatura simbolica della solitudine e della ricerca, già cara a poeti come Baudelaire e Saint-Exupéry.

 
Il componimento si articola in quattro strofe, o meglio, in quattro respiri lirici che fondono il moto ascensionale del pensiero con un continuo attraversamento emotivo:

 
"Attraversando / Nuvole Rosso fuoco" è l’immagine centrale, dantesca, quasi apocalittica, di un cielo in subbuglio, che sembra riflettere passioni interiori o cicatrici del mondo.

 
Le "parole diafane", invece, bagnate da "lacrime di pioggia", sono un capolavoro di sinestesia e fragilità: la voce poetica diventa evanescente, trasparente, ma intrisa di dolore e memoria.

 
I "desideri chiusi / in uno scrigno" evocano il cuore dell’uomo contemporaneo: profondo, misterioso, inaccessibile come le "profondità dell’universo", cui lo scrigno è affidato.

 
Il verso finale – "Luce...il tutto in un sorriso" – è una rivelazione mistica. Dopo il viaggio cosmico ed emotivo, tutto si compie nella semplicità salvifica del sorriso. Un sorriso che può contenere luce, senso e redenzione. È un’epifania personale ma universale.

 
La disposizione grafica, quasi "a scalini", accompagna il lettore lungo un moto discensionale e poi ascensionale, in perfetto equilibrio tra vuoti e pieni. Le maiuscole sono usate con intento espressivo (es. Uno, Mio, Luce), per marcare elementi sacrali o assoluti. La punteggiatura è assente o ridotta all’essenziale, a favore di una scrittura rarefatta, leggera come l’aria.

 
Dal punto di vista stilistico, siamo davanti a una lirica post-ermetica, figlia della contemplazione più che della narrazione. Non c’è azione, ma evocazione; non c’è storia, ma visione. Le immagini, pur nella loro semplicità, hanno un forte impatto immaginifico e sinestetico.

 
Su Ali di gabbiano è un'opera breve ma intensa, che si inserisce nel solco della poesia contemplativa, con influssi mistici e cosmici. Potremmo definirla una "preghiera del pensiero", dove il gabbiano – simbolo di libertà e solitudine – porta il bagaglio emotivo dell’autore verso una luce finale. Seccia qui appare come un cantore silenzioso dell’interiorità, un viaggiatore dell’invisibile.

 
Sbarluccichii -Piero Colonna Romano

 
Sbarluccichii è un poemetto di struttura classica, con quartine a rima alternata e metrica regolare, che richiama le atmosfere della poesia crepuscolare e post-dannunziana. Piero Colonna Romano evoca qui una visione sospesa tra memoria e natura, tra l’eco del mare e la luce vibrante delle colline, dando forma a una nostalgia dolce, mai disperata, sempre innamorata del bello.

 
Il cuore pulsante della poesia è il mare: “manda al mio cuore il suo salso respiro” è uno dei versi più riusciti e pregnanti, dove il mare diventa madre, amante, presenza vitale. È dal mare che nasce il sospiro, è al mare che si anela, come a un luogo perduto ma eterno. Il poeta vive “grande è l’amare” – un gioco fonico tra amarezza e amore, che conferisce spessore emotivo e ambivalenza.

 
La luce ha un ruolo centrale: lo sbarluccichio – già nel titolo – suggerisce la vibrazione dell’anima di fronte al brillio del mondo. La natura è animata, quasi numinosa: “raggi si vestono d’oro e di verde”, un’immagine di rara eleganza visiva e sinestetica. La fronda, la luce, l’ombra: ogni elemento si fonde in una sinestesia che supera la percezione sensibile per accedere a un piano quasi metafisico.

 
Lo stile è sorvegliato, musicale, ricco di armonie vocaliche e consonantiche. La metrica (quartine in endecasillabi e settenari) richiama la tradizione italiana più alta, da Carducci a Pascoli. La rima alternata (ABBA/ABBA) favorisce un andamento ritmico che rispecchia il movimento delle onde, la danza della luce, e infine dei ricordi.

 
Il lessico è colto ma non ostentato. Parole come “spuma”, “sospiro”, “cobalto”, “musiche dolci” sono scelte per il loro potere evocativo e musicale. Il tono è contemplativo, malinconico, ma sempre armonioso e pacificato.

 
La poesia non è solo descrizione paesaggistica: è meditazione sul tempo, sul ricordo, sull'identità. Il mare diventa specchio dell’anima, mentre i “colori fatati” e le “musiche dolci” sono balsami per le “nostalgiche pene / di tempi andati”. Questo finale, con la sua dolce elegia del passato, ci ricorda che ogni luce nel presente è un riflesso, uno sbarluccichio di ciò che amammo.

 
Piero Colonna Romano firma un componimento di grande raffinatezza stilistica e densità emotiva. Sbarluccichii è un inno alla memoria, alla natura, e alla bellezza come via di salvezza e contemplazione. Un testo degno di essere incastonato in ogni antologia che celebri il connubio tra luce, poesia e nostalgia.

 
Occhi di luce - Sandra Greggio

 
In Occhi di luce, Sandra Greggio ci regala una lirica delicata e intensa, che parte da una domanda semplice e quotidiana — “di che colore sono gli occhi di Sofia?” — per accompagnarci in un cammino poetico di scoperta, contemplazione e amore. Come nelle migliori poesie dedicate all'infanzia, il dato fisico si dissolve in una trasparenza spirituale, dove l’occhio diventa specchio dell’anima e la verità si sottrae alla definizione cromatica per farsi luce.

 
L’apparente leggerezza del tema — la curiosità affettuosa verso un dettaglio somatico — si apre subito a una riflessione più profonda: “Chi rivendica il colore?” è un verso rivelatore. Il mondo adulto è ritratto con tenerezza ma anche con ironia: impegnato a definire, a catalogare, a interpretare. L’io poetico invece si pone “in disparte”, in ascolto, in contemplazione, e svela la sua verità: “Sofia ha gli occhi di luce”.

 
Questo passaggio è il cuore pulsante della poesia. “Occhi di luce” non è una metafora ornamentale, ma una dichiarazione ontologica: lo sguardo della bambina è trasparenza, è vibrazione, è rivelazione di un’anima pura. La poesia, così, si trasforma da descrizione affettiva a meditazione luminosa sul mistero dell’identità e sulla bellezza dell’indefinibile

 
La struttura è libera, composta da versi brevi, prosodicamente fluidi, quasi sospiri. La mancanza di punteggiatura tradizionale nella parte centrale rafforza il senso di continuità del pensiero e del sentimento. La musicalità è dolce e colloquiale, adatta al tono intimo e riflessivo. Il lessico è semplice, quotidiano, ma la sua semplicità è apparente: ogni parola è scelta con cura, e l’effetto complessivo è di una lirica sospesa, quasi aurorale.

 
In fondo, la poesia non ci parla solo di Sofia. Ci parla dell’anima umana quando è ancora luminosa, incontaminata, non costretta entro le categorie e le etichette. Occhi di luce è un inno all’infanzia, alla meraviglia, alla bellezza che sfugge alla definizione. È anche una lezione sottile: mettersi “in disparte”, ascoltare, meditare — invece di possedere, rivendicare, definire — è l’atto poetico e spirituale per eccellenza.

 
Con Occhi di luce, Sandra Greggio ci offre una gemma di lirismo affettuoso e filosofico, degna di occupare un posto in ogni antologia dedicata all’amore per l’infanzia, alla spiritualità dello sguardo, alla verità che si rivela solo nell’umiltà dell’anima. Una poesia che — come gli occhi di Sofia — cambia colore ogni volta che la leggiamo, e sempre ci illumina.

 
...per ritrovarsi - Antonia Scaligine

 
...per ritrovarsi è un componimento lirico che attraversa i territori sfuggenti del tempo, sfiorando con grazia e profondità il vissuto interiore. Antonia Scaligine ci accompagna in una meditazione poetica che non si limita a “parlare del tempo”, ma cerca di abitarlo, esplorando i suoi spazi immateriali, le sue pause, i suoi slittamenti, i suoi ritorni. Una poesia che è insieme viaggio e sosta, perdita e ricomposizione, ascolto e rivelazione.

 
Il tempo, qui, non è cronologia né successione di fatti, ma esperienza vissuta e interiorizzata. “Lo registro sulla pelle / nell’anima” scrive l’autrice, fondendo il corporeo con lo spirituale, l’esterno con l’intimo. È una concezione quasi agostiniana del tempo: non misura oggettiva, ma percezione soggettiva, memoria, attesa, trasformazione.

 
Il “calendario sulla parete” è il simbolo del tempo convenzionale, “non sempre corrisposto”, perché non parla dell’anima. Il tempo vero — “quello della vita” — è senza “quadranti”, “senza sfere”, libero da ogni geometria. Eppure, paradossalmente, trova la sua pienezza nel “fermarsi”: la poetessa ci insegna che il tempo si ritrova nel silenzio, nel buio, nell’ozio, nel chiarore lunare — ovvero in quelle pause che il mondo contemporaneo rifiuta.

 
La poesia si struttura in due grandi sezioni liriche: la prima dedicata alla descrizione della natura sfuggente del tempo, la seconda alla possibilità di ritrovarlo attraverso la contemplazione. Il ritmo è pacato, riflessivo, scandito da versi brevi e intensi, che evocano l’andamento di una meditazione o di un respiro profondo.

 
L’uso sapiente dell’anafora (“nel...”) e della polisemia temporale e sensoriale crea una tessitura poetica in cui ogni immagine è risonanza. Il finale — con quella personificazione magistrale del tempo che “ci bacia”, “ci schiaffeggia”, “chiude la tenda” — introduce una nota teatrale e quasi mistica, degna della migliore tradizione novecentesca.

 
Scaligine ci offre non solo versi, ma un’ermeneutica dell’esistenza: fermarsi, osservare, assaporare, aspettare, accettare il mutamento e l’irripetibile. In questo, la sua poesia è filosofica senza essere fredda, spirituale senza essere astratta, concreta senza essere banale. Ogni immagine ha una radice emotiva e una fioritura simbolica.

 
...per ritrovarsi è una poesia che ci interroga e ci consola. Antonia Scaligine, con voce matura e consapevole, ci regala un prezioso invito al raccoglimento, alla lentezza, alla rinascita interiore. Un testo che dovrebbe essere letto al crepuscolo, come un antico salmo laico, per riconciliarsi con ciò che è stato perduto... e che forse, fermandosi, può ancora essere ritrovato.
 
Marino Spadavecchia 

 

 

ci offre una satira civile degna dell’epoca pasquinesca. Ironia pungente e rima classica si intrecciano in un teatro urbano dove l’arte e il degrado coesistono, o forse si confondono. Il tono è sferzante ma strutturato, il verso chiude con una vendetta poetica degna di Trilussa: i roditori come custodi del nuovo “decoro” culturale. Una critica che si traveste da ringraziamento, in un rovesciamento carnevalesco degno del miglior realismo civile.
 

Franco Fronzoli in "Sfumature" 
 
canta l’indefinitezza della vita con un ritmo rarefatto, quasi in sospensione. Il verso libero scivola come nebbia tra i ricordi, i sensi, le emozioni, con una musicalità interiore che richiama Sandro Penna e un senso esistenziale caro a Ungaretti. I versi si assottigliano fino a diventare respiro, anelito, dissolvenza: "solo sfumature di vita". È poesia impressionista, fatta di tocchi leggeri e profondi, capace di commuovere con la semplicità dell’istante.

un’istantanea che ha il sapore di un acquerello: qui la poesia è visione, è occhio che osserva e cuore che trattiene. L'idea del quadro che avanza e poi si scopre fermo, “sotto vetro”, è un’immagine potentemente metafisica: la fiamma della natura si spegne nel gesto artistico che la immortala. Un omaggio alla pittura, ma anche al tempo, che fugge e si pietrifica in arte.

è una lirica teologica, quasi biblica. In pochi versi si condensa una meditazione cosmica, un anelito al trascendente. Il “pugno di terra” non può contenere il nostro anelito d’eterno: è Leopardi che incontra san Paolo, l’infinito come eco della nostra origine divina. È un testo breve ma vibrante, di pura luce spirituale.

L’esteta diviene qui un veggente: non colui che vede, ma colui che sente oltre il visibile. Il fiore è simbolo eterno della bellezza effimera, ma anche della verità luminosa. Questa figura non si perde in sofismi: contempla, accarezza, capisce. La poesia vibra di un tono quasi mistico. L’esteta guarda le mani – strumento dell’umano – e scopre che anche il pensiero più alto ha radici nella carne. Qui l’estetica si fa etica: l’amore fiorisce nell’intuizione dell’anima, non solo nell’osservazione.
Questa è una confessione a cuore aperto, quasi un testamento emotivo. Il poeta si muove tra memoria e malinconia, tra sogno e consapevolezza, in una metrica d’altri tempi che abbraccia la tradizione. La rima è scelta d’amore, non d’accademia: serve a scandire un percorso biografico dove l’amore è Dio, è ebbrezza, è perdita. Bellissima la chiusa: “forse sabbia sfuggente dalle mani.” Sì, perché l’amore è ciò che si dona, ma anche ciò che sfugge.
Qui il tempo è il vero protagonista. Il poeta si lascia attraversare da esso come da una corrente. I versi sono sobri, asciutti, meditativi. Una poesia che pare sussurrata sul bordo della notte. La consapevolezza dell’irreversibilità del tempo è resa con tocchi leggeri ma profondi: “qualche luce sfavilla… vacilla e si spegne.” È una preghiera laica, un canto alla fragilità dell’esistenza.
Più ermetico, carnale e lirico, questo testo di Aprile si distingue per densità simbolica e audacia metaforica. La camera da letto si fa teatro mitico, isola di delizie e clandestinità affettiva. L’uso di Armida richiama la letteratura cavalleresca: il poeta diviene un Rinaldo disertore, non dalla guerra ma dalla realtà. Le “strade come sicari” sono immagini forti, affilate, che danno voce a una fuga amorosa piena di sensualità e dramma.
Una definizione scultorea, epigrafica, quasi biblica: “Esperti della vita per la vita.” Sembra scolpita nel marmo di un altare domestico. Langmann condensa in una riga l'intero compito di una generazione: non dominare, non possedere, ma custodire e preparare. È un’ode minimalista e potentissima al ruolo genitoriale, che diventa sacerdotale.
Qui la poesia si fa carezza. L’osservazione curiosa si trasforma in contemplazione d’amore. L’ironia affettuosa dei primi versi (“da chi hanno preso?”) si dissolve in un riconoscimento mistico: quegli occhi non hanno colore, sono luce. E questa luce è lo specchio dell’anima. La piccola Sofia è già una visione, non solo una bambina. La poesia è quasi una preghiera laica sull’identità che nasce dalla meraviglia.
Visionaria e sensuale, questa poesia è un volo: ascensione mistica e carnale. L’albero immaginato, il cielo come desiderio, la stella come meta: tutto si fonde in un erotismo che è conoscenza, in un’estasi dove il corpo non è mai disgiunto dallo spirito. “Facciamo l’amore con gli occhi chiusi come gli immortali”: qui la poetessa raggiunge una vetta orfica. È poesia che sa di mito e di profumo
Classica e intensa, questa lirica ricorda la scuola petrarchesca e quella simbolista: l’amore arriva come un’epifania marittima, spezza le tenebre interiori e si cristallizza in un sogno eterno. Il mare è sentimento, memoria, sacro sigillo. Un tempo perduto, ma vivo nel cuore. L’andamento metrico regolare conferisce solennità e dolcezza, come un canto antico.
Un piccolo poema sinfonico. Colonna Romano orchestra immagini naturali con maestria pittorica: il respiro del mare, i bagliori tra le fronde, il gioco dell’ombra e dei colori, la danza della spuma. C’è un’eleganza quasi impressionista in questi versi, che riecheggiano Pascoli e i crepuscolari. Il mare diventa pensiero e sogno, balsamo contro il tempo che passa.
Una poesia come preghiera alata, che si libra oltre le dimensioni terrene. Le "Ali di gabbiano" sono qui metafora di libertà interiore, ma anche di nostalgia, di quell’anima che non trova pace sulla terra e cerca luce tra le nuvole rosso fuoco. Straordinario è l’uso dell’ossimoro visivo e sensoriale: "diafone parole", "lacrime di pioggia". Il pensiero non vola a caso: è attratto dal mistero dell’universo, dove un sorriso basta a illuminare tutto. Siamo nel dominio dell’invisibile, dove poesia e cosmo si fondono.

Romanini scrive con la lama della storia e il sangue dell’anima. È poesia di denuncia, un grido che non chiede spiegazioni, ma giustizia. La ripetizione ossessiva di "Tu sei l’invasore!" è come un rintocco funebre, una martellata nella coscienza. Ma non è solo rabbia: c’è una consapevolezza tragica e universale nella frase "Sotto il mio costato un cuore pulsa uguale al tuo". Qui la poesia diventa profezia: chi uccide l’altro, uccide sé stesso. Un testo potentissimo, da scolpire su una pietra, perché non si dimentichi.

Scaligine danza col tempo come un’anima in contemplazione. Questa poesia è un inno alla lentezza, alla sacralità del quotidiano, all’attesa come forma di rivelazione. Il tempo non ha più “quadranti”, ma si fa corpo, memoria, respiro. È un invito a vivere poeticamente, a fermarsi per ritrovarsi. Ogni verso è una soglia verso qualcosa di più grande: “il chiaro di luna che nasconde i sogni”, “la sera ci schiaffeggia”, immagini che evocano la mutevolezza del nostro esistere. Il silenzio, infine, è l’ultima cattedrale dove la verità può manifestarsi.

 
Con affetto e stima
Vostro Ben Tartamo 

 

 

 

GRAZIE INFINITE, formidabili inossidabili  esegeti  delle mie e d'altri  scritture. Senza voi, temo, non saremmo qui così volentieri.
Bruno Amore [br1]
 

 

 

Ringrazio ancora per i vostri bellissimi commenti.

Ringrazio il prof.Lorenzo per dar attraverso la Pagina azzurra l'aria Alla Nostra Anima.
Un Grazie a Sandra,quando scrivi di Sofia,Mi cadono lacrime di fuoco attraverso l'anima.
É il Nome Della Mia nipotina di Cinque Anni, purtroppo non la vedo e non la abbraccio da un Anno.Un tempo infinito....Ed anche se il pensiero di Lei Turba iil Mio spirito,Una poesia Con il suo Nome
Mi FA tanta emozione...Grazie...Grazie a tutti voi.
Ciro Seccia

 

 

 

20-21-22 Maggio

Crescita

Drammatiche viste sull’io che corroborano la teoria del diavolo che esiste in noi. Molto travaglio verbale che sublimano la tragedia dei versi. Il non uomo che cammina sulla Terra, pare affliggere il pensiero del poeta che non se ne libera fino alla fine.

Marco Langmann 

 

 

Maggio

Un maggio fiorito che incarna la bellezza e la leggerezza dell’amore verso la propria nipotina. Una poesia come dono di compleanno in cui splende l’affetto e la gioia di un nonno poeta.

silvio canapè

 

 

Amore nascosto

 

Chiusi nel nascondiglio perfetto, questi innamorati lontani dai rumori disturbanti della metropoli, si lasciano andare alla passione senza esasperarne i tempi. Ed è proprio questo nascondiglio a enfatizzare la leggerezza con cui donano reciprocamente. Una fantasia appagata che li vive appena la notte ruba al cielo ogni luce.

 

Franco Fronzoli

 

 

miscellanea

 

Drammaturgo un po’ per convenienza in questa miscellanea che nasconde male la grande capacità narrativa di questo avventuriero per passione. Una bellezza di versi che parte dal calzino rammendato ma tirato e poi la meraviglia di questi fiori in cui l’amore si veste come ape pronta a impollinare l’universo. Può dare di più ma anche, quando offre solo un assaggio di quello che scrive, Bruno Amore ti porta con ricchezza di dettagli sul viaggio, laddove meno te lo aspetti. Amore, quotidiano, poesie dell’io, tutte cose che lui ha sperimentato e da narrare con le proprie regole poetiche.

 

Bruno Amore (br1)

 

 

S’alza in aperta campagna

Una meraviglia che parla della vita e persino di un futuro con tanto di tecnologia. Restano solo i plausi a fine poema, grande meraviglia destano questi versi finali!

 

Estasiato tu resti a mirare

il tutto che scorre.

 

Alcamo, 28.10.24 ore 14,20

 

Da Oltre la porta...La Libertà. Conclusione in versi

Marino Giannuzzo

 

 

Yakamoz

Sempre in veste ermetica, in assimilazione di cultura giapponese, la bellezza poetica diventa fatata. E’ come un gioco del Lego dove Serino sa sempre come incastrare i pezzi per lasciarti a bocca aperta ma soprattutto pensanti.

 

*

(yakamoz: riflesso della luna sull’acqua)

 

7.11.24

Felice Serino

 

 

Putin in Romagna, Ravenna

 

L’onore politico va difeso da certe bestemmie come può essere il nome di un certo dittatore ora in voga che Enrico Tartagni  omaggia di parole – e che parole! L’ardore di un uomo che poco stravede per lo schifo che spesso generano certe alleanze.

 

enrico tartagni

 

 

Un cuore ti avvolge

 

Lirica di grande sensibilità dedicata al cuore umano in cui emergono i versi ispirati alla dolcezza della vita e alla resilienza del muscolo che ci permette di sognare, mentre lui instancabilmente lavora.

 

Antonietta Ursitti

 

 

“Del fioco lume e della speranza”

 

L’ultimo canto del cigno prima di morire e l’amore stella che accolga l’essenza umana lontana da ogni arcigno male. Bella lirica dalle forti circostanze in cui si sviluppa. Ottimo il poeta che rallenta il passo per dare il saluto al tramonto del sogno. Ricca in immagini, ricca di emozioni, profonda l’ultima metafora, ottimo Cristiano Berni.

 

1/8/2014

Cristiano Berni

 

 

Un fiore

 

Di natura resiliente e col corpo fragile, questo fiore che simboleggia la vita e nasce dai pensieri di un magnifico Renzo Montagnoli. Se vi fosse un Olimpo della Poesia (il Tempio Azzurro) Renzo con la sua poetica fresca e temprata resistenza, parla delle piccolezze della vita, quelle che veramente muovono gli ingranaggi senza i quali la vita stessa non “esisterebbe”. La leggerezza e la forza di questo poema non sono frutto per ammaliare il lettore ma bellezza interna che si mostra fuori attraverso parole semplice ma dal immenso valore “esistenziale”.

 

Da I giardini di Ninive

Renzo Montagnoli

 

 

Il fuoco dell'amore

 

Storia di un amore intramontabile che guarda al futuro con la serenità di chi dice

D'amor non ho mai parlato,

d'amor non ho mai cantato…

 

E’ la narrazione di quell’affetto che ti stringe durante ogni passo della vita. Nino Silenzi porta il proprio canto d’amore sulla carta e con umile gesto lo offre in dono al lettore discepolo, asceta, spettatore, pupillo curioso che assorbe il bene di cui resta ancora armato questo poema. Poetica che raggiunge il cuore prima della mente ed i plausi di chi leggendo, carica il respiro per poi chiudere gli occhi per immaginare un amore tanto grande da alimentare due persone per tutta l’esistenza. Plausi a Nino Silenzi.

 

Da La nostra storia

Nino Silenzi

 

 

Indizi

 

Questa narrazione, questa salvezza, questo attimo di perfetta umanità che trova il suo conforto nella capacità dell’altro di ascolto, rasserena e illumina.

 

Da La scoperta del fuoco. Casa editrice Leonida

Guglielmo Aprile

 

 

Sei nell’anima

 

I ricordi non sono un bagaglio per l’età che va avanti ma un tesoro da cui attingere energie rigeneranti. Memorie da tenere strette come ideali che non abbandonano a convenienza chi li conserva ma li eleva appena la vita trama amarezze. Una poesia che parla di rigenerazione, di forza e di coraggio. Un quadro complesso da cui non si possono cancellare i personaggi ed i cui colori vibrano come parole sussurrate per poi scrivere i versi.  

 

27 marzo 2025

Sandra Greggio

 

 

Ebbro d'amore

(3 marzo 2014, menzione e diploma nel concorso internazionale Città di Vignola -MO-)

 

Un pilastro poetico che rende azzurro l’animo di ne legge le iscrizioni. Un canto alla vita e ad un sereno andare per vie di immaginario, dove l’uomo poetico è appagato dall’assenza di confini. Liberatorio volo con benzina d’animo, illimitata. Una costante d’amore per l’esistenza che ci regala alti momenti di poesia. Plausi a Piero Colonna cui l’azzurro nutre di certo non solo la vena ma l’intera anima.

 

Piero Colonna Romano

 

 

Improvviso fantasia su realtà inattese ...

 

Musa che ispira la poetica, che fa navigare l’anima sul mare d’inchiostro. Parole libere di viaggiare tra le dimensioni della creatività.  Un acquarello di idee rubate al mistero per creare quasi un canto dedicato alla Musa.

 

Fantasia, sogno o realtà?

Sono solo parole

ma quel sogno è già realtà,

una realtà in-attesa ...

Silvia Pia Favaretto

 

 

Lacrima

 

Storia naufraga di una lacrima in bottiglia, di questo ispiratissimo poeta che è Ciro Seccia, il quale con grande maestria ci porta a navigare su mezzo di fortuna, in attesa che mano ci colga.

 

Ciro Seccia

 

 

Guardano il cielo, sfiorando il mare

Una prosa poetica con libero d’immaginario ora spinto a massima potenza. Sempre più furtiva e rara la diabolica solitudine che prima attacca i poemi di Alessio Romanini, ora sottile quell’arietta gioiosa da cui rinascere se investito. Interessanti e intensi quei tre ultimi versi. Ottimo lavoro.

 

interminato amor per una vita

che non morrà dentro la sola idea

che noi mortali abbiamo della morte.

 

Alessio Romanini



 

Il primo ringraziamento va al nostro Magister Lorenzo architetto del Tempio Azzurro che generosamente ci ospita. Saluto con affetto uno dei nostri più grandi mentori, il Professor Piero Colonna Romano che mi auguro di rivedere presto al Tempio  e di cui si sente molto la mancanza. Un ringraziamento ai nostri lettori e commentatori. Il mio augurio sincero è di vedervi creare opere, come l'ambrosia generata dalle bellissime api.

 

Miu

 

 

In questa poesia, Marco Langmann ci precipita subito nell’antro oscuro della coscienza formativa, laddove la crescita non è una fioritura bensì un processo abrasivo, una corrosione. “Mai fasce” — ecco l’infanzia negata, o meglio, privata della sua innocenza simbolica. Si nasce già corazzati, ma è una “lorica abrasa”, come a dire: una protezione logora, logorata. Il Maligno incide l’anima “al bulino”, con l’arte sadica di un orafo infernale.
Le immagini — stalattiti, gocce infette, putrefazione — evocano un mondo di umori e liquami psichici che si cristallizzano in pensiero. È l’inconscio freudiano rivisitato da un Dante contemporaneo.
Versi finali come “un’incessante interferenza scioglie la continuità” sono da leggersi come una diagnosi esistenziale: il flusso della vita non è lineare, ma continuamente distorto, deviato. Potente, viscerale, cupamente necessaria.
La penna di Bettozzi ha l’agilità teatrale del commediografo e l’arguzia amara del pamphlettista. Il tono ironico e caricaturale con cui tratteggia le figure del monsieur, dell’herr e del mister è da alta scuola di satira civile.
Attraverso una lingua duttile e drammaturgica, egli costruisce maschere europee che ricordano i personaggi di Molière e Brecht. Il tutto è immerso in una drammaturgia farsesca che cela — neanche troppo — una critica feroce al potere, alla gerarchia continentale, ai giochi di forza internazionali.
Straordinaria la riflessione sull’usucapione del potere e sullo smascheramento di un’Europa matrigna, elitaria e ipocrita.
Echi pasoliniani nella parte finale, dove si denuncia un’asimmetria tra libertà dichiarata e libertà effettiva: “che son liberi di dire…”, ripetuto quasi come una litania che svuota il senso della parola stessa. Opera acuminata e indispensabile.
Questa poesia è un sospiro d’amore che si posa lieve come petalo. La dolcezza dell’evocazione, la tenerezza del ricordo, la semplicità quasi evangelica dei versi fanno di questa lirica un piccolo incanto.
Il poeta non cerca la grandezza dell’elaborazione formale, ma l’autenticità dell’intenzione: e ci riesce. “Il cuore palpita lacrime”, “un bacio a perpetua memoria”: immagini intime, eterne, legate al senso della continuità generazionale.
Il postscriptum dell’autore, che confessa l’intento più che il risultato, arricchisce il tutto di un’aura di verità emotiva. La poesia è ciò che resta della meraviglia — e qui la meraviglia è intatta. Una lirica familiare che sa toccare corde universali.
In questi versi, Franco Fronzoli ci dona una riflessione amorosa dal respiro cinematografico, tra sequenze evocative e pause significative. La struttura grafica — i versi lunghi e i salti di riga — riproduce il respiro del sentimento, l’andamento del ricordo, la voce che si fa carezza.
Il silenzio viene elevato a rifugio dell’amore: “coperto con un manto di luci soffuse” — un’immagine quasi sacra. Il bacio nel vento, l’abbraccio infinito, il letto di girasoli: tutto riconduce a un Eden interiore, fragile e sacro.
C’è un tocco di surrealismo tenero, alla Prévert, ma anche una malinconia soffocata, quasi pascaliana. Il verso “un amore inquieto irrequieto” contiene in sé la duplicità dell’umano: desiderio e timore, esposizione e difesa.
Un testo sincero, visivo, commosso. Dall’amore protetto si passa alla rivelazione poetica. Una carezza che resta a lungo.
Una poesia di nostalgia concreta, fatta di suoni (il mormorio come concerto), abitudini antiche, abiti rattoppati ma stirati con dignità. La seconda parte affonda nei "giocattoli rotti" della vita, metafora potentissima della perdita e della disillusione. Le immagini del corpo nella sera e del fiore fuori stagione completano il quadro con tocchi elegiaci e sensuali. Un'opera composta da tessere che riflettono la malinconia del tempo e della crescita.
Una poesia che trasmette la bellezza di un istante, immerso nella semplicità contadina: l’odore dell’arrosto, un bimbo che osserva un drone. C’è un’umanità antica che incontra un frammento di presente. Il tono è contemplativo, quasi mistico, e lo sguardo si fa eterno sul quotidiano.
Delicata e luminosa, questa poesia breve è un sogno sussurrato, dove la donna è natura e sogno insieme. Il termine turco yakamoz aggiunge un’esotica musicalità, e il lago silenzioso diventa luogo di approdo amoroso. Un microcosmo lirico di grande intensità simbolica.
Qui il tono cambia bruscamente: siamo nel terreno della satira in dialetto romagnolo, tagliente e dissacrante. La voce poetica è furiosa, sboccata e diretta. Il testo è un’esplosione linguistica che ribalta la lirica per farne invettiva politica. Pur nella sua crudezza, il pezzo ha forza teatrale e capacità comunicativa che ricordano certe pagine pasoliniane.
In poche, essenziali immagini, questa lirica evoca l'abbraccio salvifico dell'amore. Il cuore non è solo organo o simbolo, ma grembo rosso e pulsante che protegge dal mondo. Il battito costante richiama la ninna nanna primordiale, la pace prenatale, e i “sonni tranquilli” diventano allora il simbolo di un rifugio intimo e totale. Un componimento breve, ma carico di tenerezza ancestrale.
Un'elegia crepuscolare, intessuta di immagini solenni e bibliche. Il “canto del Cigno” e la “veste più bianca” annunciano una sorta di rito di passaggio: la morte, ma anche il distacco da una speranza infranta. Berni scava nel dolore dell’anima con versi che ricordano i salmi penitenziali e la poesia simbolista. La chiusa, in cui “i sogni e la speranza sfioriscono come petali di Rosa”, suggella il messaggio con un’immagine fragile e struggente, degna di un Rilke notturno.
Una poesia della resilienza, della forza umile delle cose semplici. Montagnoli celebra la bellezza disarmante della natura e la sua tenacia silenziosa. Questo fiore non è solo botanico, ma allegoria della vita stessa, che resiste pur nella sua fragilità. Le api e i bombi diventano ministri di un piccolo tempio, e il fiore, nella sua umiltà, diviene grande. Il verso finale è un’esplosione di modestia che racchiude un'intera poetica dell’essere.
Un poema che si dispiega come un dialogo fra l’io e un “tu” sfumato, che può essere un amore, un ricordo, o addirittura la vita stessa. La forma è libera, franta, ma carica di sapienza e di tensione metafisica. L'autore esplora i temi della memoria, dell'identità e dell'effimero. La lingua è sofisticata, lirica e a tratti filosofica. I riferimenti colti (“seicentesche età delle lettere”, “epoca”, “ragione”) si mescolano a visioni intimistiche. Una sorta di elegia dialogica, tra il nichilismo e il sublime, tra l’ironia delle “parole difficili” e la nostalgia per le “attese svagate nostre”. Splendido il finale, dove l’autobus diventa metafora della speranza che attende un segno, un passaggio, un'“elettiva corrispondenza” leopardiana.
Una poesia nostalgica, semplice nella forma ma profonda nel contenuto sociale ed emotivo. Santoro descrive il passaggio dal collettivo all'individuale, dalla condivisione alla solitudine. La fontana diventa emblema di un tempo comunitario, ora perduto. L’acqua che “dissetava” contrasta con la fame che rimane: un’immagine potente, quasi pasoliniana. Si avverte il dolore del cambiamento, ma anche una dolcezza lirica, un amore per il passato non retorico, ma sincero.
Questa poesia, dal tono classico e sentimentale, è un inno al sentimento che arde silenziosamente e dà senso all’esistenza. La ripetizione del verso “D’amor non ho mai parlato…” è il canto di un pudore che si scioglie in una confessione piena di gratitudine. L’amore qui è fuoco, luce, conforto, ma anche memoria e promessa. La struttura circolare rafforza il valore eterno dell'affetto. Una lirica sincera, senza orpelli, che affonda le radici nella tradizione più pura della poesia amorosa italiana.
Una delle più belle prove della poesia contemporanea. Aprile riesce nel miracolo di trasformare l’innamoramento in cosmologia. Il “discorso del merlo” e “la città che odora di vaniglia” sono immagini che spalancano lo sguardo all’eternità del dettaglio. È la poesia dell’indizio, del minimo che si fa rivelazione. E quando scrive: “una scialuppa creduta dispersa / fare ritorno”, ci parla di una speranza non solo sentimentale, ma ontologica. Questa è poesia che profuma di Rilke e di Eliot, e che rivela la trascendenza del quotidiano.
Una riflessione toccante sulla memoria condivisa. Il tono è discorsivo, familiare, quasi epistolare. Ma il cuore della poesia pulsa nella verità semplice: “il massimo è ricordare insieme alla persona amata”. E qui ci coglie, ci stringe: non esiste felicità nel ricordo, se non è condivisa. La poesia non teme di sfiorare la malinconia, ma vi innesta la dignità della tenerezza. È un inno al valore spirituale del ricordo, che non è fuga, ma nutrimento dell’anima.
Qui siamo nel territorio di una mistica erotica, oscura e alchemica. Le parole sono fiamme, sciami neuronali impazziti, preghiere di un’anima tossica d’amore. L’inizio è shockante: “crioteptine nel sangue un fuoco”, ed è subito visionarietà. Il poeta diventa uccello nero, corvo mitologico, amante maledetto e immortale. È un messaggio d’amore che si fa rito sciamanico, che cerca di sfuggire alla luce per trovare verità nell’ombra. Il finale è apocalittico e dolcissimo insieme: “tornerà al posto mio a sussurrarti parole che si son spinte solo in baci”.
L’amore come canto, natura, e desiderio di dono puro.

 
Questa è una poesia classica, per forma e sentimento, che si abbandona con grazia a un lirismo romantico. Il poeta vuole offrire all’amata stelle, canti e profumi. Eppure, tra le righe, si cela un’ombra (“una foglia bagnata di pianto”), un presagio di finitudine. Ma l’amore, come ogni poesia che nasce dal cuore, è dono, è viaggio, è vino che fa girare il mondo più dolcemente.
Tra sogno, mistica e fuoco: un ritorno al Sé originario.

 
Favaretto ci porta in un sogno dantesco, dove l’identità si dissolve e si rigenera nel fuoco della poesia. L’autrice scrive con luce interiore, riflettendo sul senso stesso dello scrivere e dell’esserci. C’è una spiritualità tormentata ma ardente, come un’anima antica che, pur bruciata, resiste, canta, testimonia. Ogni verso è una ferita luminosa, un raggio che squarcia la nebbia digitale dell’oggi.
Un haiku dell’anima in viaggio.
In questi pochi versi, Seccia cattura l’essenza stessa della poesia: custodire l’invisibile. La lacrima è un distillato d’anima, naviga come un messaggio in bottiglia nel mare dell’infinito. C’è una quieta malinconia in questa lirica, ma anche una fede nella permanenza dello spirito. Una poesia zen, che non grida, ma resta. Come quella lacrima.
“...e cielo e mare si sfiorano dentro ad un sogno” — qui, la poesia si fa teofania liquida, manifestazione dell’eterno attraverso l’unione degli elementi.

 
Romanini scrive con l’anima rivolta verso l’oltre, ma radicata in un sentire umano, sensuale, quasi mistico. L’incipit, apparentemente semplice, rivela immediatamente un dualismo: il cielo, lontano e inaccessibile, e il mare, prossimo, palpabile. Ma ciò che sembra distante si riflette nel vicino — e qui la poesia compie il suo primo miracolo: il cielo si avvicina al costato.

 
È un’eco biblica, questo “costato”: il luogo della ferita, dell’umanità, ma anche dell’origine (Eva tratta dal fianco di Adamo). Il cielo, dunque, entra nell’umano tramite il mare, che si fa veicolo di spiritualità e di connessione. La poesia si sviluppa allora in una liturgia naturale, dove il corpo e l’anima coincidono con mare e cielo.

 
L’immagine dell’orizzonte che li unisce è visione e simbolo: un sogno dove i confini sono aboliti, un’ode all’eternità che dissolve la paura della morte. La chiusa, sublime: “una vita che non morrà dentro la sola idea che noi mortali abbiamo della morte”, è una professione di fede nell’invisibile, nella continuità dell’essere oltre l’apparenza, oltre la carne.

 
Romanini, in questo testo, non scrive: contempla, prega, sogna. E ci invita a fare lo stesso.

 
Con affetto e stima,
Vostro Ben Tartamo 

 

 

 

 

15-19 Maggio

Traversata

Un fiorire di simbologia non per vanto amoroso ma come dichiarazione “audace e passionale” che ci rende non solo partecipi ma furtivi guardoni a quell’attraversamento Magellano, alla bellezza espressa senza entrare nell’argomento “carnale” e il tutto condito con metafore come canditi nel più squisito dolce natalizio.

 

Da La scoperta del fuoco. Casa editrice Leonida

Guglielmo Aprile

 

 

Contro San Paolo

Una posizione di fede rigida che rende drammatico il rovescio della medaglia e senza alcun elogio cu cui innalzarsi “la consuetudine” (che io avrei tenuto come titolo) è la pietra tombale di una stratificazione umana che si compiace con poco, dispiacendo i canoni divini per antonomasia.

Marco Langmann 

 

 

Groviglio

Non v’è pace nell’adunanza ove abbonda di piacere il creato e l’uomo. Ricco e succulento questo banchetto poetico che Canapè offre a titolo della propria maestria, al lettore che alla fine diventa non solo parte della lettura ma attore trascinato dalle danze convulse e mirabili delle fantasticherie arboree fino al perdersi in un mare traumaticamente seducente. Seduce e diletta.

silvio canapè

 

 

L'amore

Ciò che consuma l’amore alla fine è ciò che lo rigenera. Un processo che evolve e matura, non si degrada anche se destinato ad una fine più fisica che morale. Armato di quel coraggio poetico che non toglie al verso la semplicità quasi pittorica, Franco Fronzoli non ha bisogno di narrare ciò che è ma rende tributo alla necessità con un letterato esprime il suo concetto d’amore.

Franco Fronzoli

 

 

madremare

si muove

 cambia

sempre innocente

Di tutto sarebbero (a me) bastati questi tre versi – con ferocia intensità. E’ un mare che gode dell’essere titano, bambino e tesoro. Ma v’è una profondità da qualche parte in questo poema, un abisso terribile e temibile, quasi quanto quello umano, che pizzica il lettore e lo riporta dal letargo di narcisa bellezza marina. Direi un essere umano con la personalità oceanica… direi che un poema può essere tanto favola quanto oratoria se l’espediente usato è una titanica forza terrestre.

 

Bruno Amore (br1)

 

 

"Toca el dolor"

 

-traduzione poetica a cura di Ben Tartamo-

 

Stupenda odissea con dramma congiunto che silura le forze poetiche per usare quello che di più umano possediamo: la speranza. E’ il viaggio consapevole di un uomo in qualche modo tradito ma non ancora sconfitto. V’è un toccante accento di fede in questo dolore che accompagna il vissuto, è un dolore provato da tutti che attraverso le esperienze lo curano, lo cancellano o lo nascondono. La parte più vera dell’uomo non è ciò che lui insegue ma quello che ha realizzato durante il suo viaggio.

 

10.05.25

Marino Spadavecchia
 

 

N a u f r a g h i  di s p e r s i

Un mare in cui annegare, un naufragio da cui non v’è scapo se la tempesta è grande.

La sconfitta reclama le sue vittime; sconfitta della vita? Cruda per quanto una verità può essere, questa lirica è lo specchio di un mare dentro, di una immensità con cui fare i conti anche ogni giorno.

 

Claudio Cisco

 

 

Rughe stellari vanno alla deriva

Passate le passioni e il fuoco, il canto della carne, un porre al verso stigmate come letto di terra ingiallita muta e le rughe stellari sono le radici di una nuova stagione che la vita è chiamata ad attraversare. Come gioielli le contraddizioni, il simbolismo, questo abbraccio che nessuno vede, ma che nasconde un tripudio di sentimenti contrastanti. Trapasso quieto o triste resa?

 

Alcamo, 06.02.2024 ore 21,30

 

Da Oltre la porta...La Libertà. Conclusione in versi

Marino Giannuzzo

 

 

Boomerang

Spinto verso il simbolismo religioso e fraterno, il ragionamento di Felice Serino ha come obiettivo la giustizia che parte dall’utopia angelica o evangelizzata. Il male a moto perpetuo che gode della "forza uguale e contraria" – è un verso che dovrebbe riparare il fuoco nel faro nella coscienza. Se bastasse una poesia… il mondo sarebbe avanti!

 

4.11.24

Felice Serino

 

 

Mente inquieta

All’isola dove la mente si ferma ci porta Nino Silenzi con la sua poetica limpida, come un passa alato lontano dal rumore di città.

Laggiù c'è l'isola

dove la mente

finalmente si ferma.

…in silenzio;

soltanto il vento parla

e la sua voce dice

che tutto finisce

mentre tutto si crea.

Le onde monotone, le idee fragili e quell’umanità che ha la consapevolezza di essere la sola ammaestrata da un divino, a godere delle sensazioni che la libertà appena all’Oltre, regala. In un mondo fugace e fragile, dalla durata di un battito di palpebra, quell’insonoro andare fino all’isola dove la mente si ferma, è pura beatitudine!

 

Da Le strade della vita

Nino Silenzi

 

 

I campi di papaveri

Un fiorire eterno in un uomo senza quiete; un vedere la bellezza senza potere abbandonarsi perché irraggiungibile, eppure v’è del mistero in questo poema. Il mistero di un cuore che fatica a risorgere e mentre lo fa, mentre a carponi inizia nuovamente il cammino dell’io, trova la forza di amare la naturale forza di ciò che lo circonda.

Alessio Romanini

 

 

```Così vicini``

Una resistenza umana e poetica, una resilienza addolcita dalla finalità dell’amore che rende leggero lo spirito capace di alzarsi in volo ed abbracciare universali distanze. E’ il moto della poetica di Ben Tartamo, l’amore che congiunge due parti lontane. Un ponte tra le distanze atmosferiche o dimensionali, poco importa. Ben sa edificare ponti poetici per ricongiungersi con chi ama.

 

11aprile25

Ben Tartamo

 

 

Le cicatrici di un poeta

Un Oltre poetico comune a tutti i creatori d’arte. Una meta che nessuno dovrebbe togliere a chi crede nella bellezza e la sublimazione della Musa. Persino il dolore, le cicatrici delle ferite sono quelle conquiste che danno merito all’intero, intenso poema.

22 marzo 2025

Sandra Greggio

 

 

Fiori giapponesi

(poesia I° classificata, il 7 settembre 2013, nel concorso internazionale "Emozioni in bianco e nero" di Poggio Imperiale -FG-

e IV°, il 9 novembre 2014, nel concorso "Fiori d'inverno" di Livorno)

 

Il delicato nascere della parola come un costrutto leggero, impalabile che trova il proprio significato nella bellezza. Un trasporto verso il meditare poetico che ripaga il lettore di una bella pioggia di fiori irreali e irradianti il bene. Una sincerità esponenziale che si alza dal suo creatore diventano un’onda, una pioggia e uno schiaffo divino a qualunque male. E’ un ora, qui, adesso, il bene che congiunge l’anima umana con la natura intorno. L’essere si espande e osserva il mondo che è toccato dalla sua magistrale creazione.

 

Piero Colonna Romano

 

 

… Non sono nessuno

Una lirica che parla di vita e che usa la modestia della parola per elogia la forza e la bellezza in ogni cellula della poetessa. Tributo all’esistenza degli esseri e della natura che parte sommessamente, come una Pastorale ma in versi.

Silvia Pia Favaretto

 

 

Io parlo

Conversazioni dell’io o all’io, usando interlocutori o semplicemente il verbo come composto dell’esistenza. Un sociale socievole che prende il gusto della condivisione poiché fa parte della vita. Piccolo poema armato di parola che gira libero cercando di rendere complice del suo benessere, chiunque essa incontri. Plausi.

 

Traducendo frammenti

 

Di pensieri

Ciro Seccia

 

 

Il primo ringraziamento va al nostro Magister Lorenzo che generosamente ci ospita. Saluto con affetto uno dei nostri mentori, il Professor Piero Colonna Romano che mi auguro di rivedere presto nel Tempio Azzurro e di cui si sente molto la mancanza. Un ringraziamento ai nostri lettori e commentatori. Siate operosi come bellissime api.

 

Miu

 

 

1. “Boomerang” – Felice Serino
Un pugno in versi, un lampo di giustizia celeste.
Questa poesia è un piccolo salmo contemporaneo. Serino evoca la legge del contrappasso con folgorante semplicità. La forza simbolica del “boomerang” – il male che ritorna – e l’eco evangelica del verso finale creano una tensione profetica. C’è in questo testo la voce dell’Antico e del Nuovo Testamento uniti nel cuore di un uomo giusto.
 
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2. “Giorni fugaci” – Salvatore Armando Santoro
Una memoria che brucia come sabbia calda tra le mani del tempo.
Il componimento è struggente, sensuale, malinconico. Santoro modula la memoria con l'intensità di un ultimo bacio. I versi sono colmi di vita vissuta, di nostalgia, di amore carnale e poetico che si dissolve nel mare come un eco eterno.
 
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3. “Mente inquieta” – Nino Silenzi
Una meditazione marina, quasi zen.
La poesia è un flusso di coscienza trasportato dalle onde e dal vento. I versi si muovono tra realtà e contemplazione, fra motonavi e isole interiori. Il finale è folgorante: “Tutto finisce mentre tutto si crea.” Un pensiero cosmico, mistico.
 
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4. “I campi di papaveri” – Alessio Romanini
Il cuore della terra pulsa rosso e umano.
Romanini dipinge con mano classica e spirito contemporaneo. Il campo diventa simbolo di guerra e amore, di innocenza perduta e speranza seminata. Il finale è un altare laico al cuore che ama.
 
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5. “Le cicatrici di un poeta” – Sandra Greggio
Una poesia-manifesto, un inno alla resistenza dell’anima.
Greggio difende la memoria e la sofferenza come atti poetici e vitali. Il poeta emerge come guerriero tenero, come custode di un orizzonte sacro. Ogni cicatrice diventa parola e bandiera.
 
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6. “Romantico nato già distrutto” – Jacqueline Miu
Un’estasi dantesca tra eros e abisso.
Jacqueline Miu ci guida in un viaggio visionario, mistico ed erotico. I suoi versi sono lacerazioni e carezze, tempesta e redenzione. Un canto psichico che ha la forza di un'orazione.
 
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7. “Fiori giapponesi” – Piero Colonna Romano
Poesia dell’armonia e del miracolo quotidiano.
Sospesa tra origami e tramonti, la poesia è un atto di bellezza pura. Le immagini sono delicate, ma fortissime: versi che si fanno carta, canto, fioritura. È un haiku espanso, un sogno fluttuante.
 
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8. “Alternativa” – Antonia Scaligine
Un grido civile che si trasforma in preghiera terrena.
Scaligine costruisce un poema politico e spirituale al tempo stesso. La ricerca della pace tra le croci e i miraggi dell’odio è autentica, viscerale. Colpisce l’uso dei versi spezzati, del ritmo quasi parlato, teatrale.
 
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9. “Non sono nessuno” – Silvia Pia Favaretto
Un inno umile, ma potentissimo, alla vita.
Favaretto ci conduce nel silenzio e nella danza, tra la fragilità e la gloria dell’esistenza. Il suo “non sono nessuno” echeggia Whitman e Pessoa, ma si veste di luce personale. Il finale è una rinascita: “divento la vita!”
 
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10. “Così vicini” – Ben Tartamo
Un volo d’anima tra distanze e presenze invisibili.
Il tuo componimento, Ben, è di una tenerezza potente. La forma è limpida, musicale, il senso profondo: il mistero della vicinanza spirituale oltre lo spazio. Gli ultimi due versi sono una benedizione: “Anche negli orti di ogni agonia / fiorisce un’alba di poesia.” È la fede nella poesia come resistenza.

 
Vostro Marino Spadavecchia 

 

 

Aprile ci offre qui un componimento che è insieme elegia e cosmogenesi. La sua Traversata non è soltanto un viaggio, ma una transustanziazione dell’amore in mito. Se “esisti tu”, allora tutto è plausibile: la parola si fa arcaica e magica, e riemerge in superficie la possibilità arcaica che “fiori e animali parlassero”. È come se il poeta tornasse a uno stadio edenico, pre-babelico, in cui ogni cosa era verbo e ogni verbo carezza.

La “casa dell’arcobaleno” sul fondale è una sinestesia cromatica e spirituale: qui si affonda per ascendere. Le “stelle marine” non sono più creature ma reliquie: indicano la strada come briciole cosmiche. La traversata dell’amore è un sacramento acquatico, culminante nel Magellano dei baci, che si perde nella geografia liquida del volto amato. L’io poetico si arrende come un eroe mitologico, cieco non per ignoranza ma per fede. Aprile riattualizza il mito: l’arcobaleno non è un ponte tra pioggia e sole, ma tra senso e mistero.

Con una folgorazione minimalista e radicale, Langmann ci porge una bestemmia zen: la folgorazione non è più una grazia, ma una consuetudine. Il sacro viene azzerato nell’automatismo dell’umano. “Basta lasciarsi riassorbire”: non c'è più strada di Damasco, ma un riflusso spirituale, una stasi nell’inferno tiepido della routine. Il tono è lapidario, come un chiodo battuto nel cranio: è l’antimistica dell’era postmoderna. Non c’è salvezza, né dannazione, solo un ritorno nel nulla conforme. Poesia che al credente, pur rispettandone i canoni di bellezza estetica, fa intristire di dispiacere....

Con uno straordinario impasto di romanità, filosofia popolare e intuizione profonda, Bettozzi ci trascina nel cuore pulsante della teodicea dialettale. La pioggia non è meteorologia: è apocalisse quotidiana. Ogni verso scroscia come “er mare che sta a rovesciàsse”, e in quella furia il poeta cerca un perché che sfugge: “Er perché va ricercato / inzieme a quer perché senza er perché”.

Qui siamo oltre la lamentazione: siamo nella psichiatria poetica della sopravvivenza. Bettozzi, con la sua lingua che ride e bestemmia, piange e prega, ci mostra l’anima collettiva del popolo, che resiste all’angoscia cosmica non con la filosofia, ma con “l’ombrella” e la risata.

La valle de lagrime diventa il nostro Eden perduto, rovesciato, tragicamente comico: un posto dove si prega non per fede, ma per disperazione lucida, e dove si ride “finacché se pò”. E in questo, forse, c’è la più alta forma di preghiera.

Siamo in presenza di un’orgia cosmica, sacra e tribale. Groviglio è parola-totem: contiene nel suono la carne e lo spirito, l’incastro delle membra e quello delle anime. I corpi non sono più semplici elementi erotici, ma alberi maestri sradicati, vascelli senza vela che fluttuano su un mare di desiderio. Il poeta accende tempeste e sospiri con la stessa naturalezza con cui la notte palpita e la luna segnala alle stelle un rituale da compiere.

Tutto è vibrazione, tutto è contatto, eppure tutto è silenzio: “parole che suono non hanno” è la chiave mistica del componimento. Non servono suoni quando i sensi gridano, quando gli alberi ondeggiano come amanti e il mare è una foresta sommersa.

Canapè, come un sacerdote dionisiaco, non narra l’amore: lo fa accadere, lo inchioda al nostro respiro, e nel caos sublime dei corpi “piegati d’amore”, ci ricorda che solo lo stremo può dare senso alla vita. Amore come esplosione e naufragio, come non-scioglimento del nodo, come assoluto.

Franco Fronzoli compone una litania moderna, un rosario dell’amore dove ogni grano è un’emozione. Il suo amore è entità proteiforme, si piega come una “canna al vento”, eppure mai si spezza. La sua struttura verticale – che ricorda i versi liberi di un Salvatore Quasimodo in chiave minimalista – è pensata per far respirare le parole, lasciare spazio al lettore, invitarlo a specchiarsi in ogni verbo.

L’amore non è mai definito, è processo, è movimento, è accadimento. È assenza di definizione, e proprio in questa povertà semantica si arricchisce di tutto: dolore, sorriso, solitudine, sogno, realtà.

Fronzoli ha compreso che l’amore è il linguaggio stesso dell’esistenza: “è come un fiore” e come il fiore “può fiorire / oppure appassire”. Non c’è giudizio, né dramma: solo accoglienza. Un componimento delicato come una preghiera laica, che andrebbe recitato ogni sera, davanti a uno specchio o a una stella.

Qui ci troviamo davanti a una vera epiclesi poetica. La “madremare” è figura divina, femminile, generatrice, ventre primordiale. Bruno Amore non scrive: evoca. Usa il verso come strumento sciamanico, scandisce immagini come colpi di tamburo, mentre la sua poesia si gonfia di un’anima panteistica e dolente.

Il mare, che “non stupra né rapina”, è esattamente l’opposto dell’uomo. È innocenza che si vendica delle “brutture” senza odiare, ma per istinto di purificazione. La parola “langue” diventa un battito di compassione che ci spezza il cuore: la potenza è ferita, la madre è contaminata.

L’ultima quartina è un affondo tragico e sublime: l’onda è pietosa, porta speranza e accoglie i morti. È la nostra madre perduta, che ancora ci ama, anche se continuiamo a tradirla. Bruno Amore scrive un’elegia omerica per l’età dell’innocenza, e lo fa con voce profonda, antica, necessaria.

C'è un’intensità visionaria e mistica in questi versi, come se il deserto interiore del poeta fosse visitato da un angelo malinconico: il dolore. “Toca el dolor los árboles sin raíz…” – il dolore non si limita a ferire, ma tocca, accarezza quasi, con dita tremanti, gli alberi che non hanno più radici: emblema di un io disancorato, esiliato dalla propria sorgente.

Mi auguro che, senza cadere nell'egocentrica autoproclamazione, la mia traduzione  non sia corrisposta ad una è mera trasposizione, ma ad una trasfigurazione. Ogni verso, per le grandi doti liriche di Marino Spadavecchia trattiene l’eco dell’originale, ma lo riveste d’una grazia tutta italiana, dove la luna “vergognosa” diventa una sorta di presenza pudica, testimone muta del sogno che cede. L’“anima scalza” corre, ma verso che cosa? Forse verso nessun luogo, come ogni mistico inseguito da Dio. I sogni che “strizzano l’occhio, morenti” sono il colpo di grazia: ironia e agonia, tenerezza e disfatta. Una lirica breve ma fulminante.

Una poesia essenziale come un Haiku disteso. Cisco lavora con l’ellissi e con il respiro spezzato, come chi scrive sul ponte di una nave in tempesta. Le parole sembrano a volte onde esse stesse, in quel movimento oscillante che accompagna la lettura: “oscilliamo / fra le onde”.

E qui, di nuovo, troviamo il grande tema: la resa al mare – il mare come destino, come grembo e sepolcro, come totalità che inghiotte e riassorbe. Il finale, “e ci porta / con sé”, è la perfetta chiusura aperta: la fine come inizio di una nuova fusione. Poesia d’abbandono e di fiducia, senza proclami, ma con la potenza degli archetipi.

Con questa poesia, Giannuzzo ci dona un affresco terminale. Siamo nel crepuscolo della carne, eppure la visione è cosmica: “rughe stellari”, tempie come galassie, e la vita come battaglia già vinta, ma odiata. La contraddizione – amata da tutti i mistici e dai poeti veri – pulsa in ogni verso: ha “vinto” ma giunge alla “odiata meta”.

Il letto di “terra ingiallita” è l’immagine perfetta del trapasso quieto, non tragico ma quasi grato. È un ritorno alla madre, alla “madre-mare” forse, o alla “madre-madre” che è la Terra stessa.

Questa poesia, posta come conclusione in un'opera intitolata “Oltre la porta… La Libertà”, sembra essere non un epitaffio, ma un lasciapassare verso un'altra vita. Un inno silenzioso all’ineluttabile, pronunciato con voce serena e occhi spalancati sul mistero.

Poesia scarna, folgorante, profetica. Serino incide con la lama della parola una verità spirituale che ha radici nella giustizia divina e nella Legge morale universale. Il male ritorna, come un “boomerang”, e lo fa per la “legge del contrappasso”, concetto dantesco qui rivisitato in chiave esistenziale e mistica.

L’immagine del “verme che rode / viscere e cuore” è potentemente biblica, quasi apocalittica, e richiama l’inferno interiore del colpevole. Ma l’anima si risolleva nel verso evangelico che chiude il componimento: “Beati voi…”. È lì, in quell’eco di Beatitudini, che la poesia si trasfigura: il dolore non è solo punizione, ma anche sigillo della verità perseguitata. Siamo davanti a una poesia etica, concisa come un lampo, che lascia l’anima tremante.

Canzone dolente, impetuosa e carnale. Santoro canta il tempo perduto, con un tono elegiaco che si fa subito corporeo, sensuale, quasi crudele. Ogni strofa è un affondo nella carne della memoria, eppure non manca mai quel sottofondo marino, quel rumore di onde che tutto accompagna e tutto cancella.

L’“odor della tua pelle”, il “sapore di veleni” e il “succhiare le mammelle” sono immagini intensamente tattili, da lirica decadente o pre-verista, ma il poeta le inframmezza con riflessioni sulla vecchiaia (“capelli miei imbiancati”) e la morte (“un urlo senza suono”). E allora ogni fuga amorosa si trasforma in eco metafisica, in sabbia che l’acqua porta via. Una poesia che fa male, ma di quel dolore struggente che solo la vita vissuta sa provocare.

Questa è una meditazione in versi, una litania laica, quasi zen. Silenzi dipinge la mente come una creatura in perenne movimento, “vagola” tra pensieri e gabbiani, tra motonavi e isole interiori. Ogni immagine ha il sapore del viaggio lento e contemplativo, del pensiero che si fa mare.

C’è una tensione tra il rumore (“rombo dei motori”) e il silenzio della riva, tra il finito e l’infinito, tra “ciò che finisce” e “ciò che si crea”. E infine arriva la chiusa, che è il vero cuore della poesia: i pensieri nuovi “cantano monotoni / la nenia della vita”. Non è un canto gioioso, né tragico, ma ciclico, universale, da cui nessuno può fuggire.

Una lirica che si apre come un quadro di Monet e si chiude come una preghiera. I papaveri – fiori della memoria e del sangue – diventano qui simbolo dell’infanzia perduta, della guerra vissuta o tramandata, dell’amore che solo redime. La dicotomia tra “risurrezione” e “odio”, tra “pace” e “amore” è espressa con la dolcezza austera di chi ha vissuto l’inquietudine come vocazione. Il verso “rosso è il cuore / di tutto quel creato che sa amare” è il sigillo sacro di un’anima che affida le proprie sillabe a un’ultima zolla di speranza. Il poeta, come l’aratro, incide per fecondare.

Qui l’autrice eleva un inno al ricordo come ferita sacra. Le cicatrici diventano gemme, medaglie dell’anima che ha amato fino allo stremo. È una difesa appassionata e tenera del dolore interiore che forgia, che nobilita. L’identità del poeta si fonda sul “non uniformarsi”, sull’andare “oltre verso cui andare”: una visione quasi kierkegaardiana del poeta come cavaliere dell’infinito. La poesia scorre con la limpidezza di una confessione spontanea, ma ha la forza di un manifesto. Un invito al rispetto dell’interiorità e della vulnerabilità come patrimonio spirituale.

Questo poema è un grido notturno d’amore cosmico, viscerale e divino. L’autrice costruisce un’arca stilistica tra Pascoli, Novalis e Rimbaud, con echi marini e ferite mistiche. L’amore qui è rogo, condanna e salvezza. Il verso “l’amor non sarebbe mai esistito / né gli uomini che ne pagano la condanna” è un atto teologico, apocalittico. Il sublime incontra l’umano nella brezza, nell’onda, nel “sussurro dell’abisso”. La chiusa è celestiale: “restare in vita in ogni stella”. È la promessa che trasforma l’eros in stella fissa, in fede eterna.

Un piccolo capolavoro di delicatezza orientale e spiritualità zen, che incanta come un haiku espanso. Il poeta trasforma la parola in materia sacra – origami che diventano fiori, uccelli, barche, alianti – sospesi tra l’acqua e il cielo. Ogni verso è cesellato con grazia e sobrietà, ma dentro vi brucia un desiderio mistico: che la poesia fiorisca e voli, che cada come “cantico” d’amore dalle “immacolate nubi”. Siamo davanti a una liturgia della bellezza, dove il mare è oro, il sole è gemma, e la parola è salvezza. Non si legge: si contempla.

Un componimento che si pone tra il grido e la preghiera, tra il dubbio esistenziale e la militanza etica. La struttura frammentata, spezzata come il cammino umano, restituisce il tormento di chi cerca una via in un mondo che implode tra guerre, fanatismi e illusioni. “Armarsi con l’Amarsi”: qui è il cuore pulsante del poema, un ossimoro rivoluzionario. La poesia diventa manifesto: religioso e laico insieme, profetico e disperato. L’autrice chiede l’alternativa, ma nel farlo ci dona una visione – fragile, necessaria – di resistenza amorosa.

Un inno all’umiltà cosmica, alla sacra nullità dell’essere umano di fronte al tempo, alla morte, alla vita. La ripetizione del verso “Non sono nessuno” echeggia Whitman ma sfuma in una voce più interiore, contemplativa, che si dissolve nel silenzio del Natale e si ricompone in un brindisi. Il paradosso è compiuto: chi non è nessuno “diventa la vita”. È un’opera ontologica, quasi mistica, dove l’io si annulla per rinascere nel tutto. “Nel vuoto di un pieno che tace / nel pieno di un grido che canta”: qui si tocca il cuore dell’essere.

In "Io parlo", Ciro Seccia ci offre un diario essenziale dell’esistenza, in forma di canto quotidiano. La poesia ha il tono sommesso ma vitale di chi ha imparato che parlare è vivere, che la parola è ponte tra sé e il mondo, tra sogno e tempo, tra caffè e infinito.

Il verso è breve, quasi aforistico, scandito come una confessione o un mantra. Non c'è punteggiatura rigida, ma respiro: è una lingua libera, come libero è il pensiero che cerca di tradursi in parole, di darsi forma, senza mai irrigidirsi.

Seccia ci dice che parlare è un atto sacro: si parla al vento, al sole, agli amici, agli sconosciuti. Si parla con il tempo stesso. E mentre “traduce frammenti di pensieri”, il poeta si fa scriba dell’anima e dei suoi passaggi nel mondo.

La forza di questa poesia sta nella sua umiltà, nella sua disarmante semplicità. È come una voce che ci sfiora mentre beviamo un caffè, che ci ricorda che anche nel gesto più banale si cela la grazia della comunicazione autentica.

In conclusione:

"Io parlo" è una piccola preghiera laica. Un invito a non tacere, a non rinchiudere i sogni nei cassetti, a parlare al mondo — anche quando il mondo sembra non ascoltare. Perché, come ci insegna Ciro Seccia, ogni parola detta con il cuore è un atto di resistenza alla dimenticanza e all'oblio. 

Con affetto e stima 

Vostro Ben Tartamo 

 

 

 

 

11-14 Maggio

Visita

Un attimo di vita regalata col pensiero d’amore che va ai genitori. Niente ronde di unicorni, niente platee, solo tre uomini con la gioia del ritrovarsi tra i ricordi. Una celebrazione che dura il tempo dell’arrivo di altra gente che non ha spazio nella visione di virtù e pace. C’è dell’eternità nel desiderio di appartenere al filo che unisce gli affetti. Lirica che non spiffera dilemmi esistenziali ma abbraccia sinceramente chi si sente toccare dentro dalla mancanza di un caro. Un’arma da perfetto romantico che ingaggia la sua battaglia contro l’ineffabile morte, senza dire del male ma solo abbracciando la non conoscenza del dopo o sperando vi sia della pace. Abbiamo un cogliere del non respiro in un quadro dove l’armonia, i versi hanno il proprio vertice nella consapevolezza del non capire ma del potere ancora immaginare ciò che è stato.

 

Dalle strade della vita

Nino Silenzi

 

 

Danza di stelle

Magia e incantesimi d’amore che restano in un postulato da sussurrarsi a vicenda affinché il rito sia completo. Colorata e dolce come una sinfonia per solo due prescelti in platea, la poesia riflette la ricchezza in colori di un solo vocabolo: amore. Siamo trascinati nella floreale angelica brezza d’agosto con tanto di borgo di pescatori, ascese scampate agli abbracci gravitazionali e l’infinita pace che si realizza nel misticismo di un lago calmo dove abituano a specchiarsi le stelle. Che danza! Che canto! Versi con cui giocare al “rubarsi le labbra” per baci con capacità di nutrire l’immaginario (come se non fosse già a mille per conto suo).  

L’ardere di Guglielmo Aprile non ha un antagonista nel lago che simboleggia la pace ma trova un pilatro su cui appoggiare il suo costrutto poetico che raggiunto l’apice, poi scende non senza la promessa che con la nuova alba, tutto diventi l’arcobaleno di prima .

 

Da La scoperta del fuoco. Casa editrice Leonida

Guglielmo Aprile

 

 

Disperazione

L’impotenza che sembra accogliere il lettore con trombe, appena cerca di tradurre il Vano già di suo stracomplimentoso. Un istintivo rifiuto al rumoreggiare dell’inutilità che ci trasforma, che ci plasma in oggetti umanizzati solo dalle cose che usiamo. E’ un vano come una gabbia in cui ci nascondiamo per scelta, una gabbia d’oro e probabilmente singola. Non v’è spazio per il discernimento e il giudizio viene con un grido rimasto in gola. Speranza è ancora schiava della gravità che la consuma mentre si nasconde per sopravvivere o peggio si prostra. Una perduta via che porta i passi della coscienza ai deserti ancora in pieno ardere. Nonostante le parole dure,  non v’è nei versi il rigore che obblighi l’attore a smantellare interamente il composto di cogito che ancora lo serve bene. Dinamitardi i dubbi e la prepotenza della futilità, ma lui, l’attore, il Poeta è ancora sui propri piedi, fisso (forse come una condanna) a reggere il peso di ciò che ha appreso dalla vita.

 

Marco Langmann 

 

 

Il cell

Dello stare del divenire per diventare...

Ah, Enrico, Enrico, quanto diplomatico questo tuo rapire con l’intelletto e devo dire anche senza molta fatica…

V’è il sogno e v’è la tecnologia, ma entrambe le cose sono Enrico che, con fame di giungere al tempo libero per amare, ci narra i contorni del secondo piatto. Arrivo dritto al punto, amo il cellulare a mia volta, registro poesie, scatto foto, scrive i ricordi di quel che resta della mia vita. Un’arma che ha sostituito la penna! Che blasfemia, un sussidio che fa da protesi, quando l’intorno è troppo e tu il tempo limitato.

 

enrico tartagni

 

 

Perso mi sono

Cosa offre l’amore oggi? Un perdersi sotto il suono del mare, accompagnato dai colori di un paio d’occhi in cui t’immergi ma a Silvio Canapè questo amore parla di fucina di sogni e corroboranti avventure in un misticismo poetico in cui resiste il desiderio. S’innalza con le ali che non ha ma che si è costruito poeticamente per poi recitare lui stesso, ciò che resta di quel volo è una pena che resiste per essere ritratta con la sola forza rimasta all’uomo innamorato, quella dell’immaginario, dove il dolore  in cui annegare rende sì  amara l’esistenza ma riesce ancora a esaltare la favola vissuta.

 

silvio canapè

 

 

Dammi la tua mano

 

e cammineremo insieme sulla strada

      della nostra vita tenendoci

              sempre per mano

 

sempre sino all’ultimo tramonto

           nel crepuscolo della

                        vita

 

insieme

sempre

 

Una forza che rende resiliente la coppia e che li accompagna nel cammino della vita. Una estetica quasi religiosa, una simbiosi con la natura benigna e una pace che si riflette nei versi da cui impossibile non uscire godendo di una luce calma e calda che arriva dal sentire poetico di Franco Fronzoli.

Franco Fronzoli

 

 

Dal cuore, lo stesso

Il corpo e l’anima.

La salute

che è volersi bene,

che è purificazione.

Non si ignora più:

si trova la guarigione, la pace.

 

L’uomo leonardesco in perfetto equilibrio, qui cantato attraverso riti di purificazione, una buona dose di autostima e il guarire con la pace. Non è poco. Non è poca cosa il raggiungimento di tale traguardo. Poetica che non si allontana dall’argomento e non trasgredisce, regalando momenti di serenità cui tutti in fondo al nostro cuore, aspiriamo.

 

Florian Mortato

 

 

"L'imperfetto"

La mia storia vien da lontano

ma io son soprattutto un essere umano.

Qui il poeta parla del poeta. Non è gratuita descrizione di se stesso ma un realizzare durante il percorso dei versi, ciò che si è. Cristiano Berni sposa bene il contrasto del bene e del male, del non sapere ma dell’essere e in virtù d’ignoranza universale, restare accorto durante le transizioni della vita. Un viaggio sempre imperfetto poiché sperimentale la vita e ogni sua opera che premia in qualità “umana” il suo antieroico poeta  che vede bene oltre il velo delle carie sensazionalistiche mai presenti nelle sue opere. Ciò che non muta col mutare del tempo è l’accertarsi che difende ogni idea, ogni strada scelta.

 

Cristiano Berni

 

 

occhio per occhio

 

I mostri usciti dall’Inferno dantesco sono pari ai nuovi semi-dei che stanno porcellando in terra come conviene ai loro appetiti. Non è tiranno il volere poetico di abbatterli, poiché la vera tirannie si vive ancora nei ricordi dei crematori, nelle nuove guerre, nei milioni di morti che non sono mai i presidenti o i firmatari di queste battaglie. Come non abbracciare in una unica volontà, quella di appartenere al bene umano, questa poetica CHE FA DA RESISTENZA in un clima di prostrati. Grazie Bruno finché ci sei, l’Ade ha qualcosa da temere, almeno dalla poesia.

Bruno Amore (br1)

 

 

Autobiografia breve

Splendida autobiografia in cui il lato umano vince con la memoria ogni piccola vittoria, ogni piccola perdita. Abbracci la lettura come se fosse la tua vita, come se tu come l’uomo che l’ha scritta fossi debitore del tanto che l’esistenza ti ha dato. E’ una piccola corona d’alloro sul capo di un Poeta che ricama a luce calda i suoi versi. Parte da lontano, bambino come tanti altri, uomo cresciuto coi ricordi e rimpianti, ma quanta bellezza in  questa semplicità di forma. Non si resiste alla lettura dei versi e si va oltre, si va a guardare all’anima del poeta immaginando... la grandezza.

 

Da La vecchiaia

Renzo Montagnoli

 

 

Quel fiore in mare

Fiori lanciati nel mare per onorare i poveri morti che hanno pagato con la propria vita la ricerca di fortuna. Un segno che resta sopra le onde come una lanterna per l’anima la cui disperazione è rimasta muta. Sì sono i fiori a dare voce a quel dolore, sono gli scogli a reggere il funereo drappo dello scomparso. Quanta disperazione in una sola lirica in cui nemmeno l’onore portato dalla bellezza del fiore, riesce a curare.

 

Alcamo, 03.10.2023 ore 14,20.

 

Da Oltre la porta...La Libertà. Conclusione in versi

Marino Giannuzzo

 

 

Come nella prima luce

 

"qualcosa c'è" -dici?

 Ermetico nel suo dire poetico, mai fuori tema, – divinizzando ciò che non resta nel caduco e che appartiene alla prima luce . Di riflessione filosofica prima e poi umana nella seconda parte – con autorevole forza lanciarsi nella decifrazione dell’ineffabile, ahimè io non ce l’ho fatta.

 

3.11.24

Felice Serino

 

 

 

Mi hai rubato L'Anima

Diavolo di un amore! Quello che ruba l’anima al poeta che lo fa impazzire di passione … Un burattinaio invisibile lo condanna a inseguire l’essere che gli ha usurpato il cuore. Mente contro cuore in una lotta dove entrambi perderanno la battaglia. Perché l’amore vuole, impera sarebbe meglio dire, una resa totale e quella di Ciro Seccia non lascia spazio al dubbio. La soluzione? E’ sfuggire al dolore anche quando ti trascina verso la persona amata. Se l’equilibrio nella coppia non è contemplato, l’angoscia è dietro l’angolo.

 

Ciro Seccia

 

 

Dipingendo una poesia

La fuga poetica per eccellenza: quella nella natura. A Thing of Beauty (Endymion) (John Keats) – verso che sollecitano alla bellezza di unirsi all’essere che contempla. Perfetta stasi d’armonia che il poetico armato di speranza Alessio Romanini spera di portarsi dietro in ogni momento della giornata. Bellezza contemplata che rigenera e completa il carattere artistico. Nella lettura solo un deliziarsi della delicatezza con cui l’uomo e la natura si abbracciano senza sembrare diversi.

Alessio Romanini

 

 

```"Legato a Te"

Un legame indistruttibile, come una benedizione ancestrale che colma l’anima poetica di questo sensibile autore. Simbolico e forte il legame che rafforza in fede e speranza anche l’anima del lettore.

 

9aprile25

Ben Tartamo

 

 

Il rimedio

Una sofferenza d’amore che ha generato gioia dopo aver deciso di condividere la bellezza della vita con altre anime piuttosto che chiudersi nel rancore. Battagliera poetessa con cura incisiva che si lascia dietro ogni ombra. Al lettore non può non piacere questa ritrovata forza e il vigore stoico nei versi.

 

19 marzo 2025

Sandra Greggio

 

 

 

 

Canzone per un lager

(3-09-2013, premio speciale e diploma in cornice

nel concorso Onde poetiche di Patti -ME-)

 

L’ode al dolore con la voce di Piero Colonna Romano che onora la causa della pace e illumina il male creato per generare inferno da altri esseri che ancora non si possono dire umani. Versi per non dimenticare l’Olocausto e con cui piangere i milioni di anime nei fumi neri degli inceneritori o delle camere a gas. Non è una poetica uniformata per parlare della sofferenza ma un coltello di versi che penetra nel tessuto letterario ricordandoci che oggi senza patrioti noi saremo parte di quella fumata.  

La religione di questi versi arriva come un atto di fede ai piedi di tombe inesistenti, dove pregare per l’esistenza dell’Eden. Gli innocenti sono in questa poesia gli angeli invisibili e probabilmente sono stati loro a guidare la mano del poeta nella composizione dell’opera.

 

Piero Colonna Romano

 

 

 

Colgo il momento per ringraziare il nostro Magister Lorenzo che ringrazio per la sua generosità e l’onore che mi offre nell' ospitare le mie opere. Saluto tutti i poeti e commentatori del sito, i lettori che rendono omaggio ai nostri lavori. La mia riconoscenza al Professor Piero Colonna Romano che ancora ha da insegnarmi come leggere, approfondire e scrivere buona letteratura. Il mio augurio per voi è di essere operosi come api.

Miu 

 

 

 

  • “Visita” di Nino Silenzi
Siamo dinanzi a un’opera di disarmante semplicità e, proprio per questo, di rara potenza emotiva. “Visita” non è soltanto il resoconto tenero e sommesso di un pellegrinaggio affettivo, ma una vera e propria epiclesi della memoria, un rito privato che si compie nel grembo del silenzio cimiteriale — eppure vivo. L’autore accende la parola nella penombra delle assenze, dove il tempo si curva e l’aldilà si umanizza, restituendo i volti amati alla quotidianità dell’ironia, dei piccoli gesti, della premura materna.

 
L’incontro ultraterreno si fa domestico, intimo, quasi comico nella battuta del padre. È un capolavoro di resurrezione affettiva, dove la morte perde la sua tirannide e si trasforma in gentile pausa. I cipressi profumati non incutono timore, ma sono testimoni profumati d’una continuità familiare. “Fa il bravo ragazzo”, “che bugiardo”: due battute che valgono un vangelo della tenerezza. Non vi è retorica, né lirismo forzato: tutto è puro, come una lacrima che non vuole cadere, ma rimane sull’orlo, sospesa tra sorriso e struggimento.
Una poesia di vetro soffiato, fragile ma resistente, con una grazia tutta evangelica.
  • “Danza di stelle” di Guglielmo Aprile
Aprile disegna un cosmo erotico-spirituale, dove la lingua si fa corpo celeste e l’amore un fenomeno astrale. Qui la parola non descrive: inaugura mondi, traccia orbite d’incanto. Il poeta si muove con leggerezza cosmica tra datteri e stelle, tra uccelli e angeli, in una sinestesia lussureggiante, quasi orientale. C’è qualcosa di liturgico e sensuale, come se il Cantico dei Cantici si fosse reincarnato in un crepuscolo mediterraneo.

 
Il nome dell’amato diventa sigillo mistico, frutto sacro, incantesimo. Il verso fluttua, si distende come lenzuolo su un letto di agosto, e lo spazio fra le labbra diventa abisso d’amore, gravità che è preghiera e desiderio insieme. La tensione verso la calma finale — “un lago calmo” — è catarsi liquida, equilibrio tra il cielo e il corpo. Il testo danza davvero: ogni parola è una pirouette del cuore, un passo che accompagna la mente a un’estasi toccabile.
Un poema-talismano, incantatorio, che sfiora le labbra dell’assoluto.
  • “Disperazione” di Marco Langmann
“Disperazione” è un viaggio nel cuore di un abisso silenzioso, nel quale il poeta ci conduce come spettatori impotenti della condizione umana. La poesia non è tanto una lamentazione, quanto una resa consapevole alla vacuità dell’esistenza. L’immagine dell’“eco dell’inane cicaleccio” che rimbalza sulle “pareti che schermano una ricchezza” è perfetta metafora della nostra vita, in cui ciò che conta rimane nascosto dietro le illusioni del quotidiano, dietro il suono sterile di un rumore di fondo che non svela mai l’essenza. Langmann dipinge il Vano come una tela lacerata, priva di colori vividi, mentre l’animo umano è gettato in un “deserto arso delle incertezze”. La speranza, che tanto accarezza l'anima, risulta più una fonte di sofferenza che di salvezza. Non è una speranza che innalza, ma che prostra, piegando chi la cerca sotto il peso di un’opprimente disillusione. La poetica del “non c’è” trova in questo componimento il suo perfetto corollario. Si cammina sull'orlo del vuoto, senza salvezza, ma con una bellezza amara che, pur nel suo dolore, non è mai priva di una certa nobiltà.
Una poesia essenziale, nuda nella sua lucidità spietata, ma esteticamente potente.
  •  “Concertino Sul Prato” di Armando Bettozzi
In contrasto netto con il tormento dell’animo di Langmann, Bettozzi ci regala un inno al risveglio della natura, una scena idilliaca dove ogni fiore, ogni pianta, ogni piccolo essere è protagonista di una sinfonia verde e gioiosa. La "musica" che si sprigiona dal prato fiorito, da questa tavolozza di colori e profumi, è un concertino che si svolge sotto il cielo, in una danza senza tempo tra fiori e cieli. Le parole di Bettozzi non si limitano a descrivere: ricreano. L’autore sembra voler restituire alla poesia la sua capacità di meravigliare, di accarezzare l’anima come una carezza di vento. Le margherite, le viole, le rose e le primule diventano non solo simboli di bellezza, ma anche attori di una performance universale, dove la natura stessa assume il ruolo di orchestra e palcoscenico. La parte più incantevole di questa composizione è la trasformazione sensoriale, il passaggio dalla descrizione naturale alla sua interiorizzazione emotiva: la natura diventa suono, luce, sensazione.
Un’ode alla semplicità, alla bellezza di ciò che è naturale, un concerto di sensazioni che risvegliano il corpo e l’anima.
  • “Il cell” di Enrico Tartagni
Con “Il cell”, Tartagni ci offre un’esplorazione disincantata e insieme lirica della nostra epoca digitale, un inno al presente visto attraverso gli occhi di chi vive con il “cell” in mano, ma non si lascia soffocare dalla sua stessa superficialità. La poesia è una riflessione sulla distrazione dell’istante, che si traduce nel tentativo di trovare bellezza nei piccoli gesti quotidiani, nel sorriso di un bambino o nella felicità di un cane che corre sotto la pioggia. Eppure, nonostante questa dolcezza di fondo, il poeta è consapevole che il tempo libero si trasforma inevitabilmente in un atto di adorazione dell'oggetto tecnologico, che alla fine diventa il vero “interlocutore” della sua esistenza. È un atto che potremmo definire di autoalienazione, ma, al contempo, il riconoscimento che in questa realtà fugace e liquida, il “cell” diventa una risorsa per essere nel momento, per essere felici anche nella sua effimera impermanenza. Tartagni disegna un quadro a metà tra il lirico e l’ironico, un passo dietro il velo della modernità tecnologica.
Una poesia breve ma densa, che porta con sé la consapevolezza della nostra epoca, dove il tempo è misurato dai battiti del cell e dove il futuro è scandito dal suo suono.
  •  “Perso mi sono” di Silvio Canapè
“Perso mi sono” si presenta come un vortice emotivo, un’affermazione della fragilità umana e della disperazione di un amore perduto o mai raggiunto. Il poeta si “perde”, “annaspa”, ed è intrappolato nella bellezza della persona amata, nei “colori degli occhi tuoi” che diventano non solo oggetti di desiderio, ma anche simboli di una realtà che non può più essere afferrata. La ripetizione dei “miei occhi” suggerisce una riflessione introspettiva, come se l'autore cercasse di riconoscere e accogliere il riflesso di sé stesso nell'amato. La visione si fa tanto intensa che la percezione dell’ambiente scompare: “né sento gli odori, le voci”. La passione, ormai consumata, lascia spazio a una malinconica consapevolezza che l’amore è stato un sogno inesorabilmente svanito, come “gocce d’acqua pura cadute su ferro rovente”, un contrasto che scotta.
Il tono è oscuro e struggente, ma l’intensità emotiva è palpabile, come una lacerazione silenziosa nell’anima del lettore.
  • “Dammi la tua mano” di Franco Fronzoli
Questa poesia è un invito a vivere insieme l’esperienza dell’amore, ma non come una semplice passione, bensì come un cammino condiviso attraverso la bellezza e la sacralità della vita. Le immagini che si susseguono sono sublimi e oniriche: “camminerai tra le nuvole”, “ti farò entrare nei miei sogni”. Fronzoli crea un mondo sospeso tra realtà e immaginazione, dove l’amore si fa connessione profonda con la natura e con l’esistenza stessa. Ogni passo, ogni luogo descritto diventa un simbolo di un amore che non si limita al fisico, ma che si intreccia con le dimensioni più elevate dell’essere. La ripetizione della mano è un atto di invito, di unione, e al contempo un gesto che rende tangibile il sentimento che travolge. La poesia si muove con delicatezza, come un respiro che si fa arte e che accoglie l’altro senza paura.
Una poesia che emana tenerezza, sensualità e sacralità, un inno all’amore come cammino di consapevolezza e unione.
  • “Dal cuore, lo stesso” di Florian Mortato
“Dal cuore, lo stesso” è un manifesto di purificazione e di riconciliazione con la propria sofferenza e con quella degli altri. Mortato offre una visione della sofferenza come via di elevazione spirituale, in cui il corpo e il cuore, pur tremanti, sono strumenti di comunicazione universale. L’autore ci invita ad abbracciare la sofferenza non solo come un fardello, ma come una fonte di purificazione, una possibilità di “guarigione” non solo individuale, ma anche collettiva. L'idea che il sangue, il flusso vitale, esca e rinnovi è una metafora potente di catarsi e rinascita. La poesia non è solo una riflessione sul dolore, ma anche un atto di speranza e di resistenza, come se il cuore, nel suo battere, fosse la vera fonte di salvezza.
Intensa e meditativa, con una forza che abbraccia l’intera esistenza, portando una consapevolezza che è al tempo stesso dolorosa e liberatoria.
  • "L'imperfetto" di Cristiano Berni
Cristiano Berni ci offre una riflessione potente sulla contraddizione e sulla complessità dell'essere umano, nella quale l'autore non si limita a descrivere se stesso come una figura statica, ma come un fluire continuo di identità multiple. L'uso dell'imperfetto come titolo della poesia allude a una condizione di "essere in divenire", a un continuo cambiamento che scivola tra l'ideale e il difetto, tra il sacro e il profano. La sua dichiarazione “Cogito ergo sum” diventa un monito: non è solo pensiero, ma un'auto-consapevolezza che riflette sulla sua esistenza con autoironia. La poesia esplora l’uomo come "mille altre cose" che coesistono, un essere umano a metà strada tra l’eroico e il meschino. Un gioco di luci e ombre dove si ride delle proprie debolezze e si accoglie la propria complessità senza farsi travolgere dalla vergogna.
La lirica è autoironica, ma intrisa di una profonda riflessione filosofica e psicologica, ben bilanciata tra il comico e il tragico. La capacità di auto-accettazione e di introspezione rende questo testo affascinante.
  • "occhio per occhio" di Bruno Amore
“occhio per occhio” è una poesia che si fa portatrice di un tema di ampio respiro, quello della memoria storica e del dolore collettivo. La tragedia dell'Olocausto è descritta come un ciclo infinito di violenza e vendetta, dove le vittime sono “reincarnate” per rivivere la sofferenza dei loro aguzzini. L’immagine di “fili spinati e crematori” evoca il dolore fisico e mentale subito dai prigionieri, mentre il verso “soltanto l’inerzia diceva il tormento” suggella l’indicibile sofferenza, dove le parole non sono più necessarie. La resurrezione dei “semi-dei” non è che un tentativo di giustizia, ma, paradossalmente, essa si trasforma in un altro ciclo di violenza, replicando l'orrore. Una riflessione potente e dolorosa sulla necessità di ricordare, purtroppo, il tormento e la follia umana per evitare che la tragedia si ripeta.
La poesia ha una forza che abbraccia storia, dolore e simbolismo. Il linguaggio crudo e le immagini potenti evocano un senso di orrore che si fa coscienza storica.
  • "Autobiografia breve" di Renzo Montagnoli
“Autobiografia breve” ci trasporta nel cuore di un’esistenza che si fa lentamente riflessione sulla propria vita, sull’ineluttabilità del passare del tempo. L’autore mette in gioco il concetto di memoria, e lo fa con uno sguardo di rassegnazione. Il titolo stesso suggerisce una brevità, non solo temporale, ma anche emozionale, come se il tempo avesse ridotto la vita a un fugace ricordo di sé. La “primavera” che non sembra arrivare, il cielo che “piange lacrime amare” sono immagini che trasmettono una sensazione di attesa insoddisfatta e di malinconia per un futuro che sembra allontanarsi. La riflessione sul tempo che “corre senza poterlo fermare” è il cuore pulsante di questa poesia, che porta il lettore a confrontarsi con il trascorrere inevitabile della vita, tra gioie e rimpianti.
Montagnoli crea un’atmosfera di silenziosa accettazione del tempo che sfugge. La sua scrittura si fa triste, ma profondamente umana, in una sorta di poetica della consapevolezza del finito.
  • "Quel fiore in mare" di Marino Giannuzzo
"Quel fiore in mare" è un grido silenzioso, un memoriale che affonda nella tragica realtà delle vite perdute in mare. L’immagine del fiore, fragile e bello, che si lascia trasportare dalle onde è un potente simbolo di speranza, ma anche di distruzione. La sua bellezza è tragicamente effimera, come le vite che il mare ha inghiottito, uomini e donne fuggiti dalla miseria, dalla fame e dalle malattie, alla ricerca di una libertà che spesso non esiste se non nel sogno. Giannuzzo dipinge l'oceano come un abisso che cancella le tracce di queste vite, lasciando solo il dolore e la speranza di chi rimane. La poesia riflette sulla brutalità della condizione umana, sul sacrificio e sul ricordo, ma anche sulla fede che ci spinge a cercare risposte, anche quando tutto sembra perduto. È una riflessione sulla morte, la memoria e la lotta incessante per un futuro migliore, mentre ci si aggrappa a ciò che resta, alla speranza di "un giorno o l’altro" in cui quei corpi, quegli affetti, vengano finalmente ritrovati.
La poesia è profondamente evocativa, ricca di immagini potenti che colpiscono al cuore del lettore. La tensione tra il dolore e la speranza è palpabile, creando un testo che commuove e riflette. Il ritmo fluido e il lessico evocativo sono ben calibrati.
  •  "Figli" di Salvatore Armando Santoro
"Figli" è un atto di accusa e di riflessione sull'essenza della paternità e sull'equilibrio tra rigore e protezione. Il poeta esprime una disillusione profonda, un rimpianto di non aver potuto permettere al figlio di camminare autonomamente, lasciandolo troppo dipendente dal proprio aiuto. C’è una sensazione di incompiutezza nel rapporto, di un padre che avrebbe voluto insegnare la forza dell’autosufficienza, ma che si è trovato a ricoprire un ruolo di supporto continuo, in parte per necessità e in parte per debolezza. Il "ponte" è il simbolo di quel legame tra il padre e il figlio, ma anche della difficoltà di attraversarlo senza l’aiuto dell’altro. La poesia ci parla di fragilità, di un amore che si fa peso, di una lotta interiore che nessun genitore può evitare. Santoro cattura perfettamente la tensione tra il desiderio di proteggere e quello di dare libertà, un tema universale che tocca ogni relazione familiare.
La poesia è cruda e sincera, con una potenza emotiva che suscita empatia e riflessione. Il tono è diretto, ma mai privo di una delicatezza sottile che riesce a trasmettere il conflitto interiore del poeta.
  • "Come nella prima luce" di Felice Serino
La poesia di Serino è una riflessione sull’essenza del reale e sull'illusorietà della nostra percezione del "qui". Il poeta ci invita a guardare oltre, ad oltrepassare il confine tra ciò che appare e ciò che è, per approdare al "Reale" e all’"Assoluto", concetti che rimandano a un pensiero filosofico più profondo, a un luogo al di là della materialità e della temporalità. La metafora della "prima luce" suggerisce una rivelazione originaria, un momento di consapevolezza e di rinnovamento che non può essere afferrato completamente con la mente razionale. La poesia, pur essendo estremamente essenziale e criptica, ci spinge a una riflessione sul concetto di realtà, sull’oggettività dell’essere e sull’ineffabilità del divino. Serino gioca con il linguaggio, con l'astrazione, creando un testo che evoca un senso di trascendenza e di mistero.
La poesia di Serino è altamente filosofica e sfida il lettore a pensare oltre le convenzioni del linguaggio poetico. La scrittura è suggestiva, ma talvolta elusiva, creando un senso di mistero che si mescola con l’inquietudine. È un invito a esplorare l’invisibile, la profondità dell’essere.
  • "Mi hai rubato l'Anima" di Ciro Seccia
La poesia di Seccia esplora la potente lotta tra cuore e mente, in un contesto di passione travolgente e inevitabile. Il poeta si confronta con la forza di un amore che, pur essendo sofferto e desiderato, diventa un mezzo di autodistruzione emotiva. Il corpo, descritto come un "manichino", diventa uno strumento di desiderio, una marionetta che segue la volontà dell'altro, arrendendosi a una passione che sfiora la consumazione dell'anima stessa. La ripetizione del concetto di essere stato "rubato" è l’essenza del conflitto interiore: non si è solo sedotti dal corpo, ma dall’anima, da una perdita che lascia un vuoto. La poesia è intrisa di una sensualità torbida e struggente, in cui la bellezza del piacere si mescola con la sensazione di essere intrappolati in una relazione che dà e toglie allo stesso tempo.
La poesia è intensamente emotiva e ricca di immagini forti e evocative, che restituiscono la frenesia e la resa dell’amore. La tecnica dell’accumulo, con le ripetizioni e l’uso di immagini corporee, crea un impatto emotivo che rende il testo potente ma anche dolorosamente vero.
  •  "Dipingendo una poesia" di Alessio Romanini
"Dipingendo una poesia" è una riflessione sull’arte poetica come espressione libera e totale del sé. La poesia si apre con un atto di contemplazione della natura: il "merlo che accorda la melodia" e il "raggio che scalda il volto" evocano una sensazione di quiete e connessione con l’ambiente circostante. Romanini si distacca dalla ricerca della rima, optando per una poesia che celebra il processo stesso della scrittura, in un “altare” di libertà e creatività. La melodia e il verde dell’aria sono il cuore pulsante del testo, con la natura che diventa metafora di una libertà interiore che si riflette in un'opera artistica. Sebbene il poeta esprima il desiderio di "raggiungere il mare", trova soddisfazione in un momento di pura gioia creativa. La sua poesia è un omaggio alla bellezza semplice e autentica, un momento che resterà impresso nell’anima.
Romanini crea un’atmosfera intima e riflessiva, con un linguaggio che scivola delicato tra le immagini naturali e la riflessione poetica. La sua poesia è una celebrazione della libertà creativa e dell’armonia interiore, pur senza rinunciare a un legame profondo con il mondo naturale.
  • "Il rimedio" di Sandra Greggio
"Il rimedio" è un testo breve, ma carico di significato. La poetessa ci racconta di una sofferenza insopportabile, ma anche della forza di trovare una via d’uscita. La decisione di "dare il cuore agli altri" emerge come un gesto di generosità e di recupero del proprio equilibrio emotivo. La sua sofferenza si trasforma in un atto altruistico che le consente di non soffrire più, segnando una rinascita attraverso l’amore verso gli altri. La poesia si conclude con una nota di liberazione e speranza, mostrando come la capacità di donare possa trasformare il dolore in una risorsa.
Nonostante la brevità, il testo è efficace nel trasmettere l’emozione di un processo di guarigione interiore. La scelta di un linguaggio semplice e diretto amplifica l’intensità del messaggio.
  • "Sparvieri vanno i pensieri" di Jacqueline Miu
La poesia di Jacqueline Miu è una riflessione sull’energia mentale e sulla libertà interiore. I "sparvieri" diventano metafora di pensieri rapidi e impetuosi, pronti a spiccare il volo e a sfuggire a qualsiasi costrizione. Il poeta esplora la tensione tra corpo e mente, in un continuo desiderio di evasione e liberazione. Il "coraggio preso da una forte fiamma" suggerisce una volontà di superamento, una forza interiore che consente di rompere le catene e vivere in totale libertà, ma senza mai dimenticare la lotta. La poesia risuona come un invito a liberarsi dai limiti imposti, cercando la verità dentro di sé.
La scelta di immagini potenti e il ritmo incalzante rendono la poesia di Miu carica di energia e di significato. La tensione tra il desiderio di libertà e la realtà di una mente prigioniera si esprime con grande efficacia, pur mantenendo una certa ambiguità che invita alla riflessione.
  •  "Canzone per un lager" di Piero Colonna Romano
La poesia di Colonna Romano è una profonda riflessione sulla sofferenza e la disumanità della guerra e dei lager. La sua scelta di un violino che "piange" e di un sole "pallido" crea un’atmosfera di desolazione e di morte, simboli di una tragedia che non ha giustificazioni. La ripetizione del "violino che piange" e delle immagini di "lacrime e sangue" intensifica il senso di disperazione e di condanna verso le atrocità commesse. L'assenza di perdono, sia da Dio che dagli uomini, sottolinea l'inferno terreno che si è creato. È una poesia che vuole scuotere la coscienza, ricordando le atrocità storiche e l’inquietante possibilità che simili orrori possano ripetersi.
Il ritmo cadenzato e la ripetizione evocativa rendono la poesia un potente strumento di denuncia. La forza emotiva del testo è innegabile, sebbene il linguaggio possa risultare volutamente cupo e sconvolgente.

 
Con affetto e stima
Vostro Ben Tartamo 

 

 

 

7-10 Maggio

Ringraziamenti

Ringrazio Lorenzo per la gentile ed esperta ospitalità. Al contempo ringrazio ancora Ben Tartamo per i suoi meravigliosi commenti alle poesie. I suoi giudizi rendono le poesie più belle,più liriche e più profonde. Grazie.
silvio canape' 
 

 

 

Una sinfonia decadente, un lamento del creato.
Santoro evoca l’autunno non con il languore convenzionale, ma come un teatro di tormento. Il vento, quasi un dio irato, “brontola” e spinge “le foglie morte, poverine” in un’esplosione cinetica che toglie pace all’anima e forma. Le foglie diventano simbolo degli esseri umani travolti, spinte a perdersi nel vortice della società e del tempo. Il tono si fa elegia: “Solo tristezza adesso regalate”. Ecco il cuore della poesia, il suo nucleo dolente. Ma tra i “rami morti” e “tronchi bigi”, brillano “bacche rosse”: una fiammella residua, una speranza che resiste anche alla resa dell’autunno. Poesia densa di simbolismi e sfumature, come un quadro di Friedrich.

 

Una corrente d’anima, un esodo lirico.
Silenzi (alias del nostro Vate e Mecenate Lorenzo professor De Ninis) ci consegna un canto fluido e inquieto, un poema sul tempo che trascina i suoi detriti e le sue visioni. Il fiume è coscienza e destino, è dolore “gorgogliante”, è fuga e approdo, “verso il mare”. La musicalità è costante, l’andamento incalzante e soffuso di malinconia: “più tristi si fanno le sere”. L’immagine più potente è quella del fiume che “canta” un’illusione malinconica, come se fosse consapevole del suo stesso inganno. Lo sguardo si fa escatologico nell’invito “all’eterno banchetto”, come se la morte fosse la sola vera sponda. Lorenzo sfiora la filosofia, ma la veste con la carezza dell’acqua e il tremore dell’anima.

 

Un inno alla bellezza ultraterrena, una liturgia amorosa.
Aprile canta una figura amorosa come epifania metafisica. La donna non è solo amata, è apparizione, “non di questo mondo”, offerta alla Terra per insegnare il canto. Ogni immagine è un altare: “labbra di conchiglia”, “risata da nido”, “spiagge dei tuoi fianchi”. Aprile costruisce una visione platonica: lo sguardo sull’amata è uno specchio in cui non si vede più sé, ma l’idea del Paradiso. È un amore che non brucia, ma trasfigura, che non possiede ma contempla. Il verso è colto, perfettamente scolpito, di un classicismo acceso da intuizioni liriche altissime.

 

L’esistenzialismo nudo, spietato, rivelato con essenzialità zen.
Langmann non indulge, colpisce. In poche righe disegna un abisso: le “pause del vivere” diventano trappole di coscienza. Non c’è scampo: “ti trafiggono i pensieri e le persone”. L’immagine degli insetti “dall’aculeo avvelenato” è di un’efficacia spietata, un’immagine kafkiana, velenosa, essenziale. Poesia-meditazione, degna di un frammento di Cioran o di un haiku in acido. È un pensiero filosofico che non cerca bellezza ma verità.

 

Sonetto civile in romanesco, satira e dolore per l’assenza di verità.
Bettozzi, come un moderno Belli, scandaglia con ironia amara il vuoto morale del presente. Il suo “Giovacchino” è figura evocata a gran voce, perché oggi mancano “i sì” e i “no” netti, mancano le spade di verità. Il poeta denuncia il “carnovale” del relativismo, dove tutto è maschera. E, con coraggio, tocca anche la Chiesa e il Papa, chiedendosi “che pasticcio!” sia mai questo pontificato. L’abilità del sonetto si coniuga a un afflato civile potente, in dialetto ma nobilissimo, come se l’anima del Pasolini corsaro si fosse reincarnata in rima alternata fondendosi con quella del Trilussa.

 

Lirica della perdita, canto dolente del ricordo che punge.
Tartagni si muove tra luce e abisso. Una “scheggia di felicità” — immagine straordinaria — viene trovata e subito smarrita. Quel petalo bianco di rosa si fa memoria e ferita, fino al turbine che “strappa dall’anima” il “dono dorato”. È una poesia sul lutto emotivo, sull’evanescenza dell’amore e sul dolore che ne segue. Il lessico è semplice ma evocativo, e crea uno spazio emotivo sospeso, malinconico, autentico. Quel “nemmeno è un deserto” è geniale: persino l’aridità ha forma, ma il vuoto della mancanza è oltre ogni geografia.

