9 Settembre

La Signora delle Fiandre
di Giulia Alberico
Edizioni Piemme
Narrativa
Pagg. 251
ISBN
9788855447751
Prezzo Euro 10,90
Una donna sola
Sono arrivato all’ultima pagina, costituita
da una indispensabile nota storica, e ho chiuso libro in preda a un’autentica
emozione che non mi succedeva da tante letture. Infatti, quel senso di
serenità che mi ha accompagnato riga dopo riga, ha preso decisamente il
sopravvento e ho avuto la certezza di trovarmi di fronte a uno scritto di rara
bellezza e profondità. A parte la valenza storica che ben descrive il XVI
secolo, un periodo di grandi scontri apparentemente per motivi religiosi, la
vita di Margherita d’Austria (Oudenaarde, 5 luglio 1522 – Ortona, 18 gennaio
1586), figlia naturale dell’imperatore Carlo V, duchessa di Firenze, di Parma
e Piacenza e anche governatrice delle Fiandre ricorda molto, come esposta da
Giulia Alberico, un polittico che conserva con le immagini l’atmosfera di
un’epoca.
Margherita è stata una protagonista di quei
tempi, piegata sempre agli obblighi imposti prima dal padre Carlo V, poi dal
fratellastro Filippo, un essere umano che non ha mai conosciuto l’autentico
amore e la libertà di essere se stessa, imprigionata in una gabbia dorata,
asservita al volere di altri. Questa donna, per un’ironia della sorte,
recupererà con la vecchiaia il piacere di non essere guidata da altri,
cercando anche di calcare meno le scene grazie al ritiro nei suoi possedimenti
d’Abruzzo, ed è a Ortona che comincia a raccontare a se stessa la storia della
sua vita. Ormai anziana, malata gravemente, nel narrare del passato, nel
tirare un bilancio, avrà il conforto di essere riuscita a un certo punto a non
essere più comandata e se anche non ha conosciuto l’amore, quello vero non
fatto solo di attrazione carnale, avrà però la certezza di essere riuscita a
stabilire con qualcuno un flusso di affetto profondo, un sentimento che
riemerge nell’ora del tramonto.
Margherita è sì un personaggio del suo tempo,
schiava del volere del padre, ma è indubbiamente un essere dotato di forte
personalità, capace di comprendere le ragioni degli altri, anche se poi dovrà
per forza di cose assoggettarsi alle direttive impartite dall’imperatore. Lei
considera questo comportamento una sua incapacità, ma quando c’è un potere
assoluto non si può far altro che obbedire.
Le sue ultime ore di vita ci mostrano un
essere umano, pauroso del trapasso, ma sereno per quel che è stato il
risultato della sua esistenza; sono poche riuscitissime pagine che accomiatano
il lettore certo di essersi trovato di fronte a un capolavoro.
La scrittura raffinata, in punta di penna, il
ritmo blando, ma non lento, la capacità di ricreare atmosfere e la tenerezza
con cui Giulia Alberico parla di Margherita sono eccelse qualità, prove
artistiche che portano alla commozione, ma non alle lacrime, quella commozione
intima che si prova quando ci si trova di fronte a qualcosa di rara
inestimabile bellezza.
Si può dire, senza timore di esagerare, che
Margherita d’Austria rivive e che pur nella sua esemplare figura di governante
è persona in carne e ossa, un essere umano che è riuscito a emergere in un
secolo di largo predominio degli uomini, sempre alla ricerca di una libertà
che riuscirà ad avere solo in età avanzata, quando non sarà più necessaria per
gli scopi di chi comanda.
Giulia Alberico,
nata a San Vito Chietino nel 1949, insegnante di lettere per oltre trent’anni,
vive a Roma. Ha scritto, tra gli altri, i romanzi Il gioco della sorte
(Sellerio, 2002), Come Sheherazade (Rizzoli, 2004), Il vento caldo del Garbino
(Mondadori, 2007) e Un amore sbagliato (Sonzogno, 2015). Con il volume di
racconti Madrigale (Sellerio, 1999) ha vinto il premio Arturo Loria.
Renzo Montagnoli
2 Settembre

Di ombra e luce
Rime sparse e
pensieri scapigliati
di Mara Motta
Edizioni Tabula
Fati
Poesia
Pagg. 114
ISBN 979-12-5988-385-8
Prezzo Euro 10,00
Emozioni e passioni
Sono anni e anni che leggo poesie, di temi
diversi e di stili pure diversi; questo bagaglio culturale che mi sono creato
fa leva su opere più buone e meno buone, ma in ogni caso costituisce una
costruttiva esperienza che mi permette di pervenire a giudizi indipendenti e
credo tutto sommato azzeccati. Mara Motta, fra i poeti di cui ho letto fino a
ora le raccolte, è un’artista a sé stante, con una personalità poetica ben
definita e con uno stile che ha il pregio della semplicità, tuttavia non
disgiunta da una significativa qualità che fa emergere sentimenti non certo di
maniera e che mi sono particolarmente graditi (da Poeta:Poeta
che sposti la malinconia / con il pensiero… / che immagini la realtà / nelle
vesti dei tuoi eroi.
/…./
Poeta... tu
osi e valichi confini / di cristallo / nelle nebbie dell’ipocrisia.
). In tutta franchezza Mara Motta è capace di aprire con uno squarcio il suo
animo, travalicando i limiti anche del pudore, e portando emozioni e passioni
all’occhio attento di chi legge; al riguardo mi sembra la poesia che segue ne
sia un chiaro esempio:
Avrei voluto
Avrei voluto
tessere una tela
su cui
disegnare quei giorni allegri
dei pensieri
caldi
delle risate a
scroscio
degli abbracci
nudi.
Avrei voluto
guardarti a lungo
per ritrovare
quella luce morbida
delle parole a
sfioro
sulla mia
pelle in attesa.
Avrei voluto
trattenerti a lungo
fra le mie
mani ingorde
di passione
accesa
dandoti solo
aria
per riprendere
fiato
e baciarmi
ancora.
I versi rispecchiano perfettamente i
sentimenti della poetessa, capace di autentiche e impetuose passioni, ma anche
di mature e condivisibili riflessioni, come in
Brilla una luce,
una poesia che è una fioritura di versi, ma che porta a considerare le realtà
della nostra esistenza, di cui siamo inconsapevoli protagonisti, con la
sensazione di trovarci immersi
in un abbraccio cosmico fra realtà e
sogno,
come ben dice Mara nella chiusa.
Questa, dopo
Poesie scarlatte
e In
Absentia,
è la sua terza raccolta e mi sembra che rispetto alle precedenti segni un
piccolo, ma significativo miglioramento, che meglio ancora definirei un
affinamento, perché di per sé la poetica di Mara Motta, nella sua capacità di
essere immediata e di giungere subito a segno, non ha necessità di chissà
quali aggiustamenti. C’è sempre spazio invece per piccole migliorie, per
quelle di cui quasi leggendo non ci si accorge, ma che sono come la pennellata
che dona luce a un quadro, il sigillo dell’artista che tanto piace a chi
legge.
Mara Motta nasce
a Pescara e qui trascorre la prima giovinezza. Compie studi umanistici che la
portano a Milano dove svolge le prime esperienze lavorative che si concentrano
tutte nell’insegnamento, valorizzando sempre di più la sua passione per le
lettere. Tornata nella sua regione conclude la sua attività , fino al
pensionamento.
Da alcuni anni si dedica a comporre versi e ha pubblicato tre sillogi: Poesie
scarlatte (Tabula
fati, Chieti 2022), In
Absentia (Tabula
fati, 2023) e Di
ombra e luce (Tabula
fati, 2025). Ha ricevuto diversi premi in concorsi letterari sia in Abruzzo
che in altre regioni d’Italia.
Renzo Montagnoli
27 Agosto

Il brigante e il generale.
La guerra di Carmine Crocco e
Emilio Pallavicini di Priola
di Carmine Pinto
Laterza Editori
Storia
Pagg. 272
ISBN
9788858147504
Prezzo Euro 19,00
I due nemici
Di Carmine Pinto, docente di storia contemporanea
all’Università di Salerno, avevo già letto La guerra per il Mezzogiorno,
un saggio storico di notevole interesse e valore per completezza ed
esposizione di quel che è stata l’epopea del brigantaggio conseguente
all’Unità d’Italia, un fenomeno storico che interessò il meridione incentivato
da un tentativo di restaurazione dell’ex Regno delle Due Sicilie. Nel corso di
quella lettura avevo apprezzato lo stile snello e sobrio dell’autore, capace
di dare una visione chiara di un fenomeno complesso, una vera e propria guerra
civile, per quanto limitata territorialmente. Devo riconoscere che il tema
affrontato è per me appassionante, anche perché costituisce il cavallo di
battaglia dei neo borbonici che danno una visione romantica e distorta dei
briganti, personaggi che si possono tranquillamente etichettare come
criminali, senza timore di sbagliare. Fra questi delinquenti emergeva Carmine
Crocco, individuo dotato di una certa intelligenza che finì per portarlo a
essere considerato il capo di questa confraternita di malviventi.
Pertanto, visto che Carmine Pinto ha scritto anche
un saggio specifico, intitolato Il brigante e il generale, dove
racconta della vita e dei misfatti di questo capo dei capi e del suo
implacabile nemico, il generale Emilio Pallavicini Di Priola, ho ritenuto
opportuno leggere anche questo lavoro.
Ebbene, devo riconoscere all’autore di aver
scritto un testo appassionante come un romanzo storico, un’opera che descrive
in capitoli alternati la vita di questi due contendenti, per poi giungere a
parlare di entrambi nelle stesse pagine quando lo scontro diventa inevitabile.
Il brigante si era formato alla scuola della malavita, ma ideò delle tattiche
di guerriglia che verranno applicate dai rivoluzionari del secolo successivo;
il generale, formato all’Accademia militare, ma con esperienze di guerra
maturate nel corso del conflitto del 1856 fra la Russia e la Turchia e i suoi
alleati, fra i quali il regno di Piemonte, nonché nella seconda guerra di
indipendenza del 1859, riuscì a dimostrare una straordinaria elasticità di
vedute, tale da fargli adottare innovative tattiche di contro guerriglia; in
pratica, se il briganti potevano contare sulla loro mobilità e sull’aiuto
della popolazione, spesso imposto con la forza e con il terrore, il fare terra
bruciata intorno a loro, con gli arresti preventivi di familiari e amici, e il
ricorso al pentitismo, furono i motivi del successo del generale, grazie anche
al concorso organico e non improvvisato delle truppe regolari, della Guardia
Nazionale e dei volontari. Aggiungo che Pallavicini da un lato attuò una
politica volta a rassicurare i cittadini, con episodi anche eclatanti, come
pubbliche fucilazioni di briganti, e dall’altro fece in modo che la
popolazione avesse analogo timore di quello provato nei confronti dei
malviventi.
Si trattò di una guerra spietata, spesso senza
prigionieri, in cui la ferocia di alcuni briganti fu estrema, come nel caso di
Ninco Nanco, luogotenente di Carmine Crocco.
Vinse lo Stato, molti delinquenti furono
giustiziati, altri finirono in galera, spesso a vita, come nel caso di Crocco,
che anche dietro le sbarre mantenne quella sua aria di superiorità a cui
teneva tanto. Emilio Pallavicini avanzò nella carriera, non forse come aveva
sperato, ma la sua vita privata di donnaiolo e giocatore con una situazione
debitoria incresciosa pesò abbastanza. Comunque il generale non ebbe di che
lamentarsi e anche lui raggiunse una fama invidiabile; tuttavia, per le
stranezze della vita, oggi, anche per merito o demerito dei neo borbonici, è
più conosciuto Carmine Crocco.
Il libro è veramente bello e appassiona dalla
prima all’ultima pagina ed è pertanto ovvio che sia più che meritevole di
lettura.
Carmine Pinto
insegna Storia contemporanea presso l’Università degli Studi di Salerno. Ha
scritto sui sistemi politici del Novecento e si occupa di guerre, conflitti
civili e movimenti nazionali nel XIX secolo. Per Laterza è autore di Il
brigante e il generale. La guerra di Carmine Crocco e Emilio Pallavicini di
Priola (2022).
La guerra per il
Mezzogiorno. Italiani, borbonici e briganti 1860-1870 ha
vinto, tra gli altri, il Premio Cherasco Storia, il Premio Sissco, il Premio
Fiuggi Storia e il Premio Basilicata.
Renzo Montagnoli
20 Agosto

Tecnica del colpo di Stato
di Curzio
Malaparte
Edizioni
Adelphi
Saggistica
Pagg. 270
ISBN
978-8845926327
Prezzo Euro
14,00
Sorprendente
Se c’è un autore
controverso, uno di quelli che o lo ami o lo odi, questo è Curzio Malaparte,
un personaggio prima ancora che un narratore, capace di stupire nella vita
come nelle sue opere. In effetti non si può restare indifferenti di fronte a
libri come
La pelle,
o
Kaputt,
impietosamente posti all’attenzione del lettore, estremi nelle situazioni, ma
indubbiamente efficaci nel parlare degli argomenti trattati. Del resto
Malaparte è uno di quegli scrittori che di certo non si propone al lettore,
perché invece gli si impone, nel senso che lo accetti oppure no. In questo
senso
Tecnica del colpo di Stato
ne è l’emblema, un’opera che poteva nascere solo nella testa di un personaggio
non soltanto letterario, ma anche storico, fascista durante il fascismo, però
dissidente, comunista nel dopoguerra, ma anche in questo caso dissidente.
Coerente con il suo personaggio, in grado di riassumere perfettamente pregi e
difetti italici,
Tecnica del
colpo di Stato
finirà per crearne il mito; uscito in Francia nel 1931 ebbe subito un’ampia
risonanza internazionale, ma si accompagnò anche a conseguenze non del tutto
piacevoli per il suo autore, con fermi di polizia, periodi di confino e anche
una vita errabonda in giro per l’Europa. Stranamente piacque a Mussolini, che
tuttavia ne impedì la pubblicazione nel nostro paese onde non inimicarsi
Hitler.
Di cosa però
stiamo parlando? Che cosa è in effetti
Tecnica del
colpo di Stato?
E’ un saggio in cui si teorizza il rovesciamento di qualsiasi tipologia di
regime, dividendo il mondo in catilinari e in ciceroniani, con una duplice
valenza, cioè per i primi di apprendere come è possibile realizzare un golpe,
per i secondi, essendo a conoscenza dei metodi, come impedirlo. Di conseguenza
si potrebbe dire che questo libro ha assai probabilmente il recondito scopo di
proporsi come un manuale, rigorosamente studiato e calcolato, di aspirazione
rivoluzionaria e presenta parecchi personaggi storici, da Trotzkij a Lenin,
ricomprendendovi anche Benito Mussolini e Adolfo Hitler. Tuttavia chi si
aspetta un’opera di carattere politico rimarrà deluso, perché pur essendo
questo aspetto presente, è soprattutto una realizzazione di carattere
letterario (al riguardo basti pensare alla descrizione di Pietrogrado che si
prepara alla rivoluzione, con pagine di grande efficacia e senz’altro
suggestive).
A questo punto
viene da chiedersi se l’autore sia stato in grado di fare ragionevoli
previsioni per il futuro relativamente ai nostri tempi, ma fermo restando che
lascia trapelare la fragilità delle democrazie, da cui nascono come notorio i
regimi autoritari, la sua dissertazione è influenzata dal clima e dalla
particolare situazione politica esistente alla fine degli anni ‘20 dello
scorso secolo, e del resto non credo che le intenzioni di Malaparte fossero
queste; credo invece che in altra veste e in altre forme abbia voluto
esprimere il suo scetticismo sui sistemi che presiedono alla vita dei vari
stati, sulle loro debolezze, sulla vocazione di non pochi uomini di comandare
senza opposizione e sulla perniciosa attitudine dei più di obbedire a chi fa
la voce grossa, accollandogli le scelte e le responsabilità per il comune
futuro.
Da leggere,
ovviamente.
Curzio Malaparte (Prato,
9 giugno 1898 – Roma, 19 luglio 1957). Il suo vero nome era Kurt
Erich Suckert. È stato uno scrittore, giornalista e ufficiale dell’esercito
italiano.
Ha scritto numerosi
libri, fra i quali Viva
Caporetto!, Maledetti
toscani, Benedetti
italiani, Kaputt e La
pelle.
Renzo Montagnoli
13 Agosto