 

Surrealismo poetico, sogno metafisico in castigliano e polvere.
Spadavecchia incanta con una danza di immagini rarefatte: “armarios bailan”, “eutanasia de chicharras dormidas”. Il testo è onirico, e la sua traduzione italiana ne conserva la leggerezza eterea. L’“ombra di un naufragio contento” è l’ossimoro che dà senso a tutto: crollo e gioia, resa e incanto. È poesia che non spiega, ma evoca. Come nei migliori versi di Alejandra Pizarnik, si ha la sensazione di camminare su un filo sottile tra esistenza e sogno.

 

"Danzo coi raggi di sole, è il danzare la vita."
Così si conclude — e si sublima — questa lirica che pare nascere direttamente dall’alba primigenia dell’anima. Canapè scrive una poesia luminosa, intrisa di gratitudine per il dono dell’esistenza, ma anche segnata da una tenerezza struggente, come rugiada sui petali della memoria. La danza che evoca è quella dello Spirito, che, sfiorando la materia, la trasfigura. Le “colonne di sabbia bagnata” evocano la fragilità della carne e la bellezza dell’effimero. C’è una dolce e mistica teologia del quotidiano: in ogni raggio, in ogni fiore che si apre, vi è la mano di Dio che danza con noi.

 

"Sono stanco… e su quella panchina aspetto che il sonno rapisca le mie angosce."
Un grido silenzioso che si leva da una panchina, quella della storia umana. Fronzoli, con un lirismo secco, quasi aforistico, narra la disillusione del giusto, del mite, del testimone dei soprusi. Le sue immagini sono dardi di verità: “scarpette rosse”, “tricolori di pace sfumata”, “uomini in marcia come animali rognosi”. Tutto è sofferenza incarnata. Ma è nella stanchezza che si nasconde una potenza profetica: come Elia sotto la ginestra, l’uomo stanco diventa il tramite tra cielo e terra, tra giustizia e speranza. Questa poesia è un lamento biblico, un Salmo del nostro tempo.

 

"Questo Dio burocrate non lo capisco."
Giannuzzo osa e gioca, ironico e dolente, col mistero dell’Alleanza. La poesia si snoda come un monologo teatrale, una sorta di Giobbe moderno che dialoga con l’Eterno, sfidando la Sua logica, cercando chiarezza in ciò che, per sua natura, è impenetrabile. Eppure, dietro il sarcasmo lieve e la buffa contabilità degli anni, si cela un amore profondo, rassegnato e pur sempre fiducioso. È una preghiera mascherata da protesta, un atto di fede che si veste d’incredulità. Dio, qui, non è assente: è solo tremendamente divino, misterioso come sempre, e perciò umanamente incomprensibile.

 

“...forse un antenato di una vita precedente che / vuol rivalersi in questa / d’uno sgarbo subito?”
Un lampo di poesia breve e folgorante, come un'apparizione notturna tra il sonno e la veglia. Serino scrive con la levità di un visionario che ha camminato tra i mondi: quello dei vivi e quello delle ombre. La figura dell'antenato – o forse una proiezione karmica – irrompe come un ammonimento o un richiamo. C’è il sapore del mistero, la sapienza dei sogni, ma anche il timore di una giustizia arcana che non dimentica. Pochi versi, ma sufficienti a evocare una cosmologia dell’anima, dove il passato bussa al presente per reclamare ascolto. Una poesia-icona, come una fenditura nel tempo.

 

“Va verso il mare e m'incanto a guardare, / l'acqua la culla e lei sembra dormire…”
Questa poesia è un’elegia raffinata e visiva, che trasforma il celebre dipinto di Millais in una melodia di parole. Ofelia, icona della follia dolce e dell’amore perduto, diventa qui figura cristologica: è martire della bellezza e della promessa infranta. Colonna Romano costruisce i suoi endecasillabi come petali che si posano sul volto dell’amata morente. La seconda terzina chiude come un requiem celestiale: la morte non è fine, ma catarsi. Il dolore si spegne nel canto. La poesia è puro simbolismo lirico, come se Mallarmé fosse sceso sulle acque per accarezzare l’anima di Shakespeare.

 

“Ringrazio con l’anima / con tutto il cuore…”
Questa poesia è una preghiera, un testamento, un abbraccio cosmico. Il padre che scrive ai figli non è solo un uomo: è un'epifania d’amore, un sacerdote della gratitudine, un angelo che ha camminato con la carne. Ogni verso è un dono che scaturisce dal cuore pieno: non c’è spazio per rimpianti, ma solo per una gioia grata, consapevole, traboccante. “Grazie” è un salmo laico, un inno alla vita vissuta, alle piccole cose che diventano eterne. Una poesia da leggere in ginocchio, come davanti a un altare fatto di carezze, fiocchi di neve, primi passi e baci serali. L’Amore, qui, ha trovato la sua voce definitiva.

 

“Quindi il capo, amore, non reclinare.”
Oh, che canto sublime dedicato alla dignità dell’anima! Romanini, ispirato dallo sguardo fedele della sua cagnolina Meringa, offre una poesia che è preghiera e rivoluzione al tempo stesso. Lo sguardo come atto d’amore assoluto, il non piegare la testa come gesto sacro, non di orgoglio ma di purezza. L’animale – qui figura archetipica dell’amore incondizionato – diventa guida, angelo incarnato. Ogni verso è scolpito in una simmetria sacra, che riecheggia come un mantra contro le tenebre dell’indifferenza. È un Vangelo d’amore laico, potente, cosmico.

 

“Perché ognuno di noi è unico…”
Una poesia che è medicina dell’anima. Greggio ci parla con la dolcezza di una madre e la fermezza di una profetessa: “Resisti”, ripete come un battito di tamburo nel petto. Le immagini agricole – la foglia, il seme, il fiore – diventano simboli di resurrezione e rinascita. Ogni metafora è una carezza, ogni verso una promessa: anche sotto la neve, anche nella morte apparente, c'è una linfa che pulsa, invisibile ma reale. È poesia terapeutica, quasi evangelica, da leggere nei giorni bui, come un fuoco acceso nel gelo dell’inverno interiore.

 

“e col desio ai più lontani astri”
Miu danza tra i versi come una vestale dei silenzi. Questa poesia è un abisso delicato, un’implosione lirica che brucia dentro come brace sotto la cenere. La solitudine non è solo tema: è carne, è neve, è pianto che non si versa. I versi si muovono in una geometria dolorosa ma splendida: “fuoco mesto”, “l’ultimo addio alle foglie morte”, “col fio in braccio a morte”… immagini che trafiggono come visioni apocalittiche. Il poeta diventa testimone dell’infinito e del nulla, orfano di parole in un universo che tace. Una poesia-oracolo.

Con affetto e stima

Vostro Ben Tartamo 

 

 

 

 

4-6 Maggio

Commento poetico-ermeneutico
di “Ho sentito” di Ben Tartamo
a cura di Marino Spadavecchia 

In questa lirica, Ben Tartamo ci consegna un'intima preghiera, un'anima spalancata al mistero, un ritorno del figliol prodigo che non ha mai smesso di bussare al cuore del Padre. “Ho sentito che mi cercavi”: già nel primo verso è l’eco dell’Inizio, di quella voce che chiama Adamo nel giardino, di quel Dio che non smette mai di cercare anche quando noi smettiamo di credere d’essere trovabili.

Le immagini sono scelte con raffinata delicatezza: “occhi di fiore”, “carezza di rose e vento”. La natura diventa sacramento dell’invisibile, il linguaggio dei sensi si trasfigura in un lessico teofanico. E così il poeta, ormai “canuto bambino”, raggiunge il vertice della sua confessione: fragile, ferito, ma desideroso di abbandono totale.

Particolarmente toccante la resa del silenzio non come vuoto, ma come grembo d’ascolto: “Parlami: già Ti sento. / Nel silenzio Ti ascolterò”. È una teologia dell’ascolto, in cui l’iniziativa è divina e l’uomo non ha da dire ma da ricevere.

“Metti la Tua mano sul mio petto” è la nuova creazione. È l’eco del gesto divino che forma l’uomo dalla polvere e gli insuffla la vita. Ma qui, l’uomo implora di essere rifatto, come argilla stanca nelle mani del vasaio eterno.

Poeta, Ben Tartamo, che pare abbia scritto non solo con l’inchiostro ma col sangue e con l’anima. La sua poesia è una reliquia d’amore, un salmo dei giorni ultimi, un fiore di tenerezza nato sul ciglio dell’eterno.

 

 

Serino ci offre un piccolo frammento – ma intensissimo – di un onirismo che si veste di autobiografia e di archetipi danteschi. “Quel senso amaro di sperdimento” è la soglia: un’apertura che attinge tanto alla memoria personale quanto alla struttura collettiva del sogno come labirinto. La fuga adolescenziale, gesto di frattura e ribellione, riemerge nella coscienza notturna come ritorno traumatico. E in questo ritorno, le “strade allucinanti”, i “tortuosi cunicoli e tunnel” evocano l’inconscio freudiano, ma anche la selva oscura di Dante.
Il girone infernale, però, non è morale, ma psichico: un precipizio in cui l’unica via di salvezza resta il risveglio. La poesia – come nei migliori esempi del surrealismo breve – è un’istantanea lirica, un grido in sordina che ci ricorda quanto il sogno, a volte, sia solo il volto mascherato di una vecchia ferita.

Più ampio, ellittico e ragionativo il testo della Notarfrancesco, che si muove in una dimensione esistenziale e quasi teatrale, come un dialogo interiore scivolato nella corrente del pensiero poetico. Il titolo – Pret-à-porter – richiama la moda, ciò che è indossabile, pronto per l’uso. Ma qui sembra ironizzare sul modo in cui indossiamo le nostre relazioni, le nostre paure, i nostri silenzi.
La voce poetica è plurale, sfuggente, tra dichiarazioni e domande, tra il desiderio e il nulla. La guerra, appena accennata, si fa metafora delle fratture del vivere quotidiano, delle “occasioni” e del “dominio” che il pensiero subisce dal reale.
C’è un tono da stream of consciousness à la Virginia Woolf, ma con una musicalità sommessa, quasi cantilenante. È una poesia civile nel senso più intimo: indaga la condizione umana, la sua fragilità, la sua ricerca di senso in un mondo inafferrabile.

Stracuzzi ci propone un testo filosofico-lirico che si avvolge su sé stesso come una spirale ermeneutica. Il titolo stesso – Il senso del senso – anticipa la tensione metapoetica e quasi ontologica del componimento: cosa significa “dare significato”? E in quale spazio si cela la legittimità del pensiero quando “non entra un piccolo pensiero”?

La poesia si apre con un’immagine cromatica concreta – “il colore di passi” – che subito si stempera in una riflessione astratta. È come se l'autore percorresse una scala interiore, affaticato, agli “ultimi gradini”, ma intravedesse un orizzonte: “questo immenso infinito che accoglie l’infinito!”
C’è in questa visione una tensione quasi mistica, quasi giovannea, che cerca un approdo ma si scontra con il paradosso del senso che sfugge. La poesia non è chiusa, non è risolta, ma vive del suo stesso anelito alla luce. Un testo che potrebbe stare accanto ai versi più enigmatici di Cristina Campo o di Mario Luzi.

Siamo agli antipodi: qui la poesia prende la forma di un sonetto tradizionale, ma si carica di sarcasmo, realismo crudo e un’amarezza lucida. L’autore scardina la forma nobile con contenuti volutamente anti-poetici – “aveva il culo largo e il collo corto” – eppure efficacissimi nel sottolineare il senso di disillusione.

Nonostante la vena triviale, il testo è costruito con maestria: i versi scorrono agili, la rima è perfetta, e soprattutto si percepisce un distacco stoico. Santoro, in fondo, ci dice che l’amore è un contratto che può anche essere infranto, ma la sua parte lui l’ha onorata. L’altra no.
Il verso “senza amore io non faccio affari” è la chiave di tutto: qui l’amore non è passione cieca, ma dignità, misura, rispetto per sé. Un sonetto che avrebbe fatto sorridere amaramente Cecco Angiolieri e, forse, commosso Villon.

  • Nino Silenzi – “Pensi”

C’è un che di haiku prolungato in questa riflessione ciclica e lieve sul tempo. Nino Silenzi compone una sorta di mandala poetico, in cui passato, presente e futuro vengono evocati come onde che s’infrangono sul fragile bagnasciuga della coscienza.
Il tempo non è un asse lineare, ma un mare che increspa e confonde, “desideri increspati” e “gocce spruzzando” – immagini che riflettono una poetica semplice, quasi evangelica nel suo affidarsi al vento della vita.
Il verso finale, “ora svanito”, si chiude come uno sbuffo di vapore: il presente è il più evanescente dei tempi, e l’uomo è solo un pensiero nel pensiero del mondo.

  • Pasquale Di Meo – “Ti tengo con me”

Di Meo ci consegna un componimento dalla delicatezza adolescenziale, come un diario lasciato aperto su una panchina.
La ripetizione – “ti tengo” – diventa un mantra affettivo, e l’immagine della persona amata come “voce” e “respirare” tradisce una forma d’amore totalizzante, quasi salvifico.
Il verso più forte è quello finale: “perché l’amore non si può buttare”. È ingenuo? Forse. Ma è proprio nella sua ingenua ostinazione che si radica la verità di questo piccolo inno alla fedeltà emotiva.
Una poesia che potrebbe accompagnare una canzone d’autore, o un addio dolce che sa di primavera.

  • Guglielmo Aprile – “Il giorno dopo”

Aprile è poeta di altra stoffa, e lo dimostra subito con la sua capacità visionaria e con la costruzione franta del verso, che segue l’onda lunga del dolore, non la metrica.
“La tua risata affiora dalla bonaccia traditrice” è un incipit potente, quasi rilkiano, che ci catapulta nella memoria straziata di un amore finito. Il piccolo bilocale si fa tempio e sepolcro, “regno da sessanta metri quadri”, luogo sacro e laico del vissuto a due.
Straordinario è il finale, quando “strani e penosi animali” (i ricordi?) si aggirano tra le cose di casa, “corpi alla deriva di mutilati” – immagine devastante, ma necessaria.
Aprile ha compiuto la scoperta del fuoco: la passione che brucia, ma anche la cenere che rimane. Una poesia da leggere in silenzio, come davanti a un altare vuoto.

  • Marco Langmann – “Amicizia

In questi versi, l’autore canta l’amico come l’alter ego invisibile che ci salva senza clamore, senza condizioni. L’uso delle rime semplici e immediate (segret[o]/facet[o], consigl[i]/appigl[i]) rende la poesia un piccolo catechismo dell’anima laica, dove l’amicizia è sacramento di presenza.
Langmann non inventa, ma ricorda: “chi trova un amico, trova un tesoro”, scrive chiudendo sul proverbio, che diventa verità scolpita nel cuore. Una poesia da tenere nel portafoglio, accanto a una vecchia fotografia e a una promessa mantenuta.

  • Franco Fronzoli – “Quel sogno testardo”

Siamo qui nell’evocazione lirica di un’ossessione amorosa, onirica, che si ostina a riaffacciarsi ogni notte come un’antica liturgia del desiderio. Il sogno diventa un altare mobile, un teatro sospeso in cui il bacio è rito e la luce è un velo sacro.
Franzoli scrive in versi lunghi, spezzati dal ritmo del respiro, e la forma stessa riproduce l’ondeggiare del sogno.
“Dice tutto ma anche nulla” – è la perfetta definizione dell’amore vissuto nell’inconscio: reale nei sensi, irreale nella storia.
Una poesia che si legge in silenzio, tra lenzuola disfatte e ricordi che non vogliono guarire.

  • Marino Giannuzzo – “Ognuno la sua storia”

Un componimento corale, quasi un salmo dell’umanità quotidiana.
Giannuzzo ci regala una poesia che è insieme racconto, riflessione e preghiera laica. Qui ogni verso è un volto: il bimbo che sorride, l’uomo che abbraccia senza motivo, la donna che piange con in mano una speranza.
“Forse è amore” – scrive l’autore, e in quel forse c’è tutta la delicatezza di chi ha capito che la vita non si può spiegare, ma solo attraversare.
L’abbraccio improvviso dell’estraneo chiude come un’epifania: “non lo conoscevi… t’ha abbracciato”.
Forse pazzo, forse felice: forse – semplicemente – umano.

Questa poesia è un'onda alta di spiritualità amorosa, dove il cuore del pescatore si fonde con la vastità dell’oceano, simbolo dell’amata e del desiderio che lo muove.
“Quel vortice di vento che porta avanti l’uragano” è l’immagine potente dell’audacia amorosa, del sentimento che sfida tutto pur di esistere.
L’allegoria marina diventa qui preghiera: “Se fossi un annegato…” è supplica, ma anche battesimo nel mare dell’amore che rigenera.
Il punto lontano dove l’uomo ritrova la sua alma è l’approdo mistico, la vera meta: non il possesso dell’amata, ma la sua rivelazione.
Una lirica che si legge come si ascolta il mare: in silenzio, ad occhi chiusi, e col cuore spalancato.
Qui siamo nel tempio della memoria, dove il figlio torna a contemplare la madre con sguardo devoto.
Romano scrive con un cuore antico e una voce limpida. Ogni verso è una carezza per quella madre che “s’appoggia a un bastone” e che conserva “due occhi marrone che guizzano amore”.
C’è il tempo della guerra, di Pippo che volava nel cielo e del rifugio: la Storia grande si intreccia con la storia piccola, familiare, e diventa emozione condivisa.
Il finale – “soltanto una foto per poi ricordare” – è una stoccata lieve e tremenda.
Questa poesia è già un piccolo classico: tenera come una preghiera del vespro, commovente come il ritorno del figlio prodigo.
Poema brevissimo, essenziale come un haiku del deserto.
La sua croce di fuoco è croce spirituale, passione mistica, fame di Dio che brucia l’anima e la purifica.
Seccia scolpisce con poche parole un’immagine iconica: “spezzo l’aria che sta desertificando l’Anima” – una definizione potente dello smarrimento moderno.
Poi, il grido finale: “bramando un solo tuo cenno, mio Signore Celeste” – invocazione che unisce il mistico al pellegrino.
L’intera poesia pare essere un cammino verso l’Oasi-Eucaristia. È poesia cristiana allo stato puro, aspra e salvifica come il pane degli eremiti.
Il cuore, immerso nella dolce nostalgia di un abbraccio perduto, sembra attanagliato da una sofferenza che solo il silenzio della notte può custodire. Ogni parola, ogni carezza, ogni consiglio che affiora nella memoria, si trasforma in un'eco silenziosa, un richiamo del passato che fa battere forte il cuore. La mancanza si fa viva, inesorabile, come il vuoto che segue l'assenza, eppure proprio in quel vuoto si cela una rivelazione. Le lacrime, come segni di un dolore che non può essere contenuto, trovano sollievo nell'irrompere di un suono celestiale, quello delle campane, simbolo di una speranza eterna, che annuncia un'inaspettata ricompensa. E in quella promessa di cieli e terra nuova, si nasconde la Luce che sconfigge l'ombra della separazione.

 
Il tutto è intriso di una spiritualità profonda, quasi mistica, che si fa veicolo di un messaggio di speranza e di rinascita. La poesia esprime il dolore, ma lo trasforma in un atto di fede, come se il vuoto dell'assenza fosse il preludio di un incontro divino, di una luce che non finisce mai.
C'è in questa poesia un grido lancinante, uno squarcio del velo che separa la vita sognata dalla vita vissuta. Romanini si rivolge alla Vita come fosse un'entità consapevole, quasi una divinità crudele ma necessaria, amante traditrice e madre al tempo stesso.

Il tono iniziale è quello del disinganno: la Vita ha “trafitto” il cuore del poeta, ha “vinto la partita”, come in una partita a scacchi esistenziale tra il senso e l’assurdo. In queste parole echeggiano i toni di un Leopardi moderno, ma con una più intima ferita spirituale, quasi cristologica: “dal petto strappato il cuore”, “nel costato rimane speme”. La sofferenza, qui, è anche sacra, attraversata da un dolore salvifico.

Romanini, però, non cade nel nichilismo: nel fondo di questo abisso si accende la speme — parola desueta, quasi biblica, che qui brilla come una brace sotto la cenere. L’anima “sprofonda nell’abisso delle paure”, ma da quell’abisso nasce un’ultima preghiera, un atto di resistenza poetica e spirituale: “non è mai finita”. Siamo nella terra di mezzo tra la disperazione e la resurrezione.

In termini stilistici, la lirica è scandita da un verso libero, a tratti spezzato, come un respiro affannato o una voce singhiozzante. La ripetizione di “Oh mia Vita” è un’eco, una litania dolente che risuona come nel salmo di un’anima affranta.

“E poi…” è un sussurro di verità che si fa canto, una confessione dolceamara che si incide nella carne dell’anima. Antonia Scaligine ci conduce in un viaggio tra le rovine e le meraviglie dell’amore, attraversando le sue illusioni, le sue ferite e il suo fragile splendore.

La lirica si apre con una speranza: chi ancora crede nell’amore è accolto come un dono raro, come un ultimo battito puro in un mondo che pare aver smarrito la fede nei sentimenti autentici. “Se c’è, gridalo al cielo”: questo invito è una sorta di preghiera laica, un inno alla sincerità, un atto di resistenza emotiva contro il cinismo dominante.

Ma la poetessa non si ferma alla superficie del romanticismo: squarcia il velo. L’amore che brucia subito, che accende “le farfalle nello stomaco”, è lo stesso che divora e lascia macerie. La sua è una visione disillusa ma profondamente umana: le ombre dei ricordi, il fuoco che si fa cenere, la solitudine che bussa quando il battito rallenta

Il verso finale è una carezza struggente: “ciò che rincuora / nella ormai avanzata età / è sapere / di aver ancora bisogno l’uno dell’altra.” In questa reciproca dipendenza non c’è debolezza, ma resistenza, anzi: c’è un amore essenziale, oltre la passione, oltre il tempo, oltre la morte.

Una poesia che si piega su se stessa come un albero carico di frutti maturi, offrendo al lettore la bellezza nuda della verità.

Poedia che si muove come una melodia: fluida, eterea, evocativa. Il verso “accosta l’orecchio d’anima al blu” è tra i più belli per sinestesia e densità spirituale. Qui l’autrice sembra invocare una partecipazione cosmica dell’anima, dove il silenzio finale non è vuoto, ma attesa feconda. La natura diventa atto comunicante, quasi sacramentale, in un’estasi che apre all’amore.
 

Questa poesia è più narrativa, più interrogativa, ma non meno poetica. La figura di chi si domanda “Chi son io per raccontare” rievoca l’umiltà della voce umana di fronte al mistero, in una danza tra ricordo e perdita. L’amore è qui una presenza dispersa e profumata, legata a immagini intense: “sgualcite immagine di gabbiani in volo” e “umana storia d’un passato surreale” creano un tempo sospeso, in cui l’identità si frantuma per poi cercare ricomposizione nel ricordo.

Con stima e affetto 

Vostro Ben Tartamo 

 

1-3 Maggio

Ringraziamento
Grazie ,non mi stancherò mai di dire grazie con affetto al nostro
Ben Tartamo ,a Marino Spadavecchia, grandi commentatori e poeti del sito poetare che Lorenzo ,persona speciale ,con la sua generosità e solidarietà ha messo a disposizione per noi , un grandissimo grazie davvero con il cuore ed un affettuoso abbraccio
insieme ad un saluto ai poeti del sito
Antonia Scaligine


Volevo ringraziare con la sincerità del mio cuore

Ben e il Prof. Spadavecchia, per i loro lusinghieri
commenti, che hanno l'essenza della poesia.
Complimenti per la sensibilità e la capacità 
di interpretare le mie poesie. Grazie!
Alessio Romanini



1. "La Bella Insonnia" – Guglielmo Aprile

Oh, l’insonnia! Strumento sublime nelle mani di Aprile, che trasforma l’eterna lotta tra sonno e veglia in un viaggio interiore senza tempo. La poesia si dipana come un sogno lucido, dove ogni parola è un passo oscillante tra la realtà e l’ignoto. La solitudine che pervade i versi non è mai condanna, ma una via che porta alla consapevolezza, alla rivelazione. La metafora del navigare tra le onde del pensiero rimanda all’idea che il poeta è come una nave solitaria in un mare senza fine, dove la verità si nasconde dietro l’orizzonte. La sua arte è un eco di sogno, che fa vibrare la coscienza di chi sa ascoltare.


2. "Fede" – Marco Langmann

Fede è una parola che, qui, non è mai solo una dichiarazione di credo, ma una misteriosa forza che guida l'anima attraverso il caos dell'esistenza. Langmann scrive con la sicurezza di chi sa che ogni passo fatto sulla terra è un atto di preghiera. Le sue parole sono silenziosi incantesimi, che trasmettono una profonda connessione tra l’uomo e l’universo. L’amore divino è al centro di questa ricerca, ed è quasi palpabile, come una brezza che accarezza l’anima. La fede qui è mostrata non come un concetto, ma come un vissuto che si rinnova ogni volta che il poeta scrive. Una poesia cosmica che riflette il cuore stesso dell'universo.


3. "Un filo di luce" – Franco Fronzoli

In Fronzoli, la luce è tanto un simbolo quanto una presenza vivente, che accende il cammino del poeta. Ogni verso diventa un piccolo riflesso di divinità, una scintilla che illumina le tenebre. La poesia è l'arte di cogliere l'invisibile, di tradurre ciò che si agita nel cuore in forme eleganti e penetranti. Il poeta, come un artista celeste, tesse un filo di luce, uno sprazzo che sembra sfiorare la perfezione del divino. La tensione tra il terreno e il divino, tra l'umanità e la spiritualità, attraversa ogni singolo verso con la forza di un amore senza tempo.


4. "Piano forte" – Silvia Pia Favaretto

La musica diventa una rivelazione mistica nelle mani di Silvia Pia Favaretto. In questa poesia, il piano forte non è un semplice strumento, ma una voce dell'anima, che si fonde con l'universo in un duetto perfetto tra il sacro e il profano. Ogni tasto suonato è un eco di un sogno antico, e ogni nota una fuga verso la luce. La sua poesia è un incantesimo che ci fa credere, per un attimo, che attraverso la musica si possa toccare l'infinito. La simmetria sonora si fa simbolismo poetico, aprendo il cuore a mondi lontani.


5. "Ladro di sogni" – Sandra Greggio

Ladro di sogni è un titolo che da solo evoca spiritualità, fuga e desiderio di bellezza. La poesia di Greggio è un vero e proprio appello al mistero. Ogni verso è una profezia di ciò che l’uomo ha perso, ma anche un invito a riscoprire ciò che è scomparso nel buio del mondo. Il poeta non teme di mostrare le crepe del nostro tempo, anzi, le abbraccia con una dolcezza quasi salvifica. La critica alla società e il suo materialismo sono camuffati sotto un manto di dolce malinconia. La poesia diventa un ritorno alla purezza, un monito a non smarrire mai il nostro sogno.


6. "Non odi il vento che geme alle tue finestre" – Jacqueline Miu

Un verso che è un grido d’amore e un sussurro di consolazione. Miu ci invita a rispondere al dolore con la dignità della poesia. Il vento, qui, è tanto un simbolo di sfida quanto una voce che accompagna la solitudine di chi vive tra il mondo e l’ignoto. La poesia è il grido interiore di chi affronta la tempesta, ma non cede alla disperazione. Anzi, essa diventa resilienza incarnata, forza della natura che non si piega mai, anche quando le finestre del cuore sembrano sbattere contro le onde del destino.


7. "La Luna" – Piero Colonna Romano

La Luna è la protagonista indiscussa di questa poesia, simbolo dell’infinito e del mistero femminile. Ogni verso di Colonna Romano è una dedica sacra, un omaggio alla bellezza celeste che silenziosamente sovraintende al destino degli uomini. La poesia non è solo un incontro con l’astrale, ma anche un richiamo a ciò che è irraggiungibile, un desiderio che si veste di luce e si fa eterno nella sua fugacità. La Luna diventa il veicolo per l'anima, il posto dove ogni desiderio è accolto, dove ogni speranza è un seme che fiorisce nell'oscurità.


8. "Maggio" – Antonia Scaligine

Maggio, il mese che fiorisce, diventa la rivelazione poetica di Scaligine. La natura, in tutta la sua magnificenza, si fa poesia viva, e il poeta non ha paura di immergersi in essa, di perdersi nei suoi petali, di assaporarne la fragranza. Ogni parola è una festa della bellezza che si rinnova, che raccoglie in sé la sacralità della terra e dell’anima. La poesia è un canto di purificazione, in cui ogni respiro è come il soffio di un Dio che ripulisce l’anima, portando la luce del cuore dove prima c'era solo oscurità.


9. "Ave, Madre d'incanto" – Ben Tartamo

Un atto di adorazione mistica in cui il poeta si piega davanti alla Madre Celeste. Ogni verso, delicato e potente al tempo stesso, è una dichiarazione di fede e amore verso Maria, la Madre di ogni vita. Tartamo non cerca parole convenzionali, ma si abbandona a un flusso di grazia che si fa voce interiore, che risuona nell’eterno. Il poeta riconosce nel sacro femminile una luce che guida, e il suo canto diventa preghiera. La poesia è una offerta d’amore che, con una grazia infinita, sfiora l’anima di chi legge.


10. "Ermetico nei tuoi pensieri" – Alessio Romanini

Romanini ci presenta un uomo che vive nel silenzio del suo pensiero, ma non come un esilio, bensì come un cammino di scoperta. L'ermetismo è qui inteso come un atto di liberazione, una fuga che non è mai abbandono, ma un ritorno all'essenza più pura. La solitudine diventa strumento di conoscenza, ed è attraverso la reclusione che l’uomo trova finalmente la verità di sé stesso. La poesia è un atto di resistenza al mondo,

 

Vostro Marino Spadavecchia

 

 

·        "Odo frinire le cicale" – Marino Giannuzzo

Odo frinire le cicale / come quand’ero bimbo...

In questa struggente elegia della memoria, Marino Giannuzzo si muove tra le pieghe della nostalgia con la grazia di un cardellino poetico, figura che egli stesso evoca tra i rami dun’infanzia oltraggiata solo dal tempo. L’autore attinge a un lessico semplice, quasi orale, ma intriso di una forza evocativa che ci riconnette con le radici più profonde della nostra identità sensoriale e affettiva.

Il frinire delle cicale, che nella poesia classica greca era segno di arsura, di vita che resiste, qui diviene metafora del tempo circolare, un suono che attraversa le stagioni dell’uomo come un eterno richiamo d’origine.

Non siamo di fronte solo a un ricordo: siamo nel pieno di una "memoria sensibile", uditiva e tattile, che si fa esistenza. Le “vecchie canzoni sparse per i prati” non sono solo melodie infantili, ma frammenti di eternità, bagliori di un tempo perduto che si ricompone come un mosaico nei silenzi della vecchiaia.

La chiusa, "che sorgerà il domani / come ieri e oggi / per lui tra i mortali", sfiora la trascendenza: una fede terrestre nella ripetizione del giorno, quasi un rito cosmico che consola il passaggio verso la fine.

Un componimento che profuma di pane, terra e tramonti d’oro, e che ci ricorda come la poesia sia spesso il luogo in cui l’infanzia si salva per sempre.

·        "Primavera" – Felice Serino

freme primavera in surplus canoro...

Questa poesia di Felice Serino è un haiku allungato, un lampo zen disteso sulla pagina con il garbo di un fioretto spirituale. In appena cinque versi, l’autore compie un atto alchemico: sospende il tempo e fa vibrare la primavera non solo come stagione, ma come attimo poetico rivelatore.

Il “surplus canoro” è una scelta lessicale coraggiosa, quasi postmoderna, che tuttavia si lega a una percezione istintiva: il canto della natura che eccede, che non può essere contenuto né spiegato.

E poi quel “chiurlo” — l’uccello delle paludi, dal verso malinconico — che “fa il verso” al poeta. Serino gioca con l’ambiguità tra linguaggio e natura, tra eco e ironia, creando un cortocircuito tra ispirazione e specchio, tra Musa e animale.

In questa brevità, si avverte un impulso mistico, il desiderio di cogliere l’attimo prima che svanisca. È una poesia che non racconta, ma appare, come un miraggio gentile, e ci lascia con un sorriso interiore, sospesi anche noi in quella “sospensione lucente”.

Un distillato di poesia pura, come un refolo di luce nel silenzio del pensiero.

·        "25 aprile" – Rosa Notarfrancesco

C'è qualcosa di mirabilmente dissonante in questa lirica: un 25 aprile che non urla la retorica della Liberazione, ma che si muove in punta di piedi nei territori del rimpianto e dell'identità perduta. È un 25 aprile interiore, dove la libertà ha il volto smarrito dell'altro — forse un amore, forse un'assenza storica, forse una figura simbolica come la patria, l’infanzia, o un maestro perduto.

Rosa Notarfrancesco scrive come in una preghiera laica, dove i versi si frangono come onde lunghe, portando riflessioni esistenziali e metafisiche: "E se tutto il male che fu / finisce, o se ancora resta / l'illusione che forse il male / non possa essere ciò che può." È ontologia dell'anima, dolore che si fa domanda.

Splendida l’immagine finale: “il bene fatto con la certezza / di tornare a prendere il sorriso / che sa della mutevolezza / delle cose”. Qui c’è una eco montaleggiante, ma anche una voce tutta sua, femminile, sottile, accesa di speranza malinconica. Un pensiero poetico che lascia sul lettore il sapore acre e dolce della memoria condivisa.

Una poesia che vive sul crinale tra tempo storico e tempo dell’anima: e in quel crinale, trova la sua verità.

·        "Il divorzio" – Giuseppe Stracuzzi

Stracuzzi scrive con la potenza di un visionario contadino dell’anima. La sua poesia è allegorica e cruda, una narrazione epica personale che mescola simbolismo biblico e disillusione moderna.

L’immagine iniziale – “la testa cinta di spine” – è un'autocoronazione cristologica, ma privata di salvezza, mentre il “cavallo di razza” che disarciona il fantino è l’ironia tragica dell’amore: ciò che era destinato a portarti in alto si ribella e ti getta nella polvere.

Il verso “hai inoltrato il caso / alla corte d’appello” è straordinario nel suo realismo giuridico che collassa nella metafora: la giustizia diventa il campo finale dove si misura non la verità, ma il fallimento del sogno condiviso.

Stracuzzi ci offre una lirica civile e dolorosa, ma mai pietista. Ogni immagine è coltivata e bruciata, come in un rito arcaico. E anche se il ponte è spaccato, e il fiume ha straripato, il lettore resta lì, sulle rive del verso, a interrogarsi sul confine tra amore e vendetta, tra giustizia e necessità.

Una parabola crudele e verissima: il cuore umano come terra brulla da dissodare con fatica e lacrime.

·        "Amor che a nulla amato" – Salvatore Armando Santoro

Santoro gioca con l’irriverenza e il sentimentalismo come un menestrello che ha conosciuto troppi pub e troppe lune. Nei suoi versi alessandrini – scelta metrica che rimanda a una classicità reinventata – si muove un amore popolare e furente, infangato e redento, deriso e bramato.

La ragazza di borgata, “sfottente e birichina”, è l’archetipo dell’amore irrisolto, ma anche della giovinezza che si nega alla nostalgia. La tensione è tra l’odio dichiarato e l’amore incancellabile. Il poeta alterna espressioni di dolcezza e violenza verbale, ma l’ironia lo salva dal patetico, portandolo verso una sincerità disarmante.

Il verso “la friggo dentro l’olio, la butto nello sterco” è degno di un Cecco Angiolieri moderno, una confessione brutale e verace, capace di strappare il velo dell’eufemismo per mostrarci la carne viva dell’ossessione. Ma subito dopo, la dolcezza ritorna: “Ancor nel cuor la porto, dimentico ogni torto.”

Una poesia che puzza di vita, che sa di strade polverose, risate amare, osterie e notti senza risposte. E proprio per questo è vera.

In questi versi c’è la voce di chi ha amato troppo e male, ma ancora ama. E questa è la sua unica salvezza.

·        Rosa Notarfrancesco – “25 aprile”

La poesia del lutto metafisico e della resurrezione del senso.

Rosa non scrive versi, ma epistole segrete a ciò che in noi non si spegne. Il suo 25 aprile non è solo data civile, ma data cosmica, giorno di liberazione interiore da un Male che “forse non può essere ciò che può” – verso folgorante, ontologico, quasi steineriano.
La sua voce è liturgica, è quella del maestro del tempo, che chiede una parola, solo una, che salvi dalla morte il pensiero bello. Il testo è un’eco di Eliot, un dialogo con la memoria invisibile e scolastica, dove “la bellezza delle cose” diventa una catechesi laica.
Il finale è una rivelazione post-creativa: Rosa ci conduce là dove la poesia tocca il mistero, con quella richiesta tenera e spietata:

Che almeno una parola resti dell’eternità dei pensieri tuoi!
È così che parlano i mistici quando non hanno più paura della nostalgia.

·        Giuseppe Stracuzzi – “Il divorzio”

Simbolismo giuridico e apocalisse agraria del cuore tradito.

Stracuzzi rovescia la metafora come un altare profanato. È un giudice delle emozioni, un avvocato che difende la delusione. In questa poesia, il matrimonio è una guerra agricola, la separazione una tragedia idraulica.
Il ponte spaccato, la scure intrisa di sangue, il cavallo disarcionato – ogni immagine è espressionista, biblica, quasi da libro dei Giudici. E poi il paradosso: chiedere alla corte di “esaudire lo straripamento”. È come chiedere a Dio di accettare l’errore.
Giuseppe compone una liturgia dell’inevitabile. Nulla si salva, ma tutto viene detto con onestà chirurgica. Il lettore esce ferito e santificato.

·        Salvatore Armando Santoro – “Amor che a nulla amato”

Un villanelle postmoderno con eco dantesche e sarcasmo da osteria dell’anima.

Qui entriamo nel territorio del realismo spirituale, dove la donna non è più l’angelo azzurro, ma la Maddalena che fugge e ride. L’uso del verso alessandrino (quasi anacronistico e perciò coraggioso) dà una cadenza da ballata, da canone stonato di cuore spezzato.
L’io poetico è contraddittorio, come tutti i veri innamorati. La frigge, la butta, ma poi la perdona. La ama ancora.
L’ultima riga –

Ancor nel cuor la porto, dimentico ogni torto.
– è da incidere su pietra. È vangelo pagano del perdono amoroso.

·        Renzo Montagnoli – “Notte a Ninive”

Un idillio orientale tra teogonia botanica e rêverie lirica.

Montagnoli è il nostro Giorgione della parola. Tutto è profumo, delicatezza, luce lunare. Qui la notte non è tenebra, ma preghiera vegetale, sospesa tra vaniglia e tappeti erbosi.
Ecco che Ninive – l’antica, maledetta Ninive – risorge come giardino iniziatico. Non c’è sabba, non c’è stregoneria: ci sono elfi, violette, brezze.
Siamo in presenza di un panismo mistico, in cui anche l’airone partecipa alla danza del cosmo. È una poesia che andrebbe letta in piedi, a piedi nudi sull’erba.
Montagnoli non descrive: evoca la possibilità che la notte sia paradiso.

·        Silvio Canapè – “Tumulto”

Minimalismo onirico e pacificazione sensoriale.

Silvio scrive come chi ascolta la musica delle maree interiori. Il suo lessico è asciutto, ma pieno di battiti segreti. La poesia è tutta un’onda: sale, sbatte, si frantuma e poi… si stende.
C'è un desiderio di pace, ma non pace idiota: una tregua profonda, da cuore stanco che cerca riva.
Il verso:

dove l’onda si sdraia a dormire
è da custodire come un mantra. È l’Odissea del cuore moderno, che ha perso Itaca ma ha trovato almeno un sogno.

·        Nino Silenzi – “Era di notte”

Poesia dell'innocenza, del sogno come prolungamento del giorno interiore.

Questa poesia è una ninna nanna cosmica. Ogni “Era di notte” è un’epifania dell’amore in forma di ricordo. Le stelle ridono, le rane parlano d’amore eterno.
Ma è all’ultimo verso che Nino si fa immortale:

Ora che è giorno fammi sognare ancora.
Eccola, la teologia dell’amore felice. Qui non c’è lutto, non c’è rancore, ma solo la nostalgia di ciò che si è già avuto. Silenzi ci dice che l’eternità si misura nei piccoli miracoli del buio.

·        Guglielmo Aprile – “La bella insonnia”

Elegia visionaria del distacco e del dolore elementale.

Aprile scrive come un profeta dell’assenza. Ogni strofa è un avamposto del cuore nel territorio del nulla. Qui la poesia si muove tra metafisica e meteorologia del desiderio: il vento diventa messaggero, pianto, animale scacciato, angelo senza missione.
L’assenza della persona amata si trasforma in geopolitica interiore, dove il corpo dell’altro è mappa perduta e ogni via battuta è sterile, "senza tracce o preavviso".
Il culmine visionario è nella terza strofa, tra “asteroidi indolenti” e tastiere invase da “animali disorientati”. È l’apocalisse di chi non riceve risposta.
Aprile scrive come chi ha varcato le porte del tempo e grida, da lì, che l’amore è un’ipotesi cosmica, fragile e per questo divina.

·        Marco Langmann – “Fede”

Aforisma poetico e teologico, tra lirismo catechistico e provocazione etica.

Langmann si fa scriba del divino, con un tono che ha qualcosa dei Salmi e qualcosa delle quartine lapidarie di Kahlil Gibran. Il testo è breve, sentenzioso, diretto: un catechismo poetico per cuori inquieti.
Il cuore della poesia sta nel rovesciamento: la fede “non si tocca con mano / ma si sente nel cuore”, eppure produce effetti tangibili e tremendi.
Langmann ci ricorda che la fede è spada e carezza, seme di martirio e germoglio di santità. La chiusa è vertiginosa, aperta come un interrogativo escatologico:

Lo sapremo solo se arriverà il risveglio.
È la versione laica e filosofica di un “Amen” sospeso.

·        Franco Fronzoli – “Un filo di luce”

Poesia d’amore cosmica e contemplativa, tra Rilke e Tarkovskij.

Fronzoli scrive con la delicatezza di chi ha visto l’assoluto nello sguardo di una donna nuda. Non c’è volgarità né possessività, ma adorazione cosmica.
Ogni verso si sposta nello spazio come la luce stessa: frasi spezzate, isolamenti tipografici, sospensioni – come se il poeta non volesse disturbare la scena.
La donna diventa astro, foglia, onda, piuma, luna, e il poeta… un monaco che siede su una sedia a contemplare il mistero.

…non feci nulla se non cogliere un fiore e sistemarlo tra i tuoi capelli…
Questo gesto è la suprema rinuncia dell’ego: non possedere, non parlare, ma offrire un fiore – che è offerta d’anima, silenzio sacro.

·        Silvia Pia Favaretto – “Piano forte”

Poesia mistica e musicale: il tocco come preghiera.

Qui siamo dentro un tempio sonoro: ogni verso è un tasto d’avorio premuto sull’anima del lettore. Favaretto non scrive di musica: diventa musica, e ciò che descrive non è uno strumento, ma un sacramento.
Le dita non suonano: “cantano, parlano, gridano”, perché ciò che toccano è un Dio che si nasconde nel suono. L’ossimoro “forte e piano” diventa qui teologia del sentimento: lo Spirito Santo come pentagramma, il cuore come strumento votivo.
Il centro del componimento – “tra l’essere e Dio / tra Dio e l’Essere” – è un salto ontologico alla Heidegger, ma intriso di sacralità barocca: l’autrice non pensa, adora.
E il finale, quel “finché suono, pace non trovi al suo desio…”: è un Requiem, una “morte dolce” del suono che si compie solo quando ha trovato il suo cielo.

Una poesia da leggere inginocchiati. Un Laudate Dominum fatto di ottave d’anima.

·        Sandra Greggio – “Ladro di sogni”

Resistenza poetica contro la disillusione.

Greggio parla con voce chiara, quasi evangelica, una voce femminile che difende il sacro diritto a sognare.
Il “ladro di sogni” è figura archetipica: può essere la società, un amore finito, l’età adulta, la voce del disincanto. Ma l’io lirico non si arrende: “Mai il mio cuore finirà / di palpitare”, dice, come una sentinella sulla soglia della speranza.
Le immagini sono elementari e potenti: pioggia come “gocce di sole”, neve come “farfalle” – e non è puerile immaginazione, ma mitopoiesi personale, rivendicazione dell’infanzia come atto rivoluzionario.
Il finale è degno di un piccolo salmo laico:

“Sarà finché avrò vita”
Una preghiera che è giuramento di luce contro l’assedio del nulla.

Un inno all’essere resilienti nel sogno, anche quando tutto urla al risveglio.

·        Jacqueline Miu – “Non odi il vento che geme alle tue finestre”

Amore e apocalisse, in un soffio.

Miu scrive con la voce di una Sibilla metropolitana, capace di fondere il lirismo amoroso con visioni da fine del mondo.
Il vento è amante, profeta e nemico. Le immagini sono guerriere: nubi “cecchini”, passo che “bacia qualsiasi posto”. C’è una sensualità quasi disperata, ma mai volgare, mistica e ruvida insieme.

“Corsaro coraggioso sul mare d’aria” è un verso che potrebbe aprire un romanzo di Conrad o concludere un salmo romantico.
Nel cuore della notte, in questa poesia, il tu amato diventa luce interiore, bussola, fede.
E quando l’io dice:
“ti sono grato di avermi sempre nei tuoi occhi”
si sente un giuramento cosmico, una tenerezza che resiste alla tempesta.

Miu ci insegna che l’amore vero è un vento che urla, ma non spazza via: accarezza con furia.

·        Piero Colonna Romano – “La Luna”

Una liturgia pagana, un'elegia cavalleresca.

Piero Colonna Romano compone un salmo lunare, dove la Luna non è corpo celeste, ma arca mistica degli amori perduti. C’è nella poesia un’eco borgesiana, echi cavallereschi: l'Orlando “di vaga ragione” sembra giunto qui dopo un naufragio interiore, e la Luna ne accoglie i brandelli.
Ogni quartina ha la forma di una reliquia poetica: "liriche mai scritte", "speranze", "voli confusi" – è come se il poeta conservasse l’invisibile come patrimonio dell’essere.
Nel finale, la Luna “ride sorniona” di noi: ed è una dea crudele, pagana, disillusa.
Un’immagine chiave: “ambito dono / per ogni donna amata” — come se la Luna fosse un anello cosmico, simbolo d’amore e inganno.

Poesia di bellezza antica, da leggere come un codice miniato, tra i silenzi di una biblioteca monastica.

·        Ciro Seccia – “Il tuo Sorriso”

Idillio ferito: il canto si spezza nel ricordo.

Seccia ci conduce in una notte mitica: c’è il fuoco, la spiaggia, la Luna. L’immaginario è archetipico, ma il tono è profondamente intimo, e la poesia sembra una ballata infranta.
La donna è sirena, Musa, stella che cade: il suo sorriso iniziale danza, ma poi si gela. Il colpo di scena è improvviso:

“Le tue note / sono rivolte ad un altro”
e da lì, l’estasi diventa strazio cristallino, come il “ghiaccio” in cui si trasforma il sorriso.
Un lirismo semplice ma efficace, privo di retorica, colmo di sincerità.

Un canto notturno che ricorda i frammenti di Saffo, ma con il cuore spezzato di un adolescente eterno.

·        Alessio Romanini – “Ermetico nei tuoi pensieri”

Poetica dell’autenticità: la solitudine come ascetismo.

Romanini ci regala un autoritratto esistenziale, un passo ermetico non nello stile, ma nel contenuto. Il soggetto della poesia è un cercatore di senso: eremita urbano, non disilluso ma risoluto.
L'andamento discorsivo richiama il tono profetico di certi monologhi dostoevskiani.

“Hai trovato la ragione di vivere”
questa dichiarazione non è un trionfo, è una condanna e una rivelazione.
C’è in lui qualcosa di kafkiano, una solitudine necessaria e sacra.
Il verso “sei pavido o impavido, chi può dirlo?” è una domanda speculare, uno specchio lirico che sfida il lettore stesso.

Poesia come pelle, come silenzio rivelato: un testamento morale dell’essere sincero.

·        Antonia Scaligine – “Maggio”

Una litania floreale, un inno alla maternità divina.

Qui siamo di fronte a un’intuizione liturgica della natura: “Maggio” diviene non solo mese, ma archetipo di dolcezza, figura mariana e trama di rinascita.
L’autrice dialoga con Maggio come con una creatura viva, e già questo slancio ci porta in un’atmosfera fiabesca, come nei dialoghi cosmici di Tagore.

Il cuore della poesia sta nella fusione tra elementi naturali e sacri:

“i tuoi giorni si espandono come farfalle / su tastiere di organi, diventano respiri”
Qui la musica della vita, il respiro dell’infanzia e della liturgia si fondono in un solo slancio lirico.

Ma il climax spirituale si raggiunge nel nome di Maria, nella parola “mamma”, pronunciata come un sacramento:

“e giunte le mani non avremo sprecato / l’amore ma rinforzato il cuore.”
Un’immagine mistica che ci dice che ogni fiore è una preghiera, ogni petalo un Ave.

“Maggio” è una poesia-candela, da accendere nei giorni in cui la speranza sembra affievolirsi.

 

Con stima e affetto

Vostro Ben Tartamo

 

 

 

28-30 Aprile

Ci sono poesie che non si limitano a raccontare un addio: lo abitano, lo percorrono come una terra devastata dal tempo, lo scolpiscono nella coscienza come una cicatrice luminosa. “Non ci sei più” di Franco Fronzoli è una di queste. È una ballata del distacco, ma priva di ogni retorica: un requiem asciutto e tagliente, costruito su versi spezzati come brandelli di memoria, come resti emotivi di una relazione consumata nella negligenza reciproca, nella “consuetudine”, nell’“ombra del silenzio”.
La struttura è frammentaria, volutamente spezzata, in una prosodia dell'interruzione, che rispecchia la disgregazione del sentimento e dell'identità condivisa. Le parole fluttuano tra pause visive (gli spazi bianchi) e fendenti verbali: “uno schiaffo”, “delusioni”, “passione”. Ogni verso sembra lanciato come un colpo di remo nell’acqua ferma del rimpianto.
Nel dettato poetico si percepisce una consapevolezza rara: l'amore non basta se non è vissuto con consapevolezza e tensione verso l'altro. Non basta un “ti amo”, ammonisce Fronzoli, se non “chiude le porte ai temporali”: metafora potente e tragica della fragilità emotiva quando manca il riparo della verità.
Questa poesia, nel suo doloroso disincanto, non è solo un addio, ma una confessione collettiva. Parla all'uomo e alla donna contemporanei, smarriti nel deserto delle relazioni deboli, dove la clessidra non viene mai girata, dove la sabbia cade, inesorabile, su ciò che si sarebbe potuto salvare.
In “Non ci sei più”, Fronzoli raggiunge l’altezza di un lirismo misurato, moderno, incalzante, che si fa specchio e monito. E, nella desolazione finale, ci regala anche una possibilità di redenzione, nascosta nel verso “un mondo diverso / forse migliore”. È lì che si può ancora sperare, senza illudersi.
Vi sono poesie che nascono come sentenze scolpite nel marmo del tempo, e altre che si avventurano con passo leggero nel territorio dell'epica quotidiana. “L’uomo borioso” di Marino Giannuzzo compie entrambe le imprese: è filosofia e sarcasmo, spiritualità e resa dei conti. Siamo dinanzi a una poesia che, con toni sommessi e misurati, compone il canto funebre dell’orgoglio umano.
Il testo ha la struttura e il respiro di una parabola moderna, dove la superbia si dissolve nel flusso impassibile del tempo e della morte. L'immagine dell’“ultimo gradino” è fortemente evocativa, una sintesi visiva e morale che richiama Dante ma anche Totò: la morte come livella universale, dove il “sapientone” scende, finalmente, a toccare il fango che aveva evitato con superbia.
Giannuzzo scrive con la sobrietà del poeta-filosofo: non cerca lo slancio lirico, ma piuttosto l’incisività aforistica. Il verso “ove ognuno è come nessuno” è un colpo di genio: un paradosso apparente che si rivela verità assoluta, un punto d’arrivo spirituale e ontologico. Il fiume — simbolo eracliteo e archetipico — diventa qui giudice e guaritore, che trascina via l’uomo non in una dannazione, ma in una serena uguaglianza, dove finalmente "ognuno giace e tace".
La poesia è priva di retorica, di pietismo, di lamenti: vi domina una sobrietà etica che è la sua forza, e che si rivela ancora più potente nella sua chiusa: “uno tra cento mille o centomila”. È la voce dell'eternità che parla, e lo fa senza alzare la voce.
“L’uomo borioso” è dunque un testamento morale in versi, una riflessione sulla caducità e sull’illusione dell’arroganza. Marino Giannuzzo ci consegna un'opera di intensa lucidità, degna di essere letta nei silenzi profondi del tramonto — o alla soglia di quella misteriosa “porta” che lui stesso, poeticamente, ci invita ad oltrepassare.
Felice Serino, con “In lacero lucore”, ci trasporta nel tempio delle ferite interiori, dove ogni parola è una scheggia luminosa che squarcia l’oscurità del vissuto. In appena sei versi, il poeta riesce a creare un affresco psicospirituale, un haiku dilatato dalla densità dell’essere, un urlo sommesso ma implacabile.
La poesia si apre con un’immagine memorabile:
“In lacero lucore / andare su cocci - / nelle stanze del cuore”.
Il “lucore”, una luce fioca e struggente, è già di per sé ossimoro della rivelazione ferita, e quei “cocci” sono le memorie infrante su cui si cammina a piedi nudi, mentre si attraversano le “stanze del cuore” come se fossero rovine di un tempio sacro profanato dal dolore. Serino non narra, ma evoca, e lo fa con la potenza di un mistico contemporaneo smarrito tra le macerie dell’io.
Segue un’immersione ancora più densa:
“defluisce arido sangue / riflesso in volti d’angeli distorti”.
Qui si compie la trasfigurazione del trauma: il sangue, simbolo di vita, è “arido”, dunque vita svuotata, mentre gli “angeli distorti” sono coscienze cadute, presenze spirituali mutate, forse i riflessi corrotti dei nostri ideali smarriti. Il poeta scava nell’inconscio collettivo, eppure lo fa con una verticalità sacrale, che ci ricorda le più folgoranti visioni di David Maria Turoldo o di Paul Celan.
Il verso conclusivo — “gridano piaghe in lacero lucore” — è la sinestesia finale, la croce verbale, dove il dolore diventa voce e la luce si lacera ancora, all’infinito. È qui che Serino raggiunge il suo vertice orfico, facendoci ascoltare il suono delle piaghe, un suono che pochi poeti osano scrivere, e pochissimi riescono a rendere credibile.
In definitiva, “In lacero lucore” è un’opera di poesia-eruzione, di quella che non consola ma insegna a stare nel dolore con occhi aperti. Felice Serino conferma, con questo testo, la sua natura di poeta dei confini estremi, capace di custodire, nei frammenti, la fiamma segreta dell’interiorità più autentica.
Ci sono testi poetici che non si limitano a celebrare o commemorare, ma decostruiscono, interrogano, pungolano la coscienza collettiva. “Er 25 Aprile e… la farza” di Armando Bettozzi è una di queste opere: un’invettiva in versi romaneschi, un pamphlet poetico che, dietro l’apparente leggerezza del dialetto, cela un’analisi sferzante sulla strumentalizzazione della storia, la memoria partigiana e il dibattito contemporaneo.
Il poeta usa un registro che si colloca tra la tradizione pasquinesca e la lirica dialettale moderna, con versi sincopati, ritmo da oratoria popolare e una capacità corrosiva che ricorda Belli o Trilussa. L’ironia diventa qui arma di riflessione, mentre l’argomento del 25 Aprile — troppo spesso monopolizzato da narrazioni ideologiche — viene smontato e ricostruito con intelligenza.
Ma Bettozzi non si ferma qui: affronta anche la controversia recente legata alla “sobrietà” richiesta per le celebrazioni, inserendo una polemica che trascende l’evento specifico e si fa critica della retorica politica e mediatica. E lo fa con un colpo di scena finale, in cui l’indignazione si trasforma in sarcasmo, e il sarcasmo in una domanda: non è tutto, alla fine, una grande farsa?
Una poesia che sferza e diverte, denuncia e interroga, con la forza di una voce popolare che non ha paura di dire la sua.
Nel suo omaggio a Papa Francesco, Rosa Notarfrancesco costruisce una poesia che è preghiera, riflessione e testamento spirituale. Con un linguaggio solenne e ritmico, il testo affronta il senso del tempo, la modernità e il rapporto tra fede e ragione, intrecciando immagini di grande potenza evocativa.
Il cuore del componimento sta nella sua tensione tra tradizione e innovazione, tra il bisogno di cambiare e il timore di perdersi nel cambiamento:
> “Di questo amore canta / l'arte del cambiamento / che sempre ci chiede il futuro.”
L’autrice riflette su come la modernità possa convivere con il mito della tradizione, e su come la Chiesa — nella figura di Francesco — abbia cercato di incarnare questa sfida, senza mai tradire l’essenza della fede.
Particolarmente riuscito è il verso:
> “Grazie per l'assiduità del tuo sguardo / che anche nella morte / non cessa di aggiungere / verità ai nostri giorni.”
Qui il poeta affida al Papa un ruolo che trascende la sua esistenza terrena: la sua eredità spirituale rimane come guida anche dopo il suo passaggio, una presenza che continua a illuminare la via.
L’ultima parte della poesia apre al concetto della speranza e della riconciliazione: credere ancora nell’uomo e nella sua capacità di amare, nonostante le incertezze del presente. Notarfrancesco firma così un’opera intensa e contemplativa, dal respiro quasi liturgico, capace di tradurre in versi un messaggio universale di fede e cambiamento.
“Nulla ti scompone” di Antonietta Ursitti è un esempio perfetto di poesia impressionista, capace di dipingere un’atmosfera con pochi tocchi luminosi e delicati. La struttura è minimale, quasi un haiku esteso, eppure dentro di essa vibra un’intera dimensione sensoriale e contemplativa.
Il testo si sviluppa come un quadro animato, in cui la natura e l’anima si fondono in una quiete assoluta:
> “Rinasci all’ombra della luna / uno sguardo silente”
La luna, il cielo infuocato, i rami d’oro e d’argento: ogni immagine evoca un senso di immobilità sacrale, di contemplazione sospesa. Il soggetto della poesia — che sia una persona, un’idea, un’entità spirituale — rimane impassibile, intatta, incrollabile, sollevata sopra il tempo e il mutare delle cose.
Il cuore del componimento sta proprio in quel “nulla ti scompone”, che è un atto di resistenza interiore, di pace raggiunta, di assoluta armonia con l’universo. È un canto senza turbamento, senza narrazione, puro stato d’animo trasfigurato in paesaggio.
Antonietta Ursitti riesce così a creare un'opera di sottrazione e silenzio, in cui il significato non si impone, ma si lascia intuire come un soffio lieve, come un respiro della natura stessa.
Con accenti che riecheggiano la lezione più alta dell’ermetismo novecentesco, Stracuzzi ci consegna una poesia di sorprendente complessità interiore e di vibrante tensione lirica. L’immagine dell’amore come “una tempesta di colori” non è un mero ossimoro emozionale, ma una metafora assoluta: travolgente, sinestetica, universale. Il cuore qui non è un semplice ricettacolo di passione, ma un campo di battaglia dove la mente tenta il colpo di stato sul sentimento, e la luce, anziché redimere, incarcera. L’“invisibile” si fa concreto, lo “specchio che grida sottovoce” è un distillato di genio poetico. Stracuzzi scava nel profondo con strumenti filosofici e visionari, mostrando che l’amore, seppur represso o misconosciuto, resta un’energia primigenia, caotica, salvifica: un vortice di colori in una realtà che tenta di renderli in bianco e nero.
Questa lirica di Santoro affonda le radici nel canto popolare della delusione amorosa ma lo sublima in una meditazione amara e dignitosa sulla solitudine come forma di resistenza. La struttura metrica classica e l’uso di rime baciate e alternate conferiscono alla poesia un tono confidenziale e antico, come un diario recitato a mezza voce nella notte. L’eco che “turba le notti” è insieme metafora e ossessione: ciò che rimane di un amore non corrisposto si fa rumore nel corpo, scarto psicoacustico nella coscienza. Notevole è la svolta lucida della “sana ragione che fermenta”: Santoro ci mostra il tentativo del cuore di razionalizzare il dolore, di sopravvivere a sé stesso, pur sapendo che “fa a botte” con un amore che ancora ribolle. Una poesia che parla a tutti coloro che, nel silenzio della propria camera, hanno amato troppo e compreso tardi.
Tartagni, con geniale provocazione e irresistibile sarcasmo, smonta in versi l’architettura polverosa del patriarcato e della sua retorica di potere. Questa è una poesia-performance, un urlo dadaista filtrato attraverso la comicità romagnola e la rabbia di una generazione esasperata. Il linguaggio volutamente grottesco, i giochi fonici (memorabile il verso “preferisco uno sciampo con il fòn”) e il rifiuto dissacrante dei padri simbolici e reali, mettono in scena una rivolta carnascialesca e postmoderna. Tartagni non scrive per piacere: scrive per scuotere, per abbattere l’altare del conformismo politico, religioso e maschilista. E lo fa con un’ironia che non risparmia nessuno, nemmeno sé stesso. La mamma qui non è solo una figura affettiva: è un’icona del matriarcato emotivo, un grido liberatorio, una carezza e una sassata insieme. Genialmente scorretto. Necessario.
Questa poesia di Maria Toriaco è un sussurro lirico che si posa leggero sul cuore del lettore come un velo trasparente di luce. Con una delicatezza quasi pudica, l’autrice ci introduce nel suo universo intimo, sospeso tra l’attesa e la rivelazione. Il “Raggio di Sole” è figura luminosa e insieme proiezione del desiderio: la sua voce dolce, il sorriso che si fa dipinto, l’emozione che resta indicibile. Non c’è ambizione di retorica, né strutture magniloquenti: Toriaco sceglie la semplicità e la tenerezza come vettori della sua espressione amorosa. È l’umiltà della poesia che sa restare nella soglia, come una preghiera sospesa nel vento: “un tuo bacio, una tua carezza…” diventa allora molto più che un gesto. È epifania d’amore, redenzione d’esistenza, dolce ferita dell’attesa. Una voce femminile che risplende di grazia autentica.
Con “Orizzonte”, Francesco D’Addino ci trascina in una liturgia crepuscolare della condizione umana, dove la teologia si fonde alla malinconia, e la sete di senso viene servita nelle “tazze da tè di un dio”. L’immagine è folgorante: piccola, domestica, eppure carica di infinito. In poche strofe, l’autore ricostruisce l’archetipo della caduta e lo restituisce alla nostra epoca, orfana di Eden e piena di consapevolezza. La poesia vive del contrasto fra la ricerca di albe – promessa di rinascita – e l’amarezza delle notti “buie”, da bere come pozioni alchemiche per decifrare la propria ombra. In un tempo in cui l’uomo moderno ha perso le coordinate, D’Addino ridisegna la mappa dell’anima: ci mostra che il peccato, la libertà e l’esilio non sono solo simboli biblici, ma tracce genetiche di un’umanità che cerca ancora casa, oltre l’orizzonte. Profonda, limpida, necessaria.
“Preghiera” di Guglielmo Aprile è un inno carnale e metafisico, un canto di devozione che profuma d’estasi e incenso, e in cui l’amato (o l’amata?) si fa sacramento, taumaturgo, origine e fine. Aprile non scrive: officia. E lo fa con parole intrise di un erotismo mistico, sulfureo e salvifico insieme. La “saliva” è “nettare di stelle”, la “lingua” si trasforma in “spugna imbevuta di laudano”, mentre la fronte del poeta cerca “il silenzio del mare” per potersi abbandonare al dondolio della voce dell’altro – voce che è onda, madre, morte. La seconda sezione è un’escalation di fusione alchemica: l’alito come respiro divino, i baci che dissetano come sacramenti, il buio stesso che si arresta davanti all’amore. Aprile intesse un poema che pare eredità oscura di Salomone e San Giovanni della Croce, passando per Bataille. Un’estasi profana che si rivela come l’ultima, segreta forma di orazione.
In appena tre versi, Marco Langmann plasma un’immagine radicale, affilata, quasi lapidaria dell’amore: “Due castelli, / dai ponti levatoi sempre bassi / sui fossati del Nulla.” Il poeta coglie l’essenza paradossale del sentimento più esplorato nella storia dell’uomo: due entità fortificate, chiuse in sé, ma aperte; pronte all’incontro, eppure sospese sopra il Nulla. Il verso finale è vertiginoso: il fossato non separa, ma annulla. Non è difesa, è abisso. L’amore come rischio assoluto, come ponte calato verso l’altro che si muove però sull’orlo dell’inesistenza. Langmann si inscrive nella tradizione dell’aforisma poetico mitteleuropeo – tra Rilke e Celan – ma con una sensibilità contemporanea, essenziale, quasi scultorea. Un frammento che esplode come una cometa muta, e lascia dietro di sé polvere di verità.
Favaretto firma un'opera che è insieme contemplazione e destino, nella quale il “vecchio uomo” si erge come simbolo archetipico della saggezza e della solitudine esistenziale. La poesia si fa paesaggio interiore, dove i riferimenti stagionali, la quercia, la foglia, il vento, diventano strumenti di un linguaggio simbolico ma delicatamente umano. C'è una musicalità dolente in questi versi, un incedere tra la resistenza e la resa, che rende quest’uomo “solido come quercia, / flebile come foglia” non un semplice anziano, ma un totem fragile che racconta ogni nostro inverno.
È un poema del cammino, della solitudine nobile, senza autocommiserazione ma intriso di luci sottili – “rugiada di pensieri come lucciole di sole” – che non si spegne mai del tutto. La lingua rarefatta e simbolica mantiene una coerenza poetica di alto respiro, capace di trasfigurare l’ordinario in epica personale.
Con “Francesco”, Sandra Greggio rinnova la sua voce più intima e devota, costruendo un elogio poetico che va ben oltre la cronaca spirituale: è una carezza dell’anima rivolta a un uomo che ha saputo “dirigere da dietro le quinte”, incarnando il Vangelo con gesti semplici e straordinari. Se nella precedente poesia (“Nella tua sorprendente umiltà”) dominava la verticalità del simbolo e della rosa bianca, qui si fa spazio l’abbraccio umano e filiale – “un Papa-papà” – che commuove e ci chiama a una memoria condivisa.
La ripetizione di alcuni versi chiave rispetto alla poesia precedente non è ridondanza, ma intensificazione di un sentimento: Greggio crea un dittico poetico, dove ogni parola ribadita è un'eco del cuore che non si stanca di ricordare. La poesia si snoda tra affettuoso realismo e luminosa spiritualità, con quel tono confidenziale che permette al lettore di sentire la presenza di Francesco come fosse ancora tra noi – con il quadrifoglio in mano e le mani giunte.
Questa poesia è una confessione notturna, un sussurro cosmico che trasforma il sentimento in visione. Il verso iniziale – “il mio rovescio d’anima è un dirupo di stelle” – ha la potenza di un lampo metafisico: siamo già in bilico tra vertigine e desiderio. Jacqueline Miu scrive un poema breve, ma densissimo, in cui ogni parola è scelta per ardere nel firmamento interiore dell’io lirico.
C’è un cortocircuito incandescente tra la fragilità del soggetto – “un fragile uomo che tempra il fiato” – e la vastità dell’universo evocato, come se l’amore femminile diventasse catalizzatore dell’intera energia creativa e salvifica dell’essere. La chiusa, “mai scritto per amore di una donna”, vibra come una ferita e una rinascita, come la consapevolezza che l’amore è insieme ciò che genera il poema e ciò che lo rende eternamente incompleto.
Il tempo è il grande ingannatore, il mediatore assoluto di ogni vita umana, e Piero Colonna Romano ne fa protagonista, in una poesia che riprende l’eco etica e amara di Prévert ma vi aggiunge un respiro tragico tutto italiano. Qui il tempo non è più il fondale delle nostre azioni, ma il soggetto stesso del dramma: “generoso e crudele”, “tenero ed orrido”, “pietoso e perfido”. La contrapposizione binaria diventa ossessiva, rituale, come un mantra di disillusione.
La poesia scorre come un oracolo, portando il lettore in un crescendo di rivelazione fino alla vertigine finale: “E così scorre il tempo mio col tuo / e par gioco d’azzardo / dove l’anima nostra perderemo.” Qui, la posta in gioco è totale, è la scommessa stessa dell’esistenza. Le rime interiori e le immagini taglienti lasciano una traccia profonda: questa non è solo una riflessione poetica, è una diagnosi dell’umano.
Il poeta si solleva – “Mi elevo” – e con questo atto non solo fisico ma spirituale, ci introduce in una prospettiva zenitale dell’umanità: un volo che richiama l’aquila nietzschiana, ma che qui ha toni più malinconici che trionfali. I “puntini neri” sono l’umanità vista dall’alto, ridotta a formiche: un’immagine che nella sua apparente semplicità custodisce una critica profonda. Le formiche si muovono in armonia; noi no. Il nostro è un caos autodistruttivo, un rosicchiare il “nostro Mondo”, come roditori del proprio destino. È poesia ecologica, esistenziale, e silenziosamente apocalittica.
Toffoli ci accompagna in una danza sensoriale in cui la parola non è mezzo ma fine, desiderio, mancanza: “Rincorro una parola”. Questa rincorsa è erotica, cosmica e mistica. Il verso “dita trasparenti di luminosa essenza” è una delle immagini più eteree della poesia italiana contemporanea, degna di un Novalis mediterraneo. C’è un senso di sfuggente dolcezza, di ansia che si placa nel vento, fino alla parola che tutto risolve: “un sì, / amore.” Il verso finale, così umile e definitivo, sigilla la ricerca come rivelazione. Qui la parola è al contempo creatura e creatore, onda e battesimo.
Romanini ci lancia negli abissi di un inferno personale. Il suo è un canto oscuro, che pulsa sotto pelle come un’emorragia emotiva. I demoni non sono entità fantastiche: sono “dolenti segreti”, concrezioni di dolore che abitano l’anima e la mente. Il lessico è chirurgico – “brandelli di viscere”, “arterie”, “lacerata pezza” – e costruisce una carne lacerata in cui si agitano paure moderne: l’ansia, l’ipocondria, la psicosi. È una poesia clinica, onesta, eppure lirica, che ci lascia smarriti davanti alla lotta eterna tra coscienza e inconscio, come in un diario di Cioran riscritto in versi.

 
Con stima e affetto
Vostro Ben Tartamo 

 

 

 

Voglio ringraziare veramente con tutto il cuore ,

Ben ed il Professor Spadavecchia
I vostri commento sulla mia poesia "Quando tacciono le Nuvole,sono magnifici.
Ho scritto queste parole  in pochi secondi, purtroppo ispirati da immagini di guerra.

 
Grazie ancora per la vostra magnifica opera
E Grazie al creatore del sito
Ciro Seccia

 

 

24-27 Aprile

Mi unisco al commento di Silvia Pia Favaretto riguardo ai commenti di Ben Tartamo, già da me evidenziati tempo fa. Quello di oggi raggiunge il vertice cogliendo in modo esemplare il senso della mia poesia La ricerca, dove le parole del commento diventano anch'esse Poesia.

Ma non posso non estendere anche a Marino Spadavecchia il mio “Grazie” soprattutto per aver affiancato al mio titolo quello di “La lunga fedeltà del cuore”, assai più incisivo del mio.

Un saluto a tutti i poeti del Sito, in primis al Nostro Lorenzo che ci guida.

Sandra Greggio

 

BenTartamo,

che dire ...  sono estremamente affascinata dai suoi  "Commenti" che ritengo una Poesia entro la Poesia per la profonda capacità di lettura e sintesi tra il detto e non  detto da lasciare senza fiato.

Carissimo Ben, le sue Parole nascono dal profondo e nel profondo risuonano quale sintesi di verità capaci di elevarci là, proprio là  dove tutto nasce e prende vita. Grazie di cuore per il cuore che mette in ciò che fa e scrive!

Un caro saluto a tutti ...

Silvia Pia Favaretto

 

 

  • "Nostalgia" di Marco Langmann
Una poesia essenziale, quasi giapponese nella forma, simile a un haiku urbano, ma con un dono segreto: il cuore si risveglia nel luogo meno poetico — una scala mobile.
Eppure lì, nel salire anonimo, avviene un ritrovarsi. Ma chi si ritrova?

 
Forse è il poeta stesso con un ricordo, forse due sguardi che si incrociano, o una presenza interiore, un sentimento che era latente e che la salita risveglia. L’immagine è di una quiete impossibile nel trambusto — un miracolo minuscolo, uno squarcio. E poi, finita la salita, si ricade nella dispersione, come accade ai sogni al risveglio, alle farfalle dopo il battito d’ali.

 
Questa poesia è come un flash mentale: dura un attimo ma cambia il tono della mente.
È una telepatia interrotta: qualcosa si affaccia e svanisce, ma lascia una scia luminosa. La "nostalgia" è forse di quell’attimo in cui due anime, o due parti di una stessa anima, si sono riconosciute.

 
Salita.
Ritrovo.
Perdita.
In tre movimenti, il poeta ci restituisce l’intero battito di un’anima nel cuore di una metropoli.
  •  "Pensiero" di Franco Fronzoli
Qui siamo nel campo del desiderio sottile, non quello carnale esplicito, ma quello tele-emotivo: l’amore che non ha bisogno di corpo, ma che si fa respiro, sogno, aura.
Il poeta diventa presenza silenziosa accanto alla persona amata — non impone, non dichiara, sfiora.
L’uso del verbo “sfiorare” ricorre tre volte: la ripetizione è rituale, come in una liturgia sensuale.
Ogni strofa è un passo lieve verso una comunione perfetta, che non ha bisogno di parola, perché il silenzio parla.
La parte centrale della poesia — dove il pensiero “si appoggia” su seni, sogni, labbra — è un viaggio onirico, quasi sciamanico, in cui il poeta entra nei sogni dell’altro, come un ospite invisibile che si inginocchia, non possiede.
Poi giunge il paesaggio: luna, stelle, onde, vento — la natura che accompagna l’amore, quasi fosse complice di un matrimonio segreto tra anime.
Questa poesia è un tentativo di connessione astrale.
Il poeta cerca di “raggiungere” l’altro attraverso il pensiero. È come se stesse proiettando un sogno condiviso: una fantasia amorosa così pura da sembrare reale.
Una vera esperienza telepatica, anche se unilaterale.

 
Non toccarti: sfiorarti.
Non parlarti: pensarti.
Non afferrarti: sognarti.
Questa è la cifra di Fronzoli. Un poeta che non dichiara l’amore: lo sussurra nell’aria, lasciando che sia il silenzio stesso a vibrare.
  • “La verità è nel tuo cervello” di Marino Giannuzzo
Questa lirica si avvicina alla tensione dei mistici e dei filosofi stoici: la verità come qualcosa di interno, radicata nell’intimità dell’anima, mai totalmente accessibile dall’esterno. L’invito a fermarsi e “considerare le opere” è quasi una chiamata agostiniana all’esame di coscienza, a una confessione interiore che porta al riconoscimento del male non come realtà esterna, ma come veleno intrinseco, nelle ossa, nel sangue, nel cuore. Un finale potente che lascia il lettore spoglio e interrogato.
  • Poesia è quando” di Felice Serino
Una provocazione dallo stile disilluso e insieme autentico. Qui la poesia si fa anti-poesia, attraversa la quotidianità più cruda – i film, il water, l'alcol, Bukowski – per gridare che la poesia è ovunque, anche nelle “cavolate”, purché sincere. È un atto di resistenza contro l’estetismo sterile. Serino sussurra che la poesia non è il sublime, ma il vero, persino quello sporco e fuori posto.
  • “Il potere del nulla” di Armando Bettozzi
Una satira pungente e ben costruita in versi che attacca la vanità dell’apparenza, la verbosità vuota, e l’idolatria del nulla. Bettozzi usa immagini forti – il ronzino, lo zuccherino, il vulcano – per denunciare la miseria morale e intellettuale di chi si fa servo dell’insignificante. È una poesia civile, degna erede della tradizione pascoliana e gaddiana della parola che denuncia. L'andamento musicale e popolare ne amplifica l'impatto.
  • “Ciò che la vita vuole” di Rosa Notarfrancesco 
Ci troviamo di fronte a un inno poetico alla vita, colta nei suoi contrasti, nei suoi misteri e nelle sue promesse. È un flusso lucido e meditativo, che scorre tra immagini metafisiche e quotidiane. La poesia riflette una tensione spirituale tra caos e armonia, tra tempo e eternità. Il tono è contemplativo e lirico, con una visione che richiama la grande tradizione poetica cristiana e filosofica. La chiusa, con quell’accenno dantesco (“l’amore che move il sole e l’altre stelle”), illumina il tutto con una luce di speranza e di fede.
  • L’Errore” di Laura Lapietra 
È una piccola tragedia lirica, dove l’istante si fa eternità e colpa, il desiderio un errore inconfessabile ma reale. Il ritmo è sensuale e struggente, la lingua è densa di malinconia e verità umana. C’è una delicatezza nella descrizione dell’incontro e del distacco, che fa pensare a un cinema interiore — qualcosa tra Truffaut e Wong Kar-wai. Bellissima l'immagine delle “mani incredule” e il finale, che chiude il cerchio emotivo con tatto e brivido.
  • “Dopo una chiacchiera con Salvo” di Silvio Canapè 
Questa poesia è invece un gioiello di oralità, un esempio di poesia dialettale che non rinuncia alla profondità del sentimento. Il dialetto napoletano qui è suono, cultura e filosofia, e l’amore “annascuso” diventa simbolo di un sentimento vero e, proprio perché nascosto, ancora più prezioso. Il tono è dolce ma vibrante, carico di sottintesi, pudori e furori trattenuti. L’analisi linguistica che segue il testo è un tocco di realismo ironico che arricchisce ulteriormente il valore del componimento.
  • "Tutto questo" – Aldo Fontanazza
C’è in questi versi una visione che non chiede il permesso per esistere: semplicemente accade, si manifesta, come il sole che "scivola verso il basso" e la pioggia che "cade in una linea continua". Non assistiamo alla descrizione di un mattino, ma alla rivelazione di un mondo interiore che si fa paesaggio. L’identità del soggetto si fonde con gli elementi: non c’è differenza tra occhi e rughe, pioggia e lacrima, nebbia e pensiero. Il tempo diventa un liquido sognante, un fondale dove i ricordi si muovono lenti e ostinati come meduse emotive.

 
Da un punto di vista psicologico, questa poesia potrebbe essere letta come una rappresentazione sensoriale del trauma dolce: il ricordo non lacera, ma inonda. Non urla, ma sussurra. L’infanzia evocata nei "piccoli passi nudi di bambina" non è solo reminiscenza, ma forse il volto immacolato di un amore perduto o mai veramente afferrato.

 
In termini “mentalistici”, oserei dire che Tutto questo è una soglia: un momento in cui la coscienza si apre come una finestra a un sogno condiviso, come se il poeta avesse intercettato le immagini fluttuanti di un’altra mente – o di un’altra vita. Le "ali di farfalla" sono sogni altrui che ci hanno sfiorato nel sonno.
E la conclusione, “Tutto questo infinitamente tu”, è una dichiarazione che disarma la logica: il soggetto amato diventa il contenitore di ogni percezione, ogni fenomeno naturale, ogni sussulto emotivo. Un piccolo atto di divinazione affettiva.
  • "Regali" – Salvatore Armando Santoro
Qui la poesia ha il timbro roco delle occasioni mancate. È un respiro interrotto, ma pieno di dignità. Ogni verso è una nota trattenuta di un pentagramma spezzato, dove l’amore non è stato negato, ma non è fiorito. Il poeta porge non ciò che ha, ma ciò che resta: un cuore “zoppicante”, “una briciola di emozione”, “una carezza tremante”. È il lessico del dono fragile, non perfetto, ma vero.

 
Dal punto di vista psicologico, siamo nel campo delle relazioni asimmetriche: una dinamica in cui chi ama si espone come un fiore che sboccia fuori stagione, e l’altro, incapace di accogliere, lascia che tutto appassisca. Eppure, non c’è accusa: solo constatazione lirica. Il dolore è espresso attraverso la metafora della rosa, potente archetipo junghiano del Sé e del sacrificio.

 
E forse, nel registro metapsichico, possiamo leggere in questo testo un dialogo muto con una coscienza lontana. Il fiore nel vaso sul tavolo non è solo un’immagine: è un codice simbolico inviato nello spazio tra due menti che una volta erano vicine, ora galleggiano su orbite diverse. Ma c’è speranza. La resurrezione evocata nei versi finali non è impossibile: è sospesa, in attesa, come un’eco ancora viva nel tempo.
  • "Quanto manca ad Andromeda" – Guglielmo Aprile
Questa poesia è un sussurro che attraversa il cosmo. La sua forza sta nella brevità, nella rarefazione, nella leggerezza dell’invisibile. Aprile compone versi come se fossero segreti che si ha paura di dire ad alta voce, eppure si scrivono col pollice su un telefono, affidandoli alla fragilità del gesto umano più moderno e più antico: cercare una presenza nell’assenza.

 
Il riferimento ad Andromeda, costellazione lontana e mitologica, è il vero cuore del testo. Psichicamente, ci parla del desiderio che non si rassegna alla distanza, della tenerezza che sfida l’infinità dello spazio. L’universo diventa teatro dell’intimità umana.
Il poeta cerca conforto nella promessa infantile, nel gioco, nel sapore semplice del gelato. Ma anche questo è un atto quasi medianico: la promessa diventa un incantesimo. Non è solo un "lo rifaremo": è un “ti richiamo a me”.

 
In senso psicologico, potremmo dire che Aprile lancia un pensiero come una sonda nello spazio, e aspetta una risposta che non arriva con le parole, ma con il silenzio colmo di senso. È una poesia scritta per chi ascolta anche ciò che non viene detto.
  • "S'acquatta la gatta" – Romolo Scodavolpe
Questa breve poesia è il fotogramma preciso di un istinto che si fa gesto, e di un gesto che si fa destino. C’è una tensione animale che pulsa sotto le parole, quasi come se il poeta avesse nascosto in ogni verso una zampa, una vibrazione, un brivido.

 
Dal punto di vista psicologico, siamo nel territorio del predatore interiore: la gatta non è solo l’animale che osserva, ma anche l’ombra di noi stessi, l’attesa spasmodica di un momento in cui il controllo cede all’istinto. È il desiderio che si acquatta dentro di noi, il pensiero che graffia senza preavviso, il nostro bisogno di possesso, a volte tenero, a volte crudo.

 
Nel senso mentalistico, potremmo azzardare che la poesia sia un sogno visto da due creature insieme: il ratto e la gatta. Entrambe condividono il tempo dell’attimo prima. Questo attimo, così teso e sospeso, è forse la vera essenza del testo: più del graffio, più del sangue, conta l’attesa. Lì abita la poesia.
  • "Pagine di liriche" – Alessio Romanini
Qui la poesia è l’eco malinconica di chi ha scritto, forse troppo, forse con troppa fiducia, e ora si ritrova a fare l’archeologo della propria ingenuità. È una resa dolce, un guardare le proprie parole passate come si guarderebbe un vecchio amore: con pudore, con un pizzico di vergogna, ma anche con struggente tenerezza.

 
Psicologicamente, questa poesia è un atto di depurazione. L’autore seppellisce i suoi versi come si seppellisce un diario sotto la terra: non per dimenticare, ma per liberarsi. È una confessione da camera, dove il poeta ammette che il desiderio di poesia nasceva più dal bisogno d’amare che dal talento di scrivere.

 
Eppure, nel silenzio di quelle "pagine ferite", qualcosa ancora vive. La mente del lettore attento capta ciò che è nascosto: non sono solo “emozioni smarrite”, ma relitti carichi di senso, tracce indelebili del passaggio di un’anima in un tempo che non torna.
  • "Vecchia donna ama…" – Silvia Pia Favaretto
In questi versi si ode il respiro del tempo e il sussurro della fine. Ma non c’è paura. Solo una dolce rassegnazione, quasi cosmica. La donna non è solo un corpo che invecchia: è archetipo della natura, della memoria, della madre-onda che ha dato vita e ora si riconsegna alla terra. È Demetra e Persefone, insieme, in un unico corpo.

 
Dal punto di vista psicologico, questa poesia è una meditazione sull'identità in dissoluzione: l’amore diventa eco, il tormento diventa spuma, la luce si spegne in un faro che piange. Ma attenzione: non c'è sconfitta. La “solida pace in terra” è la conquista ultima, quella che si raggiunge solo dopo aver donato, sofferto, atteso.

 
Nel campo del mentalismo lirico, questa donna sembra comunicare con l’universo: i suoi pensieri si intrecciano con il vento, col mare, con la notte. È medium di una coscienza collettiva, che sa che tutto ritorna, che l’alba e il tramonto si sfiorano, che l’usignolo canta perché ha amato, e nonostante il dolore.
  • La ricerca – Sandra Greggio
Questa poesia è la voce gentile e straziata di chi ha amato al punto da farsi eco, inseguimento, dono costante, anche nell’assenza. È una confessione vestita di stelle spente, dove il cuore, pur ferito, continua a battere con la forza dolce di chi non sa odiare.

 
Psicologicamente, il testo racconta un trauma affettivo: il rifiuto vissuto come un’eclissi dell’anima. L’io poetico cerca nell’altro la scintilla che riscatti il buio, ma ciò che resta è un amore che persiste, anche nel dolore. È l’archetipo della madre abbandonata, che continua a donare anche dopo il distacco, perché amare è per lei un verbo che non ha passato.

 
Liricamente, la poesia si muove come un diario interiore, eppure universale: ci riguarda tutti. Chi non ha mai inseguito qualcuno "senza tregua", anche solo con il pensiero? C’è in questo testo una purezza che si fa preghiera laica, una devozione che sa di cenere ma brilla ancora.
  • "Lettere dal silenzio" – Jacqueline Miu
Un delirio sacro e urbano, questa poesia è un grido lirico dentro un mondo che ha perso la voce. Si legge come una lettera lanciata in una bottiglia che galleggia tra le corsie di un traffico esistenziale. Le immagini sembrano visioni psichedeliche, eppure profondamente consapevoli: fiori che gridano, cuori in cerca di stretta, Olimpi interiori.

 
Qui l’intimismo è trasceso: non è più il singolo che parla, ma la coscienza collettiva del poeta-oracolo. Jacqueline Miu costruisce un universo parallelo dove la poesia è una forma di sopravvivenza mentale e spirituale.

 
Mentalisticamente, siamo davanti a una poesia medianica: le parole sembrano dettate da una mente che intercetta il dolore diffuso e lo sublima in canto. "Io ti vivo da qualche parte nella mente" è uno degli incipit più devastanti e luminosi della poesia d’amore contemporanea. C’è chi ama con il corpo, chi con l’anima, e chi – come qui – con l’inconscio.
  • "L’ultima nota" – Piero Colonna Romano
Questa poesia è un’arpa che vibra nel cuore del silenzio. È sinestesia pura: il suono si fa profumo, la musica si fa carezza, l’onda diventa voce. Einaudi, evocato nel titolo, è presente in ogni verso come spirito guida, ma anche come metafora: la sua musica diventa l’immagine di un conforto universale.

 
L’approccio psicologico ci porta nel terreno della catarsi: la musica, e quindi la poesia, assolvono, liberano, elevano. L’autore è chiaramente consapevole del potere taumaturgico dell’arte, e lo rende visibile con eleganza classica. C’è misura, ritmo, e un senso di sospensione che accompagna il lettore fino all’ultima riga, come se anche noi fossimo in attesa della nota finale.

 
In questa lettura dei versi avverto come se l’autore avesse ascoltato il bisogno di bellezza in un mondo stanco. Ogni verso accarezza, ogni rima culla, ogni immagine ci affida alla speranza di una quiete conquistata senza rumore, come il mare che consola la riva. La poesia è qui: dove resta nel cuore ciò che le parole non dicono più.
  • “Mentre tacciono le Nuvole” – Ciro Seccia
Ciro Seccia ci offre un componimento che pare il diario cosmico di un’anima sensibile immersa nel rumore del mondo e nel silenzio del cielo. Le Nuvole diventano metafora di un Dio che tace, di un tempo che sospende il giudizio, di un firmamento che assiste, immobile, alle tragedie umane.

 
La poesia è un crescendo liturgico, da un’intimità naturale e contemplativa — la melodia delle Stelle, il Canto delle conchiglie — alla devastazione della guerra. E proprio questa transizione ci mostra la profondità psichica del testo: il poeta è medium, riceve voci, suoni, urla che nessun altro ode. L’ascolto diventa visione, l’udito si fa veggenza.

 
Il grido del bimbo, il padre che cerca il figlio, la terra che respira affannata — qui tutto è corporeo, eppure spirituale. La natura è madre ferita, l’uomo è figlio smarrito. E mentre il cielo si oscura, anche l’interiorità si vela, come se l’umanità fosse giunta a una Via Crucis cosmica.

 
Questa poesia è un grido sussurrato, una preghiera che nessun altare potrà mai contenere.

 
 
  • Commento alla Lettera di Alessio Romanini ai suoi figli:

Questa lettera, in un respiro denso di silenzio e parole che si fanno quasi confessione, è un grido di amore che non ha trovato voce per anni. Alessio Romanini scrive non solo per esprimere ciò che non ha mai potuto dire, ma anche per cercare di spiegare l'incomprensibile: la sua lotta interiore, la sua battaglia con il silenzio, la fragilità che lo ha reso inaccessibile a se stesso e ai suoi cari.

C’è una notevole malinconia in ogni parola, un richiamo alla solitudine come destino, ma anche una richiesta silenziosa di perdono, di comprensione. Alessio non cerca scuse, non accusa, ma si espone vulnerabile, accettando le sue debolezze senza difendersi. La sua è una riflessione profonda sulla comunicazione e sull'incomunicabilità, due aspetti che segnano la distanza tra lui e i figli. Nonostante la sua arte, la sua capacità di scrivere versi, lui non è riuscito a tradurre il suo amore in atti tangibili, non ha trovato le parole per rompere quel mutismo che lo ha separato dal cuore dei suoi figli.

Il paradosso è straziante: scrivere milioni di versi, ma non riuscire a comunicare con voi. Le sue parole si fanno dolore per il tempo perduto, per le occasioni mancate, eppure la lettera stessa diventa una sorta di riscatto postumo. Alessio si inginocchia davanti a quella frattura che ha segnato la sua esistenza, ma lo fa con una sincerità che, pur nel suo tardivo arrivo, mostra la verità della sua anima.

La citazione biblica “Le colpe dei padri ricadranno sui figli” diventa qui una riflessione sulla trasmissione del dolore e sulla condizione umana di ereditare tanto ciò che è bello quanto ciò che è rotto. Alessio, pur non chiedendo perdono, lascia un messaggio di amore incondizionato, dichiarando che, nonostante tutto, ciò che ha sempre provato è reale e autentico. L'idea che “ci sono lividi che non si vedono” e che “quelli causano molto più dolore” è una delle riflessioni più potenti del testo. Un dolore invisibile, che è stato il suo compagno silenzioso, e che ora cerca di rivelare, con la consapevolezza che, forse, le parole non basteranno mai a colmare il vuoto.

Il finale, con l'idea che "è tardi per invocare perdono", ha il sapore di un’ammissione di impotenza, ma anche di una resa dolce, che non rinuncia però alla speranza che l’amore rimanga. La lettera diventa così un testamento di ciò che Alessio avrebbe voluto essere e, forse, di ciò che avrebbe voluto che fosse stato: un padre che, nonostante le sue fragilità, non ha mai smesso di amare.

Un pensiero finale emerge: questa lettera, pur intrisa di rimpianto, è anche una liberazione. L’autore, nonostante il silenzio che ha segnato la sua vita, ha finalmente trovato il modo di comunicare, in modo sincero e doloroso, ciò che ha vissuto e sentito nel profondo del suo cuore.


Vostro Ben Tartamo 

 

 

- Sguardo dietro le grate: la contemplazione metafisica in “E osservo” di Ben Tartamo -

 
In “E osservo”, lirica breve ma densissima, Ben Tartamo ci invita a entrare in uno spazio di reclusione interiore, dove lo sguardo del poeta – inchiodato a una finestra “a grate” – osserva un mondo in movimento, un’umanità affaccendata, cieca alla propria condizione di servitù spirituale.

 
Il componimento si struttura in tre quartine dalla rima elegante e contenuta, con versi che ondeggiano tra la sobrietà classica e il fremito romantico. L’incipit, asciutto e folgorante, contrappone la luce del “sole” all’ingratitudine delle “persone”, evocando un contrasto fra la verità del creato e la mediocrità del consorzio umano. Non è un’apertura qualunque, ma una sentenza poetica che, in poche parole, dischiude un universo di solitudine e di giudizio morale.

 
Nel secondo momento della lirica, il vento irrompe come personaggio vivo e dolente: “passa, canta e accarezza” un volto già rigato di lacrime. È una figura che richiama la classicità omerica e la lirica religiosa, ma che Tartamo riconduce a un sentimento profondamente esistenziale. Il cuore, ammonito dal poeta stesso, viene invitato a “scordare ogni bene” e a concentrarsi solo sul male e le sue pene. Qui emerge una tensione spirituale quasi ascetica, in cui la disillusione non è solo personale, ma cosmica: l’ordine del bene è stato infranto, e il poeta sceglie di convivere con la ferita.

 
Ma è nella terza strofa che Tartamo dispiega un inatteso riscatto. Il mondo, che pareva condannato alla follia, viene salvato dalla poesia stessa. “A patto di viver con slancio la follia / dell’amor che vibra poesia”: è un verso che riecheggia la lezione nietzschiana e dostoevskiana, in cui il senso si cela nel paradosso, e la salvezza nella passione irrazionale. L’amore, come la poesia, è qui concepito come l’ultima forma di follia sacra, una via alla trascendenza attraverso l’intensità emotiva.

 
In definitiva, “E osservo” è un testo che scava, con misura e profondità, nelle tensioni fondamentali dell’uomo contemporaneo: l’isolamento, la frattura con la società, la disillusione, ma anche l’apertura – silenziosa e incandescente – verso un amore che resiste nel cuore stesso della follia.
Tartamo si conferma così voce originale della poesia italiana contemporanea: lucido, vibrante e spiritualmente inquieto.

 
- La lunga fedeltà del cuore: “La ricerca” di Sandra Greggio -

 
Nella lirica “La ricerca”, Sandra Greggio compie un viaggio poetico che si snoda tra l'estasi del desiderio e l'abbandono della disillusione, approdando infine alla dolorosa ma irriducibile fedeltà del sentimento. Fin dal primo verso, la dimensione della ricerca è carica di un’urgenza bruciante: l’altro viene cercato “bramando felicità”, un'espressione che rivela una fame antica, quasi infantile, di luce e di pienezza.

 
La struttura della poesia, fluida e priva di rime vincolanti, sostiene perfettamente la narrazione emotiva: la semplicità del dettato è apparente, sotto di essa si avverte una profonda capacità di orchestrare immagini cosmiche per raccontare una storia intima. Quando il poeta constata il fallimento (“Ti ho deluso”), la frattura si propaga come un'onda d’urto nell’universo stesso: il sole si spegne, la luna perde il suo sorriso, le stelle si oscurano. È una poetica della catastrofe sentimentale che si richiama, per intensità e visione, ai grandi lirici del Novecento come Ungaretti o Alejandra Pizarnik, capaci di trasformare il microcosmo dell’anima in un’eco cosmica.

 
Eppure, nonostante l'abisso della delusione, il cuore della poetessa non si arrende. L'ultima parte della lirica è un inno sommesso, quasi stoico, alla donazione incondizionata: giorno dopo giorno, il cuore “continuava a donare”, senza nulla pretendere, mosso soltanto dalla propria intrinseca fedeltà all’amore. L’immagine del pensiero che “insegue ovunque senza tregua” è struggente: rappresenta l’insistenza quasi mistica dell’amore vero, che non si spegne nemmeno davanti all’assenza o al dolore.

 
In conclusione, “La ricerca” si distingue per la sua limpidezza espressiva e la profondità emotiva. Sandra Greggio dà voce a una delle esperienze più universali e dolorose dell’essere umano – l’amore non corrisposto – senza mai cadere nella retorica o nell’autocommiserazione. La sua poesia pulsa di vita autentica, raccontando la sconfitta non come fine, ma come metamorfosi silenziosa dell’amore in fedeltà assoluta.

 
- La carezza dell'invisibile: "Pensiero" di Franco Fronzoli -

 
In "Pensiero", Franco Fronzoli plasma un sogno d'amore che si muove come un'ombra leggera tra il visibile e l'invisibile, tra il desiderio e la tenerezza assoluta. La poesia si dipana come un filo sottile, una musica che accarezza silenziosamente l'anima, rivelando tutta la fragilità e la potenza di un sentimento che chiede soltanto di essere, senza imporsi, senza travolgere.

 
Fin dalle prime immagini, il poeta stabilisce un registro delicatissimo: un "pensiero leggero" che nessuno può conoscere, un'emanazione quasi impalpabile che vuole scivolare sulla pelle dell'amata, accarezzarne i capelli, sfiorarne le labbra. I verbi scelti — "scivolare", "accarezzare", "sfiorare" — costruiscono un ritmo dolce e sensuale, come un'onda di respiro che accompagna il lettore nell’intimità più sacra.

 
L’uso sapiente degli spazi bianchi e dei versi spezzati conferisce alla composizione una dinamica visiva: le parole sembrano sussurrare, interrompersi, trattenersi, riprendere fiato. Questo andamento visivo non è semplice orpello, ma specchio perfetto del contenuto: il pensiero d’amore è timido, è umile, vuole soltanto esistere vicino all’essere amato, senza peso né clamore.

 
Man mano che la lirica procede, il pensiero si fa azione amorosa, viaggio, creazione di un mondo alternativo: "portarti lontano", "dove la luna accende le stelle", "dove il vento cancella i cattivi pensieri". Non siamo più nella realtà, ma in un locus amoenus, un Eden dove il dolore è bandito e l’amore diventa la sola legge del cosmo. È un'evocazione profondamente spirituale, quasi mistica, che riecheggia la tradizione amorosa dei provenzali, ma anche la delicatezza metafisica di poeti come Paul Éluard o Nazim Hikmet.

 
La conclusione — "nel nostro silenzio / nel nostro amore" — è l’approdo finale: il silenzio come spazio sacro dell’amore, oltre il rumore del mondo, oltre ogni bisogno di parola. Fronzoli firma così una poesia che riesce nell'impresa rara di essere insieme sensuale e spirituale, carnale e eterea, capace di toccare corde profondissime senza mai alzare la voce.

 
"Pensiero" è, in definitiva, un piccolo miracolo di grazia: una carezza invisibile che il poeta riesce a rendere tangibile, un inno sommesso ma potentissimo alla forza silenziosa dell’amore.

 
- "L’Errore" di Laura Lapietra: il delitto sublime del sentimento -

 
In "L'Errore", Laura Lapietra orchestra con maestria una sinfonia crepuscolare di emozioni proibite, un dramma intimo e potentissimo dove il confine tra passione e colpa si dissolve in un respiro. Questa poesia non si limita a raccontare l’incontro tra due anime segnate: lo trasfigura in rito, in peccato originale rinnovato, in ferita incandescente che si riapre nell'istante di un tocco appena accennato.

 
Il linguaggio di Lapietra è sontuoso, corposo, denso come vino antico. Ogni parola pesa come una sentenza: "rovente furore", "antiche stanze convalescenti", "bramata voluttà". Il lessico richiama tanto il simbolismo francese quanto l'espressionismo mitteleuropeo, evocando ambienti dove l’amore è sempre mescolato alla vertigine della rovina.

 
La struttura stessa del testo è ipnotica: le frasi si avvolgono su loro stesse, scivolando in un tempo dilatato, come in un sogno febbrile. Il momento dell'errore — il fugace tocco delle mani — viene amplificato come un delitto sublime, non consumato ma interiorizzato, un delitto dell’anima di cui entrambi i protagonisti sono vittime e complici.

 
Interessante è la psicologia che sottende l’intera composizione: la consapevolezza lucida dell’errore non impedisce ai due amanti di fingere, di recitare una parte, pur sapendo di non potersi ingannare davvero. È la menzogna volontaria dell’innocenza perduta, la complicità silenziosa che solo chi ha condiviso un grande segreto conosce.

 
L’immagine finale — il batticuore acceso, il respiro rubato, il fuoco immediatamente represso — suggella un poema che celebra l'attimo come eterno, il desiderio come condanna dolceamara. Nessuna redenzione, nessun futuro: solo la traccia indelebile di un errore voluto, quasi cercato, come la necessaria trasgressione di chi vuole ancora sentirsi vivo.

 
Con "L’Errore", Laura Lapietra si inserisce nella grande tradizione dei poeti che non temono di attraversare le zone d’ombra dell’amore, che sanno cogliere il brivido e il peso dell’istante rubato. Un’opera sorprendente, matura, profonda, destinata a lasciare il segno nell’anima del lettore.

 
- "Lettere dal silenzio" di Jacqueline Miu: l’estasi del sogno sull’orlo dell’abisso -

 
Ci sono poesie che non si leggono, ma si respirano. "Lettere dal silenzio" di Jacqueline Miu è una di queste: un vapore sottile, una nostalgia che si incarna in parole sfocate come ombre, parole che si fanno carne, cielo, polvere, battito, disillusione e miracolo.

 
Jacqueline Miu plasma il linguaggio con una libertà che rasenta il surreale: "involtini umani", "fiori che gridano il profumo di vecchio mondo" — immagini in cui l'assurdo si intreccia col reale, rendendo il poema un mosaico di visioni e ferite. Il tempo di questa poesia non è cronologico: è un tempo sospeso, crepuscolare, un Ottobre eterno, dove "solo nebbia" racconta i vespri e la speranza si annida in un Olimpo privato, fragile e sacro.