Storia della Resistenza
di Marcello Flores e Mimmo Franzinelli
Laterza Editori
Storia
Pagg. 696
ISBN
9788858147344
Prezzo Euro 24,00
Tutto sulla Resistenza
E’ fuor di dubbio che la Resistenza sia stata un
fenomeno non solo rilevante, ma fondante del nostro paese, e proprio per
questa sua importanza è stata oggetto di numerosi studi che hanno portato a
opere di saggistica storica che hanno affrontato per lo più alcuni dei fatti
che si manifestarono all’epoca, mentre più rari sono i libri che affrontano
l’argomento nella sua globalità (così a memoria mi sovviene Storia della
Resistenza Italiana di Roberto Battaglia uscito nel lontano 1953 per i
tipi della Einaudi). Se il lavoro pure egregio di Battaglia era volto
soprattutto a raccontare gli aspetti militari, questo di Flores e Franzinelli
si caratterizza per una completezza senza precedenti, quasi volesse diventare
una pietra di paragone e una fonte di notizie per lavori successivi di altri
storici. Infatti, pur strutturato secondo un ordine cronologico degli eventi,
ha la caratteristica che affronta i diversi aspetti dell’epopea resistenziale,
come per esempio illuminante è il ruolo delle donne con la loro partecipazione
attiva, nonché, non meno rilevante, il modo in cui nemico vedeva la
Resistenza, con un’analisi attenta che permette di comprendere molti
atteggiamenti e decisioni dei nazifascisti. Poiché gli aspetti sono tanti non
c’è da meravigliarsi se l’opera risulta piuttosto corposa, constando di 696
pagine articolate in 18 capitoli. Di conseguenza non intendo procedere a un
sintetico riassunto, che finirebbe per non consentire di comprendere di che si
tratta, svilendo un lavoro invece dagli apprezzabili risultati.
Data la mole della narrazione si può dire che
quanto di più importante della Resistenza sia stato affrontato, con
sistematicità e a volte, per eventi già molto noti e i cui approfondimenti
sono stati effettuati da altri, con una valida sintesi che consente al lettore
di avere non solo un’idea, ma un quadro preciso di questo fenomeno.
Se dico che c’è tutto, proprio tutto quello che è
importante, non esagero e posso solo immaginare quanto tempo abbiano dedicato
Flores e Franzinelli a questa loro creatura; apprezzabile, inoltre, è
l’imparzialità degli autori, il che non vuol dire essere solo critici nei
confronti del fenomeno resistenziale, ma saperne cogliere gli aspetti positivi
e quelli negativi, e per questi ultimi c’è un intero capitolo intitolato
Partigiani contro partigiani sulla conflittualità inter partigiana. Non
poteva poi mancare un altro capitolo afferente le rappresaglie e le stragi,
nonché quello dei rapporti con gli alleati. Qui mi fermo, perché se anche mi
sono limitato a cenni brevissimi su parti dell’opera, sono ben consapevole
dell’incompletezza della mia esposizione, dovuta esclusivamente alla brevità
richiesta per letture su siti internet. Ci sarebbe infatti molto da scrivere
su chi ha scritto tantissimo, e non tanto per criticare, ma per porre in
evidenza, per aiutare a valutare chi legge.
Da ultimo mi permetto di evidenziare che l’opera
in questione ha sì l’invidiabile pregio di fornire il complesso quadro
d’insieme della Resistenza, ma non tralascia tuttavia il particolare, cioè
storie per lo più meno conosciute di tanti fatti individuali, con
quell’apprezzabile equilibrio che è comprovato anche dal non aver taciuto
aspetti non positivi, per non dire altamente negativi, un valore aggiunto a un
saggio di per sé di rilevante pregio.
Marcello Flores
(Padova, 26 dicembre 1945) ha insegnato Storia contemporanea e Storia
comparata nell’Università di Siena, dove ha diretto anche il Master in Human
Rights and Genocide studies, e nell’Università di Trieste. Tra i suoi libri: Il
secolo del tradimento. Da Mata Hari a Snowden 1914-2014,
(il Mulino, 2017), Il
genocidio degli armeni (il
Mulino, nuova ed. 2015), Traditori.
Una storia politica e culturale (il
Mulino, 2015), Storia
dei diritti umani (il
Mulino, nuova ed. 2012), La
fine del comunismo (Bruno
Mondadori, 2011) e 1917. La Rivoluzione (Einaudi, 2007). Con Feltrinelli ha
pubblicato Tutta
la violenza di un secolo (2005)
e La
forza del mito. La rivoluzione russa e il miraggio del socialismo (2017).
Mimmo Franzinelli (Cedegolo,
1954) studioso del fascismo e dell´Italia repubblicana, componente del
comitato scientifico dell'Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di
Liberazione "Ferruccio Pari", è autore di numerosi libri, fra cui: per Bollati
Boringhieri, I
tentacoli dell´Ovra (1999,
premio Viareggio 2000), Rock
& servizi segreti (2010)
e Autopsia
di un falso. I Diari di Mussolini e la manipolazione della storia (2011);
per Mondadori, L´amnistia
Togliatti (2006), Il
delitto Rosselli (2007), Beneduce.
Il finanziere di Mussolini,
con Marco Magnani (2009), Il
Piano Solo (2010), Il
prigioniero di Salò (2012), Tortura (2018);
per Rizzoli, La
sottile linea nera (2008).
Con Feltrinelli ha pubblicato: La
Provincia e l´Impero. Il giudizio americano sull´Italia di Berlusconi,
con Alessandro Giacone (2011), Delatori.
Spie e confidenti anonimi: l´arma segreta del regime fascista (UE
2012), Il
Giro d'Italia. Dai pionieri agli anni d'oro (Feltrinelli,
2013), - per gli Annali della Fondazione Feltrinelli - Il
riformismo alla prova. Il primo governo Moro nei documenti e nelle parole dei
protagonisti (ottobre 1963-agosto 1964),
con Alessandro Giacone (2013) e Fascismo
anno zero (Mondadori
2019), Croce e il fascismo (Laterza 2024), Mussolini racconta Mussolini
(Laterza 2024).
Renzo Montagnoli
7 Agosto

La madre
di Grazia Deledda
Rusconi Editore
Narrativa
Pagg. 144
ISBN
9788818036923
Prezzo Euro 10,00
Il dramma di una madre
Fino ad adesso avevo ritenuto Il paese del
vento il miglior romanzo di Grazia Deledda, poi ho preso in mano La
madre, l’ho letto e arrivato alla fine è come se un cielo buio si
fosse d’improvviso squarciato in una luce accecante. Raramente mi è capitata
un’opera di questo livello, talmente elevato da rendere difficile trovare un
termine per definirlo. Già l’incipit è uno di quelli che è impossibile
dimenticare, con una tempesta in crescendo che procede di pari passo con la
tempesta interiore di Maria Maddalena, madre di Paulo, parroco di Aar, un
paesino dal nome di fantasia sito fra i monti della Sardegna. E la povera
donna ha tutte le ragioni per essere così angosciata, visto che il figlio ha
perso la testa per una donna del villaggio. Il tormento di Maria Maddalena è
reso in modo esemplare e appassionante, tormento che deriva dall’apprendere
che il figlio sta venendo meno al voto di castità, ma tuttavia la donna
comprende le esigenze di uomo, e sta in questa discrasia la sua angoscia.
Ripeto, già l’incipit è qualcosa di straordinario,
perché si riesce a vedere la bufera che si abbatte sul paese e si avverte lo
stesso accentuato contrasto interiore della protagonista. Peraltro, La
madre è uno di quei romanzi con pochissimi protagonisti, in questo
caso rappresentati da Maria Maddalena, da Paulo, da Agnese, la donna di cui
lui si è invaghito, e da Antioco, il giovane chierico che venera il suo
parroco e che aspira a entrare in seminario per diventare sacerdote. Assenti,
o comunque ridotte all’osso le descrizioni dei paesaggi, tutta l’opera è
incentrata sul tormento intimo dei protagonisti, che danno vita a una tragedia
di amore e di morte che può ricordare, ma solo in apparenza, analoghe opere
del teatro greco.
Considerato tutto questo si potrebbe temere una
certa pesantezza e invece non è così, perché la fine analisi psicologica dei
personaggi è condotta in modo progressivo concatenandola all’evolversi della
vicenda, una trama semplice per un dramma complesso, in cui l’abilità di
Grazia Deledda emerge in piena luce e che giustifica ampiamente il
riconoscimento del premio Nobel per la letteratura, unica donna italiana ad
averlo ricevuto in campo letterario.
La madre indubbiamente cerca di
affrontare il delicato tema del celibato ecclesiastico, ma la sua vera
essenza, la sua autentica natura è psicologica, terreno in cui la narratrice,
pur non in possesso di specifici titoli accademici, è veramente a suo agio.
Come conosce la sua gente, il mondo isolano dell’epoca, è peraltro consapevole
delle passioni, degli istinti, delle emozioni che sono alla base di ogni
essere umano. Il personaggio di questa umile donna, rimasta vedova con il
figlio piccolo e che tanto ha fatto, lavorando anche come serva, affinché il
suo Paulo diventasse un giorno sacerdote, è dipinto con un verismo assoluto e,
come la narratrice riesce a leggere nel suo animo parlandocene, noi scorrendo
le righe di una prosa semplice, ma di grande efficacia, riusciamo a
comprendere il dramma, siamo naturalmente mossi a compassione.
Non credo che sia necessario aggiungere altro
riguardo a un’opera che merita senz’altro anche più riletture.
Grazia Deledda
(Nuoro, 27 settembre 1871 – Roma, 15 agosto 1936 è stata una scrittrice
italiana, celebre per essere l'unica donna italiana a vincere il Premio Nobel
per la Letteratura, conferitole nel 1926. Nata in una famiglia benestante in
Sardegna, ricevette un'istruzione limitata, proseguendo da autodidatta e
sviluppando presto una passione per la scrittura.
Dopo un esordio come giornalista su delle
riviste di moda, iniziò la sua carriera letteraria pubblicando racconti e
romanzi ambientati nella sua terra natale, esplorando le tradizioni e i
conflitti interiori di una Sardegna arcaica e pastorale. Tra le sue opere più
celebri si annoverano Elias
Portolu (1903), Cenere (1904), Canne
al vento (1913),
che le valse la candidatura al Nobel, e La
madre (1920),
apprezzata in particolare dallo scrittore inglese David Herbert Lawrence.
Tra i suoi ultimi lavori vi è Cosima,
quasi Grazia,
un romanzo autobiografico rimasto incompiuto, pubblicato postumo. In
quest’opera, Deledda narra la sua infanzia e il percorso che l’ha portata a
diventare una scrittrice, fornendo uno sguardo intimo sulle difficoltà e le
resistenze incontrate in un contesto culturale che limitava le aspirazioni
femminili.
La sua produzione letteraria, caratterizzata
dall'incrocio continuo di elementi veristi e decadentisti e contraddistinta da
una profonda introspezione psicologica, fu spesso incompresa dai suoi
contemporanei, soprattutto nella sua terra d'origine, ma ha acquisito nel
tempo grande riconoscimento internazionale.
Renzo Montagnoli
1 Agosto

Assassinio sul Nilo
di Agatha
Christie
Arnoldo
Mondadori Editore S.p.A.
Narrativa
Pagg. 432
ISBN
9788804774778
Prezzo Euro
11,50
Alta
tensione sul Nilo
Scritto nel 1937
questo romanzo giallo sembra non sentire il peso degli anni, tanto è capace di
avvincere il lettore con una trama ricca di personaggi che nelle prime 130
pagine sembrano in attesa che accada qualcosa di funesto, un omicidio che
turbi quella crociera sul Nilo che hanno intrapreso per motivi turistici,
tutti meno qualcuno. La preparazione dell’evento, così lunga, è frutto di
un’abile impostazione della narratrice, capace di tenere sulle spine il
lettore nell’attesa sempre più spasmodica di un fatto di sangue. I personaggi
sono stati scelti con cura, tutti perfettamente funzionali alla vicenda,
descritti con un’abilità che non si limita all’aspetto esteriore, ma che va a
fondo, indaga psicologicamente rivelando la loro natura. La trama può apparire
complicata e si basa su due sentimenti dell’essere umano, l’amore e il -
tradimento, già sufficienti di per sé per attrarre, per incuriosire il lettore
affinché sia indotto a prestare la massima attenzione. Del resto se si legge
con scrupolo e ogni tanto ci si ferma a riflettere si potrà arrivare alla
soluzione, che è perfettamente logica, per quanto frutto di incastri. Davanti
a Poirot si presenta una nebbia fitta che poco a poco lui riesce a diradare e
se anche ha intuito la soluzione dell’indagine questa non verrà fino a quando
non avrà raccolto tutte le prove, coprendo con la caligine tutto quanto osta
al raggiungimento del risultato e finendo così per mettere in piena luce, come
illuminata dai riflettori, la verità.
Il caso è
notevolmente complesso, c’è una premeditazione accurata che non ha lasciato
nulla al caso ed è per questo che il nostro investigatore dovrà sudare le
proverbiali sette camicie per venirne a capo. Tuttavia, in chi legge c’è il
desiderio di mettersi in competizione con Poirot e, sempre che si sia fatta
lavorare la propria materia grigia, è possibile arrivare alla soluzione
congiuntamente con l’investigatore; magari si tratta solo d’intuito, cioè si
ha la sensazione di sapere il nome del colpevole anche se non si è in grado di
ricostruire esattamente come sono andate le cose, ma a questo provvede
l’infaticabile Poirot, con un percorso logico del tutto convincente.
E’ anche vero
però che arrivati alla conclusione dell’indagine ci saranno riservate delle
sorprese, che in fondo costituiscono la classica ciliegina sulla torta e che
non contrastano gli esiti, ma mettono la parola fine su uno dei più riusciti
gialli che siano mai stati scritti.
Data la bellezza
del romanzo e la sua idonea trama
Assassinio
sul Nilo
ha visto anche due versioni cinematografiche di uguale successo: quella del
1978 diretta da John Guillermin e interpretata da David Niven (colonnello
Johnny Race) e Peter Ustinov (Hercule Poirot) e quella ben più recente del
2022, diretta da Kenneth Branagh, che interpreta anche Hercule Poirot.
Il libro è
veramente bello, uno fra i migliori della narratrice inglese, ed è meritevole
di lettura.
Agatha Christie (Torquay,
15 settembre 1890 - Wallingford, 12 gennaio 1976) é stata una famosa
scrittrice di romanzi gialli, creatrice dei due investigatori: Hercule Poirot
e Miss Marple, di grande successo.
Renzo Montagnoli
20 Luglio

Il giardino delle nebbie notturne
di Twan Eng Tan
Neri Pozza Editore
Narrativa
Pagg. 416
ISBN
9788854529359
Prezzo Euro 21,00
Atmosfere d’oriente
Non nascondo che mi incuriosisce il mondo
orientale, non quello delle grandi metropoli, caotico e anonimo, bensì quello
dei piccoli centri, dove ancora vivono, ma sarebbe meglio dire sopravvivono le
tradizioni, così lontane dal nostro modo di essere e tali da costituire un
modo di esistere. In questo senso mi ha incuriosito la trama di questo romanzo
in cui già il titolo, Il giardino delle nebbie notturne,
richiama un modo particolare di vedere la natura, con un occhio più etico che
edonistico. Del resto la vicenda della giudice Teoh Yun Ling, che giunta al
pensionamento si ritira in un luogo che anni prima ha chiamato casa, Yugiri,
il giardino delle nebbie notturne, preannuncia una storia di ricordi, a volte
piacevoli, ma più spesso dolorosi (la donna, insieme alla sorella maggiore, è
stata imprigionata dai giapponesi e al termine della guerra di tutti i reclusi
è risultata l’unica sopravvissuta, benché mutilata nell’anima e nel corpo)
Potrebbe sembrare un buon retiro, ma il
motivo per cui si reca là è che soffre di una malattia neuro degenerativa che
le fa perdere la memoria e proprio lì dove ha trascorso il meglio della sua
vita è dolce e struggente rievocare il passato.
La prigionia l’ha segnata pesantemente
nell’anima e nel corpo, quasi senza speranza di un ritorno alla normalità dopo
l’uscita dal campo di concentramento. Ma Teoh ritroverà la sua strada cercando
di realizzare quanto sognato dalla sorella maggiore, morta in prigionia, e
cioè creare in quella terra un giardino giapponese, missione a cui darà un
contributo sostanzioso Aritomo, il giardiniere giapponese dell’imperatore. Il
suo odio per chi ha distrutto quanto di più caro avesse al mondo poco a poco
si trasforma in rispetto e ammirazione per quest’uomo di poche parole, ma dai
grandi e profondi silenzi, la cui filosofia di vita verrà trasmessa alla
donna.
E chi scrive, che narra dei ricordi, della
sua trasformazione è proprio Teoh, con uno stile che leviga e che incide, che
è frutto di riflessione e di impeto, che pone la memoria come il mondo che per
lei è stato, realizzando a un romanzo nel romanzo di cui non si potrà non
apprezzare la finalità, con il peso immenso della storia e la fragile realtà
del perdono, una scuola di vita che forse ha più senso in quei lontani posti,
o che più probabilmente ci incanta perché così diversa dalla nostra, ma senza
però che facciamo qualcosa perché possa somigliarle.
La narrazione, alla cui base c’è una vena
poetica riscontrabile nelle descrizioni della natura, a volte appare un po’
pesante, con un ritmo che per noi occidentali è senz’altro blando, ma d’altra
parte se si è chiamati a riflettere occorre il tempo giusto e in fretta non si
può andare.
Per chi ama assaporare il profumo d’oriente
il libro è più che consigliato.
Twan Eng Tan (Penang, 30 maggio
1972) , nato
a Penang, ma ha vissuto la sua infanzia in molti luoghi diversi in Malesia.
Dopo aver studiato legge a Londra, ha lavorato in uno dei più importanti studi
legali di Kuala Lumpur. È cintura nera di aikido ed è un attivista impegnato
nella conservazione degli edifici storici. Il suo romanzo d’esordio, "The Gift
of Rain", è arrivato finalista al Man Booker Prize ed è stato tradotto in
numerosi paesi. Vive tra Città del Capo e Kuala Lumpur. Elliot Edizioni ha
pubblicato nel 2013 "Il giardino delle nebbie notturne". Nel 2023 esce per
Neri Pozza La
casa delle mille porte.
Renzo Montagnoli
16 Luglio

Piero fa la Merica
di Paolo
Malaguti
Edizioni
Einaudi
Narrativa
Pagg. 208
ISBN
9788806259761
Prezzo
Euro 18,50
La
miseria è una condanna
C’è miseria
e miseria e infatti quella dei Gevori è propria di chi non ha assolutamente
niente, al punto che vengono chiamati “bisnenti”. Quando non si ha la
possibilità di mangiare due volte al giorno e al massimo si può sperare in una
fetta di polenta appena condita con dei piccoli merli, raccolti nel nido e a
cui è stata schiacciata la testina stringendola fra due dita, non resta che la
disperazione, disperazione che li travolge quando viene venduta la terra su
cui insiste, addossata alla recinzione di una villa, la baracca in cui trovano
riparo, la loro miserrima dimora. Dove potranno andare? L’unica possibilità è
di fuggire la miseria andando in una terra promessa, nel lontano e inesplorato
Brasile. Ma anche là, pur saziando la loro fame di terra, pur riuscendo ogni
giorno a mangiare, saranno un po’ meno miseri, diventeranno poveri.
Soprattutto impareranno che la terra che ora è loro, sottratta alla foresta, è
stata rubata anche ai legittimi proprietari, gli indios, sterminati con la
ferocia di chi vuole difendere e magari accrescere il proprio piccolo
patrimonio.
L’ultimo
romanzo di Paolo Malaguti non è solo un omaggio a chi è fuggito dall’Italia in
cerca di una vita migliore, ai nostri migranti partiti alla ventura come
quelli che approdano alle nostre coste, è la storia della crescita di Piero,
un ragazzo abbastanza grande da capire il dolore dell’umanità, ma anche
abbastanza piccolo per portarselo dentro, per piangere senza lacrime, in una
lacerazione dell’animo che lo porterà a maturare, a conoscere esattamente cosa
è l’amore, cosa sono il bene e il male, a vedere con occhi non più innocenti,
ma disincantati che senza la miseria non ci può essere la ricchezza.
Malaguti
disegna la trama per gradi, con delicatezza e anche pietà dove occorre, con
l’autentica compassione verso i protagonisti di un’umile tragedia, dalla
partenza per il viaggio verso lo sconosciuto Brasile, ammassati nella stiva di
un bastimento, alla scoperta della loro meta finale. I personaggi sono
perfettamente delineati, gente dai cuori induriti di chi non ha proprio
niente, nemmeno il piacere di vivere, componenti di famiglie che non hanno
nulla da perdere, perché nulla posseiedono, e anche gli amori, che possono
sbocciare come un piccolo fiore in una pietraia, durano poco, vinti dalla
necessità di sopravvivere.
Paolo
Malaguti, dopo alcuni romanzi di qualità altalenante, sembra aver trovato la
sua strada, quella in cui si racconta la storia di gente che altrimenti non
avrebbe storia, dal rasserenante
Il Moro
della cima,
all’emancipazione femminile di
Fumana,
per arrivare prima alla maturazione del barcarolo Gambeto e ora alla dolente
constatazione della miseria come un vestito che non riesci mai a toglierti di
dosso, propria di quest’ultimo romanzo.
Piero
fa la Merica
è veramente bello, fa riflettere, resta indelebilmente dentro.
Paolo Malaguti è
nato a Monselice (Padova) nel 1978. Attualmente vive ad Asolo e lavora come
docente di Lettere a Bassano del Grappa. Con Neri Pozza ha pubblicato La
reliquia di Costantinopoli (2015),
finalista al Premio Strega 2016. Tra le sue opere Nuovo
sillabario veneto (BEAT,
2016), Prima
dell'alba (Neri
Pozza, 2017), L'
ultimo carnevale (Solferino,
2019), Se
l'acqua ride (Einaudi,
2020), Il
Moro della cima (Einaudi,
2022), Piero
fa la Merica (Einaudi,
2023), Fumana (Einaudi,
2024).
Renzo Montagnoli
13 Luglio
 TECUM
Quanto vale un verso? Forse nulla, forse
tutto, ma se le parole arrivassero da una dimensione inconsueta, misterica,
da un altrove che solleva la nostra umanità rendendola altro, illuminandola
di cielo, svelandola? Un verso si nutre di vita, è respiro e attimo, ipotesi
e certezza, nasce abbarbicato a un’emozione e a un desiderio. Il verso
genera un nuovo mondo, un luogo dove dimora la certezza di un’eternità che
solitamente possiamo intuire appena. Ma questo non significa eludere la
quotidianità per ubriacarsi di un sogno. Un verso ti costringe a combattere
l’ombra del reale, il riflesso di una sincerità contaminata dal giudizio e
dalla paura. Il verso si fa guerriero di un messaggio unico e irripetibile,
qualcosa che non può -non deve- restare nella “penna” di chi lo ha scritto,
ma grida il bisogno primordiale di essere condiviso, di fecondare, di essere
seme. Il rapporto tra chi scrive e chi legge è un rapporto sublime, è un
condividere un letto, un tavolo, un giacere sotto lo stesso cielo che tutti
rende capaci di amare, e capaci di poesia.
Questo sembra essere l’intento di “TECUM”,
silloge poetica di 70 poesie d’amore scritta dal cremonese Guido Mazzolini.
Il più antico dei sentimenti, il più forte motore della vita. Tutto da
scoprire, leggere, respirare.
Elena Dolce
10 Luglio