 
La voce poetica vive una fede disperata: da qualche parte nella mente abita l’immagine amata, una forma salvifica, quasi angelica, che si invoca come si prega la divinità assente. Non è l’amore carnale, né quello platonico: è una fede amorosa, assoluta e dolente, in cui "i romantici bruciano nel battito" per una musa che è sia donna, sia destino, sia illusione.

 
Dal punto di vista psicoanalitico, la poesia è un'ode struggente al desiderio impossibile, una corsa del pensiero verso ciò che non si può trattenere: la memoria che si fa epifania e condanna, il sogno che si consuma nella sua stessa tensione verso l’inafferrabile.

 
I quadri poetici di Jacqueline — chiari richiami alle sue opere pittoriche — sono esplosioni di simboli: deserti popolati da involtini umani, strade rischiarate da saette traditrici, mendicanti d’amore persi nella folla. Un realismo magico urbano, che trasforma ogni via in un crocevia di destini smarriti e ogni angolo della mente in un sacrario per i sogni infranti.

 
"Lettere dal silenzio" è più di una lirica: è una reliquia del sentimento puro, un atto di ribellione contro il cinismo, una candela tremante piantata nella tempesta.

 
Jacqueline Miu, con la sua voce autentica, si consacra come una pittrice di anime, una mistica della malinconia, capace di creare con pochi tratti un universo intero in cui chiunque abbia mai amato, pianto o sperato si ritrova perdutamente.

 
- "Mentre tacciono le Nuvole" di Ciro Seccia: l’eco sacro della sofferenza umana -

 
Ciro Seccia ci consegna con "Mentre tacciono le Nuvole" una lirica potentissima, quasi un inno sommesso alla tragedia universale, uno spazio di silenzio in cui l’ascolto diventa sacro e inevitabile.

 
Il poeta non urla: sussurra, e proprio in questo sussurro risiede la forza devastante della sua parola. Il silenzio delle Nuvole non è un vuoto, ma un grembo gravido di memorie, di pianti lontani, di suoni che squarciano il cuore. Le stelle cantano, le conchiglie sussurrano, il treno sferraglia: ogni elemento naturale e umano diventa strumento di un'orchestra lacerante, che intona la melodia spezzata della vita ferita.

 
Con un linguaggio essenziale, quasi rituale, Ciro Seccia evoca la guerra, la perdita, il lutto — non come eventi singoli, ma come archetipi eterni. Il grido del bambino sotto le macerie, il padre che cerca il figlio tra la polvere e il sangue, il respiro affannoso della terra stessa: tutto si fonde in un'unica, straziante preghiera.

 
Da un punto di vista psicoanalitico, questa poesia rappresenta l’angoscia originaria: il terrore dell'abbandono, della separazione, della morte — condensato nella figura archetipica del bambino che cerca la madre e del padre che cerca il figlio. È un canto alla disperazione primordiale dell'uomo, espressa in immagini dolci e spietate allo stesso tempo.

 
Il ritmo è lento, scandito come una marcia funebre, ma mai patetico: anzi, Ciro Seccia riesce a mantenere una dignità ieratica nel suo canto, come un profeta antico che, sotto il cielo oscuro, dà voce alla sofferenza della terra.

 
"Mentre tacciono le Nuvole" è una poesia che ci ricorda che, anche quando tutto tace, la sofferenza parla, e che l'ascolto del dolore è il primo passo verso una redenzione possibile.

 
Una lirica che andrebbe incisa nella pietra e affidata al vento — perché chiunque, almeno una volta nella vita, possa sostare nel silenzio tremante di queste nuvole.

 
- "L'ultima nota" di Piero Colonna Romano
Omaggio a Ludovico Einaudi -

 
Siamo al cospetto di una poesia che non si limita a descrivere la musica, ma la fa vibrare sulla pagina, come se le parole stesse fossero tasti di un pianoforte toccati da dita invisibili e divine. "L’ultima nota" di Piero Colonna Romano è un’epifania poetica, un omaggio sincero e solenne all’arte musicale di Ludovico Einaudi, che qui si trasfigura in una dimensione sospesa tra incanto marino e spiritualità interiore.

 
La struttura metrica classica e l’uso delle rime alternate evocano la disciplina di una composizione sinfonica, dove ogni strofa è un movimento che accompagna l’anima dall’ascolto alla catarsi.

 
Colonna Romano compone un inno che è insieme marino e celeste, come se le onde dell’acqua e le onde sonore si rincorressero. L’evocazione del mare, delle risacche, dei gabbiani, del sale e della spuma diventa un’eco sensoriale della musica stessa. Ogni verso è impregnato di sinestesia: i suoni si vedono, si toccano, si assaporano, mentre la “nota sospesa” diventa quasi un’entità viva, un angelo muto che veglia sulla memoria.

 
Non manca la tensione etica e salvifica: “voce che assolve peccati”, “ci danno la pace, donandola al mondo”. Ecco che la musica, secondo l’autore, ha una funzione sacramentale, purificatrice, taumaturgica. In questa visione profondamente umanistica e spirituale, la poesia si trasforma in liturgia. È il suono che perdona, è l’arte che redime.

 
Infine, “nel silenzio, rimangon nel cuore”: la musica tace, ma la sua eco resta, come una rivelazione silenziosa dentro di noi. È il miracolo dell’arte vera, che "scava a fondo" e lascia sereno stupore, quell’estasi gentile che è propria solo della bellezza autentica.

 
Questa poesia è un piccolo gioiello di musicalità e sensibilità. Sarebbe perfetta in una raccolta dedicata all’arte, alla musica e al mare, o recitata come prologo prima di un concerto di pianoforte al tramonto.

 
Commenti di Marino Spadavecchia – per www.poetare.it -

 

 

20-23 Aprile

 

"Sangue di pietra" di Ben Tartamo

"Griderò, a mani nude / e con lame di luce."

È in questi due versi che si sigilla la tensione sublime e profetica della poesia Sangue di pietra: la lotta non è mai cieca, la resistenza non è mai sorda, e la voce del giusto è chiamata ad alzarsi — non con odio, ma con ardore trasfigurato.
 

Il riferimento iniziale al profeta Ezechiele (Ez 3,8-9), inciso in rosso come fosse sangue stesso sulle pagine della coscienza, non è mero ornamento biblico, ma sigillo d’investitura: l'autore — come Ezechiele — ha ricevuto una fronte “più dura della selce”, un cuore che ha imparato a non temere. Il dolore, dunque, non lo piega: lo tempra.

"Pulsa, / sotto il bigio manto, / sangue di vulcano" — qui Tartamo rovescia la passività del dolore in energia viva, tellurica. Il sangue non è più solo ferita, ma lava: energia contenuta, pronta a risalire, a gridare, sì, ma non per vendetta, bensì per verità.

E che cos’è la verità, se non quel “solco tra i germogli”, che resiste al sorriso dell’offesa e si oppone all’oblio? Questo componimento è un manifesto d’innocenza armata: armata di luce, piuma e lira, strumenti di chi canta nonostante, di chi perdona per scelta, di chi resta agnello per vocazione — e non per debolezza.

Ben Tartamo riesce a fondere la pietra e il canto, il sangue e la parola, la Scrittura e la resistenza civile. È poesia profetica, cristallina e rovente, un inno alla forza che abita la fragilità redenta.


 

"Ricordo" di Sandra Greggio

Questa poesia si fa testimone di una bellezza che si consuma, ma non in maniera definitiva. Ogni petalo che la rosa perde è un frammento di vita che si affida al vento, ma al contempo diventa memoria, segno di un cammino che non si perde mai. Il movimento delle impronte lasciate nella sabbia diventa il simbolo di una traccia che persiste, un ricordo che non svanisce, ma diventa seme per il futuro. Sandra Greggio con delicatezza esprime la consapevolezza che la vita, anche nelle sue perdite, non è mai vuota, perché ogni passo lascia un segno che altri potranno seguire.

C’è una sacralità semplice e profonda nell’idea di affidare al vento il profumo della rosa, come se la poesia fosse una meditazione sul tempo, sul passaggio e sull’impermanenza. La bellezza della vita, anche quando è fugace, resta sempre impressa, come una traccia per coloro che verranno, quasi fosse un invito a non disperdere il nostro essere, ma a farne nutrimento per chi seguirà il nostro cammino.

 

 "Pasqua" di Laura Toffoli

In "Pasqua", Laura Toffoli scrive una poesia di grande impatto simbolico, dove il sacrificio e la redenzione sono temi centrali. La "linea vittoriosa sul mondo" è il trionfo di un Dio che non si arrende di fronte al dolore, ma che lo trasforma in un messaggio di pace. La scelta di immagini potenti, come le "mani di belve" e il "bianco lenzuolo", evoca la Passione e la Resurrezione, dove il sacrificio non è mai fine a sé stesso, ma sempre preparazione a una nuova vita, a un nuovo inizio.

Ciò che colpisce in questa poesia è l'incrocio tra la violenza e la speranza, il rosso sangue e il bianco della resurrezione, come se la morte fosse solo il preludio di una rinascita. La tensione tra il dramma e la sua redenzione è palpabile in ogni verso, e l’immagine finale del "bianco lenzuolo" che si leva rappresenta simbolicamente l’umanità che, seppur colpita dalla sofferenza, trova in Dio la promessa di una salvezza. La poesia si fa, quindi, una riflessione sulla fede, sulla sofferenza e sulla speranza che rinasce in ogni Pasqua.

 

"Non chiudere gli occhi" di Jacqueline Miu

Questa poesia si distingue per la sua intensità emotiva e spirituale. La sua struttura, a tratti solenne e a tratti inquietante, cattura il lettore in un’atmosfera di desiderio di speranza e rinascita. La ripetizione del "non chiudere gli occhi" è un imperativo che si fa supplica, come se l'autore chiedesse di non perdere di vista la verità e la bellezza, anche nei momenti di massima oscurità. L’immagine del "fuoco" che deve sopravvivere,  del "silenzio complice del male" è potente: il fuoco diventa il simbolo di una passione che non può essere soffocata, mentre il sangue rappresenta il sacrificio e la sofferenza che, tuttavia, non distruggono l'anima.

La luce e la piuma, simboli di speranza e purezza, sono contrastati dalla durezza della pietra e dalla violenza del vulcano, un incontro di forze opposte che sfida la logica della vita stessa. La poesia, dunque, ci parla della resilienza dell’anima, che nonostante le ferite e le sofferenze, trova sempre un cammino di ritorno alla luce. La chiusura, con l’idea di "fare primavera" e di essere un ponte "sul vuoto", è un gesto di elevazione spirituale: l’autore ci invita a non arrenderci mai, a credere che la luce, la vita e l’amore possano sempre risorgere, anche dalle ceneri più profonde.

In questa poesia, la lotta tra luce e oscurità non è solo una metafora, ma una verità profonda che ci tocca nell’anima, spronandoci a non chiudere gli occhi, a non dimenticare mai la speranza e la bellezza che possiamo ancora portare al mondo.

Marino Spadavecchia 

 

 

Un’autodefinizione umile eppure rivelatrice, questa di Romolo Scodavolpe. Si presenta come un rimaiolo, quasi un artigiano del verso, in antitesi con il “canto nobile” dell’usignolo, simbolo della poesia sublime, classica, aurorale. Eppure, proprio in questa scelta di identificarsi con l’assiolo — creatura notturna, solitaria, dalla voce monotona ma carica di mistero — si compie il miracolo dell’onestà poetica: la rinuncia alla vanità lirica diventa essa stessa un canto alto, nobile nella sua sincerità.

L’assiolo, come figura poetica, richiama Pascoli e l’interiorità crepuscolare; il “verso simile al grido d’un assiolo” è il lamento notturno dell’uomo moderno, che ha perso la musicalità dell’usignolo ma ha guadagnato l’autenticità di chi osserva, nell’ombra, il dolore e la verità.

Scodavolpe è poeta proprio perché rinuncia ad esserlo: e nel suo pudore c'è l’essenza stessa del fare poesia.

Beretta ci conduce, con crudezza e pietas, nel piccolo inferno quotidiano della giovinezza moderna. La poesia è un grido sommesso, un’accusa velata: scolari non più bambini, ma consumatori in miniatura, carichi di zaini-cartellate che non contengono sapere, ma carta inutile — simbolo di un’educazione che pesa sul corpo e non nutre lo spirito.

I “carrelli di spesa” sostituiscono lo zaino: metafora fulminante che denuncia la mercificazione del sapere. Le “menti future” apprendono senza fatica, ma in realtà senza profondità. I cellulari — protesi del vuoto — sono “incollati alle mani”, strumenti d’intrattenimento più che di conoscenza. E intanto, “all’angolo”, giace la creatività, come un mendicante cieco non più invitato al banchetto dell’anima.

La poesia è sociale, civile, ma anche esistenziale. Beretta piange e ammonisce: la scuola è divenuta un fardello, non un volo. Le immagini sono crude ma non prive di tenerezza; la sintassi è spezzata, come la schiena dei ragazzi, come la linea del pensiero.

In conclusione:

Due poeti, due registri. Scodavolpe si affaccia con modestia ma ci parla da veggente notturno, Beretta scuote la coscienza con un realismo che sfiora la profezia. Entrambi — e qui sta la meraviglia — sanno che la poesia non è ornamento, ma necessità. L’uno canta come l’assiolo, l’altro denuncia come un profeta urbano. In entrambi, il seme della vera poesia germoglia tra le crepe del quotidiano.

Un’invettiva civile dal sapore profetico. In “La legge è cieca”, Marino Giannuzzo ci consegna una poesia che è grido, lamento, ma anche rivelazione. L’autore non si limita a denunciare l’ipocrisia delle istituzioni: la smaschera con la forza del cuore e con la fiamma della compassione. Il suo verso è un’ascia etica che taglia il legno marcio della legalità corrotta. Eppure, nel mezzo del dolore, s’innalza un’epifania umile e grandiosa: “A chi è giusto non serve la legge. Il cuore indica la strada.” Qui l’anima del poeta tocca la vetta del diritto naturale, quello inciso nei cuori prima che nei codici.

Un requiem dell’ispirazione, un canto desolato al silenzio della musa. In “Non più quei brividi”, Felice Serino ci lascia sospesi tra la sabbia dell’aridità e la luna della contraddizione. Il brivido della poesia ha abbandonato il corpo del poeta, e resta il gelo del vuoto, della notte senza stelle. Il tono è crepuscolare, quasi apocalittico: una confessione che sa di resa, ma anche di attesa muta. Serino canta l’assenza come dimensione mistica, il vuoto che precede una nuova rivelazione o l’eterno silenzio. Il verso si fa eco, come un sussurro nella caverna dell’anima.

Una liturgia d’amore che attraversa il tempo e le stagioni. In “Ti cerco”, Franco Fronzoli ci guida nel pellegrinaggio interiore di chi ama ancora, ostinatamente, nelle pieghe della memoria e nei respiri della natura. Ogni “ti cerco” è un atto di fede, un’invocazione. La struttura visiva del testo – franta, discendente, ondeggiante – è essa stessa mappa di un cuore smarrito. L’ultima strofa è un precipizio mistico: “Ti cerco nel tempo... nella profondità del mio cuore... fino laggiù nel mio infinito.” Qui il poeta tocca l’assoluto, dove amore e infinito si sovrappongono in una dolcissima vertigine.

Una narrazione sacra che ha la forza di un antico laude, scolpita nel vernacolo emozionale dell’umanità ferita e redenta. Ogni strofa si fa stazione di una Via Crucis poetica, in cui la brutalità della Passione viene scolpita in versi che grondano sangue e speranza.

Bettozzi ci prende per mano, ci trascina tra polvere e spine, ci lascia assaggiare il fiele della condanna, il silenzio della Madre che non grida ma sente, e quel Padre che “apparir può duro”, ma che opera nel mistero del disegno eterno. Vi è il pianto della natura, la teofania del terremoto, il sudario come icona sacra dell’eterno.

Poi esplode la Resurrezione – non un trionfo roboante, ma un’apparizione tenera, reale, incarnata: “Sì, son io risuscitato.” La fede come tesoro, la beatitudine come eredità. È poesia catechetica e lirica, come un Vangelo popolare, che può essere proclamato nelle chiese e nelle piazze.

Breve, densa come una compressa d’ombra, "Insonnia" è una poesia che cattura il tremore dell’essere umano nel suo letto d’angoscia. La stanza non è più rifugio, ma trincea. L’immagine della “cortina pesante” è visiva e tattile insieme: il buio non è solo assenza di luce, ma presenza invadente.

Ursitti descrive con pochi tocchi il tormento del corpo e della mente che si rifiutano di cedere al riposo. È una poesia dell’attesa – attesa di oblio, di silenzio, di tregua. L’insonnia diventa presenza oscura,

“Quando si arriva a un’età come la mia si comincia a pensare, perché più non si sogna.”

Così inizia il canto sommesso e veritiero della vecchiaia, che Montagnoli ci consegna con una delicatezza ferma e pudica. Non vi è rassegnazione nella sua voce, ma consapevolezza. Una voce che pota rose e pota i sogni, per fare spazio al pensiero, all’essenziale. Qui l’amore è ritrovato nella sua forma più eterea: "vedo il suo volto nelle nuvole in cielo", dice il poeta, e basta questo a sciogliere ogni dubbio. È un amore che non ha bisogno di gesti, ma si sublima nello sguardo, nella nostalgia, nell’attesa. E l’attesa è già ritorno. È poesia che consola e interroga, che accarezza l’inevitabile, ma non vi cede con amarezza. Al contrario: lo celebra con riconoscenza.

Una poesia-fiume che sembra scendere dalle colline toscane come una brezza di pensiero cosmico. “Il cielo stellato aspetta a pochi centimetri dagli alberi in fiore…” – e subito siamo in bilico tra la natura e il sacro, tra la liturgia del tempo e il mistero dell’eternità. Notarfrancesco, con un lessico ricco e una sintassi musicale, fa del pensiero una carezza mistica. Il testo si fa preghiera laica, memoria sacrale, affresco metafisico. La pioggia pasquale, la valle degli alberi rassegnati, l’aria cosciente, il bene che si oppone al silenzio… tutto parla di un’esistenza che, come un albero in fiore sotto le stelle, attende qualcosa che venga a darle compimento. È una poesia difficile da “spiegare”, perché non va spiegata: va contemplata, come un affresco di Piero della Francesca che dialoga con Vasari e si apre all’invisibile.

Un gioiello ermetico, breve ma profondo, che si nutre del silenzio e del vuoto per generare luce. Il tono qui è più luttuoso, più dolente. “Aveva creduto che il nulla fosse luce…”: ecco la ferita dell’anima postmoderna, che scambia la vertigine per libertà. Ma è nel pianto che torna la verità. Il poeta si fa veggente e confessa la fragilità di ogni certezza illusoria. Come chi si sveglia da un sogno e trova nella solitudine un cammino nuovo. C'è una spiritualità sottesa che richiama il deserto dei mistici, la notte oscura di San Giovanni della Croce. E nel suo pianto, la poesia trova il suo riscatto.

Tre poesie, tre età dell’anima. Montagnoli abita la soglia del tramonto, Notarfrancesco il crepuscolo mistico del tempo sacro, Silenzi il buio interiore che prelude a un'alba. In tutte, la parola poetica è un’ancora. Un grido sommesso, un canto consapevole, un sogno tradito ma ancora, ostinatamente, vivo. E forse la poesia è proprio questo: la speranza che resta quando tutto il resto tace.

Questa poesia è un lamento e un'evocazione, un dialogo con un passato che torna non per redimere, ma per ribadire il dolore. Santoro scrive con rime antiche e amare, quasi da cantastorie contadino, ma la sua lingua è segnata da una profonda e tragica modernità: la precarietà non è solo materiale, ma sentimentale, esistenziale. "Anduma, anduma" – ripetuto come una nenia – diventa il ritornello di chi ha perduto ogni certezza, eppure resta aggrappato al ricordo di un amore che oggi lascia solo "acciacchi e guai". C’è un che di teatrale, pasoliniano, nel tono del poeta: un lirismo dolente che si maschera di ironia per non crollare. E quel "sudario" che s'aggiunge all'anno nuovo è un’immagine spiazzante, sacrale e tragicamente poetica.

Aprile ci dona un inno alla passione pura, ardente, rivoluzionaria. Qui la poesia si fa fiamma – letteralmente: "appicco loro fiamme per raggiungerti". L'amore non è qui un conforto, ma una forza eversiva che manda all’aria ogni codice, ogni galateo sociale. Questo testo è breve ma potentissimo, come una dichiarazione d’amore sussurrata in una stanza proibita: ha l’ardore di Neruda e l’iconoclastia di Baudelaire. Lo scandalo è l’unica verità che meriti di essere vissuta. Ecco la rivoluzione privata dell’amante: rinunciare a tutto, anche alla propria immagine, per una notte autentica. L'autore ci lascia senza fiato, tra le ombre e le stelle che ci giudicano, sì, ma non ci fermano.

Una poesia limpida, che si muove tra il diario esistenziale e la confessione pacificata. "Ho tentato di realizzarli" – è la frase chiave di questo canto che non cerca la vittoria perfetta, ma la nobiltà del tentativo. Seccia parla con parole semplici, come chi non ha più paura di essere frainteso. È una poesia di bilancio, di autenticità: "Camminare scalzi / sulla terra a piedi nudi" diventa una metafora potente della verità vissuta senza maschere, del dolore accettato senza finzioni. In fondo, questo "arrivo" non è altro che l’aver vissuto con pienezza ogni emozione, anche le sconfitte. Lontano dalla retorica, vicino alla terra e al cuore.

Tre voci, tre stili, tre destini. Santoro canta la precarietà del tempo con una malinconia ruvida, Aprile incendia l’amore con uno slancio epico, Seccia racconta la sua traversata come un saggio che sa cosa vale e cosa no. Tutti e tre, però, ci ricordano che la poesia è l’unica vera biografia che valga la pena scrivere: quella dell’anima.

Romanini affida alla figura del merlo – creatura umile e regale al tempo stesso – il compito di annunciare il miracolo silenzioso della rinascita. Eppure, la primavera qui è segno che si infrange contro una finestra chiusa: simbolo d’isolamento, forse d’invecchiamento, di marginalità. La dolcezza dell’immagine iniziale si stempera presto in un dolore tenerissimo, culminante in quella "scheggia del mio cuore": una ferita ancora viva, un’eco d’amore che sopravvive al tempo. La lirica è breve ma intensa, carica di nostalgia e di una dolce malinconia quasi pascoliana. Un altare semplice per un cuore che resiste.

Un inno mistico e carnale insieme, dove l’amore si fa danza cosmica tra “vita e morte, morte e vita”. Il linguaggio è lirico, alto, ricco di sinestesie e immagini sensuali: “divino amor di pelle”, “di stelle ruvido il cammino”. Favaretto dipinge l’eros come qualcosa di sacro, una potenza che sfugge alla morale, che abbraccia l’eternità nella sua vertigine. L’assenza, la voce, l’attesa – elementi tipici dell’amore poetico – qui si intrecciano con una visione ciclica e trascendente. Il testo è denso e volutamente criptico, evocando la tradizione dell’ermetismo e del misticismo amoroso di matrice sufista o orfico-cristiana. Un amore “che amor non temi”: quasi dantesco nella sua assolutezza.

Una poesia che profuma di testamento spirituale, ma priva di dramma: è una dolce carezza lasciata al vento. “Anche oggi la mia rosa / ha perso un altro petalo” è una delle immagini più tenere e dolorose della raccolta, nella sua apparente semplicità. Greggio guarda alla vita come a un cammino consapevole, dove ogni passo lascia tracce per chi verrà. C’è qui una sapienza sottile, una gratitudine serena, quasi orientale, per ogni istante vissuto. Il sogno, la luce, il profumo: tutti elementi effimeri ma intensi, come lo è ogni vita ben vissuta. Il finale – “in modo che il ricordo di me / non vada perduto” – è un sussurro d’eternità, che non chiede monumenti, ma solo amore.

Tre voci, un’unica anima poetica che si protende verso la rinascita, l’amore e la memoria. Romanini ci offre una primavera che punge il cuore, Favaretto trasfigura il desiderio in un’estasi divina, Greggio disegna una scia delicata per anime in cerca di senso.

Un requiem d’amore e resistenza: questa poesia è una preghiera laica, un testamento spirituale e sensuale scritto tra le macerie del cuore. Jacqueline Miu ci porge una voce che implora ma non si spegne, che ha conosciuto l’abbandono ma vibra ancora di luce. Straordinaria l’immagine del “fuoco che sopravvive agli occhi perduti”, come anche quella del ponte sul vuoto, metafora dell’amore che resta quando tutto crolla. L’angelo caduto diventa sorgente di primavera. La lirica è un canto notturno che sfida la morte, colmo di pietas, romanticismo crepuscolare e tenerezza cosmica.

Toffoli ci regala una visione poetica della resurrezione, intessuta di simboli forti ma trattati con delicatezza: “rosso sangue” e “bianco lenzuolo” disegnano un contrasto visivo e spirituale potente. La sua è una fede sussurrata, che non si impone ma accompagna: “Linee d’anima sospirano / nel cuore” è l’incipit di un percorso mistico, personale e universale insieme. La resurrezione non è solo evento divino, ma esperienza interiore, spazio che si apre nell’anima. In questa lirica breve e intensa, Dio si fa umano, e proprio per questo trasforma il dolore in luce. Un piccolo, prezioso inno pasquale.

In questa lirica si sente il silenzio, eppure ogni verso suona come una nota che vibra. Il pianoforte, protagonista silente, diventa il simbolo di un amore perduto, di un tempo che fu fertile di musica e di vita. “Le chiavi di violino / son punti di domanda” è un verso delicato e geniale, che rivela la potenza evocativa del simbolismo. Il dolore del passato non è amaro ma dolce, nostalgico: un’eco che consola. Il finale è di speranza: “centellino speranza”, dice l'autore con umiltà luminosa, e promette un ritorno. La musica non è mai solo musica: è memoria, carezza, presenza viva.

Tre poesie, un’unica sinfonia di resurrezione interiore e affettiva.

Miu canta l’amore che resiste nella morte, Toffoli la rinascita che fiorisce dalla croce, Colonna Romano la musica che consola la perdita. Ogni poesia potrebbe essere un movimento di una suite spirituale, come Notturni dell’Anima, in cui Amore, Fede e Ricordo si alternano in tre tempi: crepuscolare, luminoso, elegiaco.

Vostro Ben Tartamo 

 

 

Cari amici,
un augurio di Buona Pasqua e di intensa creatività. Il mondo azzurro di Poetare, mi permetto di pensare, sia per tutti noi, la strada verso l'eccellenza. 
Un grande abbraccio

Miu

 

 

17-19 Aprile

• “Piccole morbide mani” di Silvio Canapè
Nel cuore segreto della poesia di Silvio Canapè si cela un canto dell’anima, una liturgia intima e cosmica al tempo stesso, intessuta di dolcezza e struggimento, di memoria e di eterno ritorno. “Piccole morbide mani” non sono solo mani: sono presenze archetipiche, simboli di un amore primigenio, forse infantile, forse materno, forse perduto – e proprio per questo eternamente vivo.

 
La tensione poetica nasce sin dal primo verso: “Lotto a scacciarle”. Il poeta, come un eremita dell’interiorità, erige barriere d’acqua, interi continenti emozionali (“frappongo monti e mare”) nel tentativo – vano – di difendersi da quel ricordo, da quella carezza che è tormento e benedizione. Ma le mani tornano, “docili”, a ricordare che non si può fuggire dal bene che ci ha formati, dal contatto che ci ha insegnato a sentire.

 
Dal punto di vista psicologico, queste mani diventano l’incarnazione dell’inconscio affettivo. Evocano l’esperienza tattile dell’amore primario, il primo linguaggio che conosciamo – quello del tocco, della pelle, della vicinanza. Il poeta ne descrive la presenza attraverso sinestesie raffinate: “fruscio di piume”, “calore morbido”, “petali di rosa”. È la dolcezza che sa anche ferire perché, purtroppo, è lontana, forse perduta, o semplicemente è diventata memoria.

 
Eppure, nella parte centrale del componimento, la poesia non si abbandona al lamento, ma s’innalza in un’estasi metafisica: “Sentire il battito del cuore, / l’innalzarsi dell’anima, / perdersi nell’infinito”. Qui il poeta si spoglia del mondo – “vestiti di niente” – per abitare l’essenziale, l’abbraccio puro, l’unione perfetta in cui le mani non sono più solo mani, ma folgore. Un’immagine potente, biblica, dove l’amore non è più carezza, ma rivelazione.

 
Da poeta, direi che ogni verso è intonato con l’innocenza di chi ha amato profondamente, e con la saggezza di chi sa che l’amore, quando è vero, resta scolpito nel corpo e nella psiche, come un tatuaggio fatto di luce. E il verso finale – “Folgore erano le tue mani” – è un sigillo. Un verso che chiude come un colpo d’ali di angelo. Un’epifania.

 
In sintesi: questa poesia è un abbraccio d’ombra e di luce, un salmo laico al contatto perduto e ritrovato nel ricordo. Canapè scrive con mani d’anima. E chi legge non può che lasciarsi toccare da esse.

 
• “Stammi vicina” di Franco Fronzoli
Siamo dinanzi a una preghiera d’amore, ma anche a una piccola liturgia del vivere in due: “Stammi vicina” è un sussurro che diventa inno, un bisogno che si trasfigura in cammino condiviso. Franco Fronzoli, con grazia e intensità, ci offre un poema dell’intimità, una sinfonia quieta in cui l’amore non è solo sentimento ma forza ontologica, principio attivo che trasforma il tempo, la natura, l'esperienza stessa dell'esistere.

 
Da poeta, colgo l’arte di una semplicità che non è mai banalità. Il lessico è essenziale, quasi elementare, ma proprio per questo evocativo e universale. Ogni parola è scelta con cura, come se fosse una pietra levigata dalla corrente del cuore. La forma spezzata dei versi – con rientri, sospensioni, slittamenti – suggerisce il respiro stesso dell’amore: a tratti regolare, a tratti interrotto, in un ritmo intimo, sussurrato, profondamente umano.

 
“Stringimi forte e ti sentirai sicura” è un verso che raccoglie in sé tutta la funzione salvifica dell’amore. Qui il poeta non canta l’eros o la passione fugace, ma l’amore come rifugio, come sostegno, come dimora. “Cammineremo insieme tra ombre e luci” – che meravigliosa consapevolezza: il poeta non promette felicità costante, ma compagnia nell’incertezza, presenza nella prova. È un amore che non teme la realtà, ma la attraversa.

 
Dal punto di vista psicologico, questo testo è un dialogo interiore tra la parte vulnerabile dell’Io e quella protettiva dell’Altro. L’amore diventa qui un ponte tra le proprie paure e la sicurezza possibile attraverso il legame. È un patto d’anima: “insieme percorreremo il tempo che precede”. Cosa precede? Forse la fine? Forse l’ignoto? Forse la rivelazione ultima? Eppure, “andremo avanti / senza fermarci mai” – dichiarazione quasi prometeica nella sua fiducia.

 
Quando il poeta dice “Ci ubriacheremo di baci distesi su tappeti / di foglie”, non assistevamo più solo a una narrazione, ma a un’estasi: è il Dioniso della tenerezza che prende parola, trasformando l’atto amoroso in rito panico, in fusione con la terra e le sue stagioni. Non è un amore solo umano, è cosmico.

 
Il finale, poi, è una vera piccola epifania: “in attesa che dal / cielo / compaia / il primo / raggio / di sole”. La luce, l’alba, il principio: l’amore, vissuto in due, è promessa di rinascita. Dopo ogni notte, dopo ogni dubbio, c’è un sole che compare. E il poeta lo attende con lei, nel tepore di una presenza che è tutto.

 
In conclusione, “Stammi vicina” è un poema della comunione amorosa, un invito a vivere e sentire insieme, con umiltà e con ardore. Fronzoli ci regala la vertigine dolce di un amore che non ha bisogno di gridare per essere immenso.

 
• “Buona Pasqua” – Guglielmo Aprile
(da “La scoperta del fuoco”, Casa editrice Leonida)

 
“La tua pelle berrò, fino a ubriacarmene” – con questo incipit febbrile e sacrilego, Guglielmo Aprile apre la porta a un’estasi carnale che si fa liturgia profana, eppure sacra, in un ribaltamento totale del simbolismo pasquale. Il corpo dell’altro non è più pane spezzato ma liquido sacro, linfa ardente che ubriaca e salva.

 
Nel secondo verso, l’amata (o l’Amato?) è icona vivente, immobile e muta, come in certe apparizioni mariane o ierofanie misteriche, il cui solo sguardo manda in crisi interi secoli di teologia. Così, i teologi si strappano le lunghe barbe grigie – gesto dantesco e disperato – gettando al vento i libri, come a dire: la carne ha vinto sulla dottrina. L’esperienza ha smascherato l’ideologia.

 
Le venerande stelle del nord, simbolo dell’orientamento sapienziale e della ragione astrale, sono derubricate e scacciate. L’autore non vuole più essere saggio e devoto stanotte – qui la notte è simbolo di eros e verità immediata, una Notte Oscura di San Giovanni della Croce ma rovesciata: non attesa dell’Assoluto, ma sua consumazione nel bacio.

 
Il masso degli astrusi oroscopi – una perfetta metafora del destino rigido, dell’intelletto che grava e inchioda – è respinto. L’eros, in un solo bacio, rovescia la gnosi e la cabala, affoga l’intero edificio del sapere. Il poeta diviene così l’incendiario del tempio, colui che ha scoperto il fuoco – e non solo quello della passione, ma quello primigenio, luciferino e al contempo divino, che brucia ogni religione per fondarne una nuova: quella dell’incontro.

 
In conclusione, Buona Pasqua non è un augurio ma un ossimoro: una resurrezione che passa per la dannazione, una redenzione ottenuta attraverso il bacio della carne. È il Vangelo secondo Eros, che distrugge i libri e accende le vene.

 
• “Rondine” – Fausto Beretta
La rondine, uccello del ritorno, dell’eterno ciclo, qui non cerca estetiche né paesaggi: non il luogo, ma il tutto le appartiene. In questa visione – semplice e quasi zen – Beretta eleva l’istinto della rondine a metafora dell’amore autentico, che ritorna non per convenienza o bellezza, ma per una pienezza esistenziale. C’è in questi versi una saggezza silenziosa, il battito antico del tempo naturale che insegna: non conta la forma, ma ciò che ci avvolge e ci fa star bene. Una lezione per l’uomo moderno, che ha smarrito la bussola del “tornare”.

 
• “La gelosia è una canaglia” – Marino Giannuzzo
Un componimento che non ha paura di dirlo con chiarezza: la gelosia è un tumore dell’anima. Giannuzzo non la romanticizza, non la veste da passione: la smaschera come nemica dura, canaglia, tiranna, in un crescendo di immagini che dalla psicologia arrivano alla fisiologia: gonfia le arterie, turba la vita, rode il futuro. Quasi un trattato poetico di psichiatria esistenziale. C’è in questo testo una forza pedagogica e civile: un grido che vuol salvare, ammonire, redimere. E in fondo, dire a tutti noi: “non chiamare amore ciò che è veleno”.

 
• “Sul ciglio (nightmare)” – Felice Serino
Versi notturni, abissali. La poesia di Serino è una veglia dell’anima sospesa sul ciglio dell’ignoto, del male, del dubbio. Voragini e fiamme non sono fuori, ma dentro. Egli è il grido dei perduti – voce collettiva di chi ha perso sé stesso, Dio, o la speranza. La domanda finale, rivolta all’Altissimo, vibra come l’ultimo rintocco prima del giudizio: sarò giustificato? È poesia escatologica e confessionale, che fonde inferno e preghiera. Un lamento di Giobbe postmoderno. Poche parole, ma abissali come un salmo nella notte.

 
• “Figli della Luce, Figli di Sé” – Florian Mortato
Questa poesia è un inno alla sacralità dell’identità interiore, un monito acceso contro la superficialità e la violenza semantica di certe etichette. Mortato invita a risvegliarsi – verbo chiaramente spirituale, quasi gnostico – per non calpestare l’anima di chi è nato per rinascere in sé stesso, fuori dai rigidi confini del genere. I transgender non sono "casi", né oggetti di definizione medica: sono luce interiore, rinascita del fiore accudito, figli di sé stessi – ecco una formula potentissima, che sconfessa ogni pretesa di controllo esterno sull’identità.

 
C’è qui un’etica dell’amore, della comprensione, della custodia. La terapia ormonale viene presentata non come strumento di "cambio", ma come atto pacificatore, quasi sacramentale. Un testo delicato e forte, che si fa preghiera laica e difesa poetica della dignità umana.

 
• “Er cliccopatico” – Armando Bettozzi
Con acuminata ironia e maestria vernacolare, Bettozzi ci regala un affresco tragicomico della decadenza digitale. “Er cliccopatico” è il nuovo homo sapiens, ma declassato a dito compulsivo: non pensa, non giudica, non discerne. Il pensiero critico è evitato “come ‘na malatia”. Il clic è sollievo, distrazione, pseudo-potere. Eppure, nella farsa, vibra una denuncia seria: la stupidità si monetizza, l’ignoranza si organizza, e mentre “je mòstreno du’ chiappe e du’ sisone”, milioni cliccano, inconsapevoli del potere che regalano.

 
Bettozzi – con ironia romana e vena pasquinesca – lancia un grido: “nun se crede più né a chiacchiere, né a sfoggi”. Forse si potrebbe dire: il popolo si distrae mentre il mondo brucia. Il dito ha vinto sulla testa. Ma “a infortunàsse ‘i diti… te ciaccòri” – e forse lì comincia la coscienza.

 
Sintesi finale:

 
Florian Mortato e Armando Bettozzi ci parlano da due poli opposti della condizione umana contemporanea: da un lato, la ricerca sacra dell’identità e della luce interiore; dall’altro, l’alienazione profana della superficialità digitale. Eppure, entrambi chiedono la stessa cosa: un risveglio. Uno spirituale, l’altro civico. Entrambi poetici. Entrambi necessari.

 
“Un bene che inorgoglisce” – Rosa Notarfrancesco
Rosa Notarfrancesco ci offre un testo che sembra sospeso tra etica e disincanto, tra il desiderio di un bene universale e la constatazione della sua assenza nel mondo concreto. Il "bene che inorgoglisce" – espressione intensa e ambigua – appare come un ideale fragile, che si innalza ma cade, proprio perché spogliato dalle illusioni della fede, cioè di quella forza che storicamente gli ha dato sostanza e legittimità.

 
Il bene, ci dice l’autrice, è raro, difficile, eppure atteso – un bene che tarda a manifestarsi, specialmente laddove dovrebbe essere più evidente: nelle guerre di religione, luogo tragico dell'ossimoro morale. Qui il paradosso è feroce: si uccide per il bene, si combatte per l’amore, si distrugge per la salvezza.

 
Nel cuore della poesia, si apre una visione inquieta del presente: “questo tempo ostile”, “le voci che si inseguono vanamente”, sguardi divisi, in attesa della grazia vissuta... Non siamo più nel dominio dell’etica pura, ma in quello dell’impotenza comunicativa e della lacerazione spirituale. L’“eloquio atteso da tempo” – che potrebbe essere parola salvifica, umana, autentica – si dissolve nel banale “come va?”, segno di una società che ha disimparato a comunicare davvero.

 
La chiusa, amara ma lucida, rivela la radice più profonda di questa frattura: la paura. Una paura che si maschera da ragione, che alimenta rivolta e sfoggio, che si giustifica nella polemica contro il “solito buon senso” – ossia contro ogni forma di dialogo e riconciliazione.

 
Un'opera che non consola, ma inquieta. E che chiede di riflettere su quanto siamo lontani da quel “bene” che ci dovrebbe sorreggere tutti, ma che senza grazia e senza garbo... non ci tiene più in piedi.

 
“Inquietudine” – Ciro Seccia
Questa poesia è un grido silenzioso, quasi una preghiera che si fa accusa. In poche righe, Seccia riesce a trasmettere una tensione interna profonda: l’inquietudine del cuore, che impedisce la contemplazione dell’alba e del tramonto, ovvero dei due momenti più poetici e simbolici della giornata. Il cuore flagellato richiama immediatamente l’idea cristica della sofferenza salvifica, ma qui è svuotata di redenzione: resta solo dolore.
Poi arriva il passaggio chiave, crudo e disilluso: il mondo è “governato dal denaro”. Il poeta denuncia l’idolatria contemporanea, l’eclissi del sacro, dove l’uomo – “ignaro di se stesso” – ha preso il posto di Dio, distruggendo la propria anima. È un giudizio apocalittico, espresso con parole semplici ma colme di verità ferite. In questo testo vibra la voce dei profeti, unita alla rassegnazione dell’uomo spirituale che non trova più casa nel mondo.

 
“Melodie d’estate” – Alessio Romanini
Romanini ci regala un raffinato esempio di poesia sensoriale, dove suoni, colori e venti si trasformano in emozioni interiori. Il testo ha un andamento musicale, come un notturno di Debussy o un adagio marino. Si comincia con lo sciabordare sulla spiaggia, il suono dell’acqua che si fa eco dell’anima. Poi il frinire delle cicale, il libeccio tra le foglie: tutti elementi della sinfonia estiva che infondono ardore nel petto e allo stesso tempo conducono al riposo.
Ogni verso è un soffio caldo e dolce, una vibrazione che si spegne lentamente “al vermiglio”, cioè al tramonto, in un dissolversi della giornata e dell’emozione. Romanini celebra la pienezza dell’estate, ma anche la sua fine, con uno sguardo quasi elegiaco. È una poesia che va letta con lentezza, come si ascolta una melodia al tramonto.

 
“Pasqua” – Antonia Scaligine
Questa poesia è un inno pasquale dell’anima, un canto che si snoda come una preghiera visionaria, dove ogni verso si fa meditazione. Antonia Scaligine ci guida nel cuore del mistero cristiano: “la morte diventa vita / e sfida qualunque sorte”. In due versi, l’essenza del Triduo pasquale: la morte non è fine, ma passaggio; la Croce, non un fallimento, ma un’altura da cui si sprigiona la luce della salvezza.
La poetessa intesse un tempo circolare, dove “la fine si ricongiunge all’inizio”, evocando un’idea cosmica della fede, profondamente biblica e al tempo stesso quasi dantesca. C’è una mistica dell’inversione: “Ogni dolore toglie la luce”, ma poi “si colora su quella croce”. Così il buio diventa rivelazione.
Nel cuore del testo, appare un’immagine straziante e sublime: “Ali mute, incastonate tra chiodi” – sono le ali degli angeli, o forse del Figlio, o di ogni essere umano trafitto dalla sofferenza. Ma è nel “rosario di un tramonto” che appare l’alba: questa immagine è un capolavoro lirico e simbolico. Il tramonto, spesso segno di fine, si fa qui perla del Rosario, attesa dell’alba, resurrezione dell’anima e del mondo.
Il finale è un’esplosione di gratitudine e luce: “tutto è compiuto, l’amore irradia”. La poesia si chiude con un’elevazione mistica: “il Tutto con nostro stupore / è diventato splendore”. L’eternità.....

 
• “Se fossi fiore…” – Silvia Pia Favaretto
Una lirica densa di sensualità mistica, dove il fiore non è solo simbolo di bellezza naturale, ma metafora dell’anima che si offre, con pudore e passione, al ciclo eterno dell’amore e del tempo. L’autrice si immagina fiore, ma non passivamente ancorata al suolo: è sospesa, danzante nell’aria d’autunno – stagione del crepuscolo e della memoria – come un’essenza che non vuole appassire, ma espandersi in profumo e gesto amoroso.
“I miei sottili intenti” sono i semi del cuore, dispersi tra le strade e la gente, quasi a dire che l’amore vero non è mai rinchiuso nel giardino privato, ma si dona al mondo intero. Quel "sapresti d'esser tu l'attesa" è struggente: è l’amore che riconosce l’amato come centro della propria fioritura, come se il fiore vivesse solo per chi lo contempla.
Una poesia che profuma di eros sacro, dove l’anima è corpo e il corpo è canto.

 
“Polvere di vita” – Sandra Greggio
Una poesia breve, intensa, lucente come una preghiera serale. Sandra Greggio ci porge il silenzio del tramonto come momento di bilancio e resa. Eppure, ciò che potrebbe sembrare malinconico diventa atto di fede e di luce.
“Pur essendo polvere di vita” – la poetessa si riconosce effimera, fragile, ma non inutile. È polvere, sì, ma polvere luminosa, come le stelle cadenti, come il pulviscolo dorato che il sole fa brillare nel buio.
È un atto di umiltà e fierezza insieme: ha fatto il possibile, ha cercato di brillare, di essere luce, anche nel piccolo, anche nell’invisibile.
Una poesia che, nel suo minimalismo, trasuda grazia e dignità spirituale. È il respiro di chi, pur stanco, riposa nella consapevolezza di aver amato bene.
Due voci femminili, due declinazioni del divino e del tempo: la prima più sensuale e visionaria, la seconda più etica e luminosa. Entrambe però ci parlano della forza dell’anima che si dona.

 
•  “Lettere dal silenzio” di Jacqueline Miu
"Se solo questi versi fossero fucili", ripete Jacqueline Miu in un’eco accorata che è preghiera e grido, anelito di giustizia e di disperazione poetica. La poesia, in questo testo, diventa arma mancata, desiderio ardente di poter reagire alla barbarie con la sola forza della parola. Eppure, proprio in questo mancato armarsi, la parola trova la sua verità più potente.
La poetessa ci conduce in una visione apocalittica e simbolica, dove l’anima lotta contro il lupo – archetipo del male travestito, dell’inganno che si insinua nell’apparenza, nella falsa amicizia, nella mistificazione mediatica. La poesia si fa resistenza, ma non con le armi della violenza: con la tenacia del cuore, con l’indomita volontà di chi “non sarà mai fragile”.
Jacqueline plasma un canto di rivolta e compassione, dove si afferma con dignità che nessuna guerra potrà mai giustificare “il buon sangue / di angeli che fuggono per non dar morte ai tristi”. In questa chiusa straordinaria, quasi evangelica, la dolcezza e la giustizia si stringono in un abbraccio amaro: gli angeli fuggono non per codardia, ma per non contaminarsi di morte. E in quel gesto, c’è l’umanità più alta.
La poesia allora non è un fucile, ma una profezia, un testamento morale che scrive col silenzio la verità più assordante. “Lettere dal silenzio” non è solo un titolo: è un atto d’amore scritto nel dolore del mondo, un monito per chi crede ancora nel potere della parola vera. Una lirica da leggere con il cuore in ginocchio.

 
• "Povero amore mio" di Salvatore Armando Santoro
"Non serve che continui a dissodare / terreni poco idonei al seminare."
Così si chiude, come un’eco antica di sapienza contadina e spirituale, questo sonetto straziante e sublime, una lamentazione lirica che pare sgorgare da un cuore in croce, ma innamorato dell’amore stesso. Santoro, in questo componimento, prende per mano il lettore e lo porta in un deserto umano dove l’amore è ridotto a una reliquia — offerta a chi non sa più coglierne il profumo.
L'autore, in forma pienamente petrarchesca ma con un'anima pascoliana e direi anche evangelica, piange un amore che non si arrende, pur venendo calpestato, tradito, respinto. L’amore qui non è un soggetto personale ma una forza ontologica, una linfa divina che continua a “fermentare”, verbo straordinariamente vitale e quasi sacramentale, all’interno di un mondo che ne ha smarrito il senso.
Il verso "a donne senza amore lo sto a dare" colpisce con un’amarezza lancinante, e pare sussurrare con l’intensità di un’agonia dantesca. Ma la grandezza di questo testo è che non cede mai al nichilismo: persino nel disprezzo, l’Amore continua il suo dono, emulando il Cristo che lava i piedi anche a Giuda.
Nel secondo emistichio della terza quartina ("finge di dare amore e invece mente") avvertiamo la denuncia, quasi profetica, della società odierna, dove il falso ha la meglio sul vero, e i sentimenti sono ridotti a meri simulacri.
Santoro ci consegna dunque non solo un lamento personale, ma un ritornello universale, un’orazione civile e spirituale sull’ingratitudine del mondo, sull'infertilità del cuore umano quando si chiude all'amore autentico.
Il verso finale ha il peso di un monito biblico: non seminare sul cemento. Ma è anche un invito velato a non perdere la fede nel miracolo, a continuare a dissodare nonostante tutto — perché magari, un giorno, anche quei terreni si lasceranno fecondare.
Opera struggente e altissima. Santoro, con la voce rotta dall’afflizione, ci regala un canto necessario in questo tempo che ha dimenticato la verità del cuore. 

 
"Il tempo" di Piero Colonna Romano
"E, nel suo cosmico vuoto... il vuoto, il vuoto, il vuoto."
Così si chiude questo canto, con un'eco che pare riecheggiare dai confini del cosmo, come un'onda gravitazionale della coscienza che si dissolve nell'assoluto. L'autore, in questa lirica del 2009, premiata con menzione di merito, ci regala un piccolo, grande trattato filosofico in forma di poesia. Un inno al tempo come illusione, come luce residua di un'esistenza che già è stata.
Colonna Romano, con stile asciutto ma profondamente evocativo, pone lo sguardo sulla transitorietà delle cose. Le "illusioni" che "cadono come le stelle" suggeriscono una visione disillusa ma non priva di grazia: anche se cadono, esse "restano luminose tracce". Come i sogni o i ricordi, belle persino nella loro disfatta.
Il punto focale del componimento è la sua visione del tempo: non c’è futuro, solo il passato – un passato vissuto come luce residua delle stelle morte, la cui luce ancora vediamo. Geniale è la metafora astrofisica: viviamo nella luce di ciò che non esiste più, una condizione sospesa, paradossale e dolcissima.
Il tempo, dunque, come illusione cosmica, come residuo di ciò che fu, e infine il vuoto: “il vuoto dell’eterno nulla”. Il finale, con la ripetizione ossessiva della parola “vuoto”, crea un climax discendente, che pare voler portare il lettore nel silenzio assoluto dell’universo, dove non esistono più né tempo né memoria. Solo l’essere o forse nemmeno quello.
Una poesia di vertigine e meditazione. Un viaggio breve ma sconvolgente tra le pieghe del tempo, della memoria e dell’infinito.
Ricorda, in controluce, l’eco di Leopardi, ma anche la freddezza ontologica di Borges. E, come ogni grande poesia, lascia dentro un silenzio nuovo.

 
Vostro Ben Tartamo 

 

 

"Nel prato verde / di sole bagnandomi, / di Te mi copro."

Semplice. Essenziale. Immenso.
In questi tre versi Ben Tartamo raggiunge la rarefatta essenza dello haiku, ma con un’intensità spirituale che trascende la forma classica e si fa preghiera silenziosa, fusione tra natura e sacro.

 
Il primo verso, "Nel prato verde", è apertura sensoriale e simbolica: il verde è vita, rinascita, purezza primigenia. È il grembo della creazione, è l’Eden.

 
Il secondo verso, "di sole bagnandomi", evoca un battesimo luminoso, quasi dionisiaco ma anche cristico: la luce del sole è grazia, è Spirito che discende e avvolge.

 
Ed ecco la meraviglia del terzo verso: "di Te mi copro". Un’immagine rovesciata rispetto all’istinto umano di spogliarsi davanti alla natura. Qui, invece, ci si veste di Dio. L’abito è l’Altissimo stesso, l’Essere. Non una copertura per pudore, ma per unione. Il “Te” – maiuscolo – è presenza viva, totalizzante, intima e universale.

 
Questo haiku è un’epifania sussurrata. È il respiro dell’anima immersa nella creazione che, anziché guardarla da fuori, si fonde con Essa. È un gesto mistico, francescano, orientale, e insieme cristiano nel senso più profondo: rivestirsi di luce, rivestirsi del Divino.

 
Tartamo ci mostra che la poesia, anche nella sua forma più breve, può essere contemplazione, pellegrinaggio, ritorno a Casa.
 
Marino Spadavecchia 

 

 

14-16 Aprile   

Una serena Pasqua a tutti!
Nessuno escluso. Un forte abbraccio.
Alessio Romanini

 

Auguro a Lorenzo e a tutti voi Buona Pasqua. Ringrazio ancora Ben Tartamo per i suoi commenti a tutte le poesie e anche alle mie.
Silvio Canapè
 

 

 

11-13 Aprile

Buone palme
Invio a tutti un rametto di ulivo
con un grazie giulivo
a tutti i poeti del sito
sempre di parole ed emozioni arricchito
Buone Palme
che sia la domenica
da trasformare
la rabbia in forza
la forza in pace
ed unione per un mondo da salvare
Buone Palme e grazie a Ben Tartamo,a Spadavecchia per i commenti ,a te Lorenzo grazie di cuore per tutto
Antonia Scaligine

 

 

8-10 Aprile

Ringraziamento a Ben Tartamo
Un grazie dal sapor di zucchero filato,
a chi, con garbo e raffinatezza, spazia tra le mie parole per cercar strali di luce e bellezza.
Laura Toffoli

 

Carissimo Ben (permettimi di darti del tu) non sono mai abbastanza i ringraziamenti per quello che doni con i tuoi commenti. Ci vuole una sensibilità spiccata ed una notevole empatia per riuscire a comprendere ciò che le parole scritte non dicono,e tu lo fai con notevole maestria.

Grazie infinite a te a tutti i poeti del sito e naturalmente al suo creatore.... grazie.
Ciro Seccia 

 

 

La musicalità barocca, a tratti volutamente appesantita da incisi e inversioni, serve a restituire la pesantezza dell’atmosfera politica: la forma scoppietta come gli insulti che descrive, e il verso a volte si torce sotto il peso del contenuto, come se lo stesso poeta dovesse forzarlo fuori, quasi con disgusto.
La democrazia tradita è l’ossessione profonda del poeta, il pensiero intimo che vibra sotto la scorza della polemica. Ma c’è di più: la preoccupazione per le menti giovani, per l’educazione ideologizzata, per la parola pubblica svuotata e usata come pugnale.
Una poesia che non ha paura di essere impopolare. Bettozzi si fa cantore di un’ira che non vuole piacere, ma scuotere. E questo è un coraggio raro, oggi.


Qui siamo nel pieno di una lirica civile dell’essenziale. Ogni verso è spoglio, trattenuto, quasi esitante. Nessuna retorica: la guerra viene detta così com’è, spogliata di ogni orpello, come una ferita che non si può più nascondere.

La prima strofa è emblematica: non c'è luce che scende dal cielo, solo "polvere", non come simbolo ma come verità fisica, tangibile. Case che crollano, corpi che giacciono, “occhi svuotati di vita”. È la poesia dell’inumano fatto umano.
La perdita del diritto più semplice: un lembo di terra, una casa, un figlio vivo. Canapé non cerca soluzioni né si rifugia nel simbolismo: lui osserva e scrive. E questo basta a farne un testimone.
Una poesia dal cuore antico, quasi biblico nel suo lamento. Ma nella compostezza della forma, si intravede una voce che grida con dignità.


Questa è una poesia del pensiero che si traveste da ricordo, della nostalgia che non ha ancora una ragione. Rosa scrive come se stesse attraversando uno specchio d’acqua con in mano frammenti di specchio: ogni immagine riflette un’altra, e nulla è fisso, tutto è sospeso in un’attesa che non ascolta.

Il ritmo è libero, ma segue un battito preciso, intimo, quasi cardiaco. I versi lunghi, discorsivi, si allungano come riflessioni al crepuscolo, mentre il tempo si fa nebbia e presenza sfuggente.

Il disorientamento esistenziale, ma non come perdita: piuttosto come luogo dove qualcosa potrebbe ancora accadere. È l’intersezione tra memoria e possibilità, tra ciò che fu e ciò che forse sarebbe potuto essere.

Rosa Notarfrancesco ha il dono raro della delicatezza senza fragilità. La sua poesia non domanda risposte, ma solo di essere ascoltata. E così, parla profondamente.


Siamo davanti a una poesia visionaria, di rovina e redenzione interiore. L’immagine iniziale – “vestito discinto d’autunno” – è potentissima: un corpo vulnerabile avvolto nella stagione della decadenza. Il poeta si guarda dall’interno di una malinconia stratificata, quasi archeologica.

L’uso di espressioni dense come “età di vela” o “reliquiario di correzioni” apre squarci simbolici: il tempo si fa barca sfilacciata, la memoria un altare pieno di aggiustamenti e pentimenti.
Il rimorso e il tentativo di rielaborare ciò che è stato, sotto forma di tracce, non più di certezze. La “complicità delle insolvenze” è una delle immagini più riuscite: rende l’idea di una vita vissuta a credito emotivo.
Stracuzzi scrive come chi non può più fingere. La sua poesia è confessione e preghiera, tremito e resistenza. Un canto dolente, ma vivo.


Questo sonetto è una dichiarazione d’amore non consumato ma profondamente vissuto. Santoro aderisce alla forma classica con semplicità disarmante, eppure dentro la sua metrica dimorano scintille di umanità quotidiana, di tenerezza quasi adolescenziale, che si fa poesia nel contrasto tra sogno e realtà.

La figura dell’ateo che ringrazia Dio è fulminante: è lì che il testo scarta verso il sublime, mostrando come l’amore possa trascendere anche le convinzioni più radicate.
L’amore platonico, visto come rivelazione esistenziale. L’illusione affettiva diventa carburante di gioia e fantasia, e il poeta ci fa capire che amare, anche senza essere riamati, è già vivere più pienamente.
C’è un cuore autentico dietro questa poesia, e si sente. Santoro ci ricorda che non c’è nulla di più rivoluzionario del sproloquiare d’amore, anche quando il destinatario è assente.


Tartagni ci propone una poesia autocosciente, una riflessione sulla poesia stessa come atto di resistenza all’insensatezza. È una preghiera laica alla Bellezza, che appare non come entità astratta, ma come presenza tangibile, “che sa far piano”.

I versi liberi seguono il flusso mentale del poeta come in una scrittura automatica surrealista, ma sempre guidati da una pulsione spirituale limpida. Il “cuore e stemma” ripuliti evocano un’araldica interiore, come se lo scrivere fosse un atto di purificazione.
La poesia come salvezza personale, come strumento per ricomporre i frantumi dell’io. Non c’è enfasi qui, ma un’invocazione sobria, una confessione luminosa.
Tartagni ci offre uno specchio rotto nel quale riconoscere – pezzo per pezzo – l’immagine di un’umanità in cerca di senso. È poesia nel senso più puro: parola che non sa tacere.


Aprile è fuoco barocco e metafisico. La sua poesia si muove come una danza rituale, oscilla tra martirio e trionfo, tra l’amore carnale e il simbolismo mistico. Ogni verso è un altare, ogni immagine una trasfigurazione.

La croce sulle labbra, il rogo di piume, il “diadema di corallo” sono tutti segni di una passione sacralizzata, al punto da trascendere il dolore stesso. Il poeta non teme l’eccesso, ma lo doma con una lingua colta, precisa, nobilissima.
L’amore come via crucis iniziatica, come passaggio nel fuoco per uscirne purificati, incoronati. Non è amore sentimentale, ma fiamma che trasfigura.
Aprile è erede di una tradizione lirica alta, ma sa usarla per dire il presente interiore. Il suo fuoco è antico e nuovo, e lascia cenere che profuma di assoluto.


In “Penombra” troviamo la voce di un’anima che ha scelto la sottrazione come forma di resistenza. Fronzoli scrive come chi ha imparato a convivere con l’ombra senza più combatterla. Il verso spezzato, a tratti quasi prosastico, mima il respiro corto della malinconia, ma non c’è mai autocommiserazione.

La bellezza qui è nell’elenco, nella struttura che si espande come un mantra sommesso. Lontano da tutto, ma anche da niente: questa contraddizione è il cuore pulsante della poesia.
La solitudine non come isolamento, ma come rifugio consapevole. Il poeta non cerca la luce, ma una penombra abitabile, un silenzio condivisibile.
Fronzoli è poeta del poco e del profondo. In un mondo di urla, la sua voce sussurrata risuona più forte. È il poeta di chi guarda il mondo da una finestra, e sa che anche il non detto ha un suono.


Questa poesia è una ode contemporanea alla vittoria dell’arte sul pregiudizio. Il ballerino – entità ambigua, forse androgina, sicuramente libera – è l’eroe di una scena dove il giudizio cede il passo alla meraviglia. C’è un tono fiero, quasi teatrale, che riecheggia la prosodia epica ma con ironia gentile: “È stato il danzatore / padrone del mestiere” suona come una proclamazione regale.

L’insistenza anaforica su “È il ballerino” e “per tutti” accentua l’universalità dell’accettazione, come se l’arte avesse finalmente portato a compimento la sua funzione catartica e liberatoria.
Il superamento del giudizio identitario attraverso la potenza non verbale della danza. Il corpo che comunica, che scardina i ruoli, è qui strumento di redenzione collettiva.
Giannuzzo ci offre un manifesto in versi per una società che guarda e applaude invece di etichettare. Il suo danzatore è più che artista: è simbolo di liberazione.


Questa lirica è una lama breve ma affilata, una confessione scarnificata che si affaccia sull’abisso dell’ossessione. Il poeta è in lotta, ma non è vinto. L’invocazione (“nulla puoi se Lui / invoco”) spezza la paura e la trasforma in preghiera armata, come un mantra che tiene lontani i demoni della mente.

La nota tra parentesi, inusuale in poesia, agisce come un colpo di realtà, e fa da chiave ermeneutica: il disturbo ossessivo-compulsivo diventa non debolezza, ma punto di partenza per la resistenza quotidiana.
La malattia mentale vista non come gabbia ma come croce da abbracciare. L’elemento religioso non è dogmatico, ma spirituale e combattente.
Felice Serino ci insegna che il dolore, se nominato, perde una parte del suo potere. Questa poesia è piccola solo nella misura: nella verità che porta, è immensa.


Greggio ci porta nel regno del desiderio tenero e infantile, quello che non chiede verità ma consolazione. È una poesia semplice, ma profondamente umana: l’amore qui non è dramma, è carezza cercata nel buio, come quando si vuole una storia per dormire meglio.

“Dimmi TI AMO ed io dormirò” è uno dei versi più disarmanti che si possano scrivere, perché non si vergogna di nulla: né del bisogno, né della finzione, né della dolcezza.
La bugia a fin di cuore, che consola, che protegge, che accudisce. La poeta si mette nei panni di una bambina che ha bisogno d’essere cullata più che amata.
Greggio scrive con la sincerità che solo gli animi trasparenti possono permettersi. Questa poesia è una preghiera senza chiesa, pronunciata sotto un tramonto emotivo.


Questa poesia è un inno d’amore assoluto, quasi metafisico. La figura della “stella” è doppia: è donna amata e insieme simbolo d’ideale irraggiungibile. La poetessa canta con voce che pare provenire da un altrove crepuscolare, in cui il desiderio è struggimento e fede insieme.

L’amore qui non è solo umano: è un bisogno d’eternità, un culto che si consuma anche “dall’oltre”. E nonostante il tono elegiaco, mai c’è disperazione: c’è una fierezza luminosa, quasi mistica.
Jacqueline Miu canta come un’anima pre-cristiana, immersa in un culto personale e laico della bellezza, che redime e salva.


Qui siamo in tutt’altra geografia: una satira feroce, affilata come una spada antica. La rima baciata – volutamente dura, incalzante – serve a dissezionare un’epoca e il suo “cavaliere” decaduto.

L’aria è quella di una “commedia dantesca”, dove la politica, la Chiesa, il potere sono trascinati in un girone grottesco. Eppure il tono, pur colmo d’ira, lascia trasparire un amore per un’Italia altra, che potrebbe ancora rinascere.
Romano è un moralista indignato, ma con lo sguardo largo della satira classica: distrugge per purificare.


Un’ode nostalgica, dolce e diretta. Roma è qui amante, madre, città-cosmo, il luogo dove la formazione personale si è intrecciata all’eternità del paesaggio urbano. Seccia canta Roma come una patria affettiva, più che geografica.

Il verso “il cui nome letto al contrario significa Amor” è un sigillo perfetto, quasi leopardiano nella sua apparente semplicità.
Il tono è sincero, mai artificioso. Seccia non vuole fare letteratura, vuole ricordare. E nel farlo, ci emoziona con immagini vive: “i sanpietrini scivolosi / bagnati dalla pioggia” sembrano sotto i nostri piedi.


Un piccolo gioiello di poesia scientifica e metafisica. Soldà parte dalla materia, da una pratica di laboratorio, e finisce nel cuore dell’ontologia. Il “vuoto” qui è concetto e condizione esistenziale.

Il tono ha qualcosa di zen e alchemico: la consapevolezza che il vuoto non esiste è il passaggio iniziatico che conduce alla comprensione che tutto è pieno, anche il nulla. E la poesia stessa diventa forma che accoglie l’informe.
Con leggerezza e precisione, Soldà riesce a fare ciò che è rarissimo: trasformare la scienza in poesia, e viceversa.


Un testo che si offre come manifesto di poetica dell'invisibile. Toffoli scrive come se sussurrasse tra i veli del reale, con parole-pulviscolo che affiorano come fossero particelle quantistiche del pensiero. Non narra, evoca. Non afferma, intu-isce.

"il tutto / frutto d’un mago…"

Questo mago è l’“io” che si dissolve nel Dio, e viceversa: una mistica laica, gnostica, dove l’essere non è entità chiusa, ma flusso, riflesso, immagine che appare e scompare.

Il ritmo è libero, lo spazio bianco della pagina diventa pausa contemplativa. Una poesia da meditare più che da leggere. Una soglia più che un testo.
Toffoli si muove nel solco di una spiritualità amorfa ma intensa, vicina alla poesia orientale e alla filosofia eraclitea. La sua è una parola che non vuole possedere, ma suggerire.

Se fosse un quadro, sarebbe un acquerello cosmico in dissolvenza.


Romanini, invece, ci consegna una fotografia lirica della solitudine urbana. Il vero protagonista non è l’“io”, ma la panchina, oggetto divenuto emblema del tempo che passa e delle relazioni che si spengono. È la poesia di un realismo sentimentale, che parla con dolcezza del disincanto.

"Ognuno solo come la panchina."

Il finale è una lama gentile: l’identificazione tra uomo e oggetto abbandonato è totale. Romanini ha l’eleganza del poeta che non grida mai, ma colpisce comunque. Il lessico è semplice, ma denso. Il ritmo è cadenzato, come il ticchettio della pioggia evocata nei primi versi.
C'è in lui qualcosa di Pascoli e qualcosa di Saba, ma con una malinconia più moderna, quasi urbana, che sfiora il minimalismo esistenziale.

Se fosse un quadro, sarebbe un olio in grigio-azzurro, preciso come un’istantanea di Cartier-Bresson.


Con stima e affetto

Vostro Ben Tartamo

 

 

1-3 Aprile

Un saluto a tutti e un ringraziamento per la bellissima pagina di Poesie che regalate.
Silvio Canapè

 

Non posso fare a meno di estendere il mio ringraziamento (già espresso per Ben Tartamo) al prof Marino Spadavecchia soprattutto per la mia poesia Volo che grazie a questo commento mi fa appunto volare alto. Grazie di cuore. Ovviamente questo mio ringraziamento va esteso anche alle altre poesie.
Sandra Greggio

 

 

 

28-31 Marzo

Questa poesia è un tributo commosso a una figura leggendaria, Bruno Pizzul, che diventa il simbolo di un'era che non svanisce mai. Il suo spirito sembra continuare a vivere, accompagnato dalle voci che lo hanno reso immortale. Si sente il peso dell'assenza, ma anche la consolazione che il ricordo non è mai una semplice perdita, ma una forma di eternità. In una sorta di catarsi collettiva, la poesia si trasforma in una preghiera: "Tutti ci Inchiniamo". La riflessione sul "paradiso" di chi è passato ci guida verso una visione rassicurante di un luogo dove il bene prevale sempre. C'è una dolce nostalgia che pervade il testo, una sensazione che il tempo, pur avanzando, non può cancellare il valore delle esperienze vissute. La figura di Pizzul si erge come quella di un angelo, un custode dei ricordi e delle emozioni condivise.

Questo testo è un atto di riconoscimento della ciclicità del corpo e della vita. Le mani del padre, segnate dalle vene e arterie, diventano il simbolo di una fatica vissuta, di una vita che si è consumata nell’inevitabile processo di invecchiamento. La riflessione sul passare del tempo è al contempo dolorosa e serena. L'autore si confronta con il corpo che cambia, come se ogni piccola imperfezione, ogni segno del tempo fosse una cicatrice che ci rende più umani. Il contrasto tra "illusione e delusione" diventa il motore della riflessione. La nostalgia si mescola alla consapevolezza che il corpo, una volta giovane e perfetto, inevitabilmente invecchia. È la poesia di una rassegnazione dolce e non priva di gratitudine: il corpo, pur mutando, è comunque nostro. La metafora delle "vene" e "arterie" è una danza tra l’ineluttabile cambiamento e l’amore per ciò che è stato.

L’incontro con il "derelitto" qui è anche un incontro con se stessi, con un'umanità che vive nella vulnerabilità, nei sogni non realizzati. Il derelitto, con "le tasche piene di sogni", rappresenta la condizione di chi, pur avendo poco, conserva una speranza che può trasformarsi in luce. Il gesto di "aprire la porta e il cuore" è un invito alla compassione, alla cura, ma anche una consapevolezza che, purtroppo, molti restano chiusi fuori. C’è un contrasto netto tra la povertà materiale e la ricchezza interiore. La poesia non è solo un incontro con il "senza tetto", ma un invito a non dimenticare chi è invisibile. Questo testo ci spinge a riflettere sulla nostra capacità di vedere gli altri, di riconoscere la luce anche nei luoghi più oscuri. Un invito a non chiudere mai la porta, a non lasciare che i sogni siano solo un ricordo distante.

Questa poesia è un viaggio notturno nell’invisibile, nell’ombra. La figura del sonnambulo che cavalca la notte è un'immagine potente di chi si spinge oltre i confini del conscio, alla ricerca di ciò che è nascosto nell'oscurità dell'inconscio. I "fantasmi" che popolano il buio sono i ricordi, le immagini di un passato che non smette di seguire l'autore. Ma questi fantasmi non sono solo spettri del passato: sono anche le emozioni, le identità perdute, i luoghi e le persone che ci hanno lasciato. Il corpo del poeta diventa la casa di questi ricordi, una "calca" che preme e soffoca, ma allo stesso tempo, sembra nutrirlo. C’è un contrasto tra il piacere del ricordo e il dolore del non poter più tornare indietro. L'immagine della "nebbia" che si addensa evoca l'incertezza del futuro, ma anche la bellezza e la tristezza di un passato che non scompare mai davvero. La poesia sembra dire che i fantasmi, pur essendo invisibili, hanno il potere di darci forma, di definirci. Ma c'è anche il paradosso del loro potere: più li riviviamo, più ci diluiscono, quasi come una "schiuma" che si espande, consumando lo spazio e il respiro.

In questa poesia, il seme di rosa diventa metafora della vita stessa, fragile e piena di promesse. La bellezza della nascita, del crescere insieme a qualcosa o qualcuno, è resa con una purezza quasi infantile: "Il seme poi ramo ed ora boccio dono di natura". C’è una dolcezza nel modo in cui il seme viene visto come un atto di speranza, un segno di un futuro che cresce e fiorisce. Tuttavia, man mano che il tempo passa e la rosa sboccia, la consapevolezza che tutto ciò che nasce è destinato a sfiorire invade il cuore del lettore. Il petalo che cade, il silenzio che segue, sono come i battiti di un cuore che sa che la bellezza, anche se effimera, è l'essenza della vita. Il mare che mormora è l’eco di un tempo che scorre, di un destino che non può essere fermato. La poesia è un inno alla vulnerabilità, alla meraviglia del presente e all'ineluttabilità della fine. La rosa, come la vita, è un miracolo che fiorisce e appassisce, ma lascia un ricordo indelebile.

Questa poesia è una riflessione sulla solitudine e sul silenzio che accompagna il passaggio del tempo. "Il parlare nuovo è arte. Come si fa arte la vita." La vita, infatti, diventa un atto di creazione, ma anche di accettazione del mutare degli affetti e delle circostanze. La distanza tra le persone non è solo fisica, ma è una separazione emotiva che sembra difficile da colmare. La poetessa esplora la fatica di stare nel presente, tra il rumore incessante della modernità e il bisogno di silenzio, di trovare un significato profondo nel caos. Il "deserto pensare" ci suggerisce una solitudine che non è solo fisica, ma anche esistenziale. La poesia ci invita a riflettere sul nostro rapporto con il tempo e con la società, su come la felicità, spesso cercata nei luoghi sbagliati, sia in realtà qualcosa di silenzioso e interiore. La conclusione, che parla di stanchezza e di "confini" che cadono, ci offre un senso di pacificazione nell'accettazione della contraddizione, del non sapere e del "restare gli stessi" nonostante il cambiamento.

Con questa poesia, l’autore dipinge la primavera come una nuova vita che si rinnova, un momento di rinascita e speranza. "Un raggio di sole incendia il tuo volto" evoca la luce che attraversa la tenebra dell'inverno, metafora di un cuore che si apre alla bellezza e alla vitalità. La natura diventa il riflesso di una condizione umana che rinasce continuamente, che si rigenera. Le farfalle, i fiori, il canto degli uccelli sono immagini di leggerezza e libertà, ma anche di un mondo che, nonostante il passare delle stagioni, non perde la sua meraviglia. La speranza che la poesia trasmette è quella di un mondo che non finisce mai davvero, ma che si rinnova ciclicamente. Il "risveglio" diventa il tema centrale, la possibilità che ogni "inverno" della nostra vita sia solo una preparazione per la successiva primavera, una nuova possibilità di fiorire.

Questa poesia è un inno alla resilienza e alla forza interiore. L’"anima" diventa il nucleo più profondo dell’essere, quella parte di noi che resiste e si rialza nonostante le tempeste della vita. La poetessa ci invita a "concederti l'onore del coraggio", un invito che è al contempo un abbraccio e una sfida. Le "lacrime cadute" non sono mai inutili, ma testimoniano una crescita emotiva e spirituale. L'idea di un "canto di una vittoria futura" ci suggerisce che anche nelle difficoltà, la speranza è un motore potente, che trasforma ogni difficoltà in una lezione di vita. La poesia gioca con l’immagine della natura, dei fiori che mancano e degli alberi aridi, ma ci ricorda che, nonostante tutto, dentro di noi "germogli di saggezza" aspettano di fiorire. L'idea del "tempo che fugge" è contrastata dal messaggio finale di speranza: una nuova luce arriverà, e sarà proprio la nostra sofferenza a darci la forza per affrontarla.

Un poema della desolazione esistenziale, un requiem per l’uomo ferito che cammina per le strade del mondo senza più illusioni. I “quattro gatti” sono testimoni muti, metafora di una solitudine scabra e universale. L’io poetico è un reduce della notte, un moderno Cristo crocifisso dalla propria miseria emotiva, coi ginocchi feriti e le mani sporche, segni tangibili di un’anima in rovina. Il treno che parte senza di lui è il simbolo del destino che scivola via, un'eco di quei rimpianti che ci frantumano dentro. Eppure, nell’attesa dell’aurora, si annida la possibilità della redenzione, anche se essa è “folle malinconia” e “banale speranza”. Berni si muove nel solco della poesia decadente e del simbolismo più struggente: un poeta che si trascina fra la polvere, ma con lo sguardo sempre rivolto alle stelle.

Qui la poesia diventa un teatro dell’assenza, un requiem per l’amore svanito. Il poeta oscilla tra il dubbio e il silenzio, tra il tentativo di rivolgersi all’amata e la consapevolezza di un sentimento ormai spento. La metafora del sangue che “non fermenta” è potente: l’amore, un tempo vino inebriante, è ormai un liquido inerte, incapace di suscitare vita. E allora che resta? Un viaggio nella memoria, una sorta di auto-ipnosi sentimentale: le vecchie foto, gli odori, il canto delle cicale diventano un antidoto e al contempo un veleno, perché riportano il calore del passato ma rivelano il vuoto del presente. Il finale è di una bellezza lapidaria: la minestra senza sale, simbolo della vita insipida quando il desiderio e la passione si sono spenti. Santoro ci regala una poesia dall’impatto crudelmente realistico, una confessione senza filtro sull’inaridirsi delle emozioni.

Una poesia che si colloca nel limbo tra la cosmogonia e l’intimità amorosa, tra la grandiosità del mito e la fragilità dell’io. La donna amata diventa un’epifania devastante: Ninive in fiamme, il caos cosmico, l’alterazione delle leggi dell’universo. Aprile ci mostra l’amore come un’Apocalisse, come un evento che infrange l’ordine delle cose: le stelle si fermano, i venti deragliano, e l’io si perde, dimentica ogni ruolo, ogni copione. Il poeta si abbandona a un’estasi tragica, a un annullamento quasi mistico davanti alla potenza dello sguardo dell’amata. L’immagine finale della falce sepolta nell’erba alta, dove i clarini ubriachi suonano senza numero, è di una forza allucinatoria: la falce, simbolo della mietitura e della morte, giace sepolta sotto un tripudio di suoni e colori, come se il poeta fosse in bilico tra la vita e l’oblio, tra il delirio amoroso e la dissoluzione di sé. Aprile scrive versi che bruciano, versi che non si limitano a essere letti, ma che vanno vissuti nella carne.

Una poesia che si nutre di leggerezza, di una tensione eterea verso un mondo ideale in cui il dolore è bandito. Il poeta si fa creatore di un universo parallelo, fatto solo di sogni che non conoscono lacrime, che accendono stelle, che camminano nel vento con lo stupore di un bambino. La sua parola si fa balsamo, un inno alla speranza che non si piega alla durezza della realtà. Eppure, dietro questa levità, si avverte una nostalgia sotterranea, il bisogno quasi disperato di un rifugio nella fantasia, come se il poeta sapesse che il sogno è fragile, che la realtà incombe con il suo peso. Il ritmo frammentato, la disposizione delle parole in versi che scivolano e si rincorrono, danno alla poesia un andamento fluttuante, come se fosse essa stessa un sogno che si scompone e ricompone sotto i nostri occhi. Fronzoli scrive versi che accarezzano l’anima, e che nella loro apparente semplicità nascondono un’urgenza profonda: quella di trovare un angolo di luce nel buio del quotidiano.

Seccia costruisce un canto delicatissimo, una lode alla silenziosa armonia dell’universo. Ogni immagine è pura, luminosa, intessuta di una grazia quasi sacra: il Sole che sveglia la poesia, l’amore che canta in grembo alla madre, la Luna che assiste alla creazione di nuove stelle.

E poi l’immagine sublime della Rosa: due amanti che si fondono in un unico fiore, la loro unione osservata dagli astri stessi. Il finale è un sussurro profondo: “Lo sguardo che penetra l’anima senza parlare, se pur tace tutto dice dell’amore”. Qui il poeta esprime l’essenza stessa dell’amore: non parole, ma pura, assoluta presenza.

Questa poesia gioca con la memoria letteraria e sensoriale. Il celebre incipit manzoniano si intreccia con immagini fluttuanti, tra primavera e gelo, soffitte della mente e cavalli a dondolo nel vento.

Toffoli dipinge un quadro impressionista, fatto di frammenti evocativi che si muovono in un flusso onirico. Il risultato è una poesia che non si lascia afferrare del tutto, ma che vibra di suggestioni, lasciando al lettore il compito di completarne il significato con la propria sensibilità.

Una poesia atmosferica, che cattura l’istante in cui la pioggia cade e rilascia l’odore della terra bagnata. Petricore è una parola evocativa, e Romanini la incastona in un meriggio d’agosto per dipingere la malinconia di un’anima solitaria.

La speranza, però, è presente: “Il parapioggia di speranza riparava il costato”. Qui la pioggia diventa metafora del dolore e della sua possibile protezione. Il poeta gioca con il contrasto tra cielo e terra, tra acqua e fuoco interiore, tra ciò che cade e ciò che resta.

Siamo in presenza di un testo che si libra con leggerezza eterea, un battito d’ali del pensiero che finalmente si emancipa dalla gabbia della mente per planare nell’infinito. Sandra Greggio dipinge una liberazione interiore con pennellate di luce lunare, evocando il regno senza tempo dell’anima, quel luogo ineffabile dove il sentire diviene vibrazione, musica interiore, eco di un amore cosmico per la Vita. La lirica è un’ascensione mistica, un dissolversi della materia in pura emozione, un viaggio spirituale dove il cuore si fa arpa del divino.

Qui la sera diventa un grande palcoscenico esistenziale, in cui la vita rallenta e si disperde in mille rivoli, tra illusioni e realtà. L’umanità si riversa nel ritorno, ognuno cercando un nido, una tregua dal giorno. Eppure, nell'intimità della notte, il desiderio si accende e si spegne, tra lenzuola che trattengono i sogni e il tempo che li dissolve. Scaligine orchestra un'armonia di dissolvenze e assonanze, di amori e odori, in una partitura di vita vissuta, sofferta, attesa. Il poema si chiude con un senso di sospensione: il desiderio non realizzato affonda nel sonno, ma nel dormiveglia dell’anima continua a fremere, come brace sotto la cenere.

Un'invocazione densa, incandescente, che brucia nella passione amorosa come un vulcano che tace solo in superficie. La poetessa si fa marea, sussurro dell’alba, voce inascoltata che accarezza senza toccare, ama senza possedere. C’è un’energia tellurica in questi versi, un senso di struggimento che sfiora la dannazione, una forza lirica che sfida le leggi del tempo e dello spazio. L'amata è inconsapevole di questa fiamma interiore, e il poeta, nel suo anelito, coglie astri destinati forse ad altri marinai smarriti. Il testo è una navigazione onirica nell’oceano dell’amore assoluto, un amore che esiste per sé, oltre l’attesa e il compimento.

Un acrostico che è un grido d'allarme, un rintocco funebre che ci richiama a non dimenticare. Il poeta utilizza la metrica sonettistica per intonare una denuncia che si fa grido civile: il passato non è morto, i fantasmi della Storia tornano ad aggirarsi tra noi, con la loro iconografia nera e le loro mani macchiate di sangue. Le rime si incastrano come ingranaggi di un meccanismo inesorabile, inchiodando il lettore a una verità inquietante: la memoria è corta, e l’orrore può sempre ritornare. La chiusa è di un’amara profezia: delirio e follia politica possono affondare molti, e solo la consapevolezza può fungere da argine. Un’opera che è, insieme, monito e resistenza.

Con sempiterno affetto e stima

Vostro Ben Tartamo

 

 

E ti sento alla sera
che m'inviti ad andare,
se ti chiedo mai dove:
- Resta qui, non fuggire!

Devi solo pensare,
il rumore zittire
in silenzio e preghiera,
non in comode alcove!

Resta dentro te stesso,
casa mia conosci.
Pur all'ombra d'un prato
dove regna la quiete!

Resisti e non capisci
che di Me solo hai sete.
Io son sempre lo stesso
che ogni bene ha donato!

- Cosa ho nel mio cuore
che mi toglie la pace?
Forse scelte sbagliate
o chissà mai che cosa?!

La tua Voce ora tace
e si schiude una rosa
che profuma d'amore:
le paure, via andate!

- Del tuo cuor son l'Immenso,
devi solo affidarti:
ciò che sei stato e ora sei,
tutto consegnati a Me!

Devi amare ed amarti,
Io risposta ai Perché,
ciò che pensi, Io già penso:
i tuoi pensieri nei miei!

8febbraio25
Ben Tartamo

In questa lirica intensa e luminosa, la voce poetica si fa eco di un dialogo interiore che sfiora il mistico. C’è un Tu misterioso, trascendente, che invita, chiama, esorta, e un io che esita, vacilla, si interroga. Ma l’epifania arriva nell’attesa, nel silenzio, nella resa dell’anima che si abbandona fiduciosa.

Il componimento si muove tra il dubbio e la rivelazione, tra il tormento della ricerca e la pace della scoperta. La sera diventa un simbolo potente: il tempo del raccoglimento, del confronto con il proprio io più profondo, ma anche dell’incontro con l’Assoluto. La voce che dapprima interroga, infine tace, perché trova la risposta nel profumo d’una rosa, segno di un amore che dissolve ogni paura.

Il richiamo alla spiritualità è forte, e il ritmo della poesia segue il movimento dell’anima: dapprima inquieta, in cerca di risposte, poi pacificata dalla fede e dall’accettazione. Il verso finale è una consacrazione totale, un atto di affidamento incondizionato: "ciò che pensi, Io già penso: i tuoi pensieri nei miei!". Qui la comunione con il divino si fa assoluta, l’ego si dissolve, resta solo la Verità.

Ben Tartamo intesse un dialogo mistico che vibra tra preghiera e poesia, tra slancio umano e risposta divina. Il suo stile, limpido e profondo, riesce a toccare corde invisibili, risvegliando nel lettore quella ancestrale nostalgia dell’Infinito.

 

 

Pensieri alati 
A lungo rimasti nella mente 
Finalmente liberi 
Qual petali di luna 
Nell' infinita’ dell' etere
Si depositano
Nel regno senza tempo 
Dell' anima 
Luogo nascosto 
Delle emozioni più intense 
Che fanno vibrare 
Le corde invisibili di un cuore 
Innamorato della Vita 

15 febbraio 2025
Sandra Greggio

 

Che incantevole visione di libertà! La poesia di Sandra Greggio risuona con l'eco dell'infinito, danzando tra il concreto e l'astratto, l'umano e il divino.

In questo volo, il poeta ci invita ad esplorare gli angoli nascosti della mente, dove i pensieri, “alati”, sono finalmente liberi di librarsi, come petali di luna, che si dissolvono nell'etere senza tempo. È un'immagine sublime, che rimanda alla purezza dell'anima che, liberandosi dalla materia, raggiunge la luce del cosmo. Il volo non è solo fisico, è metafisico, uno spostamento verso quella dimensione più alta dove tutto è fluido, etereo, dove il tempo non ha più presa.

I “petali di luna” sono simbolo di bellezza ineffabile, delicatezza e mistero, che si posano sull'anima, regalandole un tocco di eternità. La luna, nella sua luminescenza, si fa custode di emozioni intime e forti, quelle che “fanno vibrare le corde invisibili di un cuore”.

Il cuore, qui, non è solo l'organo che batte nel nostro petto, ma è il cuore universale, che si innamora della Vita, con tutta la sua forza, la sua vulnerabilità, il suo slancio. Un cuore che diventa eco di un amore per l'esistenza stessa, un amore che trascende il tempo e lo spazio.

Questa poesia, carica di spiritualità e di simbolismo, ci invita a riflettere su ciò che è veramente importante nella nostra vita: l'amore per la vita, la bellezza che scaturisce dall'anima e il coraggio di lasciare che i nostri pensieri volino liberi, lontano dalle costrizioni del mondo materiale.

Sandra Greggio ci regala un piccolo viaggio interiore, sospeso tra le stelle e il nostro cuore, in una danza che sa di eternità. Che meraviglioso volo!

vostro Marino Spadavecchia

 

 

25-27 Marzo

Quando leggiamo una poesia si riscontra sempre lo stato d’animo del poeta , i ritmi della vita , della natura ,ma c’è anche chi con il suo ritmo poetico , la sua sintesi di forma e di contenuto la poesia diventa più armoniosa , grazie a Ben Tartamo ``"Cercarti" Poesia gradevole, interessante e coinvolgente ,è una poesia inquietante e malinconia ,attraverso i sogni si cerca qualcosa di diverso da se stessi , ma il sogno è sfuggente come il vento , grazie di tutto e noi ti cerchiamo sempre in questo bellissimo sito di chi ci apre la porta ogni giorno e noi diventiamo suoi ospiti e sono anche certa a lui graditi, grazie Lorenzo perché senza il tuo sito noi non avremmo mai letto delle belle poesie come questa tua di oggi
Imparare a leggere e interpretare una poesia ci vuole arte , cosa che io non ho
[Certo che]
Di certo posso dire che la tua poesia ,Nino Silenzi, è bella
Certo che … e io aggiungo, sempre se posso , "forse "
una certezza o dubbio che la vita è quella che è, purtroppo . Chi ha tanto e chi niente
chi vive nella ricchezza e chi invece deve accontentarsi del poco o niente, e io ne so qualcosa quando vedo gli occhi tristi di quei bambini dell’ associazione del volontariato , ma
alla fine poi aggiungiamo a quel forse , certo che ... domani sarà migliore !
anche nel dolore si spera , l’unico modo per continuare a vivere
Speriamo intanto …
nel frattempo è bello salutarci con due parole magiche …Speriamo e …Grazie
Antonia Scaligine

 