La guerra per il Mezzogiorno.
Italiani, borbonici e briganti 1860
– 1870
di
Carmine Pinto
Laterza
Editori
Storia
Pagg.
XIV-496
ISBN
9788858135310
Prezzo
Euro 28,00
I
briganti, eroi o delinquenti?
Il movimento
neo borbonico favoleggia di un meridione che prima dell’Unità era prospero,
definisce il brigantaggio dopo la sua annessione all’Italia come un forte
movimento di resistenza all’oppressore sabaudo che impoverì quelle terre
depredandole di continuo. C’è da dire peraltro che a supporto di queste tesi
nulla viene portato che non sia la semplice chiacchiera, dimenticando che per
scardinare una storia ormai acquisita non bastano di sicuro le parole, ma
occorrono fatti e documenti.
Carmine
Pinto con questo suo interessante saggio ha voluto vederci chiaro, ricorrendo,
argomento per argomento, a un’ampia documentazione storica e archivistica, con
cui sono contestate le teorie dei neo borbonici.
Se
l’avanzata di Garibaldi, dopo il suo sbarco in Sicilia, proseguì trionfalmente
con la partecipazione di migliaia di meridionali e se poi avvenne, dopo Teano
con l’incontro dell’Eroe dei due mondi con Vittorio Emanuele II, l’annessione
di quello che era il Regno delle Due Sicilie al nuovo Regno d’Italia, è
indubitabile che in seguito ci fu un tentativo di restaurazione, promosso
dall’ex re Francesco II e dallo Stato della Chiesa, tentativo che anziché
essere affidato a un esercito regolare si estrinsecò in azioni di guerriglia
al cui avvio diedero impulso i briganti già esistenti, ai quali poi se ne
aggregarono altri.
Pinto sfata
subito il mito del brigantaggio meridionale come emblema della libertà e della
ribellione contro gli invasori piemontesi; lì non c’erano certamente dei Robin
Hood o dei Che Guevara, lì c’erano fior di mascalzoni che si videro
legittimati a rubare, devastare e opporsi all’esercito regolare piemontese,
nonché alla Guardia Nazionale, composta esclusivamente da elementi locali.
Non esisteva
un piano articolato, semplicemente si voleva rendere difficile e pericoloso il
governo dello stato italiano, creare uno stato di tensione e confusione tale
da provocare un’insurrezione popolare, che però non accadde.
I briganti
vivevano sulla popolazione, la taglieggiavano, in genere erano estremamente
violenti, insomma se viene data a dei delinquenti la licenza di uccidere sono
sicuri i tragici risultati. Ma se agli inizi questi ribelli poterono contare
su un certo appoggio delle genti del meridione (però più per paura che per
convinzione), mano a mano che la sorte dei briganti appariva segnata, agli
stessi venne meno quel sostegno popolare indispensabile per operare; il
risultato fu che più o meno dal 1864 furono costretti a combattere per
sopravvivere, pressati da ogni parte. Si dovrà però arrivare al 1870 con la
cattura e l’uccisione degli ultimi capi importanti perché il fenomeno perdesse
di rilevanza, limitandosi in seguito a poche bande che poco a poco si
dispersero.
Fu una
guerra sanguinosa e crudele, perché all’iniziale ferocia dei briganti, le
truppe regolari e la Guardia Nazionale risposero colpo su colpo.
Pinto rileva
anche che accanto all’aspetto militare ci fu quello politico, visto che il
Parlamento italiano fu luogo di accesi dibattiti in ordine ai metodi per la
soluzione del problema; in buona sostanza vinsero due azioni congiunte, e cioè
l’integrazione del meridione nel nuovo stato e l’azione militare priva di
incertezze, a sua volta condotta secondo metodi di guerriglia, con il ricorso
anche di reparti speciali appositamente addestrati.
Per
concludere, smontando tante teorie strampalate uscite dalla fantasia dei neo
borbonici, secondo Pinto la
guerra dei briganti è stata caratterizzata dalla quasi completa assenza di
distinzione tra scopi criminali, scopi privati e motivazioni politiche,
insomma il brigante visto come uomo senza paura che combatte per il suo popolo
è una visione popolare del tutto irrealistica.
Da leggere senz’altro.
Carmine Pinto
insegna Storia contemporanea presso l’Università degli Studi di Salerno. Ha
scritto sui sistemi politici del Novecento e si occupa di guerre, conflitti
civili e movimenti nazionali nel XIX secolo. Per Laterza è autore di Il
brigante e il generale. La guerra di Carmine Crocco e Emilio Pallavicini di
Priola (2022).
La guerra per il
Mezzogiorno. Italiani, borbonici e briganti 1860-1870 ha
vinto, tra gli altri, il Premio Cherasco Storia, il Premio Sissco, il Premio
Fiuggi Storia e il Premio Basilicata.
Renzo Montagnoli
4 Luglio

Poesie
Natura, amica mia
di Sergio Menghi
Edito in proprio
Poesia
Pagg. 112
ISBN 979-8316499632
Prezzo Euro 9,17*
*Acquistabile
su Amazon
Lavori in corso
Le passioni sono strane, perché a volte ci
accompagnano dalla giovinezza, altre invece nascono in età assai più matura e
quest’ultimo caso è proprio di Sergio Menghi, che probabilmente anni fa aveva
alcune intuizioni poetiche, magari di mettere in versi qualche bel paesaggio,
ma che poi si è manifestata in tutta la sua dimensione una volta ultimato il
lavoro e raggiunta l’agognata pensione. Il fenomeno è tutt’altro che raro e io
stesso ne sono un chiaro esempio. Poi Menghi, che è stato un mio collega
nell’attività lavorativa, mi ha di nuovo incontrato tramite un sito social e
in quell’occasione ho letto alcune poesie che timidamente aveva inserito nel
suo blog. Si trattava di componimenti abbozzati, privi di un’adeguata
struttura, tipici di chi è alle prime armi, ma denotavano comunque una vena di
fondo meritevole di essere coltivata e in questo senso l’ho incoraggiato. Così
poco a poco è venuto migliorando, ha acquisito sicurezza e anche musicalità,
insomma è migliorato, e non di poco. Ora ha voluto raccogliere i frutti di
questa sua passione in questo libro intitolato Poesie e sottotitolato
Natura, amica mia. Ecco, quel Natura, amica mia è un tributo
dell’autore alla bellezza del mondo che ci circola, ed è la fonte
d’ispirazione dei suoi versi (Da Maralunga:
Una lingua di roccia /
immersa nel
mare di La spezia / offri / al cittadino stanco dell’Europa / un’oasi di pace
/ all’ombra degli ulivi./…)
( da Osservando la natura:
C’è
forse chi, come me, /
non si è mai
soffermato / al fascino dei fiori di fave? /…).
Comunque la
natura non è l’unico tema delle sue poesie, anche se è quello preponderante;
non mancano infatti le ricorrenze (da Natale 1991 :
Guardo dai
vetri della finestra / il movimento agitato dei rami secchi / dei cespugli
sulla collina / e sento un brivido / al sibilo del vento gelido invernale.
), oppure
gli affetti (da Anniversario di matrimonio:
Cinquanta anni
son tanti / ma son passati veloci. / Non ci sembra vero / che sia stato
possibile / realizzare tutto quanto. /…).
Più recentemente è iniziata la fase delle riflessioni, indubbiamente più
complessa e non ancora ricompresa in questa raccolta, di cui non mi stanco di
sottolineare l’afflato del tutto intenso con la natura, il legame con le
colture, comprese quelle dell’orto, probabile retaggio della sua fanciullezza
trascorsa nella fattoria condotta dai genitori. I versi della silloge, pur
nella loro evoluzione nel tempo, sono caratterizzati da un’apprezzabile
spontaneità, vengono direttamente dal cuore per entrare nel cuore di chi
legge. Ci sono ancora ampi margini di miglioramento, ma a mio parere l’autore
è sulla buona strada e conto di poter leggere, o sul suo blog o su una nuova
pubblicazione, poesie più solide e sicure nella stesura, ma sempre di quella
semplicità che ha il pregio non trascurabile dell’immediatezza, così da
lasciare al lettore il puro piacere senza doversi scervellare per
interpretarle.
Quindi appare
evidente come la passione, oltre a costituire un passatempo, rappresenti una
crescita culturale non solo per chi scrive, ma anche per chi legge.
La raccolta
quindi è da considerare senz’altro riuscita.
Sergio Menghi, nativo
di Camerino, attualmente vive a Roma. Laureato in economia e commercio ha
lavorato alle dipendenze della Banca Nazionale del Lavoro. In pensione da
diversi anni un giorno gli è nata la passione di scrivere poesie e
racconti. Ha pubblicato, editi in prprio, Aricordete, Poesie, Memorie
di viaggi (quest’ultimo
scritto con la moglie Giuseppina Parcaroli).
Renzo Montagnoli
25 Giugno

Risplendo non brucio
di Ilaria
Tuti
Longanesi
Editore
Narrativa
Pagg. 320
ISBN
9788830462175
Prezzo
Euro 22,00
Luceo non uro
Forse più
nota per i polizieschi che hanno come protagonista il commissario Teresa
Battaglia, Ilaria Tuti è però, almeno secondo il mio parere, una narratrice di
razza con romanzi non propriamente di genere, ma che hanno fino ad adesso un
comune denominatore, perché si svolgono tutti durante un conflitto. E’ così
per
Fiore di roccia,
che ha come protagoniste le portatrici carniche che rifornivano nel nostre
prime linee durante la Grande Guerra, ed è pure così per
Come
vento cucito alla terra,
stesso conflitto, ma con personaggi principali donne inglesi che operano e
curano militari del loro paese e della Francia. Con la sua ultima opera
Risplendo non brucio
si passa invece a un’epoca successiva, a quella della seconda guerra mondiale,
con due protagonisti, padre e figlia, medici pure loro, impegnati a salvare le
proprie vite in due vicende parallele che sono dei veri e propri gialli.
Considerato che in entrambi i casi si va alla ricerca degli autori di omicidi
non aggiungo altro sulla trama, se non che il padre, internato per motivi
politici a Dachau, è portato in una roccaforte di Hitler per indagare su una
morte misteriosa, mentre il caso della figlia è ambientato in una Trieste
crepuscolare, con incombente minacciosa la famosa Risiera di San Sabba. Il
fatto che si racconti di due indagini, contemporanee in luoghi diversi,
lascerebbe supporre una certa difficoltà nel lettore di seguire il corso delle
storie con l’indispensabile lucidità, ma è indubbio che la capacità di Ilaria
Tuti di ben strutturare i suoi romanzi, messa ancora una volta alla prova, si
mostra in tutto il suo valore.
E così ci si
appassiona all’una e all’altra trama, presi anche dal desiderio di arrivare
alla fine nella consapevolezza che lo scoprire i colpevoli costituirà l’unica
possibilità di salvezza per i due investigatori. Come al solito si apprezza
l’abilità della narratrice nel ricreare le atmosfere, cupa, lugubre quella
della Risiera, da caduta degli dei dei quella del castello di Kransberg, dove
è alloggiato in un bunker Adolf Hitler.
Fin
dall’inizio si resta colpiti da un incipit di rara efficacia, quello della
somministrazione del brodo a Dachau al dottor Johann Maria Adami per vedere se
il suo organismo riesce a trattenerlo, premessa indispensabile per verificare
la possibilità che rimanga in vita almeno per il lasso di tempo necessario a
chiarire una morte misteriosa avvenuta proprio al castello di Kransberg. Non
sono più di tre pagine, ma consentono già di ricreare un’atmosfera da vero e
proprio incubo che sarà una costante compagnia per tutta la lettura, tuttavia
funzionale alle trame di cui ho accennato.
E’ però
altrettanto vero che il sapere che le efferatezze narrate erano la normalità
nei lager lascia un senso di impotenza che tuttavia Ilaria Tuti riesce
abilmente ad attenuare con uno splendido finale.
Il romanzo,
bello, mi è piaciuto molto, perché lascia molto dentro, soprattutto la
speranza che il male non possa sempre trionfare.
Ilaria Tuti
è nata a Gemona del Friuli, in provincia di
Udine, il 26 aprile 1976. Ha studiato Economia. Appassionata di pittura, nel
tempo libero ha fatto l’illustratrice per una piccola casa editrice. Nel 2014
ha vinto il Premio Gran Giallo Città di Cattolica. Il thriller Fiori
sopra l'inferno,
edito da Longanesi nel 2018, è il suo libro d'esordio. Tra i suoi libri
ricordiamo anche: Ninfa
dormiente (Longanesi,
2019) e Fiore
di roccia (Longanesi,
2020). Del 2021 il romanzo La
luce della notte,
il ritorno dell'amatissima Teresa Battaglia in un romanzo di rinascita e
speranza. Sempre per Longanesi pubblica nel 2021, Figlia
della cenere, nel
2022, Come
vento cucito alla terra, nel
2023 Madre
d'ossa, nel
2024 Risplendo
non brucio.
Renzo Montagnoli
18 Giugno

Appunti incompiuti
di viaggio
di Giovanni
Borroni
ChiareVoci
Edizioni
Poesia
Pagg. 99
ISBN 979-8281007436
Prezzo Euro 12,00
Un viaggio dall’alba al tramonto
La vita in fin dei conti è un viaggio che
ciascuno di noi compie dall’alba al tramonto e, per quanto siamo
contemporaneamente presenti in tanti, nessuna esistenza sarà mai uguale a
un’altra. E’ inutile affannarsi sapendo che non ci sarà data un’altra vita e
proprio per questo sta a noi, nei limiti del possibile, darne un’impronta che
ci possa soddisfare.
Inoltre, prendere nota del suo fluire può
essere utile per ricordare a sé e agli altri, ed ecco così che sono nati gli
Appunti incompiuti di viaggio,
una raccolta poetica scritta da Giovanni Borroni che non ha potuto avere il
piacere di vederla pubblicata, essendo venuto a mancare pressoché
improvvisamente prima della sua uscita.
Questa pubblicazione postuma assume così un
carattere del tutto particolare, una sorta di riflessioni a futura memoria per
chi è rimasto, e non per il suo autore che non poteva sapere all’epoca che la
sua memoria non avrebbe avuto un futuro. Eppure, con ogni probabilità
inconsciamente, qualcosa doveva presagire avendo scritto sì di appunti di
viaggio, ma con l’aggiunta di “incompiuti”, anche se a onor del vero
l’incompiutezza ci sarà sempre, visto che nel “dopo” non ci sarà dato di
ricordare.
Nei versi di questa silloge c’è tutta una
serie di aspetti, di atteggiamenti, di desideri anche di fantasia che si sono
intrecciati nel corso di un’esistenza (Eroica:
Con
le gambe piantate ben salde / in punta alla prora del molo / i pugni giù in
fondo alle tasche / / ho sfidato il vento ed il mare / le nubi ed il buio
incombente / fermo aspettando da uomo / / il destino di un'altra tempesta /
per poi trapassarne il furore / con la spada del mio coraggio / / ma quella
non volle affrontarmi / e ormai s’era fatto assai tardi: / era già quasi ora
di cena.
); si tratta degli alti e bassi di una vita
in pochi versi, con la tensione stemperata da un finale che richiama alla
considerazione che, nel bene e nel male, così è sempre la vita.
Non mancano tuttavia riflessioni amare (
I migliori furono quelli che morirono / perché
non ebbero il tempo di sbagliare;
/ …)
(La
fuga più
difficile / eppure più tentata / come un perenne mantra / o i giorni di una
vita / è quella da noi stessi, / da ciò che ci sappiamo / per liberarci ancora
/ e poi ancora e ancora / dai limiti che siamo / …).
E poi era
inevitabile parlare di ciò che incombe su di noi, impossibilitati a sfuggirne,
ma che nel caso specifico assume un significato particolare, quasi una
preveggenza, come in
Penultime volontà:
Figlio, ciò che ti lascio è
quello che non so
e l'ansia di sapere quello che
c'è più in là;
la mia certezza è il dubbio, la
soglia del futuro
tu chiamala ignoranza, io
curiosità.
Figlio, ti lascio quello che io
non ho saputo
fare o disfare, un po' anche
per viltà
ma senza rinnegare ciò che
sentivo vero
solo per non sentirmi in colpa
o vanità.
Figlio, ti lascio quello che so
d'aver sbagliato,
ma sappi che l'ho fatto senza
disonestà;
ti restano i miei limiti, ora,
da superare:
non te ne vergognare ed abbine
pietà.
Figlio, ti avessi avuto, questa
sarebbe stata,
senza pudori o debiti, la mia
eredità
ma dato che non sei stato,
altro che un'idea
darò questo mio lascito a
chiunque lo vorrà.
Il poeta si mette a
nudo, è un’intima confessione a un figlio mai avuto e probabilmente tanto
desiderato, e allora il lascito vale per altri, non uno in particolare, ma per
tutti, i presenti e, perché no, i futuri.
I versi delle
poesie di questa raccolta sono frutto di un disincanto, ma non ci sono né
rabbia, né dolore, perché in fondo la vita è fatta così, occorre prenderne
atto senza che ci si debba crucciare.
E’ una realtà che
la creatività dell’autore propone in modo suadente, ma è pur sempre una realtà
che parla di un tempo corto, al termine del quale c’è il salto nel buio e pare
ovvio considerare che l’ultimo atto, la morte, si sconta vivendo, anche se
fino agli ultimi momenti non ci si pensa.
C’è nella raccolta
una poesia stupenda che da sola vale tutta l’opera, breve, sintetica, efficace
e, lasciatemelo dire, struggente.
Siamo neve
Come fiocchi di
neve cadiamo
su una terra che
era già prima.
La sfioriamo appena
un istante
per poi
abbracciarla
e svanire.
Non aggiungo altro, le poesie di questa
silloge parlano da sole.
Renzo Montagnoli
12 Giugno