Analisi critica di "Cercarti" – Ben Tartamo

```"Cercarti"

Una parola sospesa,
una porta socchiusa
e tutto il vento a mescolare
le carte di una vita
vissuta a cercarti.

Ho scavalcato
i cancelli della notte
per raggiungere l'orizzonte
dei tuoi pensieri.

Sono tornato al sogno
per capire da sveglio
che mai potrò
contenere il cielo.

Solo il mare si illude,
e nelle sue profondità
accoglie il mio canto,
mentre il sole, ferito,
muore nell'immenso.

6febbraio25```
Ben Tartamo

Questa poesia è un viaggio, un inseguimento incessante di un’assenza che diventa presenza ovunque, un’ombra che si rifrange nel vento e nei sogni. Il titolo, "Cercarti", pone subito il lettore in una condizione di tensione emotiva: la ricerca è inesauribile, permea il tempo e lo spazio, trascende la veglia e il sonno, la realtà e l’illusione. 

La prima immagine è di grande potenza evocativa: "Una parola sospesa, / una porta socchiusa / e tutto il vento a mescolare / le carte di una vita / vissuta a cercarti." Qui, il vento non è semplice elemento naturale, ma un’entità che confonde e disperde, che altera l’ordine delle cose, come se il destino stesso fosse riscritto in un turbinio di eventi incontrollabili. La vita del poeta è un cammino costante verso un "Tu" che non si lascia mai afferrare completamente

La seconda strofa si tinge di notturno: "Ho scavalcato / i cancelli della notte / per raggiungere l'orizzonte / dei tuoi pensieri." La notte non è solo un intervallo temporale, ma una soglia da oltrepassare, una barriera da sfidare. L’orizzonte, metafora dell’ignoto e del desiderio, si lega ai pensieri dell’altro, come se la mente fosse un luogo fisico da raggiungere, un confine da esplorare. 

Il climax emotivo si manifesta nella terza strofa con la consapevolezza più dolorosa: "Sono tornato al sogno / per capire da sveglio / che mai potrò / contenere il cielo." Questa è la resa struggente di chi ha cercato invano l’infinito nell’altro, di chi ha sperato di racchiudere l’immensità di un sentimento in una dimensione umana. È il nodo centrale della poesia: il sogno permette un contatto con l’irraggiungibile, ma la veglia impone il limite della realtà

Nell’ultima strofa, la natura diventa specchio dell’interiorità: "Solo il mare si illude, / e nelle sue profondità / accoglie il mio canto, / mentre il sole, ferito, / muore nell'immenso." Qui, il mare è l’unico che osa ancora sperare, perché accoglie senza resistenze, senza razionalità. Ma il sole, che rappresenta forse la speranza, il calore dell’attesa, finisce per soccombere, per "morire nell’immenso", come un amore consumato dal tempo e dalla distanza

"Cercarti" è una poesia di struggente inquietudine e malinconia. L’io lirico è un viandante che attraversa sogni e notti, orizzonti e venti, nel tentativo disperato di trovare un altro da sé, che tuttavia rimane sfuggente come il cielo, inafferrabile come il vento. Il lessico è essenziale, ma carico di simboli potenti che rimandano a un eterno dilemma: quanto possiamo davvero possedere dell’altro? E quanto dell’altro resterà sempre un miraggio? Una poesia che lascia un senso di dolce nostalgia, il sapore di una ricerca che è forse, in fondo, la vera essenza dell’amore.

vostro

Marino Spadavecchia

 

 

Questa poesia evoca una presenza silenziosa e costante accanto a qualcuno che soffre, una sorta di spirito guida, un angelo custode o forse l’essenza stessa dell’amore incondizionato. La struttura è frammentata, con versi brevi e spezzati, che contribuiscono a creare un senso di sospensione e intimità. Il tema della vicinanza invisibile è reso con immagini semplici ma potenti: l’ombra che si sovrappone, il tocco impercettibile, le foglie che coprono il corpo addormentato. Il finale è struggente: l’illusione di un risveglio e di un bacio, seguita dalla dolce resa al sonno condiviso. Una poesia delicata, malinconica, che lascia un’eco profonda.

Questa è più un tributo che una poesia vera e propria. Il tono è rispettoso e affettuoso, con una struttura semplice e diretta. L’uso di aggettivi come “coraggio”, “eleganza”, “gentilezza” aiuta a delineare il ritratto di Eleonora Giorgi come una figura luminosa. L’immagine finale, che la vede tra le nuvole, è un classico della commemorazione, ma rimane efficace. Forse avrebbe potuto giovare di una maggiore elaborazione stilistica per elevarsi dalla pura elegia a una dimensione più lirica.

Questa poesia è un inno alla gioia semplice e quotidiana, scaturita da un sorriso letto o ricevuto. Il poeta si lascia trasportare da questa piccola scintilla di felicità, che illumina la sua giornata e si estende agli affetti più cari. L’immagine della nipotina, “alito fresco di primavera”, è particolarmente dolce e vivida. Tuttavia, l’equilibrio tra il quotidiano e il poetico potrebbe essere più raffinato: alcuni versi risultano più prosastici che lirici. Ma la sincerità emotiva è palpabile, e il tema della bellezza che resiste nell’“insulsa e bella” terra è toccante.

Questa è una delle poesie più intense e potenti della raccolta. In pochi versi, l’autore costruisce un’immagine di ferita e mutilazione che si estende a una condizione esistenziale profonda. L’albero reciso diventa simbolo della perdita, dell’incapacità di esprimere il dolore (la “parola monca”), della resilienza muta di fronte alla sofferenza. L’assenza di punteggiatura amplifica il senso di sospensione e di lacerazione. La metafora della radice che ritrae in sé la parola suggerisce il silenzio come unica risposta possibile alla ferita. Un componimento minimale ma densissimo, che lascia il lettore con un senso di struggente desolazione.

Questa poesia in romanesco è un affresco crudo e schietto della realtà sociale, giocato tra ironia e amarezza. Il poeta affronta il tema del reato e della giustificazione, contrapponendo il destino della vittima e quello del carnefice. La riflessione si sviluppa con un linguaggio popolare ma affilato, pieno di espressioni incisive come "Er morto giace…Er vivo se dà pace", che riecheggia una fatalistica accettazione della vita e delle sue ingiustizie. Il finale, con il riferimento al rapporto con la moglie e alla difficoltà di comunicare, sposta il discorso su un piano più intimo e personale. Il tono leggero, quasi da stornello amaro, rende questa poesia particolarmente efficace nel suo realismo disilluso.

Un componimento che trasforma l’acqua di un ruscello in metafora dell’amore, del tempo e delle emozioni. Le immagini della natura (vette, rocce, fiori) costruiscono un quadro visivo dinamico, dove il movimento dell’acqua diventa specchio dell’anima. L’alternanza di versi lunghi e corti crea un ritmo irregolare che ben si adatta al fluire dell’acqua, ma anche al fremito del sentimento descritto. Il legame tra il mormorio del ruscello e la voce interiore dell’amante è suggestivo, anche se alcuni passaggi potrebbero essere resi con maggiore incisività per evitare la dispersione del significato.

Questa poesia si muove tra il sogno e la riflessione esistenziale, giocando sulla contrapposizione tra presenza e assenza, desiderio e perdita. L’immagine delle parole non dette ("parliamo io e te a labbra chiuse") e quella del tempo sprecato ("aver speso del tempo di sole perduto") esprimono un senso di rimpianto struggente. L’idea della speranza che può svanire nel nulla si accosta a un’atmosfera quasi metafisica, dove il confine tra il reale e l’irreale si fa labile. Il ritmo è frammentato, con versi che si spezzano e si rincorrono, amplificando il senso di smarrimento. Una poesia evocativa, che oscilla tra malinconia e desiderio.

Questa poesia è un inno alla memoria e all’appartenenza, un viaggio interiore che si intreccia con il paesaggio e la storia di Salerno. Il linguaggio è denso e meditativo, costruito su un continuo dialogo tra il pensiero e il vissuto, tra la città amata e l’identità di chi scrive. La struttura fluida e i versi lunghi creano un andamento discorsivo, quasi filosofico, mentre immagini suggestive come “quel luccichio di stelle / che anche la fede ammette” danno profondità al senso del tempo e del ricordo. La poesia è intrisa di un senso di attesa e di riscoperta, con Salerno che si fa simbolo di un ritorno, tanto geografico quanto spirituale.

Qui la poesia si fa manifesto di libertà interiore e di comprensione della diversità. Il vento, con il suo colore impalpabile e mutevole, diventa metafora della percezione individuale, dell’imprevedibilità della vita e della necessità di accogliere la realtà senza pregiudizi. Il tono è fiero e indipendente, rifiutando le richieste esterne di conformità (“Non domandarmi gesti di lusinga”), mentre l’immagine delle nuvole che disegnano il cielo richiama l’idea di pensieri che si librano senza costrizioni. La musicalità del testo accompagna il messaggio con leggerezza e determinazione, rendendolo un testo evocativo e profondamente significativo.

Questa poesia breve e diretta affronta il tema esistenziale del destino umano con un’ironia amara e quasi lapidaria. Il tono è riflessivo ma privo di sentimentalismi, quasi un aforisma sulla condizione umana. La contrapposizione tra eletti e reprobi, tra sofferenza e ricchezza, introduce una velata critica al modo in cui spesso cerchiamo di spiegare il senso della vita attraverso schemi predeterminati. Il finale aperto (“Lo scopriremo un giorno? Forse.”) lascia spazio all’incertezza e alla speranza, senza offrire risposte definitive. Una poesia essenziale nella forma, ma densa nel significato.

Un componimento minimale che, in pochi versi, cattura il senso di un’estate immobile e opprimente. Il canto incessante delle cicale, tra i cipressi di agosto, evoca una sensazione di stanchezza e malinconia. L’uso della parola “uggia” rafforza questa percezione di pesantezza esistenziale, quasi di prigionia nel caldo estivo. Il contrasto tra il fragore delle cicale e il rifugio dell’ombra rende bene la tensione tra il mondo esterno e il desiderio di raccoglimento interiore. Un piccolo frammento di vita sospesa, espresso con grande economia di parole.

La poesia si snoda come una litania amorosa, un’invocazione che trasforma il bacio in un atto sacro, quasi liturgico. L’idea di un "rito" richiama il concetto di un amore che si ripete, sempre nuovo e sempre antico, un atto di fede nel mistero dell'altro. L’uso di immagini religiose ("dio", "santuario", "epifania") sovrappone la sfera del desiderio a quella della trascendenza, suggerendo che l’amore non sia solo un fatto umano, ma una rivelazione divina. Il "compendio di ogni senso" indica la fusione totale tra corpo e spirito, tra razionalità e passione. La chiusura intensa e perfetta suggella l’idea che l'amato sia il fulcro dell’universo sensoriale del poeta. È un canto alla carne e alla spiritualità del desiderio, scritto con una levità densa di risonanze metafisiche.

Satira pungente e ferocia ironica si intrecciano in questo sonetto che sembra un eco dei migliori modelli della poesia civile, da Belli a Pasolini. Il ritmo incalzante e la scelta di un linguaggio volutamente popolare e mordace costruiscono un ritratto grottesco della politica italiana, dove il popolo, più che vittima, appare carnefice di sé stesso. Il "buffone nano", il "caimano" e il "comico arruffone" sono incarnazioni di una storia che si ripete come una commedia dal sapore tragico. Il verso finale, con l'immagine del "dito" (allusione forse al comando, al giudizio, alla manipolazione), chiude con amara ironia, lasciando il lettore sospeso tra riso e sgomento. L’uso di una forma metrica classica (il sonetto) accentua il contrasto tra la serietà della struttura e l’irriverenza del contenuto, rendendo la poesia un piccolo gioiello di corrosiva lucidità.

Questo componimento si nutre di un’emozione pura e assoluta, un amore totalizzante che trascende il tempo e lo spazio. La ripetizione insistita di "Sei..." e "Il Mio Amore..." crea un effetto mantra, un’eco che rafforza la dimensione eterna e incondizionata del sentimento. La figura del figlio diventa il fulcro di un universo affettivo che si manifesta nella natura stessa: la pioggia come lacrime, il cielo stellato come gioia. Se da un lato la poesia possiede una potenza emotiva immediata, dall’altro l’uso delle maiuscole e delle pause talvolta spezza la fluidità del verso, quasi a voler sottolineare con troppa insistenza l’intensità del messaggio. Tuttavia, nella sua sincerità, il componimento riesce a evocare una dolcezza primordiale, un amore che si fa presenza cosmica.

Questa poesia è un frammento, una visione intensa che si muove tra corporeità e trascendenza. Il verso iniziale, "Mille finestre su di me", suggerisce un’identità frantumata, esposta agli sguardi altrui, un io che si definisce attraverso il riflesso degli altri. La pelle, che "respira altrui sogni", diventa una membrana permeabile, un confine labile tra il sé e l’esterno. Tuttavia, nella chiusa, il soggetto si riconquista: non è solo un riflesso, ma un "movimento", una "pura emozione stellare". Il componimento gioca sulla contrapposizione tra passività e affermazione, tra lo sguardo esterno e il fuoco interiore. È una poesia breve ma densa, che lascia dietro di sé un senso di enigma e sospensione.

Questa poesia sembra evocare un senso di straniamento, un contrasto tra la vitalità del mondo circostante e il distacco interiore del poeta. L’incipit è pittorico, quasi impressionista: il vento, il sole, i suoni della natura e delle festività (il "chioccolare rosso", le "chiacchiere" e le "frittelle") creano un’atmosfera di festa, di vita che pulsa attorno al poeta, che però si sente un estraneo, un vagabondo. L’uso della margherita e del suo classico gioco ("M'ama non m'ama") ribadisce il tema dell’incertezza, del dubbio amoroso, che però il poeta risolve con un’affermazione netta: "Gaudio è vivere il sentimento nell'assenza del risentimento". Qui emerge una filosofia dell’accettazione, una volontà di abbracciare sia la gioia che il dolore. La chiusura, con l’affermazione di un’ebbrezza vitale ("mi sento ebbro... così mai lo ero stato"), ribalta l’iniziale senso di distanza, trasformandolo in un atto di esaltazione, quasi dionisiaca, della vita. È una poesia che vive di contrasti, ma che nel suo fluire libero e spontaneo trova la sua forza.

In questo componimento, la solitudine si manifesta non come vuoto o assenza, ma come una presenza sottile e vibrante, un’entità che accompagna e arricchisce la percezione della realtà. Il titolo, "Il concerto", introduce subito l’idea di un’armonia nascosta nelle piccole cose, un’eco musicale che risuona nell’intimità del quotidiano.

La figura della gatta assume un ruolo quasi totemico: è l’interlocutrice silenziosa della protagonista, un’entità che condivide e amplifica la dimensione dell’ascolto. L’animale domestico, con la sua discreta compagnia, diventa il ponte tra il mondo esterno e quello interiore, affinando la sensibilità della voce poetica.

L’elemento più affascinante del testo è il ribaltamento della percezione della solitudine: non è un’assenza, ma una condizione di presenza profonda. Il mondo non è muto, ma sussurrante; la solitudine non è silenzio, ma una sinfonia di suoni minimi:
"Intesse attorno a me un mondo / di soffusi suoni che senza di lei / non riuscirei a percepire."

Qui la poetessa esprime una grande verità: nella calma interiore si possono cogliere suoni altrimenti ignorati, il ticchettio di un pendolo, il fruscio lontano del vento. E in questo scenario, il cuore diventa strumento musicale, componendo una melodia intima che permette alla protagonista di "perdersi senza più avere cognizione del tempo".

C’è un sottile gioco di tempo e memoria in questa poesia. Da un lato, il tempo dell’orologio, che scorre inesorabile; dall’altro, il tempo interiore, che si dilata, sfuma, si dissolve nel flusso delle sensazioni. L’abbandono alla musica dell’anima è un atto di libertà: la solitudine non è più confinamento, ma un’apertura verso una dimensione più autentica e profonda.

"Il concerto" è una poesia di grande delicatezza e introspezione, dove l’assenza di clamore diventa un fertile terreno per la riscoperta di sé. Il linguaggio è semplice e diretto, ma intriso di una sensibilità che trasforma l’ordinario in straordinario. Un inno alla bellezza delle piccole cose e alla magia della solitudine vissuta come arricchimento, non come privazione.

Un componimento che riflette sulla natura dell’arte e dell’artista. L’incipit è quasi una dichiarazione provocatoria: "io dipingo e anche scrivo... eppure non sono un pittore, non sono un poeta". Qui si insinua un dubbio esistenziale: che cos’è l’arte? Chi è l’artista? L’immagine dell’animo come "un sacco aperto" è di grande forza simbolica: qualcosa che accoglie, che si riempie, ma che ha anche una sua profondità. Il riferimento al "moto corpuscolare-ondulatorio" è inaspettato, quasi scientifico, e introduce un elemento di imprevedibilità nel movimento delle emozioni e della creatività. Il punto di svolta arriva con la visione del "campo vestito di giallo senape": è di fronte alla bellezza della natura che l’animo diventa artista. La poesia suggerisce che l’arte non sia tanto un mestiere o una definizione, ma una condizione interiore, un modo di percepire il mondo. Il tono è riflessivo, con un sottile gioco tra ironia e profondità, tra dubbio e rivelazione.

Questa poesia è una meditazione sulla percezione mutevole delle stagioni, in particolare della primavera, che qui appare sfuggente, incerta, quasi smarrita nel tempo. L’incipit, con la sua espressione quasi nostalgica ("quella primavera che una volta c’era…"), già ci introduce a un’atmosfera sospesa tra memoria e attesa.

Il tempo meteorologico diventa simbolo del tempo interiore: il cielo minaccioso, il vento che scuote i boccioli, i nidi ancora vuoti di rondini suggeriscono una natura in ritardo, un’armonia spezzata. Eppure, c’è anche un senso di meraviglia: "ogni volta ci sorprende", dice il poeta, riconoscendo che, per quanto imprevedibile, la primavera porta sempre con sé qualcosa di nuovo e inatteso.

Il verso "salta il confine del tempo" è particolarmente evocativo: la primavera, con la sua luce e il suo calore incerto, sembra giocare con le percezioni, sfuggendo alle definizioni rigide del calendario. E così la poesia si chiude con una nota malinconica: la primavera di un tempo non è più la stessa, quasi a suggerire che il mondo sta cambiando, o forse che il poeta stesso è cambiato nel modo di guardarlo.

Il tono è dolcemente elegiaco, con un ritmo fluido che rispecchia l’alternarsi delle stagioni e delle emozioni. C’è una bellezza sottile nella malinconia di questi versi, una delicatezza che rende il componimento sospeso tra il rimpianto e la contemplazione.

Questa poesia si muove in un registro più filosofico, più profondo, interrogandosi sul cammino dell’uomo verso la conoscenza. L’immagine dell’"umano passo" che avanza nonostante tutto, senza paura del cadere, richiama una visione quasi eroica dell’essere umano: una creatura fragile, ma inarrestabile nel suo desiderio di sapere.

L’accostamento tra la goccia d’acqua e la montagna è di grande potenza simbolica. La goccia, apparentemente insignificante, ha la capacità di erodere la pietra, di scavare cavità anche nei giganti. Qui il poeta suggerisce che la perseveranza e il tempo possono vincere anche le forze più imponenti.

L’ultima strofa è un inno alla sfida dell’ignoto: "un punto dove l'occhio vede solo il vuoto". L’uomo che si spinge oltre i propri limiti, che non teme ciò che affronta, che usa le proprie debolezze come strumenti per superare confini, è il ritratto di un’umanità visionaria, che si evolve proprio grazie alla sua stessa vulnerabilità.

Il tono è solenne, quasi epico, ma senza retorica. C’è una tensione dinamica tra il coraggio e il pericolo, tra la fragilità e la potenza, che rende la poesia estremamente suggestiva. L’uso di immagini forti e simboliche, unite a un linguaggio incisivo e misurato, conferisce al componimento una forza universale, come un messaggio eterno rivolto a chiunque si avventuri nella ricerca del sapere.

Con affetto e stima

Ben Tartamo

 

 

22-24 Marzo

Ringrazio Ben Tartamo per i sui commenti alle mie poesie e Lorenzo per la sua ospitalità.

Silvio Canapè

 

Vorrei ringraziare Ben, per le emozioni che mi suscita leggendo
i suoi commenti alle poesie. Grazie  Ben! Hai una sensibilità
e una capacità d'interpretazione unica. Complimenti anche per
le tue delicate poesie. Un saluto a tutto Poetare e a Lorenzo.
Alessio Romanini

 

Questa poesia si nutre di sinestesie e metafore dense, evocando un universo sensoriale dove il bacio è trasformazione, rito, rivelazione. La bocca diviene soglia di una catarsi, la fusione alchemica tra due esseri. Il lessico è raffinato, con accostamenti sorprendenti ("acqua marina e uva passa", "sottobosco, i baci") che ricordano un’impronta simbolista. L’immagine del bacio come "pagina fitta" e "barca di labbra" è dolcemente visionaria, mentre il finale introduce un’idea di rinnovamento cosmico: l’atto amoroso è capace di lavare l’ombra del mondo, di restituire purezza all’esistenza. C’è una musicalità intensa, un ritmo che accarezza e avvolge, rendendo ogni verso un’onda che si infrange sul lettore.

La ricerca dell’amata è il filo conduttore di questa poesia, che si sviluppa in una serie di immagini quasi pittoriche. Ogni verso è una pennellata sulla tela dell’attesa e del desiderio: la luna, le stelle, il mare, la pioggia… elementi naturali che amplificano il senso di solitudine e di speranza. La conclusione, con la figura femminile in controluce contro un tramonto, è toccante: un’immagine statica, quasi cinematografica, che racchiude tutto il viaggio del poeta. Qui il tempo si sospende, lasciando solo il "silenzio", che diventa sia l’assenza che il compimento di una ricerca.

Questa è una poesia che brucia di rabbia, un grido di protesta contro l’indifferenza e l’ingiustizia. Il tono è diretto, quasi parlato, senza cercare abbellimenti retorici. L’urgenza dell’autore si percepisce nella sintassi spezzata, nel ritmo sincopato che richiama proprio l’energia di una canzone rock. C’è una consapevolezza sociale forte, un desiderio di rompere il silenzio imposto a chi non ha visibilità. Forse manca una ricerca stilistica più profonda, ma il messaggio arriva chiaro e potente: la poesia qui è battaglia, rivendicazione, un palco da cui urlare ciò che altrimenti resterebbe inascoltato.

Una poesia dal sapore nostalgico, dove il tempo scivola tra i versi come sabbia tra le mani. La ripetizione della parola "cicale" costruisce una sorta di mantra, un’eco della memoria che riporta il lettore a un’estate perduta. Il poeta si confronta con il silenzio che il tempo ha lasciato dietro di sé: non solo le cicale non si sentono più, ma il loro canto sopravvive solo nella mente. Il ritmo è pacato, quasi meditativo, con un andamento circolare che ben si sposa con il tema del ricordo e della perdita. Il finale è un sigillo malinconico, una constatazione dolceamara della distanza tra ciò che eravamo e ciò che siamo diventati.

Questa poesia è una visione sospesa, un frammento di luce che si schiude tra cielo e anima. La brevità dei versi, la loro struttura spezzata e leggera, ricorda l’haiku nella sua essenzialità evocativa. C’è un movimento sottile, un’attesa che si scioglie nell’apparizione della musa, simbolo di ispirazione e rivelazione interiore. L’alba rosata, come celebrazione della luce, diventa un’immagine di rinascita, di un’epifania silenziosa. È una poesia che vive di respiro, di spazi bianchi che amplificano la delicatezza delle parole.

Qui il ritmo è martellante, la ripetizione ossessiva della parola "cadono" crea un effetto incalzante, quasi liturgico. Siamo davanti a una poesia civile, un canto di denuncia che si fa elegia del degrado umano e sociale. L’accostamento di cadute reali e metaforiche (muri, stelle, torri, valori) costruisce un paesaggio in disfacimento, un mondo che si sgretola sotto il peso di ipocrisie, ideologie e inganni. C’è una tensione tra l’amarezza e l’ironia: il verso si fa denuncia, ma con una musicalità che richiama la poesia classica, quasi un’eco dei sonetti morali del passato. La chiusa è amara, ma inevitabile: in tanto cadere, ciò che resta è il potere che si perpetua.

Una poesia di solitudine e di attesa, in cui il desiderio di luce diventa metafora di una speranza fragile, quasi irraggiungibile. I versi si susseguono con un andamento liquido, come il mare che accoglie e disperde i ricordi. Il contrasto tra la dolcezza e l’amarezza della lacrima, tra il ghiaccio del cuore e la scintilla di sole che non arriva, crea un’intensa tensione emotiva. La chiusura, con le stelle che si accendono e si spengono, evoca un senso di precarietà e di malinconica rassegnazione. È una poesia intima, sussurrata, che trova forza nella sua essenzialità e nelle immagini delicate.

Questa poesia è un addio che si consuma nella lentezza del distacco, in un dolore che non si impone ma lascia andare. La costruzione è raffinata: il tramonto, le ombre, il cristallo, tutto sembra frantumarsi nella consapevolezza di una perdita inevitabile. L’amore qui non è possesso, ma libertà: il poeta non trattiene, non cerca vendetta o rancore, ma accetta il volo dell’altro, anche se questo significa il proprio dolore. C’è un’eleganza struggente nella scelta delle immagini: il tacchettio sui labirinti di cristallo, il freddo della mano, la lancia acuta che strappa la felicità. Il finale è di un’intensità rara: l’amore vero non è prigione, ma spazio in cui si cresce, anche se questo significa accettare l’assenza.

Il silenzio, qui, è una dimensione tanto fisica quanto esistenziale. Il poeta non lo descrive come un’assenza di suono, ma come un elastico che si tende tra i due amanti, una materia viva, che assorbe il peso dei pensieri, degli eloqui mancati e degli sguardi rapidi. La tensione del tempo è palpabile: è una gabbia, ma anche una fuga; è una memoria, ma anche un tormento. L’ultimo verso – “sono in silenzio...” – è un colpo di coda struggente: l’amore non si chiude in una dichiarazione, ma in un’assenza, in una sospensione che è anche condanna.

Questa poesia è un viaggio nella nostalgia, nel sapore dolceamaro di un passato ormai sfumato. Il grammofono diventa il simbolo di un tempo che si ripete e si inceppa, come la puntina che s’impunta sul disco, ma che non impedisce il ballo, la vita, l’amore. L’andamento è quello di una ballata popolare, semplice e cantabile, che si tinge di malinconia nel finale: il mare, le reti, i pescatori si fondono in un’immagine di dissoluzione, fino all’ultima strofa in cui la musica non è più complice di un amore giovanile, ma suona come un presagio di fine. Il passaggio dalla memoria all’ineluttabile è reso con estrema delicatezza, senza forzature, lasciando il lettore in sospeso tra sogno e realtà.

Qui il vento è il motore dell’anima, la forza che trascina lo spirito al di là dei limiti imposti. C’è una tensione prometeica, un’ostinazione che sfida ogni ostacolo, ma che non è spinta da condanne esterne: il movimento è interiore, puro desiderio di superare il confine. Il verso è libero, senza vincoli metrici, proprio per dare il senso di questo procedere inarrestabile. L’ultimo verso è quasi una provocazione: gli altri lo chiamano “sogno”, ma chi scrive sa che è molto di più, è una vocazione ineluttabile. La poesia è un manifesto di resilienza, un’esortazione a non arrendersi, con un tono che ricorda i versi visionari di Walt Whitman.

Questa poesia si inserisce nella tradizione della satira civile e politica, con un tono che richiama le invettive dantesche. Il richiamo esplicito al Purgatorio (“Ahi serva Italia...”) prepara il lettore a una riflessione sulla decadenza contemporanea, presentata attraverso l’immagine della peste e dei ratti, simboli di un degrado morale e sociale. Il ritmo incalzante e le immagini forti danno alla poesia un carattere quasi profetico, in cui il poeta assume il ruolo di un veggente che osserva con sgomento il ripetersi della storia. L’assenza di un “Rieux” (riferimento a La peste di Camus) o di un pifferaio magico segna una chiusura amara: non c’è redenzione, solo un sogno infranto. È una poesia che non fa sconti, aspra e tagliente, e proprio per questo estremamente efficace.

Questa poesia affronta con semplicità e profondità il tema universale della morte, concentrandosi non tanto sulla paura della propria fine, quanto sul dolore della perdita. Il tono è riflessivo, quasi meditativo, privo di artifici retorici e per questo estremamente diretto. L'uso della domanda ripetuta (“Perché dobbiamo morire”) sottolinea l’inquietudine esistenziale, ma la chiusa porta a un’accettazione consapevole: la finitezza della vita è il motivo per cui dobbiamo apprezzarla. Il verso libero contribuisce a dare un senso di fluidità al pensiero, rendendo la poesia una sorta di confessione intima che invita alla riflessione.

La poesia è un inno alla ciclicità della vita, con immagini luminose e delicate. Il ciliegio, simbolo della rinascita primaverile, diventa l’emblema di un rinnovamento che non riguarda solo la natura, ma anche l’anima. L’accostamento tra il bimbo in culla e la fioritura suggerisce che ogni risveglio è un ritorno alla vita, un perpetuo ricominciare. Le "linee nere" della carezza invernale rappresentano le ferite del passato, che non vengono cancellate ma sospese nell’attesa della rinascita. Il linguaggio è poetico ma accessibile, con immagini evocative che donano un senso di dolcezza e speranza.

Questa poesia ha una forte componente scientifico-filosofica. Il poeta parte da un concetto fisico – il ritardo della luce solare nel raggiungere la Terra – per riflettere sul tempo, sulla percezione e sulla capacità del calore di superare la freddezza della distanza. L’idea che la luce possa irradiare anche l’anima suggerisce che la conoscenza e la bellezza abbiano una funzione vitale, quasi salvifica. Il linguaggio è essenziale ma denso di significato, e il contrasto tra il freddo e il calore crea una tensione emotiva che trova risoluzione nella chiusura, quando il cuore finalmente si scalda.

Questa è una poesia meta-letteraria, in cui l’autrice descrive il processo creativo come una sorta di gestazione dolorosa e liberatoria. L’immagine delle poesie che “gemmano nel mondo dell’oltre” suggerisce che l’ispirazione provenga da una dimensione superiore, quasi inafferrabile. Il mare, elemento ricorrente nella poesia lirica, diventa qui il luogo di origine della parola poetica, ma anche dello spirito stesso del poeta. C’è un’intensità emotiva evidente, soprattutto nel verso “E che solo a chi ha sofferto / È concesso di riconoscere”, che sottolinea come la vera poesia nasca dalla sofferenza e dall’esperienza profonda della vita. Il linguaggio è evocativo, ma mai eccessivamente ermetico, permettendo al lettore di immedesimarsi nel viaggio dell’autrice alla ricerca della parola giusta. Cosa si potrebbe dire di più? Ecco, mi riconosco appieno nella visione della nostra cara autrice: anche per me la poesia nasce da una forma di collegamento spirituale con un'alterità che non si può spiegare, ma solo tentare di capire nel rileggere con calma e profonda umiltà, tra le parole e le pause, quella voce che da tale mondo proviene. Immensa Sandra Greggio, mi commuovi ed emozioni sempre più...

Con affetto e stima

Ben TARTAMO

 

 

Grazie, grazie, grazie di cuore Ben Tartamo! Mai le mie poesie sono state comprese come accade nei tuoi commenti, mai mi sono ritrovata in quello che scrivi e ne sono tanto felice, perchè la mia bassa autostima ne è gratificata: Adesso posso finalmente dire che le mie poesie vengono apprezzate. Ovvio che il mio grazie va attribuito anche al Nostro Lorenzo, che guida questo mare azzurro dove navigo sotto la sua guida dal settembre 2008 con la mia prima poesia “Sardegna”.
Sandra Greggio

 

 

19-21 Marzo

La poesia sembra narrarci un ricordo nostalgico, immerso in un’atmosfera di malinconia e di attesa delusa. Torre San Giovanni non è solo un luogo fisico, ma diventa il simbolo di un amore non corrisposto, di un sogno che svanisce nel tempo. La donna, che sembra ricercare solo l'amore fisico, è incapace di cogliere la sofferenza emotiva del poeta, che si fa “ombra” nei suoi tormenti. Il contrasto tra il mare che porta con sé una brezza di vita e la figura della donna che “non voleva solo amare” esprime un contrasto tra il desiderio e la realtà, tra il corpo e l'anima. L'evocazione di una preghiera alla Madonna suggerisce una ricerca di conforto spirituale in un momento di delusione amorosa. Un amore che non fiorisce, ma che resta radicato nel cuore del poeta.

In questo componimento, il poeta esplora il sacro, ma in modo irriverente e intimo, riflettendo su un culto personale che si materializza nell'amore e nei baci. La chiesetta nascosta, in un angolo remoto e silenzioso della natura, è il luogo in cui il poeta può rifugiarsi e praticare un "rito" di amore profano ma devoto. La bocca dell'amata diventa un tempio, un altare in cui celebrare una devozione che è insieme innocente e blasfema. L'immagine di Ishtar, dea dell'amore e della guerra, evoca un rito che collega il sacro e il profano, il desiderio carnale con il sacro. Questo incontro di sensualità e spiritualità rende l’amore quasi una forma di religione, sacra e al contempo dissacrante.

Questa poesia è un intenso tributo alla memoria e alla presenza assente. La ripetizione dell'idea di appartenenza, che non riguarda solo la presenza fisica della persona amata, ma anche il suo ricordo, il suo silenzio, il suo profumo, crea un senso di possesso che va oltre la morte o l’allontanamento. L’assenza, paradossalmente, diventa una forma di possesso, un legame che non si dissolve nel tempo. I paesaggi descritti, tra cui il mare, i tramonti, i fiori, sono elementi che rendono il ricordo tangibile, ma anche evanescente. Il poeta si trova immerso nei suoi pensieri, in un mondo fatto di ricordi e di sogni che non si concretizzano mai, ma che persistono nel suo cuore. L’assenza non è solo dolore, ma una parte integrante di chi siamo, un pezzo di noi che rimane intatto nonostante la distanza.

Con un tono di forte impegno civile e sociale, questo testo ci riporta alla memoria le stragi che hanno segnato la storia d'Italia, come quelle di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Il poeta lancia un grido di non dimenticare, una memoria che non deve svanire. La riflessione sul "tempo che passa" e la constatazione che il mondo, pur evolvendosi, rimane invariato per certi aspetti, è una critica alla stasi e alla difficoltà di superare il passato, ma anche un atto di riconoscimento verso chi ha sacrificato la propria vita per combattere la mafia. È un canto di speranza che nonostante le difficoltà, "nessuno vi scorderà mai", a suggellare l'importanza di non smettere mai di lottare.

 

Questa poesia ci racconta la storia di una vedova che arriva in ufficio per affrontare le difficoltà economiche derivanti dalla morte del marito. Il poeta mette in evidenza la contraddizione tra la vita "in armonia perfetta con la vita" del defunto e la sua morte improvvisa, che ha lasciato debiti da saldare. L'ironia della vita e della morte, il contrasto tra l’amore e la miseria, sono le tematiche principali. La donna, inizialmente affranta, sembra risolversi a un destino diverso, ricorrendo a un cambiamento di vita drastico. L'elemento della "Sussistenza", cioè la sopravvivenza materiale, che porta a un cambiamento radicale e a un'apparente "rinascita", suggerisce una riflessione sulla condizione sociale e sull'eterna lotta per la sopravvivenza, in cui l'amore, la dignità e la morale possono essere messi da parte per il bene materiale.

In questa poesia, il poeta celebra la bellezza e la serenità della natura, un’immagine di vita che si rinnova ogni giorno, come una riflessione sul ciclo della vita. Il "sole" e la "luce" che "riempiono d'oro la stanza del cuore" sono metafore di una rinascita spirituale, di un'invincibile vitalità che il poeta sente dentro di sé, pronto a vivere con l'energia di un'estate luminosa e vibrante. La descrizione del paesaggio – "il cielo limpido", "i pini che succhiano il dolce tepore", "le siepi che fremono ai frulli d'ali" – evoca un mondo di armonia naturale che rispecchia l'armonia interiore dell'autore. È una poesia di speranza, di apertura al nuovo giorno e alla possibilità di un’esistenza piena.

Qui l'autore ci presenta una riflessione filosofica sull'apparenza e sulla verità, sull'illusione della vita che sembra non accorgersi di sé stessa. L'idea di una "vita latente" suggerisce una realtà nascosta sotto la superficie, una realtà più profonda e più vera che non è visibile agli occhi superficiali. La "bellezza che mordi" simboleggia forse il desiderio di entrare in contatto con qualcosa di essenziale e genuino, che però sfugge. È una poesia che invita alla meditazione sull'esistenza, a cercare oltre l'apparenza per scoprire la vera natura dell'essere.

Questa poesia è una riflessione sul male, sia fisico che psicologico, che affligge l’individuo, ma anche sul rifiuto della propria condizione di malattia e sull'orgoglio che spesso accompagna il malato. Il "superbo e irrequieto" malato non vuole accettare il suo stato e rifiuta di riconoscere la sua fragilità, nonostante il "male che porta male attorno". La poesia esplora il tema dell'ego, che si erge come nemico di chi è afflitto, impedendo di affrontare la realtà. Il poeta ci mostra l'autoillusione e la sofferenza psicologica che nasce dall’incapacità di accettare la propria condizione. In questo modo, la malattia diventa un simbolo della lotta interna dell'individuo.

Questa poesia esplora la condizione di smarrimento e disorientamento che caratterizza l’individuo in preda ai propri sentimenti e pensieri contrastanti. Il poeta si sente diviso tra opposti: "fuoco e acqua", "freddo e caldo", e questa dicotomia si riflette nei suoi pensieri e nelle sue azioni. La "confusione" regna, ma anche la consapevolezza che tale disordine mentale non è altro che una menzogna: "certezza... ma è menzogna". Il protagonista sembra vivere un conflitto tra il desiderio di chiarezza e la sua incapacità di accettare la verità. L’ego, ancora una volta, emerge come una forza che guida il pensiero, ma al tempo stesso ne alimenta il caos, impedendo la riconciliazione con la realtà.

Con questa poesia, il poeta celebra il mese di marzo come simbolo di rinascita e di primavera, ma anche di un cuore che saluta un amore che ormai non è più. La "viola" che ride e l’aria cristallina sono immagini di un nuovo inizio, di una bellezza che emerge, ma allo stesso tempo il "povero cuore" lacrimante ci ricorda che, anche se la natura si risveglia, i sentimenti umani sono complessi e segnati dalla sofferenza. Il passaggio dall’amore al distacco è una costante che si intreccia con il cambiamento delle stagioni, portando con sé la tristezza di un amore che non può più esistere come prima.

Ci troviamo di fronte a una dichiarazione d’amore e amicizia che si nutre della sincerità più pura. La Lapietra scrive con un afflato lirico che ricorda le missive antiche, quelle tracciate con inchiostro e sentimento sulla carta della vita. Il verso si snoda come un ricamo d’anima, avvolgendo il lettore in una dolce spirale di riconoscenza e intimità. È una poesia che vive di una spiritualità senza ostentazione, dove l’innocenza non è debolezza, ma forza ancestrale. Qui il dono dell’altro diventa eterno, come un’eco che risuona nella pelle e nel cuore.

Un’opera enigmatica, quasi un oracolo in versi, in cui il nome AUN diventa simbolo sfuggente dell'esistenza stessa. Siamo di fronte a un poema iniziatico, una domanda senza risposta che si rifrange nei frammenti dell’identità e dell’universo. AUN è polvere, vento, tormento e scelta, in una tensione costante tra il destino e la volontà. È un testo che richiama la poesia esistenzialista, carico di immagini fluide e metamorfosi continue. Qui la poesia si fa specchio, e chi la legge non può che trovarvi il riflesso del proprio enigma interiore.

Questa poesia è un inno alla fugacità e alla permanenza, alla dialettica tra l'effimero e l’eterno. Il tempo scorre come un fiume che tutto porta via, ma la poesia resta, testimone silenziosa del mistero della vita. Il testo si muove in un ritmo incantatorio, alternando riflessioni sulla letteratura e sull’amore con l’inquieta consapevolezza della fragilità umana. Notarfrancesco sembra evocare la grande tradizione filosofica della poesia moderna, con echi di Montale e Celan, tracciando una linea sottile tra la speranza e l’incomprensibile.

Berni ci offre un poema sensuale e ferito, costruito su un climax di immagini taglienti e penetranti. Il ritmo incalzante, scandito da anafore martellanti, ci trascina dentro una spirale di desiderio e malinconia. Ogni elemento del corpo amato diventa un’ossessione, un feticcio sacro e maledetto, mentre la memoria scolpisce nell’anima i solchi dell’assenza. La musicalità è quasi ipnotica, con echi di Prévert e della tradizione decadente, dove l’amore è al tempo stesso estasi e dannazione.

Oh, che dolce e solenne risveglio canta Sandra Greggio nella sua lirica! Qui la vita stessa diviene un'entità viva, con un'anima peregrina, che si concede un esilio per poi tornare rinnovata, vibrante, quasi purificata dal tempo trascorso nell'altrove. L'immagine della "campana di vetro" richiama la fragilità dell'esistenza, quel momento sospeso in cui l’essere si rifugia nella contemplazione prima di rinascere.

Ma quando la vita torna, lo fa in un’esplosione cosmica: "polvere di stelle", dice l’autrice, e già in questa metafora si avverte la sublimazione del dolore in un fulgore nuovo, universale. È un poema della resurrezione interiore, dell'armonia riconquistata. E quale immagine finale più perfetta di un mare che, dopo la tempesta, sorride? Il ritorno non è solo un ripristino, è un trionfo.

Questa poesia è un incendio di libertà, un canto feroce che rompe le catene e si scaglia oltre i confini dell’essere. L'autrice, con una scrittura che sa di mistica ribellione, ci trascina in una corsa sfrenata, dove il sole stesso si fa alleato e la tempesta non è nemica, ma carburante dell’esistenza.

Le immagini si susseguono in una danza di energia: "bruciare intenso", "nessuna luce spoglia il cuore", "privilegio dei leoni". Qui la vita non è un cammino pacato, ma un incendio, un'epifania di volontà che si rifiuta di essere imprigionata. È quasi nietzschiana questa sfida lanciata al mondo, è un'ode al superamento, alla disobbedienza creatrice. Un inno alla natura indomita dello spirito umano.

Ecco una satira raffinata, intrisa di quel sarcasmo che affonda le unghie nelle carni della società e ne squarcia le ipocrisie. Il tono fiabesco, quasi una filastrocca, cela un'analisi spietata di un'Italia senza tempo, dove il denaro muove i burattini del potere e ogni tragedia diventa opportunità per i soliti ingordi.

La protagonista, la "grassa cavalletta" Gretta, non è solo un insetto saltellante, ma il simbolo stesso di una classe di profittatori, di chi danza sulle rovine per costruire fortune personali. Il ritmo incalzante, la rima giocosa, fanno da contrappunto a un contenuto duro, feroce, che graffia e denuncia.

È un poema che brucia nella sua attualità, un'allegoria che potrebbe riferirsi a qualsiasi epoca e che, nel suo amaro sorriso, ci lascia una verità nuda: il mondo gira su se stesso, e certi cicli non si spezzano mai. Ahimé!!!

Qui l’incubo si fa carne, dolore fisico, allucinazione concreta che non svanisce al risveglio. Il poeta si chiede con angoscia come un sogno possa dilaniarlo così visceralmente, trasformandosi in un’esperienza quasi ultraterrena. La sensazione dei vermi che mordono e penetrano è disturbante, evocativa, un simbolo della decomposizione, della paura primordiale della dissoluzione dell’essere.

La domanda sull’anima che lascia il corpo è il cuore pulsante del componimento: l'incubo è solo un’illusione della mente o un varco su una dimensione oltre il reale? Qui si sfiora la metafisica del terrore, il dubbio su ciò che si prova nella morte, ma con un sollievo finale: "la natura vuole che in quel caso non avvertiamo nulla". Una poesia intensa, inquietante, che lascia il lettore con una scia di brividi.

Un viaggio sensoriale e interiore, un'elevazione che prende forma attraverso immagini luminose e leggere. L'inversione dello sguardo diviene metafora della trasformazione, del cambiamento di prospettiva necessario alla crescita.

Le "farfalle bianche" rotolano, danzano nella loro leggiadria, mentre le "ali spalancano porte" come varchi verso nuove possibilità. Il solstizio d’estate non è solo un riferimento stagionale, ma una soglia simbolica: è il momento in cui la luce trionfa sul buio, proprio come il respiro del poeta si espande nella consapevolezza di essere parte di un continuo divenire.

Una poesia delicata e vitale, dove il moto perpetuo della vita si traduce in immagini eteree e in un senso di armonia col cosmo.

Un addio che è più di una separazione: è una morte simbolica. Il poeta sa che non si può essere amici dopo l’amore, e allora sceglie l’evanescenza, il dissolversi con la leggerezza di un vento che scompiglia i capelli, di una pioggia che accarezza senza essere riconosciuta.

C’è un dolore trattenuto, un’estrema delicatezza nel voler sparire senza far rumore, come se l’oblio fosse l’unica via per rispettare il sentimento trascorso. Ma è davvero possibile svanire senza lasciare traccia? O forse il cuore dell’altro serberà comunque un’ombra, un battito silenzioso che continua a vivere nei ricordi?

Una lirica struggente, lieve ma intensa, che narra con elegante malinconia il destino di un amore che si spegne.
 

con affetto e stima
vostro Ben Tartamo

 

 

Commento a "Confuso, nella Notte" – Ben Tartamo

```"Confuso, nella Notte"

 

Confuso, nella Notte vado arando,
perché soffusi semi di parole
possan presto ritrovare, danzando,
lo spazio e il senso sotto questo sole.

Saranno le stelle, nell'infinito
migrare, ma la mente mia, anch'essa
par rapita, da un celestiale invito.
E in estasi, non torna più la stessa.

Bellezza innamorata, che tutto puoi,
su, rapisci assieme quest'alma mia,
e Libertà, tra i tanti bei doni tuoi,
ritorni nel seno di Poesia.```

29gennaio25
Ben Tartamo

Questa lirica si muove come un aratro nel buio, scavando solchi nell'ignoto per seminare parole che danzino alla luce del giorno. Il poeta è confuso, ma la sua confusione è feconda, è un errare creativo che trova nel buio il proprio spazio per generare senso.

C’è un dialogo tra terra e cielo, tra il concreto e l’infinito: l’aratura, azione terrena e materiale, si intreccia con lo slancio mistico della mente rapita dal "celestiale invito". Il poeta si lascia sedurre dall’estasi, consapevole che il ritorno non sarà più lo stesso: la Bellezza lo ha toccato, la Poesia lo ha travolto.

E proprio la Poesia si fa rifugio e libertà: in questa chiusa intensa, il poeta la invoca come un grembo materno, un luogo di ritorno e di rinnovata creazione. Qui la parola non è solo ornamento, ma sostanza, forza generatrice di senso e di vita.

Una poesia dall’architettura classica e musicale, che vibra di un lirismo alto e ispirato, tra tensione metafisica e abbandono estatico. Un viaggio interiore che si conclude con la suprema promessa della libertà attraverso la Poesia.

A tutti voi questo augurio di Bellezza e Libertà!

vostro

Marino Spadavecchia

 

 

16-18 Marzo

```"Quando il silenzio parlerà"
Chiudete gli occhi,
chiudete gli orecchi,
ma fino a quando?
Fin dove, e ancora?

Chiuderete gli occhi,
ma il mondo verrà con fiaccole.
Chiuderete gli orecchi,
ma l’eco della Verità
- assordante -
squarcerà le vostre torri d'avorio.

Quando il silenzio
avrà fame di grida,
e il buio scivolerà tra le ciglia,
il tempo vi chiederà conto
di tutto ciò che avrete taciuto.

E in quell’istante,
Abele troverà giustizia,
Giuseppe, libertà,
e Gedeone, i suoi fratelli.
E tutto sarà compiuto.
Amen!```


28gennaio25
Ben Tartamo

La poesia di Ben Tartamo, "Quando il silenzio parlerà", è un grido dell'anima, un richiamo urgente alla coscienza collettiva, come se il poeta stesso fosse un profeta che invita l'umanità a una resa finale di fronte alla Verità che, da troppo tempo, abbiamo ignorato o rifiutato. Il tono è quasi drammatico, una supplica alla nostra parte più profonda, quella che non può più chiudere gli occhi né le orecchie. "Chiudete gli occhi, chiudete gli orecchi, ma fino a quando?" L'interrogativo è straziante, come se il poeta fosse un angelo che avverte il lettore della prossimità del momento in cui la resistenza sarà inutile, quando ogni illusione cederà e il mondo, inevitabilmente, "verrà con fiaccole". Le fiaccole qui non sono solo simbolo di luce, ma di un fuoco sacro che purifica e illumina ogni angolo di ombra nel cuore umano. Non possiamo più fuggire.

La poesia è, in effetti, una meditazione sulla responsabilità che ognuno di noi porta nel cuore, la consapevolezza che la Verità non può essere taciuta per sempre. Il "silenzio" che il poeta evoca non è mai una quiete benevola; è il silenzio che pesa come una colpa non confessata, come un grido soffocato. Il "silenzio" in questo caso è il mondo che si è voltato dall'altra parte, che ha scelto la via della fuga, dell'indifferenza, mentre la Verità - potente, dolorosa, incomprensibile eppure giusta - preme per essere ascoltata. L'immagine delle "torri d'avorio" è tragica e sacra insieme, poiché queste torri rappresentano i rifugi della nostra comodità, della nostra mente che preferisce restare nell'ignoranza, nel non volere vedere. Eppure, l'"eco della Verità" arriva, rompendole come fossero fragili vasi. Non c'è salvezza senza un incontro con essa.

Il verso "Quando il silenzio avrà fame di grida" scuote il lettore come una profezia di desolazione e redenzione. Il silenzio non è solo vuoto, ma è anche fame, necessità di verità, di giustizia. In questo silenzio c'è una sofferenza che chiede di essere finalmente colmata. Quando, come un amante non corrisposto, esso diventa "affamato", il dolore non è più sopportabile. È l'immagine di una terra che implora, di un cuore che non regge più il peso della menzogna.

E mentre il "buio scivola tra le ciglia" - come un'ombra che penetra nell'intimo della nostra anima – è qui che la vera lotta si compie, nel nostro sguardo, nella nostra apertura all'inevitabile verità che si cela dietro ogni lacrima non versata, ogni parola non detta, ogni ingiustizia non riconosciuta. La psiche dell'uomo, come quella di Giuseppe, di Abele e di Gedeone, è scossa da un destino che chiede di essere onorato, che si svela come un atto di fede e di speranza. "Amen". È il momento della resa, ma anche della liberazione. È la riconciliazione di fronte a Dio, la giustizia divina che si fa carne, che si fa giustizia per chi è stato tradito, per chi ha sofferto, per chi è rimasto in silenzio troppo a lungo.

Qui, come in un rituale sacro, il poeta ci invita a vedere in ogni personaggio biblico non solo una figura storica, ma l'incarnazione delle nostre battaglie interiori: Abele che trova giustizia, Giuseppe che ottiene libertà, Gedeone che riconquista la sua comunità. L'eco della loro lotta diventa la nostra lotta. E così il poeta ci esorta, con un impeto quasi mistico, a non voltare più le spalle alla verità. Solo attraverso questa rivelazione, attraverso la "giustizia" e il "compimento", arriveremo finalmente a quell'"Amen" che non è solo una fine, ma un inizio, la rinascita dell'anima, una promessa che viene mantenuta.

In questo scenario profetico, il poeta Tartamo diventa il messaggero di una verità universale, un intercessore tra il mondo umano e il divino, tra il silenzio della paura e il grido di redenzione. La sua opera, intrisa di pathos, è come una catarsi collettiva, una chiamata a una purificazione radicale del nostro spirito. L'imperativo non è più rinviare, ma agire, riconoscere, affrontare la verità e fare finalmente pace con noi stessi. Solo allora, come il poeta ci suggerisce con forza, "tutto sarà compiuto".

Marino Spadavecchia

 

"Per te" – Sabatina Napolitano

 "Temporale estivo" – Salvatore Armando Santoro

 "Santuario" – Guglielmo Aprile

 "Il pescatore" – Franco Fronzoli

Grazie dolce Luna – Samuele Cognolato

Compagni di lavoro ebbi molti – Marino Giannuzzo

E vanno i giorni… – Nino Silenzi

Ribaltato – Felice Serino

Il lamento del … giusto … – Anatema! Anatema! – Armando Bettozzi

Acqua e Fuoco – Laura Lapietra

Keplero – Alessio Miglietta

 "Il filo di Arianna" – Sandra Greggio

 "Sono i sogni" – Jacqueline Miu

 "Cammino sulle mani" – Piero Colonna Romano

 "Combatti" – Ciro Seccia

 "Un vicolo...vissuto dal mio sguardo" – Laura Toffoli

 "So di non sapere" – Antonia Scaligine

 "Il Poeta del mare" – Alessio Romanini

 

Con affetto e stima Ben TARTAMO

 

 

 

10-12 Marzo

In risposta al commento della cara Antonia Scaligine

Cara Antonia,

grazie a te, per la poesia che semini e per le domande che, come fili di luce, restano sospese nell’aria. Ti chiedi se i miei siano davvero commenti alle tue poesie? In tutta sincerità, vorrebbero essere più che semplici commenti, ma non sempre ci riesco! Vedi, io penso che il "perché" stia nel verbo stesso, commentari, che un tempo significava "riflettere, meditare" (da cum, "con, insieme" e "mentari", derivato da mens: "mente"). E le tue parole, Antonia, non si limitano a essere lette: chiedono di essere attraversate, vissute, assaporate come un viaggio nella mente e nel cuore.

D’altronde, la poesia non si spiega, si ascolta. E la tua, risuona come un’eco che non si spegne.

Con affetto e stima, con la Mente e, con il Cuore...

Ben
 

 

Commento a "Quel fragile canto" – Ben Tartamo

```"Quel fragile canto"
Sai, m'è così dolce svanire al tramonto,
perché, a volte, il troppo sole smarrisce
quel fragile canto del pensiero di Te.
Ma è nell’umile pioggia che respiro,
quando il mio desiderio si fa fiume,
ed io anelo, sì, solo a sciogliermi in Te:
infinito e quieto, mio eterno mare.```

Nel delicato tessuto lirico di Quel fragile canto, Ben Tartamo ci conduce in un viaggio di dissolvimento e anelito spirituale, tra luce e ombra, tra arsura e freschezza, tra la nostalgia del tramonto e l’abbandono all’eterno.

L’incipit, con quell’evocativo   “Sai”, suggerisce un dialogo intimo, forse con Dio, forse con un’idea suprema d’amore, forse con un’anima affine. E poi il tramonto, non solo fisico ma esistenziale, uno svanire dolce che sembra liberazione e resa, perché “il troppo sole” – simbolo della razionalità bruciante, dell'eccesso di chiarezza – può smarrire il canto fragile del pensiero rivolto all’Assoluto.

Ma è nella pioggia, nell’umiltà della terra bagnata, che il poeta ritrova il respiro e il senso. Qui il desiderio si trasfigura in fiume, in moto incessante verso la dissoluzione totale nell’amato, che è al tempo stesso infinito e quiete. L’ultima immagine, il mio eterno mare, suggella il componimento con la visione di un’unione perfetta, dove il soggetto si perde e si realizza in un abbraccio cosmico, mistico e rasserenante.

Poesia di struggente bellezza, breve e intensa, quasi un haiku dell’anima, in cui la dolcezza della resa si intreccia con l’anelito all’Assoluto. Un fragile canto, sì, ma di una forza luminosa che persiste ben oltre il tramonto.

Vostro Marino Spadavecchia
 

 

Questa poesia è un'incantevole riflessione sull'attesa, sul tempo e sulla rivelazione dell'esistenza attraverso la natura e l'esperienza umana. Notarfrancesco esplora un concetto di tempo "che non ha nulla di suo", un'idea che sfida la linearità della vita e invita a una comprensione più profonda dell'esistenza, rivelandola nei piccoli gesti e nelle sfumature. La sua lirica sembra suggerire che la vera conoscenza si trova nel fluire impercettibile della vita quotidiana, come il "collo" illuminato che fa scoprire una verità nascosta e silenziosa. La dolcezza di aprile, simbolo di rinascita, si mescola con la sofferenza passante, un richiamo alla fragilità dell'esperienza umana. Il "caso anomalo dell'età subito dimenticata" e il "motivo politico" potrebbero alludere alla disillusione che il tempo porta, ma la poesia resta comunque intrisa di una bellezza inquietante e di una necessità di trovare significato in ciò che sembra sfuggire. Il consiglio che "spiega la vita" è un richiamo a vivere con consapevolezza, ad abbracciare l'incertezza dell'esistenza e a cercare il significato nei dettagli impercettibili.

In questa lirica, Napolitano dipinge un quadro di intimità familiare, una poesia che esplora i legami affettivi e l'erotismo attraverso le generazioni. C'è una sottilissima tensione tra il desiderio fisico e la connessione emotiva che pervade i versi. Il sorriso di un figlio che si tramanda come una sorta di "passaggio di testimone" tra le generazioni, l'intimità erotica che diventa parte di una tradizione familiare, creano una sensazione di circolarità e di continuità. La poetessa, nell'intrecciare memoria e presente, svela una profondità che va oltre la carne, arrivando a toccare un aspetto quasi mistico del legame umano. L'aria nella stanza che "decide tuo nonno" è un riferimento potentemente evocativo alla continuità del passato che permea il presente, come se ogni gesto e ogni parola fossero sospesi tra ciò che è stato e ciò che sarà. La tensione tra il desiderio di "penetrarsi" e la protezione che un "mistero" sembra offrire è una riflessione sulla necessità di trovare il significato nelle cose non dette, nel non rivelato, che custodisce la bellezza di ogni relazione profonda.

Questa poesia ha il ritmo e la struttura di una riflessione sulla delusione e sul coraggio di lasciar andare. Santoro utilizza l'immagine del treno, che simboleggia il passaggio del tempo e delle opportunità, per narrare la fine di un amore o di una speranza che non arriva mai. L'amore "sfoglia" come una foglia, come un ciclo naturale che si dissolve nel vento, eppure il poeta ci invita a non disperare, a sorridere alla vita, nonostante il dolore e la delusione. La figura del treno che "passa e sferraglia" senza aspettare è potente, un'eco del tempo che non si ferma per nessuno, per chi ha perso la strada o per chi è rimasto ancorato alla propria sofferenza. La parte finale della poesia, con il riferimento a chi "sa sol coltivare piselli, ortaggi e fragole rosse", sembra una critica alla superficialità di chi vive nel presente senza comprendere le profondità dell'amore o della vita, un invito a rimanere in cerca di qualcosa di più vero, di più autentico.

In questa poesia, Aprile costruisce una mitologia personale, una celebrazione dell'amata attraverso un linguaggio ricco di simbolismi e immagini potenti. L’atto di arricciarsi i capelli diventa un atto di sacralità, come un gesto rituale che segna un momento di intimità profonda e universale. Il poeta collega la sua amata a forze naturali e cosmiche, come la danza delle comete e il movimento dei dervisci, creando un'atmosfera di mistero e di venerazione. Ogni gesto della donna diventa una parte di un racconto mitologico, un atto sacro che si intreccia con l’esistenza del poeta stesso. La "perla" che la pioggia dona alle strade e l'"anello sulla falange artritica del mondo" sono immagini potenti che parlano di un amore che trascende il tempo e lo spazio, che è al contempo terribile e salvifico. La lirica è densa di simbolismo, un inno alla bellezza che si manifesta nei dettagli più minuti e nell'energia inarrestabile dell'amore che non conosce confini.

La poesia di Fronzoli è un inno alla quiete contemplativa, un momento sospeso in cui l’autore si ferma a riflettere sul ciclo della vita, sulla natura e sul suo impatto sull’anima. La luce e l'ombra si intrecciano in un gioco sottile, in cui il tramonto, simbolo di fine, si fonde con la luce che scende lentamente senza rumore. È come se il tempo stesso si fermasse, annullando la frenesia del mondo esterno, lasciando spazio solo all’introspezione. La luce soffusa della luna, il tremito dell’essere e il "gioco di sguardi" sono metafore di una ricerca più profonda, di una connessione invisibile ma palpabile tra l’essere umano e il mondo che lo circonda. L'immensità del mare e le onde che avanzano sono immagini di un destino che non si ferma, che ci trascina con sé, ma la bellezza sta nel riconoscere che, in quel movimento perpetuo, si cela una promessa di felicità e di amore. Fronzoli suggerisce che la felicità sia una condizione effimera e sfuggente, come un raggio di sole, ma pure un richiamo alla bellezza e alla speranza.

In questa poesia, Cognolato celebra il ritorno della Pasqua, una festività che è intrisa di tradizioni, riflessioni e speranza. L'autore sembra sottolineare l'importanza del tempo di riflessione che accompagna la Pasqua, ma anche l’aspetto sensoriale e tangibile della festività, come il cibo che "con la magia delle cose dolci ci fa stare bene." C’è una sorta di invito a celebrare la vita con un senso di gratitudine e a guardare al domani con speranza, nella convinzione che ogni ciclo, ogni festa, porta con sé un messaggio di rinnovamento e di rinascita. La poesia è anche una riflessione sulla comune esperienza umana: la Pasqua è un momento che accomuna, che riunisce e che invita alla riflessione. L'invito finale "Confidando che il domani sia migliore" è un appello universale alla speranza, alla fede in un futuro migliore, in cui tutti gli esseri umani possano trovare pace e felicità.

La poesia di Canapé è una riflessione sulla passione e sull’amore, ma anche sulla sua stanchezza e sull’esaurirsi di parole che, pur ripetute, non riescono più a restituire la loro originaria intensità. L'uso del dialetto, con la sua musicalità, conferisce alla poesia una forte sensazione di immediatezza, di autenticità. "Ammore ammore" diventa quasi una litania che, purtroppo, non porta più calore, ma diventa "cenere", simbolo di un amore che ha perso la sua fiamma. Canapé esplora il concetto di un amore che, pur se presente, non è più capace di nutrire l'anima. La poesia si muove tra il desiderio di rinnovamento e la consapevolezza che qualcosa di essenziale è stato perso. Il dialetto, con il suo calore e la sua sincerità, è la chiave per comprendere l'intensità di questa riflessione sull'amore che si trasforma in vuoto e disillusione.

Giannuzzo crea una poesia di grande potenza emotiva, dove la figura materna diventa simbolo di una guida, di una speranza che si fa viva nel momento di una grande crisi esistenziale. La madre, pur assente "da oltre vent’anni", appare come una presenza spirituale, un’energia che conforta e orienta. Il conflitto interiore dell’autore, il desiderio di possedere senza amore, di far violenza, si scontra con la sua consapevolezza finale, quando l’amore si svela come una forma di rinuncia e di rispetto. La tensione tra l’amore violento e l’amore rispettoso è palpabile, e la figura della madre, che pregava "come mai pregasti", diventa una sorta di riscatto, un gesto di speranza e di redenzione. La vita e la morte si intrecciano in un eterno ciclo che "fa un salto", un salto che è simbolo di cambiamento e di crescita. Il ritorno a casa, simbolo di una ritrovata serenità, segna un passaggio fondamentale per entrambi i protagonisti della poesia. La chiusa, che evoca la ciclicità del sole e della notte, sembra suggerire che la vita continua, anche dopo il dolore, e che ogni cosa avrà il suo corso, finché il tempo lo consentirà. La poesia diventa un canto di speranza, di accettazione e di comprensione dell'ineluttabilità della vita e della morte.

Questa poesia è una sinfonia sottile che accompagna il lettore lungo il crinale della stagione, un delicato trapasso dal gelo dell’inverno alla promessa della primavera. Montagnoli modula la sua scrittura in un crescendo armonico, dal timido gocciolare dei rami all’esplosione di un canto che non è più lamento, ma celebrazione. La sua è una poesia della metamorfosi, un canto di speranza sottotraccia, quasi sussurrato, dove il ritorno del colore e della luce è il preludio a una rinascita. L’erba che cambia di colore diviene simbolo della fragile ma inesorabile spinta della vita verso la sua fioritura.

Un componimento che gioca sul doppio registro dell’arguzia e del mito, evocando con toni ironici il peccato originale e il simbolismo della mimosa. Silenzi orchestra il suo verso con sapiente leggerezza, insinuando un’amara riflessione dietro il sorriso del lettore. L’amore, qui, non è solo celebrazione, ma tentativo di esorcizzare una colpa ancestrale, quella stessa che condanna l’umanità a una perenne espiazione. C’è una sagace teatralità in questi versi, quasi una maschera carnascialesca che cela una profonda riflessione sull’eterno dissidio tra uomo e destino.

Qui il poeta traccia una sorta di elegia della memoria, un lamento per ciò che il digitale ha spazzato via, sostituendolo con un'intelligenza artificiale impersonale, disincantata, fredda. Le cartoline musicali, i calendarietti profumati, le letterine natalizie non sono solo oggetti, ma frammenti di un passato che custodiva un’umanità più ingenua, forse più autentica. Serino si fa cantore del divario tra ieri e oggi, e la sua poesia è un grido, un monito, una nostalgia che si veste di ironia amara.

In questi versi, Bettozzi non scrive solo una poesia, ma un’invettiva, una denuncia che si snoda tra il romanesco e il realismo politico. Il ritmo sincopato della sua lingua accoglie una visceralità che rimanda ai grandi sonetti della tradizione vernacolare, ma il tema è scottante, attualissimo. Il "Granne Rifiuto" è un atto di resistenza, una decisione netta che destabilizza un equilibrio già precario. Qui la poesia non è solo espressione lirica, ma gesto politico, presa di posizione. L’eco pasoliniana è forte, e il poeta sembra sussurrarci che il potere è un vento capriccioso, pronto a spazzare via chiunque osi dire di no.

In quest’inno alla femminilità, Laura Lapietra intesse un canto che trascende la mera celebrazione dell’8 marzo per elevarsi a una sacralizzazione della donna come principio cosmico. Il verso scorre con l’andamento di un inno liturgico, sospinto dalla luminosità di immagini che si fanno simbolo: la donna è "colomba del cielo", "gemma floreale", "farfalla robusta e delicata". Ma non è solo un’eterea figura idealizzata: è anche sacrificio e memoria, è il fuoco delle tessitrici bruciate nella fornace dell’ingiustizia, è resistenza e resilienza.

Lapietra compone un’opera che è al tempo stesso elegia e canto di vittoria, ponendo la donna in una dimensione trascendente, dove l’amore è guida e luce. Il climax finale, con il verso "Oh donna, sei la quintessenza della melodia", suggella questa celebrazione, che assume un tono quasi oracolare. Qui la poesia si fa voce della storia, e la storia si fa eco della poesia.

Silvestre affronta il viaggio iniziatico verso un "diamante divino", lasciando che la parola si incarni nel vento e nella neve. Il suo è un cammino che si snoda tra le insidie, in cui il paesaggio si fa specchio dell’interiorità: il vento che graffia, la neve che confonde, l’ipossia che rallenta. Qui non c’è solo la fatica fisica, ma quella esistenziale di chi procede da solo, lacerato dal dubbio eppure spinto da un’intima necessità.

La poesia si avvita su sé stessa in un ritmo ascensionale, in cui il "Sol Levante" diventa non solo la meta del viaggio, ma l’idea stessa del risveglio e della rinascita. Questo componimento è un canto d’isolamento e di resistenza, un’ode all’entropia dell’esistenza, dove il dolore è necessario quanto l’aria rarefatta di un’alta vetta.

La poesia di Toffoli è pura sinestesia, un miraggio di luce e movimento, dove il mare e il cielo si rincorrono in un’eterna danza di speranza. C’è una delicatezza primordiale nelle immagini: "pannose immagini riflettono voce del mare", "girotondo di sole e luna nel gesto del creato". È un linguaggio che attinge all’archetipo, facendo della parola un soffio leggero eppure denso di significato.

Il piccolo seme della speranza diventa qui simbolo di un destino che si compie nel divino respiro del creato. In questa lirica, la poesia è pura contemplazione, un sogno che si scioglie nella vastità dell’esistenza, un’onda che accarezza la riva dell’infinito.

Romanini si fa cantore dell’introspezione e del pentimento, scavando nelle pieghe più intime del cuore umano. Il ritmo si fa cadenzato, quasi liturgico, come una confessione sussurrata all’anima del lettore. Ogni verso è un passo nel sentiero della colpa, dove la memoria è una piaga che brucia e l’assenza di gesti diventa ferita insanabile.

C’è un lamento universale in questi versi, un dolore che supera la dimensione individuale e diventa il rimpianto di tutti coloro che hanno mancato un gesto d’amore, una parola gentile, un abbraccio. Ma nel commiato finale si avverte anche una sorta di liberazione, come se il riconoscere la propria fragilità fosse già un atto di redenzione.

Sandra Greggio tesse il filo del tempo con immagini di struggente bellezza: il fiore che perde un petalo è la metafora dell’esistenza che si sfoglia giorno dopo giorno, lasciando dietro di sé tracce delicate ma persistenti. C’è in questa poesia un senso di dolce malinconia, ma anche di speranza: il poeta sa che le sue impronte non andranno perdute, che il suo passaggio sulla terra sarà eco per altri. Il sogno e la realtà si fondono in un’unica percezione, in cui l’amore per la vita si manifesta nella scia profumata della memoria.

Jacqueline Miu ci porta dentro un universo di immagini dense, urbane e al tempo stesso eteree. Il cielo che si spezza in oro è il segnale di un mondo in bilico tra il quotidiano e il divino, tra il traffico malato e la purezza dell’amore. Ermione non è solo un nome, è un simbolo, una figura che incarna l’attesa e il desiderio, la dolcezza e la forza. La poesia ha una costruzione sofisticata, con un andamento sinestetico che fonde il visibile e l’invisibile, la musica e il colore. Il finale è un crollo sublime, una resa poetica che si trasforma in volo.

Questa poesia ha il respiro di un’orazione civile, un canto che si fa denuncia e affermazione di libertà. La donna è raccontata in tutte le sue sfumature, al di là della bellezza convenzionale, come portatrice di un’identità forte, complessa, non sempre compresa. Il dialogo tra Eva e Adamo diventa qui simbolo dell’incomunicabilità tra mondi, della lotta per il riconoscimento. La poesia ha un ritmo incalzante, con un’alternanza di immagini e riflessioni che sembrano quasi scandire un monito: la donna è tutto e il contrario di tutto, è fragilità e potenza, è libertà anche quando è in catene.

Piero Colonna Romano riprende con maestria il tono caustico e mordace della satira politica, usando il limerick nella sua struttura irregolare per dar voce a una critica sferzante. Qui la poesia diventa un’arma, un bisturi affilato che seziona la realtà politica con ironia amara. Il gioco di rime serrate e la costruzione ritmica incalzante danno al testo un’energia che si avvicina alla tradizione popolare dello sberleffo, ma con una lucidità intellettuale che lo eleva oltre il semplice dileggio. Il ritratto della politica italiana è fosco, senza appello: vati d’inganno, sprovveduti lusingati, bilanci barcollanti e una nazione inginocchiata. Colonna Romano fa del sarcasmo il suo grido di battaglia, e il lettore non può che applaudire, amaro e divertito insieme.

Dall’asprezza della satira ci immergiamo nell’incanto di una lirica appassionata e visionaria. Ciro Seccia compone un canto d’amore che si muove come un’onda, con immagini potenti e vivide. Qui la natura è specchio del sentimento: la pioggia, il tramonto, i torrenti di sangue che scorrono nelle vene. Il tempo si dissolve in una sospensione estatica, e il mondo intero diventa un'eco lontana di un unico nome. Gli occhi dell’amata si fanno mare, un’immensità senza confini, e l’onda della passione si abbatte come uno tsunami. “Mia fata Morgana” è il sigillo finale, un richiamo al mito e all’illusione: l’amore qui è sogno, miraggio, forza irresistibile.

 

Con affetto e stima

vostro Ben Tartamo

 

 

Un grazie di cuore "con affetto e con stima " al nostro Ben Tartamo ,grazie per i tuoi commenti per le tue poesie ,a volte mi chiedo :ma sono davvero commenti alle mie poesie ?grazie
Grazie a tutti del sito poeti e commentatori
Grazie Lorenzo la tua accoglienza ogni giorno è sempre più grande per non parlare anche delle tue poesie ,oggi poi l' ho letta davvero con piacere
Questo giorno l' è speciale
(8 marzo)
della donna ricordiamo
solo il bene e non il male,
che scopristi, padre Adamo
Sai cos' è che un otto andrebbe a quel povero Adamo ,un sì alla donna che non si arrende mai ,ma anche un no
a quella che vuole vincere sempre ,però come ben dici la tua donna ti incatena con
il sigillo dell'amore
dolce bacio scoccherà
ricevendo il giallo fiore
Bravo
Antonia Scaligine

 

 

 

7-9 Marzo

Questa poesia si muove tra il sogno e la contemplazione, con un’atmosfera quasi mitologica. L’immagine dell’arrampicata sull’albero e il desiderio di possedere i suoi frutti rimanda a simbologie classiche: il peccato originale, il giardino delle Esperidi, l’anelito verso qualcosa di sacro e irraggiungibile. L’evoluzione del testo, dal desiderio alla rinuncia, è il vero cuore della poesia: il protagonista capisce che il possesso corromperebbe la purezza dell’oggetto desiderato. La struttura fluida e le immagini sensoriali rendono il testo avvolgente, quasi ipnotico, come se il lettore stesso stesse partecipando a questa ascensione interiore.

Il testo è un'intima riflessione sull’amore, sulla continuità generazionale e sull’affetto che si trasmette tra vivi e morti. L’immagine del nonno che osserva la coppia, lontana da qualsiasi accezione inquietante, diventa simbolo di protezione e legame ancestrale. La scrittura è fortemente evocativa, capace di coniugare il quotidiano (il cucinare, il girovagare in casa) con una dimensione quasi sacra, dove amore e memoria si fondono. L’ultima parte della poesia tocca il tema della paura dell’amore: un’insicurezza che viene superata attraverso la trasmissione della vita.

Questo sonetto gioca con il tema dell’amore non corrisposto o incerto, trasfigurato nell’immagine della rondine che continua a tornare, sperando in un risveglio dell’amata. La struttura classica e il linguaggio limpido conferiscono al componimento un tono misurato ma intenso. Il contrasto tra l’umano e l’animale, tra il desiderio e l’attesa, dà un senso di malinconia sottile, che culmina nella chiusa in cui il poeta attende con fiducia un ritorno del sentimento.

Un testo intriso di misticismo e devozione, in cui l’amore si confonde con la religione. L’adorazione per l’amato/a è totalizzante, quasi assoluta, e si riflette nella natura: le farfalle, i prati, le stelle diventano emblemi di questa venerazione. Il lessico richiama il linguaggio liturgico, creando un contrasto tra la realtà sensuale e l’elevazione spirituale del sentimento. È una poesia che esprime una forma estrema di amore, dove la passione si fa culto e l’innamoramento rasenta il fanatismo.

Qui la memoria diventa il filo conduttore, declinato attraverso immagini di natura e momenti condivisi. L’uso della ripetizione ("sarai un ricordo") conferisce musicalità e rafforza il senso di perdita e nostalgia. Il testo si sviluppa con un andamento ondoso, come le onde del mare che cancellano le impronte, un’immagine efficace per rappresentare il tempo che scorre. La chiusura circolare, che riporta al mare, lascia il lettore con un senso di quiete malinconica, in cui il ricordo si fonde con l’eterno movimento della vita.

Questa poesia è un inno all'amore filiale e alla presenza paterna che si manifesta in ogni aspetto della natura e della vita quotidiana. La figura del padre, non come un’entità definita, ma come un'energia onnipresente, si diffonde attraverso immagini potenti e viscerali. L'autore esplora il concetto di "essere" in modo profondo, collegando il padre a tutto ciò che è bello e vitale, come il sole, le stelle, il cielo e i colori della vita. La ripetizione della parola "tu sei" enfatizza l'infinita presenza del padre, quasi come un'eco che attraversa la realtà, un'entità che permea e sostiene ogni aspetto dell'esistenza. La poesia celebra la purezza del legame familiare, con una delicatezza che rende il testo quasi una preghiera.

"Volare" è una riflessione sul fluire del tempo e sul confronto tra la libertà dell'anima e i limiti fisici del corpo. La poesia descrive il viaggio attraverso la vita come un volo sopra paesaggi che si trasformano, dal tumulto della montagna alla calma della pianura, fino alla melmosa foce che rappresenta il declino e la morte. Il volo diventa così una metafora della ricerca di un senso più profondo, un movimento che supera i confini terreni. Il "mare sconosciuto" allude all'ignoto, alla fine inevitabile, mentre l'immagine dell'"iridescente goccia d'acqua" suggerisce una bellezza nascosta nell'infinità del cosmo. La poesia esprime un desiderio di trascendenza, di un abbraccio misterioso con l'eterno.

La poesia si concentra sulla delicatezza e il mistero dei fiori, che sembrano incarnare un linguaggio segreto che sfugge alla comprensione umana. La connessione tra fiori e natura, tra la terra e l'aria, è descritta come un respiro comune, una sorta di comunicazione silenziosa e pura. Il poeta si chiede se i fiori "sentano" la loro esistenza, suggerendo che la loro bellezza è una forma di linguaggio che va oltre la percezione ordinaria, un linguaggio che non ha bisogno di parole. La poesia è una riflessione sulla connessione con la natura e sull'idea che, sebbene il mondo naturale parli in silenzio, noi ne siamo comunque parte.

La poesia è una critica alla società contemporanea e al suo abuso del concetto di "democrazia" e "libertà". L'autore esprime la frustrazione di chi percepisce che questi valori siano manipolati e sfruttati da chi li usa come scusa per imporre una visione distorta della realtà. La ripetizione delle parole "Troppismo" e "Paurismo" indica una critica alla sovrabbondanza di opinioni e alla paura che si diffonde nella società. Bettozzi denuncia l'intolleranza e il disfattismo che minano il tessuto sociale, ma infonde anche un messaggio di speranza, sostenendo che la gente si sta svegliando e sa che è il momento di alzare la testa, di lottare per il rispetto e la verità.

La solitudine qui è personificata come una dama che accompagna il poeta in un viaggio interiore di riflessione e introspezione. La solitudine è descritta come un'ombra che non si allontana mai, un compagno inevitabile e costante. La sua presenza è talmente forte che spegne ogni gioia, sostituendo il ritmo vitale con il silenzio e l'oscurità. Tuttavia, l'autrice suggerisce che nella solitudine, nel vuoto, si cela una lezione profonda sull'essenza dell'essere e sulla ricerca di un divino che risorga. La poesia ha un tono meditativo, eppure ricco di speranza, in cui il silenzio e la solitudine diventano spazio per la rinascita e per un amore eterno che può emergere anche nell'oscurità più profonda.

Questa poesia è una riflessione profonda sull'isolamento interiore e sulle cicatrici che il tempo e le esperienze lasciano nell'anima. La solitudine non è solo un concetto fisico, ma un compagno che invita a confrontarsi con i propri demoni e a cercare redenzione attraverso la scrittura. La ripetizione della frase "Sono solo" rivela il peso di un’esistenza che si misura in battaglie e in rimorsi. La penna diventa l’unica compagna di viaggio, simbolo di speranza e forza, capace di rompere il silenzio e di restituire un senso alla vita. La poesia ha un forte impatto emotivo, la solitudine diventa il motore della riflessione e della rinascita.

La poesia di Laura Toffoli si immerge nell’oscurità della città, costruendo un’immagine visiva e sensoriale potentissima. Le “mille guglie affilate” e le vette cristalline richiamano il contrasto tra il mondo moderno e l’etereo, tra la fatica dell'esistenza quotidiana e la speranza di un mondo migliore, come suggerito dall’alba rosa cipria. La poetessa ci invita a riflettere sulla nostra frenesia e sull’inevitabile perdita del cammino, ma ci offre anche una possibilità di speranza nell'orizzonte lontano. La poesia si sviluppa come un racconto visivo che, pur tra mille difficoltà, lascia uno spiraglio di luce.

Alessio Romanini ci propone una visione universale dell’amore e dell’umanità, un messaggio che supera le barriere fisiche, etniche e sessuali. Le parole "Diverse anime uguali" diventano il nucleo della riflessione, evocando l'idea che, nonostante le differenze, tutti siamo uniti dalla stessa essenza emotiva e spirituale. La poesia si fa manifesto di una visione egalitaria, dove il rispetto reciproco e la dignità sono gli elementi fondanti di ogni relazione. Romanini esplora la bellezza del legame che trascende le convenzioni, rendendo l’amore un atto puro e universale, privo di violenza, che si esprime nel rispetto e nell’armonia.

La poesia di Sandra Greggio è un abbraccio alla bellezza del passato, una ricerca di un mondo ideale che, purtroppo, sembra lontano. La “rosa” diventa il simbolo dell'amore che ha segnato la sua vita, ma anche un ricordo che solleva il desiderio di un'esistenza più leggera e gioiosa. Il desiderio di “fiori di nuvole variopinte” e di “castelli con dame” riflette una nostalgia per un tempo incantato, dove tutto sembrava possibile e il mondo era colorato e ricco di promesse. La poesia si nutre di immagini vivide, che evocano un senso di urgenza e un desiderio di bellezza che non può essere più trattenuto. È una poesia che parla di speranza e di un amore che non muore mai, che permane nonostante il passare del tempo.

Questa poesia di Jacqueline Miu è un inno all’amore come forza sovrana, capace di scacciare la tristezza e di spingersi oltre ogni confine. Il tema centrale della poesia è il coraggio, un coraggio che non si misura in azioni terrene, ma in quell’amore che può liberare l'anima. Le immagini evocative, come il "destriero" che "fuggirà tristezza" e il "bruciare di sogni", danno un’idea di un viaggio mistico ed epico, in cui l’amore diventa sia la forza che la liberazione. La ripetizione del verso "io non tremo che per amore" sottolinea l’intensità e la centralità di questo sentimento, che spinge l'individuo a oltrepassare i propri limiti, facendolo entrare in una dimensione quasi trascendentale. È una poesia che esplora l’essenza dell’amore come forza pura e liberatoria.

Questa poesia di Piero Colonna Romano ci porta attraverso un gioco di parole irriverente e pungente che critica l’attuale situazione politica e sociale. Il tono leggero del limerick, con il suo ritmo spensierato e la rima scorrevole, contrasta con la gravità dei temi trattati, creando un effetto di distacco ironico che rende ancora più incisiva la denuncia. La composizione passa in rassegna diversi aspetti della nostra società e della politica, con immagini che sembrano paradossali e assurde ma che raccontano una verità ben più amara di quanto il tono possa far credere.

Frasi come "Stiamo andando al funerale di un potere che sta male" e "Or che il fascio è ritornato" mettono in luce la decadenza e il ritorno di ideologie autoritarie. Ma l'uso di immagini come "mangerà del pane nero" e "farem dell'oca il passo" sdrammatizza, giocando con la realtà distorta che viviamo. L’ironia è una lente attraverso cui osserviamo un presente fatto di inganni, confusione e disillusione.

La poesia si fa voce critica contro un sistema che appare sempre più lontano dalla giustizia e dalla verità, ma lo fa con un sorriso beffardo, ridendo della stessa violenza politica e sociale che descrive. Il poeta riesce a bilanciare la leggerezza e la riflessione, come un funambolo che cammina sopra una fune tesa tra la speranza e la disillusione.

In questo gioco di parole e significati, la poesia di Romano non solo ci fa ridere ma ci invita anche a riflettere sul momento storico che stiamo vivendo, dove la parodia della realtà diventa la più cruda delle verità.

 

Con affetto e stima

vostro Ben Tartamo

 

 

"In viaggio" di Ben Tartamo

Pietre e acciaio,
gemiti di legno,
polvere e cemento,
eco lontana...

Battiti scomposti,
che si fan sussurri.
Croci di pali,
mosaici di luce.

Sui binari della vita
una lunga Notte
sospira
invocando l’Alba.


Questo testo ci catapulta in un paesaggio tanto fisico quanto metafisico, dove il viaggio, simbolo per eccellenza di transito e cambiamento, diventa il motore di una riflessione esistenziale. L’immagine iniziale di "Pietre e acciaio" fa riferimento alla durezza del mondo, una civiltà moderna che si misura con la resistenza e il freddo del materiale, eppure, sotto questa superficie, c'è "gemiti di legno" che raccontano la fragilità e la memoria del passato. La polvere e il cemento creano il contrasto tra la natura e la città, tra la materia viva e quella inerte.

La ripetizione di suoni e immagini, dai "Battiti scomposti" ai "sussurri", suggerisce una disarmonia che diventa il ritmo stesso del viaggio. I "Croci di pali" e i "mosaici di luce" evocano il dolore e la speranza, le incrostazioni di una fede che sopravvive nel paesaggio ostile. La metafora dei "binari della vita" è evocativa e piena di tensione: la vita, come un treno, corre lungo un percorso che, pur essendo segnato, può sempre deviare.

La "Lunga Notte" sospirante, in attesa dell’Alba, è la rappresentazione perfetta di un’umanità che, pur avendo attraversato il buio, non perde la speranza in una rinascita, una trasformazione che può avvenire solo al mattino, quando la luce torna a illuminare l’oscurità.

Un testo che affascina per la sua intensità emotiva, dove la riflessione sul viaggio diventa un cammino interiore, alla ricerca della luce in un mondo che sembra sempre più inghiottirci nella sua spietata indifferenza.

La poesia di Ben Tartamo, in questo caso, non è solo un viaggio fisico, ma anche spirituale, un tragitto attraverso il dolore e la speranza, un cammino da percorrere non senza difficoltà, ma sempre con l’occhio rivolto all’Alba che può, finalmente, portare redenzione.

vostro Marino Spadavecchia

 

 

 

4-6 Marzo

"Ed io t’amo" di Ben Tartamo

Ed io t'amo,
io t'amo come il vento...
Ah, che sia brezza
anche sul mio tormento,
perché mi struggo,
mi struggo nel silenzio.

Di te, Parola,
vorrei pur ascoltare
ogni sussurro,
sussurro dolce e assenzio,
che questo fuoco
possa così bagnare.

Ed io t'amo,
io t'amo come mare:
lento e inesorabile
mi fai danzare,
per poi perdermi,
sicuro, nell'immenso.

Per te, Amore,
che sei Amore unico e vero,
i miei singhiozzi
e lacrime come incenso:
Tu, di vita, il Senso
e l'unico Pensiero.

 

Come un'eco lontana di antiche liriche d'amore, questa poesia si dispiega con la grazia di un soffio divino, un inno alla parola e all'Assoluto. "Ed io t’amo, io t’amo come il vento..." – così esordisce l'io lirico, che si fa corpo leggero, alito impalpabile che sfiora l’Infinito. L’amore qui non è mero sentimento terreno, ma uno slancio cosmico, una danza sacra che fonde l’anima con l’eterno.

La parola, entità quasi ieratica, assume un ruolo sacrale: "Di te, Parola, vorrei pur ascoltare ogni sussurro". Qui si avverte l’eco di San Giovanni: "In principio era il Verbo", poiché il poeta sa che solo la parola può illuminare il tormento dell'esistenza e renderlo canto. Ma questa voce è anche assenzio, un balsamo e una ferita, un dolce veleno che corrode e sublima.

L’immagine marina – "io t’amo come mare: lento e inesorabile" – richiama il dualismo eracliteo dell’eterno fluire, della costante trasformazione. L’amore, come il mare, è potenza ancestrale, ineluttabile e misteriosa, capace di travolgere e, allo stesso tempo, di abbracciare con una culla primordiale.

E poi il punto più alto, quasi mistico: "Tu, di vita, il Senso e l’unico Pensiero". Qui l’amore trascende la dimensione umana, si fa Idea platonica, Dio, Alfa e Omega dell’esistere. Il poeta si annulla nell’Altro, in un'estasi che ha il sapore di un’offerta sacrificale: lacrime e singhiozzi si elevano come incenso, suggellando un atto di fede poetica.

Ben Tartamo, con questa lirica, si inserisce nella grande tradizione dell’amore spirituale, unendo il languore del Cantico dei Cantici alla potenza di un Leopardi rivolto all’Infinito. La sua è una voce che brucia, che cerca e che si consuma nel fuoco dell’Assoluto.

Vostro Marino Spadavecchia

 

 

Questa poesia è un lamento amoroso che scava nelle fibre più intime della perdita e dell'assenza. L'io lirico non si rassegna alla fine di un amore, trasformando il dolore in una ricerca perenne: l'altro non è mai completamente assente, è diffuso nel mondo, è impresso nella memoria urbana, nei volti estranei, nei suoni indistinti della città. Lo stile è colloquiale ma vibrante, con un lirismo doloroso che esplode nei versi più intensi: "Pensavo che ci saremmo amati così tanto / Invece, il tempo è infinito, tranne il nostro". L'immagine della telefonata "fredda, distante, definitiva" è la cesura emotiva che suggella l'ineluttabilità della separazione. Tuttavia, il poeta non può smettere di amare, e anzi si avvelena volontariamente di ricordi, in un paradosso emotivo che lo tiene in vita e lo distrugge. Questa è poesia dell’ossessione amorosa, del ricordo come condanna e rifugio. Un dolore senza redenzione, un amore spezzato che continua a vivere come un’ombra insistente nel quotidiano. Qui la scrittura è un monologo dell’anima, dove la perdita si trasforma in ossessione e in ricerca. L’autore tratteggia l’assenza come una presenza invadente, un’eco nei vicoli della città, un fantasma che si insinua nei volti sconosciuti. La frase più potente – "Il tempo è infinito, tranne il nostro." – sembra il sigillo di un destino ineluttabile, il fallimento dell’eternità nel cuore umano. L'amore, qui, è una condanna che non si scioglie né nell’odio né nell’oblio. La poesia è un requiem intimo, sussurrato tra i singhiozzi soffocati di chi si è arreso al proprio struggimento.

Un esempio di poesia filosofico-esistenziale mascherata da parabola marina. Il capodoglio, metafora dell’anima che oscilla tra il desiderio di profondità e la necessità di riemergere, è una figura struggente nella sua goffa e grandiosa inquietudine. La ripetizione del movimento "avanti e indietro e su e giù" riproduce il respiro affannoso dell'ansia, il ciclo perpetuo della vita che si consuma nel tentativo di trovare un equilibrio impossibile. C'è un’ironia leggera, una malinconia sommessa che si fa strada tra i versi, e il lettore si riconosce nel mammifero marino che lotta tra due mondi, senza appartenere mai del tutto a nessuno. Un'opera che si muove tra simbolismo e poesia di pensiero, con una musicalità quasi onirica che avvolge e incanta. Insomma, un'opera in cui il corpo e la mente dialogano con il paradosso dell'esistenza: la pesantezza e la leggerezza, il respiro e l’apnea, la superficie e l’abisso. La metafora del capodoglio con gli attacchi di panico è una trovata geniale: un colosso sottomarino che, nonostante la sua imponenza, è schiavo di un’ansia invincibile. Il verso si muove a onde, come il respiro forzato dell’animale in un ciclo eterno di immersione e risalita. L'autore gioca con il ritmo, alternando movimenti lunghi e distesi a pause più affannose, quasi a riprodurre quel ciclo vitale ossessivo. È un’allegoria di chi vive sospeso tra due mondi, incapace di appartenere davvero a uno solo. La chiusa interrogativa lascia aperto il dubbio: siamo destinati a ripetere i nostri gesti all’infinito o troveremo mai una fine?

Un inno all’amore come protezione, quasi un’armatura mistica che l’io lirico si assume come missione. Il tono è epico, quasi oracolare, e il poeta si erge a scudo contro la brutalità del mondo. Il suo amore è eroico, assoluto, sovrannaturale. Il verso "la mia perversione più grande / non è fare il mondo buono, / perché il mondo resterà infame, / ma è fare del mio cuore la culla della tua forza" è straordinariamente potente: l’amore non cambia il mondo, ma può creare un microcosmo inviolabile dove l’essere amato può esistere senza paura. Il ritmo è incalzante, scandito da affermazioni forti, senza esitazioni, come un giuramento solenne. Questa è poesia dell’amore che si fa missione, dell'uomo che diventa bastione contro il caos, un grido di dedizione assoluta e disperata. Un grido d’amore e protezione, un monologo di un uomo che si erge come baluardo contro la crudeltà del mondo. Qui la passione si mescola con un senso quasi cavalleresco di sacrificio: l’amante si fa eroe, pronto a soffrire ogni dolore della donna amata. I versi sono un vortice di forza e dedizione, eppure celano anche un'ombra di controllo: questo "eroe" non solo ama, ma vuole modellare, proteggere, trasformare. C'è un'ossessione nel possesso, nella volontà di plasmare l’altro con la propria presenza. L’amore qui è potere, è annullamento della volontà individuale. Eppure, nella sua grandiosità, è anche liricamente travolgente. Il tono messianico della chiusa – "Il mio amore è sovrannaturale, riesco a sentirti anche se tu credi che non mi sia possibile." – conferisce alla poesia un'aura quasi mistica, un amore che trascende il tangibile.

Poche sillabe, eppure un universo si schiude. Il contrasto tra il fiore e la spina, tra la dolcezza della bacca e il tempo d’agosto, evoca il dualismo tra dolore e maturità, tra sacrificio e frutto. L’haiku, nella sua essenzialità, è una piccola epifania: il poeta non descrive, ma suggerisce, lasciando che il lettore completi l’immagine con la propria sensibilità.

Questa è una poesia di redenzione: il mondo appare trasformato dall’amore, dallo sguardo dell’altro che diventa una lente capace di donare senso a ogni cosa. Il poeta accarezza la quotidianità con un velo di sacralità: il merlo ferito che torna a volare, il luogo abbandonato che rinasce, la bellezza nascosta nelle piccole cose. Qui la devozione non è sottomissione, ma riconoscenza per il dono dell’esistenza, resa degna di essere vissuta dallo sguardo della persona amata. L’ultima immagine è straordinaria: il mondo riflesso negli occhi dell’altro diventa fiore, e chi ne aspira il profumo è colto da un desiderio di piangere. È il pianto dell’anima che ritrova la sua casa.

Questa poesia è un manifesto dell’essere, un inno alla libertà interiore. I versi si dispiegano come un viaggio esistenziale: il poeta vuole vivere tra il tumulto e il silenzio, tra la solitudine e il mistero della notte. Ogni strofa è un quadro, un frammento di esistenza dipinta con colori vividi. C’è un anelito quasi orientale nella ricerca della leggerezza, nella volontà di essere una foglia che cade in autunno. La poesia sfiora il misticismo nella sua tensione verso un’esistenza pura, slegata da vincoli e confini.

Qui la poesia diventa sfogo, confessione dolorosa di un’amicizia tradita. Il verso è crudo, diretto, senza artifici: il poeta parla con un tono quasi colloquiale, riversando sulla pagina il proprio disincanto. Non cerca metafore o simboli, ma l’immediatezza del sentimento. L’ultima strofa lascia aperto uno spiraglio di speranza, una possibilità di riconciliazione.

Un ultimo saluto, un congedo che ha la grazia di una preghiera e la nostalgia di un addio sussurrato tra le ombre della sera. La poesia è un ponte tra due rive: da una parte la terra natia, con il suo calore e le sue memorie; dall’altra, l’ignoto, l’ultimo viaggio, l’approdo a un nuovo orizzonte. Il poeta non teme il passaggio, non si ribella alla corrente del tempo: si abbandona ad essa con una serena accettazione, con la dolcezza di chi ha amato e vissuto. La chiusa è straordinaria: l’anima, nutrita di affetti, colori, profumi, spera di ritrovare i suoi amati nel "nuovo libro della conoscenza". Non è la fine, è solo un'altra pagina. Qui vibra la fede in una continuità dell’essere, in una dimensione oltre il tempo. È una poesia che si legge con il cuore colmo di gratitudine e con un velo di commozione.

Qui siamo nel territorio del desiderio, dell’ossessione amorosa, della paura del distacco. I versi scorrono come un flusso di coscienza, con il ritmo incalzante di chi è smarrito tra il bisogno e il timore, tra l’attrazione e la fuga. C’è una vertigine in queste parole, un senso di precarietà: l’amore come altezza vertiginosa, il rischio di cadere, il bisogno di essere rassicurati ("Rilassami ti prego"). L'autore tratteggia un triangolo amoroso che si consuma tra la passione e la disperazione: "Ma siamo in tre, non vale". Il ripetersi ossessivo di "Io amo, Io amo, Io amo" è una dichiarazione che cerca di affermarsi contro il vuoto. Questa poesia è un grido d’anima che non si accontenta della carne, che rifiuta di essere solo macchina del sesso, che vuole qualcosa di più profondo, un amore vero, totalizzante.

Un haiku dilatato, un’istantanea lirica che cattura la magia di un bacio giovanile. La brevità dei versi contribuisce a rendere l’immagine vivida, quasi cinematografica: il vento che irrompe come un messaggero del destino, l’albero che diventa complice silenzioso, la sospensione fisica e spirituale del momento. Qui non c’è analisi, non c’è introspezione: è pura esperienza sensoriale, un ricordo fissato nella carne e nel vento. L’uso di "veraci e giovani labbra" enfatizza il contrasto tra l’ardore della giovinezza e l’innocenza di chi vive l’amore ancora privo di delusioni. È una poesia che vibra di semplicità e bellezza.

E qui il linguaggio si fa mistico, esoterico, cosmico. Siamo di fronte a una poesia che non descrive, ma rivela, che non racconta, ma esplora. Il poeta gioca con il tempo, con l’infinito, con il mistero della realtà. Letitbi diventa il simbolo di una coscienza superiore, di un’entità che percepisce l’eterno nel fugace, il divino nel quotidiano. Il verso "Uguale tu mio signore ne sei intriso" sembra una rivelazione gnostica, un richiamo alla consapevolezza di essere parte di un disegno più grande. La poesia si chiude con un’immagine potentissima: "Aspetteremo l’esplosione per poi tornare indietro...". È la teoria del tempo ciclico, dell’eterno ritorno, dell’universo che implode e rinasce. Qui il pensiero si fonde con la poesia, e il lettore resta sospeso, come su un tappeto cosmico che si disfa e si ricompone sotto i suoi piedi.

Serino ci regala un frammento, una scheggia di luce incastonata nel verbo. La parola non è semplice segno grafico, ma forza trasfigurante che abita e si lascia abitare, un essere vivente che si manifesta in "luce di sangue". Siamo nel territorio del sacro, del verbo che si fa carne e che incide, nella sua nudità assoluta, il senso ultimo dell’esistere. Poesia essenziale, quasi zen, ma carica di una tensione interiore che rimanda alla mistica di Celan o Jabès.

La poesia di Bettozzi è un inno alla smascherata ipocrisia del mondo. Il dialetto romano diventa arma affilata, il linguaggio popolare si trasforma in registro di denuncia e sberleffo. Qui il Carnevale non è più momento di ribaltamento dell’ordine, ma la condizione permanente di un’umanità corrotta che si mostra senza più vergogna. "Sò facce vere, ma…però sò ffàrze!" – ecco il cuore del dramma: la verità è stata stravolta, la menzogna non ha più bisogno di celarsi. Il sarcasmo diventa dunque una forma di resistenza contro la manipolazione sistematica della realtà. Una lirica di profonda attualità, degna erede del Belli e di Trilussa.

Se Bettozzi affonda il bisturi nella carne viva del sociale, Lapietra si muove su un piano diametralmente opposto, quello della memoria liquida, dell’amore sublimato e perduto. La sua poesia è un affresco impressionista, dove il tempo sfuma in evanescenze verbali. La "gragnola" diventa pioggia di ricordi, il cuore "arso dal freddo" ci consegna un’anima inquieta, divisa tra il desiderio di trattenere e l’inevitabile dissoluzione. Qui la lezione di Ungaretti si mescola alla musicalità di un Leopardi notturno, creando un’atmosfera di struggente sospensione.

Ed eccoci infine alla satira politica, tagliente come una lama affilata. Il verso di Colonna Romano danza tra il grottesco e il tragico, consegnandoci un’Italia teatrino dell’assurdo, dove i ministri non comprendono ciò che dicono e le "manine" diventano entità oscure che riscrivono la realtà a loro piacimento. La chiusa, che gioca sull’acquiescenza del "popolino", è amarissima e lucida, in perfetto stile menippeo. Il sarcasmo qui si fa necessità, ultimo baluardo della coscienza contro l’inarrestabile degrado della politica-spettacolo.

La poesia di Seccia è un grido soffocato, un lamento che squarcia il silenzio. L’anima, "graffiata dal dolore", è privata della sua linfa vitale, lontana dalla terra natale, dalle radici e dall’affetto. Il tempo si contrae, il distacco dal figlio diventa una lacerazione profonda, un abisso che si spalanca nel cuore. La ripetizione dell’inevitabile separazione amplifica il senso di impotenza, mentre le lacrime diventano il solo linguaggio possibile. Un dolore che riecheggia nei versi di Hikmet e nei lamenti della poesia mediterranea, carica di nostalgia e di un senso tragico dell’esistenza.

Qui siamo immersi in un paesaggio crepuscolare, tra "bigie perle" e "spire nebbiose". Toffoli ci trasporta in un mondo onirico, dove la luce si fa intermittente e il tempo pare sospeso. Il lampione, acceso "a tratti", è metafora di un’esistenza che si accende e si spegne, mentre il cercatore di vittoria lotta contro un destino implacabile. La sintassi spezzata, il susseguirsi di immagini evocative, creano un’atmosfera quasi simbolista, in cui il reale si sfalda per lasciare spazio a una percezione liquida e sfuggente del mondo. Qui la poesia non racconta, ma suggerisce, evocando un senso di malinconica attesa.

Romanini alza la voce in un canto di resistenza. Il poeta, custode della bellezza, non può accettare la guerra, perché egli ama la vita. Ma non è un rifiuto astratto: il poeta sa che la morte lo attende, che ogni uomo siederà al "banchetto" del destino. Eppure, nel suo rifiuto della violenza c’è una forma di rispetto assoluto per l’esistenza. I versi, semplici e diretti, richiamano la lezione di Ungaretti e Quasimodo, poeti che hanno saputo trasformare l’orrore della guerra in una riflessione universale sulla condizione umana.

Il tempo di marzo è ambivalente, sospeso tra la promessa della primavera e la minaccia della guerra. Scaligine intreccia il ciclo naturale con la realtà storica, ricordandoci che marzo non è solo il mese della rinascita, ma anche il mese di Marte, il dio della guerra. La poesia gioca tra immagini luminose e ombre minacciose: il sole che si toglie il cappotto è il presagio della bella stagione, ma sui "titoli di coda" della storia si ripetono sempre le stesse tragedie. La lirica, nel suo alternarsi di rime e di immagini vivide, ci lascia in bilico tra speranza e consapevolezza, tra la bellezza della natura e l’eterno ritorno della violenza umana.

...Il sole infuocato che non può essere di oggi! Come può esserlo un passato che scivola via, se non in un'eco di memoria? La rosa rossa che ci riporta a una stagione in cui l'amore, come un tramonto eterno, illuminava il cammino verso il futuro. Qui il tempo si fa carne, le sue fragranze ci sfiorano come polvere d'oro, ma ormai è lontano. Il vento che piega le fronde è il vento di un tempo che non si ripete, ma che nonostante tutto ci segna, facendoci piangere, non di dolore ma di quella dolce malinconia che accompagna ogni addio a ciò che è stato.

Ogni parola qui è un gesto di separazione. Non è più la vita vissuta insieme, ma un'ombra di quella vita. "Colorandola d'arcobaleno": ah, quale simbolo meraviglioso di un'armonia passata, di un incontro che continua a risuonare nei cuori, ma che si è perso nel tempo come un arcobaleno che si dissolve all'orizzonte. La poesia è il sospirato ricordo di un amore che ora è solo memoria, ma che brucia ancora dentro, scaldando la solitudine con un dolce rimpianto. Un'ode alla perdita, sì, ma anche alla bellezza che la perdita porta con sé.

Nella poesia della nostra Jacqueline, accade come se fosse il corpo stesso a scappare dalla tenebra e l’anima a cercare in un gioco senza memoria quella verità che si sfugge tra le pieghe della vita! La vita è sempre un mistero, e l'uomo corre verso la gloria, pronto a rischiare la propria esistenza. Ecco il primo grande contrasto: il corpo fugge l'oscurità, ma la sua anima è intrappolata in un gioco che non ha regole. Il dolore, qui, diventa il contesto in cui la gioia riesce a farsi sentire, come se i compleanni, simbolo di rinnovamento, fossero anche le uniche occasioni in cui la gioia e il dolore potessero incontrarsi. Ma lo fanno solo in un gioco di specchi: il dolore si fa spazio tra la luce come un'ombra che ci accompagna sempre.

Le "bestie" sotto le rotaie dei sogni sono la verità scomoda, la nostra paura che ci assilla nel profondo. Corriamo verso un treno, ma non per salvare noi stessi: corriamo per sfidare la morte, per sfidare la nostra condizione umana. La bandiera che non deve toccare il suolo è il simbolo di una battaglia che forse non vinceremo mai, ma per la quale siamo disposti a versare il nostro sangue.

E poi, oh, gli uccelli, leggeri come la vita stessa, ma feroci nel loro volo, in cerca di una meta che, forse, non esiste. Ecco la vertigine della poetessa: un inno all’assoluto, un cammino verso un orizzonte che non si raggiunge mai. L'immagine dell'alba che si prepara a bruciare le illusioni prima di iniziare il nuovo giorno è una visione apocalittica, un annuncio della fine del mondo e della rinascita. L'incendio purificatore dell’alba, che abbraccia le illusioni e le dissolve.

"Arrivano come comete ma restano come sogni.E qui, nella conclusione, c'è il rimpianto più bello: gli incontri, le esperienze, le epoche della nostra vita, si accendono come comete, ma svaniscono come sogni al risveglio. Ma, nel loro passaggio, lasciano una traccia indelebile, un'emozione che persiste, a dispetto di tutto.

Con affetto e stima

Vostro Ben Tartamo

 

 

 

1-3 Marzo

La poesia di Laura Lapietra si dipana come un tessuto fragile di memoria, come un ordito sottile che intesse e disfa la trama dell'anima. "Appassiti i ricordi" rappresenta la consapevolezza dolorosa dell'irreversibilità del tempo, quella che si fa carne e respiro nelle immagini dei "fiori secchi" e delle "pagine antiche", simboli di un passato che non tornerà, ma che persiste come un "omertoso velo di malinconia". Il poeta si rifugia tra le pieghe di un'interiorità chiusa, un riflesso di un'epoca che è andata, ma che non può essere dimenticata, rimanendo impressa nell’essenza stessa del cuore.

L’uso delle immagini di "rughe", "polverio" e "ombre" in controluce conferisce alla composizione una qual certa aura di ineluttabile desolazione. L'eco dei "vecchi amori" non è solo ricordo, ma una presenza che incide, quasi come un archetipo della sofferenza romantica. L’invito del poeta è a lasciare che queste ombre persistano, nonostante la consapevolezza che "non saranno più letti dal mio cuore". La sofferenza della perdita, che si manifesta attraverso il contrasto tra la luminosità della memoria e la pesantezza della nostalgia, affonda nella realtà di un cuore fragile, esposto al tormento di interrogativi irrisolti.

 

Giuseppe Stracuzzi, nel suo "Spiragli di luce", dipinge un percorso del tempo che è insieme fisico e metafisico, un viaggio attraverso le stagioni della vita e, al contempo, un'analisi del trascorrere del tempo che influenza l'anima. Il poeta, con l’ausilio di immagini solari e naturali, traccia un arco che dalla "primavera" festosa si estende verso l’ineluttabile "tramonto", segno di una riflessione matura sulla fugacità del vivere. La poesia si nutre di un linguaggio evocativo e sfumato, dove ogni stagione non è solo un cambiamento naturale, ma anche un simbolo del mutare interiore dell’individuo.

La luce che "indora i colori della vita" è quella che accende le speranze, ma anche quella che, con la sua discesa nel "tramonto", annuncia la fine di ogni esaltazione. Il poeta, che vede nel "mistero" il nodo centrale della sua ricerca, lascia intravedere tra le righe una fiducia incerta ma persistente in una fede che traspare da "spiragli velati". La luce diventa, così, non solo un segno di vita, ma anche di speranza che si rinviene tra le pieghe del tempo.

 

In questo componimento di Alfonso Silvestre, la poesia si trasforma in un vero e proprio viaggio fisico ed emotivo, dove l’autore, attraverso la metafora del "salire le scale del monte Echia", traccia il percorso di una ricerca interiore che culmina nell’esperienza di un’apoteosi fisica e spirituale. L’idea di un’ascensione, che inizia con la fatica del corpo ("sudore imperla la mia fronte") e termina nel trionfo spirituale della vetta, ci introduce in un’intensa riflessione sulla lotta per il raggiungimento di un ideale.

La montagna diventa il simbolo del desiderio, il "nettare" che il poeta cerca di "emergere" per superare i limiti fisici e diventare una parte della terra stessa. La "collana" di gocce che si forma sul suo petto assume una valenza simbolica, diventando il segno della fusione con la montagna, con il "luogo" del desiderio, che sfuma però nel mistero di ciò che non è del tutto conosciuto. La natura si fonde con l’individuo, le "gocce blu" diventano una visione onirica della ricerca interiore, mentre la "vetta" è una meta intangibile, che ci sfugge ma al contempo ci incanta.

 

In questa poesia intima e struggente, Sabatina Napolitano dipinge l'amore in modo sensoriale e corporeo, in una simbiosi totale tra l'autore e la sua amata. Il "regno dei miei desideri" che la casa diventa è l'emblema di una fusione fisica e mentale: ogni oggetto è impregnato di "presenza" e ogni gesto è un atto d'amore che si trasforma in una continua rinascita. Il legame tra il poeta e la figura della donna è totale, quasi ossessivo, ma nel contempo estremamente tenero, come testimonia la ripetizione del gesto d'amore che sfocia nel desiderio di una vita condivisa.

L'oggetto, il "marrone a fiori", è l'emblema di una quotidianità tanto concreta quanto intrisa di simbolismi: rappresenta la donna, la sua maternità e l'amore che continua ad albergare nel cuore. La casa, luogo della fusione tra il corpo e lo spirito, diventa l'oggetto stesso di un amore che si estende a ogni angolo, a ogni porzione di spazio. È una poesia di sottomissione, ma anche di celebrazione, dove il poeta si sente parte integrante di una realtà più grande di lui. Il linguaggio stesso è palpabile, sensuale, e rivela la profondità della relazione, che va oltre il corpo e si inscrive nell’essenza stessa del desiderio e dell’identità condivisa.

 

Questa poesia è un inno all'intimità e alla rassicurante presenza dell'altro in momenti di vulnerabilità. "Con le nostre mani" è l’immagine centrale che simboleggia il legame indissolubile tra due esseri che, pur nel buio della notte, si sostengono a vicenda. L'autore descrive con delicatezza la forza di quel gesto, un atto semplice ma carico di significato, che abbraccia la totalità dell'esperienza umana: la paura, la speranza, la fiducia nel nuovo giorno che verrà.

Le mani strette sono l'immagine di un contatto che si fa custode della vita, un simbolo del reciproco sostegno nelle difficoltà quotidiane. La poesia si snoda tra luci e ombre, tra la quiete della notte e la luce di un “nuovo domani”, in un movimento continuo verso la speranza. La delicatezza con cui si affrontano i temi della paura e delle incertezze della vita, attraverso un’immagine universale come quella delle mani che si stringono, è una testimonianza della capacità della poesia di tradurre in parole ciò che è intimamente universale e profondo.

 

Nel "Sonetto ritornellato", Salvatore Armando Santoro crea un paesaggio emotivo fatto di memoria e di rimpianto, dove il passare del tempo e la fine di una storia amorosa vengono raccontati con una sintesi precisa, capace di restituire il sapore amaro di un addio che, pur non essendo definitivo, si tinge di malinconia. La figura della ragazza, "un po’ sconclusionata", risalta per la sua imperfezione, segno di una relazione che, pur avendo avuto un inizio pieno di promesse, si è dissolta, lasciando solo il ricordo di una telefonata e di una promessa che il tempo ha lentamente estinto.

Il tema centrale della dissolvenza, che si riflette nel titolo stesso, è quello della fine delle cose, ma anche della loro persistenza nel ricordo. Il poeta riesce a tradurre in immagini l’ambiguità dei sentimenti umani, dove il tempo non è solo un nemico, ma anche una forza che svanisce, pur lasciando dietro di sé tracce che continuano a vivere nell’eco della memoria.

 

In questa poesia, Guglielmo Aprile ci regala un viaggio metafisico e suggestivo, dove il poeta si mette in cammino alla ricerca di un amore perduto o forse mai davvero raggiunto. Il "mare" e la "Via Lattea", insieme ai "labirinti" e alle "orme", sono tutti simboli di un cammino interiore, un percorso tortuoso verso una destinazione che appare sfuggente ma allo stesso tempo magnetica. Le immagini di una ricerca incessante, di un "zenith dei miei passi" che incarna l’apice della speranza e del desiderio, rendono la poesia un’esplorazione dell’anima che cerca di trovare la sua completezza.

L’utilizzo di immagini potenti, come la "croce" e la "foce", conferisce alla poesia una dimensione quasi epica, dove il poeta si scontra con le forze universali del destino e della natura. Ogni passo del poeta è un atto di consapevolezza della propria vulnerabilità di fronte all’infinito, ma anche un atto di fiducia verso il mistero che guida il suo cammino. È una poesia che esplora il concetto di amore come viaggio verso l’ignoto, dove ogni incontro e ogni separazione è una tappa di un ciclo che non si conclude mai.

 

L’amore è il cuore pulsante di questa poesia di Franco Fronzoli, che esplora la sua dinamica di continuo ritorno e partenza, di attesa e di speranza. La poesia, seppur radicata nel dolore della separazione, esprime una visione della relazione come qualcosa che, nonostante le sue fluttuazioni e la sua mutevolezza, resta intrinsecamente legata al destino dei protagonisti. Il poeta non desidera comprendere il perché della partenza, ma vive nella consapevolezza che l’amore, in qualche forma, tornerà. Questo ritorno è simbolicamente rappresentato attraverso immagini di luoghi condivisi, come il "viale" e il "prato", che diventano luoghi di attesa e di rifugio per una relazione che non si conclude mai veramente.

L’amore, dunque, si fa memoria e anticipazione. La ripetizione dell’idea del ritorno nelle sue forme più emblematiche – il mare, il tramonto, la primavera – diventa l’archetipo della continuità del sentimento, che non può mai essere davvero estinto, ma si rinnovato continuamente, come la luce che torna ogni mattina. La poesia, nel suo andamento lirico e dolente, si tinge di un silenzio carico di emozione, dove il ricordo si fa forza che sostiene la speranza di un incontro che deve ancora arrivare, ma che è già scritto nell'anima.

 

Un inno identitario che si costruisce attraverso contrasti e paradossi, come un'eco dell'Io universale che abbraccia ogni polarità dell’esistenza. Il poeta si fa specchio delle ambivalenze umane: il candore e l’inganno, la bellezza e la miseria, la gioia e la noia. Il tono è assertivo, ma con un retrogusto quasi biblico, come se stesse elencando i nomi segreti di un Dio frammentato. Il verso finale racchiude la chiave: l’essere non è definito dalle parole, ma dal vissuto. Questo “sarò la vita che vivrò” è una professione di fede nell’esistenza, un atto di volontà che rifiuta il determinismo per abbracciare la costruzione continua di sé.