Il magico studio fotografico di Hirasaka
di Sanaka Hiiragi
Feltrinelli Editore
Narrativa
Pagg. 160
ISBN 9788807035579
Prezzo Euro 16,00
Un libro magico
Ci sono dei libriccini, pochi in verità,
capaci di affrontare i grandi temi della vita con una semplicità e una
leggerezza che sono invidiabili e che a lettura ultimata lasciano sazi di una
serenità che è la consapevolezza di aver trovato conferma delle proprie
convinzioni, o di avere appreso qualcosa di importante per la propria
esistenza. E’ questo il caso del giapponese Il magico studio fotografico
di Hirasaka, dove Hirasaka è il titolare di un laboratorio fotografico
del tutto particolare, perché lì, con un’accoglienza familiare, con una
gentilezza particolare che si rivela anche con l’offerta di una tazza di tè si
accolgono quelli che ormai hanno lasciato il nostro mondo e si apprestano ad
entrare nell’altro; ed è sempre lì che a tutti vengono consegnati degli
scatoloni che contengono foto ricordo della loro vita, dando altresì
l’opportunità di sceglierne una per ogni anno vissuto, al fine di comporre una
lanterna magica che proietta ciò che è stata la propria esistenza. Non si
esaurisce qui il servizio del signor Hirasaka, perché offre la possibilità di
rivivere quello che considerano il ricordo più bello, più prezioso, scattando
di quello nuovamente la fotografia. Così vedremo Hirasaka alle prese con una
insegnante novantenne, con un appartenente allo yazuka, la mafia giapponese, e
con una ragazzina. Ognuno dei tre ha qualcosa da raccontare di sé: la signora
novantenne del suo amore per i bambini e per la dedizione profusa nella sua
attività di educatrice, il malavitoso che si rende conto che nonostante tutto
è riuscito a fare anche una buona azione e la ragazzina che ha avuto un
trascorso non certo dei migliori.
Questo libro è straordinario perché parla
della morte attraverso la memoria della vita, perché ci fa sentire più vivi
che mai, consapevoli che vivere bene è indispensabile non solo per noi stessi,
ma anche per i nostri cari, anche per gli altri, senza dimenticare che
ribadisce il valore assoluto della memoria, perché quello che non ricordiamo è
come se non fosse mai avvenuto, e invece quello che è rimasto in noi, che ogni
tanto siamo capaci di far riemergere, ci dà la misura del grado di
consapevolezza di ciò che siamo in quanto siamo stati.
Al termine della lettura, capace di provocare
emozioni anche insospettabili, saremo in preda a uno stato d’animo a cui
volentieri abbandonarsi, perché la serenità è scesa piano piano in noi, e sta
sempre a noi conservarla il più a lungo possibile.
Questo romanzo è un autentico capolavoro.
Sanaka Hiiragi (1974,
Prefettura di Kagawa) è un’autrice giapponese. Cresciuta nella prefettura di
Hyogo, vive a Tokyo.
Renzo Montagnoli
6 Giugno

L’arma segreta del Duce.
La vera storia del
carteggio Churchill – Mussolini
di Mimmo Franzinelli
Rizzoli Editore
Storia
Pagg. 437
ISBN
9788817080583
Prezzo Euro 23,00
Un epistolario inesistente
La seconda guerra mondiale è finita da pochi
anni, l’Italia lentamente torna alla normalità, anche se il teatro della
politica è caratterizzato dallo scontro ormai aperto fra democristiani e
comunisti, tenzone in cui cercano di inserirsi per rivendicare un ruolo
strategico gli ex fascisti, usciti indenni da una benevola epurazione. In
questo contesto nasce una vicenda che ha quasi dell’incredibile e che ha per
oggetto il presunto scambio epistolare fra Benito Mussolini e Winston
Churchill. L’ipotesi non è tuttavia infondata, perché c’è la certezza di una
lettera inviata il 15 maggio 1940 dal Primo ministro inglese al duce e che ha
unicamente come scopo quello di scongiurare la guerra fra le due nazioni;
Mussolini risponde tre giorni dopo con una missiva che respinge le possibilità
di una intesa senza lasciare aperta la benché minima porta. Ci si domanda,
razionalmente, se questo iniziale carteggio ha avuto un seguito e infatti c’è
chi poi, in modo del tutto interessato, fornisce la risposta, palesando non
tanto la possibilità, ma addirittura la certezza di altra corrispondenza di
cui sarebbe in possesso. Per quanto ovvio, la notizia è una di quelle che può
essere considerata una bomba e di tanto se ne parlerà, e addirittura ancora se
ne parla a distanza di anni dopo che la vicenda si è sgonfiata. Sì, perché si
tratta di un falso, di un grossolano falso, come dimostrato dallo storico
Mimmo Franzinelli grazie a una molteplicità di documenti inediti, tratti dagli
archivi della Rizzoli, della Mondadori e del Foreign Office. Insomma, dopo
quelle due lettere del maggio del 1940 non ci fu altra corrispondenza fra i
due capi di governo. Eppure, appena concluso il secondo conflitto mondiale, si
cominciò a parlare di ben 62 missive che si sarebbero scambiate reciprocamente
Churchill e Mussolini, a cui poi si aggiunsero, secondo il principio che nel
più ci sta il meno, lettere di Hitler, di De Gasperi, di Badoglio, di Croce e
di altri personaggi di primo piano.
Come è stata possibile tutto ciò?
Mimmo Franzinelli racconta una storia di
imbroglioni, spesso supportati dai vertici della polizia e dei servizi
segreti, cioè da quelli che avrebbero dovuto perseguirli, nonché da esponenti
neofascisti. In pratica venne avviata una vera e propria macchina del fango
con lo scopo di discolpare il Duce dall’aver portato il paese a una guerra
disastrosa, al cui esito negativo avrebbero contribuito in modo non certo
marginale gli antifascisti, nonché per “sputtanare” la Gran Bretagna, paese
verso la quale c’era sempre stata un’aperta ostilità dell’estrema destra.
Nacque così una vera e propria telenovela che come ho accennato raccolse
intorno a sé molti interessati, e ancora ce n’è qualcuno anche oggi,
nonostante la vicenda si sia spenta da sé, vicenda che presentò non solo
risvolti politici, ma che vide anche per alcuni la possibilità di ottenere
favori in alto loco per lo svolgimento di attività industriali e commerciali.
L’esito delle ricerche approfondite di
Franzinelli è di una vera e propria truffa, quindi senza incertezze, come
anche comprovato del fatto che la vicenda, divampata come un fuoco, poi si è
chiusa con una cenere che per qualcuno è ancora calda, anche se di nostalgici
disposti a credere a cose impossibili se ne dovrebbero trovare sempre meno;
tuttavia mi sorge il sospetto che un abile manovratore potrebbe riattivare la
fiamma, nonostante tutte le inconfutabili prove portate con la consueta
capacità e precisione dallo storico bresciano, anche perché in Italia è
possibile anche l’impossibile.
Da leggere, ovviamente.
Mimmo Franzinelli (Cedegolo,
1954) studioso del fascismo e dell´Italia repubblicana, componente del
comitato scientifico dell'Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di
Liberazione "Ferruccio Pari", è autore di numerosi libri, fra cui: per Bollati
Boringhieri, I
tentacoli dell´Ovra (1999,
premio Viareggio 2000), Rock
& servizi segreti (2010)
e Autopsia
di un falso. I Diari di Mussolini e la manipolazione della storia (2011);
per Mondadori, L´amnistia
Togliatti (2006), Il
delitto Rosselli (2007), Beneduce.
Il finanziere di Mussolini,
con Marco Magnani (2009), Il
Piano Solo (2010), Il
prigioniero di Salò (2012), Tortura (2018);
per Rizzoli, La
sottile linea nera (2008).
Con Feltrinelli ha pubblicato: La
Provincia e l´Impero. Il giudizio americano sull´Italia di Berlusconi,
con Alessandro Giacone (2011), Delatori.
Spie e confidenti anonimi: l´arma segreta del regime fascista (UE
2012), Il
Giro d'Italia. Dai pionieri agli anni d'oro (Feltrinelli,
2013), - per gli Annali della Fondazione Feltrinelli - Il
riformismo alla prova. Il primo governo Moro nei documenti e nelle parole dei
protagonisti (ottobre 1963-agosto 1964),
con Alessandro Giacone (2013) e Fascismo
anno zero (Mondadori
2019), Croce e il fascismo (Laterza 2024), Mussolini racconta Mussolini (Laterza
2024).
Renzo Montagnoli
30 Maggio

Memorie di viaggi
di Sergio Menghi e
Giuseppina Parcaroli
Edito in proprio
Narrativa di
viaggio
Pagg. 106
ISBN 979-8315611967
Prezzo Euro 8,54*
*Acquistabile su
Amazon
In
viaggio
C’è chi scrive anche per solo semplice
diletto (è il mio caso) e c’è chi lo fa per fissare la memoria del suo
passato, anche in funzione di un lascito ai propri eredi, di modo che possano
avere una traccia scritta di ciò che hanno sperimentato i loro cari. Quest’ultimo
è il caso di
Memorie di viaggi,
di quei viaggi
che l’autore, Sergio Menghi, ha fatto con la
moglie tanto da renderla partecipe al fatto letterario. Nel libro c’è un po’
di tutto, non solo itinerari di piacere in senso stretto, ma anche rivenienti
dall’attività svolta che l’ha portato a soggiornare in alcune città italiane.
L’opera è di sicuro interesse per chi l’ha scritta e anche ovviamente per la
sua discendenza, forse un po’ meno per i terzi, che, tuttavia, potrebbero
trovare gradevoli e tali da soddisfare le loro curiosità quei tragitti che
magari hanno in animo prima o poi di percorrere. In questa varietà di
narrativa di viaggio così troviamo le gite dei periodi mantovano e romano,
compiute spesso, come altre, con un tandem di autarchica costruzione, poi
quelle in Olanda e in Belgio, le escursioni sul Danubio e al Lago di Costanza,
e immancabili quelle dolomitiche.
Un discorso a parte, perché gli scopi sono
non solo turistici e culturali, ma anche religiosi sono i pellegrinaggi, che
hanno visto lui da bambino andare alla Santa Casa di Loreto e a Cascia per
Santa Rita, poi congiuntamente con la moglie a Santiago di Compostela e a
quello che ho sempre desiderato, senza però mai realizzarlo, in Terra Santa.
Sono memorie scritte sull’onda del ricordo e che riflettono ancora le emozioni
all’epoca vissute, il che si traduce in notizie che più che didascaliche
tendono a trasmettere le sensazioni provate.
Il libro si conclude con racconti che non
sono rientrati in
Aricordete,
ma che completano così la produzione di prosa dell’autore.
Nel complesso si tratta di un’opera
sicuramente leggibile, anche se non a livello del già citato
Aricordete,
ma di una cosa sono certo: la funzione di fissare nero su bianco la memoria
del passato è senz’altro riuscita.
Sergio Menghi, nativo
di Camerino, attualmente vive a Roma. Laureato in economia e commercio ha
lavorato alle dipendenze della Banca Nazionale del Lavoro. In pensione da
diversi anni un giorno gli è nata la passione di scrivere poesie e
racconti. Ha pubblicato, editi in proprio, Aricordete, Poesie, Memorie
di viaggi (quest’ultimo
scritto con la moglie Giuseppina Parcaroli)..
Renzo Montagnoli
23 Maggio

Ci sono momenti
di Alessandro
Ramberti
Fara Editore
Poesia
Pagg. 128
ISBN 978-88-9293-151-0
Prezzo Euro 12,00
Di tutto, di più
E’ proprio
il caso di dire che Alessandro Ramberti è una fucina poetica, visto che
continua a scrivere e a pubblicare poesie a spron battuto, segno di una
invidiabile creatività che sta caratterizzando un lungo periodo
particolarmente propizio. Infatti, non ho fatto in tempo a leggere e a
recensire
Non so
resistere
che è apparsa questa nuova silloge intitolata
Ci sono momenti.
Il fatto che
più sconcerta, ma che anche costituisce motivo di apprezzamento, è la varietà
dei temi proposti nella raccolta che arriverei perfino a considerare un diario
in poesia delle esperienze maturate giorno per giorno.
Ce ne sono
alcune che sono folgoranti, come quella agli inizi (Alea:
Come un dado rotolante col destino / ho lasciato poche tracce del passaggio.)
e che peraltro non è l’unica, perché già a pagina 43 troviamo
Agenda:
“Ci
sono momenti che spostano date”.
In entrambi i casi si tratta di felici intuizioni che sintetizzano profondità
di pensiero senza togliere nulla alla chiarezza dell’esposizione. Poi ci sono
i viaggi, un argomento che mi pare particolarmente caro ad Alessandro,
resoconti in versi di gite dal più vicino, ma sempre incantevole Montefeltro,
alla lontana metropoli americana (da
Alto
Montefeltro:
(Con le gambe la distanza è maggiore.) / Vedi laggiù quegli alberi color /
foglie di ulivo a cinquecento metri / sparsi in quel campo scosceso fra boschi
/ di un verde scuro? Lontana si staglia / sul profilo turchese la materia /
grigia del Sasso Simone. Mi hai detto:/ “Salici!”)
(da
Diario Newyorkese:Pensate
ad un ventenne solitario / per le strade di una grande città: / ….).
Ci sono riferimenti religiosi, ci sono espressioni di emozioni, insomma, per
farla breve, c’è un po’ di tutto. Quindi dire che Ramberti ha dato sfogo alla
sua creatività è quasi un eufemismo, perché appare evidente il quasi ossimoro
fra i momenti che ci sono e i periodi invece che risultano, due eventi
temporali in cui magmaticamente fuoriesce lo spirito poetico e si trasforma in
versi.
Comunque c’è
una poesia che sintetizza non tanto la silloge stessa, ma lo stato di grazia
dell’autore e non a caso figura per ultima; mi riferisco a
Preghiera,
breve, ma molto intensa:
Dimmi chi
sei ti prego / dimmelo con coraggio e con dolcezza / ti ascolterò come un
discepolo il maestro / e poi sarò per te io stesso.
E questo è
tutto, una raccolta di istantanee, una galoppata in cui la realtà si
trasfigura nella fantasia dell’autore, che la filtra, la media, ce la
restituisce accattivante, supportata da una serenità che non viene mai meno.
Alessandro
Ramberti (Santarcangelo,
1960) ha pubblicato:
Racconti su un chicco di riso (1991), In
cerca (2004), Pietrisco (2006), Sotto
il sole (sopra il cielo) (2012), Orme
intangibili (2015), Al
largo (2017), Vecchio
e nuovo (2019, Faglia–Fa?lto (2020), Medèla (2021), La
simmetria imperfetta (racconto
lungo, 2022), Enchiridion
celeste (2022), Non
so resistere (2024).
Renzo Montagnoli
17 Maggio

La stanza del colore provvisorio
di Anna Maria Ercilli
Edizioni ilmiolibro.it
Poesia
Pagg. 51
ISBN 9788891037657
Prezzo Euro 10,00
Una raccolta politematica
La raccolta ha mutuato il titolo da una delle
poesie che la compongono, appunto La stanza del colore provvisorio (Quel
pensiero di parole / non dette ritorna a cadenze / di luce, davanti al mattino
/ la finestra apre la stanza / del colore provvisorio.). E’ logico pensare
che la poetessa si sia affidata a questi versi per esprimere un suo messaggio,
che tuttavia non è di facile interpretazione. Il fatto delle parole non dette
potrebbe esprimere un sentimento di rimorso per non aver colto un momento per
dire qualcosa di importante, poi dimenticata, ma che ogni tanto ritorna, un
ricordo radicato che pretende attenzione; tuttavia si parla anche di cadenze
di luce, luce che ritorna puntualmente a ogni alba, ma a complicare
ulteriormente l’enigma c’è quel “davanti al mattino / la finestra apre la
stanza / del colore provvisorio”. Mi sembra che ci troviamo di fronte a
una metafora, ma di che? La mia personale interpretazione è il ricorrere della
vita, che dopo i dubbi della notte, alla luce del mattino fa ricominciare il
percorso di ognuno, un percorso che non conosciamo, ma che intuiamo, un che di
provvisorio nelle sfumature di ogni giorno che passa, risveglio dopo
risveglio, per procedere a tentoni.
Non so se volesse esprimere questo Anna Maria
Ercilli, anche perché la raccolta non è monotematica, ma è fatta di poesie che
hanno ispirazioni indubbiamente diverse. Tuttavia, se il fatto che le
tematiche siano diverse rende difficile conoscere il significato di questa
poesia, è però vero che al lettore è concesso il piacere di leggere una
varietà di testi che consentono di valutare meglio le qualità dell’autore.
Non volendo tediare chi legge la presente
penso sia meglio proporre un assaggio e così si passa dalla lirica di
sentimenti, come Emozione (Conosci l’emozione che non / tiene a
freno nulla, la febbre / :..) a quella sulla natura, particolarmente cara
ad Anna Maria, che l’apprezza in tutte le sue sfumatura, anche in Dolomiti
(Quanta distanza dal mare / calpesto conchiglie e gusci saldati /…).
E’ difficile poi trovare dei riferimenti
all’ultima silloge pubblicata (La porpora delle api), se non in una
traccia stilistica, qui solo abbozzata, ma più concreta e definita nell’ultima
opera edita, insomma senza voler ricorrere a un anglicismo abusato (work in
progress) in La stanza del colore provvisorio la poetessa ha
gettato altri semi della sua arte, realizzando un indispensabile esercizio, di
cui già si riescono a vedere quei frutti che poi meglio si colgono con La
porpora delle api.
La lettura, per quanto ovvio, è consigliata.
Anna Maria Ercilli,
vive a Trento con memorie liguri. Ha lavorato nel Servizio Sanitario. Ha
pubblicato sette sillogi di poesia, scrive racconti e articoli culturali per
le riviste «Il Furore dei libri» e «R&S», è inserita in alcune antologie (Controparole, Hospite, L’evoluzione
delle forme poetiche, Vivere
l’abbandono)
e riviste («La Mosca di Milano», «Il Monte Analogo» e altre). Presente anche
nel dizionario delle parole perdute Nelle
pagine del tempo (EmmeTi
2011) e nei volumi Le
stagioni per posta e Una
lettera importante (entrambi
con LUA di Anghiari), Quella
volta su un treno (Equinozi
2020), iPoet
Lunario in Versi (LietoColle).
Fotografa per passione. Presidente della Società Dante Alighieri di Trento
nell’anno sociale 2014-2015
Renzo Montagnoli
10 Maggio

Precipizio
di Robert Harris
Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.
Narrativa
Pagg. 420
ISBN
9788804760696
Prezzo Euro 22,00
Una strana spy story
Nell’estate del 1914 l’intera Europa è
sull’orlo del precipizio, perché a Sarajevo è stato ucciso l’arciduca
Francesco Ferdinando d’Austria e per il gioco delle alleanze sussiste il
rischio dello scoppio di una guerra che finirebbe con il coinvolgere quasi
tutti i paesi europei. Inoltre il Regno Unito è minacciato dalla crisi
irlandese che potrebbe incrinare irreparabilmente l’intera struttura
dell’impero, rivelandosi un problema ben più grave e impellente
dell’intervento in un conflitto. E’ questo lo sfondo dell’ultimo libro di
Robert Harris, capace, come sempre, di mescolare storia e romanzo. Per far
questo ricorre alle lettere inviate da Lord Herbert Asquith, primo ministro
dell’epoca, all’amante Venetia Stanley, figlia di un ricco Lord e più giovane
di oltre trent’anni. Come precisa l’autore in una nota agli inizi, le lettere
succitate sono autentiche, come pure i telegrammi, gli articoli di giornale, i
documenti ufficiali, la corrispondenza fra Venetia Stanley e Edwin Montagu.
Invece le lettere inviate da Venetia Stanley a Lord Asquith sono frutto
d’invenzione, come immaginario è anche l’agente speciale Paul Deemer. La
corrispondenza fra il primo ministro e l’amante è giornaliera, e spesso si
tratta di più lettere, missive in cui il capo dell’esecutivo il più delle
volte cerca uno sfogo e un conforto ai suoi problemi di governo, svelando però
eventi e decisioni segretissime, che per fortuna non finiscono nelle mani di
una eventuale spia. Tuttavia, inevitabilmente, in tutto quel comunicare con
Venetia può accadere un intoppo, come quello del ritrovamento da parte di
alcuni cittadini di telegrammi riservati, mostrati all’amante durante i giri
in auto del venerdì e poi gettati dal finestrino. E’ così che il nascente
servizio segreto inglese si allarma e decide di controllare la posta di Lord
Asquith, affidandone l’incarico all’agente Paul Deemer. Il romanzo, che è
prevalentemente una storia d’amore, tende ad assumere anche la caratteristica
della spy story e poco importa che le notizie riservate non finiscano nelle
mani delle spie tedesche (la Gran Bretagna nel frattempo è entrata in guerra
con la Germania), perché, a parte la grave irregolarità di comportamento del
primo ministro, resta il rischio più che fondato che possano finire nelle mani
nemiche. Quindi, benché non siamo in presenza del classico romanzo di
spionaggio, la suspense non manca, e comunque l’opera si fa apprezzare
soprattutto per questa tormentata vicenda amorosa, che Venetia a un certo
punto decise opportunamente di troncare, scegliendo la compagnia di uno
spasimante che da tempo era in speranzosa attesa.
Precipizio è un libro
particolare, più affine a Monaco che a L’ufficiale e la spia,
entrambi dello stesso autore, e si muove nel difficile e infido mondo della
politica, ben descritto e in cui si agitano personaggi veri come Churchill.
In alcuni momenti il ritmo rallenta, in altri
si velocizza, ma avviene sempre per libera scelta dell’autore, scelta che ho
trovato più che giustificata. L’ambiente anglosassone di inizi secolo e le
atmosfere sono rese con la consueta abilità e contribuiscono non poco alla
piacevolezza di un romanzo che, senza essere il migliore di Harris, rientra
tuttavia fra i suoi più riusciti.
Robert Harris,
laureato alla Cambridge University, è stato giornalista alla BBC, e uno dei
più noti commentatori dell'"Observer" e del "Sunday Times".
È diventato famoso in tutto il mondo nel
1992 con Fatherland,
il cui successo lo ha inserito a pieno titolo nel ristretto gruppo di autori
che hanno ridefinito e ampliato i confini del thriller. Successo confermato
da Enigma (1996), Archangel (1998), Pompei (2003), Imperium (2006), Il
ghostwriter (2007),
da cui è stato tratto un film diretto da Roman Polanski, Conspirata (2010), L'indice
della paura (2011), L'ufficiale
e la spia (2014), Conclave (2016), Monaco (2018), Il
sonno del mattino (2019).
Prima di dedicarsi interamente alla narrativa ha scritto numerosi saggi, fra
cui una celebre inchiesta sui falsi diari del Führer, I
diari di Hitler (2002).
Tutte le sue opere sono edite in Italia da Mondadori.
Renzo Montagnoli
5 Maggio

Isabella d’Este
di Giannetto Bongiovanni
Editoriale Sometti
Storia
Pagg. 336
ISBN
978-88-7495-942-6
Prezzo Euro 18,00
Tanto di cappello
Isabella d’Este
(Ferrara, 17 maggio 1474 – Mantova, 13 febbraio 1539).
Inizio con
le classiche date di nascita e di morte proprio per porre in risalto il
periodo storico, in primis caratterizzato dalle grandi esplorazioni
geografiche (la scoperta dell’America è del 1492), e poi dal conflitto
pressoché permanente fra Francia e Spagna che si svolse soprattutto in Italia.
Ecco, Isabella d’Este è uno dei personaggi, se non il personaggio di maggior
rilievo di quest’epoca, una dama, Madama la Marchesa, che non solo sarà poi
ricordata per la sua elevata cultura e la passione per le arti, ma anche
perché dovette misurarsi con gli eventi di anni turbolenti, caratterizzati da
tradimenti nelle alleanze, da voltafaccia, da continui attriti che fecero sì
che non ci fu mai un periodo di effettiva pace. E lei, sposa di Francesco II
Gonzaga, bruttino e senz’altro meno colto, più dedito alle arti della guerra
che all’esercizio della politica, supplì alle carenze del coniuge,
destreggiandosi abilmente, a tutela sia della signoria di Mantova acquisita
per matrimonio, sia di quelle con i cui reggenti era imparentata, e cioè
Ferrara, Urbino e Milano. Era difficile rimanere a galla per un uomo scaltro e
possiamo immaginare quanto quasi fosse impossibile per una donna, eppure lei
vi riuscì, senza rinunciare peraltro alla sua passione per il bello, per le
arti, di cui fu senz’altro un faro per tutta l’Europa. Se pensiamo al
significato del termine protagonista, ecco lei fu appunto la grande
protagonista, capace di trattare da pari a pari con re, imperatori e
pontefici, senza mai venir meno alla sua femminilità che la rendeva bella più
di quanto non fosse. A questo punto credo che sorga la curiosità di conoscerla
e a ciò ha provveduto con un’opera di grande bellezza il mantovano Giannetto
Bongiovanni, fornendo un’immagine che scaturisce vivida dalle pagine, che
scorrono con grande piacere, ricche di notizie esposte non in modo pedante, ma
molto avvincente, quasi che, anziché di un saggio storico, si trattasse di un
romanzo. Viene naturale accostare l’autore a una grande narratrice che tanto
ha scritto dei Gonzaga e mi riferisco a Maria Bellonci; in effetti i due non
hanno poco in comune, caratterizzati dall’entusiasmo con cui parlano dei loro
personaggi, capaci di dare una visione di una dinastia, quella dei Gonzaga,
che ha costituito per un non breve lasso di tempo un preciso riferimento a
livello europeo. E per quanto Isabella di nascita non fosse una Gonzaga, ma
una della casa d’Este, finì con il diventare dei Gonzaga la maggiore e
migliore esponente. Fu lei ad arricchire di quadri e di sculture la residenza
nobiliare e fu sempre lei che arrivò a dettare la moda, di cui si teneva conto
perfino alla corte di Parigi. E poi ancora lei, moglie devota di un marito che
la tradiva ripetutamente, spesso con baldracche di infimo ordine, fu il suo
più valido consigliere, capace di condurlo nella difficile tenzone dei giochi
di potere, in cui lui, esperto uomo d’armi, di certo non eccelleva.
Giannetto
Bongiovanni è stato in grado di darci un ritratto esauriente di questa grande
donna, dalla sua venuta a Mantova fino alla sua morte, con meticolosità, ma
senza risultare greve, insomma vien da dire – e non è esagerato – “tanto di
cappello”.
Giannetto
Bongiovanni (Dosolo, 8
novembre 1890 – Brescello, 30 novembre 1964) è stato
un giornalista e scrittore italiano.
Ha scritto, fra l’altro:
-
Consigli a Madlén,
Milano, Sonzogno, 1925
-
Cicogne minareti fucilate,
Milano, C. Vanelli, 1927
-
Baldessar Castiglione,
Milano, Alpes, 1929
-
I Gonzaga,
Milano, Athena, 1930
-
La Compagnia del Trivelin,
Milano, Sonzogno, 1931
Con Fogazzaro in Valsolda,
Vicenza, E. Jacchia, 1935
-
Isabella d'Este, marchesa di Mantova,
Milano, Fratelli Treves, 1939
-
Le quattro profezie,
Milano, tip. Corriere della Sera, 1939, collana "Il romanzo.mensile", n. 4
-
Al Belvedere si balla,
Milano, tip. Corriere della Sera, 1939, collana "Il romanzo mensile", n. 10
-
Il ritratto dell'altra,
Milano, tip. Corriere della Sera, 1941, collana “Il romanzo mensile". n...
-
I ranocchi di giada,
Roma, "Tribuna illustrata”, 1941
-
Delitto in biblioteca,
Milano, Edital, 1941
-
Dal carteggio inedito Verdi-Vigna,
Roma, edizioni Il giornale d'Italia, 1941
-
Senorita passione,
Milano, tip. Corriere della Sera, 1942, collana "Il romanzo mensile", n. 2
-
Il tesoro dei carraresi,
Milano, Editoriale italiana, 1942
-
Il cavaliere errante,
Milano, tip. Corriere della Sera, 1943, collana "Il romanzo.mensile", n. 4
-
Sei gocce rosse Milano,
tip. Corriere della Sera, 1943, “Il romanzo mensile", n. 11
-
Messaggio segreto,
Milano, edizioni Alpe, 1944
-
Misteri al Palazzone,
Milano, edizioni Alpe, 1945
-
Quattro occhi azzurri,
Milano, Valsecchi, 1945
-
Destino dei Gonzaga,
Mantova, edizioni CITEM, 1954
-
L'uomo della giostra,
Mantova, edizioni CITEM, 1954
-
Sulle orme di Francesco Petrarca,
Milano, Gastaldi, 1955
Renzo Montagnoli
28 Aprile

Se l’acqua ride
di Paolo Malaguti
Edizioni Einaudi
Narrativa
Pagg. 200
ISBN
9788806244088
Prezzo Euro 18,50
Un gioiello
Se l’acqua ride è un romanzo di
formazione che segue l’evoluzione di un personaggio di una simpatia che ha
dell’incredibile, oltre a narrarci di un’epoca non da tanto trascorsa, ma che
sembra sbocciare sotto gli occhi di chi legge. Indubbiamente Gambeto, il
protagonista, membro di una famiglia di barcaroli, è descritto con una grazia
e una sagacia invidiabile; simpatico per le ingenuità proprie dell’età,
esilarante nelle sue scoperte sul sesso, è una di quelle figure capaci da sole
di dare corpo e nerbo a uno scritto. Già agli inizi ci fa ricordare i nostri
anni di scuola (in questo caso le medie inferiori) quando al risveglio la
mattina si desidererebbe tanto restare a letto e invece si è costretti a
vestirsi e ad andare al proprio dovere di studente, in quella classe dove
impera il professore Oio, altro personaggio azzeccato. In verità tutti gli
interpreti di questa storia sono indovinati, dal padre che avverte
l’incertezza del lavoro di barcarolo alla madre, una donna semplice e timorata
di Dio, al fratellino Luciano, un po’ in ombra, ma è giusto che sia così
perché più giovane. Eccezionale è poi il nonno Caronte, che da una vita
conduce il suo burcio, cioè il barcone, che va a vela e non ha il motore e che
quando non c’è vento ha necessità per muoversi, se non a favore di corrente,
del cavalante che con il suo quadrupede traina l’imbarcazione, tutte
professioni che all’epoca in cui è ambientato il romanzo stanno già
scomparendo.
Eppure Gambeto che al termine della scuola
sarà anche lui un barcarolo è orgoglioso di quel lavoro, perché stare insieme
al nonno è un’esperienza esaltante. Quando seguiamo la navigazione nei fiumi e
nei canali seguiamo anche lo sviluppo del ragazzo, la sua crescita, la sua
maturazione, il suo risveglio della sessualità, i primi innamoramenti con le
gioie, le emozioni, ma anche le trepidazioni che provocano.
Gambeto si innamora a prima vista, come è
tipico di quell’età, e ovviamente non mancano le delusioni, tutte esperienza
come gli fa capire il nonno.
Inoltre per il ragazzo ogni ansa di fiume,
ogni paesino, ogni argine sono una scoperta, è un aprire gli occhi su un mondo
che prima non conosceva.
Così, mentre la Teresina, che è il nome del
vecchio burcio, scivola sull’acqua il ragazzo matura e senza accorgersi poco a
poco diventa uomo.
Grazie a uno stille snello, ma non certamente
povero, a una capacità descrittiva a tutta prova, Malaguti ha realizzato
un’opera che ha il tocco della grazia, capace di avvincere dalla prima
all’ultima pagina, di far talvolta ridere ed altre invece moderatamente
commuovere, in un equilibrio perfetto fra realtà e fantasia in cui i sogni di
un ragazzo che cresce si evolvono naturalmente.
E’ un percorso, quello di Gambeto, che in
altre circostanze e in altri modi abbiamo fatto tutti e questo ritrovare in
fondo un po’ di noi è uno dei motivi di pregio di un’opera che a mio parere è
un autentico gioiello.
Paolo Malaguti
è nato a Monselice (Padova) nel 1978. Attualmente vive ad Asolo e lavora come
docente di Lettere a Bassano del Grappa. Con Neri Pozza ha pubblicato La
reliquia di Costantinopoli (2015),
finalista al Premio Strega 2016. Tra le sue opere Nuovo
sillabario veneto (BEAT,
2016), Prima
dell'alba (Neri
Pozza, 2017), L'
ultimo carnevale (Solferino,
2019),
Se l’acqua ride
(Einaudi, 2020),
Il Moro della cima
(Einaudi, 2022),
Piero fa la Merica
(Einaudi, 2023),
Fumana
(Einaudi, 2024).
Renzo Montagnoli
16 Aprile

L’arciere del re
di Bernard
Cornwell
Longanesi
Editore
Narrativa
Pagg. 304
ISBN
9788830419377
Prezzo Euro
17,56
I
terribili archi inglesi
Bernard Cornwell
è un narratore britannico, noto per le serie di romanzi storici che ha
scritto. Della
Storia dei re
sassoni
ho già letto
L’ultimo re
e Il
cavaliere e il suo re,
entrambi molto piacevoli e avvincenti, in grado di far trascorrere
piacevolmente un po’ di tempo e caratterizzati dal fatto che l’aspetto
creativo è limitato all’indispensabile, presentando invece in modo convincente
eventi accaduti realmente, con i protagonisti quasi tutti effettivamente
esistiti. La serie è un po’ lunga, articolandosi su tredici romanzi, ed è per
questo che ho deciso di passare ad altro che fosse più breve, anche per
verificare se cambiando l’argomento avrei trovato lo stesso interesse.
L’arciere
del re
è il primo dei quattro romanzi che compongono la serie di
Alla ricerca
del Santo Graal,
serie che si svolge in un’epoca posteriore (corre il XIV secolo, anziché l’XI)
e dico subito che ho ritrovato i pregi di questo autore, capace sempre di
avvincere dalla prima all’ultima pagina, con una trama scorrevole, in cui i
colpi di scena sono quasi la norma, così che il lettore di certo non finisce
per annoiarsi. In verità un difetto che ho riscontrato e che anche in questo
romanzo è presente è di non provvedere a una attenta e profonda analisi
psicologica dei protagonisti, preferendo invece rimanere un po’ in superficie,
anche per privilegiare l’azione. E a proposito di questa nell’Arciere
del re
troviamo di tutto, dalla conquista sanguinosa della città di Caen, con
l’immancabile seguito di saccheggi e di stupri, alla battaglia di Crécy
descritta magistralmente, in una serie di pagine con la narrazione che diventa
progressivamente incalzante e che quasi rende partecipi dell’evento, con scene
che si potrebbero definire apocalittiche, fra cavalli e uomini morenti, con il
sangue che poco a poco inzuppa la collina, insomma una vera e propria mattanza
in cui come noto risultarono sconfitti i francesi di Filippo VI, vittime
soprattutto degli arcieri inglesi di Edoardo III. Queste ultime pagine, che
sembrano macchiarsi di rosso tanto è il sangue che scorre, da sole meritano la
lettura di un libro di questo autore che ancora una volta ho apprezzato.
Comunque, giusto che si sappia, in questa “prima puntata” si accenna solo al
Graal, visto che il protagonista principale, l’arciere Thomas, è impegnato a
rintracciare una preziosa reliquia, la lancia con cui San Giorgio trafisse il
drago, e sottratta alla chiesa inglese di Hookton. Non vado oltre, perché
correrei il rischio di svelare troppo e comunque sono più che convinto che chi
ama le storie di cappa e spada qui avrà pane per i suoi denti.
Bernard Cornwell (Londra,
23 febbraio 1944) dopo aver lavorato per anni alla BBC si è dedicato alla
narrativa e, oltre alla serie di romanzi avventurosi ottocenteschi incentrati
sul personaggio di Sharpe (I
fucilieri di Sharpe, La
sfida della tigre, Assalto
alla fortezza, L'eroe
di Trafalgar, Sharpe
all'attacco, Le
aquile di Sharpe e L'oro
di Sharpe),
pubblicati da Longanesi, ha scritto moderne avventure di mare (Scia
di fuoco e Figlia
della tempesta).
Ha trovato la più fortunata delle sue ispirazioni nelle saghe di avventure
medioevali.
Dopo la trilogia di L'arciere
del re (Longanesi,
2001), Il
cavaliere nero (Longanesi,
2003) e La
spada e il calice (Longanesi,
2004), ha dato vita a un'appassionante epopea ambientata tra l'Inghilterra e i
mari del Nord durante il primo medioevo: L'ultimo
re (2006), Un
cavaliere e il suo re (2007), I
re del Nord (2008), Il
filo della spada (2009), Il
signore della guerra (2010), La
morte del re (2012)
e Il
re senza dio (2014), La
congiura dei fratelli Shakespeare (2019), La
spada dei re (2021)
e La
conquista di Parigi (2023),
tutti pubblicati da Longanesi.
Alla saga di Excalibur appartengono Il
re d'inverno e Il
cuore di Derfel,
ripubblicati da Longanesi, presso cui sono usciti anche L'arciere
di Azincourt, L'ultima
fortezza, L'ultimo baluardo.
Renzo Montagnoli
9 Aprile