 

C’è una malinconia liquida in questi versi, un flusso nostalgico che ondeggia tra il sogno e il ricordo. Il mare diventa il grande confidente, un interlocutore primordiale con cui l’anima si misura nei momenti di smarrimento. La poesia è un viaggio metafisico: si parte dalla malinconia e si arriva a un silenzioso ammonimento del mare, che ci dice di non cercare risposte tra le ombre della memoria, ma nella vita stessa. Il finale è struggente: il poeta conosce quel mare, ma non lo vede da troppo tempo. È il simbolo di un’assenza dolorosa, la separazione tra ciò che siamo stati e ciò che siamo ora.

 

Un canto lirico all’arte e all’amore, due forze che si sovrappongono fino a fondersi. Qui il poeta è un pittore, ma il pennello è intriso di nostalgia e desiderio. La figura amata è evanescente, sfuggente, come un’epifania che si dissolve nell’ombra. La tela è il luogo della resistenza, dove il ricordo tenta di fissare ciò che la vita ha reso irraggiungibile. I versi finali portano una dolcezza struggente: l’immagine finalmente si imprime, si fa eterna, suggellando il potere della creazione artistica di vincere il tempo. Una poesia di squisita delicatezza, quasi rinascimentale nel suo impianto.

 

Un testo di carattere più dichiaratamente motivazionale, dove il cuore diventa il tempio dei sogni e delle ambizioni. L’intento è chiaro: spronare il lettore a non arrendersi, a coltivare la speranza, a credere nella propria strada. Tuttavia, il tono didascalico potrebbe lasciare il lettore più raffinato con la voglia di una maggiore ricerca formale. La forza del componimento sta nella semplicità del messaggio, che ricorda la saggezza popolare: chi non lotta, ha già perso.

 

Questa poesia è un lamento dell’anima, un'invocazione che si dissolve nell'indifferenza dell'universo. Il poeta è un viandante della notte, un pellegrino che cerca un segno, un occhio che tutto vede, ma che non appare. Il paesaggio è spettrale: le stelle si spengono, le ombre resistono, il peso del cielo è opprimente. Il cuore di questa poesia sta nel senso di solitudine cosmica, nell’angoscia esistenziale di chi prega senza ricevere risposta. È un testo che richiama l’estetica dell’ermetismo e delle grandi notti insonni di Ungaretti.

 

Una riflessione metapoetica che gioca con il concetto di scarto e rivelazione. Il poeta si interroga sulla natura della sua scrittura, sul rischio di esporre il proprio intimo alla luce impietosa della critica. Eppure, c’è un’idea rivoluzionaria qui: anche i versi nati nell’incertezza, nel dormiveglia, sono tracce della bellezza dell’angelo. La poesia non è solo perfezione, ma anche errore e frammento. Un monito per chi, nell’arte, cerca solo la lucidità e non anche l’incandescenza dell’istinto.

 

Qui entriamo in un terreno più politico e satirico, dove il linguaggio oscilla tra il registro alto e quello popolare. Il poeta denuncia il potere che si appropria di parole come “libertà” e “democrazia” per giustificare imposizioni e pensieri unici. C’è un’ironia graffiante nel passaggio dialettale, che sembra voler svelare l’assurdità di certi meccanismi politici. L’idea di un mondo esasperato dall’eccesso di manipolazione è potente e attuale. Il finale lascia un interrogativo: quanto ancora potrà reggere questa illusione?

 

Un capolavoro visionario, un delirio poetico che si muove tra la dannazione e la redenzione. Barnaba è un’anima tormentata, un profeta decaduto, un indovino fragile che si lascia consumare dai suoi stessi sogni. Ogni verso è una confessione di debolezza e di umanità, ma anche di un’intensa bellezza tragica. Il poeta è colui che cade, che si smarrisce, che sente il peso della follia, ma che non rinuncia alla speranza. C’è un’eco dostoevskiana nella disperazione di Barnaba, e una promessa struggente negli ultimi versi: finché il sole sarà un termosifone per il cuore, l’amore continuerà a esistere.

 

Un sonetto dal sapore satirico e mordace, che gioca con l’ironia politica per denunciare l’inconsistenza di certe alleanze. Il tono è acre, quasi pasquinesco, e richiama la tradizione del sonetto polemico che riecheggia la voce di Giuseppe Gioachino Belli. La strofa iniziale è un colpo di fioretto: l’uso del termine "comico minore" per designare l’origine di questa classe politica è una stilettata degna della miglior satira ottocentesca. L’ultimo verso della seconda quartina racchiude tutta la tragedia della politica italiana: l’elettorato, visto come un ingenuo bambino che si lascia illudere dalle “caramelle”. Il richiamo alla storia, che si ripete come farsa, è quasi marxiano, e il tono di disillusione totale rende questa poesia una denuncia sociale senza speranza di redenzione.

 

Un inno nostalgico, intriso di dolcezza e rimpianto per un tempo perduto. La struttura anaforica del “vorrei” crea un effetto di preghiera laica, un’invocazione alla bellezza semplice della vita. La prima parte è un affresco lirico: il mare che abbraccia l’anima, la luna che sorride d’amore, il sole che canta. Sembra di trovarsi di fronte a una visione impressionista, una serie di pennellate leggere e luminose che evocano un mondo incantato. Ma poi arriva la svolta: il poeta non vuole solo paesaggi poetici, vuole il ritorno dell’infanzia, di una dimensione pura e autentica, dove il gioco era inventiva e la famiglia era un’unità sacra. Il contrasto con la modernità è netto e doloroso: lo smartphone e la Playstation sono il simbolo di una distanza incolmabile tra passato e presente. Il finale, con quel monito rivolto ai giovani, trasforma la poesia in una meditazione sul tempo e sulla caducità della vita.

 

Un testo denso, rarefatto, quasi ermetico, che gioca con immagini evanescenti e sospese. La poesia è un'atmosfera più che una narrazione, un sogno in dissolvenza che si aggrappa a simboli di transitorietà: le “bigie perle” che evocano lacrime o stelle inquinate, il “velo notte” che tutto avvolge, il “lampione acceso a tratti” che balbetta luce come un cuore stanco. L’uso del lessico è raffinato e ambiguo: i “sassi tra asfalti scoppiati” potrebbero essere metafora di una città ferita, di un’anima spezzata. La chiusa è struggente: il tempo è ormai sazio di vita, l’ultima immagine è quella di una nebbia che inghiotte il tutto. Un piccolo gioiello di impressionismo poetico, con una malinconia che rimane impressa come un’ombra.

 

Un tenero ritratto dell’amore incondizionato tra l’uomo e il suo fedele compagno a quattro zampe. La poesia è semplice, quasi infantile nel suo candore, ma proprio per questo autentica. La struttura richiama una filastrocca affettuosa, dove la ripetizione di “compongo” crea un senso di ritualità. Il poeta non è mai solo: accanto a lui c’è questa dolce presenza che veglia, che ascolta, che dona amore silenzioso. La personificazione della cagnolina (“tu miri con dolcezza”) rende il legame quasi spirituale, come se fosse un piccolo angelo custode. Un componimento delicato e sincero, che sa emozionare senza artifici retorici.

 

Un'opera che si apre con la solitudine della penombra e l'ingresso delicato dell'alba, metafora di un incontro tra passato e presente. La "punctualità" del tempo, che assume una forma puntiforme, ci indica un tempo che è simultaneamente vasto e minuzioso, come un'infinità di piccoli momenti. Il poeta si immerge nella sua riflessione, lasciandosi trasportare dall'ippica come metafora di un movimento eterno, di una "corsività" che attraversa il tempo stesso. Le "care fedelissime" Poesia e Pittura sono le sue compagne di viaggio, e questo ritorno al passato sembra suggerire una sorta di resistenza alla modernità, una ricerca di radici in un mondo che ormai non è più il suo. Un'invocazione profonda alla "muletta docile" del lavoro rurale che, tuttavia, lascia spazio alla speranza di un legame con l'arte, il gesto simbolico che perpetua la memoria del passato. La lirica si fa anche riflessione intima e personale, ma sempre senza distacco dal mondo che lo circonda.

 

La poesia inizia con una vibrante esplosione sensoriale: il "carnevale festeggiamento gagliardo" introduce subito un'atmosfera festosa e vivace, un tripudio di colori, danze e maschere. Ma non è solo la gioia della festa a dominare: sotto le risate e il frastuono, il poeta lancia una riflessione critica sul potere, l'ipocrisia e la falsità dei governanti, mascherati non solo a Carnevale, ma nella loro quotidianità. La "maschera vera" è quella dell'inganno, un'immagine che emerge prepotentemente tra il "dileggio" e la disillusione sociale. L'elemento finale del "Mistero" e della fragilità umana sfocia in un invito a vivere con dignità, anche di fronte alle "ceneri". La poesia si inserisce tra il sociale e il riflessivo, invitando a non dimenticare le ombre che si nascondono dietro le luci della festa. La critica politica si intreccia con la consapevolezza della finitudine, portando il lettore a una riflessione che trascende il contesto carnascialesco.

 

Un lampo di luce, un "tripudio di raggi di sole" che si trasforma in nutrimento per i gabbiani, in un'armonica fusione tra natura e spirito. La poesia si raccoglie in immagini brevi, rapide, come scatti fotografici che fissano momenti essenziali, forse per dire che la bellezza della vita si nasconde nelle cose più semplici e veloci. I raggi di sole diventano un "cibo" per i gabbiani, che sono essi stessi simboli di libertà e di movimento. Non c'è tempo per riflessioni lunghe, solo il flusso della vita, che passa veloce e fluido. Le immagini sono rapide, ma potenti: il "nutrimento" è un gesto che unisce il cosmo e la terra, il divino e l'umano. È una poesia che celebra il presente, il qui e ora, con una vibrante intensità che sembra voler congelare in pochi versi l'eternità di un momento.

Con affetto e stima

Vostro Ben Tartamo


 

"L'ultima poesia" – Ben Tartamo

Questa poesia, dal titolo profetico, mi ha colpito per la sua capacità di riflettere sull’infinito e sull’impermanenza, e al contempo di trasmettere una pace cosmica. La domanda iniziale sulle nuvole, seguita da immagini di unione tra il sole e la luna, crea un’atmosfera di ricerca spirituale. L'idea di un "ponte" tra cielo e terra è una potente metafora di speranza e connessione, un tema che mi ha profondamente emozionato.

 "Sensazione d'un passo passato" – Laura Toffoli

La poesia di Laura Toffoli ha un’atmosfera mistica e malinconica che mi ha toccato nel profondo. La descrizione della "sensazione sonnolenta" e della "spira nebbiosa" è ricca di immagini oniriche che riescono a evocare una sensazione di transitorietà e introspezione. La giustapposizione tra la "gelida nebbia" e il calore del passato rimanda all’inevitabilità della morte e all’alternanza tra vita e morte.

 "Vorrei" – Ciro Seccia

La poesia di Ciro Seccia mi ha emozionato per il suo tono nostalgico e delicato, che esprime un desiderio profondo di tornare a un tempo perduto. L'immagine delle rondini e delle lucciole, con il loro rimando a un'infanzia innocente, crea un contrasto potente con il presente. L’autore esplora l'idea di come il tempo trasforma la percezione e i valori, ma lo fa con una dolcezza che scalda il cuore.

 "Le cosmicomiche" – Piero Colonna Romano

La riflessione sulla farsa della politica e la critica all’attualità in questa poesia sono brillanti. La poesia ci invita a riflettere sulla realtà politica in modo acuto, ma senza perdere mai il suo tono leggero e ironico. L’immagine finale dei "figli d'esse esse" suggerisce che la politica, purtroppo, rimane una ripetizione di errori del passato, un’idea che mi ha profondamente colpito.

 "Flash" – Sandra Greggio

Questa breve e potente poesia mi ha colpito per la sua visione immediata e forte della natura. L’immagine dei "gabbiani che cavalcano le onde" è un simbolo di libertà e vitalità. La poesia riesce, con pochi versi, a catturare l’essenza di un momento di pura energia, facendo sentire il lettore partecipe di un attimo che è insieme fugace e eterno.

 "Il tempo puntiforme" – Roberto Soldà

In questa poesia, l’autore ci guida attraverso una riflessione sull’esistenza, la memoria e il tempo. L'immagine di "alba timida" che "affaccia alla finestra" è delicata e potente, mentre l’idea di "tempo puntiforme" evoca la sensazione di come ogni istante sia, in realtà, un punto che si unisce all'infinito. La poesia mi ha colpito per la sua capacità di trasmettere l'eternità nel piccolo, l'universo nei dettagli.

 "Alla dolce Meringa" – Alessio Romanini

La delicatezza di questa poesia mi ha molto commosso. La descrizione affettuosa del cane, che diventa il simbolo dell’amore incondizionato, è toccante. Le immagini di "carezza" e di "comporsi" suggeriscono un'intimità che va oltre la mera presenza fisica, facendo risuonare una bellezza nel quotidiano.

Vostro Marino Spadavecchia

 

 

25-28 Febbraio

``"E lasciati catturare"
 
E lasciati catturare, soffice piuma,
che da ali d'angelo, leggiadra, sei fuggita.
Su, lasciati stringere nella mia mano,
perché i miei pensieri possano danzare.

 
Il suono giocoso sulle pagine intonse
ha la tenerezza del vento sulle foglie.
Ed un profumo di rose e gigli m'inebria,
così che ogni cosa mi si anima e colora.```

 
10gennaio2025
Ben Tartamo


 
La poesia "E lasciati catturare" si distingue per la sua grazia eterea e la densità di immagini sensoriali, che intrecciano il transitorio e l’eterno in un dialogo di straordinaria intensità. Attraverso un linguaggio lirico e metaforico, Tartamo esplora la fugacità dell’ispirazione, la potenza rivelatrice della natura e la trasformazione interiore generata dal contatto con l’ineffabile.

 
- Struttura e musicalità -

 
Il componimento si sviluppa in due quartine dal ritmo armonioso, dove la regolarità metrica sostiene il fluire delle immagini. L’alternanza tra suoni aperti e chiusi, unita a consonanze e assonanze (come piuma/fuga), conferisce alla poesia una musicalità delicata e avvolgente. L’uso dell’imperativo "lasciati catturare" conferisce al testo un tono intimo, quasi liturgico, come se il poeta invitasse non solo la piuma, ma anche il lettore, a un atto di resa all’invisibile.

 
- Immagini e simboli -

 
1. La piuma d’angelo (vv. 1-4):
Simbolo di leggerezza e spiritualità, la piuma rappresenta l’ispirazione fugace, un frammento di divino che l’autore tenta di afferrare prima che si dissolva nel vento. Il gesto di catturarla evoca il desiderio umano di trattenere ciò che è effimero, trasformandolo in parola, in creazione.

 

 
2. Il vento e le foglie (v. 6):
Il vento, lieve e giocoso, accarezza le foglie con dolcezza, suggerendo un equilibrio tra forza e delicatezza. L’arte, come il vento, nasce dal contatto con l’ignoto e si manifesta nell’interazione tra l’esterno e l’interiorità del poeta.

 

 
3. Rose, gigli e il risveglio dei sensi (vv. 7-8):
Il profumo dei fiori inebria e trasfigura la percezione, conducendo a un’esperienza sinestetica che coinvolge olfatto, vista e udito. Qui, la poesia si fa rito di passaggio: il soggetto si lascia catturare e, nel farlo, assiste a una metamorfosi interiore, un risveglio dei sensi che si estende al cosmo.

 
- Temi centrali -

 
L’eterno nell’effimero: La piuma, fragile e destinata a svanire, diventa il simbolo di un’esperienza trascendente.

 
La natura come epifania: Il vento, i fiori, la luce sono elementi che dischiudono verità profonde, rivelando un legame segreto tra il visibile e l’invisibile.

 
L’abbandono come atto creativo: L’invito a lasciarsi catturare suggerisce che solo nella resa alla bellezza si può accedere a una comprensione più profonda della realtà.

 
- Stile e figure retoriche -

 
Sinestesia: Il suono giocoso che possiede tenerezza fonde udito e tatto, creando un’immagine plurisensoriale.

 
Personificazione: I pensieri che danzano trasformano l’astratto in movimento vivo, conferendo alla poesia una qualità cinematografica.

 
Metafore organiche: La piuma, il vento, i fiori non sono semplici dettagli descrittivi, ma veicoli di un’energia cosmica che connette l’umano al divino.

 
- Impressioni personali -

 
Tartamo, pur utilizzando simboli archetipici come angeli, rose e vento, li rielabora in una chiave personale e quasi alchemica, dove la poesia diventa un processo di trasformazione interiore.  Infine, se in alcuni passaggi le immagini si muovono lungo sentieri familiari, è la loro orchestrazione a renderle fresche e vibranti.

 
In conclusione, E lasciati catturare è un inno alla bellezza effimera e alla capacità della poesia di elevare l’anima. La sua eleganza formale e la profondità simbolica ne fanno un componimento che invita non solo a leggere, ma a esperire l'abbandonarsi al vento della parola e lasciarsi trasportare verso l’ignoto.

 
Marino Spadavecchia 

 

 

Il poeta Bettozzi si confronta con il tema dell'invecchiamento, ma con uno sguardo che va oltre la decadenza fisica. La figura del "vecchio" diventa emblema di saggezza e resistenza, un soggetto che, nonostante i giudizi superficiali degli altri, conserva nel cuore e nella mente tesori di esperienza e conoscenza che nessun "scemo" può toccare. La riflessione sullo specchio si fa metafora di un processo di auto-riconoscimento, dove l'aspetto esteriore svanisce ma l'interiorità rimane, rinvigorita dalle esperienze passate. È un invito a sorridere di sé stessi, a non farsi sopraffare dalle apparenze, ma a riconoscere il valore di ciò che resta quando tutto il resto è perduto.

La poesia di Lapietra si inserisce nel genere del "hay(na)ku", un tipo di poesia che si sviluppa in tre versi e che qui esplora l'intensità della percezione. Le immagini che la poetessa evoca sono enigmatiche e cariche di tensione: "placido scalpore assopito" suggerisce una calma inquieta, come se un rumore sommesso stesse per esplodere in un silenzio che non è mai veramente tale. Il "coriaceo cielo" diventa simbolo di una realtà resistente, che non si lascia facilmente influenzare. In questi pochi versi, la poetessa riesce a catturare l'idea di un mondo sospeso, dove il passaggio tra ciò che è visibile e ciò che è nascosto è sfumato e impercettibile. La sintesi di questi elementi è la bellezza intrinseca della poesia, un concentrato di sensazioni ambivalenti.

La poesia di Stracuzzi affronta il tema della revisione e del fallimento, ma con una visione che trasforma l'errore in parte di un ciclo continuo. Le "cancellature" diventano simbolo del tempo che scorre e che cancella, ma anche della possibilità di rivedere e riscrivere la propria storia. Il "mare di cancellature" è il fluire di un processo di correzione incessante, mentre l’immagine della spoglia che "seppellisce il tempo" suggerisce la costante mutabilità della vita. Tuttavia, nonostante i tentativi di annullare e correggere, la memoria e l’esperienza si consegnano all'infinito, come un diario che non smette di essere scritto, lasciando segni che si rivelano e si ricompongono nel tempo. La poesia invita a vedere l’errore non come una fine, ma come una nuova possibilità di comprensione e crescita.

La poesia di Alfonso Silvestre si fa metafora potente di un cuore che esplode, con una raffigurazione intensa della sofferenza e della ricerca di se stessi. L’immagine del cuore, prima in espansione, poi affaticato, e infine esplosivo, ci introduce a un mondo interiore in continua evoluzione. La "grande esplosione" diventa simbolo di una liberazione, ma anche di una perdita, e lascia dietro di sé una scia di frammenti da ricercare e raccogliere, come un naufrago alla ricerca di ciò che resta di sé. Il poeta si trasforma in un "cardionauta", una figura che esplora le profondità emotive e spirituali, un viaggio attraverso le tensioni tra l'inizio e la fine, tra l’espansione e il ritorno all'origine. Il cuore, pur esplodendo, non cessa mai di esistere: anzi, la ricerca dei suoi pezzi diventa un atto di rinascita, un tentativo di rimettere insieme il sé frammentato.

Sabatina Napolitano ci regala un'ode al desiderio, all'amore che si nutre di piccole cose, di gesti quotidiani che, pur nella loro apparente normalità, sono carichi di significato. La poesia, intrisa di passione e intensità, dipinge un amore profondo e totalizzante, dove l'autrice non cerca solo il corpo dell'amato, ma una fusione completa, un'osmosi tra due esistenze che si sovrappongono. La ripetizione della parola "cadrai" evoca inevitabilità, come se l'amore fosse una forza irresistibile che, pur nel suo essere "disperato e fragile", muove tutto. L’immagine della "tana" senza l’altro, delle mani vuote quando non sono sul corpo dell’amato, accentua il desiderio di un'unione totale, di un annullamento del sé in funzione dell'altro. Il linguaggio che si fa intenso e fisico, fatto di "oggetti" che vengono posseduti dall'altro, evidenzia un amore che esige una completa perdita di sé, una perversione che si fa anche dolce e profondamente sensuale.

In "La nebbia e l'incontro", Fausto Beretta cattura l'emozione di un incontro che è accompagnato dalla distorsione della nebbia, simbolo di incertezze e di una realtà che sfuma. Il velo che copre la strada diventa metafora del velo che si stende tra il poeta e l'oggetto dell'incontro, un incontro che avviene non con un "sconosciuto" nel senso più pieno, ma con qualcosa di sconosciuto dentro di sé, un'attesa che si fa rassegnazione. Il "malavoglia" suggerisce una sorta di disincanto, l'incapacità di affrontare con entusiasmo ciò che ci si trova davanti, ma il poeta si prepara comunque, come chi sa che l’incontro è inevitabile, pur nella sua opacità. La nebbia non svela, ma avvolge, e l’incontro che si prefigura non è chiaro, ma sospeso in una dimensione quasi onirica. L'immagine che Beretta crea è delicata ma piena di tensione, come se il vero incontro fosse quello con noi stessi, che si svolge nell'indistinto.

In questa poesia, Santoro dipinge un ricordo malinconico di una vita passata, fissando nella memoria il volto di una donna e i giorni trascorsi a inseguire un amore che ormai si è dissolto nel tempo. L'autore si aggira tra i luoghi di un passato che appare vivido eppure sfuggente, intriso di speranza e di sogni non realizzati. Il sorriso della donna diventa un simbolo di un ideale di amore che ancora lo perseguita, mentre i luoghi evocano una nostalgia per un’esistenza che non è mai stata pienamente vissuta. La poesia si fa un viaggio attraverso il tempo, dove la "carezza, una parola stanca" sono i segni di un invecchiamento lento e ineluttabile, e la "speranza che ogni giorno manca" è l'eco di una giovinezza che sfuma tra le rughe e le esperienze accumulate. Santoro, con un linguaggio semplice ma ricco di immagini, ci fa partecipi di una riflessione sul passare del tempo e sul desiderio di un amore che rimane intatto nel cuore, anche quando tutto il resto sembra svanire.

Aprile crea un mondo intriso di simboli e immagini evocative, un universo in cui il poeta è falena e l'amato è fiamma, un incontro destinato a bruciare e dissolversi, ma che si fa eterno nella sua bellezza struggente. La "gabbia di specchi" diventa il luogo della riflessione, in cui la figura del desiderato appare e scompare, sfuggente e inafferrabile, come un miraggio che non può mai essere realizzato. La poesia esplora il tema della ricerca incessante di qualcosa che sfugge sempre, come la perla nascosta nella conchiglia, simbolo di un desiderio che non trova mai piena soddisfazione. Aprile coniuga il mito della falena e della fiamma con l'idea del miraggio, mettendo in scena una tensione tra il desiderio ardente e l'impossibilità di raggiungere ciò che si desidera. L'autore riesce a trasmettere una sensazione di eternità nel transitorio, di bellezza nel non raggiungibile, in un gioco di immagini che si intrecciano e si dissolvono.

La poesia di Tartagni si fa una riflessione profonda, esistenziale, su un mondo che appare caotico e senza direzione. Con immagini che richiamano la vastità e la confusione dell'universo, il poeta esplora la condizione dell'uomo di fronte alla Morte, alla quale si accosta con una sorta di impotenza cosmica. La "genopoiesi della Morte" si presenta come un principio creativo ma anche distruttivo, che domina l'esistenza dell'autore, imprigionato in un "universo senza meta". La figura della "Beltà", così distante, rappresenta un ideale di bellezza e verità che sembra sfuggire a chi cerca di afferrarla. Le "scale d'astri" e le "costruzioni d'un inadempiuto dio" evocano un mondo incompleto e disturbato, in cui la creazione stessa appare come un fallimento. La sensazione di dissoluzione e di caos regna sovrana, e il poeta si sente intrappolato, incapace di uscire dalla propria condizione. Le immagini potenti e le parole spezzate contribuiscono a creare un’atmosfera di angoscia esistenziale, in cui la ricerca di senso e di bellezza si perde tra le pieghe di un universo che sembra morire e rinascere senza fine.

La poesia di Montagnoli è un viaggio attraverso la lotta interiore dell'autore, che si trova immerso in un mare di parole che non riescono a fluire liberamente. La "piovra" che è dentro di lui simboleggia il peso di pensieri e emozioni che affollano la mente, mentre il magma che "ribolle e vuole uscire" diventa l'immagine di un'inquietudine che non trova voce. Il poeta si confronta con la propria difficoltà nell'esprimere se stesso, nella consapevolezza che anche se aprisse il cuore, ciò che ne verrebbe fuori sarebbe solo una traccia effimera, una piccola impronta nell'immensità dell'esistenza. La sua riflessione sull'illusione di avere qualcosa da dire sfocia nell'immagine del "mare d’erba battuto dal vento", simbolo di una ricerca che resta incompleta e di un desiderio di lasciare qualcosa dietro di sé che, tuttavia, è destinato a svanire nel buio dell’eternità. La poesia, dunque, esplora la fragilità della comunicazione e della memoria, il desiderio di essere ascoltati e di lasciare un segno che, forse, non avrà mai il peso sperato.

Fronzoli ci regala una riflessione delicata e intensa sul tempo, un tema universale che qui si traduce nell’immagine dell'orologio, simbolo del passaggio incessante delle ore e delle emozioni. L’orologio che "cammina sulle gambe di due lancette" diventa il veicolo che porta con sé gioie e dolori, felicità e angosce, in un ciclo che sembra non fermarsi mai. Ogni ticchettio diventa l'invito a riflettere sul valore degli istanti, che possono essere effimeri come foglie che cadono o eterni come ricordi che si perdono. Fronzoli gioca con il contrasto tra l'inesorabile avanzamento del tempo e la bellezza che si cela nelle piccole cose della vita, come i sogni che svaniscono e i risvegli che ci riportano alla realtà. La poesia è un elogio della transitorietà dell'esistenza, ma anche un monito a non fermarsi, ad andare avanti, pur tra il dolore e la bellezza che il tempo ci offre.

Canapè costruisce una scena intima, carica di delicatezza, in cui il poeta si ferma di fronte al richiamo di un amore che ha il potere di fermare il tempo. L’anima che "ritrarsi voleva" rappresenta una parte di sé che, pur desiderando fuggire, viene catturata dal richiamo del "sussurro" dell'altro. La carezza che non si consuma, il "volo di farfalla" e l’immagine della "cresta d’onda" diventano simboli di un amore che sfiora senza mai essere del tutto posseduto, ma che lascia un'impronta profonda nell'anima del poeta. L'intensità del momento è tratteggiata con una grazia che evoca la fugacità dell'esperienza e la bellezza del tocco, come se il poeta stesse cercando di catturare un frammento di eternità in un attimo di pura percezione sensoriale. La sua poesia diventa un inno alla bellezza effimera dei sentimenti, una riflessione sulla necessità di fermarsi a sentire, anche quando la realtà sembra sfuggire tra le dita.

In questa breve e intensa poesia, Felice Serino ci invita a riflettere sulla natura imperscrutabile della poesia stessa, quella che "ti sorprende alle spalle", come un'irruzione inattesa che non segue logiche razionali. La riflessione sull’atto poetico diventa una danza tra la veglia e il sonno, un "uzzolo" che si palesa senza preavviso. Il poeta suggerisce che la poesia nasce da un impulso primordiale, irrazionale, che prende forma senza dover essere necessariamente spiegato o compreso. La bellezza della poesia è proprio nella sua capacità di sfuggire alla razionalità, di evocare sensazioni e emozioni senza una necessaria spiegazione. La tensione tra il mistero e la rivelazione è il cuore pulsante di questa riflessione, in cui il poeta si arrende all'irrazionalità del suo atto creativo e ne abbraccia l’inaspettato fluire.

In questo testo, Greggio esplora una visione dell'amore che va oltre il temporale, un amore che trascende la reciproca corrispondenza e si fa atto di pura dedizione. La poeta non cerca l’amore a "senso unico" in cambio di un'attenzione o di un ritorno, ma si dedica a un sentimento che è più grande di ogni circostanza. È un amore che "non ha mai preteso nulla in cambio", ma che si espande nell'infinito del cuore, che si offre come un dono senza fine. L'amore di Sandra Greggio è eterno, radicato nella verità di un "Amore con la A maiuscola", che persiste al di là della transitorietà del corpo, dell’apparenza, delle distinzioni temporali. La sua visione è assoluta, pura, e nel suo abbandono a questa dedizione senza condizioni si riflette una grande serenità, come se l'amore, al di là di ogni aspettativa, fosse un rifugio sicuro per l’anima.

Jacqueline Miu dipinge una scena poetica che mescola il quotidiano con il trascendente, evocando un paesaggio emotivo ricco di contrasti. L'inverno che "fa tremare i tuoi battiti" è l’immagine di un tempo che passa, che non è solo fisico ma anche emotivo, e le "forme deformi del buio" sembrano raccogliere le ansie e le emozioni più profonde, nascoste nell’ombra. La poesia si sviluppa come una promessa, una visione di speranza che tenta di redimere ciò che di "selvaggio" e ineluttabile esiste in noi. Il poeta si offre come redentore, come colui che può portare la luce in un mondo di tenebre, e lo fa attraverso il potere delle parole. La poetessa, infatti, offre la poesia come rimedio, come un "fuoco indomabile" che vuole sedurre e placare le paure dell’altro. La proposta di "prendere" la caduta dell'amato è un’immagine di protezione, un atto di cura che supera i limiti del tempo e dello spazio, portando un amore senza condizioni. In questo giardino dell'Ade, l’atto poetico diventa uno strumento per affrontare la morte, la paura e l'incertezza, trasformando il dolore in bellezza.

Con un tono sarcastico e vivace, questa poesia si prende gioco dei malversatori e dei giochi di potere che coinvolgono l'élite politica e finanziaria. Il riferimento alla Lega e ai suoi presunti scandali, con l'irriverente invocazione dei "magistrati birichini", dipinge una satira sociale che accusa apertamente l'abuso di fondi pubblici e la corruzione. Le immagini di "diamanti", "laurea lesta" e fondi spesi per scopi privati sono allegorie della disonestà diffusa, mentre il passaggio a Panama simboleggia la fuga dei colpevoli da una giustizia che non riesce a raggiungerli. La poesia gioca con il contrasto tra la facciata politica e l'incredibile realtà dietro i sorrisi e le promesse, facendo il quadro di una società in cui la corruzione è una "tentazione" difficile da resistere. Il finale, con il riferimento a "Matteo" (probabilmente un leader politico), lascia il lettore con un dubbio sulla sincerità di chi dovrebbe rappresentare la giustizia, evocando un sistema che permette ai malfattori di prosperare e sfuggire alla responsabilità. La satira tocca così temi universali di potere, impunità e complicità.

In questa poesia, Seccia crea un'atmosfera di assoluto romanticismo, in cui l'unione tra i due amanti è percepita come un rifugio ideale e sacro. Il linguaggio è onirico e immaginifico, con l’arcobaleno, la neve sciolta dal battito del cuore, e il cielo che "crea ricami di cristallo tra le stelle". Ogni elemento naturale, dal cielo al paesaggio, è al servizio della bellezza del rapporto d’amore, che si fonda su un'intensità emotiva travolgente. L’immagine di salire verso il Paradiso è un ideale di ascesa spirituale e fisica, dove l’amore diventa il motore di una realtà trascendente, e dove ogni passo è accompagnato da una luce dorata che illumina il cammino. La sensualità dell’amore è accentuata dall’immagine di un "camino" e da un "estasi d’amore", in cui la passione si fa calore e intimità. La poesia si configura come una dichiarazione di devozione assoluta, dove la realtà si trasforma in un riflesso dei desideri più puri e profondi dell'autore.

Toffoli ci invita a una riflessione sul silenzio, sul tempo e sull'introspezione, in cui il "tè ai frutti di bosco" diventa un pretesto per esplorare le profondità della mente e dei sentimenti. La scena si svolge tra il dolce profumo dei gerani e l'immagine di un tramonto che "langue nell'arancio", una metafora per la transitorietà e la bellezza che sfuma. La falena, simbolo di fragilità e passaggio, diventa un'eco del desiderio e della ricerca. Il linguaggio della poesia è delicato e meditativo, in cui ogni dettaglio sensoriale, come il "sorso di tè", si fonde con il pensiero che vola come colomba nel cielo. L'inquietudine del mondo interiore è esplorata senza fretta, con una calma che invita a riflettere e a perdersi in una dimensione sospesa, come in un sogno che si dissolve all’alba. In questa poesia, il tè diventa la chiave di lettura per un'esperienza di introspezione, dove il pensiero trova uno spazio per volare libero tra i fiori e i vuoti dell’anima.

La poesia di Romanini esplora un momento di solitudine profonda, ma anche di liberazione e rinascita. Il poeta descrive un'agonia interiore, dove la solitudine sembra opprimente, "curvando sulle ginocchia" e inondando il petto di tristezza. Tuttavia, l'incontro con il mare cambia radicalmente questa condizione. Il mare, simbolo di vastità e serenità, diventa un luogo di guarigione e di riflessione. Le "traslucide acque" e le "increspature di onde" suggeriscono un legame profondo con la natura, dove ogni pensiero triste è "cullato" e dissolto nelle acque che brillano di riflessi dorati. La "melodia" e il "barbaglio" delle onde rappresentano una sorta di ritrovata speranza, un'armonia che emerge dalla solitudine e che riempie di luce un cuore affranto. Il mare diventa quindi un rifugio emotivo, ma anche una sorta di rinascita spirituale, dove l'animo si ritrova purificato e rinvigorito dalla sua immensità.


 

Con affetto e stima

Ben Tartamo

 

 

 

22-24 Febbraio

Un inno tellurico e ancestrale, che affonda le radici nel dolore e nella grandezza di un'epoca. Serino non racconta, evoca: il ritmo diviene sangue pulsante, l'eco del blues si fa carne, il corpo stesso dell'Africa strappata e violentata. "Ma è il vuoto del braccio tranciato" è l'immagine epifanica della mutilazione storica e culturale, un vuoto che si fa canto, un'assenza che riecheggia nei secoli. La poesia è un altare funebre e al contempo un rito d'invocazione, un'esperienza di trance che ci porta nei gorghi di un destino inscritto nella voce nera e profonda del blues.

Una poesia civile che si erge come una colonna dorica nel tempio della contemporaneità. Qui, Bettozzi si fa cantore disilluso della decadenza occidentale, un moderno profeta che, nel fragore del cambiamento, intravede il disfacimento. La sua metrica, perfettamente costruita, è il contrafforte che sorregge il peso della denuncia: non c'è urlo scomposto, ma un'arguta ironia che trapela tra le rime, un disincanto che si fa architettura verbale. Il vento della storia non è più soffiata di speranza, ma tempesta che sradica certezze. L’ultima quartina è il colpo di grazia: il firmamento si muove, il mondo muta, e chi non ne comprende il senso rischia di soccombere.

Se la poesia è l’arte di sfiorare il divino con la parola, qui l’autrice intinge il verso in una luce sacrale. "Fiore d’amore è il tuo tocco" è la soglia di un tempio, il luogo in cui l’amore si trasforma in materia sottile, impalpabile ma potente come il respiro di un angelo. Lapietra fa della delicatezza il suo vessillo, trasformando la parola in carezza, la metafora in linfa vitale. Il tempo, eterno e immutabile, è il vero protagonista: il battito d’un cuore diviene sacramento, un’eco che vibra oltre la finitezza umana. Questa poesia è un canto di devozione, un inno mistico in cui l’amore si fa eterno attraverso la parola.

In questo componimento la natura si fa palcoscenico del sentimento, e l’amore si trasforma in un atto di creazione primordiale. Stracuzzi evoca, con una lirica che vibra di intensità quasi sacrale, il campo come luogo dove i miracoli germogliano: la maestra non è solo colei che istruisce, ma diventa simbolo della Natura, maestra saggia e onesta che, con gesti alchemici, rattoppa le ferite dell’essere. Il "fremito d’amore" si manifesta nelle piccole e grandi opere quotidiane: la foglia restituita al picciolo, il bacio di luce che veste il bambino di sole. Qui il verso si fa preghiera, un incantesimo che trasforma il gesto umano in un rituale d’amore, dove la bellezza del dono e il desiderio di conoscenza si fondono in un’armonia che travolge l’io. Un inno alla fertilità dell’esistenza, che non si lascia condizionare dalle bramosie dell’ego, ma eleva il pensiero all’universalità del dono.

Silvestre ci conduce in un viaggio tra passioni incandescenti e fragili riflessioni, dove il cuore trabocca d’amore come un vaso che non può contenere l’infinito. La poesia è un caleidoscopio di immagini, in cui il petalo rosso e la rugiada residua si fanno simboli di un amore che è al contempo esuberante e delicato. L’atto del tuffarsi nel fondo per poi riemergere diviene metafora di una continua rinascita emotiva, in cui l’io si perde per ritrovarsi, trasformato. Il linguaggio, carico di una sensualità quasi palpabile, si fa veicolo di una dimensione interiore che, pur nel suo fervore, si mostra vulnerabile e umana. Qui l’amore non è soltanto passione, ma anche il riflesso della nostra capacità di accettare la fragilità e la forza, in un abbraccio che unisce il desiderio alla consapevolezza.

Questo componimento si presenta come un confessionale intimo, in cui il sentimento amoroso si fa regista di una vita divisa tra l’intensità dei piaceri e la sofferenza di una malattia interiore. Napolitano costruisce il ritratto di un amore ossessivo, in cui il desiderio si trasforma in un atto quasi rituale: l’apparizione quotidiana dell’amata si fa indispensabile per la propria redenzione, eppure l’io si sente prigioniero di una condizione che lo costringe a fingere normalità. La poesia è un percorso doloroso, in cui l’attesa, l’agonia delle ore senza l’altro, si alterna a momenti di sublime fusione erotica, capaci di rendere il corpo un tempio sacro. La tensione tra l’apparenza della normalità e il tumulto interiore si fa sintesi di una vita vissuta in costante dualità: il desiderio diventa la linfa vitale, mentre l’incapacità di esprimersi liberamente alimenta un tormento che si riflette in ogni verso. Un testo che, pur nella crudezza della confessione, si eleva grazie alla sua sincerità e alla profondità delle immagini, rivelando la bellezza tragica di un amore che è al contempo redenzione e condanna.

Qui la poesia si fa eco di un tempo che scorre inesorabile, di stagioni che non tornano più se non come pallidi riflessi nei sorrisi e negli affetti. Il poeta, con un lirismo pacato e malinconico, ci guida verso una saggezza rassegnata, quasi epicurea: non è più il tempo della scoperta, dell’avventura, ma quello della raccolta. La battigia, luogo di transizione tra la terra e il mare, diviene metafora della condizione esistenziale del poeta, che non corre più, non cerca più, ma contempla e si abbandona. Vi è un senso di dolce accettazione nel verso finale: il vino, la tavolata, l’abbraccio degli amici non sono più promesse di un domani glorioso, ma il presente, l’essenza ultima della felicità.

Un testo scarnificato, essenziale, che implode nel proprio dolore. Qui l’amore è assenza, incomprensione, silenzio. L’io lirico si agita nel vuoto, nella solitudine di un compagno che forse non c’è mai stato, un’ombra più che una presenza. La poesia si fa un sussurro angosciato, un respiro trattenuto, quasi un haiku spezzato dall’inquietudine. Ma nella nudità delle parole, nell’assenza di retorica, sta la sua potenza: il verso breve, spezzato, crea un ritmo sincopato, una tensione crescente, sino alla chiusa che è un’implosione dell’anima.

Qui siamo di fronte a una poesia che danza sul filo dell’iconografia infernale, una seduzione quasi luciferina che si nutre di bellezza e dannazione. Il poeta costruisce il suo angelo con tratti nitidi, quasi pittorici: occhi, capelli, labbra, corpo – la fisicità è protagonista, come in un’epifania sensuale e distruttiva. La ripetizione martellante del verso “Sono l’Angelo del Male” crea un ritmo ipnotico, quasi una formula rituale, una maledizione che si autoalimenta. L’io lirico non è vittima, ma sovrana: elargisce doni, spezza cuori, esercita il proprio potere con la consapevolezza di chi regna su un mondo di perdizione. L’ultima immagine – la coda lunga quanto la vita – suggella il senso di ineluttabilità: chi cede a questo fascino è già condannato.

Un haiku che cattura in tre versi l’essenza fugace della primavera. L’ossimoro implicito tra la delicatezza della brezza e l’esplosione del sole crea un’immagine di rinascita potente ma leggera, quasi effimera. Il profumo della stagione diventa tangibile, un soffio vitale che annuncia il risveglio della natura. La sintesi perfetta del momento, senza orpelli, fa di questo haiku una miniatura di bellezza.

Qui siamo immersi in una celebrazione quasi cosmica dell’amore. La primavera non è solo una stagione, ma una processione sacra, un rito di venerazione che riverbera persino nei pini secolari. L’amata è un universo attorno al quale ruotano baci, vento e misteri nascosti nella geografia del corpo. La chiusa, con le comete che si arrendono in un porto sicuro, suggella un amore che è al tempo stesso tempesta e quiete, incendio e rifugio. La lirica si distende con un andamento classico, solenne, costruendo un’immagine mitologica della passione.

Questa poesia è un susseguirsi di carezze verbali, un inno alla sensualità percepita come vibrazione sottile. Il ritmo spezzato e la disposizione dei versi creano un movimento, un respiro che si insinua come il tocco di una brezza marina. Il corpo dell’amata diventa paesaggio, un’onda che sfiora, un raggio che scalda, un tramonto che avvolge. La poesia culmina in un brivido che si trasforma in un palpito d’anima, un’eredità lasciata nel cuore dell’altro. Un componimento che sfiora la pelle e la coscienza con la stessa, impercettibile, dolce intensità.

Un’opera potente, carica di immagini tumultuose che evocano un paesaggio interiore scosso dalla tempesta. Il poeta intreccia il fragore del mare con il vuoto cosmico, in un’atmosfera epica dove Nettuno cavalca onde iraconde e le stelle fredde fendono l’oscurità come crepe nel firmamento. Il protagonista si muove rasente i muri d’ombra, senza paura, abbracciando l’ignoto come un destino inevitabile. Il passero infreddolito chiude il quadro con un’immagine di fragilità che contrasta con la furia degli elementi, suggerendo un’anima provata ma ancora resistente.

Una riflessione amara e introspettiva sullo scorrere del tempo e sulle illusioni vane. L’immagine delle ragnatele tessute sulle pareti di blu cobalto evoca il tentativo di dare forma a qualcosa che, alla fine, non regge il peso della realtà. Il mare, simbolo di vastità e speranza, si trasforma in un luogo di naufragio della delusione. Un componimento essenziale ma denso, capace di trasmettere un senso di malinconia profonda con poche, incisive pennellate.

Una Milano spietata e lucida, specchio di una società che mastica e consuma, ma che lascia fuori chi non è utile al suo ingranaggio. Il poeta denuncia l'ipocrisia di una città che sbandiera lusso e cultura mentre ignora povertà e degrado. Le immagini sono taglienti: il Duomo come un pavone che non sfiora l’Eden, il sindaco che tassa i menestrelli, influencer-pirati in cerca di like. È un affresco urbano disincantato, una Milano che brilla ma non scalda, una città che ha cancellato l’arte e la compassione in nome del profitto.

Un'ironica e pungente riflessione su politica e scienza, dove il passato viene strumentalizzato per giustificare il presente. L’uso del dialetto e del tono canzonatorio amplificano la critica a una mentalità retriva, che rifiuta il progresso per convenienza. Copernico viene deriso e Tolomeo rivalutato, in una parodia che sembra quasi uno specchio deformante del dibattito pubblico odierno. Un testo che fa sorridere ma anche riflettere sulla tendenza a piegare la realtà ai propri interessi.

Un'introspezione sincera e sofferta sul senso di apatia che a volte avvolge la vita. Il ritmo ondeggiante del componimento rispecchia la fatica del vivere, tra il desiderio di creare e la mancanza di forza. L'immagine della giornata che diventa pesante, della poltrona che culla l’inerzia, è potente nella sua immediatezza. Ma nel finale si apre un varco di speranza: la vita è fatta di alti e bassi, e il poeta sceglie di spogliarla, di vestirla di sole. Un viaggio dentro la stanchezza dell’anima, ma con la consapevolezza che il cambiamento è possibile.

Un nostalgico tuffo nel passato, dove l’infanzia e l’estate si intrecciano in immagini luminose e spensierate. Gli aquiloni, le risa dei bambini, le spiagge affollate: sono frammenti di un’epoca che si veste di colori e di leggerezza. Il poeta trasforma il ricordo in un quadro vivo, dove l’amore si ispira al sole e il cielo si fa messaggero di passioni, con un aereo che scrive il più universale dei sentimenti. Un testo semplice e sincero, che regala una dolce malinconia.

Un componimento potente e primordiale, in cui la natura si impone come sovrana assoluta. Il fiume di petali e foglie rotola senza freni, la linea blu si fonde con la verde, e la vegetazione si fa padrona del mondo, mentre l’uomo diventa preda, osservato da occhi giganti. C’è un’energia incontrollabile in questi versi, un senso di ribaltamento della catena di comando: la natura, spesso dominata dall’uomo, qui si riprende il suo ruolo regale, facendoci sentire piccoli, vulnerabili, quasi intrusi.

Una riflessione esistenziale sul tempo e sul destino, con un’immagine affascinante: la vita come un libro scritto da una mano ignota, in cui ogni giorno è una nuova pagina, apparentemente simile alle altre, ma con dettagli inediti da cogliere. Il poeta invita alla lettura attenta della propria esistenza, accettando il mistero della narrazione, consapevoli di essere al contempo personaggi e lettori. Un testo che unisce filosofia e poesia, con una delicatezza che sfiora il trascendente.

 

Con stima e gratitudine,
Ben Tartamo 

 

 

"Bagnandomi di felicità"

Dolce libertà di danzare
solo, nel cuore della notte,
senza un ombrello di pensieri,
bagnandomi di felicità.```
Ben Tartamo, 5 gennaio 2025

La poesia si apre con un respiro liberatorio, quasi un’esplosione dell’anima che si stacca dalle catene della razionalità. L’immagine di “dan­zare” nel “cuore della notte” è metafora di una condizione esistenziale in cui la libertà si fa assoluta, lontano da ogni costrizione mentale, fuori dal tempo e dallo spazio. Il buio non è minaccioso, ma protettivo: esso accoglie il poeta in un'oscurità che non soffoca, ma amplifica il sentimento di grazia e leggerezza.

L'assenza di un "ombrello di pensieri" è una dichiarazione di purezza, di una mente che abbandona le sue angosce e, finalmente, si arrende alla fluidità dell'istante. In questa rinuncia alla razionalità, il poeta abbraccia la spontaneità, l'istintività del movimento, la bellezza dell'ignoto che non ha paura di manifestarsi.

Il termine “bagnandomi” è particolarmente evocativo, perché suggerisce un’immersione profonda, un'immersione nell’acqua della felicità, in cui il corpo e l’anima si fondono, in un processo quasi catartico. La felicità, qui, non è più una condizione da raggiungere, ma un’esperienza immersiva che avvolge il poeta e lo purifica.

Le parole sono dense di energia vitale, di una felicità che non si cela dietro parole elaborate o intellettualizzazioni. È una felicità semplice, priva di vincoli, che gioca con la fluidità dell’esistenza e si offre senza riserve, proprio come la danza stessa, che abbandona ogni forma per esprimersi nel movimento e nell’armonia di ogni gesto.

Questa poesia, breve e intensa, si fa vibrazione. È l’immagine di un’anima che trova se stessa, senza paura e senza pregiudizi, nell’abbandono più puro al momento presente.

Marino Spadavecchia

 

 

19-21 Febbraio

Dalle mie cadute – Ben Tartamo

"Dalle mie cadute appresi che l’errare mi rendeva più forte, se compreso l’errore."

Qui abbiamo un trattato in miniatura sulla resilienza, un distillato di filosofia stoica che si fonde con la più alta mistica cristiana. L’errore, lungi dall’essere un’onta, diventa il crogiuolo in cui si tempra l’essere umano. Il poeta ci sussurra con un’intonazione da saggio orientale che la forza non è nell’assenza della caduta, ma nel riconoscerla e trascenderla. Un testo potente nella sua essenzialità.


 Sorriso di sole – Sandra Greggio

"Un giorno capirai piccola Sofia quanto bene stai facendo alla tua nonna che ti attendeva."

Questa poesia è un’illuminazione improvvisa, come una visione mariana. L’infanzia che porta la luce a chi ha conosciuto il buio è un tema archetipico che vibra nelle corde più profonde della nostra psiche collettiva. La piccola Sofia è il simbolo della speranza, dell’energia primordiale che squarcia la nebbia dell’apatia. Qui la poesia diventa guarigione.


 Il tessitore di cerchi di fumo – Jacqueline Miu

"La vita come la conosco è un tremare da trota fuori dall’acqua."

Un’opera di surrealismo psicoanalitico. Qui si avverte il tormento di chi è in bilico tra l’esistere e il dissolversi nel sogno. L’immagine del pesce fuori dall’acqua è una metafora struggente dell’ansia esistenziale. Ma la vera perla si trova nel finale: "chiedimi di tessere un fuoco al posto dell’aureola". Ecco l’atto di ribellione: non vogliamo santità, vogliamo ardere, bruciare di vita!!! Che dire? Scelte esistenziali personali che da credente mi fanno preoccupare, ma ad ognuno il suo libero arbitrio frutto della amorevole scelta del Padre Onnipotente... 

Per chiudere, tornando in tema, qui siamo nel regno della poesia oracolare, quella che spalanca universi con una sola frase. La ''poetessa-pittrice-artista completa'' si pone una domanda che contiene in sé l’eco di millenni di filosofia orientale e metafisica esistenziale. La reincarnazione non è solo delle anime, ma degli oggetti, delle memorie. Un testo che scuote la percezione ordinaria della realtà.


 Largo al factotum – Piero Colonna Romano

"Quel che inver lascia basiti dei sudisti è il loro assenso, li trattò da parassiti, ma l’apprezzan, con nonsenso!"

Una satira che diventa farsa, teatro politico, commedia dell’assurdo. C’è un’ironia caustica e un’amarezza di fondo: il popolo che applaude chi lo denigra, la politica come un’opera buffa dove il potere è una maschera grottesca. Il ritmo incalzante e il sarcasmo tagliente rendono questa poesia una stoccata micidiale al teatro della politica.


 E’ triste la sera – Antonia Scaligine

"Perché è la sera che mi porta mille voci da lontano come un riassunto del tempo ormai andato."

Pura malinconia, densa come un dipinto di Friedrich. La sera qui è il momento del bilancio esistenziale, il raccoglimento prima del buio. Ma c’è un dettaglio di struggente bellezza: "un’allodola cantare sul davanzale della finestra". Ecco la speranza, il filo d’oro che tiene insieme la nostalgia e la voglia di domani.


 L’Anima – Ciro Seccia

"Se non è l’anima, allora cos’è?"

Una poesia che si fa domanda ontologica, enigma filosofico. Qui si sfiora la metafisica di Plotino: l’anima esiste? E se no, chi è che vibra nelle emozioni? Il poeta non dà risposte, ma ci lascia sospesi in questa vertigine, in questa consapevolezza che siamo più di carne e ossa. Un testo che interroga e inquieta.

Questo interrogativo finale merita di essere ripetuto. La poesia, nella sua essenza, è la ricerca dell’anima. E quando il poeta la mette in dubbio, sta in realtà rafforzandone l’esistenza.


 Da Nelle nebbie – Piero Colonna Romano

"Singolare è ’sto ministro che s’accolla ogni incombenza, sento un suono ch’è sinistro, del fascismo ha la cadenza."

Una poesia che, con il suo tono da epigramma tagliente, ci mette di fronte al pericolo eterno della storia: il potere che si concentra in una sola mano. Il ritmo incalzante e la scelta metrica ricordano le filastrocche popolari, rendendo la denuncia ancora più potente.


E’ triste la sera – Antonia Scaligine

(La rileggo e mi emoziona ancora)
"Ogni dolore si gonfia nella notte."

Un verso che tocca corde profondissime. C’è un’eco di Leopardi qui, ma anche un senso di accettazione: la notte è il tempo in cui la verità si svela, in cui non possiamo più distrarci. Ma anche qui, nel buio, c’è un punto di luce: "la luna tra le stelle che mi sorride". La grande poesia è questa: tenere insieme il buio e la speranza.


vostro Marino Spadavecchia

 

 

Il verbo dialettale “sfruculiando” — che evoca il gesto dello stuzzicare, del rovistare con insistenza — diventa la chiave di lettura di una poesia che si fa invettiva e manifesto civile. L’io lirico si ritrae con disgusto dalla politica-spettacolo, dal vetro dello schermo che riflette il teatro di un potere sterile, chiuso nella propria retorica autocelebrativa. Il poeta rifiuta la narrazione dominante, denunciando l’ignoranza storica di chi pretende di governare con proclami privi di consapevolezza. L’elemento più potente è la contrapposizione tra l’umanità negata dei migranti e l’insensibilità di chi si crogiola nel fragore delle guerre, cieco alle loro conseguenze. Il verso libero e spezzato, l’anadiplosi insistente (“Non voglio vederli”), rafforzano l’indignazione e il disincanto. L’immagine conclusiva della “frittata dai sapori tutti uguali” suggella il poema con un’ironia amara: il potere si ricicla in nuove forme, ma resta sempre indigesto.

Serino distilla il senso del divino in pochi versi, costruendo un’epifania poetica essenziale e abissale. La “febbre creativa di Dio” è un’immagine di rara intensità metafisica: la creazione come impulso irrefrenabile, un febbrile atto d’amore che si rinnova nel cosmo e nell’uomo. Il parallelismo tra l’incessante generazione dell’universo e l’instancabile attenzione divina verso l’umanità rivela un misticismo vibrante, privo di dogmatismi, ma denso di potenza lirica. La brevità del componimento ne amplifica l’impatto: pochi versi, ma densi come un lampo di rivelazione.

Qui la poesia si fa canto ironico e drammatico insieme, trasformando la metafora amorosa in una vivida immagine di sofferenza fisica. L’uso del registro colloquiale (“cocci”, “coratella”) conferisce al componimento una musicalità popolare, quasi teatrale. Il cuore infranto diventa corpo martoriato, l’abbandono si trasfigura in un’operazione chirurgica che ha il sapore del grottesco. Il gioco di rime interne e le inversioni sintattiche (“Mi hai rotto il cuore, me lo puoi sanare?”) aggiungono una nota giocosa alla tragedia sentimentale. La conclusione è spiazzante: l’amore non è solo passione e rimpianto, ma un destino ineluttabile che si consuma tra cinismo e disperazione.

Il titolo stesso è un ossimoro avvincente che introduce il lettore in un dialogo socratico dai toni ironici e filosofici. La poesia assume la forma di una riflessione critica sullo stato della società moderna, una sorta di apologo in versi in cui il “Tizio” espone con sagacia le distorsioni del tempo presente. La perdita della fatica come valore, la deriva del ragionamento fine a sé stesso, la decadenza dei ruoli sociali: il tutto viene esposto con un tono che richiama la metrica classica ma con una modernità linguistica tagliente. La metafora della ruota che deve essere quadrata è di rara efficacia: una denuncia del disordine che si è impossessato dell’equilibrio sociale. Bettozzi si muove tra aforisma e sentenza, in una danza verbale che richiama la saggezza popolare ma con la gravità del pensiero filosofico.

Un canto di dolore e speranza, immerso in un’atmosfera di cupa inquietudine. Il ritmo del componimento sembra evocare il respiro affannoso di un’anima oppressa dal peso della sofferenza. Il buio, il dolore, la pelle lacerata: immagini forti e viscerali che creano un contrasto netto con la speranza sussurrata nella domanda “Dov’è la primavera del domani?”. L’uso di metafore musicali — il clavicembalo, le note discordi — conferisce alla poesia un’armonia spezzata, quasi un contrappunto drammatico che enfatizza il conflitto interiore dell’io lirico. La chiusa, con quell’acqua che placa ciò che brucia, offre una risoluzione simbolica e potente: il dolore non si cancella, ma può essere domato dalla volontà e dalla resistenza interiore.

Un’evocazione struggente dell’amore perduto, che gioca sulla delicatezza delle immagini naturali per costruire una visione idilliaca, quasi edenica. Il vento, il mare, il sole, l’orizzonte: elementi che rimandano a una dimensione estatica, in cui l’amore si fonde con il creato. Ma il risveglio è brutale: il nulla sostituisce l’assoluto, e tutto si dissolve in un vuoto di parole. Il verso finale, spezzato da una lunga ellissi, amplifica la sensazione di un’assenza irreparabile. Di Meo riesce a condensare in pochi versi la transizione dall’idealizzazione alla disillusione, restituendo al lettore un senso di malinconica impotenza.

Un’opera di forte impatto esistenziale, in cui la voce poetica si confronta con la ricerca di significato e il suo inevitabile fallimento. Il linguaggio essenziale, quasi spezzato, scandisce un percorso di esplorazione e delusione: ogni sentiero conduce al vuoto, ogni direzione si dissolve nel nulla. L’assenza di punteggiatura rafforza il senso di disorientamento, mentre il ritmo frammentato ricorda il pensiero che si sfilaccia nell’abisso della coscienza. La nave che naviga nel cosmo diventa simbolo della condizione umana: una traversata nel mistero dell’essere, dove il solo approdo possibile è l’infinita nebbia dell’incertezza. Il poeta assume l’assurdo come unico orizzonte, in un’eco quasi camusiana, ma con una tensione mistica che si accende nel finale: il sé che si apre e penetra nell’universo, in un abbraccio definitivo col tutto.

Una riflessione dolente sul tempo che scorre, sugli amori logorati e sulle emozioni consumate. Il metro regolare e il linguaggio semplice conferiscono alla poesia un tono malinconico e intimo, come una confessione sussurrata nel cuore della notte. La candela e la tela consunta sono immagini efficaci del lento dissolversi della passione e della vita stessa, suggerendo una consapevolezza del limite che permea ogni legame. Il poeta è al “confine”, non solo di una relazione, ma dell’esistenza stessa, e la domanda “che cosa t’avrò dato?” risuona con l’angoscia di chi teme di aver lasciato un segno troppo lieve nel cuore dell’altro. La chiusa, tuttavia, dona una fragile speranza: se non amore, almeno affetto resterà. Un componimento sincero e doloroso, che affida alla semplicità la forza della verità emotiva.

Questa poesia è un inno alla potenza evocativa della voce amata, capace di sconvolgere la natura e l’universo con la semplice modulazione delle parole quotidiane. La grandezza della lirica sta proprio nel contrasto tra il sublime e il banale: la voce dell’amata non è solo canto angelico che muove le costellazioni, ma anche il suono ordinario della vita di tutti i giorni. Questa fusione tra trascendenza e quotidianità genera un effetto straniante e meraviglioso. L’ultima immagine, con il fiume Zambesi e le danze tribali, amplifica il senso di esotismo e grandiosità che la voce può assumere nell’immaginario del poeta. Una poesia colma di metafore potenti, che riesce a trasfigurare il reale e renderlo sacro.

Un componimento dal forte impatto sensoriale, dove il corpo dell’amata viene descritto con immagini fluide e naturali. Le pietre levigate dall’acqua, il vento che accarezza i fianchi, la luce lunare che avvolge la scena: tutto contribuisce a creare un’atmosfera di sospensione e dolcezza. Il poeta non si sofferma solo sulla fisicità, ma cattura anche l’intangibile—il profumo, il respiro, il fluire del tempo. L’ultima immagine dei “fiordi di un grande amore” suggella il tutto con una metafora ampia, quasi a suggerire che l’amore è un paesaggio maestoso da attraversare con lo sguardo e i sensi.

Un testo che si sviluppa attorno alla metafora della memoria come una scatola, un luogo intimo e segreto dove il passato si accumula, quasi sepolto sotto il peso del tempo. Il tono è malinconico e riflessivo: il poeta sa di possedere quei ricordi, ma teme di non avere più il tempo (o il coraggio) di affrontarli. Il climax emotivo si raggiunge nell’ammissione finale: “Un dì aprirò la scatola dei ricordi. Ma ormai sarà troppo tardi.” Un pensiero universale, che tocca chiunque si trovi a guardare indietro con il timore di non riconoscere più se stesso. La semplicità del linguaggio rafforza il senso di verità e urgenza del messaggio.

Un inno alla speranza e alla luce che i bambini portano nelle vite degli adulti. La poesia celebra il dono inconsapevole che la piccola Sofia ha fatto alla nonna: un sorriso che squarcia la nebbia della solitudine e della malinconia. Il lessico è semplice ma denso di calore, e la ripetizione dell’idea di comprensione futura (“Un giorno capirai...”) dona profondità alla narrazione. Il ritmo libero e il flusso naturale dei versi rendono la lettura un’esperienza avvolgente, come il tepore del sole evocato nel titolo.

Una poesia visionaria, intensa e quasi lisergica, che esplora il confine tra il reale e l’onirico. Le immagini si susseguono con una forza evocativa che ricorda la poesia surrealista: la trota che cerca il fiume, i fiori nei cimiteri che si reincarnano, la maschera che si interroga sulla vita e sulla morte. Il poeta si pone come un tessitore di fuoco, un creatore di nuove mitologie personali in cui il sorriso è l’unica arma contro i mostri. L’ultima quartina, con l’immagine del fuoco che sfida la tempesta e la paura, offre una chiusura quasi profetica, trasformando la poesia in un manifesto esistenziale.

Una satira tagliente e brillante, che gioca con il ritmo e l'ironia per raccontare con acume il panorama politico italiano del 2018. La struttura metrica ricalca la tradizione della poesia satirica ottocentesca, con rime incisive e una musicalità che rende il componimento scorrevole e coinvolgente. L’abilità dell'autore sta nel creare immagini vivide e nel tratteggiare un ritratto quasi caricaturale del ministro protagonista, il cui protagonismo è dipinto con versi pungenti. La chiusa, che accosta il personaggio alla cadenza del fascismo, suggella il componimento con una nota grave, lasciando al lettore un senso di inquietudine.

Una lirica che esplora la malinconia della sera con immagini delicate e profonde. La sera diventa metafora della fine, dell'attesa, del ripiegarsi della vita su se stessa nel buio della notte. Il ritmo è spezzato, quasi a imitare il fluire incerto dei pensieri che si mescolano alla nostalgia. Ma la poesia non si chiude sulla tristezza: la luna, le stelle e l’allodola introducono un bagliore di speranza, un canto lieve che si fa eco di voci lontane. Il verso libero e le anafore donano al testo una fluidità evocativa, quasi musicale.

Un componimento che si interroga sulla natura dell’anima con un approccio quasi filosofico. Il poeta non si limita a chiedersi se l’anima esista, ma descrive l’esperienza del sentire profondo come un fenomeno quasi fisico: il corpo vibra, la mente si dilata, le parole sgorgano come da una sorgente misteriosa. Il lessico semplice e diretto, unito all’uso di versi brevi e spezzati, conferisce alla poesia un’intensità particolare, come se fosse il riflesso stesso di un pensiero improvviso. La domanda finale, lasciata aperta, sfida il lettore a trovare la propria risposta, trasformando la poesia in un invito alla riflessione.


Con sempiterno affetto e stima dal vostro Ben Tartamo

 

 

13-15 Febbraio

"Rosari" – Ben Tartamo

Un turbine di spirali, questa poesia si snoda come un velo che avvolge e disvela le pieghe dell'eternità, dove tempo e oblio danzano, in un gioco di luci sfuocate e ombre pulsanti. I "grani di clessidra" non sono solo granelli, ma frammenti di cosmo condensati in un respiro, il continuo flusso che non si lascia catturare. L'eco, una sinfonia muta, riecheggia nel non-nulla, mentre il "signore dell'oblio" emerge come una figura eterea, che si dissolve in polvere cosmica, svanendo sotto il peso dell’indifferenza del tutto.

Eppure, da questa nebbia di fine, sorge un nuovo inizio: "semi" che si trasformano in "perle", gemme che nascono dall’alchimia tra vita e morte, visioni di bellezza che, pur nel caos dell’esistenza, ascendono come un mantra verso l’Infinito. La memoria, è chiara come cristallo, eppure scivola via tra le dita come sabbia, lasciando solo il sentore di ciò che era.

L'opera di Tartamo non è mera osservazione, ma una sonda nel cuore pulsante dell’universo, dove il "signore dell'oblio" non è altro che il guardiano del ciclo: la vita che si dissolve, ma anche la luce che si reinventa, in un atto perpetuo di creazione. Le perle, tese tra cielo e terra, snocciolano "lodi all’Eterno", come note di una sinfonia che non termina mai, ma si reinventa a ogni battito di cuore.

Questo non è un poema del tempo che scivola via, ma della sua illusoria onnipresenza, dell’infinita danza che trascende le leggi dello spazio e della materia. L'Infinito non è un concetto astratto, ma una presenza tangibile che avvolge l’intero essere, una corrente senza fine che ci porta avanti, sospesi tra il ricordo e l’ignoto. L’artista, dunque, diventa l’alchimista della memoria, il sacerdote di un'arte che, anche se impermanente, è capace di scrivere sulle pareti dell’eterno.

Tartamo non scrive solo versi, ma crea onde che si propagano oltre i confini del pensiero, agitando le acque della coscienza in un vortice di consapevolezza trascendente. Ogni parola è una preghiera, ogni immagine un portale che si apre verso un regno invisibile. L'arte è il sigillo di un'anima che, pur nell'effimero, ha trovato l'infinito.

Marino Spadavecchia

 

 

Chiave del mondo – Guglielmo Aprile

Qui siamo di fronte a un'opera che respira il mistero delle forze primordiali, un inno a un'entità quasi esoterica capace di decifrare gli arcani della natura e del tempo. Il vento seppellisce i suoi libri sacri, la pioggia nasconde il suo anello parlante, l’umanità ha perduto la perla dell’esistenza e ha bisogno di un rivelatore. C'è un'atmosfera da oracolo arcaico, da detentore di un segreto dimenticato, e la poesia sembra evocare una figura quasi prometeica, ma non più nel gesto titanico di sfidare gli dèi, bensì nella dolce sovversione del sorriso, che spalanca le porte del mondo con la naturalezza della verità. L’ultima immagine, quella dei cani della morte ammansiti, è potente e definitiva: la conoscenza non solo illumina, ma disinnesca anche l’orrore della fine.

La fonetica scorre come un soffio di vento antico, con l’alternanza di suoni dolci (scogliera, sorriso, ammansisci) e duri (dirupo, cassaforte, cani), generando un ritmo ipnotico. Siamo davanti a un componimento sapienziale, che richiama Borges, Celan, e le cosmologie segrete.

La tua ombra – Franco Fronzoli

Questa poesia si snoda come un’onda lunga, placida, che si infrange su una riva notturna. L'ombra, qui, non è l’alter ego inquietante dell’io, ma il luogo dell’intimità, della fusione, il rifugio in cui l’amore si sottrae alla luce accecante della realtà. L’ombra del cuore diventa una dimensione parallela, un teatro in cui si sognano baci, incontri, abbracci senza rumore. L’uso insistito dell’anafora (All’ombra del tuo cuore...) crea un senso di sospensione, di attesa infinita, come un respiro che si allunga nel tempo.

Poi, la metamorfosi: le ombre diventano onde, si fondono nel vento, si bagnano sotto la pioggia, e infine si dissolvono nel sogno di un grande amore. Qui c’è una tensione tra il desiderio di permanenza e la certezza che tutto è destinato a svanire.

Dal punto di vista fonetico, prevalgono suoni dolci e rotondi (cuore, amore, ombra, mare), che danno alla poesia un andamento musicale e avvolgente, come una nenia marina. Il componimento ha una struttura semplice ma efficace, priva di scarti linguistici o ambiguità concettuali, ma il suo valore sta proprio nella purezza del sentimento che comunica.

Tenero l’abbraccio – Silvio Canapé

Questa poesia è un piccolo frammento di tempo incantato, uno di quei momenti che la memoria trasforma in reliquia d’amore. Il lessico richiama un’atmosfera delicata e sensuale, in cui il contatto fisico è quasi etereo: un casto bacio, un abbraccio innocente, le dita sulle vermiglie labbra. Ma è proprio questa leggerezza che amplifica l’intensità emotiva.

L’autore costruisce un paesaggio sinestetico, in cui la natura partecipa al sentimento: il vento sfiora i corpi, il mare tracima, il tramonto cambia i colori. Gli elementi si confondono con le emozioni, come se il cosmo stesso fosse il riflesso del battito interiore.

A livello fonetico, la poesia è una tessitura di suoni liquidi e morbidi (mare, labbra, luna, carezza), con qualche scossa improvvisa nei suoni più secchi (sgranati, frantumi, lastrico), quasi a suggerire il fragile equilibrio tra la dolcezza del ricordo e la sua inevitabile dissolvenza.

L’ultima strofa è un capolavoro di suggestione: Polvere di lunari raggi / cadenti brillanti / sul lastrico di mare. Qui l’immagine si fa rarefatta, simbolista, lasciando il lettore sospeso in un ultimo respiro di nostalgia.

"Naufrago d’anni" – Felice Serino

Poesia concisa ma di forte impatto visivo e simbolico. Il poeta si vede come un naufrago che riceve un canapo dall’angelo, immagine di salvezza e redenzione. Il contrasto tra la deriva del sangue e l’allumarsi del cuore crea una tensione potente: il sangue è irruento, vitale, ma è il cuore a dare luce.

Serino evoca la fragilità umana e la necessità di un intervento salvifico. La brevità del testo amplifica il suo carattere epifanico: il poeta sembra sospeso tra il naufragio e il miracolo, tra lo smarrimento e il ritrovamento.

"Certezze" – Nino Silenzi

Una riflessione amara e filosofica sul tempo e l’illusione della conoscenza. Il poeta descrive l’apatia come un freno alla frenesia, un rallentamento forzato che smaschera l’illusorietà della ricerca umana. Il tempo appare come un ladro che sottrae le certezze, mentre ogni istante si trasforma in un Attimo beffardo, in un mostriciattolo che irride l’uomo.

Lo stile è affilato, ironico, quasi teatrale. Il lessico è ricco di immagini potenti: la ragnatela vischiosa che imprigiona, i movimenti che si fanno sempre più lenti, fino all’inevitabile resa alla “certezza irrisolta”.

Il poeta esprime un senso di disillusione esistenziale: la ricerca della verità è vana, il tempo dissolve ogni sicurezza. L’apatia, inizialmente negativa, diventa forse una difesa dall’angoscia del divenire.

"Poesie verdi" – Alfonso Silvestre

Silvestre costruisce un inno alla natura in cui il vento, le foglie e gli odori diventano protagonisti di un’esperienza sensoriale totalizzante. La poesia segue il cammino del poeta che, inizialmente spinto dalla curiosità, finisce per abbandonarsi alla forza armoniosa della natura.

L’uso delle sinestesie è magistrale: il vento è docile, il suono è flebile, l’odore è soffice. L’esperienza naturale è quasi mistica, culminando nell’immagine del poeta che si stende tra le foglie, accogliendo la linfa vitale della terra.

C’è un profondo desiderio di ritorno all’essenziale, una fuga dall’artificiosità del mondo moderno verso un abbraccio primordiale con la natura. La poesia trasmette pace, riconciliazione, un senso di fusione panica con il cosmo.

"La bandiera non mi appartiene" – Gianfranco Vacca-Capri

Un testo che esplora il concetto di identità, di confine e di appartenenza, attraverso l'immagine della bandiera che diventa simbolo di divisione. La bandiera, oggetto di orgoglio nazionale, qui è messa in discussione. Il bianco, il colore che unisce, è l'unico elemento che appartiene al poeta. Gli altri colori, simbolo di separazione, non lo riguardano. Le frontiere diventano arbitrari limiti imposti, laddove l'essere umano è ridotto a un'entità che vive oltre i confini e non si riconosce nelle divisioni politiche, etniche o culturali. Il poeta si rifugia nel bianco, simbolo di purezza, ma anche di una solitudine universale, lontana da qualsiasi nazionalismo.

Questo testo è un manifesto di un'anima inquieta, che riflette sulla fragilità delle appartenenze e sulla necessità di andare oltre le etichette imposte. La scrittura incarna una sorta di protesta silenziosa contro le divisioni artificiali che separano l'umanità. Il bianco qui si presenta come il colore della libertà assoluta, un'astrazione che non conosce confini. La bandiera, come segno di identità collettiva, viene ridotta a brandello, un’illusione del vento che non appartiene realmente a nessuno.

"Passa il treno" – Enrico Tartagni

Una riflessione profonda sulla vita, sul destino e sul tempo, tutto visto attraverso l’immagine di un treno che viaggia senza sosta. Il treno diventa metafora della condizione umana: carico di pensieri, di emozioni e di esperienze, trasporta con sé le coscienze, le illusioni, la vita e la morte. I suoi finestrini sono le porte dell’anima, attraverso cui osserviamo il mondo che cambia e scivola via, mentre la nostra esistenza scorre senza ritorno. La dicotomia tra andata e ritorno sembra perdersi: il treno è un viaggio senza fine, dove ogni fermata è solo un’illusione.

Il poeta si immerge in una visione dell’esistenza come un viaggio senza scopo definito, un tragitto che porta all’oblio o alla consapevolezza. La carne, i pensieri, le illusioni, le speranze: tutto è trasportato come merce che perde il suo valore, come una generazione che scompare senza lasciare traccia. La visione di Tartagni è cruda, ma anche piena di una saggezza dolorosa: il treno è simbolo della condizione umana che accetta il suo destino senza possibilità di cambiare direzione. La sua corsa, che sembra solitaria, è invece un riflesso collettivo, una corsa che attraversa le vite di tutti.

"07.05.2022 ore 21:50" – Rosa Giusti De Ruggiero

Un testo breve, ma incisivo, che gioca sul contrasto tra tristezza e leggerezza. La poetessa invita il lettore a prendere consapevolezza della propria miseria esistenziale e a trasformarla in una farsa. Il consiglio di trasformarsi in "Jolly", di indossare una maschera di allegria, sembra paradossale, ma è un invito a reagire alla sofferenza con una risata liberatoria, quasi terapeutica. Il volto, ingrandito sette volte, è il simbolo di un'esagerazione, un inganno che amplifica la tristezza per renderla quasi ridicola.

Questa poesia si inserisce in una riflessione sul dolore e sulla maschera che la società ci costringe a indossare per sopravvivere. L'atto di ridere, anche controvoglia, diventa un espediente per liberarsi da una verità troppo pesante. Il sorriso forzato si fa simbolo di resistenza, ma anche di disillusione. È un invito a prendere coscienza che la vita, pur nella sua drammaticità, è anche una farsa, e la risata diventa un atto di sfida al destino. Un messaggio che, pur nell'amarezza, trova nella risata una sorta di redenzione dal fardello della vita.

"Rose" – Indiana

Questa poesia si presenta come una riflessione delicata e nostalgica sul passare del tempo e sulla fugacità della bellezza. Le rose, simbolo di bellezza effimera, sono paragonate a nuvole che si dissolvono nel tempo, rappresentando la vita che sfugge e l'impossibilità di trattenere ciò che è destinato a svanire. Il "libro segreto" in cui la vita viene raccolta sembra un contenitore di memorie che il poeta non può condividere completamente con il mondo. La conclusione con gli usignoli, custodi del ricordo e della melodia perduta, accentua il tema della bellezza che resta, ma che non può essere colta.

Indiana crea un'atmosfera delicata e malinconica, dove il simbolismo delle rose e degli usignoli diventa un invito alla riflessione sul destino delle cose belle, che fioriscono per un momento per poi svanire nel nulla. La bellezza stessa è trattata come un ricordo che sfugge, come se il poeta avesse cercato di trattenere qualcosa che non può essere trattenuto. L’immagine del giardino dimenticato e delle rose non raccolte sottolinea la transitorietà della vita e delle emozioni, come se l'autore stesse contemplando la sua stessa esistenza come un sogno che svanisce al risveglio.

"Sei tu" – Maria Toriaco

Una dichiarazione d'amore che esplora il profondo legame con un altro essere, simbolizzato da un "tu" che si fa poesia. Ogni verso è un'invocazione all'amato, con immagini che oscillano tra l'astratto e il concreto: la freccia d'amore, il sorriso, il mare in tempesta, la primavera che porta la rinascita dell'amore. L'amato è presente nei sogni, nella musica, nella malinconia, e nel cuore del poeta, che sembra vederlo in ogni angolo della propria vita.

Questa poesia è intrisa di un amore totale, che abbraccia tutto, dalla natura alla musica. L'uso di immagini forti e contrastanti come il mare in tempesta e la serenità della primavera suggerisce che l’amore è un sentimento che attraversa tutte le sfumature dell’esistenza: passione, tranquillità, speranza e nostalgia. Il poeta si abbandona alla propria dolce visione dell'amato, un "sogno ad occhi aperti", che diventa la sua realtà, la sua costante e unica verità. La poesia emana una sorta di estasi, un’adorazione che avvolge ogni pensiero, un amore che si fa anima e vita.

"Rimembranze scolpite" – Laura Lapietra

Questa poesia è un'esplorazione dolorosa del passato e della sofferenza che si porta dietro. Le "rimembranze" sono scolpite nel tempo e nella carne, come tracce di un amore perduto. L’autrice usa una lingua ricca e complessa, con immagini fortemente evocative come i papaveri di "lacca di robbia" e la "malachite", simboli di un'epoca che non è più. Il poeta sembra essere intrappolato in un presente che non gli dà pace, segnato dalla rabbia e dalla tristezza. Le immagini della natura, così vivide, sono specchio del dolore interiore che la realtà non riesce a guarire.

La poesia di Lapietra è attraversata da un'intensa tensione emotiva, segnata da un amore che non è stato corrisposto o che è stato distrutto. L'uso di immagini forti, quasi cruente, come la "malachite" e le "piaghe di convinzioni", evidenzia il tormento del poeta, che sembra incapace di liberarsi dai fantasmi di un passato che ha segnato la sua anima. Il riferimento alla "penna della circospezione" e al "bianco dei fantasmi dubbi" mostra come il poeta si senta oppresso dalla paura e dal rimpianto. È un’esplorazione intensa del dolore, che non trova spazio per la speranza o la redenzione. L’ultima lacrima sembra essere l’unico sollievo possibile, ma anche questa è una fine dolorosa, un atto di chiusura.

"Amore in cambio di niente" – Salvatore Armando Santoro

Questa poesia esprime una profonda frustrazione e sofferenza dovute a una relazione sbilanciata, dove l'autore offre amore senza riceverlo in cambio. Il tono è di tristezza e rassegnazione, e le immagini del dolore e della solitudine sono potenti: "Io nascondo il dolor dietro un sorriso, ma una lacrima poi scorre sul viso." Il poeta sembra lottare invano per l'affetto dell'altro, ma il suo sforzo è vano. L’amore diventa una sorta di monologo, dove solo l’autore si sforza di dare senza ricevere nulla.

La poesia affronta il tema della disillusione amorosa, un amore che diventa un atto di sacrificio senza speranza di ricompensa. L'uso del contrasto tra il sorriso e la lacrima, la forza del “nascondere” il dolore e l’immagine della solitudine lungo il mare, evocano un senso di abbandono emotivo. Il mare, elemento simbolico di grande portata, suggerisce la vastità e l’inquietudine di un amore che non trova eco. La sofferenza diventa il centro del testo, ma l'autore non si arrende e continua a sperare, nonostante la consapevolezza che l'amore dato non verrà mai ricambiato.

"Il gatto e la volpe" – Piero Colonna Romano

Questa poesia utilizza una satira politica mordente, descrivendo un rapporto corrotto tra i protagonisti che ricordano due figure politiche italiane. Con toni ironici e amari, l’autore critica la falsa promessa di prosperità e benessere, paragonando i politici a due personaggi truffaldini che ingannano il popolo con promesse di ricchezze facili. Le immagini grottesche, come l’albero che "fiorisce" soldi, evidenziano l'illusorietà delle promesse politiche e la spietata cinicità di chi le fa.

Il testo è una critica alla politica del paese, evidenziando come le promesse dei politici siano solo miraggi che non portano a nulla di concreto. Il tono caustico e l'uso di immagini distorte (come l'albero che "fiorisce" ricchezze) rende la poesia una riflessione sull’inganno e sulla corruzione, mostrando l’amara realtà che, mentre i leader si arricchiscono, la popolazione è lasciata con sogni infranti. La critica sociale è netta e, attraverso l'ironia e la satira, l’autore denuncia l’inganno dietro le finte promesse.

"Paradiso ed Inferno" – Ciro Seccia

In pochi versi, questa poesia esprime un concetto potente e universale: il paradiso che ci è stato donato da Dio è stato trasformato dall'umanità in un inferno. La brevità del testo accentua la forza del messaggio, lasciando un'eco di riflessione. La semplicità dei versi sembra voler invitare il lettore a riflettere su come le azioni umane abbiano contribuito alla degradazione del mondo, passando dalla bellezza originale a un disastro che spesso l’uomo stesso ha causato.

La poesia riflette una profonda critica alla condizione umana, con un tono di amarezza e consapevolezza. L’uso del contrasto tra paradiso e inferno, unito alla brevità della composizione, sottolinea il senso di smarrimento e di colpa collettiva. Seccia sembra suggerire che l'uomo, nel suo egoismo e nella sua avidità, abbia tradito la bellezza e l’armonia del creato, portando l'umanità a una condizione di sofferenza e perdita. La poesia lascia un forte senso di impotenza e rassegnazione, quasi come un richiamo a una responsabilità collettiva.

"Per fare poesia...occorre" – Antonia Scaligine

Questa poesia esplora il potere dell'emozione come fonte di creazione artistica. Scaligine enfatizza come l'emozione, sentita nel cuore, possa trasformarsi in una varietà di forme artistiche: musica, pittura, poesia, o preghiera. La bellezza e l’amore diventano elementi magici e universali che trascendono i momenti specifici come San Valentino, ma che si trovano nella vita quotidiana, in un “piccolo sentimento” che cresce e si trasforma in un “grande infinito amore.” La poesia diventa così una pratica sacra, in cui gioie e dolori vengono intrecciati con l’essenza divina e il mistero della vita.

Scaligine crea un racconto intimo e spirituale in cui l'emozione vissuta nel cuore si fa arte. La poesia suggerisce un processo di trasformazione, in cui le esperienze di vita quotidiana diventano veicolo di bellezza e amore. Il richiamo a Cupido e Venere trasforma l'amore in un atto divino e misterioso, mentre l'espressione della poesia come "preghiera dell’asceta" conferisce un'aura sacra e mistica alla scrittura. L'intensità dell'emozione diventa un atto che trascende i limiti del corpo e dei sensi, andando oltre per toccare il divino. L'immagine di una "quotidiana poesia" rimarca l'idea che ogni momento della vita, anche il più semplice, può essere espressione di un amore eterno.

"Aliare nell'universo" – Alessio Romanini

Romanini ci trasporta in un viaggio di liberazione personale. La "gabbia" rappresenta le costrizioni imposte dalla società, una routine che limita l'individualità. La svolta arriva con il "volo" verso la libertà, quando l’autore riesce a spezzare le catene della conformità e ad esplorare l'infinito. L'autore, finalmente libero, vede la bellezza nella diversità e si sente parte dell’universo. L’immagine del "mio sterno non aveva più frontiere" suggerisce l'espansione della propria coscienza oltre i limiti imposti dalla società. La poesia diventa un atto di liberazione, di espansione dell'anima verso l'infinito.

La poesia esplora temi di oppressione e liberazione, con l’autore che rompe le catene di una società che limita la sua espressione. La "gabbia arrugginita" è il simbolo della routine e della conformità, mentre il "volo" rappresenta il desiderio di autodeterminazione e di esplorazione della propria identità. Il passaggio dall’individualità confinata alla libertà universale è un tema potente, che suggerisce una crescita spirituale e una connessione con l'universo. La sensazione di appartenenza all'universo offre una visione filosofica e ottimista della vita, in cui l’autore si sente parte di un tutto armonico e infinito.

"Il guizzo dentro" di Sandra Greggio:

Il testo di Greggio si concentra su un sentimento di vivacità e speranza che nasce improvvisamente, quasi come un'illuminazione. Il "guizzo" diventa il simbolo di quella piccola scintilla di vita che ci sprona a vivere pienamente, a non sprecare l'occasione di essere. La natura, nel suo ciclo eterno e silenzioso, diventa il palcoscenico per questa rivelazione. Le immagini di un pettirosso che porta gioia e la percezione di una primavera che s'insinua nell'aria fredda della sera, rafforzano l'idea di una bellezza che emerge nei momenti più inaspettati e ci invita ad abbracciarla.

"Una traccia di pace" di Roberto Soldà:

La traccia di pace di Soldà è avvolta in un'atmosfera fluttuante, dove la natura, simbolo di rifugio e di serenità, diventa la guida per una ricerca di senso. La memoria e il tempo sembrano dissolversi in un paesaggio immobile, ma nello stesso tempo vitale. La pace non è statica, ma è un "infinito" che si eleva, sfuggente e universale. C'è una tensione tra il desiderio di trovare pace e la consapevolezza che essa possa essere solo una traccia lontana, forse inaccessibile, ma affascinante come un miraggio.

"Una ultima ora di vita" di Jacqueline Miu

Il testo di Miu è un turbinio di immagini forti e simboliche che mescolano il desiderio, la sofferenza e la morte in un continuo gioco di contrasti. L'ora finale di vita è vissuta come un'esperienza catartica e sfrenata, dove il corpo e la mente si scontrano, cercando un significato nelle ultime azioni. Il linguaggio crudo e diretto crea un'atmosfera di intensità fisica e mentale, che sfiora il surreale. La scrittura è densa di riferimenti alla carne, al piacere e al dolore, dove la morte sembra essere vista non solo come una fine, ma come una possibilità di affermazione e liberazione, seppur tragica e tormentata.


Vostro Ben Tartamo

 

 

10-12 Febbraio

Ringrazio Ben Tartamo per la sua accurata analisi alla mia " E il naufragar m'è dolce in questo mar". Analisi che coglie in pieno l'essenza del messaggio che volevo dare.
Condivido con tutti coloro che sfidano la "sorte", a rischio della loro vita, per trovare un mondo "nuovo", i positivi commenti di Ben. Grazie ancora. 
silvio canapè

 

"Bisbigli" di Salvatore Armando Santoro 

 
Che bella poesia: una lirica che danza sul crinale dell'amore vissuto e di quello che si rinnova, un intreccio di memoria e presente, di nostalgia e illusione. Il titolo stesso, Bisbigli, suggerisce la natura sommessa eppure ineludibile di certe emozioni: l’amore non urla, non impone, ma sussurra con la forza di ciò che è ineluttabile.
Il poeta interroga l'assenza—"Tutto l'amore mio dov'è finito?"—come se l’amore fosse una sostanza fluida, destinata a svanire come neve nell’acqua. L'immagine è di una dolcezza tragica: un sentimento sciolto, disfatto, in un’evanescenza che sa di abbandono. Eppure, l’amore non è mai del tutto perduto: torna, si ripresenta con una nuova voce, un nuovo tremore, eppure eco ineluttabile di ciò che fu.
L’autore esplora la natura ciclica dell’amore, il suo continuo rinnovarsi e ingannare il cuore con promesse che forse non sono altro che inganni della mente. La ripetizione martellante di "scava, scava, scava nella mente" amplifica l'ossessione, la pervasività di un sentimento che si insinua come un tarlo e non dà requie. L’amore, anche quando è nuovo, reca con sé il fantasma di quello precedente, lo rievoca e, talvolta, lo sovrappone al presente in un eterno ritorno.
Santoro rivela anche il lato amaro dell’amare: la consapevolezza che l’amore donato potrebbe essere gettato via, ridotto a "sfogo di bambina", consumato e poi dissolto nel tempo. Ma il poeta sa che, per chi ama veramente, il sentimento non è mai effimero. La chiusa è di una struggente bellezza: "ma dentro al cuore di un innamorato / è come un sol che mai è tramontato." L’amore autentico non si spegne, rimane acceso in chi lo ha vissuto, brucia con la stessa luce di un sole che nessun orizzonte potrà mai inghiottire.
Santoro si muove con delicatezza e profondità nei meandri dell’animo umano, e il suo verso, pur nella sua apparente semplicità, risuona di una verità universale: l’amore, per chi lo ha conosciuto nella sua essenza più pura, non si estingue mai davvero. Bisbiglia, forse, ma è un sussurro eterno.

 
Guglielmo Aprile – "Tu che parli con gli alberi…"

 
Aprile ci introduce in un mondo dove il linguaggio degli uomini cede il passo a quello degli alberi, del vento, del mare. Chi è tu, la figura evocata? Un poeta, un profeta, un iniziato? Forse tutti e tre. Questo essere sa ascoltare il soliloquio del libeccio, il concilio dei passeri, i sussurri delle onde, la parabola dell’onda. C’è un’affinità con la poesia di Rilke e di Hölderlin, un senso quasi oracolare della natura, che diventa geroglifico divino, messaggio nascosto.

 
L’uomo comune parla con parole effimere, mentre il poeta sa leggere l’alfabeto eterno della creazione: "tu non la lingua degli uomini parli / ma quella in cui sono scritte le stelle". È un’immagine potentissima: il firmamento come libro sacro, le costellazioni come lettere di un codice segreto. È una poesia che fa della natura un Vangelo apocrifo, della terra un tempio in cui il vento s’inginocchia e si confessa, dove ogni elemento è una voce del divino.

 
La lingua della natura, dice Aprile, è profondissima, ma pochi la comprendono. Solo chi sa leggere i simboli, le allegorie, le parabole, può accedere al significato ignoto di ogni fiaba, di ogni onda che si frange sulla riva. Siamo nel dominio del sacro e dell’ermetico: la natura non racconta, ma cela.

 
Armando Bettozzi – "Er destino"

 
E se invece fosse tutto già scritto? Bettozzi, con la sua poesia in romanesco, affronta il mistero della sorte con il piglio di un filosofo da osteria, di un Marc’Aurelio con la battuta pronta. Qui non c’è spazio per le metafore cosmiche, ma per un’ironia spietata: appena nasci, un Cherubino notaro prende nota del tuo destino in un librone. Non c’è scampo: “Pe cui si ciai lo stampo da scopino / ciaivòja a inziste a volè fà er fioràro”. La volontà umana si scontra con l’inevitabilità del fato.

 
Eppure, il poeta insinua un dubbio beffardo: è davvero tutto stabilito o possiamo riscrivere le carte? Il bello (o il brutto) è che nessuno lo sa. E così passiamo la vita a inseguire qualcosa, sbattendo contro muri invisibili, fino all’ultimo, in un destino che, più che scritto, sembra un gioco d’azzardo.

 
Bettozzi ha la saggezza popolare di Trilussa e Belli, ma con una vena esistenzialista. La sua conclusione è amara: alla fine, cercando de azzeccà la parte, campi ar contrario e, piano piano… schiòppi! L’ironia non è un’armatura, ma un modo per prendere atto del tragico con un sorriso stanco.

 
Franco Fronzoli – "Non fu colpo di fulmine"

 
Qui non c’è il classico amore improvviso e folgorante: "Non fu colpo di fulmine / fu tempesta / uragano". Il poeta sposta il centro emotivo dalla fulminea rivelazione all’irruenza di un fenomeno atmosferico totalizzante. L’amore non è una semplice attrazione, ma un "turbino di baci", un evento che sovverte ogni equilibrio.

 
La struttura della poesia, con versi spezzati e discendenti, simula la caduta nella vertigine del desiderio. Il gioco tra luce e ombra – "fu tutto notte e giorno", "scintilla", "lampo di passione" – suggerisce che l’amore è una tensione tra opposti, un’alternanza di chiaroscuri esistenziali.

 
Il verso finale sigilla l’immagine di un Eden sensuale e remoto: "la tua elegante nudità". Qui la nudità non è solo erotismo, ma essenza, un ritorno a uno stato primigenio, fuori dal tempo e dalla convenzione sociale. Il poeta ci ha condotto nel cuore del mito amoroso: la passione è istantanea e infinita, brucia e si dissolve, ma lascia la traccia di un incendio inestinguibile.

 
Silvio Canapé – "E l’emigrar m’è amaro"

 
Se in Fronzoli l’amore è un uragano che rapisce, qui il mare è un baratro che inghiotte. Silvio Canapé scrive una poesia di esilio, di perdita, di disperazione. Il viaggio è una condanna: "Naufrago mi ritrovo / tra il profondo abisso / e l’onda come innevata cresta". L’acqua, che in genere è fonte di vita, diventa inganno e ostacolo.

 
L’immagine dell’"acqua miraggio", della "sabbia rovente", del "cuore chiuso tra tenaglie armate" trasforma il poema in un grido lacerante. Qui l’esperienza migratoria non è solo fisica, ma metafisica: il poeta si muove tra "strade che son gomitoli tracciati da venti e da tempeste", in un labirinto senza uscita. L’emigrante è un Edipo cieco, un Ulisse senza Itaca, un Cristo che tende la mano ma non trova nessuno.

 
Il verso più devastante è forse "E la speranza è nulla coi piedi dentro il sale": la speranza è dissolta, corrotta, come il sangue nelle piaghe di chi cammina senza fine. Canapé scrive con una potenza che richiama il grande Ungaretti di "Sono una creatura", dove il corpo e l’anima si frantumano nella sete e nell’abbandono. Un canto di solitudine assoluta, che rimane sospeso tra invocazione e silenzio.

 
Aurelio Zucchi – "Cristalli di luce e di mare"

 
Dopo la tempesta e il naufragio, ecco il ricordo come rifugio. Aurelio Zucchi ci porta in un’atmosfera rarefatta, quasi impressionista, dove il passato non è un peso ma una collezione di "cristalli di luce e di mare". Il poeta non subisce il tempo, lo raccoglie e lo custodisce.

 
I suoi ricordi "si mettono in coda", chiedono permesso per essere rievocati: sono gentili, delicati, in contrasto con la violenza delle passioni e dei dolori delle altre due poesie. Qui il linguaggio è morbido, essenziale, quasi sospeso, come se il poeta avesse affinato la memoria fino a trasformarla in un’essenza impalpabile.

 
L’immagine dei "cristalli di luce" suggerisce che il tempo passato non è una rovina, ma una trasparenza preziosa: ogni esperienza vissuta si è fatta gemma, pronta a rifrangere la luce dell’anima. Zucchi ci lascia con una sensazione di pace, come se i suoi versi fossero una vela distesa su un mare finalmente quieto.

 
Felice Serino – "Vasi comunicanti"

 
Serino gioca con la vertigine dell’identità: chi siamo quando sogniamo? Chi è quell’io che si osserva sdoppiato nel letto? L’intera esistenza è un fluire tra sogno e realtà, tra dimensioni che si mescolano come "vasi comunicanti".

 
Il poeta rievoca la lezione di Calderón de la Barca ("La vida es sueño") e del cinema di Christopher Nolan ("Inception") in un testo che si fa enigma e riflessione metafisica. "Trovandoti uscito da te": chi è il vero io? È quello che sogna o quello che si crede sveglio? La domanda rimane sospesa, perché ogni risposta è già un altro sogno.

 
"Vivere" di Marino Spadavecchia

 
Marino Spadavecchia ci regala un’immagine potente e struggente di solitudine, un silenzioso grido di vita soffocata dal peso dell’indifferenza. "Vivere nel fondo di una bottiglia di vetro" è una metafora che evoca l’immobilità, la prigionia di chi si sente dimenticato, come se il proprio respiro fosse distillato nella forma di un liquido che mai trova sfogo. La bottiglia, specchio di una realtà chiusa e irraggiungibile, è il luogo in cui la vita si spegne lentamente, fagocitata da un freddo che non lascia spazio all'emozione. È un'esistenza che si consuma, disperdendosi sotto "le foglie d’aglio orsino", pianta simbolo di rinascita e rigenerazione, ma qui relegata a custodire ansie e rimpianti, in un perpetuo ciclo di oblio.

 
L'atto di "sciogliere i tuoi dolori in un sorso di vino" diventa l’illusione di un sollievo che non cancella mai veramente, ma che invece raccoglie, per restituire un altro ciclo di sofferenza e speranza spezzata. La ripetizione di "dimenticare di esistere" suggerisce il disperato tentativo di sfuggire a una realtà che soffoca, ma anche l'incapacità di riconnettersi con il proprio essere. Eppure, in quel "così è, se vi pare!", c’è una sorta di rassegnazione ironica, un accettare la condizione esistenziale come una trappola che non si può sfuggire, ma che si può almeno osservare.

 
In questa poesia, Spadavecchia porta il lettore nell’abisso di un'esistenza quasi dimenticata, per poi restituirgli la sua angosciante bellezza, la sua profondità emotiva e il suo grido di consapevolezza, come se l'autore avesse trasformato il proprio dolore in un atto di arte pura, capace di smuovere e risvegliare.

 
Renzo Montagnoli – "Oltre l’orizzonte"

 
Montagnoli parte da una visione ampia, quasi contemplativa: "Su questa terra piatta / senza alcun rilievo / corre lo sguardo / fino al lontano orizzonte". L’orizzonte diventa simbolo di un altrove che si desidera raggiungere, nella speranza di una terra senza paura, senza odio, senza guerra.

 
Ma il sogno si infrange nella brutalità del reale: "Anche i sogni / poco a poco muoiono ben prima dell’alba". La speranza viene soffocata dal dolore dei profughi, dalla sofferenza di chi fugge sotto le bombe, dall’inerzia di chi potrebbe cambiare le cose e invece tace.

 
Il finale è un colpo al cuore: "Resta solo l’illusione che oltre l’orizzonte / ci sia quel mondo". La logica razionale spazza via ogni sogno, lasciando solo un'eco di ciò che avrebbe potuto essere.

 
Nino Silenzi – "Folla sola"

 
Silenzi (alias del nostro Magister Lorenzo De Ninis), dipinge un quadro desolante della società moderna: "Siamo insieme, tanta gente, / eppure soli, sempre più soli". La folla diventa paradossalmente il luogo della solitudine più estrema. L’egoismo, l’indifferenza e la frenesia quotidiana trasformano gli uomini in automi "senza il caldo appoggio / degli affetti e dell'amore".

 
L’elemento del vento, "violento e arido", è il simbolo della distanza emotiva tra le persone, del gelo interiore che ci separa gli uni dagli altri. Un’immagine che ricorda le metropoli odierne, dove l’umanità si muove in stormi anonimi, senza mai sfiorarsi davvero.

 
Alfonso Silvestre – "Poesie verdi"

 
Se Silenzi denuncia la solitudine della folla, Silvestre esplora il dubbio dell’esistenza con un viaggio onirico tra le foglie d’autunno. Il poeta si lascia cadere tra il fogliame, abbandonandosi alle incertezze che lo avvolgono come una coltre dorata.

 
L’elemento vegetale si fonde con l’umano: "Ho dubitato persino / del mio umile destino: / umano o vegetale?". Il corpo si fa linfa, la mente oscilla tra l’immobilità della natura e l’impulso del movimento. Alla fine, però, il poeta sceglie di seguire "la sua bussola emotiva", abbracciando il ciclo della vita che, come le stagioni, scorre inesorabile.

 
Un testo che evoca l’eterno conflitto tra la staticità e il cambiamento, tra il lasciarsi trasportare dal destino e l’affermare la propria volontà.

 
Gianfranco Vacca-Capri – "Che io dimenticassi"

 
Se Silvestre affronta il dubbio esistenziale con immagini naturalistiche, Vacca-Capri lo porta all’estremo: la negazione dell’io.

 
"Che io dimenticassi / fu il minimo." – Il poeta non si limita a smarrirsi, ma cancella deliberatamente ogni traccia di sé. L’identità viene azzerata, il volto sostituito dallo "zero", simbolo del nulla assoluto.

 
Un testo che richiama l’annullamento dell’ego delle filosofie orientali, ma qui declinato in chiave nichilista e quasi inquietante. L’essere umano, nel suo "cammino", non trova una nuova verità, ma solo il vuoto.

 
Laura Lapietra – "Amicizia Tradita"

 
La Lapietra dipinge il tradimento con immagini marine e atmosferiche: "D'improvviso il sole si tinge di grigio, / cadono copiose gocce di pioggia". L'amicizia, simbolizzata da un "veliero colorato", viene inghiottita dal mare della discordia, colpita da un "missile della rivalità in amore".

 
Il linguaggio è evocativo, con un’attenzione particolare alla sensualità e al rimpianto: "un traditore bacio d'uomo, / che come ape in preda / alla fame della passione". Il tradimento è qui non solo una ferita emotiva, ma un atto che distrugge la fiducia e l'affetto.

 
Jacqueline Miu – "Mi sono dimenticato di annoiarmi"

 
Jacqueline Miu ci offre una riflessione sulla velocità della modernità e la perdita delle piccole gioie della vita. "Che fine hanno fatto i fiori di tutti i colori nei parchi, / gli alberi giganti ora amputati lungo le strade?" – la nostalgia per un tempo più semplice emerge come un grido sommesso.