Aricordete
Ricordi di un tempo che fu
di Sergio Menghi
Edito in proprio
Narrativa
Pagg. 98
ISBN
979-8309621248
Prezzo Euro 9,92*
*Acquistabile su Amazon
Un mondo che non c’è più
Arrivati a una certa età si vive molto di ricordi,
si cercano nella memoria episodi e stili di vita del passato, una funzione per
rammentare che “siamo stati”. Più raramente accade che si vogliano rendere
partecipi di queste rimembranze anche i terzi, scelta che è dettata dalla
speranza di lasciare qualcosa di sé. Non è sfuggito a questa decisione anche
Sergio Menghi, che è stato mio collega di lavoro e che pertanto ritengo di
conoscere come uomo prima ancora che come scrittore. Ebbene, nonostante che in
attività lavorativa abbia rivestito ruoli di consistente livello non ha perso
quelle caratteristiche di semplicità e di bonomia che gli ho sempre
riconosciuto. In questo senso, nato in un ambiente agreste non ha perso le sue
radici, fatte di un mondo molto diverso da quello in cui la maggior parte di
noi vive, dove il mutare delle stagioni ha effetti sulle persone, sui lavori
che vengono svolti, perfino sugli umori, e in cui fino a non molto tempo fa
esistevano tradizioni basate sul rapporto fra l’uomo e la natura che nei più
sono sconosciute.
E’ di questo che Sergio Menghi parla con i
racconti della raccolta Aricordete, che in dialetto marchigiano
significa “Ricordati”. Considerato che si tratta di narrazioni relative a un
mondo che non c’è più, a una civiltà contadina che è scomparsa e relativi ad
anni in cui ero già presente non mi sino lasciato sfuggire l’occasione di
leggere anche per ricordare io stesso.
A parte la gradevolezza della lettura, notevole è
stata la riscoperta di una realtà che i giovani d’oggi non possono nemmeno
immaginare e in cui la famiglia, la famosa famiglia patriarcale, era il
fondamento di una società rurale che nulla sapeva, né avrebbe potuto sapere,
di personal computer, di smartphone e di altre moderne diavolerie. Quindi,
all’epoca, i rapporti personali erano diretti e le amicizie che sorgevano
erano reali e non virtuali; vigevano credenze del tutto particolari, nel senso
che si pensava, o meglio ancora si temeva, che nelle tenebre si nascondessero
spiriti e streghe e ai misteri si aggiungevano altri misteri, in funzione
delle limitate conoscenze, con la religiosità di frequente contaminata da
superstizioni.
La vita del contadino era scandita da eventi
legati alla sua attività, dall’aratura, dalla trebbiatura, dalla vendemmia,
secondo riti immutabili da secoli e con ogni decisione pesantemente
influenzata dalle necessità agricole, che spesso impedivano ai discendenti
maschi e femmine di proseguire negli studi, anche qualora si fossero
dimostrati meritevoli. E fu per una strana circostanza che l’autore, destinato
anche a lui a campare sulla terra, poté accedere all’università e laurearsi.
E’ rimasta in Sergio Menghi, tuttavia, quella naturale attitudine al lavoro
agricolo, tanto che adesso, anziano e in pensione, si dedica con grande
piacere a curare un orto.
I racconti sono esclusivamente frutti di
esperienze dell’autore e così, leggendo, c’è chi si stupirà per un certo modo
di vivere – si tratta in questo caso di individui di epoca più recente -,
mentre altri, pur con un vissuto diverso, ma presenti in quegli anni, non
potranno che riflettere sul loro passato anche con un personale “Amarcord”.
Il mio consiglio - e l’amicizia con l’autore non
c’entra - è di leggere questo libro, parla di un mondo che non c’è più e
proprio per questo è di grande interesse.
Sergio Menghi,
nativo di Camerino, attualmente vive a Roma. Laureato in economia e commercio
ha lavorato alle dipendenze della Banca Nazionale del Lavoro. In pensione da
diversi anni un giorno gli è nata la passione di scrivere poesie e racconti. Aricordete è
la sua prima pubblicazione.
Renzo Montagnoli
2 Aprile

Un cavaliere e il suo re
di Bernard Cornwell
Longanesi Editore
Narrativa
Pagg. 428
ISBN
9788830423831
Prezzo Euro 18,60
Sempre avvincente
Se L’ultimo re, primo romanzo della serie,
si concludeva con la battaglia che vedeva sconfitti i danesi, con l’uccisione
del loro capo, il feroce Ubba, il secondo episodio si apre con la definitiva
decisione dell’intrepido Uhtred di lasciare definitivamente i danesi e di
mettere la sua spada al servizio del pio re sassone Alfredo. Da questa
decisione, prima avventata, poi frutto di un progressivo e sempre più radicato
convincimento, si dipana tutta una serie di avventure di carattere bellico
culminanti in una battaglia vittoriosa di re Alfredo sugli invasori danesi,
esito a cui ha contribuito in modo determinante con la sua tattica e con la
sua abilità di uomo d’arme proprio Uhtred, consapevole ormai che se vuole
riprendere allo zio usurpatore il possesso di Bebbanburg deve per forza
restare uno delle sua gente, e non certo un nemico della stessa, quale era
quando stava con i danesi, fra i quali tuttavia resta ancora qualche suo
amico.
E’ innegabile che le vicende di questo personaggio
di invenzione si basino tuttavia su fatti storici effettivamente avvenuti e
che molti dei protagonisti sono realmente esistiti; tale circostanza offre
spessore alla narrazione e permette di comprendere il lungo percorso
attraverso il quale c’è stata l’unificazione di territorio e di popolazioni
nell’Inghilterra.
L’autore ha indubbiamente uno stile snello e
accattivante, capace di rendere in modo apprezzabile le atmosfere di un’epoca
particolare, riuscendo anche a ricreare visivamente il teatro in cui si
svolgono gli eventi, un po’ meno incisivo forse quando si tratta descrivere lo
scontro fra due eserciti, in cui traspare il desiderio di rendere partecipe il
lettore, tuttavia senza riuscirci completamente in più di una occasione. In
ogni caso la narrazione riesce ampiamente ad avvincere e induce chi legge a
rincorrere la trama, desideroso di scoprire gli eventi successivi, soprattutto
quando si tratta dell’esito di una battaglia.
Bernard Cornwell (Londra,
23 febbraio 1944) dopo aver lavorato per anni alla BBC si è dedicato alla
narrativa e, oltre alla serie di romanzi avventurosi ottocenteschi incentrati
sul personaggio di Sharpe (I
fucilieri di Sharpe, La
sfida della tigre, Assalto
alla fortezza, L'eroe
di Trafalgar, Sharpe
all'attacco, Le
aquile di Sharpe e L'oro
di Sharpe),
pubblicati da Longanesi, ha scritto moderne avventure di mare (Scia
di fuoco e Figlia
della tempesta).
Ha trovato la più fortunata delle sue ispirazioni nelle saghe di avventure
medioevali.
Dopo la trilogia di L'arciere
del re (Longanesi,
2001), Il
cavaliere nero (Longanesi,
2003) e La
spada e il calice (Longanesi,
2004), ha dato vita a un'appassionante epopea ambientata tra l'Inghilterra e i
mari del Nord durante il primo medioevo: L'ultimo
re (2006), Un
cavaliere e il suo re (2007), I
re del Nord (2008), Il
filo della spada (2009), Il
signore della guerra (2010), La
morte del re (2012)
e Il
re senza dio (2014), La
congiura dei fratelli Shakespeare (2019), La
spada dei re (2021)
e La
conquista di Parigi (2023),
tutti pubblicati da Longanesi.
Alla saga di Excalibur appartengono Il
re d'inverno e Il
cuore di Derfel,
ripubblicati da Longanesi, presso cui sono usciti anche L'arciere
di Azincourt, L'ultima
fortezza, L'ultimo baluardo.
Renzo Montagnoli
26 Marzo

Matteotti e Mussolini.
Vite parallele. Dal socialismo
al delitto politico
di Mimmo Franzinelli
Arnoldo Mondadori Editore S.p.a
Storia
Pagg. 480
ISBN
9788804771395
Prezzo Euro 25,00
Il dittatore e il democratico
Matteotti e Mussolini sono stati due emblemi di
una concezione diversa del potere, il primo convinto che il potere risieda
nella volontà popolare espressa liberamente e nella democrazia, il secondo
avviato a spron battuto verso logiche di dittatura, contrario a ogni confronto
di opinioni e di idee diverse.
La differenza di vedute risiede evidentemente nel
concetto innato in Matteotti che solo con un contrasto politico paritario il
paese Italia potesse vivere le difficili fasi del dopoguerra; per Mussolini
non era invece questione di dare un’impronta allo stato affinché l’Italia
riuscisse ad avere prospettive economiche e sociali, ma nel suo ego smisurato
non poteva che concepire l’identificazione fra la sua persona e l’intera
nazione. Si trattava di posizioni sicuramente inconciliabili e in un’aula
parlamentare che vedeva primeggiare il movimento fascista senza lasciare spazi
all’opposizione Matteotti rappresentava l’unica voce, forte, di dissenso. A
fronte di un programma che vedeva solo l’ascesa al potere assoluto di
Mussolini, Matteotti contrapponeva un deciso progetto riformista ed era anche
l’unica effettiva voce di una politica di opposizione, capace come un pugile
di ribattere gli assalti degli avversari. Per il futuro duce divenne in breve
una spina nel fianco, che tendeva a condizionarlo sempre di più e che pertanto
doveva essere messa a tacere. Forse non intendeva proprio sopprimerlo , ma
questo non potremo mai saperlo, forse voleva che le sue minacce fossero più
concrete di un avvertimento, sta di fatto però che Matteotti finì con il
soccombere non tanto politicamente, ma fisicamente.
Franzinelli nel suo bel saggio tende a togliere
quell’alone di mito imputabile soprattutto alla fine violenta del politico
polesano, restituendo invece la figura di un uomo di ampi meriti non
strettamente legati alla sua opposizione al fascismo, che pure è già molto, ma
alla sua capacità di avere una visione dell’umanità che si potrebbe definire
molto avveniristica, un uomo che intendeva dare una veste di dignità ai
lavoratori senza distinzioni geografiche, insomma un’idea di universalità.
Il libro parla dei rapporti fra Mussolini e
Matteotti fin da quando il primo era un membro del partito socialista, il che
lascia intendere che entrambi si conoscessero assai bene; proprio tale
circostanza giustifica la preoccupazione del secondo per una vendetta del
primo dopo il suo discorso alla Camera dei Deputati del 30 maggio 1924 con cui
contestava i risultati elettorali del 6 aprile guastando così la festa del
primo ormai convinto di vedere trionfare il fascismo. Assai probabilmente
Mussolini la prese come la massima delle offese, ragion per cui Matteotti che,
nonostante fosse solo, combatteva strenuamente, doveva essere messo a tacere,
così che passarono pochi giorni e il 10 giugno scattò la vendetta.
Franzinelli va oltre la morte di Matteotti, parla
delle indagini, di tutte le fasi successive a un delitto di cui ancor oggi si
prova l’orrore, con una completezza di grande valore, non disgiunta da un
‘esposizione che privilegia la concretezza alla prolissità.
Da leggere, quindi.
Mimmo Franzinelli (Cedegolo,
1954) studioso del fascismo e dell´Italia repubblicana, componente del
comitato scientifico dell'Istituto Nazionale per la Storia del Movimento di
Liberazione "Ferruccio Pari", è autore di numerosi libri, fra cui: per Bollati
Boringhieri, I
tentacoli dell´Ovra (1999,
premio Viareggio 2000), Rock
& servizi segreti (2010)
e Autopsia
di un falso. I Diari di Mussolini e la manipolazione della storia (2011);
per Mondadori, L´amnistia
Togliatti (2006), Il
delitto Rosselli (2007), Beneduce.
Il finanziere di Mussolini,
con Marco Magnani (2009), Il
Piano Solo (2010), Il
prigioniero di Salò (2012), Tortura (2018);
per Rizzoli, La
sottile linea nera (2008).
Con Feltrinelli ha pubblicato: La
Provincia e l´Impero. Il giudizio americano sull´Italia di Berlusconi,
con Alessandro Giacone (2011), Delatori.
Spie e confidenti anonimi: l´arma segreta del regime fascista (UE
2012), Il
Giro d'Italia. Dai pionieri agli anni d'oro (Feltrinelli,
2013), - per gli Annali della Fondazione Feltrinelli - Il
riformismo alla prova. Il primo governo Moro nei documenti e nelle parole dei
protagonisti (ottobre 1963-agosto 1964),
con Alessandro Giacone (2013) e Fascismo
anno zero (Mondadori
2019), Croce e il fascismo (Laterza 2024), Mussolini racconta Mussolini
(Laterza 2024)..
Renzo Montagnoli
15 Marzo

Fumana
di Paolo Malaguti
Edizioni Einaudi
Narrativa
Pagg. 304
ISBN
9788806259778
Prezzo Euro 20,00
Una donna fiera di essere libera
Fumana è come viene chiamata la nebbia nelle zone
del Po prossimo alla sua foce. E lì certamente, soprattutto in autunno, anche
per l’abbondanza d’acqua spesso stagnante, la nebbia non manca mai, ma non è
questo fenomeno atmosferico il protagonista del romanzo, è solo un aspetto
della natura che smorza i colori, attenua i rumori, rende difficile vedere
all’intorno quando si cammina..
Fumana infatti è il nome di una femmina che,
partorita con difficoltà, rimane subito orfana, perché la mamma muore e il
padre fugge, non si sa dove, ma senza più ritornare. Le è rimasto un unico
parente, il nonno, chiamato Petrolio, e provvede lui ad allevarla, benché
inesperto; l’uomo conduce una vita povera, ma libera, andando a pescare nei
numerosi canali in cui si divide il grande fiume prima di affondare
nell’Adriatico e, per non lasciare sola la bimba, a cui verrà dato il nome di
Fumana in quanto attratta irresistibilmente dalla nebbia, la porta con sé sul
suo sandolo. Lei cresce così, pescando con la fiocina e conoscendo quel mondo
così selvaggio che la circonda. Vivere prendendo pesci sembrerebbe il suo
destino, ma non è così, perché lei è una predestinata, una strigossa e lì al
paese, Voltascirocco, ce n’è già un’altra, la Lena, che ha votato la sua vita
a curare con segni e con erbe gli altri, senza pretendere di essere pagata,
accettando al più qualche omaggio in natura. E Lena insegnerà il mestiere a
Fumana, vero e proprio punto di svolta del romanzo che pagina dopo pagina si
fa sempre più interessante. E’ così che Malaguti ci racconta la vita di una
donna libera e altruista dalla sua nascita nel 1882 fino alla sua fine, tanti
anni con ancor più tanti eventi, come nascite, morti, amori, guerre, sviluppo
industriale, piene del Po, perdita delle tradizioni. Per lo più, almeno per
quanto concerne i grandi fatti, sono cose che conosciamo già, ma che viste
dagli occhi di Fumana assumono evidenze diverse, raccontano di una storia
vista dal basso, dagli umili in un piccolo contesto quale è Voltascirocco,
perché al di là dell’attività di guaritrice della strigossa c’è un cuore che
palpita, c’è un desiderio di amore immenso di una donna che è fiera di essere
libera, che trova se stessa nella natura che la circonda, nelle nebbie da cui
sembrano giungere voci strane, voci di chi non c’è più. Forse è un sogno, ma
Fumana non è pazza, Fumana riesce ad arrivare a una trascendenza che a pochi è
riservata.
Ci sono pagine di grande bellezza in cui sembra di
udire il sospiro dell’acqua, i richiami degli uccelli, il gracidio delle rane,
il respiro del vento, ma soprattutto c’è lei, Fumana, un personaggio che
affascina, creato abilmente dall’autore.
Il romanzo è veramente bello, per non dire
stupendo, e probabilmente il migliore di quelli che ho letto scritti da
Malaguti.
Paolo Malaguti
è nato a Monselice (Padova) nel 1978.
Attualmente vive ad Asolo e lavora come docente di Lettere a Bassano del
Grappa. Con Neri Pozza ha pubblicato La
reliquia di Costantinopoli (2015),
finalista al Premio Strega 2016. Tra le sue opere Nuovo
sillabario veneto (BEAT,
2016), Prima
dell'alba (Neri
Pozza, 2017), L'
ultimo carnevale (Solferino,
2019),
Se l’acqua ride
(Einaudi, 2020),
Il Moro della cima
(Einaudi, 2022),
Piero fa la Merica
(Einaudi, 2023),
Fumana
(Einaudi, 2024).
Renzo Montagnoli
7 Marzo

Come un’arancia
dolce
di Vanna Corvese
Fara Editore
Poesia
Pagg. 56
ISBN 978-88-9293-153-4
Prezzo Euro 12,00
Il dolore
La poesia può servire
a cementare il ricordo, cristallizza le emozioni, è sospiro e grido al tempo
stesso, è la consolazione per una perdita e
Come un’arancia dolce
di Vanna Corvese è la memoria pacata, a fronte di un dolore ormai omologato,
dell’ultimo scorcio di vita di una persona con cui si è trascorsa gran parte
della propria esistenza. Non è solo l’assistenza a un malato terminale, è
l’ultimo disperato slancio d’amore:
Una luce fioca /
illumina il
tuo corpo supino / coperto da un lenzuolo colorato. / La luce è accesa sul
comodino, / come vuoi tu. / Ora dormi tranquillo / e respiri piano, / ma
quando oscuri fantasmi / tornano a inquietarti / ti agiti sul letto / e il
terrore / devasta i tuoi lineamenti.
Si vorrebbe non aver mai avuto questa esperienza
così devastante, però purtroppo capita, perché non viviamo in eterno e io
stesso ho sperimentato questo percorso angosciante quando mia moglie si è
ammalata per poi morire.
Comprendo quindi i sentimenti di Vanna Corvese e
giungo a dire che mi ritrovo nei suoi versi, riuscendo lei a esprimere in
poesia quello che è in me e che per pudore, forse, non ho mai esternato.
In questi giorni, in queste ore di attesa del
passo finale si ripercorrono inevitabili episodi della vita insieme, perché
visto che non c’è un futuro ci si intende inconsciamente consolare con la
memoria del passato (Mi
trafigge la nostalgia /
mentre il
ricordo mi porta / l’onda sonora della fisarmonica, / la canzone che suonavi /
per il bambino con la febbre alta / addormentato nella roulotte / come in una
tiepida tana. / Un nubifragio nel cuore della notte / spense le luci, /ma le
note allegre / tra gli alberi scossi dal vento / donarono un auspicio di
sereno / ai compagni di viaggio. /...)
Sono ben evidenziate le sensazioni, le emozioni,
le speranze che si susseguono in questa veglia, in cui ci si può anche
illudere che tutto non sia reale, ma sia solo il frutto di un brutto sogno.
Però tutto finisce, la vita di ogni giorno scompare di fronte a un’attesa
ormai senza speranza e se la morte è pronta a ghermire l’infermo, la persona
amata che l’assiste ha la morte nel cuore (Col
male che ti divora /
abbiamo
perduto / il dolce rito amoroso, / le passeggiate in città, / la spesa
quotidiana insieme / tu col carrello / io coi miei pacchetti, / la sosta al
bar per un caffè, / l’incontro domenicale con gli amici, il dialogo canoro con
gli uccelli. / …).
E infine il passo finale, lontano dai propri
cari, a loro nascosto quasi che la morte calasse un sipario sulla vita di un
uomo
(Mi
hanno mandata via. / L’attesa è interminabile. / Sei solo. / Infine la
sentenza: / codice rosso / il cuore… / Mio figlio / accorre al mio richiamo /
con la cugina. / Nessuno parla: / immobili, aspettiamo. / Non ti abbiamo più
visto.).
Questa silloge di Vanna Corvese è indubbiamente
una poesia del dolore, della sofferenza di chi va e di quella di chi lo
assiste e poi resta, e dice delle gran verità, ripete ciò che altri hanno già
provato se volevano veramente bene, riporta situazioni, emozioni che scavano
un solco nell’animo, che magari si attenuano con il trascorrere del tempo
dall’evento ferale, ma che poi ogni tanto riappaiono, senza che siano più
accompagnate dal dolore, quel dolore che i giorni, i mesi, gli anni trascorsi
smussano, confermando a chi resta che chi è partito non tornerà più. E’ allora
che scende un velo di tristezza che permette, a chi sa poetare, di mettere in
versi quel lontano dolore.
Come un’arancia dolce mi è piaciuto
molto e ne caldeggio quindi la lettura.
«Mi presento con le rughe e i capelli
bianchi. Sono nata alcuni anni prima della dichiarazione di guerra del Duce!
La mia infanzia è stata segnata dalla paura e dalle privazioni, ma anche
dall’affetto di una famiglia piena di talenti, dallo spirito critico dei nonni
e dall’ironia sapiente delle storie che mi narravano. L’esperienza di quegli
anni ha trovato spazio in un romanzo breve – Quando il giorno verrà dei
millinfanti – ma prima di questo racconto ho scritto e pubblicato sempre
poesie, con poche incursioni nel mondo delle favole. All’alba del Terzo
Millennio, la raccolta Incanto Disincanto mi procurò la gioia insperata di un
primo premio al concorso della casa editrice Marotta & Cafiero di Napoli. Sono
convinta che la poesia aiuti a rendere migliore il nostro mondo. Condividono
con me la speranza di un futuro migliore gli amici “diversamente giovani” del
mio laboratorio di lettura e scrittura, ciascuno con la sua voce libera e
inconfondibile.»(Vanna
Corvese)
Renzo Montagnoli
1 Marzo