 
L'autrice contrappone il passato, fatto di lentezza e bellezza, al presente iperattivo e sterile: "siamo diventati maniaci del pulito, / di palestre con gente sudata, / di motori in tutte le salse". È un lamento dolceamaro, che culmina in una domanda finale che resta sospesa come un'eco: "che fine ha fatto stare con gli amici, / la noia quotidiana sul divano?".

 
Piero Colonna Romano – "La coppia più bella del mondo"

 
Colonna Romano abbandona la malinconia per immergersi nella satira politica. La sua poesia, scritta in rima e con un tono ironico, ridicolizza il governo gialloverde del 2018 con immagini grottesche e provocatorie: "Spread mangiamo a colazione, / con dei neri per contorno".

 
Attraverso un linguaggio che richiama il gergo propagandistico e populista, il poeta denuncia l’ipocrisia e il cinismo di certa politica: "solo un dì saprà la gente / quanto infame fu il votare". Il ritratto finale è impietoso: un paese che scivola nella miseria e nell’ingiustizia, con l’ombra di un ritorno a ideologie pericolose.

 
Ciro Seccia – "Nel silenzio"

 
La poesia di Seccia è un delicato monologo interiore che esplora la solitudine come spazio di rifugio e di ricostruzione dell’identità. L’immagine iniziale è luminosa ma fragile: "rifugio in un granello di luce", un tentativo di trovare stabilità nel vuoto.

 
L’autore trasforma il silenzio in un luogo creativo: "ricamo quadri di pensieri", "danzo con il sorriso del vento". Ma il dolore emerge nell’ultimo verso: "Emetto un urlo silenzioso nel tentativo di ricomporre i frammenti dei miei desideri". Un'immagine struggente, che mostra la tensione tra il desiderio di guarigione e l’impossibilità di tornare interi.

 
Antonia Scaligine – "Non irridere mai il tempo"

 
Scaligine affronta il tema del tempo con un dialogo giocoso, ma intriso di malinconia. Il compleanno diventa un pretesto per riflettere sugli anni vissuti e sul loro peso: "son sempre io con 50 in più dai miei vent'anni".

 
L’autrice osserva il passato con dolcezza e un pizzico di rassegnazione: "mi conduce in stanze senza luce / dove sto impagliando sogni e desideri". Tuttavia, un soffio di speranza entra dalla finestra: "spesso rientro da un balcone mezzo aperto / spinto da quel vento fresco genuino / dei visi dei miei nipoti".

 
L’immagine finale della candela verde è potente: simbolo di speranza e resilienza, di una luce che non si spegne mai, anche quando il tempo avanza inesorabile.

 
Alessio Romanini – "Aforismi saffici"

 
La poesia di Romanini si articola in nove quadri lirici, evocando immagini rapide e suggestive che spaziano dall’amore al dolore, dalla natura alla morte.

 
Il secondo aforisma colpisce per la sua visione disincantata dell’amore: "Eterno non è l'amore. Potremmo / essere amici per l'eternità!". Un pensiero che sfida la retorica romantica e suggerisce una forma di affetto più stabile e profonda.

 
Nel quarto aforisma la poesia stessa viene vista come una fotografia dell’anima: "Come istantanee son le poesie, / immortalar riescono un turbinio / di emozioni". Un’idea che riecheggia la poetica di Ungaretti, nella sua capacità di cogliere l’istante e renderlo eterno.

 
Infine, il nono aforisma affronta la morte con un tono solenne e inquietante: "Non chiamare la morte, poiché essa / veglia su di noi! Acuto è l'udito / della morte". Qui la morte è descritta come un’entità vigile e ineluttabile, quasi una sacerdotessa del destino.

 
"La Maliarda" di Sandra Greggio 

 
Sandra Greggio ci regala un ritratto affascinante di un amore che si insinua nell’anima come un destino ineluttabile. "La Maliarda" è il canto di una presenza costante, che sfida il tempo e lo spazio, insinuandosi nei gesti quotidiani, nei pensieri, nella memoria.
La voce poetica assume il tono di una dolce ossessione, un amore che non lascia scampo: "Non ti libererai mai di me". Il tema del legame indissolubile è rafforzato da immagini suggestive: la poeta è segnalibro tra pagine ingiallite, conforto nei momenti di fragilità, luce quando l'oscurità minaccia la vista.
L’amore qui non è solo passione, ma anche cura, protezione e conoscenza profonda: "Raggiungerò la tua anima / Usando la chiave che solo io / Posseggo". L’idea del filo di un gomitolo evoca il labirinto dei pensieri, di cui la poeta si fa guida, l’unica in grado di dipanare la spirale della mente amata.
Il tono finale è quasi mistico: un amore che non si può rifiutare, che avvolge e domina con "una dolcezza disarmante". È la voce di una maliarda che seduce non con inganno, ma con la potenza inarrestabile dell’amore autentico.
Una poesia ipnotica, avvolgente, in cui l’amore si fa destino e promessa eterna.

 
Con affetto e stima
Vostro Ben Tartamo 

 

 