La montagna nel lago
di Jacopo De
Michelis
Giunti Editore
Narrativa
Pagg. 576
ISBN
9788809932760
Prezzo Euro
19,00
Un
giallo lacustre
Non so se
Montisola sia l’isola lacustre più grande d’Europa, ma quello di cui sono
certo è che è un luogo molto bello, che mi è piaciuto immediatamente ancora
prima di visitarlo, transitando in auto sulla strada litoranea che attraversa
Sulzano, il paese sulla terraferma da cui parte il traghetto che ho poi preso
per approdarvi. La si vede bene da lontano, nella parte superiore del lago
d’Iseo, più imponente che ridente, un sasso scagliato da un ciclope, o meglio
ancora una montagna che emerge dalle acque del lago. E
La montagna
nel lago
è il titolo del
bel romanzo giallo che ha scritto Jacopo De Michelis, 576 pagine di un ritmo
quasi sempre serrato, che avvincono il lettore dalla prima all’ultima. Se la
trama è più che masi convincente, non si possono che apprezzare le descrizioni
del paesaggio e dell’atmosfera di questo posto, che sembra completamente
isolato dal mondo. La vicenda inizia con il ritrovamento di un uomo non più
giovane che era scomparso, ferito gravemente per le torture subite, ancora in
vita, ma che morirà nel giro di pochi minuti, senza fornire indicazioni su chi
gli ha fatto così del male. La vittima è Emilio Ercoli, il riccone del paese
che si è fatto una fortuna non si sa come, più temuto che stimato, ma che
sembrerebbe non avere nemici, tranne Nevio Rota, un pescatore del luogo e
ovviamente i sospetti si addensano su di lui. E’ per difenderlo che ritorna il
figlio Pietro da Milano dove è rimasto dodici anni cercando di trovare il
successo come giornalista di un grande quotidiano e invece conducendo una vita
stentata e di ben poche soddisfazioni, poiché l’unico lavoro che ha trovato è
stato quello di scrivere come freelance articoli per un periodico di cronaca
nera. Poi la trama, ben strutturata, si sviluppa secondo un criterio logico
senz’altro apprezzabile, alla vana ricerca di un altro sospetto onde sviare le
indagini su Nevio Rota. E’ una figura interessante Pietro, in un certo senso
un fallito, pieno di debiti e che sniffa anche coca, un uomo deluso, ma che
tuttavia troverà nell’indagine che svolge congiuntamente con un amico agente
della polizia municipale l’occasione per il suo riscatto. Mano a mano che si
procede emergono personaggi sospetti che si rivelano poi piste sbagliate, ma
soprattutto si innesta un aspetto storico legato alla seconda guerra mondiale
quando a Montisola, dopo l’8 settembre 1943, era giunto Junio Valerio
Borghese, il famigerato comandante della Decima Mas, eleggendo la località a
suo feudo personale.
Alla fine i colpi
di scena si susseguono e si arriva alla verità, talmente logica che ci si
chiede come mai non la si sia vista prima, ma anche quando si scoprirà
l’autore del delitto c’è spazio per un’ulteriore sorpresa, che ovviamente non
svelo, ma che posso definire un colpo di genio dell’autore.
Non aggiungo
altro, se non la raccomandazione di leggere questo romanzo, perché merita
ampiamente.
Jacopo De Michelis
è nato a Milano nel 1968 e sempre a Milano si
è laureato in filosofia teoretica.
È stato traduttore dal francese (tra gli
altri di Jules Verne e George Simenon), curatore di collane e antologie e
consulente editoriale.
Oggi vive a Venezia, dove è responsabile
della narrativa di Marsilio Editori. Insegna presso la NABA (Nuova Accademia
di Belle Arti) di Milano, dove è titolare della cattedra di narratologia.
Da sempre interessato alle nuove tecnologie
e al loro rapporto con l’editoria e la letteratura, è stato tra i fondatori
nel 1994 del primo sito letterario italiano, www.fabula.it, e il primo in
Italia a realizzare un booktrailer come mezzo di promozione e comunicazione
editoriale.
Ha esordito nella narrativa con il romanzo La
stazione (Giunti,
2022). Tra gli altri titoli, La
montagna nel lago (Giunti,
2024).
Renzo Montagnoli
23 Febbraio

La donna più vecchia del mondo
di Daniela Raimondi
peQuod Edizioni
Poesia
Pagg. 92
ISBN
9788860683908
Prezzo Euro 15,00
La sofferenza di vivere
E con questa sono tre le sillogi scritte da
Daniela Raimondi che ho avuto la possibilità e il piacere di leggere. In
questa poetessa è sorprendente la capacità di non ripetersi, di trovare nuove
tematiche realizzate in modi diversi, con uno stile che è riconoscibile solo
dopo un’approfondita lettura e rilettura. In Avernus c’era il prima e
il dopo la scomparsa di una persona (in questo caso il padre della poetessa),
in I fuochi di Manikarnica si parla di viaggi, mentre in questa nuova
opera si racconta soprattutto del dolore di alcune donne, per lo più famose,
ma non mancano anche quelle che costituiranno solo un ricordo per gli affetti
più vicini. Così si va da Koku Istambulova, appunto la donna più vecchia del
mondo (Non conoscevo il mare / solo
le verdi onde del grano, / il tormento dei fiumi a novembre. / Sono nata di
notte sui monti, / tra il canto dei lupi e le grida dei cinghiali./ Sono
cresciuta in un paese di poveri, / dove il pane era fatto di fatica e sudore /
e la morte era la rosa più bella. /…) alla sfortunata pittrice messicana
Frida Kahlo (Presi l’autobus di corsa, / senza sapere che quel piccolo
salto per salire / era già segnato dal destino. / Il tram ci venne
incontro / come un toro furioso. / Mi infilzò, / sollevandomi verso il cielo
come un trofeo./ Il sacchetto di polvere d’oro / del gringo che mi sedeva
accanto / esplose nello scontro, /riempì il cielo con una pioggia leggera e
lucente../…). Poi ci sono altri personaggi femminili, tutti segnati dal
dolore, da donne per niente famose, come l’anonima aspirante suicida, e altre
che hanno avuto non dico la fortuna, perché negli specifici casi sarebbe quasi
blasfemo parlare di fortuna, bensì l’opportunità di essere ricordate per
diversi motivi, come la progenitrice Eva (Dio mi cacciò dal Giardino / e
pose ad oriente dell’Eden ( sette cherubini dalle spade folgoranti. / …)
o la scrittrice Silvia Plath, la demente Isolina (Isolina ride per
strada, / muove le mani nell’aria / e saluta lo stormo di passeri in cielo. /
Poi si siede nel metro di luce / che viene dal mare / e mangia un gelato, si
lecca le dita. / Qualcuno la chiama ‘la scema’. / Lei rimane nello scarto di
terra / fra la spiaggia e la vite./ Aspetta il pirata che sbuchi dall’orto, /
la nave che vola sui prati. / …);
Non
potevano inoltre non esserci la scrittrice Marguerite Duras e l’attrice
Marylin Monroe.
Quindi,
personaggi noti e sconosciuti accomunati, più che dal dolore, dal senso del
dolore, da quella marcatura iniziale che li accompagnerà in tutta la vita, e
si tratta sempre di donne, la parte più succube della nostra umanità, per la
quale vivere la sofferenza è pur sempre un vivere.
Verso dopo verso
si viene formando un requiem che avverte chiaramente il nostro animo, una
musica solenne e al tempo stesso semplice per celebrare sofferenze che ci
vengono piano piano svelate, vite perdute nel solco di un destino che grida
forte il dolore di vivere.
Da leggere.
Daniela Raimondi è
nata in provincia di Mantova e ha trascorso la maggior parte della sua vita in
Inghilterra. Ora si divide tra Londra e la Sardegna.
Ha
scritto due romanzi, La
casa sull’argine (2020)
e Il
primo sole dell’estate (2023),
pubblicati da Nord, ambedue successi di pubblico e critica, tradotti in più di
dieci lingue. Alla scrittura in prosa ha affiancato da sempre una personale
ricerca nella poesia. Una raccolta antologica di sue poesie in edizione
bilingue, Selected
poems,
è stata pubblicata da Edizioni Gradiva, New York nel 2013. Nel 2012 è stata
selezionata per rappresentare l’Italia all’International Poetic Tournament in
Slovenia, dove ha ottenuto il Premio del Pubblico.
Renzo Montagnoli
14 Febbraio

Oliva Denaro
di Viola Ardone
Edizioni Einaudi
Narrativa
Pagg. 312
ISBN
9788806247973
Prezzo Euro 18,00
Il valore della libertà
Corrono gli anni ‘60, l’Italia, uscita distrutta
della guerra, è stata ricostruita con i sacrifici e l’operosità dei suoi
abitanti, comincia il famoso boom economico. Di pari passo con le migliorate
condizioni di vita subentra una nuova mentalità, in cui le donne possono
aspirare a essere considerate alla stregua degli uomini, ma non è così
dappertutto, perché in molte zone del Sud vige ancora una concezione
maschilista, in particolare quella che consente il matrimonio riparatore, del
resto previsto dall’allora vigente art. 544 del Codice penale, che estingue la
pena della violenza sessuale qualora il soggetto incriminato porti all’altare
la vittima. La mentalità di subordinazione delle femmine è tale che è una
pratica assai diffusa, eppure c’è chi si ribella, come nel caso di Franca
Viola e Viola Ardone prende spunto da questa presa di coscienza per scrivere
un romanzo in cui la protagonista afferma la sua personalità. E’ quasi
superfluo che dica che lei finirà per apparire la svergognata e tale è
considerata soprattutto dalla madre (usa ripetere:
la
femmina è una brocca: chi la rompe se la piglia)
che è una conservatrice estrema, mentre la ragazza troverà un insperato
appoggio proprio in un uomo, nel padre, che non è il padre padrone, bensì
colui che desidera solo la felicità della figlia. Sarà lui a sostenerla nella
decisione di opporsi al matrimonio riparatore, un aiuto certamente non
scontato, ma anche logico, perché normalmente nelle figlie spesso si
rispecchiano le caratteristiche del genitore.
Oliva Denaro è un romanzo crudo,
un’opera che vuole dare un’impronta ben precisa affinché, al di là del caso
specifico, alle donne sia riconosciuta la loro personalità e Viola Ardone lo
fa con una scrittura asciutta, senza tanti fronzoli e non potrebbe essere
altrimenti, perché è vero che si tratta di un parto di fantasia, ma ci sono
state tante, troppe donne che hanno subito un torto grave come Oliva Denaro e
non hanno saputo, né potuto ribellarsi.
La libertà è un bene inalienabile che quando manca
si deve conquistare, costi quel che costi, e che quando c’è deve essere difeso
fino all’estremo.
Non ha il pathos del Treno dei bambini, ma
è un romanzo eccellente, sia per il tema svolto, sia per la capacità che ha la
narratrice di coinvolgere, soprattutto le donne, ma anche quegli uomini che
credono che la libertà non abbia sesso, né colore della pelle.
Viola Ardone
(Napoli, 2 luglio 1974) è laureata in
Lettere e ha lavorato per alcuni anni nell'editoria. Autrice di varie
pubblicazioni, insegna latino e italiano nei licei. Fra i suoi romanzi
ricordiamo: La
ricetta del cuore in subbuglio (Salani,
2013), Una rivoluzione
sentimentale (Salani,
2016), Il
treno dei bambini (Einaudi,
2019), Oliva
Denaro (Einaudi,
2021) e Grande
meraviglia (Einaudi,
2023).
Renzo Montagnoli
8 Febbraio

Versi d’istinto
di Cataldo Amoruso Vitale
Macabor Editore
Poesia
Pagg. 84
ISBN
979-12-81459-41-0
Prezzo Euro 13,00
Dolce
malinconia
Versi
d’istinto,
che è la prima opera edita di Cataldo Amoruso Vitale, è composta da due
raccolte,
Dalla marina,
versi in dialetto di Cirò Marina (KR), di cui non intendo parlare (c’è la
traduzione in italiano in cui si può apprezzare la vena delicata, ma tendo a
rifuggire il volgare per quella sua territorialità che si oppone
all’unitarietà della lingua nazionale) e la ben più corposa, e per me
linguisticamente più appetibile,
Dai giorni.
Ciò premesso,
dalla lettura di quest’ultima ho tratto nel complesso delle impressioni
positive, a partire dal fatto che è senz’altro ben comprensibile, a tutto
vantaggio di quella possibilità di instaurare un dialogo virtuale fra autore e
lettore.
Amoruso ha una
poesia di sentimenti, porge le sue sensazioni ed emozioni, peraltro ben
controllate, affinché si possa cogliere l’occasione di diventare partecipi di
una condizione che porta piano piano a un’apprezzabile serenità. Con uno stile
snello, con una fantasia misurata, trasmette bene quel che prova, ricorrendo
anche a forme retoriche, quali la metafora, mostrando una raffinatezza che ben
s’intona con la struttura equilibrata dei versi.
La sera che
non ha parole
Arriva a
sorprendere
Come una mano
sulla spalla
A dire quello
che può dire una carezza, un ricordo
Di sogno più
grande del vero
Un abbraccio
che si perpetua
Un amore che
non sa morire
Pure, la sua
forza vive
In ogni piega
della sera
Custode delle
palme impreziosite
Dalle carezze
mai finite.
Muoiono le
albe, rimangono i sogni, quelli veri,
dove
s’affacciano gli occhi a sera.
C’è tutta quella
malinconia che si accompagna alle felici scelte poetiche, una malinconia che
non è tristezza, ma eventualmente è rimpianto per cose o momenti passati.
Sono ricordi che
emergono dall’oblio, immagini quasi eteree che si formano e sbucano dalla
nebbia del tempo.
Ora dormono
le case dei
piccoli ferrovieri
dormono in
rovina
le cisterne
i pozzi
i forni
i magazzèni
solo li desta
con pena
il ricordo
rettangolare delle luci
li attraversa
all’uscita dei
canneti
tra un punto e
l’altro di due case
un sibilo di
treno
poco più che
un richiamo
un sussurro
di cosa più
non siamo
. / .
Tuttavia non c’è
dolore, non si avverte il timore per una perdita, bensì si riesce a cogliere
quella mestizia che nasce dalla consapevolezza che ogni cosa ha il suo tempo e
che le nostre, quelle abbiamo avuto nella nostra esistenza, sono solo ormai
ombre, tracce di ciò che è stato e che mai più ritornerà.
Sarà perché mi
trovo con ciò che ha scritto Amoruso, sarà anche perché è già in me latente
quella malinconia di cui ho detto sopra, ma sta di fatto che leggendo questi
versi leggo me stesso, provo le stesse emozioni e le stesse sensazioni
dell’autore, tanto da poter dire che io e lui siamo in totale sintonia.
Ne consegue che
consiglio senz’altro la lettura.
Cataldo Amoruso
Vitale
nasce nel 1959 a Cirò Ma-rina (KR); dopo le
scuole superiori si trasferisce in Emilia Romagna dove, per un quarantennio,
svolgerà il ruolo di capo-stazione in Piacenza, nella cui provincia oggi
risiede con la famiglia.
Studioso e cultore appassionato di storia e
di lingue, soprattutto italiano e spagnolo, molto legato alla sua terra
d’origine, oltre a numerosi saggi brevi condivisi nei suoi spazi telematici (Krimisa,
blog personale), nel 2017 ha pubblicato
Repertorio lessicale della parlata di Cirò e
della marina,
un progetto di ricerca e di analisi condotto per diversi anni, che ha
riscontrato ampio consenso di pubblico e suscitato l’interesse di studiosi non
solo calabresi.
Suoi scritti sono stati
pubblicati sulla rivista del
Centro Studi Bruttium,
mentre una nota sulla
poetica unitamente ad alcune poesie sono state pubblicate, a cura di Angela
Greco AnGre, su
Il sarto di Ulm,
rivista di poesia delle
edizioni Macabor.
La poesia, ricercata e
studiata, da sempre presente nel suo quotidiano (una raccolta giovanile, da
considerarsi una prova d’autore, fu data alle stampe emiliane negli anni
Ottanta del secolo scorso e mai divulgata), resta la grande passione di questo
autore.
Questo è il suo primo
titolo edito.
Renzo Montagnoli
2 Febbraio