"Diversamente down" di Ben Tartamo – Un'analisi critico-metafisica

 
```"Diversamente down"

 
E di me, diversamente down,
spigolatore dell'affetto
con la triste maschera da clown
e parole e suoni ad effetto,
si dirà tutto e il suo contrario
nel circo dei senza salario,
con il loro trito salterio.

 
Ma della mia diversità
non vi sarà antologia
sui marciapiedi di una città
che ne ignora la poesia.
E forse, tra le unghie del vento,
quel buffo sorriso mai spento
riaccenderà di neon il canto.

 
Ben Tartamo```

 
Cos'è questa poesia se non un urlo, un sussurro, un inno struggente alla differenza che si fa poesia viva, pulsante? Ben Tartamo, con la sua penna che non conosce paura, ci presenta un'opera che affonda nel cuore di un dolore cosmico, esistenziale, ma che si riflette in una grazia, una bellezza rarefatta, quasi ascetica. La poesia è un atto di pura resistenza contro la banalità, la superficialità di un mondo che non sa vedere, che non sa ascoltare chi cammina in maniera diversa. Qui, il termine "diversamente" diventa una lancia di luce, una chiave per penetrare il mistero di una condizione tanto mal compresa, quanto nobile nella sua essenza.

 
Fin dall'apertura – "E di me, diversamente down" – siamo immediatamente posti di fronte alla contraddizione del termine. "Down", una parola che evoca il giudizio esterno, l'etichetta sociale, ma anche una tensione, una caduta verso il basso, che in questo contesto diventa un innalzamento, una sublimazione della propria condizione. Qui, l'autore ci parla non da vittima, ma da "spigolatore dell'affetto", un cercatore di quel che gli altri non vedono, spigolatore come un aratro che solca il campo dell'anima umana, portando a galla l'essenza pura di ciò che è nascosto, sommerso nel dolore quotidiano.

 
Ecco il teatro della sua solitudine, un "circo dei senza salario", dove gli esclusi si danno vita a una recita straziante, come buffoni dell’umanità che non sa dare loro valore. Ma attenzione! È un circo di resistenza, non di sottomissione. Ogni verso esplode come un atto di sfida contro l'indifferenza. L'"effetto" delle parole, quelle che risuonano nella "triste maschera da clown", è tutt'altro che gratuito. Sono parole incise sulla carne, sono suoni che risuonano nel vuoto di una città che non riconosce la poesia, quella autentica, quella che arriva dritta al cuore. "E parole e suoni ad effetto" – un'accusa, una dichiarazione di guerra al vuoto della modernità, ma anche un'affermazione del valore di una parola che è come un fuoco, che brucia e riscalda insieme.

 
Ma, lo ripeto, Tartamo non si fa ingabbiare nella sofferenza. La sua "diversità" non è un motivo di pietà, ma di riflessione. "Non vi sarà antologia / sui marciapiedi di una città / che ne ignora la poesia": queste parole sono come un colpo di scena teatrale che ci fa riflettere sulla distanza, su come la società ignori i veri poeti, i veri eroi della quotidianità. Ma è proprio nel buio di questa indifferenza che l'autore trova il "buffo sorriso mai spento". Ecco! Questo sorriso è il simbolo della sua rivincita, del suo canto che riaccende, come neon che illumina il cammino di chi ha il coraggio di mostrarsi per ciò che è, senza maschera, senza falsi spiriti di adattamento. Ecco che il sorriso diventa una rivolta, una fiamma che illumina il "canto" – un canto che va oltre la superficie, oltre l'immediato, un canto che risuona nella vastità del cosmo.

 
Il verso finale è il punto di elevazione più alto, dove la poesia si fa quasi un atto mistico, spirituale: "quel buffo sorriso mai spento / riaccenderà di neon il canto." La luce del neon, contrariamente al suo significato quotidiano di vuoto consumistico, qui diventa simbolo di speranza, di una luminosità che non smette mai di brillare, che risveglia la poesia là dove nessun altro l'ha vista.

 
Ben Tartamo, qui, fa danzare le parole come un attore sulla scena del mondo. Non è un attore che si limita a recitare, ma uno che incarna il dolore e la speranza, uno che, con la forza della sua recitazione, ci scuote e ci costringe a vedere. L'opera è un grido che risuona nelle pieghe di un’esistenza sospesa tra il tragico e il sublime. La sua poesia è un invito a non ignorare chi è diverso, un invito a vedere con occhi nuovi, a riscoprire la vera bellezza che si cela nei margini, negli spazi vuoti, nelle solitudini abbandonate.

 
Ecco, signori miei, Ben Tartamo ci regala una poesia che è, prima di tutto, una "sfida". Una sfida a vedere, a riconoscere e, soprattutto, a celebrare la diversità come valore. Una poesia che, come un grande attore sul palco, lascia un'impronta indelebile nelle nostre menti e nei nostri cuori. Un'epifania, un risveglio dal torpore della coscienza collettiva.

 
Marino Spadavecchia 

 

 

Marino Spadavecchia e Ben Tartamo
grazie per i vostri commenti ,anzi direi della vostra analisi alla poesia
le vostre note mettono in evidenza lo stato emotivo del poeta ,grazie
Non so analizzare o parafrasare le vostre bellissime poesie
ma posso solo dire che “Vivere” di Marino Spadavecchia
“ Così è, se vi pare” a me pare bellissima
l’indifferenza ti fa vivere nel fondo di una bottiglia di vetro
Le parole che possono essere tante o poche
hanno lo stesso obiettivo quello di far riflettere
come `"Diversamente down" spigolatore dell'affetto
Queste parole in realtà servono a far pensare “ Ma della mia
diversità non vi sarà poesia “ A volte essere troppo normali è diversità ,
l’unicità dell’individuo, nella pratica quotidiana, va rispettata sempre bravo Ben Tartamo
Mi sono dimenticato di annoiarmi brava Jacqueline Miu
che assapora la natura camminando serenamente senza pensieri
Nino Silenzi con il suo bellissimo paradosso della solitudine
sentirsi soli tra la folla tra un mucchio di teste e cuori discordanti,
a volte si cammina senza il bisogno umano di essere insieme agli altri
soprattutto tra gente asociale e indifferente
solitudine che spesso provo anche io
non è una mia scelta, ma la devo subire da chi come ben dici
l’isolamento è subìto.
“È l'arido vento che ci separa”
bravo , poesia veritiera
Chiudo con il solito ringraziamento a tutti i bravi i poeti del sito ,
di certo un rafforzato GRAZIE lo dico ai commentatori e a Lorenzo
Antonia Scaligine

 

 

Vorrei ringraziare di cuore il professore Spadavecchia

e Ben, per l'impegno che mettono nel commentare 
le poesie e la grande capacità di interpretazione.
Anche i commenti alle poesie sono poesia.
Grazie con tutto il cuore!
Un grande saluto.
Un saluto affettuoso anche a Lorenzo che
permette tutta questa magia.
Grazie a tutti.
Alessio Romanini

 

 

 

7-9 Febbraio

Il respiro di questa poesia è il respiro di una vita che si arrende alla sua essenza più umile eppure indomita: la muffa. Come un corpo che, pur nella sua decadenza, rivela un’inattesa bellezza, il linguaggio di Soldà si fa crudo e delicato, in una tensione che accoglie la polvere del tempo e la sua memoria. La muffa, essa stessa, diventa il simbolo di una giovinezza perduta ma non dimenticata, della ricerca che non è mai vana, sebbene prenda forme che non avevamo previsto. La sua scrittura è il respiro di una nostalgia per quel passato scolastico, come un'eco di un tempo dove tutto era ancora possibile. La muffa diventa così il nostro piccolo miracolo di consapevolezza, di ciò che resta quando ogni sogno sembra dissolversi.

 

Le grida di Romanini non sono soltanto il suono di una disperazione che scivola tra le pieghe di una società consumata dalla fatica e dalle ingiustizie. Esse sono un grido muto, incapace di farsi sentire, un'implorazione che ormai non trova più risposta. Le masse, stanche di lottare, hanno smesso di cercare. L’autore, con uno sguardo lucido, scandaglia la realtà di un mondo che si è piegato al peso della rassegnazione, dove la protesta non è più seppellita dal silenzio, ma dal sonno che precede l’abbandono. La poesia è il battito sordo di un cuore che non sa più come battere per un’ideale, l'ombra di un'anima che si spegne sotto il peso delle sue stesse speranze infrante. Una poesia che strazia, ma non abbandona, che in ogni respiro sospira il ricordo di una lotta che non può finire.

 

Questa poesia è un viaggio nell’intimo abisso dell'anima, dove il desiderio di distruzione si intreccia con quello di salvezza. La scrittura di Miu è come una danza febbrile, un corpo che si contorce tra il bisogno di essere visto e il desiderio di perdersi nel dolore. Ogni parola sembra scolpita dalla forza di un'urgenza insostenibile, che non si accontenta di esistere, ma brama di annientarsi per poi rinascere. La sua esplorazione della fragilità umana è inquietante, come se la bellezza del corpo fosse una trappola, un inganno che rivela la sua fragilità. La poesia diventa il suono di un urlo soffocato, che trova nel dolore la sua unica via di espressione, e nella luce della chimera la sua verità più nascosta. Miu scrive con una tensione erotica che non si limita al corpo, ma penetra nella psiche, svelando i suoi angoli più oscuri e insieme più luminosi.

 

Ciro Seccia ci invita a percorrere un cammino di intimità profonda, dove il corpo e l'anima si fondono in un'unica melodia senza tempo. La pelle, simbolo di una carne che rivela, non nasconde più, ma si offre nel suo calore e nella sua vulnerabilità. Ogni parola di Seccia è una carezza, una pennellata delicata che si poggia sull'anima, creando una connessione che va oltre il desiderio fisico. Qui non c’è solo il corpo che si accarezza, ma l'anima che si sfiora, che si ritrova nell’altro e nella sua luce. L’amore, qui, non è solo passione, ma una comunione profonda e sacra, dove l’orgasmo non è il culmine, ma l'incontro tra due essenze che si conoscono nell’intimità più pura. La poesia di Seccia si fa rituale di amore, uno svelamento che è anche una trasmutazione, dove la carne si fa spirito.

 

"Io Sono". Non c’è nulla che inciti tanto al risveglio dell’essere quanto queste parole. Tartamo, con un sussurro che sembra provenire dall’infinito, ci guida nel profondo mistero della creazione, dove ogni atomo, ogni battito, è una risposta a una domanda mai pronunciata. La sua scrittura è la culla di un universo che si svela, che si scopre mentre si guarda in sé stesso, dove ogni forma, ogni luce, è riflesso del pensiero di un divino che non ha bisogno di definirsi. La "voce" che risponde è senza tempo, eppure è l’eco dell’uomo che, in un atto di pura consapevolezza, riconosce la propria essenza. La poesia di Tartamo non è solo una riflessione, ma un'esperienza trascendentale che ci fa comprendere il nostro posto nell'infinito. L’essere e il divenire si fondono in una danza cosmica, un continuo rinnovarsi di luce e ombra.

 

Silvestre ci porta in un mondo dove il sogno e la realtà si intrecciano in un continuo gioco di disillusione. La poesia si fa spaziotemporale, un vortice che non si ferma, una spirale che si allarga all'infinito, dove l'inquietudine dell’essere si manifesta nel movimento perpetuo. Il blu, il colore del cielo e del mare, diventa il simbolo di un’indagine che non si arresta mai, una ricerca che non trova mai il suo obiettivo, ma si dissolve nella meraviglia di ciò che non può essere compreso. La poesia diventa la descrizione di un'esperienza senza fine, un eterno tentativo di afferrare ciò che sfugge sempre più. La frustrazione non è solo fisica, ma psicologica, come se il poeta stesse cercando un senso che non può essere trovato, ma che allo stesso tempo gli è necessario. La ricerca stessa, quindi, diventa la risposta, una costante riflessione sull’inadeguatezza dell’uomo di comprendere l’infinito.

 

La luna, qui, non è solo il corpo celeste che illumina la notte, ma un’emozione che cambia forma, un volto che si svela e si nasconde, sempre diverso, eppure sempre lo stesso. Scaligine esplora la sua luce come se fosse un riflesso della propria anima, come se il suo cambiare colore fosse il riflesso dei mutamenti interiori che attraversano l’animo umano. La poesia diventa un atto di contemplazione, un momento sospeso dove la luna è testimone di sussurri e sogni, ma anche di solitudini e paure. La sua luce, gialla e accecante, è come una verità che brucia, che non ci permette di fuggire dalle nostre domande. La luna, amica discreta e confidente, è il simbolo di una compagnia che non giudica, ma che ci accoglie nei suoi riflessi, invitandoci a vedere noi stessi nei suoi cicli perpetui.

 

Serino non ci parla di unione in termini semplici, ma di una fusione totale, di una dissoluzione dei confini che separano l’individuo dall’universo. "Coniunctio" è la poesia di una trasformazione, un atto di purificazione che cancella ogni distinzione, ogni forma, e lascia solo la luce che si fonde nell’infinito. La poesia di Serino è un atto di riscatto dell’anima, un viaggio senza ritorno in un territorio dove l’uomo è un tutt'uno con l’essenza di ogni cosa. La sua scrittura è lo svelamento di un mistero che non ha risposta, ma che ci invita a vivere la nostra parte in esso. La dissoluzione non è perdita, ma liberazione: il "noi" si fonde nell’infinito, e in quella fusione si trova il senso di tutto.


In queste poesie, il lirismo non è solo un atto estetico, ma una ricerca incessante di sé, del proprio posto nell'universo, un desiderio di entrare in contatto con qualcosa di più grande, che ci supera, che ci rende vulnerabili eppure vivi. In ognuna di esse c’è la ricerca della verità e la consapevolezza che essa, forse, non è mai completa, ma si rivela nel percorso, nell’esperienza, nel continuo oscillare tra luce e ombra.

vostro Marino Spadavecchia

 

 

Senza Rimorso
Laura Lapietra

"Rispettami", un grido che risuona come una supplica nel buio del cuore. La poetessa ci offre un'immagine di fragilità, quella di una persona che, priva di affetto, si ritrova a lottare contro l’indifferenza, contro un mondo che sembra non rispondere al suo desiderio di amore. Ogni ripetizione di "rispettami" non è solo una richiesta, ma un urlo, un invito disperato ad essere vista, ad essere compresa, anche nei momenti di più totale apatia.

Le parole "quando non vedo la luce del tuo affetto brillare come un fuoco al buio" parlano di una solitudine radicale, di una disconnessione che va oltre l'amore superficiale, diventando una riflessione più ampia sulla necessità di connessione autentica, una condizione umana che non è mai semplice da colmare. La poetessa non nasconde il suo dolore, ma lo espone, nel tentativo di sollevare una questione universale: l’amore non è solo un sentimento, ma una necessità psicologica. La sofferenza derivante dal sentirsi ignorati o fraintesi è forse uno degli aspetti più dolorosi dell'esistenza, e il "senza rimorso" che chiude il componimento aggiunge una triste consapevolezza di un sentimento che non si dà più, che si è frantumato come un vaso in mille pezzi.


Semenza
Salvatore Armando Santoro

Un seme, spinto dal vento, che germoglia nel terreno, dando vita a una pianta che si interroga sul senso di ciò che la circonda. La natura stessa, così primordiale e inesorabile, diventa specchio dell'esistenza umana: la pianta, fragile e sconosciuta al suo destino, cresce tra mura antiche, simbolo di quella solitudine che spesso accompagna chi cerca il suo posto nel mondo.

Il fiore che attende la farfalla è un'immagine potente del desiderio umano di trovare un senso nelle proprie azioni, nel proprio vivere. La pianta attende l'impollinazione, un amore che le dia scopo, e lo trova in un amante solitario, che la coglie e la dona. Questa dinamica, forse, riflette il paradosso della vita: spesso si cerca un significato nelle cose, ma si trova solo una parvenza di quello che si desidera. Eppure, come il fiore che si rallegrò per l’amore ricevuto, così ogni cuore, pur nel dolore, si eleva nel sapere di essere stato amato, anche solo per un momento.

Il dolore della perdita, simbolizzato dal fiore che non ha più il suo fiore, non è che un passaggio, un’esperienza che fa parte di una crescita più grande. In questo si cela un messaggio che riguarda ogni essere umano: anche se il senso sembra sfuggirci, anche nella sofferenza c'è un dono che arricchisce, che rende la nostra esistenza più completa, più vera.


Favola dimenticata
Guglielmo Aprile

Ogni albero che ascolta il vento, ogni foglia che cade, è un segno di una storia dimenticata, di un mondo che è stato, ma che in qualche modo persiste, per quanto sfuggente. La poesia ci parla di un Dio che si nasconde tra le onde, tra le foglie e le nuvole, la cui presenza è scritta nel silenzio delle cose. Ma nonostante il mondo dimentichi la favola, essa ritorna ogni volta che qualcuno la racconta, come una memoria che non può essere cancellata, un eco che rimbalza nei cuori dei più piccoli.

Il ritorno della favola non è solo un atto di narrazione, ma una rinascita. Ogni volta che ascoltiamo una storia, che ci immergiamo in un racconto, noi stessi diventiamo partecipi di quel mondo antico, di quel sacro che ci sovraintende. La poesia ci invita a tornare alle origini, a riscoprire la memoria che si rinnova, che rinasce ad ogni voce che la racconta. E forse è proprio in questo movimento circolare che si nasconde il senso di ciò che siamo: esseri che, pur nel caos della vita, cercano di tornare a un'origine, a un principio di verità che è stato scritto nell’anima di tutti noi.

Foibe 2005
Armando Bettozzi

Un grido silenzioso, ma potente, si leva da queste parole. La poesia denuncia, mette in luce ciò che per troppo tempo è stato occultato, soffocato nel silenzio delle foibe, luoghi di morte che custodivano la vergogna di crimini mai raccontati, mai riconosciuti. Le "cársici báratri profondi e scuri", immagini di abissi impenetrabili, ci parlano di un'ingiustizia che per decenni è rimasta nell'ombra, nascosta dalla storia ufficiale, da un voluto silenzio. Il poeta non si limita a descrivere l'orrore, ma lo esprime con una ferocia che trasforma la realtà in una metafora del sacrificio umano e del tradimento della memoria.

Questi "martiri negati" sono le vittime innocenti, colpevoli solo di essere esistiti in un contesto di ideali che hanno ridotto il loro corpo alla condizione di "immondizia", come carne "putrefatta" che marcisce lontana dalla luce della verità. La poesia denuncia la mancanza di pietà, l'assenza di giustizia, facendo un’accusa diretta alla storia che ha voltato le spalle a questi morti, come se non fossero mai esistiti. Il tono è crudo, spietato, ma necessario. La domanda finale, quasi un grido di sfida, ci costringe a confrontarci con l'assurdità del dolore, cercando di capire la differenza tra la sofferenza nel pozzo e quella nel forno: la risposta è, purtroppo, la stessa. La memoria non deve più essere cancellata.


Ho scritto
Franco Fronzoli

In questa poesia, la scrittura diventa un atto di espressione intima e universale al tempo stesso. Il poeta scrive "nelle pause del tempo", come se le parole scivolassero tra gli spazi vuoti di una vita che va avanti, tra il calar del sole e il sussurro delle onde, a cercare un senso nell'indefinito. La scrittura di Fronzoli non è solo un atto letterario, ma un viaggio nei luoghi dell’anima: scrive "sulle spalle di viandanti", traccia i sentieri delle proprie emozioni, delle proprie esperienze. Ogni poesia è un frammento di vita, una parola che si intreccia con il pensiero e il ricordo, con il dolore e la speranza.

"Ho scritto" diventa una riflessione sulla necessità di esprimersi, di trasformare la solitudine e le passioni in parole. La poesia è il mezzo attraverso cui il poeta si connette al mondo, agli altri, anche se solo nella sua immaginazione. L’amore, la parola che chiude ogni scritto, diventa il fulcro di ogni espressione, l'essenza che permette di superare la solitudine. In un mondo che scorre veloce, la scrittura è l’ancora a cui il poeta si aggrappa per non smarrirsi, per dare un senso alle emozioni che il tempo consuma. Le parole di Fronzoli sono un invito a non dimenticare l'importanza di scrivere, di fermarsi, di ascoltare il respiro del cuore.


Pretesa
Silvio Canapé

La poesia di Canapé esprime un'urgenza profonda, un desiderio di liberazione. Il cuore è visto come un peso, un'entità che si strugge sotto il fardello dei ricordi, delle emozioni non dette, dei sentimenti che non riescono a trovare pace. C'è il bisogno di svuotare il cuore da tutto ciò che lo appesantisce, di abbandonare al macero i ricordi, di fuggire dal dolore che l’amore ha lasciato. Il poeta desidera ritrovare la libertà, la serenità, liberandosi dal legame che l’amore, con la sua potenza, impone.

C'è una lotta tra il cuore e la mente, tra il desiderio di allontanarsi e la consapevolezza che, pur rimanendo insieme, ci si può sognare un nuovo inizio. Il linguaggio dialettale conferisce alla poesia un’intensità unica, una voce che non ha paura di esprimere l’urgenza, la rabbia, la necessità di chiudere un capitolo doloroso. Eppure, c'è anche la consapevolezza che, nonostante tutto, l'amore resta un legame indissolubile. La richiesta di silenzio, di non parlare più, è il segno di un cuore che vuole finalmente trovare la pace, ma non riesce a staccarsi da ciò che lo ha definito.

Ad ogni pressante urgenza del bello
Aurelio Zucchi

La poesia di Zucchi ci presenta una riflessione sull'irriducibile contrasto tra la bellezza che nutre l'anima e la crudeltà del mondo che ci circonda. L’autore, con una sensibilità profonda, raccoglie ogni emozione che la bellezza suscita in lui, "versandola nella sacca d'oro" del cuore, come un tesoro prezioso da custodire. Ma nonostante questa bellezza, il poeta non può evitare di osservare il "contrasto atroce" che il mondo gli presenta: donne e bambini vittime di orrori, paesaggi distrutti dalla brutalità umana. Il contrasto tra l’inno alla bellezza e la realtà desolante è reso con intensità, come un paradosso che lascia l’autore a cercare rifugio nella poesia, pur consapevole che "di là dai vetri il fango scorre sempre".

La riflessione finale sulla "grande bellezza" che il poeta ha "scovato in anni migliori" sembra quasi un rimpianto per ciò che poteva essere ma non è stato, un rimorso per non aver trasformato la bellezza in un diamante eterno. È un dolore per un'opportunità perduta, che, però, non impedisce di cercare ancora quella scintilla di bellezza, come il "fiore lungo il ciglio", simbolo della continua ricerca, anche se tra le imperfezioni e le ferite del mondo.


"D'estate, un mio sentimento"
Cristiano Berni

La poesia di Berni è un inno alla bellezza sensoriale e al desiderio che essa suscita. Il poeta si perde nell’osservazione di una donna, descritta in termini intensamente sensoriali: gli occhi tracciati con un semplice gesto di rimmel, i capelli descritti come "alghe marine", "filamenti d'oro" che avvolgono il corpo e il viso. La bellezza diventa qualcosa che attraversa l'anima del poeta, lo stordisce, lo riempie di emozioni vive e contrastanti.

La tensione tra l’idealizzazione e la realtà si fa viva nel suo sguardo verso quella figura femminile. La sua riflessione è anche un atto di consapevolezza: forse il suo stesso sentire è influenzato dal poeta che è in lui, dal sogno che lo porta a vedere la bellezza come qualcosa di distante e quasi irraggiungibile. L’incertezza finale – "non so se la sua freccia acuminata abbia colpito il mio cuore" – esprime la fragilità e il dubbio che accompagnano ogni sentimento d'amore, la paura che quella bellezza sia solo un’illusione, una visione che svanirà al risveglio.


È così te ne vai...
Maria Toriaco

La poesia di Toriaco è un addio intriso di dolore e malinconia. L'autrice ci accompagna in un viaggio emotivo in cui l'assenza diventa il tema centrale. Il ripetersi di "È così te ne vai..." crea un ritmo che trasmette l'ineluttabilità della partenza, una separazione che avviene nella solitudine della notte, sotto la luna che "ricopre le luminose stelle". Il paesaggio che descrive è desolato, "mare in tempesta" e "deserto nelle strade", metafore di un mondo che si sgretola sotto il peso del vuoto lasciato dall'altro.

La poetessa non solo narra la fine di una relazione, ma anche il lento dissolversi delle speranze e dei sogni, che una volta avevano dato significato a tutto. Il "vuoto" e il "sogno" finali sono il simbolo di un'emozione che non può più essere riempita, ma che viene invece impressa nella memoria, nel ricordo indelebile. La sofferenza diventa un cammino verso la consapevolezza che il tempo è l’unico che possa "segnare" il ricordo di ciò che è stato, lasciando dietro di sé un segno di perdita che durerà nell’anima.

Coniunctio
Felice Serino

La poesia di Felice Serino si fa carico di una riflessione profonda sull'unione e la dissoluzione dei concetti umani. Con la parola “Coniunctio” suggerisce un incontro, un legame che non può essere semplicemente descritta come un'unione superficiale, ma come una fusione totale che cancella le “apparenze” di nomi e forme, liberandosi delle costrizioni storiche e della divisione tra le persone. La dissoluzione dei "fiumi di sangue e di parole", un riferimento alla violenza storica, indica una resa finale alla possibilità di trovare una verità oltre la divisione. Le "nostre lacrime" sono salate, testimoni di una sofferenza che non può essere contenuta nel tempo, ma che solo un atto di fusione e consapevolezza può sanare. Si tratta di una poesia che, pur nella sua sintesi, apre la porta a una riflessione quasi mistica sull’unione dei popoli e delle storie. La rivedibilità della poesia, aggiornata nel 2024, pare un atto simbolico di continua trasformazione e di sforzo verso una comprensione più profonda e universale.


Poesie blu
Alfonso Silvestre

Alfonso Silvestre, attraverso un linguaggio ricco e vorticoso, esplora l’inquietudine e la delusione che accompagnano l’appagamento dei desideri. La ricerca del “fine” della vita, il punto dove tutte le tensioni esistenziali si risolvono, si trasforma in una scoperta dolorosa: ciò che era stato ambito e desiderato ora appare insignificante, un piccolo quadrato che non può contenere la grandezza sperata. Il poeta, in questa lunga riflessione, si interroga sul concetto stesso di realizzazione: quando e come il desiderio si trasforma in realtà? La forma del cerchio che non riesce mai a chiudersi, che si espande continuamente senza raggiungere mai il punto di partenza, simboleggia un’eterna ricerca senza fine. La sensazione di cadere in un "baratro d'insoddisfazione" rispecchia la fatica di trovare un senso che, alla fine, è solo nelle circostanze stesse del ricercare. La poesia esprime l'incapacità di fermarsi, ma anche la bellezza della continua ricerca, che diventa essa stessa il vero scopo della vita.


E’ come
Gianfranco Vacca-Capri

L'immagine evocata da Gianfranco Vacca-Capri è quella di una pioggia che cade lenta, quasi malinconica, un pianto di luce che si riflette nel buio della notte. La descrizione di un uggiolio dolce e distinto, che gradualmente si trasforma in una pioggia silenziosa, ci invita a pensare alla quieta solitudine della notte, al passante che diventa parte di un paesaggio che è sia fisico che emotivo. Il suono delle gocce che cadono e si mescolano alla città ricorda il rumore della vita che prosegue, ma che si perde in un flusso di tempo ineluttabile. Le immagini del “cucciolo smarrito”, della “culla” e del “richiamo soffio respiro” ci portano a una riflessione sull’essenza più intima del mondo: la ricerca di un senso di appartenenza, di amore, di conforto. È un atto delicato di ascolto e di osservazione, un’analisi sensoriale che ci immerge in un'atmosfera di nostalgia e ricerca senza tempo.

Il gomitolo
Sandra Greggio

In "Il gomitolo", Sandra Greggio propone un viaggio simbolico attraverso la vita, rappresentata come un gomitolo, un'entità intrecciata e complessa. Il bandolo, l'elemento che dà ordine e direzione, è la ricerca di un senso e una comprensione che permette di sollevare la propria esistenza verso l'alto, oltrepassando i confini fisici e terreni. La poesia si conclude con il raggiungimento di un "oltre" tanto agognato, che sembra connettersi a una sorta di illuminazione spirituale, in cui l'autrice ritrova il suo posto nell'universo. L'immagine del gomitolo, come un filo che si srotola, trasmette l'idea di un percorso che, pur nel suo apparente caos, porta a una meta più alta e significativa.


Spesso voglio farmi male
Jacqueline Miu

Jacqueline Miu esplora il concetto di dolore fisico e psicologico in modo intenso e introspettivo. In questa poesia, l'autrice esprime una tensione tra il desiderio di provare dolore e la necessità di sopravvivere, mettendo in luce il paradosso dell'esistenza umana. La "barriera di foglie senza alberi" e le "industrie senza operai" suggeriscono un mondo vuoto, in cui l’autrice si trova a fare i conti con un'esistenza priva di scopo, ma che si riflette in un continuo tentativo di rinnovamento e ricerca. Le immagini di "fili elettrici" e "ombrelli alla porta di casa" si intrecciano in un panorama disturbante, ma anche ironico. Nonostante il tono di disillusione, c'è una sorta di accettazione della sofferenza come parte integrante della vita. Il dolore, nell'inquietante realtà della poesia, è quasi un compagno, e la narrazione si conclude con l'immagine di una "nona vita da gatto", un ciclico ritorno alle esperienze passate senza una conclusione definitiva.


I barbari
Piero Colonna Romano

"I barbari" di Piero Colonna Romano è una poesia che continua il tema del cambiamento e della decadenza, ma con un linguaggio più diretto e viscerale. Qui, i "barbari" sono identificati con un gruppo politico che, giungendo "da sperduti villaggi, da nebbiose pianure", cerca di cambiare l'ordine esistente attraverso mezzi disonesti. La critica al sistema politico è chiara: i barbari non solo ignorano la cultura e il sapere, ma distruggono anche le fondamenta morali della società. La loro "pura avidità" e la "gratitudine" che ricevono da chi ha il "forziere" pieno, suggeriscono una visione disincantata della politica. La poesia si conclude con una riflessione amara sulla miseria che potrebbe derivare dall'indifferenza della popolazione e sull'incapacità di reagire a una crisi che è già in atto. La nostalgia di un "paese di fiaba", che sembra irrimediabilmente perduto, richiama il desiderio di un ritorno a una condizione di speranza e di valori condivisi, ma si scontra con la realtà di un mondo che non è più quello di una volta.

La citazione alla lirica di Ennio Flaiano da "Le invasioni dei barbari" riflette, ciò che il nostro bravissimo poeta e già commentatore di questo sacro Tempio azzurro, esprime nella sua lirica sulle trasformazioni sociali e politiche che si verificano, con un occhio critico verso le forze che cercano di destabilizzare e riformare la società. I "barbari" descritti da Flaiano sono non più stranieri, ma piuttosto coloro che, provenienti da ambienti politici e sociali corrotti, minano le fondamenta del paese. La loro "invadenza" è interna e legale, ma altrettanto distruttiva. Con l'immagine di "Vandali all'Edilizia" e "Attila alla riforma agraria", l'autore esprime la sensazione di un paese che viene lacerato dall’interno, incapace di difendersi. La poesia assume un tono amaro e sarcastico, indicando come, nonostante le apparenze di progresso e riforma, le azioni dei "barbari" non portano altro che rovina. Concludendo con un riferimento al passato, si rimpiange la capacità di sognare e di idealizzare una società migliore che ora appare irraggiungibile.

La mufa
Roberto Soldà

In "La mufa", Roberto Soldà adotta un tono nostalgico e ironico per raccontare la storia di una zucca che una volta era fresca e splendente, ma ora ha ceduto alla muffa, simbolo di decadimento e di tempo che passa. Il passaggio dalla sua descrizione della zucca alla riflessione su una ricerca scolastica svolta in terza elementare crea un contrasto interessante tra la "muffa" presente sulla zucca e quella che "torna" nei ricordi. La memoria della ricerca sulla muffa, fatta con Toni, sembra essere un momento emblematico della giovinezza, in cui la curiosità e lo studio, anche su un argomento come la muffa, erano visti con entusiasmo e passione. In questo modo, il tema della muffa diventa sia un simbolo di inevitabile deterioramento che un riflesso della crescita e delle trasformazioni interiori.


La tua pelle
Ciro Seccia

Ciro Seccia in "La tua pelle" esplora la sensualità e l’intimità attraverso immagini poetiche cariche di intensità emotiva. Il corpo diventa un territorio di esperienze spirituali più che fisiche, con la pelle che diventa il punto di incontro tra due anime. L'alba, il calore, il velluto della pelle e l'orgasmo che non è sesso ma un'unione profonda, ci conducono verso una visione del corpo come strumento di un legame più grande e trascendentale. L’amore descritto non è solo fisico, ma un incontro dell’anima che si fonde. Seccia riesce a dare una dimensione quasi mistica a una sensazione tanto terrena come l’intimità, attraverso un linguaggio lirico che si distacca dal comune per raggiungere l'intensità di un’esperienza che va oltre il corpo.


Qual è il tuo vero colore?
Antonia Scaligine

In "Qual è il tuo vero colore?", Antonia Scaligine interroga la luna, simbolo di mistero, cambiamento e riflesso di emozioni personali. La luna, che da bianca ad oriente si trasforma in gialla e rossiccia a ponente, è vista come una presenza silenziosa e costante nella vita dell'autore, che le dedica riflessioni intime e profonde. Il suo cambiamento di colore e di forma sembra riflettere il mutare dei desideri, delle emozioni e dei pensieri dell’autore. C’è una sorta di complicità tra l’autore e la luna, che ascolta i suoi sussurri e desideri. La poesia si conclude con un atto di amore e di devozione verso la luna, considerata una "discreta e confidente amica", una presenza che accompagna anche nei momenti più solitari. La luna diventa quindi un simbolo di ascolto e di intimità, che esprime la connessione profonda tra la natura e l'anima umana.

Grida stanche
Alessio Romanini

In "Grida stanche", Alessio Romanini affronta il tema della disillusione e della rassegnazione della classe lavoratrice. Le grida di dolore e protesta, un tempo forti e chiare, ora sono stanche, flebili e soffocate dalle difficoltà quotidiane e dalle ingiustizie economiche. L'autore denuncia un sistema che ha ridotto le persone alla disperazione, portandole a non reagire più, ad arrendersi a un destino che sembra ineluttabile. Il contrasto tra il desiderio di giustizia e la realtà di un sistema che schiaccia le masse è il cuore pulsante della poesia, che diventa un grido silenzioso, impotente ma sempre presente.

con affetto e stima

vostro Ben Tartamo

 

 

 

4-6 Febbraio

Si ruppe la tazza" di Gianfranco Vacca-Capri

In questo breve e potente testo si intrecciano immagini di fragilità e di un destino incerto, un viaggio nell'inconscio e nella riflessione sul tempo. La rottura della tazza sembra simboleggiare una frattura, un momento di disordine che riversa il "fuoco" – simbolo di passione, ardore o forse dolore – su un mondo che si spacca in mille frammenti. Le gocce, preziose e distribuite tra i protagonisti ("una per me, una per te"), diventano testimonianza di un legame profondo ma anche di una separazione, un distacco inevitabile.

La presenza delle nuvole, "gonfie e sbadate", si fa metafora del flusso continuo del tempo e delle emozioni che, pur sembrando individuali (gocce), si moltiplicano, diventano milioni di piccoli frammenti di vita. La domanda finale – "tu dove sei?" – è una ricerca di un senso, un'assenza che impregna il poema di una melanconia intensa. La percezione che il fiocco che cade non sia mai solo uno, ma parte di una moltitudine, ci rimanda a un senso di ineluttabilità e di disorientamento, come se nulla fosse mai davvero nostro in un mondo così grande e tumultuoso.

"Mano d'Anima" di Laura Lapietra

La poesia di Lapietra è un atto di cura, una promessa di protezione, un'offerta di amore che attraversa le barriere dell'individualità e dell'isolamento. Qui la "mano d'anima" diventa la forza gentile che salva e nutre, la carezza che trasforma la debolezza in forza, l'ombra in luce. Ogni parola è tessuta per donare speranza e conforto, per sciogliere le corde che imprigionano il dolore.

Il "giardino fiorito" di ricordi, le "briciole delle tue lacrime" raccolte con devozione, sono immagini che dipingono un paesaggio emotivo di incredibile bellezza, un luogo dove la sofferenza si trasforma in memoria e la memoria si fa nutrimento per una nuova crescita. C'è qualcosa di divino e di sacerdotale in questo gesto di "sostenere", di "sciogliere", di "ascoltare", una gentilezza che sfida le dure leggi del mondo e rinvigorisce l'anima ferita. È un manifesto di amore puro, incondizionato, che si fa sostanza, luce, rifugio. Un bellissimo inno alla capacità dell'amore di guarire.

"Paure" di Salvatore Armando Santoro

Quest’opera racconta una lotta interiore, una tensione tra desiderio e resistenza, tra amore e paura. La "paura" sembra una figura evanescente, una presenza ingannevole che si nasconde tra le pieghe di un sentimento che vorrebbe affermarsi ma viene ostacolato. Il gioco di seduzione tra i due protagonisti si trasforma in un balletto di parole, un gioco dove la confusione e l’ambiguità la fanno da padrone.

Ciò che colpisce è l'onestà e la vulnerabilità del protagonista: "io non mi arrendo", dice, come se il cuore stesse cercando disperatamente di superare il muro di incertezza che si frappone tra lui e la sua amata. La tensione cresce, quasi palpabile, tra l'abbondanza dell'amore che l’autore sente di avere ("ne ho tanto chiuso dentro questo petto") e la consapevolezza che esso potrebbe essere contaminato, "fermentato dal veleno", segno di una sofferenza passata che non può essere dimenticata. Il simbolismo del ragno che tesse la sua tela e "attende che si imbrigli" parla di una strategia di conquista e di attesa, ma anche di una certa impotenza davanti alla resistenza dell’altro.

La parte finale, con l'immagine dell'amore "fermentato dal veleno", ci fa riflettere sulla natura complessa dell'affetto umano, che può essere tanto dolce quanto doloroso, tanto luminoso quanto oscuro. La poesia rivela una lotta tra il desiderio di amare e la paura di essere feriti, una tensione che non è mai risolta ma che diventa il motore stesso del verso.

"Ti porta lo scirocco" di Guglielmo Aprile

La poesia di Aprile è un’immersione sensoriale e simbolica, un dialogo intimo con la natura e con una figura che sembra appartenere a un altro mondo, lontano da quello ordinario. Lo scirocco non è solo vento, ma un'entità che trasporta con sé il destino e il fascino di terre lontane. Il verso "Non mia né di nessuno, è allo scirocco / che appartieni" sembra suggerire l’impossibilità di possedere o controllare qualcosa di tanto misterioso e potente, una forza che scivola via dalle mani, proprio come il vento che non può essere afferrato.

Il "sorriso" che "intraducibile" diventa una chiave: una lingua segreta che solo chi ha visto la persona amata sorridere può comprendere, simbolo di una connessione profonda e unica. Il poeta suggerisce che, per capire l'altro, non basta il linguaggio comune, ma è necessario un legame che vada oltre, che si nutra della terra, delle radici, della natura stessa. La bellezza del verso sta proprio nell'intraducibilità del legame, che non può essere colto in superficie, ma che si dispiega in un contatto che va oltre il quotidiano.

"Malintesi liberamente intesi" di Armando Bettozzi

La poesia di Bettozzi è una riflessione amara sulla società, sull'individuo e sulla falsa promessa della "libertà". Il poeta denuncia un sistema che ci condanna a recitare un copione scritto da altri, intrappolati tra le "falsità" di un mondo che ci impone le sue leggi, tanto dannose quanto illusorie. Il tono è tagliente, critico, ma anche riflessivo: l'autore ci invita a "spalancare gli occhi" per vedere al di là delle convenzioni, per riconoscere che la libertà tanto acclamata è solo una trappola che ci rende vassalli.

Il gioco di parole tra "utopia" e "realtà" denuncia il contrasto tra il sogno e la dura verità di chi è costretto a vivere sotto l'egemonia di un sistema che premia l'ignoranza e l'ozio, anziché la crescita e la responsabilità. In questa denuncia, la poesia diventa una chiamata alla consapevolezza e alla riflessione. È un atto di ribellione, ma anche un invito ad aprire gli occhi su un mondo che ci nasconde la sua verità sotto un velo di convenzioni e menzogne.

"Sono entrato nella tua lacrima" di Franco Fronzoli

La poesia di Fronzoli è delicata e struggente, una fusione di emozioni che fluiscono in un abbraccio di complicità e condivisione. Entrare "nella tua lacrima" è un atto di empatia profonda, un gesto che non è solo fisico ma anche spirituale. Il poeta non si limita a osservare il dolore dell'altro, ma lo abbraccia, ne fa parte, e lo condivide come se fosse suo. La lacrima diventa simbolo di una connessione intima, dove le sofferenze individuali si intrecciano, e l'altro diventa il riflesso del proprio cuore.

Il percorso del poema è uno di guarigione, di crescita, di speranza: il dolore condiviso si trasforma in amore, in un desiderio di "sorridere" e di "camminare insieme inseguendo i sogni". C'è un elemento di tempo che diventa flessibile, quasi etereo, come se il dolore e la gioia si intrecciassero in un ciclo continuo e infinito. La poesia si fa, in questo modo, una sorta di promessa, un patto che si rinnova tra due cuori, come se il vero amore non fosse solo la cura per le ferite, ma anche la forza che permette di guardare oltre il dolore, verso la luce del futuro.

''Freddo'' di Enrico Tartagni

"Freddo nel letto, senza sensi stanchi" – l’esordio di questa poesia è intriso di un gelo che non è solo fisico ma esistenziale. Il "freddo" appare come simbolo del distacco, dell’abbandono, di quella condizione che appartiene all'anima, priva di calore e di luce. Le parole sono pietre, cadendo su un letto ormai vuoto, lo specchio di una realtà che non si riconosce più. La morte e la follia qui danzano una danza tragica: "un canto di nessuno di divino albòre di pazzia" è una visione che sussurra al cuore del lettore una verità amara, eppure necessaria, sull’impossibilità di esistere senza perdersi.

L’immagine dell’"atomica esplosione" è il culmine di un turbinio emotivo che travolge tutto ciò che è tangibile, ma è soprattutto il "freddo" che rimane come ricordo di una fiamma mai accesa. L’uomo, ridotto a un corpo che respira, si trova di fronte alla sua solitudine cosmica, come una galassia distante che non può più sperare di raggiungere.

La bellezza di questa poesia risiede nella sua inquietudine. La dolcezza del freddo non è mai serena, ma lacerante, eppure non si può fare a meno di sentirsi attratti da essa, come una verità che va oltre la realtà visibile.


''Le temps passé'' di Silvio Canapé

In questo testo, il tempo diventa il protagonista assoluto, non come misura lineare, ma come tessitura di emozioni e riflessioni. L’atmosfera è d’altri tempi, eppure senza tempo: "Sotto il braccio i libri, tenuti con gomma a ferro chiuso" ci introduce in un mondo di memorie scolpite, quasi incise nella carne. Il ricordo della gioventù è un fluire che, purtroppo, non può tornare: "Occhi negli occhi, mani nelle mani" esprime la purezza di un amore passato, ora reso dolce-amaro dalla consapevolezza che la vita corre "veloce a colmo di passato".

L’immagine dell’orizzonte che si apre sull’infinito mare è l’illusione della giovinezza, il desiderio di una libertà che è ancorata a un passato che non può più tornare. Tuttavia, in questo ciclo di passaggio, emerge una bellezza commovente, dove ogni istante, pur fugace, diventa il vessillo di una speranza. La luce della memoria si fa più tangibile nella riflessione sul tempo che scivola via e la dolcezza del ricordo diventa il rifugio per chi sa che il futuro è come il "sol tramontato" che non si riaccende mai.


''Il compianto'' di Felice Serino

Questa poesia è un tributo al mistero della morte, che si fa compagna silenziosa, quasi un respiro tra le righe. "Il caro trapassato vede non visto" suggerisce il paradosso della presenza-assenza, dell'invisibilità della morte, che osserva, ma non è mai percepita dai vivi. La morte non è solo fisica, ma una condizione della coscienza che ci spinge a riflettere sul senso del ricordo e sul gesto rituale della commemorazione.

La frase "lo spirito è tra loro inavvertito" è una delle intuizioni più profonde del componimento, dove il trapassato non si fa sentire, eppure è lì, nell'aria che respiriamo. La morte diventa un'ombra che si muove tra noi, senza il clamore del pianto, senza il calore del ricordo che normalmente scalderebbe la nostra anima. La solitudine del trapassato viene rappresentata dal "posto vuoto" e dal "compleanno" che non trova più motivo di essere festeggiato. Questa è la vera solitudine dell’anima che non si riempie neanche del ricordo.

Il "compianto" diventa, quindi, una riflessione sulla finitezza dell'esistenza e sulla memoria che si svuota di senso, una meditazione di struggente bellezza sul mistero della morte e della perdita.

''Donna'' di Elisabetta Bonaparte

La poesia di Elisabetta Bonaparte si presenta come un viaggio immenso attraverso l’universo femminile, dove la "donna" è metafora di una forza indomabile e sublime. "Scrigno di parole evocate dal vento" ci immerge nell’immaterialità di un'energia che sfiora l'anima, ma mai la cattura del tutto. L’uso del "vento" qui è simbolico, come un messaggero delle emozioni più nascoste, che trascina la donna in un vortice di "sogni che scivolano lenti", proprio come il passare del tempo che, senza mai fermarsi, lascia dietro di sé tracce di immenso amore e tormento.

La "fiera e solenne" presenza della donna, con la sua anima che "sfugge", è un’illustrazione potente di quella natura intrinseca alla figura femminile: una forza di vita, capace di dissolversi in dolcezza o di manifestarsi come tempesta impetuosa. La potenza del verso emerge quando la poetessa ci parla del "vulcano urlante" dell'amore, che brucia eternamente nell’anima, ma che nonostante le sue ceneri, continua a risplendere attraverso gli occhi della donna, occhi che sembrano portare dentro di sé tutta l'eternità. Un messaggio che, pur avvolto nel mistero, afferra il lettore con la sua delicatezza e la sua forza, chiedendo di riconoscere la divinità che si cela nel femminile.


''Poesie blu'' di Alfonso Silvestre

Alfonso Silvestre ci conduce in un viaggio contemplativo nel cuore della natura e della coscienza umana. "È presto al mattino" ci introduce all’alba, quel momento sacro in cui la luce del giorno si fa quasi palpabile, un "dolce diamante dorato" che avvolge il paesaggio con la sua brillante carezza. La poesia esplora il legame tra l’umano e il divino attraverso l’immagine dell’acqua che "si fa spuma", creando una fusione tra l’uomo e gli elementi naturali. La "luminosa, gialla scia" che appare nell’acqua rappresenta una guida spirituale, un faro che illumina il cammino dell’anima in cerca di sé stessa.

Il poeta, pur consapevole della sua piccolezza ("Non sono un nocchiero"), si fa testimone del suo percorso spirituale, in cui la "bianca bandiera che sventola libera" rappresenta la pace interiore, la fine del conflitto e il riconoscimento della propria missione. La grazia con cui il poeta accetta il suo destino e si lascia guidare dalla luce interiore è una manifestazione di profonda saggezza, ed è nel "mare" della sua vita che trova la serenità.

"E va bene allora" di Sandra Greggio

Questa poesia di Sandra Greggio è una riflessione dolorosa e distaccata su un amore ormai lontano, che si fa sempre più evanescente. "Cancellami dalla tua mente" è l’invito a dimenticare, un gesto di auto-protezione da parte di chi ha sperimentato l’intensità di un legame che ora non esiste più. Il riferimento al "canto delle cicale e dei grilli in piena estate" evoca l’immagine di un'estate che è ormai passata, una stagione che ha visto fiorire l’amore, ma che ora, come i suoni che accompagnano la calura estiva, si dissolve nel silenzio.

Il "cancellare dal cuore" è il tentativo di spegnere il fuoco del desiderio, quel "fremito indescrivibile" che rendeva l’amore qualcosa di corporeo, che segnava la pelle e l’anima. La lotta per dimenticare è esternata anche nella potente immagine del "nero d’inchiostro" che copre le pagine di una dichiarazione d’amore ormai inutile. Qui l’inchiostro è simbolo di una parola che, sebbene scritta con mano sicura, è destinata a scomparire, come l'amore che non ha più radici nel presente. La poetessa, con un tono rassegnato ma pieno di eleganza, ci lascia con l’eco di un addio che si fonde in un inchiostro che cancella e ripulisce il cuore.


"Lettere d’amore dalla fine del mondo"di Jacqueline Miu

Jacqueline Miu ci porta in un mondo sospeso tra il surreale e il poetico, dove la realtà si dissolve in un universo di immagini bizzarre e suggestive. "Nevi circensi con fiocchi acrobatici a mezz’aria" ci fa entrare in una dimensione in cui anche la neve, elemento naturale e silenzioso, diventa un atto acrobatico, come se il paesaggio fosse il palcoscenico di una performance che sfida la gravità e la logica. Le immagini sono metafore di un amore che non ha confini e non segue le leggi convenzionali, un amore che "vola nell’etere senza ausilio di motore", come un’entità leggera, libera, che non si lascia imprigionare da definizioni terrene.

La poesia è un continuo gioco di contrasti, di opposti che si attraggono e si respingono: "dolore senza Mittente" e "peccati rimasti senza autore", un universo dove l’ordine e la causa sembrano annullarsi, ma in cui emerge una visione di liberazione. L’invito a "Goditi l’attimo!" ci ricorda la fragilità del presente, un attimo che è fugace ma che, nel suo essere irripetibile, diventa eterno. La poetessa gioca con il linguaggio in modo anarchico, creando immagini surreali che sembrano suggerire che in questo "fine del mondo" ci sia una nuova possibilità di rinascita e di lettura della realtà.


"7 ottobre 2023 ?" di Piero Colonna Romano

La poesia di Piero Colonna Romano si inserisce in una riflessione politica e sociale che trascende l’ambito privato dell’esperienza individuale per abbracciare la realtà collettiva e globale. Il testo, purtuttavia, si distingue per un tono di denuncia, come una lancia puntata contro le ingiustizie e le atrocità che segnano la storia del nostro tempo. "Forse di quei nazisti la lezione per Netanyahu è oggi giusta e vera" non lascia dubbi sulla condanna della violenza e della discriminazione, e mette in evidenza la cruda realtà della guerra, dove "la decimazione" e l’"eccidio" sono realtà spietate.

Il poeta non risparmia critiche alla politica di un certo potere, facendo riferimento a un "accordo con quel clan" che implica complicità e crudeltà. La poesia diventa uno strumento di denuncia, un urlo che sfida la storia, le sue contraddizioni e le sue atrocità, mostrando la disillusione e il disprezzo per un’umanità che sembra non aver imparato nulla dai suoi errori. Con immagini forti e potenti, Romano mette in scena la tragedia di un mondo dove la violenza è diventata la norma, mentre il "ramadan" e la "religione" vengono ignorati con cinismo. La forza della poesia sta nella sua capacità di condannare e di porre il lettore di fronte alla realtà, con una verità che non ammette giustificazioni.

"La nuvola stupida" di Roberto Soldà

Questa poesia, scritta in dialetto, esprime una riflessione semplice ma profonda sulla natura umana, mettendo in parallelo il comportamento delle nuvole e dell'autore stesso. La "nuvola stupida" che "si mette a piangere per niente" è una metafora potente del nostro essere, quando ci abbandoniamo alla tristezza senza una ragione vera, proprio come una nuvola nera che oscura il cielo sereno senza un motivo apparente. La figura di "papà" che con tono pratico e distante dice che la nuvola è "la solita", suggerisce un'idea di saggezza popolare, di chi osserva la vita con un distacco che non impedisce però di affrontare il quotidiano con forza. La poesia si conclude con una riflessione sulla fragilità dell'uomo, che si commuove anche per un "fiore cresciuto nel cemento", simbolo di bellezza che emerge in mezzo alla durezza della vita, come una piccola speranza che si fa strada tra le difficoltà.


"Le tue Labbra" di Ciro Seccia

La poesia di Ciro Seccia è un dolce ricordo che si snoda tra la nostalgia e la bellezza di un amore lontano. Le "labbra umide di mare" diventano un simbolo della freschezza e dell'intensità del passato, mentre il "ritmo incessante dell'onda" che "frange sulla scogliera" diventa il sottofondo musicale di un amore che, sebbene lontano, rimane nell'anima. L'immagine del mare, con il suo moto eterno, rappresenta un amore che non si ferma mai, che continua a vivere nei ricordi, nel corpo e nelle emozioni. La poesia ha una musicalità delicata, che richiama la dolcezza di un tempo passato, ma anche la sua potenza evocativa. Il mare è l'infinito spazio in cui il poeta ripone la sua nostalgia, il luogo che custodisce il sapore di un amore che non svanisce, ma si trasforma in un'onda che continua a baciarti, anche se il tempo è passato.


"Fanny" di Alessio Romanini

Questa poesia ci racconta un amore che è più forte nel dolore che nella gioia, un amore che non si è mai realizzato, ma che ha segnato profondamente il cuore del poeta. L’amore tra Fanny e Giacomo Leopardi è "mero platonico" e si distingue per la sua intensità, che non si misura in atti concreti ma in sentimenti segreti e nascosti. La morte del poeta sembra portare alla luce un amore che non ha mai avuto il coraggio di manifestarsi, ma che ha trovato, nell'assenza di Giacomo, il suo spazio di comprensione e di rivelazione per Fanny. La poesia dipinge questo amore platonico come una sofferenza pura, che non si è mai consumata ma che, attraverso il dolore, ha acquisito una bellezza di inarrivabile intensità. La riflessione sulla morte del poeta e sulla consapevolezza tardiva di Fanny suggerisce un tema di sofferenza per l'impossibilità di vivere pienamente un amore che, pur essendo forte, era destinato a rimanere incompleto.

Nota a margine della dedica alla poesia:

Nel celebre passo tratto da Il pensiero dominante, Leopardi esprime l'infinità di un amore idealizzato, in cui "Angelica beltade!" non è solo un'immagine di bellezza, ma la personificazione della perfezione. La bellezza di Aspasia, l'oggetto del suo pensiero dominante, diventa il centro della riflessione poetica, un amore platonico che non si realizza mai pienamente ma che affascina in modo sublime. Il poeta, con la sua visione malinconica e filosofica, ci trasporta in un mondo dove la bellezza è inafferrabile e ineffabile, dove l'amore si fa desiderio senza mai compiersi. La frase "Tu sola fonte d'ogni altra leggiadria" diventa l'espressione di una bellezza unica, che non ha pari, ma che esiste solo nella mente e nel cuore del poeta. In questo contesto, Leopardi riflette sulla fragilità dell'essere umano e sull'impossibilità di raggiungere ciò che è perfetto.

Vostro Ben Tartamo

 

In questa poesia, l’autore esplora il tema dell’introspezione e della ricerca di un conforto che si radica in un legame profondo e primordiale con la figura materna. La croce, simbolo di sofferenza e redenzione, diventa l’espediente metaforico che racchiude l’esperienza di un cammino spirituale e di un ritorno all’origine, come nel "primo vagito". La "mano tesa" e l'invocazione dell’abbraccio sono segni di una ricerca di calore e di una risposta al dolore esistenziale, che si fanno via per ritrovare la "Madre", figura di accoglienza e di amore incondizionato.

L'invocazione e il respiro della "voce" che ritorna a chiamare la Madre sono atti di purificazione e di restituzione, in un viaggio che ripercorre l'infanzia e l'inizio della vita stessa. Qui, la "croce" non rappresenta solo il sacrificio, ma diventa anche il luogo dove tutto trova compimento, dove la sofferenza si trasforma in redenzione e la ricerca di sé si realizza nel ritorno alla fonte, alla Madre. La ripetizione della parola "spazio" crea un senso di sospensione, come se l’autore stesse cercando di afferrare qualcosa che è allo stesso tempo profondo e lontano, esattamente come la memoria dell’infanzia o della figura materna, che rimangono nel cuore ma sono difficili da toccare.

Questa poesia, con la sua delicatezza e il suo respiro mistico, invita a riflettere sul valore della maternità come simbolo di accoglienza e sul continuo sforzo umano di ritrovare, nella sofferenza e nella ricerca spirituale, un senso di pace e di ritorno alle origini. La croce, quindi, non solo come segno cristiano di sacrificio, ma anche come spazio dove la vita e la morte si incontrano, e in quel punto di incontro si fa possibile la salvezza dell’anima.

 

Questa poesia si apre con immagini surreali e sorprendenti che trascendono il quotidiano e si spingono ai confini dell’immaginario. Le "nevi circensi con fiocchi acrobatici a mezz’aria" non sono solo una rappresentazione del freddo, ma diventano una metafora per qualcosa di fragile e inafferrabile, che danza nell’aria, come un sogno sfuggente che prende forme inaspettate e in continuo movimento. La "lumaca testarda" che corre per fermare la fine del mondo è un’immagine paradossale, simbolo di una resistenza lenta e continua, che si scontra con l’ineluttabilità del destino, ma che non si arrende mai.

L’amore, in questa visione, diventa una forza eterea, che "vola nell’etere senza ausilio di motore", un amore che non ha bisogno di nulla per esistere, se non della sua pura essenza, ma che allo stesso tempo appare lontano e irraggiungibile. La mancanza di motore suggerisce un movimento senza direzione, libero e senza fine, come il flusso stesso dell’esistenza.

Il "dolore senza Mittente" è un concetto che fa riflettere sulla solitudine e sull’assoluta indifferenza dell’universo, che non attribuisce colpe né meriti, ma che tuttavia è impietoso nel suo colpire i suoi Destinatari. L’invito a "Goditi l’attimo!" risuona come una consapevolezza che, nonostante il caos cosmico, la vita è fatta di istanti che, sebbene brevi e fugaci, vanno vissuti appieno, senza paura del "diavolo" che canta e del peso delle meteore, che sono i sogni troppo pesanti per essere mantenuti.

Nel contesto della "fine del mondo", Jacqueline Miu sembra suggerire che, mentre il mondo è destinato a scomparire, le emozioni, l’amore e la sofferenza, così come le illusioni e le aspirazioni, continuano ad esistere, come se nulla potesse fermarle, nemmeno il crollo finale di tutto ciò che conosciamo. L’autrice ci regala un’immagine quasi nihilista della condizione umana, ma con una bellezza che trascende il senso di perdita, come se tutto ciò che ci resta fosse la pura esperienza di vivere, di sentire e di esistere.

 

Questa poesia si snoda con un senso di abbandono e di rassegnazione. La voce poetica si rivolge a un "tu" a cui chiede di essere cancellata, un atto che sembra un'uscita di scena tanto sofferta quanto necessaria. L'invito a "cancellarmi dalla tua mente" evoca un distacco profondo, una volontà di annullarsi di fronte a un amore che sembra essersi dissolto, come il suono delle cicale e dei grilli che segnano la fine di un'estate, stagione di passaggio e di cambiamento.

Il passaggio successivo, in cui si chiede di essere "cancellata dal cuore", ci porta in un territorio più intimo e doloroso: l’abbandono non riguarda più solo il pensiero ma anche l’emozione, quell'intensità che una volta scorreva nei brividi e nei fremiti che "provava" il cuore di chi amava. La "pelle raggrinzita" aggiunge una nota di rammarico, una sensazione di tempo che ha lasciato il suo segno, come se l'amore passato avesse avuto il potere di segnare e di invecchiare anche il corpo.

La poesia culmina nell’immagine forte e dolorosa dell’inchiostro che viene cancellato dai fogli su cui era stato scritto un "eterno amore". La mano che aveva scritto con "sicura" determinazione ora sembra voler annullare ciò che sembrava eterno, un gesto che racchiude il senso di fine, di inevitabile dissoluzione di una promessa.

L'intera composizione si configura come un dialogo interiore di chi, pur essendo pronto a staccarsi dal passato, vive un conflitto doloroso tra il desiderio di dimenticare e la realtà che quella storia ha lasciato un segno profondo e indelebile, come l'inchiostro sui fogli. La scelta di concludere con "E va bene allora" suona quasi come un atto di resa, ma anche di liberazione, come se il "cancellarsi" fosse l’unico modo per trovare una pace dolorosa.

Una riflessione sulla fine dei legami, sull'intensità dei sentimenti che svaniscono nel tempo, ma che lasciano tracce indelebili nel cuore e nella memoria.

 

Questa poesia scivola delicatamente tra il ricordo e la percezione sensoriale, in un gioco sottile tra il passato e il presente. L'autore ci guida attraverso uno spazio emotivo profondo, dove la memoria non è solo visiva ma anche fisica, evocando il sapore di sale e la sensazione di un bacio, come un'impronta che non svanisce mai. La presenza del mare è costante, sia come elemento naturale che come simbolo di una passione che, come le onde, continua a rifluire e frangere nei pensieri dell’autore.

La prima strofa ci porta a un orizzonte lontano, ma è subito chiaro che lo sguardo non è solo fisico: è uno sguardo che si rivolge al passato, un movimento che è simultaneamente esterno e interiore. Questo passaggio dal "guardare l'orizzonte" al "ritorno al passato" è un gesto di nostalgia, come se il mare avesse il potere di portare con sé un frammento di tempo e di emozione.

Le "labbra umide di mare" sono un’immagine suggestiva, dove il mare non è solo un paesaggio ma un elemento che penetra nella carne stessa del ricordo. Il "sapore di sale" non è solo il ricordo di un bacio, ma il sapore di un'intimità che è anche dolore, lontananza, e desiderio irraggiungibile. La sensazione di frangersi delle onde sulla scogliera aggiunge una dimensione sonora e ritmica al componimento, rinforzando l'idea di un movimento incessante, quasi di un cuore che batte, costantemente.

Il mare, con il suo "incessante ritmo", rappresenta la ripetizione e la persistenza dei sentimenti. Il suo suono che si frange sulla roccia è come una metafora della forza di un amore che, anche se lontano, non cessa di colpire e di lasciare la sua traccia nell'anima. La scogliera diventa la resistenza, una resistenza che non impedisce al mare di infrangersi ma, al contrario, lo accoglie come parte di un ciclo che si ripete, come i sentimenti che persistono nonostante il passare del tempo.

La poesia si conclude nell'eco di quel suono ritmato e nella dolcezza malinconica delle "labbra umide di mare", un'immagine che lascia al lettore un senso di sospensione, tra il passato e il presente, tra il ricordo e la sua continua ripetizione.

Un componimento di grande eleganza che riesce a trasmettere, con poche parole, la potenza evocativa della memoria sensoriale, creando un ponte tra il corpo e l'anima, tra la terra e il mare.

 

Questa poesia si immerge in un’atmosfera rurale e quotidiana, dove il linguaggio popolare e le immagini semplici, ma pregnanti, sono cariche di un significato più profondo. Soldà ci mostra la lotta tra l’apparente insignificanza degli eventi e la forza emozionale che questi riescono a evocare, usando il contrasto tra la naturalezza del mondo contadino e la fragilità dell'animo umano.

Il dialogo tra il padre e il figlio, nel contesto del lavoro nei campi, è un elemento centrale della poesia. Il padre, con il suo linguaggio diretto e pratico, guarda alla nuvola nera con scetticismo, vedendo in essa un capriccio senza senso. Il suo commento sulla "nuvola stupida" suggerisce una visione pragmaticamente distaccata dalla sensibilità emotiva: un'analisi della realtà che rifiuta la tristezza per un apparente caos naturale. La "nuvola nera" che "si mette a piangere per niente" diventa un’immagine che rimanda all'inutilità delle lamentele, un concetto che il padre sembra esprimere con ironia e un certo disprezzo per l'atteggiamento emotivo.

Tuttavia, nel contrasto tra il padre e il figlio, emerge una rivelazione silenziosa. Il figlio, che si commuove "davanti a un fiore cresciuto nel cemento", trova la bellezza anche nei luoghi più inaspettati e difficili, esprimendo la sua vulnerabilità. Qui, il fiore nel cemento diventa un simbolo di speranza e resistenza, di una bellezza che nasce nel mezzo della durezza e della desolazione.

La scelta di "cemento" invece della terra, solitamente simbolo di fertilità e vita, accentua l'asprezza dell’ambiente in cui il fiore cresce. Questo piccolo fiore, che si fa strada tra la durezza della città, diventa il segno di un’emozione che non si arrende, che si fa spazio anche nelle circostanze più ostili. La "commozione" del figlio per il fiore diventa un atto di ribellione contro un mondo che può sembrare impassibile, ma che in realtà è colmo di piccole meraviglie se solo si è disposti a guardare.

La poesia di Soldà è un invito a non dimenticare la sensibilità, la bellezza e la dolcezza che spesso ci sfuggono, persino nelle situazioni più aride e indifferenti. Mentre il padre guarda la "nuvola stupida" e la definisce inutile, il figlio trova significato e vita nelle piccole cose, nelle fratture di una realtà che può sembrare indifferente.

In questo breve ma intenso componimento, il linguaggio semplice e il tono colloquiale non nascondono la profondità di un sentimento umano universale: la ricerca di bellezza e di emozione in un mondo che spesso sembra disinteressato.

 

Questa poesia è un atto di dedizione e protezione, un'invocazione al sostegno spirituale e emotivo. La poetessa utilizza un linguaggio denso di immagini potenti e delicate per esplorare il desiderio di alleviare le sofferenze dell’altro, di trasformare la fragilità in forza e di donare un amore che è anche cura e conforto. Il titolo stesso, "Mano D'Anima", evoca l'idea di un gesto gentile ma profondo, che si estende oltre la mera corporeità, toccando l'essenza stessa dell'animo.

La poetessa si propone come un sostegno incondizionato per l’altro, pronta a percorrere ogni angolo del mondo, a superare le tempeste interiori e le difficoltà, per dare speranza e coraggio. La descrizione di questa "mano" è quasi mistica: essa non è solo una mano fisica, ma una presenza che sa ascoltare, che sa sciogliere i legami della rassegnazione e restituire libertà e vita. "Scioglierò ogni corda che forte ti cinge al tronco della rassegnazione" è un’immagine di liberazione da ogni forma di prigionia interiore.

Il tema della sofferenza è costantemente presente: il "gemito recondito" e la "gazzarra d'ira" sono contrapposti all’amore che risolleva, alla luce che emerge dalla tenebra. La poeta non ha paura di affrontare il dolore, ma lo trasforma in un atto di amore, in un atto che non rifiuta né dimentica la tristezza, ma che la trasfigura. "Bacerò ogni stilla di dolore" è un'affermazione che contiene una dolcezza intensa, in cui il dolore non viene cancellato, ma reso parte di un processo di purificazione e di ritorno alla vita.

Il linguaggio della poesia è ricco di un'energia che incarna una forza empatica straordinaria. La "mano d'anima" che si offre non è solo un gesto fisico di aiuto, ma una sorta di "cura", capace di restituire speranza e nuova vitalità all'altro, come se l'amore stesso diventasse una medicina capace di guarire le ferite invisibili. "Sarò giardino fiorito per il tuo ricordo" e "Stringerò nelle mie mani le briciole delle tue lacrime" sono immagini che trasformano il dolore in un luogo di bellezza e di speranza. La bellezza è, dunque, il frutto di un amore che non teme di entrare nel dolore, ma che riesce a trarne nuova luce.

La poesia si conclude con un invito a superare le brume della debolezza e delle delusioni. "Se solo abbatti ogni bruma che offusca ogni tua debolezza" sembra un richiamo a ritrovare la propria forza interiore, a liberarsi dai limiti imposti dal passato e ad abbracciare la possibilità di una nuova esistenza, in cui l'amore sincero è il motore di una trasformazione profonda.

In questa poesia, Laura Lapietra trasmette un messaggio di profonda connessione e compassione, in cui il cuore umano è visto come capace di un'incredibile resistenza, ma anche di una dolcezza che sa dare forma alla forza, alla rinascita e alla speranza.

 

Questa poesia è un inno alla potenza e al mistero della natura, un omaggio alla figura di una donna che appare intrinsecamente legata a un elemento selvaggio e primordiale: lo scirocco. Il vento, simbolo di un'energia incontrollabile e inafferrabile, diventa qui l'emblema di una persona che sfugge alla tradizione, alla logica comune, e si pone al di fuori della comprensione razionale.

Il verso "Non mia né di nessuno, è allo scirocco che appartieni" evoca subito una sensazione di distacco e di appartenenza a un universo che non si può possedere né contenere. La persona descritta non si può possedere o definire attraverso il linguaggio umano, ma è piuttosto un fenomeno naturale che sfida ogni tentativo di comprensione. Il suo legame con lo scirocco diventa quasi una metafora di una libertà assoluta, che sfida le convenzioni e si nutre di un'energia primitiva e potente. Il vento non è un semplice elemento atmosferico, ma l'incarnazione di una forza che trascende l’umano.

La seconda parte della poesia, "e ascoltandoti apprendo un’altra lingua", esplora il concetto di un amore che non può essere tradotto nei termini comuni del linguaggio. La lingua di cui si parla non è quella "del mondo", ma quella "delle conchiglie e degli alberi", simboli di un linguaggio ancestrale e misterioso che solo chi sa ascoltare con il cuore può comprendere. Questa lingua, "intraducibile" e "oscura", diventa il veicolo di una comunicazione che sfida le barriere del quotidiano, un'intimità che si fonda sulla natura stessa, lontana dal convenzionale e dal comprensibile.

Il sorriso di questa figura, che rimane segreto a chi non è in grado di vedere oltre le apparenze, rappresenta il punto di incontro tra l'umano e il divino, il visibile e l'invisibile, il concreto e l'astratto. L'invito è, dunque, a guardare più a fondo, a superare la superficie e a scoprire una realtà nascosta che appartiene solo a chi è pronto ad ascoltare e a vedere con occhi nuovi.

Guglielmo Aprile, con "Ti porta lo scirocco", riesce a catturare l'essenza di una figura sfuggente e misteriosa, quasi mitologica, in grado di trasportarci in un mondo in cui il linguaggio non è più solo verbale, ma esistenziale, sensoriale e spirituale. La poesia ci invita a abbandonare la razionalità e a lasciarci trasportare dalla forza delle emozioni e delle sensazioni primordiali, rappresentate da un vento che, come lo scirocco, è tanto potente quanto ineffabile.

 

Questa poesia è una riflessione intensa sulla fragilità, sull’impermanenza e sull’incomunicabilità che spesso definiscono le relazioni umane. L’immagine iniziale della tazza che si rompe è simbolica di qualcosa che si frantuma all’improvviso, proprio come una relazione o un momento di intimità che, per quanto curato, è destinato a infrangersi. La tazza è "posata male fra le dita", suggerendo una inadeguatezza nel modo in cui trattiamo o gestiamo ciò che ci è più caro, come se fossimo consapevoli, in qualche modo, della nostra incapacità di preservare la bellezza di un legame.

Il "fuoco" che si versa, accompagnato dal "lago al suolo", rappresenta un contrasto di emozioni: il calore dell’affetto o del desiderio, che si svela fragile e incontrollabile, si rovescia, cadendo a terra e trasformandosi in un elemento che suggerisce calma, ma anche una certa disperazione. Il fuoco e il lago sono due forze opposte, ma che esistono nella stessa esperienza emotiva: l'amore che brucia e la sofferenza che rilassa, ma che lascia un vuoto difficile da colmare.

L’immagine delle gocce di fuoco che vengono raccolte, "una per me una per te", indica un gesto di cura e di condivisione, ma anche un senso di separazione. Ogni parte viene custodita individualmente, ma il loro significato profondo resta parzialmente nascosto, racchiuso nei momenti di solitudine che seguiranno. La divisione delle gocce sembra suggellare l’impossibilità di un completo incontro, in cui ogni persona mantiene la propria parte, il proprio dolore, la propria sofferenza.

Il passaggio successivo verso le nuvole gonfie, sbadate e che "fioccano a dirotto", ci trasporta in un’atmosfera più vasta e universale. Le nuvole diventano il simbolo di ciò che è effimero e sfuggente, ma anche di ciò che ci sovrasta e ci permea, di un cielo che ci osserva senza trovare un punto di contatto con noi. La comparazione tra goccia e fiocco evidenzia la consapevolezza della poesia di come i dettagli più piccoli possano sfuggire all'individuo, ma allo stesso tempo abbiano una rilevanza universale. L’inondazione di "diecimila fiocchi" su di sé diventa una metafora della solitudine dell’individuo che si sente sopraffatto da un mondo di emozioni e esperienze che non trova un modo di integrare completamente.

Il finale della poesia, con la domanda "e tu dove sei?", riflette l’ansia esistenziale dell’autore, la ricerca di una presenza che sia in grado di condividere l’esperienza del momento, una ricerca che rimane senza risposta, incerta e struggente. La ripetizione di "tutti, diecimila / su di me" sottolinea la solitudine del soggetto, che si trova immerso in una moltitudine di emozioni che non riesce a comunicare o a gestire.

In sintesi, Gianfranco Vacca-Capri con "Si ruppe la tazza" esprime la condizione dell'uomo di fronte alla propria vulnerabilità emotiva, al frammentarsi dei legami e alla consapevolezza di non poter mai possedere l'altro completamente, anche quando si tenta di raccogliere ogni singola goccia di un amore o di una relazione che si sfalda inevitabilmente. La poesia parla di quel momento di interruzione che avviene in ogni incontro, quella frattura che ci costringe a rimanere soli con le nostre emozioni, con le nostre riflessioni e con le domande senza risposta.

con affetto, vostro Marino Spadavecchia

 

 

1-3 Febbraio

"Poesie rosse" di Alfonso Silvestre

Il titolo stesso ci guida verso l’intensità di un colore, il rosso, simbolo di passione, violenza e, allo stesso tempo, di rivelazione. La figura che emerge nella poesia è quella di una bellezza mascherata da un "manto" verde, che ben presto si svela attraverso l’eruzione di un vulcano. La scelta di utilizzare l’immagine del vulcano – simbolo di energia primitiva, di natura incontrollabile – si intreccia magnificamente con l'idea di una trasformazione. Il poeta ci presenta una metamorfosi: una maschera che cede sotto la forza di un sentimento primordiale, lasciando spazio alla purezza del rosso, simbolo di passione e vitalità.
Qui, come psichiatra, vedo un'introspezione sul desiderio umano di nascondersi e, al contempo, sulla necessità di esplodere, di rivelarsi per essere veramente sé stessi, per essere compresi e per giungere alla propria essenza. Il camuffamento, la protezione dietro un "manto", sembra rimandare a una sorta di difesa psicologica, un bisogno di protezione prima dell'incontro con l'autenticità.

"Intensità D'Amore" di Laura Lapietra

L'amore qui si fa linguaggio che avvolge, è intenso e travolgente, quasi un’onda che oscura ogni altra percezione. L'immagine del fiore che sboccia come "sorriso della vita" è splendente di una dolcezza che porta il lettore a sentirne il profumo, a percepirne l’intensità. In questa poesia, l'amore è così potente da estinguere il grigio dell’esistenza, da divenire una forma di catarsi.
Nella profondità del testo, si rivela un amore che non chiede nulla in cambio, che non è legato a un possesso ma ad una comunione quasi metafisica. Qui, come suora e psichiatra, vedo il concetto di amore come un'ancora che salva l'anima dal deserto emotivo, ma anche come una necessità psichica, un bisogno di ricongiungersi all'altro che supera ogni barriera, anche quella del corpo e della morte. L'amore diventa un’esperienza che penetra nelle "profondità delle percezioni", come un legame che si fa vita e oltre vita.

"Giocare a nascondino" di Salvatore Armando Santoro

Questa poesia ci porta in un viaggio di confusione esistenziale, ma anche di una ricerca di amore non corrisposto. Il gioco di nascondino diventa una metafora di un’esistenza frammentata, di sogni e risvegli interrotti, di una psiche che fatica a trovare pace. La ripetizione dell'atto di amare senza ricevere, e l'ironia del "non ci capisco niente", creano una sensazione di solitudine intrinseca, ma anche di una continua ricerca di significato.
Come psichiatra, colgo il tema della dissociazione e del desiderio di un amore che spesso è invisibile, non ricambiato. L’amore è donato, ma non viene accettato nel suo valore pieno, come una dinamica psicologica di frustrazione e incomprensione. Il ricorso ai "piccoli quadretti" diventa l’immagine di frammenti di un amore che tenta di prendere forma ma non riesce mai a essere pienamente compreso.

"Il segreto degli aquiloni" di Guglielmo Aprile

Il poeta ci introduce a un mondo sognante, lontano dalle convenzioni quotidiane. L’immagine degli aquiloni che dormono sopra i tetti è un invito a guardare oltre la realtà fisica, verso un regno segreto e immaginifico. L’aquilone, simbolo di libertà e di elevazione, vola sopra la folla e il traffico, suggerendo l’idea di un’anima che rifiuta di essere intrappolata nelle costrizioni materiali e sociali.
L’elemento di "incantesimo" legato a una notte d’agosto dà una sfumatura quasi mistica al testo, come se il mondo degli aquiloni fosse il risultato di una magia che ci permette di cogliere la bellezza invisibile nelle cose. Dal punto di vista psichiatrico, vedo un’espressione di quella necessità di evasione, di un sogno che ci permette di ritrovare l’integrità e la libertà da ciò che ci opprime. Il poeta, come una psichiatra sensibile, ci invita a “viaggiare” a diverse altitudini, ad alzarci sopra le preoccupazioni quotidiane e a fare esperienza del sublime.

"Fatti, una poesia" di Armando Bettozzi

Questo testo presenta una riflessione sul pensiero ideologico e sul modo in cui le discussioni pubbliche si intrecciano con le emozioni e le idee personali. La scrittura è intrisa di un’ironia amara, in cui il poeta riflette sul relativismo della giustizia e sul rischio di giustificare l’ingiustificabile. In particolare, si nota una critica verso l’eccessivo psicologismo e l’abuso dell’analisi psicologica per giustificare comportamenti devianti.
Come psichiatra, trovo interessante la riflessione su come il dolore e le difficoltà della vita vengano spesso usati come scusa per comportamenti che, invece, richiederebbero una risposta etica e sociale. Il "trauma cognitivo" e la giustificazione della violenza come risultato di esperienze dolorose ci pongono di fronte a una domanda cruciale: fino a che punto le circostanze personali giustificano le azioni di un individuo? Il poeta sembra suggerire che non tutto può essere compreso o accettato, e c’è una lotta contro un pensiero che cerca di relativizzare la verità in favore di una protezione ideologica.

"Me fanno n piffero!" di Armando Bettozzi

Questa poesia, con il suo linguaggio deciso e la sua critica all’ipocrisia della società contemporanea, si esprime con un forte tono di denuncia. La figura della madre che cerca di giustificare le azioni della figlia, la giustificazione dell’ideologia che permette di difendere persino i criminali, è trattata con un’ironia che sottolinea la gravità di un sistema che giustifica l'ingiustificabile. La polemica sociale, intrisa di un forte disincanto, denuncia una società che, pur di non affrontare le sue contraddizioni, preferisce cercare scuse piuttosto che soluzioni.
Come psichiatra, vedo un richiamo all’analisi delle dinamiche familiari e sociali che influenzano l’individuo e le sue scelte. Ma non possiamo dimenticare che, anche di fronte alla sofferenza, esistono responsabilità individuali. L’ironia con cui viene trattato il tema dell’inadeguatezza emotiva della società moderna, purtroppo, ci parla di una realtà in cui la verità sembra essere schiacciata dalla retorica.

"Stretta a me" di Franco Fronzoli

Qui, l’amore è rappresentato come una forza indomita, una promessa di protezione e di sostegno in ogni circostanza. La ripetizione di “ti terrò forte a me” enfatizza la determinazione di un legame che resiste alle difficoltà e ai cambiamenti della vita. L’amore non è solo un sentimento, ma diventa un atto di difesa, un impegno quotidiano per proteggere l’altro da ogni insidia.
In questa poesia, trovo un richiamo alla parte più profonda dell’essere umano: il desiderio di donarsi, di prendersi cura, di offrire un rifugio sicuro. Come suora e psichiatra, vedo questo come un’espressione di una spiritualità che non è solo metafisica, ma anche psicologica, un amore che cura, che solleva e che protegge, in grado di sanare le ferite e le paure più intime. È un atto che si fa vita, che avvolge e non si arrende mai.

"Nettare e fiele" – Santi Cardella

Ah, dolce canto di nostalgia! Qui l’amore si fa eucaristia d’anima, trasmutando il poeta in un assetato errante nel deserto dell’assenza. Il contrasto tra miele e fiele è un alchemico sigillo dell’umana fragilità: il piacere si corrompe nel dolore, la melodia si dissolve in un silenzio che non è quiete, ma strazio dell’assenza. Vi è in questi versi una sensibilità musicale: le "note d’un concerto" si oppongono a un "silenzio senza pace", e questa mutazione sonora riflette il mutamento interiore del poeta, il quale si dibatte tra il desiderio di svanire e l’ineluttabile permanenza dell’attesa. Cos’è, in fondo, l’amore, se non il più dolce veleno che l’anima possa bere?

"La vita continua" – Nino Silenzi

Siamo dinanzi a una meditazione esistenziale, un’alba lattiginosa che si fa metafora della coscienza in bilico tra il già vissuto e l’incerto futuro. L’immagine delle nuvole sfrangiate, sospinte da un vento violento, è di una bellezza inquieta: il tempo non si posa, non offre riparo, ma incalza e dissolve. L’io lirico si interroga su cosa lo sospinga, su quali valori possano ancorarlo, e in questo vagare tra desiderio di andare avanti, nostalgia e paura, egli giunge a una verità umile e grandiosa: la vita continua. Il profumo amaro della vita è un’essenza al contempo tossica e inebriante, ed è proprio nella sua incontenibile ambivalenza che l’anima trova la propria necessità di esistere.

"Ciò che fui e che fummo in molti" – Cristiano Berni

Qui il poeta si fa veggente, porta il peso di una condanna prometeica, si erge a voce solitaria in un mondo ostile alla luce. L’amaro disincanto dell’eroe che "non sarà mai Dio" risuona come un’eco della tragedia classica, ma vi è in questi versi anche un accorato richiamo alla storia recente, a un mondo soffocato da "oscurantismo e nichilismo". L’evocazione della decadenza e del moderno fascismo suona come un monito, ma al tempo stesso vi è in queste parole un fuoco che non si estingue: la volontà di "svegliare coscienze", l’ardere per un ideale. Un poema che si fa testamento dell’impegno, un messaggio a coloro che ancora credono nel valore del pensiero critico, pur sapendo che pochi li ascolteranno.

"Divagazioni 2" – Felice Serino

Un haiku dell’anima, un respiro breve e sospeso tra la veglia e il sogno. Il poeta danza nell’insonnia, attende il "sonno del giusto" come una redenzione promessa, mentre pensieri erratici, "nonsense sfarfallano fra le coltri". Qui il vuoto della notte si anima di attesa e trasformazione: la giornata si allunga, l’albero rinverdisce. Vi è una ciclicità vitale, una parabola che sfuma dalla notte alla luce, dalla quiete alla rinascita. Nulla è statico, tutto si muove con la grazia della natura che non conosce requie.

"Mi manchi!" – Alessio Romanini

Oh, quale dolente canto d’assenza! L’amore qui è preghiera dispersa tra le onde e affidata al vento, in un disperato tentativo di raggiungere ciò che non può più essere trattenuto. L’io lirico si fa penitente, piange la propria inadeguatezza nel custodire l’amore che ora si dissolve come un miraggio d’acqua. "Mi manchi come il sole! / Mi manchi come la pallida luna!" – il dualismo cosmico amplifica l’eco del dolore, rendendolo universale, eterno. Il "seno d’amore" è il calore perduto, l’arca sacra che proteggeva un cuore ora "algido", in un disperato anelito che sfiora la morte. Un lamento struggente, un’invocazione che si libra come un’ultima sinfonia nell’aria.

"L’ombra di un fiore" – Sandra Greggio

In questi versi si respira una dolce e straziante rassegnazione, come se l’amore stesso fosse un fiore che si consuma nella lenta erosione del tempo. Il dono dell’ultimo fiore è il simbolo di una giovinezza ormai trascorsa, sfogliata "petalo dopo petalo" con una delicatezza che è, in fondo, un prolungato addio. La figura del fiore smembrato diventa icona di un amore che, sebbene consumato, lascia dietro di sé un’ombra, un silenzioso sussurro di ciò che è stato. Lo stelo oscillante è metafora dell’anima rimasta sola, fragile sotto i colpi del vento della vita, con i petali caduti a rappresentare i giorni vissuti e perduti. Una lirica delicata e potente, dove la dolcezza si mescola alla malinconia.

"(leggermente) in anticipo l’Angelo Definitivo" – Jacqueline Miu

Questa poesia è un'incursione nel surrealismo, una danza oscura e ironica che scuote la nostra percezione della realtà. Le "sabbie del deserto in ogni goccia di pioggia" suggeriscono un universo in cui ogni elemento contiene il proprio opposto, un cosmo dominato dall’assurdo. L’immagine del "meccanismo del sogno" inceppato parla di un’esistenza spezzata, di un’anima intrappolata in un teatro grottesco e priva di speranza di riparazione. Jacqueline Miu ci sfida, con una lucida brutalità, a osservare la nostra stessa idiozia, perfezionata giorno dopo giorno. Vi è una caustica consapevolezza della vanità umana, un riso amaro che risuona come una sentenza finale. La poesia è un manifesto di disillusione, una maschera che ride di noi mentre ci osserva naufragare.

"Febbraio" – Antonia Scaligine

Antonia Scaligine ci dona una sinfonia di immagini vivide e palpabili, in cui il mese di febbraio diventa un palcoscenico per le umane passioni. Il sole che "lentamente... si allaccia un po’ di più alla sera" è il risveglio della speranza dopo il torpore invernale, e la luce che ci preserva è un segno di grazia silenziosa. L’amore che "spiegazza sogni" e "si trastulla tra piume di Venere" è insieme tenero e giocoso, un fanciullo che ignora il peso delle stagioni. Febbraio è tempo di Carnevale, dove le maschere proteggono e svelano, dove il riso e il pianto si intrecciano come coriandoli nel vento. Eppure, in questo breve mese, si cela la promessa di una rinascita, un "buon finale in Marzo" che già guarda alla Pasqua in Aprile, preludio di resurrezione. Un dipinto di dolcezza e malinconia, in cui ogni verso è un colore, ogni immagine un tocco di pennello su una tela vibrante.

"Cielo d'Iran" – Piero Colonna Romano

In questa lirica si respira l’indignazione di un poeta che non può restare in silenzio davanti all’ingiustizia. Il cielo, simbolo di libertà e trascendenza, diventa "cupo" sopra un paese dove la bellezza e la dignità delle donne sono soffocate dall’oppressione. La metrica serrata e le rime incalzanti danno forza all'invettiva contro "turpi ometti" privi di sensibilità e di intelletto, il cui potere si fonda sulla sopraffazione. La religione, qui ridotta a strumento di dominio, è denunciata come una gabbia in cui si soffoca ogni anelito di emancipazione. Il poeta non si limita a una denuncia umana, ma invoca persino un Dio che, "dall’amaca", dovrebbe finalmente intervenire, con un anatema che spazzi via la cloaca morale in cui la dignità umana è stata gettata. Un testo potente, diretto, senza filtri: un grido che si eleva sopra i cieli oscurati.

"Io Sono polvere" – Ciro Seccia

Questa poesia è un sussurro nel vento cosmico, un atto di resa alla grandezza dell’universo. Con pochi versi, il poeta condensa la fragilità dell’essere umano, ridotto a polvere errante in uno spazio infinito. Qui non vi è rivolta, né protesta, solo la consapevolezza di un’esistenza effimera, persa tra il tempo e il cosmo. Il tono è ieratico, quasi sacro: l’uomo è polvere, ma nel dichiararlo si avvicina a un’illuminazione, a un abbandono sereno nel flusso dell’eternità. Una poesia minimale e profondamente filosofica, che riverbera con echi biblici e spunti leopardiani.

 

.per gli amici poeti che mi ringraziano per i commenti:

In tutta sincerità, sento personalmente di ringraziare ognuno di voi per le emozioni che mi donate. Ѐ grazie alle vostre poesie che avverto accarezzarmi l'anima e rispondere dentro di me al senso del poetare: va' avanti Ben, al mondo serve ancora una carezza, un sorriso, un abbraccio... dolce, sincero e forte come la Poesia!

Vostro Ben Tartamo

 

 

Un'invettiva contro l'oppressione femminile: questa poesia esplode in un’accusa diretta contro chi trasforma il divino in strumento di schiavitù. Il poeta smaschera l’ipocrisia del potere e la trasforma in versi taglienti, senza possibilità di appello.

Motivazione psicologica e letteraria: il componimento si fonda su un senso di giustizia violata. La rabbia e la pietà si mescolano, e la chiusa invoca un intervento divino che, però, sembra lontano, quasi assente. Il poeta urla, ma il cielo resta muto.


 

Un abisso di esistenzialismo: questa poesia è un soffio d’universo che si posa su di noi come una sentenza. L’io poetico si riduce a granello, a nulla, e si perde nel tempo e nello spazio.

Motivazione psicologica e letteraria: la riduzione dell’uomo a polvere è un topos letterario che qui si manifesta con una nudità estrema. Il minimalismo linguistico rafforza il senso di vertigine esistenziale.


 

Una danza tra inverno e primavera: questa poesia cattura l’instabilità di un mese che oscilla tra gelo e tepore. La sua bellezza sta nel contrasto tra immobilità e attesa, tra il Carnevale e la Quaresima, tra giochi e riflessione.

Motivazione psicologica e letteraria: il componimento è un inno al tempo che scorre, ma con leggerezza. L’uso delle immagini rende il lettore parte di questa danza stagionale, sospesa tra spensieratezza e malinconia.


 

Un incubo postmoderno: qui la poesia si fa frammento, rottura, caos. Il meccanismo del sogno si inceppa, la realtà è un’illusione difettosa, e la vita si srotola tra peccati e idiozia.

Motivazione psicologica e letteraria: questa è una poesia urbana e cyberpunk, una distopia lirica che sembra scritta da un’anima smarrita nella modernità. Il suo impatto emotivo è devastante, proprio perché ci mette davanti al vuoto dell’esistenza contemporanea.


 

L’amore che sfiorisce: questa poesia è un addio senza clamore, un fiore che perde i suoi petali nel vento, lasciando solo uno stelo fragile.

Motivazione psicologica e letteraria: il componimento gioca sulla metafora della giovinezza e dell’amore come fiore sfogliato. Il suo tono è malinconico ma composto, come se l’accettazione fosse ormai inevitabile.


 

Il sonno che non arriva: la poesia cattura il tormento dell’insonnia, un vagare della mente tra pensieri sconnessi e attese di un riposo che si nega.

Motivazione psicologica e letteraria: il contrasto tra nonsense e il richiamo al “sonno del giusto” suggerisce un desiderio di pace interiore che rimane insoddisfatto. È una poesia sottile, in bilico tra sogno e veglia.


 

Un grido d’amore nel vento: questa poesia è un’invocazione struggente, una lettera che il poeta affida al mare e all’aria nella speranza che arrivi alla persona amata.

Motivazione psicologica e letteraria: l’elemento epistolare amplifica l’idea della distanza e della perdita. Il dolore si sublima in immagini naturali, quasi fosse la natura stessa a soffrire con l’io poetico.


 

Un’ascesa spirituale: la poesia è un percorso di illuminazione, un volo leggero sulle ali della preghiera fino alla scoperta di una pace interiore.

Motivazione psicologica e letteraria: il componimento mescola misticismo e umanità, giocando sul paradosso del tempo (la sera che è anche mattino). La fede è il fulcro della poesia, ma è una fede dolce, accogliente, quasi materna.

 

Conclusione

Otto poesie [8 come simbolo dell'infinito], otto visioni diverse della realtà: dalla denuncia sociale alla riflessione mistica, dall’amore perduto all’angoscia esistenziale. In ognuna di esse c’è un frammento di verità, un’emozione che colpisce come una lama o avvolge come una carezza.

Questa è la grandezza della poesia: dar voce all’ineffabile, scolpire il tempo, rendere eterno il battito di un istante.

E tu, lettore, in quale di queste poesie hai ritrovato il tuo cuore?

con affetto, Marino Spadavecchia

 

25-28 Gennaio

Buon giorno a tutti e buon inizio settimana. Ringrazio ancora Ben Tartamo per i suoi commenti alle mie poesie. Stimolanti e incisivi al tempo stesso, Grazie
silvio canapè
 

 

"E canto, e danzo" di Ben Tartamo

Un canto / incanto struggente questo inno alla vita! "E canto, e danzo" non è solo una poesia, ma un grido ribelle di bellezza contro le tenebre del dolore. Ogni verso vibra come una corda tesa tra il cuore e l'infinito, tra la fragilità dell'essere e l'eterno sorriso celeste. Tartamo ci porta nel suo mondo di battaglie interiori, dove la falce della morte sfiora, ma non ferisce, perché il poeta, armato della penna, si erge invincibile.

C'è una semplicità luminosa che si intreccia alla profondità metafisica: il cuore bambino, eterno amante della Poesia, si abbandona al canto e alla danza come un angelo sospeso tra cielo e terra. Il verso "profuma di divino" è un tocco che lascia senza fiato, un invito a respirare il sacro nell'ordinario, a danzare con la vita anche quando essa si fa tempesta.

Tartamo qui si dona senza riserve, e nel suo dono ci invita a rinnovare la nostra speranza, a trovare nel sorriso e nella parola l’arma più potente contro il buio. Struggente e meravigliosa, questa poesia si incide nell’anima come una melodia eterna.


"non materico dominante sogno d’oltre confine" di Jacqueline Miu

Questa poesia è un vortice, un abisso di fuoco e mistero che trascina l'anima in un viaggio oltre la materia, oltre i confini del conosciuto. Jacqueline Miu dipinge con parole che bruciano, che si muovono come ombre vive sul palcoscenico del sogno. I "cavalli di fuoco nel cielo" non sono fatti per gli occhi umani, eppure li vediamo, li sentiamo galoppare tra le pieghe del nostro essere.

La morte qui gioca, ironica e crudele, con le nostre ossa fragili, mentre il troppo fuoco nelle vene si spegne, quasi a ricordarci che siamo un mosaico di passioni pronte a trasformarsi in quiete. E poi, quella "nona vita" che si miagola, che cerca di farsi ascoltare da un universo sordo: è una metafora struggente di un'anima che non vuole spegnersi, che si rifiuta di essere dimenticata.

Ogni verso è un enigma, una porta aperta su un altro mondo, un invito a perderci nei labirinti dell'immaginazione. Miu non scrive solo poesia, lei evoca, plasma visioni di pura trascendenza. Questo è il sogno che ci ricorda quanto siamo piccoli di fronte all'infinito e, al contempo, quanto siamo immensi nel nostro desiderio di comprenderlo. Sublime.

Queste due poesie mi hanno colpito profondamente per la loro intensità emotiva e la capacità di evocare immagini potenti e universali.

Marino Spadavecchia

 

Deriva del sangue" di Felice Serino

La poesia è una miniatura di struggente intensità, con il tramonto che diventa il palcoscenico per voli di sogni infranti. Le immagini si condensano come lampi, lasciando che la brevità catturi l’eco di un’assenza, o di una perdita. Questo minimalismo sa di haiku, eppure è impregnato di un lirismo che parla direttamente all’anima.


"Cantico degli amanti. Dal lato del marito" di Sabatina Napolitano

Un cantico che scivola tra le pieghe della devozione, dell’eros e del tormento. È un flusso interiore in cui il marito osserva, celebra e si consuma nel fuoco dell'amore assoluto per la sua compagna. Il linguaggio è crudo, carnale e insieme profondamente lirico. La Napolitano costruisce un ritratto in cui l’amore non è mai quieto, ma un campo di battaglia di desideri, paure e promesse eterne. La ripetizione ossessiva di sentimenti simboleggia la ciclicità del legame, mai interrotto eppure sempre sull’orlo del precipizio.


"Hai(na)ku" di Laura Lapietra

Un haiku ibrido che fonde la semplicità del verso breve con una carica evocativa. L’immagine della "platonica arcata celeste" è una porta verso l’assoluto, mentre le "attenzioni maliarde" insinuano un sottofondo di tentazione e desiderio. Un piccolo gioiello che racchiude vastità.


"Dare l'amore" di Salvatore Armando Santoro

Questo sonetto gioca con un tono apparentemente leggero, ma cela un’osservazione profonda: l’amore non si lascia categorizzare. Il poeta si abbandona al flusso del sentimento, consapevole della sua fugacità e del suo eterno gioco. La struttura classica amplifica la musicalità dei versi, rendendo la riflessione sul tempo e sull’inganno un dolce canto. Il finale, "colgo il tempo che muore", è una chiosa che vibra di malinconica bellezza.


"Slowjazz" di Enrico Tartagni

Una composizione che si srotola come una melodia jazz, improvvisata e frammentata. Tartagni dipinge il momento in cui il ritmo e il mistero della vita si incontrano. Le immagini astratte – "inchiostri a sfere in tinte sangue", "parure in un abbraccio di froidjazz" – sono come note dissonanti che trovano armonia nell’insieme. La poesia è un’esperienza da ascoltare, più che da leggere, con il suo alternarsi di ritmo e pausa.


"Danza delle tue mani" di Guglielmo Aprile

Un elogio alla bellezza del movimento e alla forza evocativa dei gesti. Le mani diventano creature vive, strumenti di un linguaggio ancestrale che comunica con gli dèi e con il mondo. La poesia intreccia una sinfonia visiva, in cui l'autunno smette di piangere per lasciarsi travolgere dalla vitalità. Aprile ci trasporta in una dimensione onirica, dove la realtà quotidiana si dissolve nella festa di un dio pagliaccio. I gesti raccontano più di mille parole, e il lettore rimane sospeso nella magia di questa danza.


"Bella comunque" di Cristiano Berni

La poesia di Berni è un canto nostalgico e sensuale, in cui il ricordo di un amore passato si mescola con il rimpianto e il mistero. La ripetizione di "bella comunque" è come un mantra che, pur evocando un'immagine perfetta, lascia un vuoto incolmabile: "ma non seppi mai chi veramente sei." Questa chiusa ci consegna la fragilità dell'amore, in cui il desiderio si consuma senza mai comprendere l’essenza dell’altro. L’uso del passato – "eri bella", "t’amai" – sottolinea la natura effimera e struggente del sentimento. I versi hanno una musicalità semplice ma avvolgente, adatta a una lettura teatrale o a una melodia malinconica.


"Al rogo delle umane follie" di Aurelio Zucchi

Zucchi dipinge un affresco di denuncia contro le atrocità del mondo, trasformando otto parole obbligate in un componimento denso di significato. Il "rogo delle umane follie" diventa simbolo di un’umanità corrotta, il cui fumo scarlatto si innalza come un grido muto di dolore. Tuttavia, l’autore bilancia l’orrore con una speranza che si affida al sogno e al miraggio, un’idea che richiama alla mente il viaggio utopico di un pellegrino verso la pace. La poesia vibra di una tensione tra rassegnazione e resistenza, resa ancora più potente dall’andamento lento e riflessivo dei versi. L’equilibrio tra le immagini crude e la delicatezza della protesta "soffusa" dona profondità e universalità al componimento.


"Mentre si fa sera" di Nino Silenzi

Una poesia densa e simbolica, che evoca un viaggio verso la fine della vita. Il "sentiero scabro" e gli "spinosi cespugli" sono metafore potenti delle difficoltà e delle asperità dell’esistenza. La natura è ostile, con le sue "selci taglienti" e "serpi striscianti", ma conserva un fascino crudele che riflette la lotta continua tra vita e morte. Il verso "t’insegue la vita, mentre si fa sera" è straordinariamente evocativo, racchiudendo il dramma dell’esistenza che si spegne nella quiete dell’imbrunire. La chiusura – "e la luce svanisce" – è dolente e definitiva, ma lascia spazio a un senso di accettazione silenziosa, quasi mistica.


"The Word" di Zaffar Kunial (tradotto da Nino Muzzi)

La poesia di Kunial si gioca sull'ambiguità di un singolo momento, sospeso tra il ricordo di un consiglio paterno e la riflessione su una parola che, purtroppo, rimane incompleta. La traduzione in italiano mantiene l’intimità e la tensione del testo originale, enfatizzando la distanza emotiva che si crea quando il figlio, pur comprendendo il senso profondo dell'insegnamento del padre, si ritrova a rifiutarlo o a non riuscire a viverlo pienamente. Il concetto di "la vita" – quasi un errore grammaticale – diventa il centro della riflessione sulla difficoltà di afferrare la vita in modo pieno, senza lasciarsi distrarre dalla perfezione. Il contrasto tra l'errore di grammatica e la ricerca del giusto vissuto esprime l'incertezza e la frustrazione di chi è "bloccato" in una stanza, mentre il mondo continua all'esterno. La poesia è una meditazione sul passare del tempo, sulla giovinezza, e sulla difficoltà di godere del presente. Il linguaggio è ricco di sfumature, in cui la parola diventa strumento per riflettere sulla vita stessa.


"L’amore" di Franco Fronzoli

Questa poesia incarna l'essenza di un amore libero e fluido, che si dispiega attraverso immagini sensuali e naturali. Fronzoli esplora le molteplici dimensioni dell’amore: dalla passione travolgente al silenzio contemplativo, dall’abbraccio dell’inquietudine alla dolcezza del ritorno alla serenità. Il poeta parla di un amore che non ha confini, senza legami né promesse, un amore che è vita stessa – come la pioggia che incontra il sole, o un fiore che sboccia in inverno. Ogni verso si apre a un’immagine diversa, suggerendo che l’amore è mutevole e in continua evoluzione. La poesia è scritta in un linguaggio che sfiora il lirismo, rivelando un amore che è libertà, passione e contemplazione. È interessante come il poeta contempli l'amore nelle sue manifestazioni più delicate e feroci, senza mai appesantirlo con moralismi, ma presentandolo come una presenza inafferrabile e meravigliosamente complessa.


"Omaggio a Rodari (presunzione)" di Silvio Canapè

Questa poesia, ispirata alla figura di Gianni Rodari, si tuffa nel gioco della speranza e del rinnovamento che la primavera porta con sé. L’autore, con un linguaggio semplice e naturale, celebra l'attesa di un cambiamento, di un risveglio che attraversa i sensi e l’anima. Le immagini floreali e la promessa di colori vivi richiamano la capacità di Rodari di vedere il mondo con occhi nuovi, pieni di meraviglia e curiosità. La ripetizione dell’aspettare ("Aspetto primavera") evoca una tensione di speranza, ma anche un senso di pazienza e di accettazione che la natura ci insegna. La poesia, pur nel suo tono diretto e lineare, riesce a veicolare una freschezza e una leggerezza proprie di Rodari, celebrando il ritorno della vita attraverso la bellezza delle viole e delle rose. Questo "omaggio" non è solo un riconoscimento di Rodari, ma una riflessione sul potere che la natura e la sua bellezza hanno di guarire e risvegliare.


"Genocidio" di Piero Colonna Romano

Questa poesia denuncia con forza la brutalità di un genocidio, dipingendo l’orrore e la violenza in un linguaggio intenso e vibrante. La "mente malata" da cui sorge il male è il simbolo del criminale lucido che, dal suo trono, impone la distruzione di una nazione. Il tema della vendetta e della giustizia è centrale, e l'autore invoca la punizione per il genocida con immagini forti e dirette, come la speranza che "da corda penda in breve tempo". Il testo è segnato da un sentire potente, che, pur nella sua crudezza, esprime un desiderio di giustizia e una denuncia contro la passività del mondo di fronte a simili atrocità. L'invito a "armare quella gente" che combatte per la patria e a creare un "tribunale" per il giudizio del criminale offre uno spunto di riflessione sulla responsabilità collettiva e sulla necessità di azioni concrete per fermare l’orrore. L'impegno emotivo e morale del poeta è palpabile in ogni verso, e l’uso delle immagini violente è un grido di allarme per un mondo che non deve restare indifferente. Il linguaggio, purtroppo, riflette la realtà brutale e il dolore di una guerra che sembra non avere fine.


"Il Faro del Mio Cuore" di Ciro Seccia

Questa poesia è un inno alla speranza, al dolore e all'amore, simbolizzato dalla figura del "faro", che, pur nella sua sofferenza e nella sua prossima estinzione, continua a emanare luce. Il faro diventa metafora di un cuore che nonostante le ferite profonde e l'avvicinarsi della fine, ancora lotta per brillare. L'immagine del "battito fremente" e della "luce intermittente" comunica il senso di resistenza, ma anche di vulnerabilità. L’autore sembra riflettere sulla condizione umana, sulla lotta tra la speranza e la fine inevitabile. Il riferimento alla "notte di Natale" aggiunge un'ulteriore dimensione spirituale e sacra, come se il faro non fosse solo un simbolo d'amore, ma anche di un cammino interiore che si estingue, ma non senza lasciare una traccia di luce. La poesia ha un respiro meditativo, e la scelta di un faro come immagine centrale è potente, evocativa e ricca di significato: il faro, infatti, è sia luce guida che simbolo della solitudine di chi è in difficoltà. Un testo che invita a riflettere sull’amore che persiste anche nelle difficoltà più grandi.


"Candalla Cantore" di Alessio Romanini

La poesia di Romanini è un omaggio alla natura selvaggia e alla sua bellezza malinconica, che si mescola con l'antichità e la memoria di un tempo passato. Il "verde sentiero ondulato" e le "rocce" che nascondono il "gemere" evocano una natura viva, in cui la sofferenza e la bellezza coesistono. L'autore esplora la relazione tra l'uomo e la natura, simbolizzata dalle "rovine" in cui si ritrova l'amore selvaggio e "cantore". Le immagini di "mesti sogni" e "ortiche irritano" suggeriscono la tensione tra il desiderio di ritorno alle origini e la difficoltà di trovare pace nella natura stessa. Tuttavia, il "cantore" che emerge tra le "rovine" rappresenta una speranza, un ritorno all'autenticità e alla purezza. La poesia si distingue per la sua atmosfera crepuscolare e il tono meditativo, e l'autore riesce a trasmettere una visione di natura che, pur nel suo aspetto ruvido e implacabile, nasconde una bellezza innegabile.


"Gli occhi dell'anima" di Sandra Greggio

La poesia di Sandra Greggio si distingue per la sua profondità meditativa e filosofica. "Gli occhi dell'anima" ci invita a guardare oltre il visibile, a spingere lo sguardo oltre la linea che separa il cielo dal mare, come se fosse necessario un "occhio diverso", capace di percepire la realtà non solo con la mente, ma anche con l'anima. Il messaggio della poesia è che la comprensione non può essere raggiunta dalla ragione sola, ma richiede una visione più profonda e intuitiva. "Ogni cosa trova il suo perché" è un’affermazione che invita a considerare l'esistenza in modo olistico, dove ogni dettaglio, ogni situazione, ha una ragione che va oltre la logica. Greggio esplora l’idea di una realtà trascendente che non può essere colta dal comune sguardo umano, ma solo da una percezione spirituale. La poesia si distingue per la sua delicata e profonda riflessione sulla natura dell’esistenza e della percezione, esprimendo una filosofia che è al contempo razionale e intuitiva.


"non materico dominante sogno d’oltre confine" di Jacqueline Miu

Jacqueline Miu, con questa poesia, ci offre un’esperienza sensoriale e immaginativa che sfida le convenzioni della realtà. Il titolo stesso "non materico dominante sogno d'oltre confine" ci introduce in un mondo di confini sfumati, dove la materia è superata dalla dimensione immateriale del sogno e dell’esperienza mistica. Le "206 ossa" diventano simbolo della fragilità umana, della nostra condizione mortale, mentre la "morte gioca a Bingo" suggerisce un'idea di casualità e inevitabilità. La tensione tra il corpo e la morte è palpabile in ogni verso, ma c’è anche un senso di trascendenza, come se il poeta cercasse di sfuggire al peso della carne e della realtà. La "nona vita" e l'idea di "diventare un fiume" suggeriscono un flusso continuo, una trasformazione in corso, che però è destinata a essere inascoltata ("tu sei sordo"). La poesia evoca una sensazione di estraneità al mondo umano, un distacco che sembra tragico ma che, al tempo stesso, è liberatorio. L’uso di immagini forti e inusuali, come "cavalli di fuoco" e "fiocchi bianchi", arricchisce la poesia di una forza surreale, che lascia il lettore in uno stato di turbamento e meraviglia. L’opera di Miu è una riflessione sull'esistenza, sulla morte e sull'incapacità di comunicare, ma anche sulla potenza evocativa del sogno.


Vostro Ben Tartamo

 

 

22-24 Gennaio

"Sei il mio poeta!" di Ben Tartamo

Questa canzone è un'ode all’amore che trascende le barriere dell’incomprensione. Ben Tartamo usa immagini vivide, quasi cinematografiche, per trasformare le parole in emozioni palpabili, trasportando il lettore in un universo di tenerezza e malinconia.

Le "parole" che si fanno "sempre più sole" evocano una struggente solitudine dell'anima, paragonata a "folli cavalli in riva al mare", un'immagine ricca di energia e libertà repressa. C’è una delicatezza incredibile nel rendere visibile il loro percorso, che si dissolve nei sospiri per rinascere, fragile, su una pagina bianca: un cerchio continuo di creazione e riflessione.

La neve che cade, simbolo di purezza e leggerezza, sembra quasi purificare la pena dell’autore, trasformandola in un canto, una preghiera che raggiunge vette di sublime dolcezza. Qui Tartamo esprime il desiderio di una connessione intima e profonda, accentuata dal tono amorevole e protettivo verso la "fragile bambina".

La chiusa, con il riferimento esplicito alla dichiarazione d’amore – "sei il mio poeta!" – è una sintesi perfetta di tutto il brano: un riconoscimento reciproco che va oltre le parole, un amore che vive di baci, di gesti, di poesia. La musicalità dei versi, che alternano dolcezza e malinconia, rende questo testo non solo una dichiarazione d’amore, ma anche una promessa di eterna ispirazione.

Tartamo qui si rivela non solo poeta, ma anche custode dei moti più puri dell’anima umana, offrendoci un frammento del suo universo emotivo che non si può che ammirare.

Marino Spadavecchia

 

Un incanto bucolico sussurra attraverso questi versi. La poesia cattura il respiro primaverile con una dolcezza quasi tattile, portandoci tra rami che si piegano in silenzio e fiori che accolgono il sole con timida devozione. I "raggi dorati" non solo illuminano, ma sembrano risvegliare un'innocenza perduta, filtrando i pensieri fino alla loro radice più pura. Il gatto solitario diviene una metafora della placida contemplazione, un’eco di semplicità in un mondo che si "colora, si rallegra e si muove". Il gesto di "accarezzare il sole" è tanto intimo quanto metafisico: un richiamo all’infinito che si fonde col desiderio umano di toccare la luce stessa. La chiusa della poesia, con lacrime di stelle e rimbalzi d’ape, invita a riflettere sulla bellezza effimera e sull’eternità nascosta nel quotidiano.


Questa breve composizione è una finestra sull'eterno. Le "profondità celesti" plasmate dal cuore di un Sogno assumono contorni mistici, richiamando il divino come fonte primigenia dell'esistenza. La "piena di luce" non è solo un’immagine, ma una cascata di significato: è creazione, è rivelazione, è speranza. La poesia si staglia come un frammento di assoluto, una scheggia di verità luminosa che si riflette nell'animo umano.


Un’esplorazione vertiginosa dell’amore carnale e mistico, in cui ogni verso è un’incisione sul marmo della passione umana. La poesia di Napolitano vibra di un erotismo sacralizzato, dove l’amore non è solo esperienza fisica ma una liturgia che mescola peccato e redenzione. L’immagine dell’icona misteriosa che si tramuta in donna è una potente metafora della discesa dell’amore ideale nel reale, della sacralità che si incarna nel quotidiano.

Il tormento è il cuore pulsante di questi versi, ma non un tormento vano: è un fuoco che trasforma, un abisso che salva. I "neri patimenti" sono attraversati da un canto di preghiera, mentre il corpo diviene tempio e sacrificio. L’autrice tratteggia con straordinaria lucidità l’ambivalenza del desiderio: la morsa che stringe e salva, la sofferenza che si fa paradiso. C’è un’intensità mistica nel desiderio di essere madre dei figli dell’amato, un’immagine che suggella la poesia con una nota di redenzione e compiutezza.

Napolitano ci consegna un cantico che è insieme carne e spirito, inferno e paradiso, umano e divino. Un’opera che non teme di affondare nel cuore del dolore per cantarne la sacralità nascosta.

 

In questa poesia, l'amore si erge come forza cosmica, anima dell'universo e respiro dell’eterno. Stracuzzi intreccia mito e fede, portando il lettore a riflettere sull’essenza divina dell’amore, che non è soltanto sentimento, ma atto creativo e redentivo. L’immagine del "soffio d’amore" che trasforma il dolore della croce in luce e speranza è potente e universale, connessa alla sacralità dell’incarnazione. La chiusa, che culmina nella resurrezione, eleva la poesia da un piano umano a uno spirituale. L’amore qui non è semplicemente un mezzo: è il Fine stesso, l’essenza trascendente che dona senso alla vita e alla sofferenza. Stracuzzi ci regala un’opera di profonda ispirazione spirituale, intrisa di fede e di una commovente universalità.


 

Una poesia che pulsa di passione e meraviglia, dipingendo con colori vividi l'impatto travolgente di un incontro amoroso. L'immagine di "lei" come un "tuono nel centro del mondo" scuote il lettore, trasportandolo nell'universo emotivo dell’autrice, dove il cuore è preda e il desiderio brucia come brace. Lapietra intreccia il lirismo con un’intensità viscerale, evocando una figura femminile che incarna la perfezione, un raggio di sole nel gelo dell’inverno interiore. La poesia è un crescendo di emozioni, dove la metafora della "freccia dal veleno di passione" è simbolo di un amore che penetra e trasforma. Il finale, con l’immagine del "sentiero" da percorrere insieme, lascia spazio a un futuro di speranza e unione. Una composizione avvincente, che celebra l'amore come forza catartica e irresistibile.


Santoro offre un sonetto malinconico che esplora l’amore non corrisposto con un’intensità struggente. L’io lirico si presenta come un mendicante d’amore, un uomo che ha inseguito invano un sentimento intrappolato nelle "sbarre del cuore" altrui. La struttura classica del sonetto conferisce un’eleganza formale al dolore esposto, mentre le rime intrecciate donano ritmo al tormento. L’immagine della "malinconia" come ricompensa per un amore "buttato sulla via" è tanto desolante quanto universale, parlando a chiunque abbia vissuto l’amarezza del rifiuto.

La chiusa, che ritorna sul "cervello pieno di follia", sottolinea la delusione ma anche un senso di liberazione nella decisione di lasciar andare. Questo sonetto, con la sua malinconia autunnale e la sua consapevolezza amara, risuona come un monito dolceamaro sulla fragilità delle relazioni umane e sulla difficoltà di amare chi non può o non vuole amare a sua volta. Un’opera che mescola rassegnazione e dignità con una forza poetica incisiva.

 

Un componimento che, nella sua essenzialità, esplora il tema universale del tempo con una profondità disarmante. Festa riduce all’essenza l’interrogativo esistenziale: cosa ci appartiene realmente? La risposta, limpida e folgorante, distingue tra il tempo vissuto, una certezza che diventa memoria, e il futuro, una fragile ipotesi. La brevità del testo amplifica la sua forza, lasciando un’eco di riflessione che si proietta ben oltre i suoi confini. Questa poesia è un cristallo di filosofia poetica, capace di evocare interrogativi eterni con la delicatezza di un sussurro.


 

Un poema che pulsa di energia vitale, dove la speranza si manifesta come forza che trasforma e trascende. Tartagni dipinge un quadro onirico e vibrante, in cui la natura, i colori e i sogni convergono per creare un mondo rigenerato. La metafora degli alberi rinati e dei muri che si aprono a porte evoca un’immagine di rinascita e accoglienza, sottolineando il potere trasformativo della speranza. La struttura fluida e il ritmo libero sembrano mimare il movimento stesso della vita, con i suoi scavalcamenti e le sue aperture inaspettate. La poesia diventa così una celebrazione del possibile, un inno al sogno e alla capacità di superare i confini.


Guglielmo Aprile ci regala una poesia di rara bellezza, dove l’ordinario si trasforma in straordinario. La figura femminile descritta è al centro di un universo poetico che mescola il quotidiano con il mito, l’arte circense con la magia dell’esistenza. La voce poetica celebra una presenza che dona vita, gioia e persino guarigione: "chi ti ha inventata merita il Nobel per le favole." Il paragone con il circo, con i suoi artisti bambini e il mistero malinconico, crea una tensione affascinante tra la leggerezza del gioco e la gravità dell’esistenza. La chiusa, dove il sole accarezza le sbarre di una prigione, suggella il componimento con un’immagine che racchiude dolore e speranza, mostrando come la bellezza possa illuminare anche gli spazi più cupi. Una poesia ricca di simboli, capace di emozionare e stupire.

 

Questo componimento ha un tono fortemente satirico, quasi teatrale, che richiama i sonetti romaneschi di Belli, ma con una sensibilità contemporanea. Bettozzi dipinge una realtà drammatica fatta di contraddizioni, violenza e incomprensioni sociali, mentre denuncia l’inerzia e la malafede delle istituzioni. Le immagini, così crude e incisive, ci restituiscono una visione disincantata del mondo, dove la filosofia diventa il rifugio di chi si nasconde dalla concretezza del degrado urbano. È una critica feroce che non risparmia nessuno, un "manifesto del realismo amaro" in versi.


 

Qui la poesia si apre a un’introspezione oscura e inquietante. Herbst esplora il male come condizione esistenziale, radicato nell’anima fin dalla nascita. Il vecchio, simbolo di una vita intera dominata dalla crudeltà e dall’isolamento, rappresenta l'incapacità di redenzione. La versione originale, con il suo ritmo duro e incalzante, è perfettamente resa nella traduzione di Nino Muzzi, che conserva l’essenza del male: implacabile, gelido, eterno. Un ritratto spietato dell’umanità che guarda nel suo abisso.

La traduzione di Muzzi mantiene la forza evocativa del testo originale, arricchendola con un sapore quasi epico. La figura del vecchio diventa un emblema dell’eterna lotta tra natura e civiltà, tra l’istinto primordiale e la razionalità. L’immagine del catarro sputato al suolo è quasi una metafora del rifiuto di ogni convenzione sociale. La potenza del testo sta nella sua capacità di inquietare e interrogare chi legge.


 

Questa poesia è un canto delicato e sensuale, che celebra l’intimità e il ricordo come dimensioni senza tempo. Fronzoli ci guida in un viaggio nei meandri dell’amore, dove la vera nudità non è quella del corpo, ma quella dell’anima. Ogni verso è carico di un’eleganza sobria, in cui il desiderio si mescola al rispetto e alla contemplazione. Il finale, dolce e malinconico, ci ricorda che l’amore, pur trasformandosi nel tempo, non perde mai la sua magia.


 

La poesia è un inno surreale e nostalgico che dipinge un mondo in cui il progresso tecnologico e la bellezza dell’esistenza convivono in una fragile utopia. La poetessa mescola immagini di un pianeta trasformato da ideali puri e incantevoli paradossi con accenti di critica sociale. È uno specchio che riflette sia il sogno che la condizione umana, mentre il nulla e la meraviglia si intrecciano, creando un affresco suggestivo di speranza e ironia.

 

L'opera di Romano, intrisa di classicismo e mito, si avvale di un ritmo epico e potente. La narrazione del mito di Clizia e Leucòtoe, arricchita da particolari poetici, offre una rilettura che fonde il lirismo con una precisione narrativa quasi cronachistica. La poetica dell’amore non corrisposto e della gelosia che sfocia in tragedia si trasforma in una meditazione sull’eterno, grazie alla metamorfosi dei protagonisti. L’autore incarna una visione antica con una voce moderna, evocando immagini di struggente bellezza che si trasformano in simboli dell’amore eterno.

 

Seccia affronta il quesito esistenziale per eccellenza con una semplicità disarmante. La sua poesia è un viaggio introspettivo che non pretende risposte definitive ma accetta la bellezza del dubbio e della ricerca. I versi, scarni e diretti, diventano quasi meditativi, rivelando un’anima che scruta sé stessa con umiltà e sincerità. La forma libera e il linguaggio quotidiano danno voce al senso di spaesamento dell’essere umano nel tentativo di comprendere sé stesso. È un dialogo muto con l’infinito che resta incompiuto, eppure proprio in questa incompiutezza trova la sua forza.


Questa poesia è un riflesso malinconico e filosofico sulla chiusura di un capitolo della vita, una chiusura che non elimina il peso del rimpianto, ma lo sigilla nel cuore e nello spirito. L'immagine del libro tarmato e ingiallito è potente: diventa simbolo del tempo che passa, dell'irrecuperabilità delle passioni sopite, e delle prigioni invisibili fatte di stereotipi e falsità. La struttura ritmica, semplice ma incisiva, accompagna il lettore in una meditazione che oscilla tra il rimpianto e l'accettazione.

 

Soldà ci riporta alla terra, madre primigenia e divina, con un’introspezione che unisce la semplicità della natura all’immensità della creazione divina. L’immagine del "generale Aratro" richiama un ordine, un senso di disciplina che si riflette nel lavoro dell’uomo. Tuttavia, il salto poetico avviene nel richiamo all’infanzia, dove il gioco e la fede si intrecciano in una memoria dolcissima: un presepe plasmato da mani fanciullesche. La poesia celebra la connessione tra l'umano e il divino, tra il passato e il presente, con una grazia disarmante.

 

Sandra Greggio ci regala una poesia profondamente spirituale e intimista, che si configura come un inno alla liberazione e alla rinascita interiore. Ogni verso sembra sussurrare un invito alla purificazione, non solo materiale ma soprattutto emotiva e spirituale.

La separazione della "zizzania dal grano" richiama la parabola evangelica, un'immagine biblica potente che sottolinea l’urgenza di discernere tra ciò che nutre l’anima e ciò che la avvelena. La pulizia qui non è solo un atto fisico, ma una vera e propria catarsi: il cuore, la mente e gli occhi diventano protagonisti di un rinnovamento che culmina nella scoperta della verità.

Il simbolismo del mare che torna limpido richiama una pace rigenerata, quasi primordiale, mentre la parola "serenità" viene elevata come una preghiera al cielo, in un gesto di abbandono e fiducia totale. L'atto finale, l’urlo al cielo, è un grido di ringraziamento e resa: Greggio riconosce che solo il Divino può offrire quella guida necessaria a trovare la propria via.

La chiusa è struggente e consolatoria: una strada unica, creata apposta per l’autrice, che parla di un Dio vicino, personale e amorevole. Una poesia che invita il lettore non solo a riflettere, ma anche a compiere un proprio cammino di liberazione, verso la serenità tanto agognata.

Vostro Ben Tartamo

 

 

19-21 Gennaio

'Ti meriti un amore''di Franco Fronzoli

In queste parole si avverte il soffio di un amore che va oltre il contingente, che si eleva fino alla dimensione dell'infinito. Il poeta sembra voler offrire alla persona amata non un amore ordinario, ma uno che è al di là delle misure terrene, capace di attraversare il buio e la luce, la lontananza e la vicinanza, come se ogni elemento della natura fosse investito di un significato più profondo. L'immagine della luna che bacia la pelle nuda della donna è simbolo di un amore che non giudica, che accoglie nella sua purezza tutto ciò che l'altro è, anche nei momenti di fragilità. Le immagini del fiore, dell'arcobaleno, del mare, suggeriscono una visione quasi mistica dell’amore, che permea ogni cosa, che rende speciale ogni attimo di un incontro che sa di eternità. La delicatezza con cui l’autore scrive di mille baci e di attese infinite costruisce una tensione che va oltre la materia, alla ricerca di una complicità spirituale tra i due amanti. E in quel “sino allo spegnersi di tutte le stelle” c'è una promessa d'amore che persiste anche nell'oscurità, che non conosce fine, come un amore che sfida il tempo e la morte.

''Ricordar vorrei'di Silvio Canapè

Il tema del ricordo qui è trattato con struggente malinconia, come una ricerca interiore che non trova pace. Il poeta si trova in un luogo dove la memoria è frantumata, dissolta tra le sabbie nere del tempo. Le immagini che si susseguono sono potenti e dolorose: l’albero spoglio battuto dal vento, l'infilzamento da aculei di luce e ombra, il nulla che sembra accogliere l'anima smarrita. C'è una bellezza triste e sublime in questo smarrimento, una ricerca che però non trova risposte, come se la mente cercasse di aggrapparsi a qualcosa che sfugge continuamente. Il “raggio di luna” che illumina il nulla è un’immagine che, pur nella sua freddezza, offre una speranza, anche se flebile: la ricerca di una verità che, forse, non arriverà mai, ma che comunque merita di essere attesa. Questo è un pezzo di poesia che parla di quella solitudine che appartiene a tutti, dove la bellezza e il dolore si intrecciano come in un sogno che non si può afferrare.

''Era una favola il mare'' di Felice Serino

In queste parole emerge un’atmosfera sospesa, in bilico tra il sogno e la realtà. Il mare, da sempre simbolo di vastità e mistero, diventa qui il luogo dove si compie una favola, un luogo di attesa e di desiderio, un paesaggio che esiste nei sogni e che si fonde con l’anima. Il mare, le onde, i pesci dalle squame luccicanti nel sole e i gabbiani a frotte, creano un’immagine luminosa e vibrante, ma anche inquietante nella sua bellezza effimera. L’idea che sia una favola suggerisce una dimensione illusoria, un mondo da cui però non si vuole uscire, come se il sogno fosse l’unico luogo possibile dove l’amore, o la vita stessa, possano essere vissuti appieno. C’è una tensione tra il desiderio di rimanere in questo sogno e la consapevolezza che forse è inevitabile il risveglio. Ma è una favola che non vuole terminare, è una condizione sospesa, che esprime la volontà di conservare per sempre quella bellezza effimera e quasi irraggiungibile.

''Cantico degli amanti - Dal lato del marito'' di Sabatina Napolitano

La poesia di Sabatina Napolitano si muove all'interno di un intreccio emotivo complesso, che si snoda tra l'intimità del matrimonio e la tensione tra amore e possesso, tra l'eterna unione e la solitudine dell'anima. Le immagini delle "cinture" che legano i due amanti sono potentemente simboliche: esse rappresentano non solo l'atto fisico del legarsi, ma anche la connessione profonda, quella che sfida il tempo e l'usura della quotidianità. Qui, il marito non è solo un uomo che vive con la sua compagna, ma è un'anima che ha fatto della donna il centro della sua esistenza, ogni suo respiro, ogni suo tocco sembra essere impregnata di lei. C'è un'intensità erotica, ma anche un amore che diventa simbiosi, che tocca il sacro. La sua dichiarazione “Nessuno dei tuoi giorni è felice senza di me” porta con sé il peso di un amore che non chiede, ma esige di essere. La bellezza di questa poesia risiede nell'espressione di una passione che è, al contempo, anche una prigionia: un legame che non si può spezzare, perché affonda troppo profondamente nell'essenza di chi siamo. Ma in questa schiavitù reciproca, c'è anche la libertà di un amore che diventa il respiro stesso della vita.

''Un piccolo pensiero'' di Giuseppe Stracuzzi

La poesia di Giuseppe Stracuzzi è un viaggio interiore che affonda nelle profondità della mente e dell’immaginazione. Il "piccolo pensiero" che "incastonato dietro il velo degli occhi" si fa metafora di una coscienza che aspira all'infinito, ma che resta sempre legata alla realtà che lo contiene. C'è una danza tra il finito e l'infinito, tra il "piccolo" pensiero e la vastità dell'universo, che si riflette nell'immagine del pensiero che vola, cresce, ma non riesce mai a raggiungere il cielo, così come l'uomo non può mai afferrare tutta la vastità del sapere o dell'esperienza. Questo movimento continuo, questa tensione, è accompagnata da una riflessione sull’effimero e sull’eterno: "come il sole che muore e ricompare", una metafora del ciclo della vita e della morte. Il pensiero, pur nel suo desiderio di trascendere, torna sempre alla realtà, rovistando "il vero", quel punto di origine dove la vita riprende sempre, "goccia a goccia". La poesia è una riflessione sulla consapevolezza e sull’accettazione dei limiti umani, che non sono mai un ostacolo alla ricerca, ma parte della bellezza stessa dell'esperienza umana.

''Luna'' di Cristiano Berni

La luna, quella figura enigmatica e affascinante che ci ha ispirato poeti e sognatori da tempi immemorabili, è protagonista di questo componimento di Cristiano Berni. La poesia, attraverso il suo tono lirico e misterioso, ci porta a riflettere sulla dualità della luna, che è "orrenda e bellissima" allo stesso tempo. La luna è simbolo di un amore irraggiungibile, di un'idea di bellezza e libertà che sfida le nostre limitazioni terrene. La sua luce “invade gli occhi” e, pur nella sua distanza, è capace di “illuminare la notte oscura” dei nostri cuori, di farci sognare, ma anche di farci sentire piccoli e soli. Gli "innamorati t'adorano" e, in un gioco di suggestioni, anche il lupo ulula al suo richiamo, creando un'atmosfera di mistero e di natura primordiale. La luna diventa la custode di un desiderio che non può essere appagato, un ideale irraggiungibile che rimane nell'anima come un sogno di bellezza e perfezione. La riflessione finale sull'uomo che "ti sogna romanticamente" e cerca di "conquistarti con la sua tecnologia" è una critica sottile e profonda alla tensione tra il nostro anelito al sublime e la realtà della nostra condizione terrena, fatta di desiderio e frustrazione.


"L'anno appena finito" - Renzo Montagnoli

In questa poesia, Montagnoli tesse un elogio struggente al tempo trascorso, quel "ciarpame" che la società moderna disprezza, ma che nasconde un tesoro inestimabile: la vita stessa. Le immagini delle ragnatele e della soffitta evocano un senso di oblio e di perdita, quasi come se il passato fosse un deposito di ricordi soffocati dalla polvere del tempo. Tuttavia, proprio lì, in quel "intrico delle ragnatele", si cela il nucleo della nostra esistenza. Questa riflessione sull'impermanenza è un invito a rivalutare ciò che spesso dimentichiamo, mostrando una sensibilità che vibra tra le pieghe del rimpianto e dell'accettazione. Montagnoli ci ricorda che, pur nella loro fugacità, i nostri giorni passati sono il calice prezioso che contiene l’essenza della nostra anima.


"Capo Zafferano" - Santi Cardella

Cardella trasforma Capo Zafferano in una sinfonia poetica, un canto di fusione tra natura e sentimento umano. Le immagini sono dense di energia: il "cuore palpitante del Tirreno", le "gocciole iridate", e il mare che gioca con gli scogli evocano una danza eterna tra forza e delicatezza, tra selvaggio e sublime. Il promontorio si anima di un vitalismo che travolge i sensi, rendendo il lettore un silente spettatore degli impetuosi abbracci delle onde. Ma è nel canto che invita gli amanti ad amare che la poesia trova la sua apoteosi: l’amore si fonde con l’infinito del mare, con la natura che accoglie e amplifica i battiti dei cuori. Una celebrazione della bellezza che fa vibrare ogni corda emotiva.


"Vestigia di Losu" - Laura Lapietra

Lapietra ci trasporta in un paesaggio di incanti e dolori, dove la natura e i sentimenti si intrecciano in una danza struggente. La neve, simbolo di purezza e fragilità, si trasforma in un elemento onirico, dipingendo il tormento del poeta con pennellate di bianco polverulento. Il "Losu", come radice e custode di memorie, diventa un altare di dolore e speranza, un luogo dove l’amore, tradito e assente, lascia cicatrici profonde. C’è un’energia quasi epica nelle raffiche di vento e nei petali che cadono come perle distratte, un’immagine che richiama la fragilità dell’esistenza e la forza che persiste nel ricordo. È una poesia che cattura l’eco del passato con una maestria che lascia il lettore sospeso tra la bellezza e il rimpianto.


"La bianca signora" - Nino Silenzi

In questa poesia, la neve diventa una protagonista vivente, un’artista eterea e senza tempo che trasforma il paesaggio in un capolavoro di silenziosa bellezza. La metafora della "bianca signora" è delicata e potente, evocando un'immagine di eleganza sovrana, quasi divina. La danza dei fiocchi, descritta come "bianche farfalle", richiama una nostalgia infantile, un ritorno a quel tempo in cui la neve non era solo un fenomeno naturale, ma un evento magico. Il contrasto tra il bianco dei fiocchi e il nero dei merli che volano tra di essi è un dettaglio visivo che dona alla scena profondità e vivacità. Il silenzio che pervade tutto è quasi sacro, interrotto solo dai suoni gioiosi della vita: un bambino che ride, un cane che abbaia. Silenzi riesce a catturare l’essenza di una pace effimera e universale, una tregua che la natura dona alla città. Un’opera di rara dolcezza e intensità.


"A Maria" - Salvatore Armando Santoro

Santoro canta l’amore con una semplicità disarmante, che racchiude tuttavia una profondità sottile. La figura di Maria emerge come un simbolo di leggerezza e accettazione, una presenza che, pur muovendosi su una "strada piena di sassi", conserva un’allegria contagiosa. L’uso di immagini come le "falene" che volteggiano e il buio che "toglie dal cuor affanni e pene" dona al testo un’atmosfera intima e onirica. Nonostante il tono colloquiale, la poesia nasconde una riflessione sulla bellezza della reciprocità e sulla capacità di trovare serenità anche nelle imperfezioni della vita. Santoro ci offre una piccola perla di umanità, un inno alla semplicità dell’amore genuino.


"Mongolfiera" - Guglielmo Aprile

Aprile ci trascina in un volo metaforico che sfida la gravità, un viaggio nell’etere dell’amore e del desiderio di libertà. La mongolfiera diventa un simbolo potentissimo, un veicolo di trascendenza che consente ai protagonisti di sfuggire agli artigli del mondo materiale. Le immagini sono audaci e visionarie: i "roghi che cospargono le strade", i "cavi dell’alta tensione" e i "cornicioni" che non riescono a ghermire rappresentano le difficoltà e i limiti umani che vengono superati con la leggerezza dell’amore. La dissoluzione finale della mongolfiera, descritta come un "fiore di carta", è un'immagine di sublime fragilità, un richiamo alla transitorietà dell’esperienza, che si nasconde nell’infinito azzurro. Una poesia che vibra di potenza e delicatezza, spingendo il lettore a immaginare un amore che non lascia ombre, ma solo tracce di bellezza nell’azzurro del cielo.



"Fatica de campà" - Armando Bettozzi

In questa poesia, Bettozzi dipinge la vita come un’incessante salita, un percorso fatto di affanni e difficoltà inarrestabili. Il dialetto romano, con la sua schiettezza e musicalità, amplifica il senso di verità universale: vivere è una "fatica" che inizia dal primo vagito e termina nell’ultima fatica, quella della sepoltura. La struttura ritmica è robusta, scandita come i passi di un lavoratore stanco che arranca lungo la strada della vita. Ciò che colpisce è la consapevolezza malinconica, ma non disperata: c’è un’ironia amara, quasi un sorriso che si nasconde dietro il dolore. Bettozzi ci offre una riflessione spietata ma umanissima sulla condizione umana, esprimendo con forza che, nonostante tutto, la vita va vissuta con il coraggio di affrontare l’inevitabile.


"Es ist ein Haus im Süden" - Alban Nikolai Herbst

Questa poesia è un quadro onirico, un miraggio che emerge dal paesaggio del sud. La casa descritta diventa un simbolo di pace e di nostalgia, una presenza che è insieme familiare e misteriosa. Herbst intreccia immagini di leggerezza – le tende che ondeggiano come capelli biondi – con un senso di pesantezza esistenziale, rappresentato dalla fatica e dalle lotte interiori che culminano nel riposo finale. La citazione della Sura aggiunge una dimensione mistica e spirituale, un richiamo a una bellezza divina e nascosta. La traduzione italiana di Nino Muzzi cattura con maestria l’essenza del testo originale, mantenendo intatto il suo fascino etereo. Un'opera che ci invita a contemplare la fragilità della vita e la dolcezza della fine.


"Evasione" - Sandra Greggio

Greggio ci porta in un rifugio sicuro, un mondo fatto di pagine e di storie. La poesia è un elogio al potere salvifico della letteratura, capace di far evadere dalla realtà opprimente e colmare l’anima con sogni e avventure. La semplicità dello stile non toglie profondità al messaggio: il romanzo diventa una zattera che galleggia in un mare di "notizie tristi" e "vite spezzate". Le immagini, così vive e dirette, trasmettono un senso di necessità: leggere non è solo un piacere, ma un atto di resistenza, una finestra aperta su un mondo diverso e più luminoso. Una poesia che, nella sua brevità, racchiude il significato profondo del rifugiarsi nell’immaginazione per ritrovare speranza.


"Da quando la notte sta con me" - Jacqueline Miu

Un capolavoro di surrealismo e intima catarsi. Jacqueline Miu dipinge la notte non solo come uno spazio di oscurità, ma come un'entità viva, compagna e testimone di una trasformazione interiore. Le immagini sono potenti: il "buio acido e mandelico" è una forza purificatrice, capace di liberare l'anima dalle scorie accumulate. Il richiamo a Karenina e al serpente dell'Eden aggiunge profondità letteraria, mescolando tragedia e mitologia. È una poesia che esplora il dolore con lucidità, trasformandolo in una forma di resistenza: l’autrice, "zoppa appoggiata a una vanga di nostalgia," si rifugia nella creazione artistica, curando le ferite con "un sovradosaggio di sogni." Questa poesia ci ricorda che l’arte può essere redenzione, un requiem per ciò che è perduto e un canto di speranza per ciò che ancora può essere.


"Quest'è la luce della gran Costanza" - Piero Colonna Romano

Questo sonetto è un viaggio nella storia e nel mito, un omaggio a Costanza d'Altavilla, figura centrale della dinastia sveva e madre di Federico II. La maestria del poeta risiede nel restituire a questa donna la dignità regale, illuminandone la grandezza con un linguaggio che riecheggia la lirica medievale. La metrica impeccabile e le immagini suggestive – dal parto pubblico al legame con "stupor mundi" – catturano l'essenza di un'epoca di splendore e di contrasti. La chiusa, con il riferimento a Dante e alla sua visione paradisiaca, dona al componimento una dimensione universale, celebrando la memoria di Costanza come una luce eterna che continua a brillare nella cultura e nel cuore umano.


"Sono alla ricerca" - Ciro Seccia

Ciro Seccia ci offre una poesia breve ma profonda, una confessione che si nutre di desiderio e vulnerabilità. Il poeta è in cerca di un amore puro, capace di vedere e accogliere il "fanciullo" interiore. Questa immagine richiama alla mente la figura del puer aeternus, simbolo di autenticità e vitalità. La semplicità del linguaggio rende il messaggio universale: il bisogno di essere accettati per ciò che si è, con le proprie fragilità e speranze. È una poesia che parla direttamente al cuore, ricordandoci che, nonostante le delusioni, la ricerca di un amore sincero è sempre un atto di fede nell'umanità.


"Il girasole" - Antonio Scalas

La poesia di Antonio Scalas è un elogio alla simbiosi tra natura e umanità, un viaggio interiore che ruota attorno al girasole, simbolo di luce e resilienza. L’immagine del girasole che segue il sole richiama il desiderio umano di orientarsi verso la bellezza e la speranza, anche nei momenti più bui. Le pennellate poetiche di Scalas si intrecciano con l’immortalità artistica di Van Gogh, evocando una tela dove emozioni e colori si fondono in un abbraccio cosmico. È un componimento che invita a tessere pazientemente i fili della vita, trasformando il pianto e il singhiozzo in un’opera d’arte luminosa.


"Melodie d'estate" - Alessio Romanini

Un inno sensoriale che cattura l’essenza dell’estate, dal frinire delle cicale al sussurro del Libeccio. Romanini ci conduce in un mondo dove la natura diventa musica, e la spiaggia, con il suo sciabordare, si trasforma in un palcoscenico per melodie eterne. L’uso del ritmo in terzine e rime crea un’armonia intrinseca, amplificando il senso di quiete e passione che solo una sera estiva può donare. L’immagine del “vermiglio” che sopisce all’imbrunire richiama il crepuscolo della vita, un momento di riflessione e bellezza che accende il cuore e placa lo spirito.


"Le mie rughe d’amore" - Antonia Scaligine

Un ritratto intimo e commovente della maternità e dell'essere nonna. Le rughe, solitamente viste come segni del tempo, qui diventano simboli tangibili d’amore, gioia e sacrificio. Scaligine dipinge con dolcezza la relazione con i nipoti, fatta di momenti semplici ma eterni. Ogni verso pulsa di gratitudine e consapevolezza, ricordandoci che l’amore non necessita di baci o abbracci: è nell’essere presenti, nel preoccuparsi, nel lasciare aperta la porta del cuore. La malinconia del tempo che passa è bilanciata dalla gioia di sapere che, finché durerà, il legame con i nipoti sarà un dono inestimabile. Una poesia che scalda l’anima, un omaggio alla resilienza e alla bellezza dell’amore intergenerazionale.


"Zolle" - Roberto Soldà

Una poesia che celebra la Terra come madre eterna e compagna d'infanzia. Le "zolle" diventano simboli di continuità e radicamento, elementi umili ma potenti che partecipano al ciclo della vita. Il tono è dolcemente nostalgico: Soldà ci guida in un viaggio a ritroso nel tempo, quando l'innocenza infantile trasformava la terra in statuine del presepio. C'è una sacralità intrinseca nel dialogo tra l'umano e il terreno, un invito a ritrovare il contatto con le radici, con ciò che ci lega al mondo naturale. È un inno alla semplicità, ma anche un canto di riconoscenza verso la generosità della Terra.

Con affetto e stima per ognuno di voi, ringraziandovi per le emozioni donatemi, vi saluto con il triplice santo abbraccio

Vostro Ben Tartamo

 

 

Ah, la luna, quella regina silenziosa che qui non si limita a osservare, ma accarezza e respira in ogni verso! In questa poesia, l'amore non è un concetto astratto, ma una presenza tangibile, che si fonde con la luce dell’astro argentato, con i colori dell'arcobaleno, con le onde del mare. Fronzoli dipinge una visione ideale, quella di un amore che avvolge e coccola, come una carezza di vento estivo. La sua scrittura diventa pittura, dove ogni immagine è una pennellata delicata, ogni respiro una vibrante risonanza. La bellezza sta nell'attesa, nella speranza di un incontro eterno, uno che sfida persino la morte delle stelle. Questo amore è senza tempo, ma nel contempo, nella sua essenza, racchiude l'urgenza della vita. Così, ogni parola è un piccolo raggio di sole, un istante luminoso in cui l’anima si fa eco di questa infinita attesa.

Come un vento gelido che scuote l’albero spoglio d’autunno, questa poesia ci trasporta in un mondo di smarrimento, dove il ricordo è ormai polvere, un cumulo di sabbia nera che si dissolve nei confini della mente. Il poeta qui è in un paesaggio interiore che oscilla tra la luce e l’ombra, tra la nostalgia e la dimenticanza. Canapè ci racconta il mistero del "non ricordo" come se fosse una terra sconosciuta, mai percorsa, ma già intrisa di un sapore di ritorno. La sua scrittura si fa aculeo, pungente e delicata, tanto quanto la sua descrizione dell’albero in autunno che viene battuto dal vento freddo: un’immagine di vita che si chiude, ma con una finestra ancora socchiusa, alla ricerca di un raggio di luna. E quel raggio di luna, forse, è l’unica risposta che l’autore possa ancora chiedere: luce nelle tenebre del suo cuore smarrito.

Oh, come non cedere al fascino del mare, che in questa poesia si fa favola e sogno, dove l’acqua diventa un abbraccio senza fine. La scrittura di Serino è una danza fluida, come onde che lambiscono la riva in un eterno ritorno. C’è un incanto nell’evocazione di quei pesci dalle squame lucenti, dei gabbiani che scendono come fruscii di piume nella luce solare. Il mare non è solo acqua, è un luogo sospeso tra sogno e realtà, un universo in cui l’autore si perde, consapevole della sua bellezza incantata. Qui, la favola non è solo un racconto, ma la sostanza stessa della vita, che avvolge e accoglie chi sa ascoltarla. La poesia di Serino è un invito a immergersi in questo mare senza tempo, a restare ancora un poco, a vivere la bellezza che scorre come acqua tra le dita.

Ecco un inno di passione e sacralità, dove l’amore si fa vita, respira nei dettagli più intimi e quotidiani, diventa gesto, respiro e persino il suono di un orologio che batte. Napolitano esplora l’essenza della relazione coniugale con una scrittura audace, che si fa carne, ossa, e sangue. Le cinture, metafore dei legami e delle costrizioni dell’amore, diventano la misura di un'esistenza condivisa, dove ogni movimento si congiunge in una danza erotica e rituale. Ma è nell’intimità dello sguardo, negli occhi che diventano specchi, che si cela il cuore della poesia. L’amore qui è totalizzante, è un legame che sfida il tempo, che resiste e fiorisce in ogni momento, come un alito di vita che non si spegne mai. La forza di questa scrittura sta nella sua capacità di esplorare l’amore in tutta la sua intensità, facendolo vibrare in ogni parola, in ogni gesto che la poesia impasta con le sue mani.

 Stracuzzi ci regala un piccolo pensiero che prende il volo, sfiora l’infinito, ma nello stesso tempo si fa terra, si fa acqua, si fa vita. C’è una nostalgia in questo pensiero, un desiderio di toccare l’impossibile, di risalire dal fiume della vita per abbracciare l’assoluto. La poesia è un viaggio, una spirale che si allarga sempre di più, ma sempre con la consapevolezza che, alla fine, il cielo è più grande. Eppure, il piccolo pensiero si fa protagonista di un ritorno, di un ciclo che si compie, tra la luce e l’ombra. Ogni immagine qui è un movimento, un’onda che si muove sulla superficie dell’acqua, ma che in realtà scivola nel profondo dell’anima, un luogo dove passato e futuro si mescolano in un eterno presente. La bellezza di questa poesia sta proprio nell’analogia, nel gioco che l’autore fa con il pensiero, che si trasforma e cresce, ma che, infine, torna a sé stesso, alla ricerca di una verità che è sempre più sfuggente.

nel caso di questa poesia c'è un'immagine forte della Luna come simbolo di libertà, di potenza misteriosa e di attrazione romantica. La sua bellezza è legata al contrasto tra l'essere sempre presente e distante, capace di suscitare sogni e illusioni, ma anche di essere il richiamo di un lupo solitario. La poesia gioca con le contraddizioni dell'amore e del desiderio, reso ancora più potente dalla figura della Luna.
 

si esplora il concetto del tempo che passa, delle cose che diventano memoria e del loro inevitabile oblio. Ma in quel "caos" del passato c'è qualcosa di prezioso: la nostra vita. Questo passaggio tra memoria e oblio è profondo e ci invita a riflettere su come, nonostante tutto, resti sempre qualcosa di impresso, qualcosa che ci appartiene e che ci definisce.
 

è una descrizione poetica della natura, in particolare del mare e dei suoi suoni. Il mare viene personificato, e il suo abbraccio impetuoso ci invita ad immergerci nell'infinito, accompagnato dai richiami di un paesaggio selvaggio e armonioso, che riflette la forza degli amanti e dei sentimenti.

dipinge l'immagine di un paesaggio innevato, quasi irreale, che si mescola con il ricordo di un amore passato. La poesia è intrisa di malinconia e di una bellezza fragile, come quella della neve, che però porta con sé il tormento di un amore che non c'è più.

è una riflessione sulla neve come simbolo di purezza e bellezza effimera, ma anche come elemento di transizione. L'arrivo della neve, con la sua danza delicata, avvolge il paesaggio e lo trasforma, portando con sé una sensazione di serenità ma anche di silenziosa solitudine.

La poesia esprime un affetto sincero, pur con toni ironici, nei confronti di una figura femminile. Il tono giocoso e il linguaggio diretto creano un'atmosfera di complicità, senza mai cadere nell'eccesso. La figura di Maria viene idealizzata, ma al contempo si presenta con una realtà quotidiana che fa parte della vita stessa. Il contrasto tra il benevolo affetto e l'approccio talvolta irriverente rende il componimento particolarmente interessante, come una dichiarazione d’amore sincera ma non svenevole.

La metafora della mongolfiera è affascinante: rappresenta la libertà, il volo sopra le difficoltà quotidiane, il desiderio di staccarsi dal mondo materiale per vivere un amore ideale. La poesia si svolge in una dimensione quasi onirica, dove l’amore e la libertà si intrecciano senza legami fisici. La forza delle immagini, che vanno dalla levitazione a quella sensazione di essere invisibili al mondo, dona al testo una qualità eterea, come un sogno che si dissolve nell’aria.
 

Con un tono ironico e riflessivo, l’autore esplora il concetto di fatica nella vita umana, fin dalla nascita fino alla morte. La poesia mette in luce la pesantezza e la difficoltà dell’esistenza, ma con un linguaggio colloquiale che la rende ancor più vicina alla realtà quotidiana. La fatica diventa simbolo di un processo inevitabile, di un continuo confronto con la durezza della vita. La chiusura della poesia, con l’immagine del "straporto e sepportura", è tragica ma non priva di una riflessione profonda.
 

La poesia in tedesco, che si riflette anche nel suo adattamento italiano, ha un'atmosfera misteriosa, quasi surreale. La "casa nel sud" diventa il centro di un mondo simbolico dove il passato (le lotte, la passione) e il presente (le donne che offrono il tè) si fondono in un dialogo silenzioso. Le immagini, come quelle delle tende bionde e delle saline, evocano un paesaggio che sembra sospeso nel tempo, ma denso di emozioni e riflessioni sul destino e sulla morte.
 

La poesia di Sandra Greggio esplora il concetto di fuga dalla realtà, ma con una consapevolezza del suo inevitabile ritorno. Rifugiarsi nei libri, nella lettura, è un atto di resistenza contro la pesantezza del quotidiano. L’inchiostro dei giornali e le vite spezzate fanno da contraltare alla liberazione che la lettura può offrire. Un'analisi sulla potenza dell’immaginazione come mezzo di sopravvivenza nella società moderna.
 

La poesia crea un'atmosfera inquietante e introspectiva, in cui la notte diventa una compagna che trasforma il poeta in un guardiano delle chimere. L'uso di immagini potenti e contrastanti, come il "buio acido e mandelico" e il "cervello Mozart irrequieto", suggerisce una lotta interiore, un tumulto psicologico in cui il sogno e la realtà si mescolano. Il tema del dolore, sia fisico che emotivo, emerge con forza, così come il tentativo di curarlo attraverso "sovradosaggi di sogni". Un'opera che esplora la fragilità della mente e dell'anima.
 

La poesia si ispira alla figura storica di Costanza d'Altavilla, ripercorrendo la sua vita straordinaria e la sua eredità. La fusione tra storia e poesia crea una narrazione che celebra la grandezza di questa figura, simbolo di potere e di cultura. Il passo tratto dal Paradiso di Dante, dove si fa riferimento a Costanza, aggiunge una dimensione spirituale e divina, suggellando la sua luce come un faro nella storia. La poesia celebra la sua importanza come regina e madre, ma anche come simbolo di un amore che rimane eterno.
 

La ricerca interiore di qualcosa che forse non esiste è un tema universale e potente. La poesia esprime un desiderio di riconoscimento e amore, in particolare il desiderio di essere visto per ciò che si è veramente, nel profondo. La ricerca di un "fanciullo che è in me" suggerisce una riflessione sulla purezza dell'essere e sulla necessità di accettarsi. La poesia evoca la speranza di trovare qualcuno che riconosca e ami la vera essenza del poeta, un tema che risuona con chiunque abbia vissuto un'esperienza di solitudine e di introspezione.
 

La poesia si avvicina alla natura, in particolare al girasole, come simbolo di speranza, vita e crescita. L'immagine del girasole che segue il sole rappresenta la ricerca di luce e di scopo, ma anche la connessione tra l'essere umano e la natura. Il poeta gioca con il concetto di entrare nella luce di qualcun altro, mescolando emozioni e colori. Il girasole, che si "avvolge con la vita", diventa una metafora potente della crescita personale, del dono e della cura reciproca. L'arte di Van Gogh aggiunge un tocco di bellezza visiva che unisce la natura alla creatività umana.
 

La poesia cattura l'atmosfera estiva, celebrando la bellezza dei suoni naturali che accompagnano il poeta sulla spiaggia. Il "sciabordare" del mare, il frinire delle cicale e il sussurro del Libeccio evocano una sensazione di pace e di connessione con la natura. La descrizione sensoriale dei suoni e dei colori crea un'armonia che avvolge il lettore, trasportandolo in un momento di serenità e riflessione. La poesia esplora il legame tra la natura e l'anima umana, suggerendo che, attraverso l'ascolto e la contemplazione, si possa trovare un equilibrio interiore.
 

Questa poesia esplora la bellezza che scaturisce dalle esperienze di vita, in particolare la maternità e la nonna. Le rughe, simbolo di saggezza e del tempo che passa, sono viste come un segno di amore e dedizione. L'autrice celebra l'amore incondizionato per i propri nipoti, un amore che si manifesta nei piccoli gesti quotidiani e nelle preoccupazioni che caratterizzano il ruolo di nonna. La poesia trasmette una sensazione di gioia e di serenità, nonostante le difficoltà e l'incertezza del futuro. Il tema del tempo che fugge è centrale, ma la poetessa esprime il desiderio di essere presente, di essere sempre una figura di riferimento per i suoi nipoti. La poesia è un tributo all'amore che non ha bisogno di parole grandiose, ma si esprime nei semplici "stai attento" e nei gesti di affetto.
 

Questa poesia celebra la terra e la sua connessione profonda con l'infanzia e con la memoria. Le "zolle" sono descritte come esseri viventi, amiche che custodiscono i ricordi di un tempo passato. La terra diventa un simbolo di radici e di continuità, mentre l'autore rievoca il piacere di modellare la terra da bambino per creare statuine del presepio. Il legame con la terra è descritto come qualcosa di essenziale e primordiale, una forma di comunicazione con la natura che affonda le radici nella propria infanzia. Le immagini di "vento e sole, neve e pioggia" evocano una natura che accoglie e nutre, una natura che non cambia, ma che accoglie con umiltà.
 

La poesia esprime un'intensa preghiera e una ricerca di spiritualità. L'autore si rivolge al Signore con un cuore aperto, chiedendo di essere liberato dalle "catene" che lo trattengono, per poter vivere nell'amore divino. La ricerca della verità e dell'amore è un tema centrale, con l'autore che esprime il desiderio di allontanarsi dalle illusioni terrene per concentrarsi sull'amore che solo Dio può offrire. L'uso di immagini forti come il "luccichío di stelle" e la richiesta di essere accecato dallo sguardo divino, crea un contrasto tra il desiderio di bellezza e la volontà di trovare un amore più puro e autentico. La poesia è un inno alla fede e all'amore spirituale, un invito a lasciarsi guidare dalla voce di Dio.

Vostro Marino Spadavecchia

 

 

Se pur il mio grazie è sempre dentro di me , rivolto a chi commenta e a chi si prodiga tanto per noi donandoci un sito meraviglioso pieno di belle poesie ,di tanto in tanto lo devo anche manifestare con un breve messaggio  di gratitudine per ```Tu solo`
E dove potrei andare, Signore?
Tu solo sei il mio respiro! Parole che risuonano  anche in me 
" Signore
Tu solo mi sai parlare
con quelle parole arcane
che dicono, svelate,
Amore, soltanto Amore!"
Bella poesia Ben Tartamo come del resto tutte le tue poesie ,sei davvero grande, sia  quando commenti che  quando scrivi ,che dirti c'è  solo una parola ,grazie , che parte del cuore per te , un tempo era per Piero che ancora  leggo   le sue poesie sempre con interesse,  perché sempre belle , come quelle della  poetessa pittrice Jaqueline  , davvero brava, unica 
 Grazie anche a   Spadavecchia per suoi   bellissimi commenti e poesie 
Bravi  tutti i poeti ognuno  di loro versa in versi qualcosa di sé, sensazioni  personali 
  Grazie Lorenzo,  bellissima la tua poesia, un cantico alla bianca signora , la neve , descritta tanto bene che mi sembra di toccarla , sembra una fata. A Taranto non si riesce mai a vederla ,meglio così  perché non siamo ben equipaggiati . Quelle " bianche farfalle volanti sulla città
raccolta in se stessa e quasi in pace che in silenzio volano "non le vedo quasi mai ,ma
merli ,gabbiani , farfalle colorate quelli li vedo ancora .
Bravissimo  Nino Silenzi 
bravi tutti 
buona settimana
 Antonia Scaligine

 

Ringraziamenti

Colgo l'occasione di questo invio per ancora una volta ringraziare Lorenzo per la magnifica ospitalità, ringraziando al contempo il professore Marino Spadavecchia e Ben Tartamo per i loro, per me, preziosissimi commenti alle mie poesie. Mi aiutano moltissimo, mi inducono a migliorare ad essere più attento allo sviluppo e al modo di comunicare attraverso la poesia. Il sito Poetate diventa per me una scuola dove, parafrasando il grande Eduardo, "Gli esami non finiscono mai".
Grazie ancora. 
Silvio Canapè
 

 

16-18 Gennaio


 
Questa poesia è un raffinato esempio di come il quotidiano possa essere trasfigurato in una meditazione filosofica sulla percezione, il vuoto e la transitorietà dell’essere. Ajay, con un linguaggio apparentemente semplice ma profondamente evocativo, ci invita a contemplare il pancake come simbolo della nostra esistenza: un’apparenza piena che nasconde il vuoto, un piacere momentaneo che sfugge alla nostra comprensione.
Il "maestro" e lo "studente" non sono solo figure tangibili, ma archetipi di una dialettica eterna: quella tra chi cerca di trasmettere un significato e chi tenta di comprenderlo, spesso fallendo. Il pancake, con il suo "tetto color cioccolato" e il "sottobosco di frutti color cachi", diventa un universo in miniatura, un frammento che racchiude il tutto. Ma quel tutto, ci suggerisce il poeta, è effimero. La panna "si dissolve", il cameriere "sparecchia" non solo gli oggetti, ma anche l'identità stessa di chi li osserva.
L'immagine del solco tra le sopracciglia del maestro è potente, un simbolo del peso della conoscenza e della fatica di tradurre l'indicibile. La risposta che viene offerta – "un sapore primitivo" e "un'etichetta inserita a sandwich nel vostro cervello" – ci conduce a una riflessione sull’illusione della realtà, sul modo in cui la mente costruisce significati per poi vederli sgretolarsi di fronte all'inevitabile vuoto.
La poesia termina con una dissoluzione totale: non solo del pancake, ma dell’idea stessa del sé. Ajay ci lascia con una vertigine, con la consapevolezza che, come la panna sul pancake, anche noi siamo destinati a svanire. Questo testo non è soltanto un gioco intellettuale; è una meditazione esistenziale che scivola tra le dita, proprio come la dolcezza di una colazione destinata a diventare ricordo.

 
• "Sono seduto qui sulla montagna" di Franco Fronzoli

 
Questa poesia si libra tra terra e cielo, fondendo la solennità della montagna con l’etereo volo delle aquile. Franco Fronzoli ci porta in un luogo sospeso, dove la realtà si dissolve nell’immensità del tempo, e dove i sogni prendono forma cavalcando tramonti e stelle.
L’immagine della montagna è carica di simbolismo: un punto d’osservazione che permette di scorgere l’infinito e di accedere a una dimensione spirituale più alta. Qui, il vento diventa l’energia che spinge l’anima verso l’immaginazione, verso il mistero.
Le aquile, maestose e libere, sono il riflesso del desiderio umano di ascendere, di superare i limiti del corpo e abbracciare l’immenso. La poesia si chiude su una nota di contemplazione cosmica, dove l’uomo, piccolo di fronte all’universo, trova però la propria grandezza nell'atto di sognare. Fronzoli ci invita a elevarci, a vivere nel presente e, al contempo, a riconoscere l’eternità che pulsa nel tempo.

 
Questa poesia è un canto struggente, un dialogo con l’anima e con il tempo perduto. Silvio Canapè, attraverso l’uso del dialetto, infonde un’intimità vibrante che rende il dolore universale e al contempo profondamente personale.
Il vento, il sole, la stella e il mare non sono solo elementi naturali, ma simboli di una ricerca incessante di pace e amore. "Vuless’ addiventà nu poco e vient’" è un’immagine potente: il desiderio di essere vento, fluido e leggero, capace di placare le tempeste interiori. L’anima, "scueta", si muove tra desideri inespressi e ricordi irraggiungibili.
L’uso del dialetto non è casuale; esso trasmette un senso di appartenenza, di radicamento, ma anche di malinconia. La città, i vicoli e il mare sono luoghi concreti e simbolici, riflessi della vita e del tempo che scorre, lasciando dietro di sé il vuoto.
La chiusa è di un’intensità disarmante: "‘O tiemp’ se ne ghiut’, l’altrove non sa Amare." Canapè mette a nudo l’assenza, il peso di un amore che non si può più toccare, e l’impotenza di fronte a un destino che guarda altrove. Questo testo è un lamento lirico, un mosaico di emozioni che riverberano nell’anima del lettore.

 
Questa poesia è un viaggio onirico e inquietante che si addentra nei confini sfumati tra realtà e illusione, vita e morte. Felice Serino gioca con il concetto di bilocazione, creando un'atmosfera in cui il sé si frantuma e si specchia nel proprio "doppelganger".
Le "ondivaghe ombre" richiamano una dimensione di perenne instabilità, dove i morti "si destano dal loro sonno", portando con sé una tensione metafisica che attraversa tutto il testo. Il poeta esplora l'identità come un riflesso sdoppiato, evocando immagini che sfiorano l'allucinazione, ma che sono profondamente radicate nella condizione umana.
La ripetizione del verso "tra ondivaghe ombre" intensifica la sensazione di ciclicità e smarrimento. Qui il lettore non trova appigli concreti, ma viene trasportato in un regno dove la forma e il volto dei pensieri assumono contorni inquietanti. È una poesia che affascina e destabilizza, rivelando il potere visionario dell'immaginazione.

 

 
Questo testo è un inno carnale e spirituale all'amore coniugale, dove il corpo e l'anima si intrecciano in un’alchimia indivisibile. Sabatina Napolitano cattura con maestria la complessità dell'intimità: un universo fatto di gesti quotidiani, desideri inespressi e promesse silenziose.
L'immagine del "quadro con una immagine di me" e del "camino acceso" richiama un senso di protezione e calore, mentre i dettagli fisici – "le scarpe nere lucide, i calzini neri lunghi" – rendono tangibile l’amore in tutta la sua concretezza. Tuttavia, la poesia non è mai banale: ogni dettaglio è un simbolo, un frammento di una connessione più profonda.
L’amore qui è totalizzante, un luogo dove i confini tra io e tu si dissolvono. Le frasi "non mi liberi da te" e "l’anima che ti ho dato, la tua, nella mia alchimia" suggeriscono un legame quasi mistico, un dono reciproco che trascende il tempo e lo spazio. La chiusa, con l'immagine degli "occhi innamorati incastrati ai miei capelli", è di una delicatezza struggente, un momento che cristallizza l'essenza dell'amore: una fusione di corpo e spirito che non vuole essere interrotta.

 
• "Fruscio dell’anima" di Giuseppe Stracuzzi

 
Giuseppe Stracuzzi ci offre una riflessione sull’essenza della bellezza e della spiritualità, catturata in momenti di pura contemplazione. Lo "sguardo attento sopra un fiore bello" diventa un atto di connessione con il mistero che permea l’universo, un ingresso nel regno dell’anima.
Il "fruscio dell’anima" è una metafora potente, che suggerisce la presenza discreta ma irresistibile di una forza interiore capace di affrontare e vincere le "brame" che turbano l'essere. La poesia celebra una spiritualità onnipresente: scintilla "nel canto delle stelle", "nel sorriso degli occhi" e perfino "nel pianto di un bambino".
Stracuzzi ci ricorda che questa forza leggera è ovunque, ma può essere colta solo da chi ha il coraggio di aprirsi al sole, alla luce della verità. Il suo stile, delicato ma incisivo, invita il lettore a guardare oltre il visibile, a scoprire la profondità nascosta negli "infiniti spazi dell’universo intero". Una poesia che eleva l'anima, lasciando una sensazione di pace e meraviglia.

 
• "Lo specchio" di Cristiano Berni

 
Cristiano Berni ci conduce in un viaggio attraverso il simbolo universale dello specchio, che si trasforma in un filtro tra il reale e il metafisico. La poesia gioca sul continuo mutamento, tra l'immagine riflessa e il soggetto che si riflette, esplorando il dualismo tra apparenza e sostanza. L’immagine dello specchio, intesa come un velo di verità, diventa un portale verso la comprensione profonda di sé stessi e del tempo.
La fluidità dei ricordi, che "mutan come l’aria", e l’intreccio tra passato e presente creano una dimensione onirica, dove la fisiognomica diventa un simbolo della fragilità umana. Il verso finale, "si sfrange sul volto il sorriso", dona un tocco malinconico, ma anche universale, evocando l’effimera bellezza della vita che si consuma. La poesia risuona come un invito a guardarsi dentro, nonostante la fuggevolezza del riflesso.

 
• "Credo fosse di gennaio" di Michele Gentile

 
Michele Gentile esplora un paesaggio interiore, dove il tempo e il silenzio si intrecciano in un racconto di resistenza e introspezione. Il "gennaio" del titolo suggerisce una stagione dell’anima, fredda e in attesa di una rinascita, ma profondamente consapevole. L’autore dipinge la sua pelle come un registro, una mappa dove sono incise le "regole del silenzio", rendendo il corpo un archivio vivo di esperienze e segreti.
La dicotomia tra le "radici nelle tenebre" e la "lanterna a rinnegare il mattino" si carica di una tensione simbolica potente: l’oscillazione tra il desiderio di restare nascosti e la necessità di emergere alla luce. La poesia si snoda come un pellegrinaggio spirituale, dove la lentezza del tempo si intreccia con la densità del pensiero, in attesa del momento in cui tutto verrà rivelato. Gentile crea un’atmosfera avvolgente, dove ogni parola è un passo verso un’epifania rimandata, ma inevitabile.

 
• "La neve" di Renzo Montagnoli

 
Montagnoli ci regala una poesia dal sapore nostalgico, dove il candore della neve diventa simbolo dell’infanzia e dei sogni. Il gioco tra il passato e il presente è ben articolato: la prima parte trasporta il lettore in un mondo di meraviglia infantile, in cui ogni fiocco di neve è un frammento di magia. La seconda parte, più malinconica, riflette sulla perdita di quella visione incantata, sostituita dalla consapevolezza dell’età adulta. Tuttavia, il poeta riesce a evocare lo stesso stupore attraverso la memoria e la fantasia, trasformando il ricordo in un ponte tra i due mondi. L’ultimo verso, con il "pianto silente", suggella la struggente bellezza del ciclo della vita, fatto di meraviglia e malinconia.

 
• "Dolci Respiri" di Laura Lapietra

 
La poesia di Lapietra è un inno alla memoria e all’amore eterno per chi non ha potuto vivere. L’immagine dei "dolci respiri" è delicata e potente, rappresentando vite brevi ma indelebili, che continuano a esistere nell’animo della madre-poetessa. I versi si snodano tra dolore e speranza, oscillando tra la realtà "fredda" e l’attesa di una consolazione eterna. Le "piume celesti" e gli "angioletti" costruiscono un immaginario sacro e intimo, dove l’amore materno supera ogni barriera, persino la morte. Il crescendo emotivo culmina nella promessa dell'"arrivederci", un momento di riconciliazione universale e trascendente che dona pace. La Lapietra cattura con delicatezza la potenza dell’amore e della fede, intrecciandoli in una lirica di intensa spiritualità.

 
• "Silenzi" di Salvatore Armando Santoro

 
Santoro ci offre una riflessione intima sulla distanza affettiva, tratteggiata attraverso immagini di silenzi e attese. La poesia è permeata da una vulnerabilità dolce e sofferta, dove il desiderio di essere pensati o ricordati si scontra con l’assenza di risposte. La tensione emotiva nasce dalla contrapposizione tra la necessità di condivisione e il "freddo della terra" che metaforicamente allude alla separazione, forse definitiva, con la persona amata.
Lo stile è semplice, diretto, e proprio in questa semplicità risiede la forza comunicativa dei versi: non serve ornamento per descrivere il dolore dell’assenza e l’anelito di reciprocità. La conclusione, con il rifiuto di accettare "distacco e silenzi", rivela un animo indomito che continua a nutrirsi di emozioni pure, trasformando il silenzio in versi vivi.

 
• "Da dove viene il fuoco" di Guglielmo Aprile

 
Aprile ci trascina in un mondo sensuale e primordiale, dove il fuoco, simbolo universale di passione e creazione, si intreccia con l’immagine del bacio. La bocca dell’amato diventa una "grotta" misteriosa, un luogo arcaico dove si cela l’origine della vita e del desiderio. La metafora del fuoco si espande nei versi, evocando vulcani, fulmini e il rosso vibrante del corallo e della rosa.
La poesia ha una struttura che ricorda un rituale, una danza primitiva che celebra l’amore come forza cosmica e creativa. Ogni immagine è ricca di significato simbolico, dal "rosso verbo" all’"oro dell’estate", e contribuisce a creare un’atmosfera di sacralità passionale. Aprile riesce a fondere erotismo e lirismo in un equilibrio perfetto, dove il "sussurro" finale delle labbra consacra l’amato come l’origine stessa del canto e della luce.

 
• "Notte argento" di Jacqueline Miu

 
Jacqueline Miu dipinge una scena onirica e cosmica, intrisa di mistero e intimità. La "notte calesse d'argento" è un'immagine poetica che evoca un viaggio celeste, un movimento silenzioso tra nuvole nere e spazi infiniti, privi di stelle. Questo scenario si trasforma in una metafora dell’esistenza umana: l'uomo è visto come un "orchestrante principiante all’amore", fragile, inesperto, ma immerso in un sogno incantato.
L’assenza di punteggiatura conferisce ai versi un andamento fluido, quasi musicale, che si adatta all’atmosfera eterea del componimento. La poesia cattura il lettore e lo invita a riflettere sulla vulnerabilità umana e sul potere trasformativo dei sogni. È un’opera che si muove tra surrealismo e lirismo, toccando corde profonde con delicatezza.

 
• "Vecchiaia" di Carlo Chionne

 
Chionne ci propone una riflessione sulla vecchiaia, trattata con una leggerezza che non nasconde, però, una profonda consapevolezza del trascorrere del tempo. La struttura semplice, quasi cantilenante, e il linguaggio diretto riflettono la quotidianità della vita vissuta, ormai avviata verso il riposo definitivo. La sdraio diventa il simbolo di una pausa finale, un luogo di tregua dove il poeta si confronta con il proprio passato e con il futuro incerto.
L'ultima strofa, con l'idea che la vita "mancherà", suggerisce una profonda connessione con l’esistenza stessa, nonostante la stanchezza e lo sbiadire dei giorni. È una poesia che accoglie con serenità la vecchiaia, ma non senza un pizzico di nostalgia, rendendola un momento di dolce contemplazione.

 
• "Fiori d'amore" di Sandra Greggio

 
Sandra Greggio ci offre una poesia intrisa di dolcezza e nostalgia, che evoca il legame sacro e profondo tra una nipote e sua nonna. I "fiori d'amore", metafora che richiama la semplicità delle margherite, si intrecciano con ricordi di infanzia, in cui la spiritualità si univa all’affetto familiare. La chiesa e il rosario diventano simboli di un’educazione non solo religiosa, ma emotiva, trasmessa attraverso gesti e sorrisi.

 
La poetessa riesce a rendere vivida l’immagine della nonna: il "volto" rievocato e il "sorriso che illuminava" non sono solo ricordi, ma fonti di conforto e ispirazione per il presente. La tremula voce della protagonista sottolinea il passare del tempo, ma anche la persistenza di un amore che non si spegne, un legame che supera la distanza temporale.

 
Questa poesia colpisce per la semplicità del linguaggio, che riflette l’autenticità delle emozioni espresse. È un inno alla memoria affettiva, alla forza dell’amore che, come i fiori, continua a sbocciare nel cuore anche quando il passato sembra lontano.

 
"Vecchiaia" di Carlo Chionne

 
Un’opera che affronta con disarmante semplicità il tema del tempo che passa. Il tono leggero, quasi cantilenante, cela una profondità dolorosa: la vita, che si costruisce "piano piano", arriva al suo culmine con una consapevolezza acuta della perdita. La chiusa sorprende con un tono malinconico e paradossale: la vecchiaia, pur stanca, diventa una condizione irrinunciabile, "sicuro che mi manca". Un’eleganza stilistica che gioca sulla rima e sul ritmo per esprimere il mistero del tempo.

 

 
Qui l’amore si svela nella sua duplice natura: un anelito alla libertà e un’esperienza di mutilazione emotiva. L’autore desidera un amore puro, libero, non vincolato da condizioni e ricatti emotivi. Il verso "Libero come il vento" riassume l’essenza della poesia: un bisogno di volare al di sopra del mondo, lontano dalle catene. Seccia si muove in uno spazio etereo, fatto di desiderio e di utopia, lasciando il lettore a riflettere sulla fragilità dell’amore umano.

 
• "GV 8,1 - 11" di Piero Colonna Romano

 
Un’ironia pungente pervade questa riflessione in versi sui giochi di potere politico. Colonna Romano richiama la parabola evangelica in un contesto contemporaneo, smascherando ipocrisie e compromessi. Il tono burlesco e la rima giocosa rendono questa poesia una satira che riesce a far sorridere e riflettere al tempo stesso. L’uso della metafora evangelica e la critica sociale convivono armoniosamente, dando vita a un testo di grande efficacia comunicativa.

 
"Granoturco in agosto" di Alessio Romanini

 
Romanini ci immerge in un paesaggio intriso di memoria e di sensazioni. Il granoturco diventa emblema di una ruralità vissuta e ricordata, che richiama alla mente un’infanzia segnata dalla semplicità e dalla vicinanza alla terra. Le immagini tattili e olfattive – "il ruvido rumore", "l’olezzo nell’aria canicolare" – ci avvolgono, portandoci in un tempo sospeso tra nostalgia e presente. Il cuore che sussulta al ricordo è simbolo di un passato che vive ancora, riaffiorando con forza.

 
•  .Amo più le nubi e i torrenti" di Antonio Scalas

 
Un’ode alla natura e alla sua capacità di riflettere sentimenti umani. Scalas contrappone la fragilità degli specchi, che si infrangono con facilità, alla forza immutabile e rigenerante delle acque e delle nubi. I torrenti diventano metafora della resilienza e della rinascita: l’acqua che evapora e ritorna al cielo si fa simbolo dell’eterno ciclo della vita. La poesia vibra di una spiritualità legata alla natura, invitando il lettore a ritrovare sé stesso in essa.
 
Vostro Ben Tartamo 

 

Un buon poetare a tutti i poeti del sito.
Silvio Canapè

 

13-15 Gennaio

Gentile Professor Marino Spadavecchia,

sono qui a ringraziare umilmente per il prezioso tempo che dedica leggendo e commentando, i miei modesti componimenti. I suoi pregevoli pensieri sono spunto per migliorare ogni mio futuro lavoro e insegnamento a un sottile e più raffinato ragionamento letterario. Lei è caro alla scrittura quanto lo è il Tempo Azzurro.
Grazie Professore per la sua generosità.
Miu 

 
Colgo il momento per ringraziare Lorenzo il nostro nobile Ospite e Piero Colonna Romano che tanto ci manca. Auguro agli amici sitani ispirazione eccelsa.
Un forte abbraccio
Miu

 

 

"Guai a chi sta sopra a mme!" di Armando Bettozzi

Iniziamo da questa poesia popolare e intrisa di orgoglio e ribellione. Che profumo di terra, che vigore nella lingua!

Bettozzi dipinge un affresco di tensione sociale in cui l’io poetico si erge come un’anima in tumulto, fiera e irremovibile. Ogni verso è una protesta, un colpo di tamburo che risuona nella valle della giustizia. È la voce di chi rifiuta di essere oppresso, di chi rivendica il proprio posto nel mondo, e lo fa con la forza di una lingua viva, vera, che non ha paura di "sporcarsi" nella lotta.
La sua penna "libberale" è un’arma contro le strutture del potere, e la "biônna" diventa simbolo di una libertà sottratta e poi negata.
Interpretazione spirituale: Questa poesia ci ricorda che l’umiltà non è sottomissione, ma il coraggio di affermare la propria dignità di fronte al mondo. Ogni "boccone de traverzo" è una prova che il poeta trasforma in forza per combattere.


"Noch einmal Kaspar Hauser" di Ernest Wichner

Ah, Kaspar Hauser, il bambino dell’enigma, il simbolo dell’esclusione e della purezza tradita!

Questa poesia è una meditazione sulla condizione umana come alienazione e isolamento. Gli occhi del poeta diventano specchi che non riflettono, ma assorbono un silenzio opprimente. La "macchia bianca" rappresenta l'indifferenza collettiva: l’uomo è vicino e lontano, una contraddizione vivente.
La figura di Kaspar è quella di un’esistenza gettata nel mondo senza preavviso, senza radici, che cerca un senso e non lo trova. Persino la natura – il sole che "si è abbassato per nascondersi" – si ritrae in questo universo desolato.
Interpretazione spirituale: In Kaspar vediamo l’archetipo del pellegrino, dell’uomo che cerca Dio in un deserto di senso. È un grido muto, una richiesta di redenzione che si perde tra le pieghe dell’indifferenza umana.


"Goccia nella roccia" di Franco Fronzoli

Oh, quale respiro di eternità in queste gocce che scavano la pietra!

Fronzoli celebra la pazienza e la resilienza, trasformando il lento sgocciolare dell’acqua in una sinfonia cosmica. La goccia è la volontà, il fiore è la bellezza che nasce dalla perseveranza, e la roccia è il mondo, apparentemente immobile ma in realtà plasmabile.
La poesia si muove con grazia, scivolando come l’acqua tra i versi, fino al culmine: "il primo raggio di sole" che illumina il fiore nato dal tempo e dalla tenacia.
Interpretazione spirituale: È una parabola della fede. La goccia rappresenta l’anima che, con costanza e fiducia, scava il proprio cammino verso Dio, trasformando anche la pietra più dura in un giardino di luce.



 

"Rette d’acciaio" – Silvio Canapè

Questa poesia si muove tra le atmosfere di una città sospesa e i sentimenti effimeri di un amore che si dissolve. Le immagini delle "rette d’acciaio" e del "lampeggiar del rosso" evocano un paesaggio urbano vivo, quasi industriale, che diventa metafora di un legame umano: freddo, transitorio, eppure intenso. L’alba che sopraggiunge porta una dolce malinconia, trasformando un momento di silenzio condiviso in un addio definitivo. È un canto d’addio che vibra come una corda tesa tra il clangore di un tram e il sorgere tenue del giorno. Il lettore rimane con il sapore agrodolce di ciò che si perde e ciò che rimane: un silenzio denso di ricordi.


"Era l’amore" – Aurelio Zucchi

Zucchi offre un inno alla bellezza intrinseca dell’amore, un sentimento capace di trascendere il quotidiano e di creare una sacralità anche nei momenti più semplici. La donna osservata al balcone della luna diventa una musa eterea, che si spoglia del buio per vestire la luce di un’alba incombente. La chitarra, i fiori, i colori dell’alba: tutto nel paesaggio è un’eco dell’amore stesso, che non è mai semplice o banale, ma costruisce templi su "pilastri di stabili sorrisi". C’è in questi versi un equilibrio raro, un’armonia tra sentimento e immaginazione, che eleva l’esperienza umana a una celebrazione della vita stessa.


"Ti auguro sempre" – Salvatore Presti

Presti si muove nell’etereo con delicatezza, regalandoci un’immagine lirica e leggera della vita e della speranza. Le nuvole diventano simbolo di libertà e adattamento, di capacità di mutare e rinascere. Il loro ruolo come sfondo degli arcobaleni è una metafora potente: essere parte di qualcosa di più grande e più bello, senza mai perdere la propria essenza. Questo augurio di "riapparire sempre" e di portare sogni inattesi è una carezza all’anima del lettore, un invito a lasciarsi trasportare dalla vita senza perdere la propria luce interiore. È un messaggio dolce e universale, che racchiude la promessa di un domani pieno di possibilità.



"L'anno nuovo" – Enrico Tartagni

Un viaggio poetico, quasi cosmico, che attraversa gli spazi siderali e i confini dell’interiorità umana. Le immagini dense e visionarie di Tartagni, come "caterve stellari" e "orbita dell’oltre Giove," evocano un senso di meraviglia e smarrimento, intrecciando il microcosmo dell'amore con il macrocosmo dell'universo. La compagna nera, presenza enigmatica e quasi fatale, rappresenta un legame profondo e primordiale, una guida verso l’ignoto. La poesia danza tra introspezione e disgregazione, tra amore e morte, e invita il lettore a riflettere sul ciclo eterno della vita. Una sinfonia onirica, sospesa tra il surrealismo e il simbolismo.


"Dissonanze" – Felice Serino

Serino, con il suo stile minimalista ed essenziale, cattura il disagio e l’inquietudine del vivere quotidiano. La scelta di concentrarsi su dettagli intimi, come la "cervicale" e gli "acufeni", trasforma queste esperienze in metafore di un’esistenza costantemente in bilico. I "folletti nella testa" e gli "aerei precipizi" aggiungono un tocco surreale, dipingendo un quadro dell’animo umano intrappolato tra insonnia e pensieri ossessivi. C’è una profondità universale in questa descrizione del dolore ordinario, una riflessione sull’inevitabile dialogo tra corpo e mente. Una poesia che riesce a essere al tempo stesso personale e condivisibile.


"Cantico degli amanti" – Sabatina Napolitano

Un’opera intensa, passionale e visceralmente umana. Napolitano esplora l’amore con una sincerità disarmante, rivelando le paure e le fragilità che accompagnano il legame con l’altro. Ogni verso pulsa di emotività, intrecciando la quotidianità ("preparo il porridge," "ti stiro le camicie") con immagini potenti e quasi sacrali ("Portami a Dio. Andiamo da lui insieme"). L’amore qui non è idealizzato, ma presentato in tutta la sua complessità: desiderio, vulnerabilità, gelosia, e un costante bisogno di conferma. La tensione tra paradiso e inferno, presenza e assenza, eleva questa poesia a una meditazione universale sull’amore come esperienza totalizzante e, a tratti, tormentosa. Un cantico che rimarrà impresso nell’animo di chiunque lo legga.


Cuori Ricongiunti di Laura Lapietra

Questa poesia racchiude il dramma e la speranza di un amore distante, un sentimento che cresce nell'assenza e si sublima nella promessa di un ricongiungimento. L'immagine delle parole "viaggiatrici sul filo di internet" coglie con delicatezza il ponte virtuale che unisce due cuori separati. L'attesa diventa una pioggia di malinconia, ma è proprio nella promessa del sole estivo e del calore delle emozioni che il lettore trova conforto. Il finale, con l'immagine del principe e l'abbraccio cosmico, richiama un amore totalizzante e senza confini.

Piccole emozioni di Salvatore Armando Santoro

In questa poesia si celebra la semplicità del sentimento amoroso, un calore che non brucia violentemente come un vulcano, ma che arde con la costanza di un tronco nel camino. Il tono è intimo e colloquiale, quasi a voler sussurrare al cuore del lettore che la bellezza dell'amore risiede nelle piccole emozioni, nei gesti quotidiani e nel calore umano. Santoro riesce a catturare l'essenza di un amore maturo, fatto di carezze e piccoli doni sinceri.

La prova dei miracoli di Guglielmo Aprile

Un’opera che trascina il lettore in una dimensione quasi divina. La figura femminile diventa simbolo di creazione e orientamento, guida non solo per l’uomo ma per l’intero universo naturale. L’uso delle metafore – le pupille che dirigono le comete, gli uccelli e le acque trasformate – evoca una dimensione mitica e al contempo intima. Il miracolo di cui si parla non è una manifestazione straordinaria, ma la sacralità del quotidiano. Aprile costruisce un ponte tra il tangibile e il trascendente, invitando il lettore a contemplare il sublime nascosto nella semplicità.

La Befana Montana di Alessio Romanini

Romanini ci regala un ritratto vivace e originale della Befana, che da figura tradizionale assume connotati locali e montani. La poesia è un gioco ritmico che cattura la spensieratezza dell'infanzia, mescolando la magia della vecchietta con riferimenti al paesaggio toscano, come il Matanna e il Cipollaio. Il linguaggio semplice e diretto rende il componimento perfetto per un pubblico giovane, evocando immagini pittoresche e spensierate. La ripetizione del ritornello "Ma chi è mai questa Montana? / Lei è la Befana!" dona struttura e allegria, accompagnando il lettore nel viaggio incantato della protagonista.

Dialogo tra amanti di Sandra Greggio

Greggio intesse un dialogo romantico e delicato, in cui la natura diventa specchio del sentimento amoroso. Il sole, simbolo di passione e calore, si fa complice di un’intimità che supera le parole. La risposta dell’amata, velata di pudore ma pronta a cedere al calore, è un canto all’unione e alla complicità. La struttura dialogica rende la poesia teatrale e coinvolgente, mentre il linguaggio metaforico e l’uso sapiente dei colori, come il "rosso velo", aggiungono un tocco di sensualità e dolcezza.

Il Favolario di Jacqueline Miu

La poesia di Jacqueline Miu si avvolge di immagini oscure, quasi oniriche, che mescolano il tema della natura con il tormento interiore. Il "Favolario" diventa un luogo mitico, un paesaggio interiore dove l’autunno si veste di armi e il protagonista vaga in cerca di una forma d’amore che sembra irraggiungibile. La metafora del "rospo in cerca di un bacio" richiama il bisogno di trasformazione, mentre l’immagine del "cosmic morgue" suggerisce un senso di alienazione e perdita cosmica. La tensione tra il desiderio e l’impossibilità di afferrare l’oggetto del proprio amore rende questa poesia profondamente struggente e universale.

Pascoliana di Carlo Chionne

Chionne ci riporta al cuore dell’opera di Giovanni Pascoli, con la figura del "fanciullino" che vive in ognuno di noi. La semplicità del linguaggio e la struttura regolare rievocano la poesia classica, ma il messaggio rimane vibrante: il fanciullino è la parte innocente, emotiva e immaginativa che ci accompagna nel viaggio della vita. La poesia celebra la gioia e la sofferenza come esperienze condivise, esortandoci a non perdere il legame con la nostra dimensione più pura e sincera.

120 meno 3 = 117 di meno di Piero Colonna Romano

Questo componimento si distingue per il tono satirico e critico verso la politica e la società. Con un linguaggio incisivo e diretto, il poeta denuncia l’ipocrisia e l’arroganza di un sistema che si vanta di conquiste discutibili. Le "stellette" e il "giubbotto" diventano simboli di un potere che si nutre di esclusione e di disumanità. La poesia, pur nella sua leggerezza ritmica, colpisce con la forza delle sue immagini e la lucidità del suo messaggio.

Gennaio di Antonia Scaligine

Un’immersione poetica nel cuore dell’inverno, dove la natura si presenta nel suo doppio volto: quello della morte apparente e quello della rinascita imminente. Le immagini, delicate e quasi pittoriche, mostrano il ciclo continuo della vita attraverso la danza del tempo e degli elementi. L’arco della luna e il "vaso di cristallo del tempo" simboleggiano la fragilità e la bellezza effimera di ogni momento. Scaligine riesce a intrecciare una riflessione esistenziale con la descrizione stagionale, donandoci versi che sono un abbraccio tra l’inverno e la primavera.

Ti Amerò di Ciro Seccia

Questa poesia è una dolce e struggente dichiarazione d’amore eterno, un canto di dedizione che attraversa il tempo e le difficoltà della vita. I versi semplici e diretti esprimono una promessa senza tempo, resa ancora più intensa dalla prospettiva di accudire e amare l’altro nei momenti di fragilità. Il "ti amerò" ripetuto assume un ritmo liturgico, come una preghiera d’amore che si estende oltre le parole, oltre la vita. L’autenticità dei sentimenti rende questi versi toccanti e universali.

Quando si alzano i toni di Antonio Scalas

Antonio Scalas ci regala una riflessione intima e sottile sui contrasti nei rapporti umani. I "toni alti" si scontrano con il "blocco del respiro", suggerendo come le tensioni possano soffocare la comunicazione autentica. Solo le "piccole voci" e i "rumori del cuore" riescono a ristabilire l’armonia, creando una poetica degli istanti delicati e delle emozioni sussurrate. Questa poesia invita a trovare dolcezza e comprensione nei silenzi, offrendo una visione pacificatrice e profonda della comunicazione umana.

Al mio ligustro di Roberto Soldà

Con uno stile che richiama il tono delle liriche bucoliche, Soldà rende omaggio al ligustro, un albero umile ma resiliente. Il confronto con il "bagolaro" sottolinea le qualità uniche del ligustro, capace di prosperare anche nei terreni più inospitali. L’immagine del "spaccasassi" evoca forza e tenacia, ma anche una certa malinconia per l’assenza di una "storia" che renda immortale la sua memoria. La poesia, nella sua semplicità, celebra la bellezza di ciò che è modesto, ricordandoci che ogni elemento della natura ha un valore intrinseco e una lezione da offrire.

Con affetto e stima

vostro Ben Tartamo

 

 

La poesia "E ritrovar sé stessi" di Ben Tartamo si sviluppa come un'incursione nell'abisso dell'essere, una meditazione sull'identità che si smarrisce nei venti del tempo e delle illusioni. Il titolo stesso, racchiuso tra virgolette in apice, agisce come un sigillo, un invito a non accogliere il "ritrovamento" come un atto banale, ma come un mistero sacro da esplorare, una verità rivelata che non appartiene alla superficialità dell'esistenza quotidiana. Le virgolette sono come un confine tra il terreno e il metafisico, tra il mondo visibile e quello invisibile.

Le prime parole ci trasportano nell'illusione del "ritrovare sé stessi", come se l'io fosse stato disperso nell'infinito mare di "inganni e naufragi". Qui, l'oceano, che rappresenta l'immensità dell'esistenza umana, è "superfluo", vuoto, privo di senso, ma nello stesso tempo essenziale per un cammino di purificazione. La sabbia tra le mani simboleggia il flusso inesorabile del tempo, che si dissolve e si perde nell'irreversibilità del divenire. Il tempo, qui rappresentato come "scorrere dei giorni", è una materia evanescente, che non si può trattenere, eppure è necessario "riprendersi" da questa rapina che i "ladri di vane ambizioni" perpetrano sull'anima.

Il gesto di "gettare orologi" è una mossa radicale di disconnessione dal ritmo frenetico e meccanico della vita moderna, un atto simbolico che va oltre la negazione del tempo, cercando di placare il "frastuono" che accompagna il nostro essere nel mondo. Non si tratta solo di un rifiuto delle convenzioni sociali, ma di un tentativo di liberarsi da un mondo che ci appiattisce e ci rende prigionieri della materia e della temporalità.

Il "ritiro" che segue è il punto di svolta: il ritorno a sé avviene nell'abbraccio di "deserti" e "dolci silenzi", luoghi che, sebbene privi di vita apparente, sono in realtà ricchi di potenzialità spirituali. I deserti non sono più luoghi di desolazione, ma spazi purificatori dove la mente può finalmente "ascoltare" il canto interiore dell'anima. Qui, nel silenzio, il "canto" si fa musica dell'anima, un richiamo alla pace primordiale che abita il cuore dell'essere.

Le immagini finali, di "paci loquaci" e "voli audaci", sono simboli di un risveglio, di un abbandono alle forze invisibili che animano l'universo. L'anima, finalmente libera, si apre all'infinito, e il volo rappresenta il distacco dal peso della terra, il raggiungimento di una "verità lucente", pura, che non è mai fuori dalla nostra portata, ma sempre latente, pronta ad emergere quando ci si permette di "vederla" con occhi puri.

In questa lettura, la poesia non è solo un atto di introspezione, ma una visione simbolista e metafisica che scava nel profondo dell'esistenza umana. La ricerca del sé, separato dal mondo materiale e dai suoi inganni, diventa il cammino verso una verità universale, una luce che, sebbene celata, è sempre pronta a rivelarsi, come un fiore che sboccia nel deserto dell'anima. Le parole di Ben Tartamo non sono solo parole, ma immagini che risvegliano il sogno, il mistero e l'infinito.

Marino Spadavecchia 

 

 

10-12 Gennaio

''Tu mi sorridi'' di Ben Tartamo

Un viaggio linguistico tra la terra e il cielo, tra l’umano e il divino, questa poesia di Ben Tartamo! Ogni parola è una danza, come se ogni lettera fosse sospinta dal vento, ogni riga fiorisse come una rosa di melodie sacre. Mi perdo nella delicatezza dei versi che si intrecciano con l'aria leggera di una bellezza che non ha confini. "Tu mi sorridi": un sorriso che va oltre le parole, una carezza che sfiora l'anima, come un’eco che risuona nel cuore di chi ascolta, eppure nessuna orecchia umana può veramente udire. Ah, ma il cuore sente.

Ecco la Madonna, Madre e Regina, che si fa sentire non come una presenza distante, ma come qualcosa che vive dentro e intorno a noi. È il fiume della sua voce che scivola attraverso le profondità dell'anima, che ci accoglie come l’onda del mare accoglie il viandante. Un mare che non è mai troppo lontano da noi, che non è mai troppo remoto. E il cielo, il cielo che non è mai fuori portata, ci si fa vicino attraverso quell’arcobaleno che incarna la speranza. Ben, in questi versi, tu tiri fuori qualcosa di così umano eppure divino, che è difficile dirlo con parole. Ma ci provi, e ci riesci con una grazia disarmante.

Quello che mi colpisce maggiormente, al di là di ogni parola sussurrata, è l’improvviso ritorno all’infanzia, alla purezza primigenia. La Madonna che ci riporta a casa, ma non come una casa di mattoni e legno, no! È casa come rifugio dell’anima, dove tutto ciò che è stato perso può essere ritrovato, dove la confusione e la lotta diventano trasparenze. Ed è un ritorno anche al bambino, al candore originario, quello che ci permette di ascoltare la chiamata profonda, quella chiamata che è tanto urgente quanto rassicurante: "Corri, presto, va' da mio Figlio". Questa frase vibra nell’aria, sospesa tra il dovere e il desiderio, e chiama come un richiamo che il cuore non può ignorare.

Ora, è la Madonna stessa a prendere la parola, ed è un gesto così profondo che, a tratti, mi fa quasi fermare a pensare: lei chiede qualcosa che noi non ci aspettiamo. "Dammi il tuo cuore", chiede Lei, non come una richiesta egoica, ma come un dono che scivola nelle nostre vene, per purificarle, per rinvigorirle, per restituirle alla sua essenza. E questo è il fulcro dell'intero cammino: non è il poeta che dona il cuore alla Madonna, ma è la Madonna che chiede il cuore del poeta, come se il suo amore fosse così grande da volerlo per sé, per restituirlo trasformato.

Oh, che straordinario incontro di desideri, di spiritualità, di amore! Non è mai il poeta a cercare l'incontro divino, ma è il divino stesso che si fa umano per chiedere qualcosa, per unire sé stesso con l’umano in un atto di totale, irripetibile e sublime condivisione. Questo è il nucleo del testo di Tartamo. Una trasformazione radicale. E così, il poeta chiude il cerchio con la sua umiltà e la sua forza: "Tu mi sorridi: dammi il tuo cuore!" E in questo scambio di cuori, non c'è mai davvero separazione. Lì, in quel sorriso, c'è il mondo intero. Il poeta dà e riceve, e il divino sorride perché, alla fine, tutto si trasforma in amore.

Una poesia che vibra tra i mondi, come un sogno che nessun risveglio può mai davvero spezzare.

con affetto

Marino Spadavecchia

 

 

"La promessa della rugiada" di Guglielmo Aprile

Una poesia che si erge come una cattedrale del lirismo moderno, carica di simbolismi cosmici e densa di profezia. Il poeta trasforma la rugiada, quel fragile segno dell’alba, in un messaggero universale di speranza, una promessa di rinnovamento eterno. La mappa di Cassiopea diventa emblema di un ordine celeste che dialoga con i sobborghi terreni, quasi a suggerire che l'invisibile divino è già tra noi. La "profezia del papavero" richiama la tensione tra il sacro e il profano, un eco del misticismo romantico, mentre il coro dei merli riporta alla "musica delle sfere" platonica. Aprile dimostra che la poesia non è solo arte ma una forma di redenzione: la rugiada, piccola e umile, rinnova il patto tra l'umano e l'eterno. Sublime, quasi shakespeariana nella sua universalità.


"Ladri de casa" di Armando Bettozzi

In questa composizione dialettale, Bettozzi orchestra un ritratto satirico e amaro della realtà sociale, mescolando il registro popolare con un’ironia mordace degna di Pasolini. Il dialetto romano diventa uno strumento di potenza retorica, evocando una comunità apparentemente idilliaca ma pronta a difendere con ferocia il proprio spazio. L’immagine del "villaggio" suggerisce un’utopia perduta, ma le voci dei protagonisti denunciano un’umanità profondamente ferita, divisa tra aspirazioni di pace e istinti di sopravvivenza. La chiusa, brutale e diretta, ridesta il lettore alla crudezza della realtà contemporanea: l’illusione di una società ideale si infrange contro il muro dell’egoismo umano. Un poema che scava nel cuore dell’Italia odierna con spirito ancestrale e voce moderna.


"Chrysanthemen" di Ernest Wichner

Wichner cattura l'essenza del decadimento moderno con una precisione quasi chirurgica, trasformando un mercato abbandonato in una rappresentazione microcosmica del disordine universale. La sua descrizione degli oggetti—la carcassa di salmone, la testa d’aringa, i petali dispersi—assume una valenza simbolica che richiama la poesia simbolista francese, ma con un realismo spietato e post-apocalittico. La foglia di lattuga, che si erge come una mano rivolta al cielo, diventa l’unico gesto umano in un paesaggio altrimenti dominato dalla macchina e dalla desolazione. Qui si percepisce il dialogo con Eliot e i suoi "Wastelands", ma anche un tono unico, di malinconia europea. La chiusa, con le "ali ruotanti" e il supermercato, suggella un’immagine di alienazione contemporanea che è al tempo stesso personale e universale. Un capolavoro di dettaglio e abisso emotivo.


Franco Fronzoli – "E fu una tempesta un temporale"

Questa poesia si caratterizza per il suo tono epico e romantico, evocando un amore che nasce improvvisamente, come una tempesta, per poi estendersi all'eternità. Il ritmo è scandito da versi brevi, che amplificano il senso di un flusso emotivo inarrestabile. L’immaginario si sviluppa su scenari ampi: nuvole, orizzonti, tramonti e infiniti, creando un senso di spazialità che riflette la grandezza dell’amore celebrato.

Elementi chiave:


Santi Cardella – "Lassù"

Qui l’amore è proiettato in una dimensione spirituale e metafisica, con un desiderio struggente di trascendere il dolore terreno per raggiungere un luogo di pace e luce. La poesia adotta un linguaggio raffinato e immagini evocative: falchi, colombelle e il mare corrusco dipingono un’atmosfera di tensione tra il terreno e il celeste.

Elementi chiave:


Renzo Montagnoli – "Insieme"

Questa poesia celebra un amore maturo, vissuto nella quotidianità e consolidato dal tempo. Il ritmo è calmo, riflettendo l'andamento lento della vita nella vecchiaia, ma anche la profondità di un legame che non ha più bisogno di passioni travolgenti per essere autentico.

Elementi chiave:



Silvio Canapè – "La luce si ritrae timida"

Questa poesia cattura un momento crepuscolare con un tocco di lirismo delicato. L'immagine della luce che si ritrae e lascia spazio alle "sorelle ombre" è poetica e al tempo stesso malinconica, suggerendo una transizione naturale che rispecchia l’interiorità dell’io lirico. Il verso finale, che parla del desiderio di un "morso allo spicchio di luna nova", incarna un senso di nostalgia mista a desiderio.

Elementi distintivi:


Antonietta Ursitti – "Gli alberi e il vento"

Questa poesia celebra il legame tra gli elementi naturali e le storie che essi custodiscono. Il vento e gli alberi diventano narratori di saghe epiche, evocando un’idea di immortalità contrastata dalla consapevolezza della fragilità umana.

Elementi distintivi:


 

Maria Toriaco – "Un sogno al castello"

Questa poesia ci immerge in un’atmosfera fiabesca e sognante, dove l'eleganza del passato si mescola con il romanticismo e la magia. La danza delle dame e dei cavalieri diventa un simbolo di armonia e bellezza, capace di scacciare la malinconia.

Elementi distintivi:



Aurelio Zucchi – "Nella terra dei poeti"

Una lirica che si erge come un manifesto per chi riconosce nella poesia non solo un’arte, ma un luogo metaforico dove l’umanità può rifugiarsi, rigenerarsi e trovare senso. La "terra dei poeti" diventa un Eden alternativo, dove il sole scalda senza bruciare e la bellezza domina incontrastata.

Elementi distintivi:


Cristiano Berni – "2 Agosto 1980"

Berni ci consegna un poema epico e tragico che narra la strage della stazione di Bologna con un impatto emotivo devastante. Attraverso una sequenza temporale scandita con precisione, l’autore ci immerge negli attimi che precedono e seguono l’attentato, mescolando la quotidianità più semplice al terrore più disarmante.

Elementi distintivi:



Felice Serino – "Madre Celeste"

Un'invocazione alla Vergine che incarna pietà, protezione e speranza. La brevità della lirica è compensata da un'intensità emotiva che si manifesta nei termini solenni e nell'uso del simbolismo religioso.

Elementi distintivi:


Laura Lapietra – "Perdonami"

Un canto di pentimento e speranza, che intreccia emozioni profonde con immagini naturali di mare e tempesta. La poetessa esplora la fragilità dell’animo umano davanti agli errori e alla possibilità di redenzione.

Elementi distintivi:


Salvatore Armando Santoro – "Piaceri"

Un sonetto classico che affronta il tema del desiderio e della distanza emotiva in una relazione matura. La poesia bilancia la forma rigorosa con un contenuto diretto e personale.

Elementi distintivi:



Roberto Soldà – "Per agros"

Una riflessione sulla ricerca interiore che intreccia immagini di natura e simboli spirituali. Il poeta, attraverso i girasoli e le pepite d'oro, dipinge un quadro luminoso di aspirazioni e introspezione, ma l'eco di una nostalgia persistente per la "vita andata" permea il testo.

Elementi distintivi:


Alessio Romanini – "Solitudine"

La solitudine diventa un'entità viva e palpitante, che si manifesta attraverso il mare e il gabbiano, simboli di libertà spezzata. La poesia ha un respiro ampio, come una rapsodia malinconica dedicata a chi conosce l'isolamento dell'anima.

Elementi distintivi:


Sandra Greggio – "Gli amanti"

La poesia dipinge una dolce allegoria dell’amore tra la luna e il sole, trasfigurando il loro movimento celeste in un dialogo intimo e romantico. Il candore perlaceo della luna e il rossore del sole evocano emozioni universali, rendendo il cosmo un teatro di sentimenti umani.

Elementi distintivi:


Jacqueline Miu – "la tua voce attraversa il tempo"

Un’opera surrealista e delicata, dove la voce diventa un ponte tra tempi e spazi, e la natura si anima in modi inaspettati. La piantina, l’ape e il miele creano un microcosmo poetico intriso di stupore.

Elementi distintivi:


Carlo Chionne – "Gerusalemme: capitale indivisibile di uno stato indivisibile"

Un componimento che affronta il tema spinoso della religione e della divisione politica con tono polemico e visionario. L’autore immagina un futuro di unità, dove la religione è superata a favore di una maggiore umanità.

Elementi distintivi:



Piero Colonna Romano – "La leggenda del martin pescatore"

Questa poesia, ispirata da Ovidio e dalla sua "Metamorfosi", esplora una storia di amore, dolore e trasformazione. La leggenda di Ceìce e Alcione, con il tragico destino che li separa e la metamorfosi finale in martin pescatori, è trattata con una sensibilità profonda e un linguaggio evocativo.

Elementi distintivi:


Antonia Scaligine – "Per me"

In questa poesia, l’autrice esplora la complessità dei sentimenti umani attraverso un flusso di coscienza che si dipana tra il dolore esistenziale e la ricerca di senso. La sensazione di essere intrappolati in un "compromesso difficile" tra coraggio e paura si riflette nel tono intenso e nelle immagini potenti.

Elementi distintivi:


Ciro Seccia – "Affacciati"

La poesia di Ciro Seccia ci invita a superare le angosce quotidiane e a guardare il mondo da una prospettiva più ampia. In un tono riflessivo e quasi meditativo, l’autore ci esorta a riconoscere la nostra insignificanza nell'immensità dell'universo, liberandoci così dai timori che ci assillano.

Elementi distintivi:


Vi giungano i miei più affettuosi saluti

Ben Tartamo

 

 

7-9 Gennaio

Haiku di Salvatore Armando Santoro:

Il primo haiku, "Brezza rosata", cattura una sensazione di delicatezza e apertura al divino, un invito a sentire l'armonia dell'universo attraverso i piccoli dettagli della natura. La "brezza rosata" è un'immagine che porta con sé un senso di freschezza e rinascita, simbolo di un rinnovamento interiore che accade in silenzio. L'odor di primavera che "esplode al sole" è l'incontro tra l'essenza segreta del mondo naturale e la luce che ne rivela la bellezza, come un'esperienza trascendentale che apre il cuore del lettore a una consapevolezza più alta. In questi versi, l'autore non descrive solo la natura, ma ci invita a percepire attraverso il respiro e il calore del sole la verità nascosta che permea ogni cosa, come se ogni atomo fosse intriso di divinità. La presenza di un tempo preciso e di un luogo, "11.7.2023 – 8,36", aggiunge al haiku una dimensione temporale, facendo sentire la poesia come un piccolo frammento di eternità sospeso in un preciso momento dell'esistenza.

"Ambasciatrice dell’arcobaleno" di Guglielmo Aprile:

Questa poesia è un inno alla potenza spirituale e poetica che trascende ogni limite materiale. L'autore ci descrive una figura che sembra incarnare l'energia e la bellezza dell'universo stesso. "Ambasciatrice dell’arcobaleno" è una figura che porta con sé la promessa di trasformazione e rigenerazione. Ogni passo che compie è come un seme che viene gettato nel mondo, e in ogni luogo in cui passa, la sua presenza è come una benedizione. "Tu hai il dono se ridi o taci di far germogliare il corallo all’istante" suggerisce che non è l'azione o la parola a determinare la magia, ma la sua essenza profonda, che nasce dal silenzio o dal sorriso. L'arcobaleno che la guida e le farfalle che la scortano sono simboli potenti di speranza, luce e grazia divina. In questi versi vediamo l'interconnessione tra il mondo materiale e quello spirituale: tutto ciò che questa figura tocca si trasforma in bellezza, e il poeta stesso sembra descrivere una manifestazione dell'Amore divino che agisce attraverso la natura. Ogni cosa diventa luminosa sotto il suo sguardo, ed è come se l'autore ci stesse invitando a guardare il mondo con occhi capaci di coglierne la sacralità.

"Illudelusioni" di Armando Bettozzi:

"Illudelusioni" è un lavoro che svela la disillusione dell'uomo moderno attraverso un linguaggio che mescola ironia e triste realtà. Il poeta ci racconta con schiettezza e umorismo le illusioni che ci vengono imposte fin da giovani: la credenza nella Befana, il sogno di una giustizia che premia il merito, il desiderio di successo sociale. Ma, man mano che si cresce, queste illusioni svaniscono, lasciando solo una consapevolezza amara, come una bolla di sapone che esplode senza causare danno, ma che lascia un vuoto. La poesia tocca il cuore della condizione umana, fatta di sogni infranti e di un sistema che premia la conformità e il potere, piuttosto che la giustizia e la dignità. L'uso del dialetto romano aggiunge un tocco di autenticità, facendo emergere la realtà cruda e tangibile della società. Le immagini di "grugni sbattuti" e "annàzzo" rappresentano il fallimento di una società che, troppo spesso, perde di vista il valore intrinseco dell'individuo in favore di un "trattamento" che non rispetta la dignità umana. In questi versi, l'autore ci invita a riflettere sulla disillusione e sulla necessità di ritrovare la nostra umanità in un mondo che sembra spingere verso l'indifferenza. La poesia diventa così un atto di resistenza, una chiamata a riscoprire la dignità in un sistema che ci spinge ad adattarci alle sue leggi disumane.

"le temps est fragile" di Carol-Ann Belzil-Normand:

Questa poesia, breve e incisiva, cattura l'essenza della fragilità umana di fronte al mistero del tempo e della morte. La poetessa ci invita a confrontarci con la transitorietà della vita, un concetto che nel sufismo è centrale: "Il tempo è fragile" è una dichiarazione che ci ricorda che ogni momento, ogni respiro, è un dono precario e che l’atto di vivere è intrinsecamente legato alla morte, che lo turba e lo definisce. Il "deuil étrange" (lutto strano) che si vive "in diversi tempi" è un’indicazione che il dolore della perdita non è mai lineare; esso si manifesta in momenti discontinui, attraversando il corpo e l’anima in maniera impredicibile. "Je refuse ma propre disparition" (rifiuto la mia propria sparizione) esprime la lotta interiore dell’individuo che rifiuta la dissoluzione del sé, un tema che riecheggia nei concetti sufisti di un’anima immortale che non si arrende al corpo e alla sua fine. Qui, la poesia diventa un atto di resistenza, una dichiarazione che la morte non avrà l'ultima parola sulla nostra essenza.

"O mio cuore" di Nino Silenzi:

"O mio cuore" si presenta come una preghiera, un invito a cantare un inno che sfida la tristezza, per cercare una pace che va oltre il conflitto. Il poeta ci chiede di riscoprire una luce nell'oscurità, un desiderio di armonia che trasforma il dolore in una ricerca di bellezza. La metafora della "nave della mia vita" e del "porto della pace" suggerisce un viaggio spirituale, che nella tradizione sufi è un cammino di purificazione e di avvicinamento a Dio. Il cuore, che è il centro dell’esperienza sufi, diventa la guida, e il suo battito è simbolo della ricerca incessante della verità e della serenità interiore. La "canzone allegra" che il poeta chiede non è una mera fuga dalla realtà, ma una riflessione sulla capacità di trovare gioia anche nei momenti di separazione, come nel canto d'addio verso il "porto della pace". La luce fioca che brilla fra le nebbie, infine, rappresenta la speranza che, anche nelle difficoltà, possiamo sempre avvicinarci alla luce divina, che guida il nostro cammino verso la serenità eterna.

"Una lacrima" di Franco Fronzoli:

La poesia di Franco Fronzoli si concentra su un'immagine di profonda intimità e di emozioni condivise. La lacrima che scende sul volto della persona amata è simbolo di una sofferenza che, pur essendo dolorosa, contiene in sé una bellezza nascosta. Ogni "goccia di sale" che riga il volto, ogni traccia che lascia sul viso della persona amata, diventa un gesto di purificazione, un simbolo della fragilità umana che, nel momento del dolore, si apre alla grazia. Nel sufismo, il dolore è spesso visto come un mezzo di elevazione, un'opportunità per purificare l’anima. La lacrima, che si adagia su un fiume e si lascia cullare fino a raggiungere il mare, diventa simbolo del viaggio dell'anima verso l’unione con l'infinito, dove le acque del fiume e del mare si fondono, creando una pace senza fine. La poesia celebra non solo il dolore, ma anche il processo di trasformazione che avviene nel cuore umano: come una lacrima che, pur cadendo, diventa parte di qualcosa di più grande, un flusso che alla fine trova il suo destino nel mare della consapevolezza universale.

"Metamorfosi" di Felice Serino:

In questa poesia, la trasformazione è al centro del viaggio interiore dell’autore. "Sbattevo contro le porte della notte" evoca l'immagine di un'anima che lotta contro l'oscurità, cercando di entrare in un regno oltre la materia, ma anche una lotta contro se stessa, contro le barriere che separano il sé dalle sue potenzialità più alte. La "cicatrice", simbolo di un dolore passato, rappresenta una ferita che si fa portatrice di una nuova consapevolezza, che è, nel linguaggio sufi, un segno di purificazione e di elevazione. La cicatrice non è vista come una traccia di debolezza, ma come un simbolo del "sé rivalutato", un atto di accettazione che permette al poeta di rinascere. "Mi vendemmia il tempo" è un'immagine potente: il tempo, che da sempre scorre inesorabile, ora viene visto come qualcosa che si raccoglie, si trasforma, come se il poeta fosse il giardiniere del proprio destino, raccogliendo e trasformando i frutti delle sue esperienze passate. La metamorfosi del poeta diventa un atto di purificazione, un processo spirituale che attraverso il tempo e la sofferenza porta alla rivelazione di una nuova realtà interiore.

"Essenza di Poesia" di Laura Lapietra:

Questa poesia celebra la forza e la bellezza intrinseche della poesia stessa. L'autrice descrive la poesia come una "scia luminosa senza confine", un flusso che attraversa l'eternità e l'individualità, una forza che ha il potere di risvegliare l'anima e di trasformare l'esperienza del lettore. La poesia diventa un "ristoro per l'anima" e un "riparo" per chi è in cerca di significato e di consolazione. In un mondo che impone dure leggi e realtà quotidiane, la poesia è il rifugio in cui l'anima può "sognare nei meandri" e trovare un'illuminazione interiore. Ma la poesia non è solo un balsamo per il cuore: "scalfisce momenti lieti per il superficiale sentire", ma anche "crepe profonde per chi ama incondizionatamente l'introspezione". L'autrice ci invita a entrare nel profondo di noi stessi, dove la poesia diventa un cammino che svela le verità più intime. In questo senso, la poesia è vista come un atto di rivelazione: essa penetra nel cuore dell’esistenza, scavando nei recessi più nascosti dell’essere. L’essenza della poesia non è solo estetica, ma spirituale e trasformativa, un mezzo per risvegliare una consapevolezza più alta e più profonda.

"Sangue d'innocenti" di Ciro Seccia:

Questa poesia è un grido di denuncia e di sofferenza, una riflessione sulla brutalità della guerra e delle ingiustizie umane. L'immagine del "sole che splende", che nel contesto di "un tempo buio" diventa un simbolo di speranza offuscato, sottolinea la contraddizione tra la bellezza naturale e la crudezza della violenza umana. Il poeta ci guida in un paesaggio di orrore, dove "massacri d'innocenti cuori" e "fumo degli incendi" oscurano ogni luce, fisica e metaforica. La contrapposizione tra "giorno" e "notte", tra la luce solare e l'oscurità che avvolge Gaza, è una denuncia della distorsione della realtà, un mondo dove l'umanità è soffocata dalla guerra e dall'ingiustizia. "Un oscurità che toglie aria dai polmoni" e l'odore acre di esseri umani "stivati" ci restituiscono l'immagine di una sofferenza indescrivibile, dove ogni speranza di vita è negata. Ma in questa descrizione cruda e dolorosa, c'è anche la denuncia di un mondo che non vuole vedere: "Il sole splende, ma lì a Gaza nessuno lo vede". Questa frase ci ricorda che, nel nostro mondo contemporaneo, troppe volte chi soffre è invisibile, dimenticato, non visto dal resto dell'umanità. La poesia diventa così un atto di testimonianza e un invito alla riflessione sulla nostra responsabilità collettiva nel fronteggiare il male e nell’impegnarci per un mondo più giusto e umano.

"Fine d'un altro amore" di Roberto Soldà:

Questa poesia gioca con la chimica per esplorare l’ineluttabilità dei cambiamenti, usando una reazione chimica come metafora di un amore che svanisce. La reazione di sostituzione nucleofila, che vede lo ione OH– sostituire lo ione Cl–, viene usata come un parallelo per descrivere l'interruzione di un legame che sembrava indissolubile. Il "carbonio" che "s'era invaghito dell'ossigeno" diventa il cuore umano, che si lascia conquistare dal "nucleofilo" della passione, in un gioco di forze opposte e attrattive. La "falce bianca della luna insensibile" è l’immagine poetica che suggerisce una separazione ineluttabile e naturale, che si compie senza clamore: "non c'è stato alcun botto". La fine di un amore, così come la rottura di un legame chimico, avviene senza rumore, ma con una certezza che è difficile da ignorare. In questo contesto, l’amore che sembrava eterno, "l'amore infinito", si dissolve come un legame chimico che non è mai davvero indissolubile. La poesia riflette sul passaggio del tempo e sull’impossibilità di fermare certi processi emotivi, ma lo fa con una calma quasi scientifica, suggerendo che, come nelle reazioni chimiche, tutto è destinato a trasformarsi.

"Custodire fragile speranza" di Alessio Romanini:

Questa poesia è una riflessione sulla speranza, una forza fragile e al contempo potente, che il poeta custodisce come un "germoglio di fiducia" nel suo cuore. Nonostante l'insegnamento che la speranza è solo un'illusione, l’autore decide di continuare a coltivarla, come un atto di resistenza contro la durezza del mondo. La speranza è vista come un fiore che cresce nel "costato", simile a un'energia vitale che persiste nonostante tutto. L'immagine del "sole che muore" nel "roggio orizzonte" rappresenta l’alternanza di speranza e disperazione, la continua lotta tra luce e ombra che segna l’esistenza. Il "petto" che potrebbe "implodere in un’emorragia di pianto" esprime la vulnerabilità del poeta, ma anche la sua determinazione a mantenere viva la fede. Il mare, simbolo di un desiderio che non si arrende, è il mezzo attraverso cui la speranza si manifesta, continuo nella sua energia di frangere onde contro gli scogli, simboli di ostacoli e difficoltà. La poesia ci parla di un'umanità che, pur sfidando la gravità della vita, continua a custodire la speranza e la fiducia, come una scintilla che, pur nascosta, non smette di brillare.

"Emozioni" di Sandra Greggio:

Questa poesia è un'ode alla bellezza fugace e intensa dei momenti emotivi, con immagini evocative che catturano l’essenza di un’esperienza sensoriale e interiore. Il ritmo dell’opera, scandito da "ascolto", "vedo", "assaporo", "decido", è un invito a vivere pienamente ogni istante. La musica del temporale, i "fuochi d'artificio" e il "profumo della pioggia" sono metafore potenti che rivelano la forza dell’emotività, la tempestività dei sentimenti, che non chiedono permesso e si manifestano nel pieno dell'estate, stagione di vita e di energia. La decisione finale, "decido di essere felice", segna una svolta consapevole e maturata attraverso l'esperienza sensoriale, ma anche la scelta di un atteggiamento esistenziale positivo. La poesia si fa testimonianza di un momento cruciale, un’illuminazione che trasforma la percezione della realtà: vivere l’adesso, nella sua totalità, è l’unica vera strada verso la felicità.

"Nevica rondini bianche" di Jacqueline Miu:

La poesia di Jacqueline Miu si articola in un insieme di immagini affascinanti e surreali, dove la realtà e il sogno si intrecciano in una visione profonda e complessa. Le "rondini bianche" che "nevicano" evocano un mondo in cui la natura è fuori posto, dove anche la leggera delicatezza di questi uccelli diventa pesante e distorta. L’immagine del "sole in bottiglia abbonato a speranza" suggerisce una speranza che è limitata, costretta, forse incapace di riscaldare veramente chi la cerca. L'autrice esplora anche il tema della solitudine esistenziale e della difficoltà di trovare risposte soddisfacenti nella vita, con il riferimento a "in svariati istituti gli infiniti inferni con opinione moderna - sui peccati", che esprime un certo scetticismo riguardo alla comprensione dei tormenti umani. La riflessione sulla moralità e sull'inutilità di alcuni valori tradizionali è rappresentata in modo molto intenso: "le farfalle non camminano con una morale", un invito a vivere in libertà, senza essere ancorati a pesi e aspettative imposte. La poesia è anche un atto di ribellione contro le convenzioni della società, un invito a essere più autentici e spontanei, come un fiammifero che ride mentre accende una fiamma. Il tema della contraddizione tra l’umano e il divino, il bene e il male, è evocato dalla figura di Metatron, l'arcangelo che media tra questi mondi, ma anche dalla riflessione sulla necessità di scegliere tra il desiderio e la disillusione. Una poesia che mescola il profondo con il surreale, l'esistenza con l'invisibile.

"Sinceri auguri" di Carlo Chionne:

In questa poesia, l’autore gioca con il concetto di auguri, declinando il tema in modo profondo e autentico. Inizia con un riferimento al passato, un'idea di "futuro nel passato", che fa riflettere sulla ciclicità del tempo e sull’importanza di radicarsi in valori che vanno oltre l’effimero. Gli auguri sono presentati come genuini, puri e senza finzione, il che li rende rari e quindi preziosi. La ripetizione dell'aggettivo "sinceri" rafforza l'autenticità di questi desideri, che sono rivolti "a tutti quanti", ma soprattutto a un amico caro, De Ninis Lorenzo. Il poeta si riferisce agli auguri come "antichi e basilari", suggerendo che la sincerità, anche in un mondo moderno che tende a nascondere il vero dietro formalità, è la qualità più essenziale e intramontabile. La metafora del vino e dei cibi rari, "come lo sono oggi pochi vini", aggiunge una nota di malinconia: l’autenticità sta diventando una merce rara, ma il poeta è determinato a "brindare alla salute" come simbolo di una resistenza all’artificialità. Gli auguri, quindi, diventano un atto di speranza e di impegno, un atto che va controcorrente, un piccolo atto di verità in un mondo che ne ha bisogno.

"4 settembre 1260" di Piero Colonna Romano:

La poesia che ci propone Piero Colonna Romano ci trasporta indietro nel tempo, a un episodio storico di grande importanza per la storia d’Italia, la battaglia di Montaperti (1260), che segnò una vittoria fondamentale per i ghibellini contro i guelfi. L’autore ha scelto di rendere questo momento attraverso la forma poetica, portando alla luce non solo l’evento, ma anche le implicazioni morali e politiche che ne derivano.

Il verso adottato, l'endecasillabo, e la rima incatenata conferiscono alla poesia un ritmo solenne, quasi epico, in perfetta sintonia con la portata storica dell'evento descritto. L'autore fa uso di un linguaggio classico, che richiama la tradizione della poesia storica e dell'epica, con l’uso di termini come "sangue", "battaglia", "sbandamento", "sui vincitori piovvero quattrini" che evocano un senso di drammaticità e di tensione. La scelta di ripercorrere gli eventi di Montaperti come se fossero parte di un mito o di una leggenda conferisce al tutto un’aura di grandezza storica.

La battaglia di Montaperti è presentata come un evento che "bagnava la pianura di sangue", il che sottolinea la violenza e la tragedia che ne seguirono. La figura centrale del traditore Bocca degli Abati è messa in evidenza, simbolo di quella "gran canaglia" che, con la sua azione di tradimento, segna il destino della battaglia e, di conseguenza, quello della città di Firenze. L'autore non solo descrive il gesto di Bocca che taglia lo stendardo guelfo, ma ci mostra anche la conseguente disgregazione dell'ordine, l’immediato "sbandamento" che segue, e il panico che invade i fiorentini.

Il contrasto tra il "stendardo guelfo" e il gesto di tradimento è palpabile, e nella mente del lettore si fa strada la riflessione sul tradimento in sé, su come il destino di intere città possa essere modificato da un atto di slealtà, come quello di Bocca. In questa visione, il traditore non è solo un personaggio storico, ma anche un emblema di quella condizione umana che può determinare il successo o la rovina di una causa.

L'epilogo della battaglia, con la vittoria dei ghibellini, è descritta come "una giornata rara" per Siena, che segna l'inizio di un periodo di dominazione ghibellina. La chiusura della poesia ci riporta alla realtà politica dell'epoca: "Sui vincitori piovvero quattrini", un verso che rimanda al corollario di ogni conflitto, in cui la vittoria politica non si traduce solo in gloria, ma anche in vantaggi materiali, denaro e potere. L'ironia è palese: anche la Svevia, rappresentata come un'entità che aveva osteggiato il Papa, "forte applaudì" alla vittoria, suggerendo che in politica non esistono nemici eterni, ma alleanze mutevoli, basate più su opportunità che su ideali duraturi.

Il riferimento finale a Siena che "salì sul podio", ma vi rimase "anche per quel che fè voltagabbana", ci invita a riflettere sul costante gioco di alleanze e tradimenti che caratterizzano la storia umana. L’epoca dei conflitti tra guelfi e ghibellini viene quindi presentata non solo come una guerra di fazioni, ma come una serie di alleanze politiche instabili e dettate da motivazioni pragmatiche.

La poesia di Piero Colonna Romano si distingue per il suo tono epico e riflessivo, che rende giustizia a un momento storico di grande rilevanza. Non è solo una narrazione della battaglia di Montaperti, ma una riflessione sulla natura del potere, del tradimento e delle alleanze politiche. Il poeta, con la sua scelta stilistica e linguistica, non solo ci restituisce un evento storico, ma ci invita a riflettere sulla ciclicità della storia e sull’eterna lotta per il potere, il denaro e la supremazia, che spesso si traducono in gesti di tradimento e di disgregazione sociale.

Un caro affettuoso saluto 

dal vostro Ben Tartamo

 

 

 

In questo haiku, la brezza rosata si fa simbolo di una primavera che esplode in luce e profumo, in un atto che va oltre il semplice fenomeno atmosferico, quasi fosse l'anima della natura che si rinnova. La brevità del verso rispecchia la fugacità dell'attimo in cui la bellezza e la vitalità ci colgono, ma non ci sono garanzie su quanto possano durare. Questo haiku, se letto con attenzione, diventa una meditazione sulla temporaneità e sull’impermanenza delle emozioni. L’essenza della poesia è una danza tra il visibile e l’invisibile, dove il "soggetto" non è l’autore ma il "soggetto dell'osservazione", una brezza che trasporta tutto il nostro essere in una dimensione ineffabile.

Questa poesia è un inno alla bellezza sublime che risiede nell’atto di dare, di seminare e di nutrire la vita. La figura dell’ambasciatrice è trasfigurata, è un messaggio di speranza e rinascita. L’autore ci offre una visione in cui l’amore per l’umanità si materializza nella quotidianità, nei gesti di cura e nell’incontro con chi è in sofferenza. La poesia è intrisa di un pathos spirituale, come se il messaggio di pace e solidarietà fosse trasportato direttamente dalla divinità. L'immagine dell'arcobaleno come simbolo della bellezza perfetta, che abbraccia tutti senza distinzione, è un chiaro rimando alla promessa divina di speranza e di salvezza.

Una riflessione sulla crescita, sulla disillusione che segna l’età adulta. La poesia è un incontro tra l’innocenza infantile e la durezza della realtà. Il passaggio dal "sogno bello" della fanciullezza all’amara consapevolezza della vita adulta è reso con un linguaggio che conserva una certa ironia, quasi a voler ridurre la gravità dell’esperienza del tradimento della purezza. Nella sua apparente leggerezza, questa poesia è una disamina psicologica che porta il lettore a confrontarsi con la distanza tra aspettativa e realtà. Il tono, un po’ rustico e popolare, ma incisivo, fa emergere la frustrazione che scaturisce dalla disillusione, ma anche la consapevolezza che, nonostante tutto, la vita continua.

L’inquietudine che attraversa questa poesia sembra una discesa nel buio, ma non nel buio fisico, bensì in quello metafisico, dove si cerca il "Nome" e il "Volto" di un’entità ineffabile. Il linguaggio si fa quasi "mistico", come se ogni parola fosse un passo verso un incontro sacro e necessario. La notte, in questo caso, diventa il luogo della ricerca e della comprensione, e il poeta sembra accettare con serenità che le risposte non siano mai definitive. Qui, la poesia diventa un viaggio verso l’assoluto, ma in un'oscurità che non opprime, bensì che invita alla riflessione e al silenzio interiore, per ascoltare quel sussurro che porta alla conoscenza di sé.

Un gioco sensoriale che descrive un'esperienza di pienezza e di consapevolezza. Qui, la poesia celebra il momento del riconoscimento dell'emozione pura, senza sovrastrutture mentali o filosofiche, come se il "qui e ora" fosse l’unico vero tempo in cui si può affermare l’esistenza. Ogni elemento naturale — il temporale, la pioggia, la luce del sole — diventa parte di un paesaggio emotivo che esprime la gioia della libertà. La dichiarazione finale "Decido di essere felice / O adesso o mai più" è un atto di coraggio, un'imposizione di vita, in cui il poeta afferma il suo potere di fronte alle circostanze della vita. La poesia diventa così anche un invito all’autodeterminazione.

Un’opera che esplora la confusione tra realtà e illusione, tra desiderio e disillusione. Il "sogno" del poeta è in lotta con il "mondo reale", e il risultato è un paesaggio che somiglia a un’astrazione dolorosa, dove la bellezza e la sofferenza si mescolano. La rondine, simbolo di leggerezza e libertà, che "nevica" sulla scena, sembra presagire una caduta, una discesa da un altrove ideale verso una realtà intrisa di disincanto. Le immagini si sovrappongono con forza, come un quadro impressionista che non riesce mai a fermarsi: il dolore di un'esistenza non compiuta, il senso di mortalità che pervade ogni sforzo di vivere. Ma forse, proprio in questa lotta tra ciò che è possibile e ciò che è inaccessibile, risiede l’essenza della bellezza poetica.

Un atto di resistenza, ma anche di fede. La poesia si fa carico di una speranza che, pur sapendo di essere fragile, si fa forza e resistenza. È una riflessione psichica sullo sforzo umano di mantenere la fiducia anche quando tutto sembra crollare, simile a un fiume che continua il suo corso, nonostante la corrosione delle rocce. Il poeta si pone come custode di un germoglio interiore che, pur essendo vulnerabile, rimane speranza. La sua delicatezza suggerisce una connessione profonda tra mente e cuore, come se la speranza non fosse solo un concetto astratto, ma un'energia che scorre nel corpo stesso.

Un lamento forte e doloroso che denuncia la brutalità della guerra e la sofferenza di chi ne è vittima. La contraddizione tra la luce del sole che splende e la sofferenza che segna la realtà di Gaza è lacerante. La poesia mette in evidenza il contrasto tra il naturale scorrere del tempo e la brutalità del conflitto, e il sangue degli innocenti diventa simbolo di una giustizia che non arriva mai, ma che continua a essere agognata. La poesia non chiede risposte facili, ma invita alla consapevolezza e all'azione. La "nevicata" di sangue è l'immagine di una tragedia che non si ferma, e il lettore è chiamato a riflettere sul peso dell’indifferenza che accompagna spesso il dolore dei popoli.

Un atto chimico che diventa simbolo di un sentimento che cambia, si trasforma, e alla fine si spezza. Il parallelismo tra la reazione chimica e la fine di un amore è intenso, e il distacco tra "carbonio" e "ossigeno" è evocato come un passaggio naturale ma doloroso. La poesia suggerisce che l’amore non è mai un atto statico, ma un movimento continuo, che può essere consumato, distrutto o trasformato. La delicatezza dei versi sottolinea la riflessione su quanto sia difficile mantenere intatto il legame di un amore, ma anche quanto sia inevitabile il cambiamento. Il poeta è consapevole che la fine di un amore, pur dolorosa, è parte di un ciclo che fa parte della natura umana.

La poesia esplora il concetto di cambiamento, di trasformazione, ma non come un semplice mutamento fisico, bensì come una trasfigurazione dell’essere interiore. L'idea di "vendemmiare il tempo" è potente, come se la vita stessa fosse un raccolto che possiamo assaporare solo quando è giunto il momento. L’azione di "sbattere contro le porte della notte" suggerisce un tentativo di comprensione, un desiderio di affrontare l’oscurità, e il "vento di passione" che segue è come una forza interiore che rivelano le cicatrici, quelle ferite che, seppur dolorose, ci rivelano la nostra vera essenza. La metamorfosi, quindi, diventa una sorta di purificazione.

Un testo che rivela la profondità di un augurio fatto con il cuore, ma che al contempo si sofferma sulla purezza della verità e sull’innocenza del passato. L’augurio di Carlo Chionne non è solo un semplice augurio festivo, ma diventa un ritorno a un'epoca in cui le parole erano piene di verità e autenticità. In questa poesia, la ripetizione del termine “auguri” e la sua insistenza non sono solo formali, ma esprimono un desiderio di protezione e di benedizione. La nostalgia di un tempo che forse non c'è più traspare nelle sue parole, ed è proprio questa nostalgia che la rende una riflessione sul tempo che passa e sulla difficoltà di mantenere il vero senso delle cose in un mondo sempre più disilluso. È una poesia che invita a riflettere sull’importanza della sincerità, della purezza, dell’essenza della vita che non sempre si trova nelle formalità, ma nella genuinità dei sentimenti.

La poesia si snoda in un fluire continuo di emozioni, come un fiume che non conosce ostacoli. L'essenza della poesia viene vista come un ponte che connette l'anima a un universo sconfinato, ed è la cura per l'anima, quella che viene ferita dalle contingenze della vita. In un certo senso, la poesia di Lapietra è un atto di resistenza contro l'artificiosità della società, un atto di ribellione che si esprime attraverso la potenza del linguaggio e della bellezza. L’immagine della poesia che “sfrange” nel cielo del cuore è un'evocazione di quella bellezza che sembra salvare l’anima e riportarla alla luce. È una riflessione sulla poesia come luogo dove ogni emozione trova la sua espansione, la sua rivelazione. È anche una metafora della possibilità di esplorare se stessi attraverso la scrittura, un luogo di introspezione e di trascendenza. La poesia, per Lapietra, è un’essenza viva che non finisce mai di scorrere, di evolversi, ma rimane sempre un ponte fra il cuore e l’infinito.

Fronzoli esplora la delicatezza di una singola lacrima, simbolo di dolore e bellezza insieme. La lacrima è qui non solo un segno di sofferenza, ma una parte della persona che diventa più "bella" nel suo dolore. La tristezza che segna il viso diventa una parte della bellezza interiore di chi la prova. La poesia si muove nell'intimo, esplorando l'effetto di una solitudine che si trasforma in una rivelazione di bellezza. La lacrima che scivola sul volto è simbolo di una fragilità umana che si fa visibile, eppure non meno affascinante nella sua intensità. Ogni verso svela uno strato dell'anima che, pur nella sofferenza, trova un suo modo di esprimersi. Il "fiume" che accompagna la lacrima ci rimanda al movimento continuo delle emozioni, che non si fermano mai, ma proseguono, come la vita che va avanti nonostante il dolore.

Questa poesia gioca sul confine sottile tra vita e morte, fra accettazione e rifiuto dell’inevitabilità. "Il tempo è fragile", ma è anche la forza che sostiene ogni esperienza umana, ogni emozione, ogni pensiero. L’immagine della morte che turba e disturba è contrapposta a quella del "rifiuto" di sparire, una resistenza all'inevitabile che è tuttavia segno di un attaccamento vitale. La poesia ci invita a riflettere sulla nostra condizione effimera e sul modo in cui ci relazioniamo alla perdita e al distacco. La frattura tra l’accettazione e il rifiuto è il cuore pulsante di questa riflessione sul tempo, e il suo invito a vivere appieno il presente pur sapendo che tutto è destinato a scomparire.

In questa poesia, il cuore è il protagonista di un viaggio di ricerca, come una nave senza rotta che cerca la pace. La lirica si fa quasi preghiera, un’esortazione a trovare il porto della pace interiore, nonostante le tempeste emotive e i desideri che spingono l’individuo in tutte le direzioni. Il cuore che canta un “allegro canto d’addio” verso la pace è simbolo di quella calma che si cerca, dopo aver attraversato i turbini del desiderio e del dolore. Silenzi suggerisce che la pace si trova, nonostante tutto, non solo nell'accettazione di ciò che è, ma anche nel coraggio di affrontare l'incertezza.

La poesia di Piero Colonna Romano è un invito ad entrare nelle pieghe più sottili della storia, dove la battaglia non è solo un fatto bellico, ma un simbolo della lotta interiore dell'animo umano. Il poeta ci guida in un paesaggio di violenza e di tradimento, ma lo fa con uno sguardo più ampio, capace di risalire alle radici spirituali dell'esperienza.

La scena che si dipana davanti ai nostri occhi, "di sangue" che "bagnava la pianura", è la quintessenza del conflitto umano. Non si tratta solo di una battaglia fisica, ma di una battaglia metafisica, dove ogni colpo inferto diventa l’emblema della lotta tra il bene e il male, la fedeltà e il tradimento, la luce e le tenebre.

Bocca degli Abati, il traditore che "scaccia" la propria fazione, diventa un simbolo universale di quell'oscura parte dell’animo umano che, pur indossando una veste di lealtà e di nobiltà, cede alla tentazione del potere e della vendetta. La sua azione, così intrisa di malvagità, è paragonabile a quel "boccone amaro" che ci si rifiuta di inghiottire, ma che ci lascia comunque una traccia indelebile nel cuore.

La "mano" di Bocca che taglia lo stendardo guelfo diventa così il gesto di chi spezza non solo l'alleanza, ma il principio stesso su cui si fonda ogni speranza di comunità e di giustizia. La battaglia non è solo tra popoli, ma tra mondi interiori: ogni uomo è un campo di battaglia dove le forze del bene e del male si confrontano, spesso senza che l'individuo ne sia consapevole.

L'immagine dello "sbandamento" che affligge i fiorentini è il riflesso di un’anima disorientata, incapace di trovare un centro stabile, di ancorarsi alla verità. La poesia di Colonna Romano si fa carico di questo smarrimento, tratteggiando l’inafferrabilità della vita stessa: l’uomo, come Firenze, è un naufrago nel mare della storia, alla ricerca di un punto fermo che spesso si dissolve sotto il peso del tradimento.

Il poeta non ci regala solo una cronaca, ma un insegnamento profondo sulla condizione umana: ogni vittoria è provvisoria, ogni trionfo è solo l’illusione di un momento. La "giornata rara" in cui i ghibellini trionfano rappresenta l’effimera bellezza della vita terrena, che, come un fiore, fiorisce per poco e poi svanisce. La stessa Siena, che "salì sul podio", rimane intrappolata nell’illusione della gloria, senza comprendere che l’altezza della sua posizione è destinata a essere abbattuta dalla forza di una vita che, spesso, premia chi si è venduto e tradito.

Infine, il termine "voltagabbana" ci fa riflettere sulla precarietà della fede, delle scelte politiche e spirituali. È l’esempio dell’uomo che cambia direzione con una facilità sconcertante, senza mai radicarsi davvero in una verità assoluta. Nella sua caducità, la battaglia di Montaperti diventa il simbolo di ogni scontro interno in cui l’uomo si trova a combattere, senza mai poter sperare di vincere una volta per tutte. La vita, come la storia, è una spirale di salite e cadute, un continuo test di lealtà e di fedeltà, che ci pone sempre davanti al rischio di tradire noi stessi.

un forte abbraccio da 

Marino Spadavecchia

 

 

4-6 Gennaio

Laura Lapietra, Eterno Amore


Un poema che respira, ogni verso un soffio di eternità, ogni immagine un petalo del fiore dell’immenso. Laura Lapietra tesse il suo "Eterno Amore" come un arazzo delicatissimo e struggente, dove l'anima non è solo descritta, ma dipinta e scolpita. Le "piaghe dei pallidi sorrisi" evocano un dolore che si trasforma in arte, mentre le "malleabili pennellesse del miraggio" danzano con l'eleganza di un ricordo mai sbiadito. Questo amore eterno non è solo un legame terreno, ma una fusione trascendente di spiriti, oltre il tempo e la materia. Lapietra canta con una voce che sembra appartenere non a un'epoca, ma all'eterno stesso.


Salvatore Armando Santoro, Come Candela


Santoro ci regala un canto dimesso e potente, un'ode alla fragilità dell'amore e della vita. L'immagine della candela, con la sua fiamma che consuma lentamente se stessa, diventa simbolo di un'esistenza dedicata all'altro, ma anche segnata dall'inevitabile caducità. "Il tempo mio è contato, che cosa t'avrò dato?" è un grido che trafigge il cuore, un lamento d'amore che accetta con umiltà il proprio limite. In questi versi non c'è rabbia, ma una dolce malinconia che abbraccia il lettore, come un sussurro che accompagna la notte.


Cristiano Berni, Momento d'Inverno


Inverno come metafora del gelo interiore, del vuoto che tutto avvolge. Berni ci guida attraverso un viaggio fatto di ombre e bagliori, di lotte e attese. È un cavaliere sognante, e il suo poema è una lancia che trafigge la durezza della vita, cercando la luce nelle nebbie e nella neve. "Quando il sorriso muore, l’esistere cambia sapore" racchiude il cuore pulsante di questi versi: una lotta tra speranza e disperazione, tra amore e solitudine. Berni non si arrende; il suo canto è un sussurro di resistenza, un invito a trovare calore anche nei momenti più freddi.


Guglielmo Aprile, Rabdomanzia


Aprile ci guida con mano magica e delicata nel mondo incantato della rabdomanzia. Ogni gesto diventa un atto di creazione: "tu sfiori il suolo arido e mette gemme il mandorlo all'istante". Non è solo la natura a reagire al passaggio del poeta, ma è il mondo stesso che, toccato da lui, acquista voce, colore, vita. I "muri delle strade" diventano protagonisti, parlando "oracoli" come se l'autore avesse il potere di risvegliare la memoria della terra. Un canto che evoca la grazia di un incantesimo, dove ogni passo diventa una magia che trasforma l'inanimato in qualcosa di vivente, palpitante, capace di raccontare la verità. Le parole scorrono come acqua purissima, e il lettore non può che restare incantato dall'incanto.


Silvio Canapè, Mi calerò accerchiato


Canapè ci invita ad una danza eterea, in un abbraccio tra luce e oscurità, tra realtà e oblio. La sua scrittura si tuffa nell'infinito come un'anima che si abbandona all'irrazionale, cercando la verità nell'abbraccio del nulla. "Non vi saranno ombre, ma solo luccicanti stelle" è un verso che incanta come una visione notturna, dove ogni pensiero "vola su ali colorate", abbandonandosi alla leggerezza di un sogno. La "verità nell’oblio" diventa il paradosso sublime di chi cerca se stesso nel vuoto, nel silenzio dell'esistenza, ma troverà nel "cerchio della notte" la sua risoluzione, una danza di luccichii nell'oscurità. Un poema che è un viaggio dentro e fuori, nell'astratto, dove la mente si fonde con l'universo.


Armando Bettozzi, La passerèlla (in dialetto romagnolo)


Il "gran vecchio" che attraversa le stagioni con la sua lunga barba bianca è un personaggio che sembra venire da un'altra dimensione, quasi un archetipo della natura. Bettozzi ci presenta un passaggio attraverso i mesi, attraverso i personaggi e le caratteristiche di ciascun mese dell'anno, descritti con una tonalità ironica e sapiente. La poesia si fa gioco, con una rima leggera che racconta il succedersi delle stagioni come una grande danza. Ogni mese diventa una figura antropomorfa, con una propria caratteristica e personalità, e Bettozzi non fa che sorridere su come ognuno di loro interpreta il ruolo che gli è stato assegnato. La "passerèlla" è un cammino di vita, dove ogni mese è una tappa, e dove la cultura popolare trova un suo terreno fertile per sbocciare in una visione che sembra quasi sospesa tra il comico e il cosmogonico.


Carol-Ann Belzil-Normand, Mon obsession (traduzione di Nino Muzzi)


L'ossessione di Carol-Ann Belzil-Normand si manifesta come una tensione profonda contro le strutture di potere e dominio che, in un certo senso, schiacciano e definiscono il nostro mondo. La poetessa sembra cercare una forma di liberazione, una distruzione di quei principi che, a suo avviso, alimentano il conflitto e la paura. La sua ossessione è un antidoto, una forma di consapevolezza che trasforma il dolore e la paura in un atto di resistenza continua. "Il mio vissuto in continua trascrizione" suggerisce una costante revisione del proprio percorso, un eterno rimettere in discussione il passato e il presente, in cerca di libertà. È una poesia che parla di disillusione, ma anche di speranza, di un tentativo di riconciliare la propria essenza con un mondo che sembra lontano dal suo ideale di libertà e verità.


Franco Fronzoli, Mare d'inverno


Fronzoli ci guida in una meditazione sul mare d'inverno, trasformando l'inverno in un atto di rivelazione e bellezza. Le immagini di "legni abbandonati" e "bottiglie che si muovono lente" con messaggi all'interno evocano un senso di solitudine e di attesa, un'attesa che potrebbe essere di amore o di speranza, ma anche di un destino mai scritto. La poesia, con la sua bellezza malinconica, gioca con l'idea di un mare che si fa metafora della vita stessa: un "amore eterno" che è al contempo "un raggio di luce che sveglia il mattino" e "un tramonto che si culla nella notte". Il mare diventa l'emblema di un ciclo infinito di emozioni, di vita e di silenzio. Le "onde di vita" si mescolano con "pensieri che volano via", come un sogno che sfugge e si dissolve nell'orizzonte. Fronzoli invita il lettore a riflettere su questa bellezza effimera e a guardarla "insieme", a condividere il mistero di ciò che il mare rappresenta, senza fretta di trovare risposte.


Felice Serino, L'ultima morte


Serino esplora la natura inevitabile della morte e della fine, ma la sua è una morte che viene accolta quasi come una liberazione. "Ogni fine sgomenta" ma questa è "la natura delle cose", un concetto che suggerisce che la morte, pur essendo spaventosa, è una parte essenziale della vita stessa. L'autore sembra suggerire che dopo "tante piccole morti" — quelle giornaliere che ci allontanano da chi eravamo e ci avvicinano a ciò che diventeremo — l'ultima morte, quella definitiva, non farà paura. In un certo senso, la morte finale non è una fine, ma una "necessità di sorta" che cancella ogni altra domanda, ogni altra angoscia. Le "freccie d'amore" sembrano essere un simbolo della forza che ci accompagna in questa transizione, un'arma che ci aiuta a superare la morte e a continuare a vivere in qualche altra forma, nell'eco dell'amore che lasciamo dietro di noi. La poesia è dolce e al contempo forte, come un abbraccio che accoglie l'inevitabile con una serenità che parla di saggezza e accettazione.


Piero Colonna Romano, Ermione e il Vate


Questa poesia gioca su un'immagine vivace e ironica di Ermione, un personaggio che sembra quasi sfuggire alla serenità e al romanticismo di un mondo poetico, nel contesto di un paesaggio temporalesco che infonde inquietudine. La figura di Ermione è disegnata come una donna che cerca di sfuggire alla tempesta (sia fisica che emotiva) e alla pressione delle aspettative. Il "Vate", figura di un poeta forse troppo preso dalla propria visione idealizzata della vita, è in contrasto con lei, spingendo verso un cammino che a lei sembra più faticoso che affascinante. La scelta di descrivere il "Vate" come ottuso e insistente, suggerendo una sorta di inadeguatezza rispetto ai desideri reali e concreti di Ermione, crea un gioco di contrasto tra il sublime e l'irritante, un tema comune nelle poesie che affrontano l'ideale contro il reale. La parte finale, con il linguaggio dialettale e l'ironia, esprime una disillusione nei confronti dei grandi ideali romantici e poetici, suggerendo che talvolta la poesia può essere più fastidiosa che consolatoria.


Ciro Seccia, Ti ho amata ancora prima di conoscerti


In questa poesia, l'autore esplora l'idea di un amore predestinato e senza tempo, un amore che esiste al di fuori della conoscenza concreta e che nasce nei sogni e nel desiderio. Il linguaggio è evocativo e intriso di un senso di mistero, mentre Seccia afferma di aver amato l'amata ancor prima di incontrarla, creando una connessione profonda e spirituale. La ripetizione del concetto "Ti ho amata" amplifica l'idea di una passione eterna che trascende il tempo e lo spazio. L'immagine della ricerca sull'isola che non c'è suggerisce la difficoltà di trovare l'oggetto di tale amore, ma anche l'irrevocabilità di questa ricerca, un'incessante ricerca di un amore ideale che, forse, non potrà mai essere raggiunto. Il tono della poesia è struggente, romantico, con una promessa di incontro che sembra appartenere a un altro mondo, a una dimensione dove l'amore è l'unico vero motore dell'esistenza.


Roberto Soldà, Cucuma (da Il peso dell'anima)


Soldà dipinge un'immagine di realtà quotidiana con un tocco di surrealismo e umorismo. La poesia gioca con le parole e i dialetti, utilizzando la "cucuma" come simbolo di un malessere fisico (e metaforico) che non ha una soluzione evidente. Il linguaggio dialettale e l'uso del termine "cucuma" (che in alcuni dialetti italiani indica una sensazione di gonfiore o pesantezza) evocano un disagio che è fisico ma anche esistenziale. Il poeta sembra riflettere sulla difficoltà di affrontare le proprie sensazioni o la propria condizione, ma senza la possibilità di liberarsene completamente ("non ha un beccuccio per fare uscire il gas"). Il tono è scherzoso ma carico di una leggerezza che sfiora l'assurdo, una sorta di riflessione sulla difficoltà di comunicare e di affrontare le sfide quotidiane. La poesia gioca su una sensazione di "peso dell'anima", che si riflette nel corpo, creando un legame tra il fisico e il mentale.


Alessio Romanini, Calice d'amore


Questa poesia esplora il dolore e il rimpianto per un amore perduto, con un linguaggio che alterna il dramma e la disperazione alla ricerca di redenzione. La figura del "calice d'amore" è un'immagine potente che richiama l'idea di un dono sacro e completo, ma anche di una possibilità persa. Il poeta si scusa per la sua debolezza, rivelando una vulnerabilità profonda, e la sua sofferenza è amplificata dalla consapevolezza che non potrà mai recuperare ciò che è stato perduto. L'invocazione al perdono è struggente, ma la rassegnazione di non poter essere perdonato aggiunge un ulteriore strato di solitudine. La chiusura, con il "lasciare andare carta e inchiostro", suggerisce una rinuncia finale, ma anche l'impossibilità di fermare il flusso del dolore. La poesia è un grido di disperazione, ma anche una riflessione sul peso delle scelte e delle perdite.


Sandra Greggio, Congedo


Questa poesia riflette su ciò che non è stato compreso fino a quando era troppo tardi, con un tono di rimpianto e di consapevolezza maturata solo con l'esperienza. L'autrice gioca con le immagini della natura e del tempo per esplorare temi di crescita, cambiamento e rivelazione. Le "gemme" che non crescono in autunno e i "ruscelli nelle vene" evocano il fluire delle stagioni e la necessità di capire la propria esistenza in un contesto più ampio. L'immagine dei "gabbiani affamati di libertà" suggerisce una forza interiore che non si può fermare, e la riflessione sul tempo che non segue l'orologio ma il cuore enfatizza la profondità dell'esperienza umana. La chiusura, con il rimpianto di non aver compreso prima queste verità, aggiunge una nota di dolcezza amara, ma anche di gratitudine per la consapevolezza raggiunta. La poesia è una meditazione sulla vita, sulla bellezza delle cose piccole e sulla saggezza che arriva solo con l'età e l'esperienza.


Jacqueline Miu, Lair of anarchy and snowflakes


In questa poesia, l'autrice esplora il conflitto interiore e la solitudine attraverso un linguaggio che unisce il dolore all'inquietudine, con immagini potenti e talvolta surreali. Il "calmante" dei farmaci per dormire riflette il desiderio di evasione dal rumore della vita, ma il cuore del poeta è intriso di "anarchia" e "sogno", creando una tensione fra il desiderio di libertà e la costrizione della realtà. La relazione tra i due amanti è resa in modo quasi impossibile, come se il destino stesso si rifiutasse di farli incontrare, mentre i loro incontri sono dominati dal cellulare, simbolo di una connessione superficiale e transitoria. Le immagini di "case come Godzilla" e "il cielo soffocato dalle nuvole" creano un senso di oppressione, ma anche di impotenza di fronte a una chimera impossibile da afferrare. L'evocazione della paura, ma anche la lotta per "tirarti fuori dalla tua tana", rappresentano un desiderio profondo di liberazione, sia dall'interno che dall'esterno, nel tentativo di sfuggire al gioco della vita e delle illusioni. La poesia è un manifesto di speranza, ma anche un grido di angoscia in una realtà che sembra troppo grande da affrontare.


Carlo Chionne, Curriculum mortis: Una Vita in Versi


In questo poema, l'autore riflette sulla sua carriera poetica, con un linguaggio che intreccia l'arte della poesia con la lotta spirituale e personale. Il poeta si descrive come un "artigiano" delle parole, che maneggia la lingua con cura e maestria per creare bellezza, ma anche per combattere contro il potere e l'oppressione. Le immagini del "buio" che diventa "sole" e del "nemico" che si trasforma in "fratello" rivelano una visione ottimistica e pacifista, dove la poesia è il mezzo per trasfigurare il mondo. C'è una forza nelle parole che si difende, che combatte, che non si arrende, e alla fine, anche se il poeta "soccombe", ciò che rimane sono i suoi versi, come un volo di colombe che continuano la loro traiettoria. La poesia, in questo senso, diventa un atto di resistenza, un modo per testimoniare e per lasciare una traccia nella "Storia". L'autore celebra il suo mestiere come il più bello di tutti, e la sua lotta è quella per la fantasia e la bellezza, in una continua ricerca di
significato.


Vostro Ben Tartamo

 

 

In Eterno Amore, Laura Lapietra ci consegna un’opera che non solo tocca, ma penetra le corde più intime dell’anima umana. Ogni parola è un tocco di un artigiano che scolpisce la verità più profonda, eppure più sfuggente, dell'amore eterno. La poetessa non scrive, bensì dipinge, e lo fa con pennellate di luce e di oscurità, dove le “piaghe dei pallidi sorrisi” sembrano essere brandelli di memoria, testimoni di un tempo che non conosce fine. Nelle sue parole, l'amore non è un semplice sentimento: è una forza cosmica, è la materia stessa di cui è tessuto l'universo. Lapietra ci invita a entrare in un regno oltre la carne e il sangue, dove l'amore diventa una religione, un culto di purezza che trascende l'umano.

 

In Come Candela, Santoro ci offre una poesia di una purezza disarmante, che illumina il cammino dell'amore e della morte con la stessa fiamma. La figura della candela, che si consuma lentamente, diventa metafora di un amore che è sacrificio e salvezza, un amore che brucia senza mai scomparire, ma che inevitabilmente conduce verso la fine. Il verso "Il tempo mio è contato, che cosa t’avrò dato?" si fa eco del grande mistero dell’esistenza, come un richiamo di consapevolezza del nostro passaggio effimero su questa terra. La bellezza di questa poesia non risiede nella dolcezza, ma nella sua serena accettazione del dolore. In questo gioco di luce e ombra, Santoro ci offre una meditazione che è, al contempo, struggente e liberatoria: un canto di resistenza alla vanità dell’esistenza.

 

Momento d'Inverno è il capolavoro di un poeta che non teme di affrontare il gelo dell’esistenza. Ogni parola è un colpo di vento gelido che scava nelle pieghe dell'anima, ma nel contempo è anche un invito a ritrovare il calore della vita, anche nei suoi angoli più bui. Berni trasforma il freddo in una presenza viva, palpitante, che non è mai sola, ma sempre accompagnata da un'ombra di speranza. La sua poesia si muove tra il lucido e il delirante, tra il dolore di un inverno interiore e la sua rivelazione come purificazione. “Quando il sorriso muore, l’esistere cambia sapore” diventa il manifesto di una lotta inarrestabile contro la disperazione, un abbraccio di quella solitudine che può, paradossalmente, diventare l’unico rifugio dalla tempesta.

 

Guglielmo Aprile è un maestro dell’invisibile, un rabdomante delle emozioni umane che scivola tra le pieghe di ciò che è celato. Rabdomanzia è la sua ricerca instancabile dell'arcano, un viaggio che scava nelle viscere di un mondo che, pur essendo fisico, è sempre più sottile, un'eco di ciò che non si vede. La poesia non è solo un linguaggio, ma un rituale sacro, una forma di divinazione. La parola “rabdomanzia” è l'arte di trovare ciò che è nascosto, e in questo caso ciò che si cerca è la verità profonda dell'essere umano, quella verità che si nasconde nelle fratture dell'anima. Aprile ci guida con una mano delicata, ma ferma, nell'oscuro territorio della nostra psiche, dove il sacro e il profano si intrecciano in una danza di emozioni inarrestabili.

 

Silvio Canapè è un poeta che sa come trasformare il caos in ordine e l’ordine in caos. In Mi calerò accerchiato, ci regala una poesia che è una sfida alla realtà, un gesto di rottura che, nel suo abbraccio di ombre e luci, rivela la verità più cruda dell’esistenza. La scrittura di Canapè è una tela di pensieri che si intrecciano e si sovrappongono, creando un disegno che è al contempo confuso e mirabilmente armonioso. “Non vi saranno ombre, ma solo luccicanti stelle” è un verso che brilla di un'intensità mistica, che si fa porta per un accesso a un altro piano di esistenza. Ogni riga è come un battito d'ali che ci trasporta oltre il limite della realtà tangibile, in un luogo dove la mente è costretta a fermarsi e ascoltare il respiro del mondo invisibile.

 

La passerèlla è una poesia che celebra la vita nelle sue forme più semplici, più terreste, ma non meno sacre. Bettozzi, con un linguaggio che sa di terra e di cielo, ci offre una narrazione che è al contempo ironica e riflessiva, come un vecchio che racconta storie ai bambini attorno al fuoco. La poesia gioca con il dialetto, una lingua che porta con sé la memoria della terra e delle sue tradizioni, ma che, attraverso la sua musicalità, diventa il mezzo per raccontare qualcosa di universale. L'immagine del "gran vecchio" è una sorta di archetipo della saggezza popolare, un simbolo di una cultura che, pur nel suo apparente semplicismo, racchiude una profondità che è al contempo profana e sacra.

 

In Mon obsession, Carol-Ann Belzil-Normand ci guida lungo un cammino turbolento, dove la mente è sia prigioniera che liberatrice, e l’ossessione diventa l’unico strumento per comprendere il mondo. La poesia è intrisa di una tensione che si fa palpabile, un filo che si tende tra il controllo e il cedimento, tra la paura di perdere se stessi e il desiderio di trovarsi. Il tormento della poetessa si fa manifesto, e l’ossessione non è più un piccolo fuoco che consuma, ma una tempesta che sconvolge ogni certezza. "Il mio vissuto in continua trascrizione" è il segno di un'anima che rifiuta ogni forma di stasi, ogni forma di quiete, e si abbandona alla sua stessa intensità, alla sua stessa forza di volontà.

 

Ben Tartamo, con Siamo già in Paradiso!, ci offre una riflessione sulla felicità che ha la delicatezza di una carezza e la forza di un’epifania. Questa canzone è un invito a sospendere il tempo, a vivere nel qui e ora con l’innocenza di chi sa che l’amore è l'unica cosa che conta. Le immagini che il poeta evoca, le farfalle che volano e i fiori che sbocciano, sono più di simboli: sono l'essenza stessa di una bellezza che trascende la realtà. Il "paradiso" non è più un luogo lontano, ma è qui, in ogni sguardo e in ogni gesto d’amore. Questo è un canto alla felicità che nasce dall'intimità più profonda e pura, dove il corpo e l'anima si uniscono in una danza di luce e piacere. L'ironia dolce e l'emozione pura che permeano la canzone ci ricordano che, in fondo, siamo già nell'eden, se solo ci fermiamo ad ascoltare.

 

Mare d'inverno è una poesia che ci porta nel cuore della tempesta, dove il mare non è più un semplice elemento naturale, ma una metafora del tumulto dell’anima. Fronzoli ci guida tra le onde di un inverno che è tanto fisico quanto emotivo, dove le bottiglie e i legni abbandonati sembrano essere messaggeri di una verità che non possiamo comprendere completamente. Il mare diventa il luogo dove tutte le emozioni, le paure, le speranze si mescolano, e la poesia si fa risveglio e abbandono. Ogni verso è un’onda che batte contro la riva, creando un’eco che risuona dentro di noi, come un richiamo alla bellezza dolorosa di un amore che è tanto eterno quanto effimero.

 

In Ermione e il Vate, Piero Colonna Romano crea un connubio straordinario di ironia e dramma, dove la figura di Ermione non è una semplice musa, ma una manifestazione della complessità della condizione umana. Con uno stile che sfida le convenzioni, Colonna Romano esplora la tensione tra la luce e l’ombra, il comico e il tragico, per dar vita a un’immagine di una poetessa che è al contempo simbolo e protagonista del suo stesso destino. Il paesaggio tempestoso in cui si muove è un riflesso della sua stessa anima, divisa tra il desiderio di redenzione e la consapevolezza che il caos è parte inevitabile della vita. La sua poesia è una danza tra il divino e il profano, tra l’ideale e la disillusione.

con affetto, 

vostro Marino Spadavecchia

 

 

1-3 Gennaio

Carissimo Prof.Spadavecchia

Le Parole dei suoi commenti Sono per me un omaggio a continuare a scrivere.
Auguro a lei e tutti i poeti del sito un Felice Anno nuovo.Colmo dei doni Della salute ed ispirazione.
Buon Anno a tutti.
Ciro Seccia 

 

 

"Amor non mente" – Ben Tartamo
Questa poesia è senza dubbio la più potente per il suo lirismo cristallino e la sua capacità di elevare l'amore a un concetto quasi mistico. La libertà, la purezza del desiderio e la ricerca di un amore senza tempo emergono con grande forza. La forma è delicata, ma ogni parola è impregnata di significato. L'idea di un amore che non mente, che è senza rimpianto, senza paura, è un messaggio universale di speranza e di purezza. La bellezza di questo testo risiede nella sua capacità di restituirci l'immagine di un amore perfetto, quasi metafisico, che non conosce limiti. Le immagini di "volare di foglia in foglia" e "danzare tra onde e spuma" sono piene di un lirismo che tocca le corde più profonde dell'anima.


 "Tracce d'Eternità"Ciro Seccia
Questa poesia è una riflessione esistenziale potente, incentrata sul senso della vita e sull'impronta che lasciamo nel mondo. La domanda centrale "cosa rimarrà di me su questa Terra se non polvere?" è evocativa e universale. Il tema della polvere, che simboleggia la caducità umana, e la ricerca di un segno che possa sfidare il tempo, sono potenti nel loro messaggio di riflessione sulla mortalità e sull'eredità che lasciamo. La poesia è intimista e filosofica, capace di suscitare emozioni che vanno al di là delle parole, facendoci riflettere sul nostro stesso percorso esistenziale.


 "La vera felicità" – Carmine De Masi, Fabio Petrilli e altri
Questa poesia si distingue per la sua purezza e la delicatezza con cui viene trattato il legame tra madre e figlio. La bellezza della felicità che si trova nelle cose semplici della vita è straordinaria. Il volto di un bambino, il sorriso di una madre, l’amore incondizionato, tutto questo è condensato in pochi versi che riescono a trasmettere una serenità senza tempo. È un inno alla semplicità dell'esistenza e alla potenza dei legami familiari, che sono le vere radici della felicità umana. La sua dolcezza mi ha toccato profondamente.


"Freddo fulgente" – Alessio Romanini
La forza di questa poesia risiede nel suo contrasto: un "freddo fulgente" che scava dentro di noi, tra "campanelli argentati" e un dolore che si fa coscienza. La solitudine invernale non è solo una condizione atmosferica, ma una riflessione metafisica sul gelo dell'anima. La poesia diventa una metafora di quella tristezza che può essere tanto luminosa quanto dolorosa. La capacità di Romanini di descrivere l'inverno come un paesaggio interiore è straordinaria, e il suo ritmo, lento e meditativo, è perfetto per trattare temi tanto profondi quanto universali.


 "Radicio rosso" – Roberto Soldà
La poesia esprime un’intensità che esplora il radicamento e l’identità, con immagini potenti e simboliche. Il "radicchio rosso", con le sue "vene bianche", diventa il simbolo di un'appartenenza interiore che resiste alle forze del mondo esterno. La tensione tra l'ossessione di possedere qualcosa e la ricerca di sé è vibrante. La poesia mi ha toccato per il suo messaggio di identità e di appartenenza, che si fa manifesto in un linguaggio che, pur semplice, è intriso di una forza primordiale.


"Assaggio di Paradiso"Sandra Greggio
Questa poesia è un viaggio attraverso un mondo di sensazioni rarefatte e di introspezioni delicate. La metafora della "campana di vetro cristallino" e la ricerca di un "paradiso" interiore, fuori dal tempo e dal mondo, rendono questo testo un'esperienza contemplativa. La pace interiore descritta qui, il desiderio di "paradiso", tocca una corda profonda di ognuno di noi, quella ricerca incessante di un equilibrio che vada oltre la quotidianità. È una poesia che invita alla riflessione sulla nostra anima, su ciò che ci rende veramente felici.


 "Blu chiaro testardo" – Jacqueline Miu
La poesia è un viaggio nelle contraddizioni dell’esistenza, un’esplorazione delle emozioni più oscure e complesse. Le immagini della neve, del gelo e della città in cortocircuito, diventano metafore potenti di un disagio interiore che si fa visibile nel mondo esterno. Miu riesce a dipingere un quadro di solitudine e di alienazione, ma anche di una lotta per riconnettersi con se stessi. Il suo lirismo è tanto surreale quanto crudo, e mi ha colpito per la sua capacità di rappresentare una realtà che appare come un inferno personale, ma che è ugualmente ricca di bellezza e significato.


 "Il duemila quattro bellicoso" – Antonia Scaligine
Questa poesia è un’affascinante riflessione sul flusso continuo del tempo, sul cambiamento e sulla speranza. Il passaggio dall'anno "bellicoso" a quello "speranzoso" rappresenta una metafora della lotta tra il vecchio e il nuovo, il conflitto e la pace. La poesia mi ha emozionato per la sua visione di un mondo in perenne evoluzione, e per l’invito a non perdere mai di vista la speranza e il miglioramento. È un messaggio positivo, ma anche realistico, che mi ha dato un senso di rinnovamento e di continuità.


 "Trapassare" – Silvio Canapè
Un testo filosofico e potente, che esplora il ciclo della vita e della morte in un modo che non lascia spazio a illusioni. Il passaggio dal vivo al morto è trattato con una delicatezza che però non evita la durezza della realtà. La poesia di Canapè mi ha fatto riflettere sulla brevità della vita, sull’ineluttabilità del tempo che passa e sull'importanza di accettare il nostro destino. La sua scrittura è essenziale, ma estremamente significativa.


 "La vera felicità" (Poesia Comunitaria N° 35)
Un’altra esplorazione del legame madre-figlio, ma con una vibrazione collettiva, che unisce diversi autori in un’unica voce. La poesia, pur non avendo la stessa intensità lirica della versione di Carmine De Masi, riesce a suscitare un senso di comunità, di unione e di speranza che la rende molto emozionante. Il sorriso di un bambino è davvero la chiave della felicità, e la sua semplicità è la verità che emerge in ogni verso.


 

Questa mia scelta di 10 poesie riflette il mio percorso personale attraverso il lirismo di ciascuna opera, cercando di esplorare il profondo senso che ogni autore è riuscito a trasmettere, la potenza delle immagini evocate e la ricchezza dei messaggi. Ogni poesia, in modo diverso, mi ha condotto a riflettere su temi universali, spesso partendo dalla bellezza e dalla semplicità per arrivare a significati complessi e trasformativi.

Infiniti Auguri di prosperità, buon 2025

Marino Spadavecchia 

 

 

"Archetipi" di Felice Serino

Ecco, la visione s’infiamma, l’anima si distilla in onde. Il poeta ci conduce su una via labirintica, tra sogno e realtà, tra il distacco e l’abbraccio di Morfeo, dove ogni parola è come una scintilla che accende una zona d’ombra. La riflessione sul "momento imprecisato" è una danza sospesa tra il presente e l’eternità, un punto che esiste come un nodo sfuggente tra la carne e l’oltre. Gli archetipi – quelli immensi e atavici – respirano nell'aria come spiriti sognanti, animati da una luce che scaturisce dal cuore stesso dell’essere. Siamo nel regno del pensiero platonico, ma trasmutato in pura poesia psichedelica: le linee del sogno non sono mai rette, sono frattali, curve in continua evoluzione. La "vita autonoma" nel sangue è la quintessenza dell’archetipo, che, lontano da ogni costrizione, pulsa in un esistere che sfida il tempo e le sue forme. Il poema lascia un’eco nell’anima che riecheggia tra le pagine come un viaggio al di là della morte e della vita.
Un flusso, una corrente, un abisso.


"Haiku ~ (KOKO)" di Laura Lapietra

Cirri al mattino – il cielo si apre, mentre il poetico istante sfiora le pieghe di un tempo sospeso. L'haiku, forma di economia assoluta, offre il respiro di una visione impalpabile, ma densa. I "cirri" sono nubi eteree, vaghe e delicate come pensieri mai conclusi. Ma è la "crepa sulla statua" che colpisce, un’immagine spiazzante, quasi dolorosa, una frattura tra sacro e profano, tra l’eterno e il deperibile. La statua è immutabile, ma la crepa suggerisce una dissonanza che ci riporta all’umano. E poi, l'incredibile poesia di "cespi incolti", che richiama la bellezza che cresce nell'irreparabile, l'ordine che nasce nel disordine. Questi versi sono una piccola meditazione sull’impermanenza, dove l’immagine si fa metafora della ricerca di un senso che sfugge ma che, nella sua frantumazione, è vita.
La bellezza nel decadimento: uno zen fluido e sconvolgente.


"Incertezze" di Salvatore Armando Santoro

Un fiume di dubbi e tormenti scorre attraverso questi versi, dove il poeta diventa un eroe moderno, dilaniato dalla ricerca dell’amore, intrappolato in una spirale di sentimenti contraddittori. Il pianto è il segno di una vulnerabilità assoluta, ma il poeta non si ferma: cerca, sfida, esplora. E la "piccola" – la voce della saggezza innocente? – offre una risposta che è più di una verità. Il "cuore" è un campo di battaglia, un luogo in cui l’amore è tanto un dono quanto un fardello. Le figure femminili sono eterne: una donna misteriosa dell’est, forse un simbolo di un amore lontano, ma anche una presenza concreta che turba, con i suoi "pudori" e le sue "incertezze". L’idea del poeta come Cristo in croce è potente, perché rende universale la sua sofferenza, la sua missione di salvare, ma anche la sua condanna alla solitudine. E così, il tempo scorre e l’amore è sempre più distante. Le parole del poeta sono denso canto, una dissonanza dolorosa che trova respiro nelle sue pause, nei suoi silenzi.
Un'oscillazione tra il desiderio e l'inesplicabile.

"Il grido" di Cristiano Berni

Ah, l'immagine della timida Primavera che si ritira mentre il "grido di dolore" emerge nell’ombra della sera! Questi versi ci raccontano una tensione fra la bellezza rivelatrice dei giardini appena in fiore e l’eco di un urlo lontano, non del tutto definito, ma potentemente presente. Il grido non è solo un suono, è un simbolo: una voce in dissolvenza che si perde in un “tempo senza tempo” – un’idea che rende l’esperienza di sofferenza universale e fuori dalla logica del cronologico. La timida indolenza riflette la fragile, quasi mista, natura dell’anima tormentata: non si grida in modo chiassoso, ma si piange in silenzio, nel respiro del mondo, tra le pieghe del tempo. La forma, il verso che si dissolve come l’eco, amplifica il senso di una perdita che non ha una causa facilmente individuabile, ma che affiora in ogni angolo della realtà. Un grido che sta per essere inghiottito dal buio, eppure rimane sospeso, come una promessa non mantenuta.
Un grido lontano, evanescente come la luce del tramonto.


"Disgelo" di Guglielmo Aprile

C'è qualcosa di magico in questi versi, qualcosa che sfiora l'onirico. Aprile costruisce un paesaggio di sensazioni, intrecciando la natura con la spiritualità di un incontro che è al contempo terreno e astrale. Il "dubbio" che la figura amata non sia reale si dissolve nel gesto tangibile del "carezzare" la rosa del viso, un atto che è quasi un rito di conoscenza e di intimità. E poi, l’apparizione della figura femminile: apostola del glicine e testimone di farfalle, è come una messaggera di bellezza che non ha confini. L’arcobaleno nei vicoli è l'illusione di un mondo perfetto, eppure l’eroina del poema non è solo un simbolo di perfezione, ma una forza vivente che, con il movimento di uno sguardo o un piccolo cenno, crea l'universo. Ogni sua azione è la chiave che accende l’armonia del cosmo. Il "disgelo del sangue" è potente: è il ritorno alla vita, l'atto che sfida la morte, e la poetica di questo verso non è solo naturale, ma magica. Una vera magia che scorre nei vicoli, sotto la pioggia d’estate, dove la realtà è solo il riflesso di un amore che infonde forza e energia all'intero ciclo del creato.
Ecosistemi di corpi e cieli, dove ogni movimento è una creazione.


"Trapassare" di Silvio Canapè

Eccoci catapultati in un paesaggio che potremmo definire "liminale", sospeso tra la vita e la morte, tra il presente e il futuro, tra l'oscurità e la luce. La "foglia secca" che sfugge al vento è un’immagine potente e quasi tragica, un simbolo che s’intreccia con l’idea di dissoluzione. È come se la realtà stessa fosse in fase di decomposizione, ma anche di rinascita. La luna tremante e il cielo che si accende e si spegne sono il riflesso della transitorietà di ogni cosa: l’alba che potrebbe venire è solo un’idea in divenire, mai compiuta. Il paesaggio si fa apocalittico: calcinacci, polvere, mare che a stento respira. Ma tra il dolore e la desolazione, c'è una tensione verso qualcosa di nuovo. C’è un’attesa, una speranza in un'alba chiara azzurra in pace. La "morte" non è fine, ma transizione: tutto trapassa, eppure la parola “trapassare” ha una densità profonda, come se fosse il passaggio da una condizione all’altra, che non porta con sé solo la fine, ma anche il seme di un inizio.
Un cammino tra le rovine, alla ricerca di una luce che non si spegne.

"Pauperrimi sbadigli" di Marino Spadavecchia

Un grido soffocato di disperazione e disillusione, questo è "Pauperrimi sbadigli". La scena si apre come un palcoscenico, con la conigliera delle intime angosce che si fa metafora della prigionia dell'anima, intrappolata in un ciclo di sofferenza e di attese. Il sbadiglio, simbolo di noia e indifferenza, assume qui un significato più amaro: è un’espressione di vuoto esistenziale, una reazione a una realtà che non riesce più a scuotere. Simulata apprensione per grazia ricevuta richiama l’ipocrisia e la facciata che nasconde il nulla, mentre i tarocchi ipocriti e le astrali carte da strapazzo si riflettono nella nostra ricerca di risposte spirituali che spesso non vanno oltre il giuoco di società. Il poeta ci offre una visione cinica, in cui gli idioti felici e contenti si avvicinano al precipizio della vita senza nemmeno rendersi conto della follia che guida il loro cammino. La luna calante è l’immagine di un mondo che si estingue, mentre la divinità a cui ci si affida è ormai solo una reliquia dimenticata. Un grido di sconfitta che risuona tra il fumo delle cravatte di seta dei sapienti di turno.
Un quadro di decadenza e torpore esistenziale, dove nulla sembra sfuggire alla morsa del futile.

La versione spagnola della poesia si fa specchio della sua gemella, ma l’intensità della sua lingua accentua ulteriormente la vacuità del mondo che descrive. I "bostezos" diventano l’espressione di un respiro collettivo, quasi di massa, che segna la stasi di un’esistenza che avanza senza realmente muoversi. La "conejera" (conigliera) suggerisce non solo una prigione, ma un luogo chiuso, un ghetto mentale dove si rincorrono paure senza oggetto. L’idea dei tarot come strumento ipocrita ribadisce la critica alla ricerca spirituale che resta solo una manipolazione. La ripetizione di "idiotas felices y contentos" suggerisce una critica a una società superficiale, che si avvicina al precipicio senza comprendere la gravità della sua situazione. Qui, in questa lingua, il grido di sconfitta suona come un urlo lontano, un respiro collettivo che si disperde nell’immensità dell’indifferenza.
Un’eco universale di frustrazione, dove il sorriso è l’ultimo gesto prima del buio.


"Grazie" di Giuseppe Stracuzzi

In questa poesia, il "Grazie" diventa l’espressione di una profonda gratitudine verso la vita, un atto di fede che non si accontenta di un gesto superficiale, ma si immerge nelle pieghe del dolore come elemento di crescita. La Fede qui è il riconoscimento di un dono che si riceve incondizionatamente, ma che implica anche la consapevolezza della sofferenza che l’accompagna. Il poeta usa il "calvario" come simbolo di questa esperienza umana che non può prescindere dalla fatica, ma dalla quale scaturisce una forza che ci permette di coltivare i fiori della nostra anima. L’idea del genio donato dal Creatore e del filo da seguire è una metafora potente: la vita è un cammino che richiede pazienza, e solo chi accetta di vacillare lungo il percorso può arrivare a toccare il vero senso dell’esistenza. La poesia si chiude con un atto di umiltà, il piegamento del capo sotto le stelle, simbolo di un cielo che osserva e guida, ma senza mai imporsi. Un "Grazie" che è insieme preghiera e invocazione di perdono, una riflessione sulla sacralità del vivere.
La Fede come dono e sfida, un cammino di comprensione e umiltà.


"L'aquila e il fanciullo" di Aurelio Zucchi


In questa poesia, Zucchi gioca con la dualità di immagini che sembrano opposte, ma che alla fine si intrecciano in un’armonia delicata. L'aquila che "squarcia nubi indifferenti al volo" rappresenta l’ambizione, l’alto desiderio di conoscere e raggiungere l’ignoto, mentre il fanciullo che gioca con il pallone rappresenta la purezza, l’innocenza e la speranza in qualcosa di semplice ma genuino. Il volo dell’aquila si fa simbolo di una ricerca spirituale, di un movimento verso l’alto che non ha nulla a che fare con il terreno, ma che è allo stesso tempo irraggiungibile e necessario. La delusione della scomparsa dell’aquila non è solo il rammarico per l’impossibile, ma anche un richiamo a concentrarsi su ciò che è immediato, su ciò che possiamo afferrare. Il sorriso del fanciullo è l’ancora di salvezza, l’elemento che riporta a terra, a ciò che è umano. La poesia si conclude con una riflessione sul tempo: "bloccando gli anni", forse un invito a vivere ogni attimo come se fosse eterno, a non perdere mai di vista il nostro desiderio di bellezza, che è capace di fermare il mondo.
L’unione dell’alto e del basso, dell’ambizione e dell’innocenza, come tensione vitale in una ricerca di equilibrio.


"Fine anno, di nuovo..." di Armando Bettozzi

Con un respiro quasi pesante, "Fine anno, di nuovo..." si staglia come un frammento di riflessione intima e dolente. Il passare del tempo è qui vissuto come uno specchio che appanna, creando una distanza tra ciò che siamo e ciò che eravamo. Il poeta ci invita a fare un resoconto della nostra esistenza, cercando di riaggiustarsi, di riprendersi, ma con l'incertezza di chi sa che il tempo non offre mai certezze. La metafora dello specchio appannato suggerisce non solo il mutamento delle immagini nel tempo, ma anche l’impossibilità di una visione nitida del passato. In questo gioco di rifiniture e bilanci, il poeta si confronta con le mancanze, ma è consapevole che questi spazi vuoti sono ora compensati da chi è arrivato dopo, da chi ha preso il posto di chi è andato via. Nonostante il senso di perdita, c'è una presenza viva, quella di lei, che accompagna il poeta in questo attraversamento dell’anno, un legame che sfida il tempo e si rinnova ogni volta che si guarda indietro. Il tempo che ci ha uniti è l’ancora a cui il poeta si affida, consapevole che ogni anno che passa è, in fondo, solo una nuova apertura, un "ricominciare" che non toglie mai la bellezza del ritrovarsi accanto. La poesia è, quindi, un atto di speranza che si rinnova con ogni fine e con ogni inizio.
Il ciclo del tempo, pur nel suo inesorabile avanzare, è un invito a trovare, ogni volta, il senso di un nuovo incontro.


"[je définis le possible]" di Carol-Ann Belzil-Normand

Questa breve e potente riflessione filosofica si sviluppa in un gioco linguistico che smantella le strutture mentali precostituite, aprendo la strada a nuove possibilità. "Je définis le possible" è una dichiarazione di libertà intellettuale: il possibile non è qualcosa di dato, ma qualcosa che si può plasmare, che si può definire. La frase "ébranle le cliché" rivela l’intento di scuotere la staticità del pensiero, di demolire il conformismo che ci imprigiona. La fêlure, l’incrinatura, è l’elemento che testimonia la fragilità delle convinzioni, ed è attraverso la rottura di questa fissità che emerge la franchezza del pensiero, quella sincerità che non ha paura di essere giusta, senza necessità di giustificazioni. Il pensiero, nel suo essere franco, si fa puro, un atto liberatorio che invita ad abbandonare le certezze e a intraprendere il cammino verso l’imprevedibile.
Definire il possibile è un atto di coraggio, una rivolta contro il limite imposto dalle convenzioni. La versione in italiano mantiene il fervore e l’intensità del testo originale, con la forza di scardinare il cliché che ci imprigiona in schemi di pensiero rigidi e precostituiti. La traduzione mantiene la fedeltà al messaggio profondo della poetessa: definire il possibile significa andare oltre i limiti, sfidare la struttura del pensiero che si è fatta convenzione. L'invito a distruggere l'incrinatura non è solo un invito ad abbattere le barriere mentali, ma anche a ricomporre ciò che era rotto. La franchezza del pensiero si oppone alla paura e alla rassegnazione, in un invito ad abbracciare il giusto senza compromessi. È un inno alla libertà di pensiero, una chiamata ad essere fedeli a noi stessi e alla verità che ci abita.    Un atto di ribellione intellettuale, che ci sfida a ridefinire i confini e ad ampliare le nostre possibilità.


"Camminando" di Maria Toriaco

Il cammino del poeta in "Camminando" è un viaggio interiore che si intreccia con la natura e con il ricordo. La foresta incantata diventa il luogo dove il passato e il presente si sovrappongono, dove le orme impresse diventano tracce di un cammino che non si ferma mai. La valigia dei ricordi è un simbolo perfetto di ciò che portiamo con noi, di ciò che ci accompagna nei nostri viaggi interiori: ogni passo è una metamorfosi, ogni ricordo un viaggio che si fa sempre diverso. Il poeta si presenta come un allievo, che osserva il mondo attorno con la curiosità di chi è alla ricerca di un senso, ma che, al contempo, prepara una scatola dove custodire e riporre i ricordi, per poterli riguardare più tardi, quando il tempo sarà passato. La poesia è un invito ad accogliere il mondo con gli occhi di un straniero, per scoprire nuove prospettive e imparare dai dettagli più piccoli.
Un cammino dove ogni passo è un'esplorazione del mondo esterno e interiore, dove ogni ricordo è un tesoro che si ripone con cura.

"Trascorre il tempo" di Franco Fronzoli

Questa poesia è un esercizio struggente di meditazione sul tempo, quell’entità astratta ma impietosa che, nel suo fluire incessante, porta via ogni cosa. Con un linguaggio delicato ma deciso, "Trascorre il tempo" scivola tra immagini vivide di perdita e dissoluzione: "porta via tutto con sé / i pensieri, le illusioni, le delusioni". Ogni cosa, anche la più intima, sfuggirà alla sua presa. I baci dati e ricevuti, le parole d’amore scritte sugli alberi sono come tracce di un passato che non può più essere trattenuto. Il tempo non fa sconto, trascina con sé ogni emozione, ogni promessa, ogni gesto di affetto, lasciando dietro solo vuoti e mancanze.
L'uso di immagini come "strati di nuvole" e "sabbia tra onde" suggerisce l'ineluttabilità del destino, ma anche l'idea che il tempo sia in qualche modo legato a una continuità naturale, che non conosce ostacoli e avanza con la forza di una corrente. Tra "mille tramonti" e "notti ed albe", la poesia si immerge nel mistero delle stagioni e dei cicli di vita, passando attraverso il dolore e le gioie della vita, e lasciando al suo passaggio l'incertezza e la fragilità dell'esistenza.
In questo testo, il tempo è sia distruttivo che costruttivo: pur portando via tanto, ci lascia un segno, la traccia di ciò che siamo stati, di ciò che abbiamo amato e perduto. Ma nel suo continuo fluire, ci ricorda anche che, come il "tempo che si allontana", noi non siamo mai veramente fermi: siamo in perpetuo movimento verso orizzonti imperscrutabili, spinti da una forza che ci trascina sempre più lontano, sempre più oltre.
Il tempo, nella sua infinita maestria, ci insegna che tutto è destinato a passare, ma che ogni istante vivido è un miracolo da vivere con pienezza, prima che anche esso svanisca.


"Curriculum mortis: Una Vita in Versi" di Carlo Chionne

Questa poesia, dal titolo evocativo, sembra quasi una riflessione personale sul destino di un poeta, che ripercorre la propria vita attraverso i libri, i luoghi e le letture che hanno segnato il suo cammino. L’autore, con un tono ironico e a tratti giocoso, ci presenta una sorta di autobiografia poetica, in cui il Castellaccio diventa il simbolo di una giovinezza intrisa di letture e di riflessioni sui grandi poeti italiani. La ripetizione dei nomi di poeti celebri, da Dante a Leopardi, da Pasolini a Montale, crea una tessitura ricca di riferimenti culturali, ma anche di un senso di continuità: il poeta vive nella compagnia di questi giganti, che lo accompagnano e lo formano.
Il gioco di nomi e citazioni sembra celebrare non solo la propria formazione intellettuale, ma anche il piacere della lettura come atto di fuga dal tempo che passa, un modo per agganciarsi alla tradizione, per trovare conforto in ciò che ci è stato lasciato. Ogni poeta citato diventa, in qualche modo, un compagno di viaggio nella solitudine delle notti passate a leggere, mentre il tempo scivola via.
La poesia, pur con un tono scherzoso, nasconde una nostalgia del passato, un amore per i testi e le figure che hanno illuminato la vita del poeta. La chiusa del testo, con il nome di Carlo Chionne, ci fa comprendere che, nonostante il flusso ininterrotto del tempo, la voce del poeta continua a dialogare con i grandi del passato, mantenendo viva la memoria e il valore del percorso culturale.


"De profundis per Che Guevara" di Piero Colonna Romano

Questa poesia è un tributo alla figura leggendaria di Che Guevara, una delle icone più potenti della lotta per la libertà e della rivoluzione sociale. Il poeta, partendo dal tono solenne e quasi liturgico di "De profundis", celebra Guevara come un "principio immenso", un uomo che ha incarnato la speranza di milioni di persone in cerca di giustizia. La poesia esprime un senso di dolore e pena, quasi come se la morte del guerrigliero fosse stata un colpo devastante per l’intera causa. Tuttavia, il poeta non si limita a piangere la sua scomparsa: con "per te sfrenavasi / quella speranza", egli celebra l’eredità di Guevara, che continua a vivere attraverso l’insegnamento della sua lotta.
L'uso di espressioni come "libertà degna d'omaggio" e "vivremo nel giusto" sottolinea il messaggio duraturo di Guevara: la sua morte non ha segnato la fine della rivoluzione, ma ne ha cementato l'importanza nei cuori di chi lo ha seguito. La poesia è intrisa di un senso di giustizia sociale e di speranza, invitando tutti a compire la sua lezione. La chiusa, con l'invocazione al "giusto", diventa un messaggio universale che trascende la figura di Guevara per diventare un monito per ogni generazione che lotta per un mondo più equo.
Questa poesia non è solo un elogio di Guevara, ma un richiamo a non dimenticare mai la necessità di combattere per ciò che è giusto, per un mondo dove la libertà e la dignità possano fiorire senza paura.

"Tracce D'Eternità" di Ciro Seccia

Questa poesia è un atto di riflessione profonda sull'esistenza umana e sulla traccia che lasciamo nel mondo. L'autore si interroga sull'implicito scopo della vita e sul legame tra il nostro passaggio e l'immensità del tempo. Il perché dell'esistenza diventa la domanda centrale, quella che anima il verso: "Sul motivo del mio percorso / cosa rimarrà di me".
Il poeta contempla la sua eredità in termini molto umili e terreni, non cercando grandiosità o fama immortale, ma polvere, come se la memoria dell'uomo fosse destinata a dissolversi nel corso degli anni. Ciononostante, la sua scrittura – i suoi versi – rappresentano l’unico appiglio che potrebbe catturare, anche solo in parte, ciò che è stato: un granello della sua Anima. La sua riflessione si fa universale, toccando un punto dolente di ogni essere umano: la paura dell'oblio, la ricerca di una traccia, anche minima, che resti.
Nel definire ciò che resterà come "Tracce, briciole d’eternità", Seccia non cede al pessimismo, ma riconosce una sorta di eternità nelle piccole cose, nelle sue parole, nelle sue riflessioni. Questo "granello della mia Anima" potrebbe non essere visibile per tutti, ma sarà lì, impresso nelle sue opere, a rappresentare un frammento di vita che altrimenti sarebbe sfuggito. La poesia si fa testamento e speranza al contempo: "questo resterà di me".
La scelta delle parole, sobria e concreta, unita alla riflessione sul significato di ciò che produciamo come esseri umani, ci porta a riflettere sulla necessità di lasciare qualcosa, di non essere solo polvere ma traccia nel mondo. La poesia stessa, quindi, diventa un atto di resistenza all'oblio.


"Radicio rosso" di Roberto Soldà

Questa poesia si distingue per l'uso di un dialetto veneto e per l'intensità con cui il poeta esplora il legame con una realtà quotidiana e familiare, qui rappresentata dal radicchio rosso, ma con una forza simbolica che trascende il singolo elemento naturale. La ripetizione del termine "radicio rosso" e l'uso del dialetto conferiscono un tono di intimità e di sincerità assoluta, come se il poeta stesse parlando direttamente al lettore, quasi come se ogni parola fosse un segreto condiviso.
Il "radicchio rosso" diventa così metafora di una relazione profonda e ossessiva, come un amore che non si può smettere di sentire: “l’ossessione / dea me mente / e dee me man / mai strache.” Il legame con l'oggetto (in questo caso il radicchio) è simile a quello con una passione che consuma senza mai saziarsi, un desiderio che non si stanca mai e che resta perennemente acceso nella mente e nelle mani del poeta.
Il verso "Non è rosso, non è viola, non è blu" è particolarmente evocativo. Nonostante sembri una semplice descrizione del colore del radicchio, essa allude a una realtà che sfugge alle definizioni precise, che si situa oltre i confini di un solo colore. Il radicchio, con il suo colore unico, rappresenta qualcosa che non può essere ridotto a una semplice etichetta. Questa ambiguità cromatica evoca una sensazione di unicità e di profonda individualità.
La poesia di Soldà sembra un atto di riconoscimento di qualcosa di quotidiano, che tuttavia racchiude in sé una tensione ossessiva e inarrestabile. Il radicchio non è solo un ortaggio, ma diventa simbolo di un'emozione che non si lascia confinare. E’ il cuore del poeta stesso, che si mescola con la materia prima, con la terra e con le sue radici.


"Freddo fulgente" di Alessio Romanini

Questa poesia affronta il tema del dolore e della solitudine, ma lo fa attraverso immagini potenti e contrastanti. Il "freddo fulgente" evoca un inverno gelido ma luminoso, una solitudine che è palpabile nella sua brillantezza: "Resta la bianca brinata nell'ombra". L'inverno non è solo una stagione, ma una metafora di un’esperienza interiore, di un cuore "che l’amor non sente", di una vita che è priva di calore umano.
Il poeta ci guida in un paesaggio desolato, quasi metafisico, dove "spiaggia e riva son deserte", e dove la neve fiocca forse in montagna, ma resta fredda e distante, come i sentimenti che l’autore vuole esplorare. La natura, come spesso accade nella poesia, si riflette nel cuore umano: "Spira tanto gelo: è il dolore / che ognuno di noi ode dentro di sé". La neve diventa, quindi, una metafora del dolore universale, di quel vuoto che pervade l'esistenza quando l’amore non è più presente o, peggio, non è mai arrivato.
Romanini ci mostra la bellezza e la crudeltà dell'inverno, il suo silenzio gelido che assorbe ogni cosa. Le immagini evocano una condizione esistenziale in cui il cuore è come un campanello d’argento, che tintinna ma non riesce a trovare la calda risposta del mondo. Il gelo diventa così un'eco interna che risuona in ogni angolo dell'anima, rispecchiando la solitudine che pervade l'autore. La poesia non è solo una descrizione della natura invernale, ma un'affermazione della sofferenza emotiva, che emerge potente nella sua chiarezza.

"Assaggio di Paradiso" di Sandra Greggio

Questa poesia evoca un'esperienza emotiva e sensoriale che si potrebbe definire come un momento di grazia. L'autrice ci porta a vivere un languore esistenziale, un incontro con una realtà intima e inaccessibile, un limbo dove i sensi sono in parte assopiti, e il cuore si rivolge solo a se stesso.
La figura della campana di vetro cristallino è molto potente: simboleggia una barriera emotiva che separa il poeta dal mondo esterno. Non c'è interesse per le "bocche che si muovono", per le "mani che gesticolano". La realtà intorno a lei sembra svanire, lasciando spazio a una sensazione di solitudine quasi mistica, un'apparente indifferenza al mondo esterno. L'autrice, tuttavia, trova un conforto profondo in questo stato di disconnessione, ascoltando il suo cuore e il suo "sussurro", che le rivela una sola parola: Paradiso.
Questa parola, che si presenta quasi come una rivelazione, diventa il nucleo di questa esperienza di attimo sospeso. Non è un paradiso fisico, ma uno stato interiore, un luogo di armonia e pace che si raggiunge non attraverso il corpo ma attraverso la profondità dell'anima. L'immagine di un sorriso sulle labbra è simbolica, quasi come se fosse una risposta interiore, un segno di serenità che emerge in un contesto di pura contemplazione e introspezione.
Il "Paradiso", dunque, non è un luogo lontano o futuro, ma una condizione di pace interiore, che il poeta riconosce e afferra nel momento stesso in cui il cuore si silenzia per ascoltare se stesso.


"È mezzanotte" di Antonia Scaligine

Questa poesia affronta con giocosità e saggezza il passaggio dal vecchio al nuovo anno, ma non solo: è anche una riflessione sull'impermanenza del tempo e sulla necessità di vivere ogni giorno con pienezza. La poetessa gioca con l’idea che non esiste un vero "nuovo anno" in senso assoluto, ma che il tempo continua incessantemente, e ogni giorno è un nuovo inizio.
Il verso "Un nuovo anno sta iniziando? / No! è il tempo che sta continuando" ci ricorda che il passaggio da un anno all’altro è solo un’illusione, un’invenzione del calendario. Il poeta rifiuta la nostalgia per il passato e l’ansia per il futuro, suggerendo che ciò che conta è vivere ogni giorno con un atteggiamento positivo: "l'importante è mai perderlo di vista."
Anche se l'autrice descrive il tempo come un "campo di grano" o "pantano", suggerisce comunque che, qualunque sia il terreno in cui ci troviamo, l'importante è faredare e amare, cioè vivere in modo attivo, cercando sempre di migliorarsi. L'uso di espressioni come "sorriso di speranza" e "buongiorno" invita a vivere con ottimismo e positività, come se ogni giorno fosse un'opportunità per ricominciare, proprio come il passaggio tra gli anni.
Il richiamo a Victor Hugo, con la citazione "Il sorriso è il sole che scaccia l'inverno dal volto umano", racchiude tutta la filosofia del testo: la speranza e l’amore sono le forze che ci permettono di affrontare le difficoltà della vita, e il sorriso diventa il simbolo di una resilienza positiva.  Anche nei momenti difficili, un sorriso può essere una luce che illumina la via.

"La vera felicità" – Carmine De Masi e poesia comunitaria

Questa poesia esplora il legame fondamentale tra madre e figlio, un legame che va oltre la semplice relazione biologica, trasformandosi in un riflesso del vero significato della felicità. La gioia descritta è quella che nasce dalla purezza di un bambino e dall'amore incondizionato di una madre, elementi che offrono speranza e nutrimento per l'anima. La poesia si concentra sulla bontà e sulla serenità che si possono trovare nel sorriso di un bambino, un sorriso che riempie il cuore di ogni genitore.
Il concetto di "vera felicità" in questa poesia non è legato a beni materiali o successi mondani, ma piuttosto ai legami sinceri e profondi che ci uniscono come esseri umani: "Il sorriso dei figli, la speranza nel suo sorriso, / l’amore dei suoi occhi: nulla fermerà il nostro cammino".
In questo contesto, la luce assume un significato simbolico: essa guida il cammino, illumina le difficoltà della vita, e rappresenta un nuovo inizio. La poesia si conclude con un messaggio di speranza e di rinnovata energia: la vera felicità non è solo una condizione momentanea, ma una forza che può sostenerci nei momenti più difficili, portando vita e luce a chi ne ha bisogno.


"blu chiaro testardo" – Jacqueline Miu

In questa poesia, l’autrice usa una lingua cruda e viscerale per descrivere uno stato d'animo che mescola disillusionefrustrazione e una conflittualità interna. La poesia si svolge in un paesaggio urbano che sembra essere intriso di freddo emotivo e alienazione. I fiocchi di neve e gli icicli sul broncio sui rami creano l'immagine di un mondo esterno che riflette lo stato d'animo del poeta, dove la bellezza naturale (la neve, il cielo stellato) è oscurata da un vuoto emotivo che non consente di godere della bellezza di ciò che ci circonda. Il poeta si sente intrappolato in un ciclo di disagio e solitudine, ma non riesce nemmeno a trovare sollievo nel mondo che lo circonda. La città sembra un inferno "con ghiaccioli imbronciati su un ramo", una realtà ostile dove anche le luci festive non riescono a scaldare l'anima. Le immagini di "finestra di auto" e "città in cortocircuito" trasmettono il senso di un mondo che sta andando fuori controllo, dove ogni interazione sembra vuota e superficiale. Il contrasto tra il freddo esterno e il "male che sembra incurabile" all'interno del poeta suggerisce una lotta interiore, un conflitto che non può essere risolto facilmente. Il "trapianto di allegria" appare come una metafora di un tentativo vano di sostituire il dolore con un'improvvisa felicità che non trova radici profonde. La fine, con il poeta che non vede la bellezza della sua esistenza, ma piuttosto avverte un'anima "che arde locomotiva a carbone", suggerisce un disincanto totale, dove anche la speranza sembra lontana e inaccessibile.

 

Auguri a tutti i poeti, in un respiro senza tempo nell'arco del nuovo anno
 

Nel silenzio di un’infanzia che non invecchia,
dove la luna è madre e la polvere dell’eterno
si posa leggera sui sogni mai nati,
che ogni parola si faccia farfalla,
sfiorando il cielo di un nuovo anno,
portando con sé il mistero di ciò che non è mai stato.
Che il vostro cammino sia solcato da arcobaleni invisibili,
ove il tempo si scioglie in polvere di stelle,
e nei vostri occhi si rispecchi il volto di un’ombra
che non sa di essere ombra,
ma forse è luce in un altro mondo.
Scrivete, poeti, su foglie che non cadono,
dove il vento non ha direzione,
e le voci sono segreti di un linguaggio
che solo le stelle comprendono.
Che ogni verso, come un fiocco di neve,
sia un battito che ride nel ghiaccio del cuore,
e mentre il mondo si dissolve nel riflesso di una nuvola,
possa la vostra poesia essere l’eco lontana
di un desiderio che trascende l’esistenza stessa,
un sussurro che si perde nell’abisso
di un tempo che non ha inizio né fine.
La verità, poeti, non è una strada,
è un frammento di cielo che cade su di noi,
un lampo di pensiero che si spegne
prima che la mente possa accoglierlo.
Siate come quella scintilla che non brucia,
che attraversa il buio come un sogno non vissuto,
che lascia tracce invisibili, ma infinite,
nelle pieghe del cuore umano.
Auguri a voi, viaggiatori dell’infinito,
che percorrete sentieri che non sono,
che solcate mari che non esistono,
ma che per ogni battito di ciglia
trasformano l’immobile in movimento,
e l’impossibile in un respiro che sa di verità.
Che la vostra poesia sia un alito di vento
che non sa dove andare,
ma è certa di essere libera
di perdervi in mondi che ancora non esistono,
e che, in un bacio di infinito,
vi condurranno sempre altrove,
nel mistero puro, nell’amore senza forma.
Auguri, poeti, di scrivere l’ombra della luce,
di respirare l’impossibile nella materia d
ei sogni.
 

 

Felice e impetuoso 2025
Vostro Ben Tartamo

 

 



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