Di lentissimo
azzurro
di Angela Caccia
Campanotto Editore
Poesia
Pagg. 80
ISBN 9788845618666
Prezzo Euro 13,00
L’incertezza di Angela
Credo di aver letto quasi tutta, se non tutta, la
produzione poetica di Angela Caccia e così ho avuto modo di verificare la
progressiva evoluzione artistica di una poetessa che non finisce di stupire,
prima fa tutti lei stessa, tanto che è capitato che mi abbia chiesto,
trepidante, se quanto scritto avesse o meno una valenza. L’ha, certamente
l’ha, perché l’approcciarsi a certe tematiche di volta in volta è diverso, con
una ricerca di un linguaggio che sia nel contempo chiaro, ma anche pregno di
sostanza, quasi a voler cercare nelle parole il sunto dei concetti espressi.
Di questa naturale incertezza è prova
inconfutabile la prima poesia della raccolta che ritengo opportuno riportare
per intero al fine di meglio comprendere il mio pensiero.
Sarà
servito a qualcosa
leggere Omero farsi disturbare
il
sonno da una mail
vivere
fino
la ferita
e al
grido sotterraneo uscire fuori dal calcolo?
Sarà
servito
innamorarsi spartire
in
due il peso di sé stessi
modellarsi uno all’altro
sino
a fare
del
dubbio l’unico fronte di liberazione?
… come
Giacobbe e la sua anca rotta
poter lottare col proprio Angelo
per
guadagnarsi un nome
Sarà servito raccogliersi in se stessa davanti a un foglio e lasciar fluire
una sequenza di parole, ciò che in quel momento si sente sorgere
spontaneamente, come una piccola polla d’acqua che si fa strada e a ogni passo
diventa sempre più grande, confidando solo sulla pendenza, e nel caso
specifico del poetare sulla forza intrinseca dei termini usati?
E la risposta sta nell’inconscio procedere
della creatività:Scritta
a mano
di lentissimo
azzurro / coi tratti della cura e della calma / tra le pagine di un libro /
assopita come una Biancaneve.
Oppure anche:Ovunque
ho residenza /
scrive per me
il sentimento del distacco /coltivo solo la rosa dell’esilio
/…
Potrei dire che mai, almeno finora, Angela
Caccia ha scritto per comprendere se stessa, per svelare se la sua arte sia
tale, oppure solo un accostamento di termini, una poesia spuria e non
autentica.
Non so se è riuscita ad avere una risposta
certa, se abbia trovato almeno, se non la certezza, la speranza di saper
realizzare qualcosa di valore, ma è un dilemma che è sempre innato nel momento
in cui ci si sottopone agli occhi indagatori di chi legge. Si resta in attesa
timorosa di quel giudizio che costituisca la miglior ricompensa della propria
fatica.
Sono anch’io un giudice, un opinionista
soggetto alla valutazione altrui, pure in questo caso, ma credo che
l’importante sia essere del tutto sinceri nel riportare la sintesi delle
sensazioni e delle emozioni che la poesia può dare; ebbene, giunto al termine
della lettura, resta dentro una vibrazione che lentamente si assopisce, una
eco di cose buone che scende nelle valli dell’anima e che sazia la sete di
bellezza, la prova più convincente di
qualsiasi voto o giudizio.
Angela Caccia ha
pubblicato con Fara: Il
fruscio feroce degli ulivi (2013), Il
tocco abarico del dubbio (2015),
Accecate
i cantori (2017) e L’alveare
assopito (2022).
Con Lietocolle Piccoli
forse (2017).
Vari i contributi nel web, in particolare in Versante Ripido. È stata
rencesita in poesia.corriere.it,
Satura, Patria Letteratura, RAI
Poesia,
Oubliette magazine, La Repubblica di Napoli nella rubrica di Eugenio Lucrezi e
La Repubblica di Firenze nella rubrica di Alba Donati. Finalista al Morra
2022 con
liriche contenute nel presente libro, ha tre superbe passioni: poesia,
ceramica e scacchi.
Renzo Montagnoli
27 Gennaio

Waterloo
di
Bernard Cornwell
TEA
Edizioni
Storia
Pagg. 330
ISBN
9788850242870
Prezzo
Euro 14,50
La grande
mattanza
18 giugno
1815, il sole di Austerlitz non brilla più da tempo e Napoleone Bonaparte non
vuole rendersi conto che ha imboccato la parte discendente della parabola.
Fuggito dall’isola d’Elba, l’imperatore è riuscito nuovamente a entusiasmare i
francesi, facendo leva su quella “grandeur” che lui ancora riesce a
rappresentare. Ma i nemici di sempre incombono, occorre armarsi e precederli,
non importa se il numero degli arruolati è complessivamente inferiore a quello
degli eserciti degli alleati a lui ostili, basta ripetere quella manovra che
gli è sempre riuscita, dividerli e sconfiggerli uno alla volta. Onde evitare
che arrivino sul teatro di guerra anche i Russi e gli Austriaci, rallentati
dalle distanze, si deve per forza di cose combattere contro gli inglesi e i
prussiani. La strategia è sempre quella, dividere gli avversari e sconfiggerli
singolarmente, e i fatti all’inizio sembrerebbero dargli ragione con una
vittoria facile sui prussiani, ma questi non sono del tutto sconfitti, tanto
più che i francesi li inseguono, in quella che è una loro apparente ritirata,
con una forza ridotta, che prima faticherà a localizzarli e poi combatterà a
lungo con la loro retroguardia. Il vero scontro è a Waterloo, fra i francesi e
gli inglesi del duca di Wellington, in una battaglia sanguinosa sempre incerta
nella sua conclusione, ma i tempi dell’invincibilità napoleonica sono
tramontati, l’imperatore non è più quello di un tempo, ha perso molti dei suoi
preziosi marescialli e se anche arriva a un palmo della vittoria la resistenza
disperata del comandante britannico consentirà ai prussiani di unirsi agli
inglesi e decreterà la sconfitta della Grande Armée.
In tanti
hanno scritto di questa battaglia, il cui esito ha determinato conseguenze
fatali per l’Europa, ritornata agli stati divisi e conservatori di prima della
Rivoluzione francese, e ognuno ha detto la sua. Ci ha provato anche Cornwell,
noto autore inglese di romanzi storici. In questo caso, tuttavia, ha preferito
anteporre la storia alla narrativa, con Waterloo che è l’esatta
cronistoria di quanto avvenne. E’ un dramma continuo, con un macello senza
precedenti e migliaia di vittime (si parla di 25.000 uomini per i francesi,
20.000 per gli inglesi e 4.000 per i prussiani) e se devo essere sincero fra
tanti morti, mutilati, feriti lasciati senza l’indispensabile aiuto a un certo
punto mi è venuto un senso di angoscia, che non mi aveva prese leggendo La
battaglia. Storia di Waterloo, uscito dalla penna di Alessandro Barbero,
opera che secondo me è più riuscita. Non è che il libro di Cornwell non sia
interessante, perché invece lo è, ma la differenza sta tutta nell’aver
affrontato lo stesso tema con un spirito diverso; infatti Barbero ha calcato
un po’ meno la mano sull’orrore, pur non tacendolo, ma senza eccessi, con un
distacco più da inglese che da italiano.
Waterloo
è in ogni
caso da leggere perché è un saggio storico completo, ma non per questo greve.
Bernard Cornwell
(Londra,
23 febbraio 1944) dopo aver lavorato per anni
alla BBC si è dedicato alla narrativa e, oltre alla serie di romanzi
avventurosi ottocenteschi incentrati sul personaggio di Sharpe (I
fucilieri di Sharpe, La
sfida della tigre, Assalto
alla fortezza, L'eroe
di Trafalgar, Sharpe
all'attacco, Le
aquile di Sharpe e L'oro
di Sharpe), pubblicati da Longanesi,
ha scritto moderne avventure di mare (Scia
di fuoco e Figlia
della tempesta).
Ha trovato la più fortunata delle sue ispirazioni
nelle saghe di avventure medioevali.
Dopo la trilogia di L'arciere
del re (Longanesi, 2001), Il
cavaliere nero (Longanesi,
2003) e La spada e il
calice (Longanesi,
2004), ha dato vita a un'appassionante epopea ambientata tra l'Inghilterra e i
mari del Nord durante il primo medioevo: L'ultimo
re (2006), Un
cavaliere e il suo re (2007), I
re del Nord (2008), Il
filo della spada (2009), Il
signore della guerra (2010), La
morte del re (2012)
e Il re senza dio (2014), La
congiura dei fratelli Shakespeare (2019), La
spada dei re (2021)
e La conquista di
Parigi (2023), tutti pubblicati da Longanesi.
Alla saga di Excalibur appartengono Il
re d'inverno e Il
cuore di Derfel, ripubblicati da
Longanesi, presso cui sono usciti anche L'arciere
di Azincourt, L'ultima
fortezza, L'ultimo baluardo.
Renzo Montagnoli
20 Gennaio

Deja vu
Quindici racconti rievocati
di Marco
Giorgini
Edizioni Kult
Virtual Press
Narrativa
Pagg. 248
ISBN
979-8302950864
Prezzo Euro
6,99
Tutto
weird
Questa raccolta
di racconti, già pubblicati in passato su libri, riviste e siti web, spesso
ormai impossibilitati a essere letti, comprende diversi generi, dalla
fantascienza all’horror, nel sottogenere weird, quello nato con il preciso
scopo di provocare nel lettore sbigottimento e paura e che ha visto fra i suoi
autori artisti del calibro di Edgar Allan Poe e Howard Phillips Lovecraft.
Giorgini ha inteso con questo suo volume riunire la sua produzione di maggior
qualità, a vantaggio degli appassionati del genere, una opportunità che non
rientra tanto nelle logiche editoriali, ma nella volontà di rappresentare una
specifica testimonianza letteraria. Si tratta in tutto di quindici racconti,
scritti in epoche diverse, ma in un arco di tempo che va dal 2000 al 2010 e
che nell’occasione hanno avuto una opportuna revisione, peraltro di modesta
entità, tanto da non esserne stravolti.
Per quanto le
tematiche e le situazioni, insomma in pratica il genere non rientri fra quelli
che più mi risultano graditi, in considerazione anche dell’amicizia con
l’autore ho inteso tuttavia leggere con la miglior predisposizione, certo che
in ogni caso avrei potuto trarre più di un’impressione positiva, il che
effettivamente si è poi avverato.
Poiché i racconti
sono diversi ce ne sono di maggior o minor gradimento, come è ovvio che sia, e
infatti giunto al termine della lettura ho constatato questa circostanza, e
senza voler parlare di tutti e quindici, perché sarebbe troppo oneroso, mi
sembra giusto fornire almeno un breve cenno di quelli che più mi hanno
colpito.
Con
La fine
delle trasmissioni
si parla delle esperienze extrasensoriali di un soggetto, una specie di
allucinazioni riscontrabili in genere in chi si droga, ma non è il caso della
persona in questione, e proprio per questo, prima ancora di trovare una cura,
è indispensabile cercare di capire, così che la nostra medicina lo rende
oggetto di studio. In effetti il suo problema è quello di udire, come se
fossero vicinissimi a lui, suoni e voci lontane, e ogni volta che capita la
provenienza è sempre più distante, addirittura l’Australia. Non vado oltre,
perché questo genere, come i polizieschi, esige sempre alla fine una soluzione
e anticiparla sarebbe senz’altro sconveniente.
E poi ci sono i
racconti brevi, molto brevi, quasi dei flash, come
L’adepto,
che si svolge in un piccolo insediamento inglese, dove c’è un antico rito di
iniziazione con una vittima sacrificale, o come
Nel buio,
con una casa dagli strani e misteriosi rumori, per non parlare del cortissimo
Mare
nero,
una sorta di giorno del giudizio.
Il mistero, che è
poi tutto ciò che non riusciamo a spiegarci, è onnipresente, accompagnato
dalla fantasia che mettiamo nel cercare di fornirci una risposta, purtroppo
impossibilitati a ottenere. E quanto più ci sono stranezze, quanto più non
riusciamo a comprendere, tanto più scivoliamo nel nostro inconscio. Questi
racconti sono il frutto di questa inconsapevole ricerca di risposte che
contiamo di reperire dentro di noi, ma che non troveremo.
Da leggere.
Marco Giorgini,
nato a Modena nel 1971, lavora da quasi trent'anni nel campo della linguistica
computazionale e, nello stesso periodo, coordina la rivista culturale online
KULT Underground. Autore di racconti e videogiochi d'avventura narrativi, ha
pubblicato anche diversi romanzi, tra cui spicca il giallo per ragazzi Il
Mistero della Statuetta Egizia (2019). Negli ultimi anni, gran parte della sua
produzione è stata inclusa in antologie collettive, spesso ambientate nella
sua città natale, come nel caso del racconto weird Moden-e (2024), inserito
nell'antologia Modenesi per Sempre.
Renzo Montagnoli
14 Gennaio

Da quando non ci siete
di Stefano
Bianchi
Fara Editore
Poesia
Pagg. 80
ISBN
978-88-9293-095-7
Prezzo Euro
7,00
La
memoria
Il tema della memoria è uno dei più diffusi in
poesia, un po’ perché parlare del proprio passato ha l’indubbio vantaggio di
non richiedere particolari doti di creatività, un po’ perché ci si illude che
soprattutto gli anni più lontani della nostra esistenza, che corrispondono
generalmente alla fanciullezza e alla pubertà, siano stati i migliori che ci
potessero capitare.
In quest’ottica credo debba essere vista questa
raccolta poetica di Stefano Bianchi, capace di ricordare con il rimpianto
malinconico di chi sa che certi eventi non si potranno replicare, che certe
persone che abbiamo incontrato non sarà più possibile vedere di nuovo (
Che la vita è bella me l’hai
insegnato tu,
morendo.)
Se rievocare rinforza il nostro desiderio di
proseguire, pur tuttavia ha i suoi limiti nel senso di sconforto che si
accompagna sempre al piacere di illudersi di rivivere determinate epoche.
Bianchi mette nero su bianco le sue sensazioni, le sue emozioni rammentando e
scrivendo di quando era bambino, parlando d’amore, del tempo che passa, spesso
e volentieri con indovinate visioni della natura che non solo è palcoscenico
dei suoi versi, ma ne è intima struttura, è il mezzo con cui meglio
comunicare. E le parole, se opportunamente amalgamate, se intelligentemente
scelte, hanno la capacità di trasmettere a chi le legge le stesse sensazioni e
le stesse emozioni, come è possibile verificare in Dove?:
Dove
sei?
In quel cielo
di nuvole alte
colorate di
nero dal sole
come una
lanterna dietro a un telo?
O nel verde
sentiero che corrono
in discesa i
bianchi cani del nord
a quest’ora
della sera?
Delle chiome
gemmate di aprile
sento la
stessa pelle addosso,
pure mi
costringo a inseguire
la corsa di
una vita che non è mia,
che non è
nostra.
Non indovina
la strada per casa,
quando bastava
ascoltarti un secondo
allora.
O sei
nell’acqua del fiume che passa
una volta ma
poi non si ferma?
O nell’aria
che vola in montagna?
Così pulita e
leggera come
la tua anima e
le tue parole
che mi tengon
per mano stasera?
Fra una citazione
e l’altra di autori famosi il poeta nel ricordare si abbandona a riflessioni
coinvolgenti, come quella sul tempo, così dolcemente scandito con una visione
di un fenomeno della natura (Il
tempo cade a fiocchi piccoli come la neve /
che se lo
lasci fare / stende una coltre spessa quanto l’oblio / sulle cose che crediamo
importanti.),
una poesia che ha tanto dell’aforisma quanto generale e perfettamente logico è
il concetto esposto.
Nel leggere
questi versi si finisce un po’ con il ripercorrere il nostro passato, ci si
lascia condurre per mano a quella serena malinconia che assale il navigante al
tramonto, e forse noi, anno dopo anno, giorno dopo giorno, non siamo
altrettanti naviganti nella luce del tramonto?
Il mio giudizio
forse è poca cosa, ma si sono sentito da subito in sintonia con l’autore,
verso dopo verso ho ritrovato i miei “da quando non ci siete”.
Nato a Rimini,
Stefano Bianchi
ha pubblicato
le raccolte: La
bottiglia (Pendragon
2005), Le
mie scarpe son sporche di sabbia anche d’inverno (Fara Editore
2007) - Premio Cluvium –
Calvanico –
2008, Sputami
a mare (Le voci) (Fara 2010),
segnalata al Premio Città di Marineo –
Palermo
2011) e Da
quando non ci siete (Fara
2021), che nel 2022 ha ottenuto i seguenti riconoscimenti:
Diploma di merito per la poesia
edita al Premio I Murazzi (Torino), 1° Premio
al Campionato Italiano della Poesia di Rimini, Encomio d’onore al Città del
Galateo (Roma), Premio “Assunta” a
La Stradina dei Poeti (Barletta),
2° posto assoluto al Premio
Piemonte Letteratura, Menzione d’Onore al Concorso
Poesie della Religione Cristiana,
Segnalazione di Merito al concorso Tradizioni Vive
e
Menzione della Giuria al concorso
Tre Civette sul Comò (Torino).
Altri suoi versi sono presenti
nelle antologie Il
desiderio, Sogno, Il Ricordo, Nella notte di Natale. Racconti e poesie sotto
l’albero (Perrone ed.
tra il 2007 e il 2009), Poeti
romagnoli d’oggi e Federico Fellini (Il
Ponte Vecchio 2009) e Corviale
cerca poeti (ed.
Fuorilinea 2015).
Alcune sue poesie sono state
recentemente selezionate dalla Casa editrice Aletti di Roma per la
registrazione di un cd audio video per la voce dell’attore Alessandro
Quasimodo, figlio del poeta premio Nobel Salvatore Quasimodo.
Ha presentato le sue poesie in
vari contesti pubblici, anche TV (Icaro TV Rimini e Tele 1 Faenza) e radio
(Fango Radio e Radiocity Vercelli). Alcune recensioni sono uscite su giornali
e settimanali (La Voce di Romagna e Il Ponte di Rimini), altre sono in rete
sul blog farapoesia e sul sito di Fara Editore, ai siti del Centro Cultural
Tina Modotti, Whipart, L(’)abile traccia, Athena Millennium, QLibri,
LiberoLibro, Arte Insieme, Fuorilinea, Linea quotidiano nella rubrica “Nel
verso giusto".
Renzo Montagnoli
8 Gennaio

Vegliare su di lei
di Jean-Baptiste Andrea
La nave di Teseo Edizioni
Narrativa
Pagg. 480
ISBN
9788834618523
Prezzo Euro 22,00
Il realismo magico di Jean-Baptiste
Andrea
Un uomo e una donna, con i loro sogni, lui che
desidera realizzarsi con la sua arte, di cui ha un gran talento, lei che
ambisce proiettarsi nel futuro, nell’uscire dalla staticità di un mondo in cui
è nata e cresciuta. Viola, una nobile caratterizzata da un accentuato
dinamismo, e Mimo, un nano che è un grande talento della scultura, sono i
protagonisti di questo romanzo, scritto in modo accattivante, con una dose di
giusta ironia, e in cui con abilità si mescolano la realtà e la fantasia. E’
anche un racconto di epoche storiche che vanno dalla Grande guerra alla
liberazione, passando per gli anni bui del fascismo.
Il segreto del successo di Vegliare su di
lei è di parlare di amore, da quello per l’arte a quello per
realizzare i propri sogni, con sullo sfondo un mondo in continua evoluzione,
ma anche involuzione, visto che le belle speranze con cui si era aperto il
primo conflitto mondiale si sono rapidamente estinte, soffocate dagli
autoritarismi che sono stati gli strascichi più evidenti di quella guerra.
Lo stile dell’autore è quello che mi ha più
sorpreso perché l’opera ha un ritmo incalzante, senza rallentamenti evidenti,
supportata da quell’ironia di cui ho accennato e che finisce con il diventare
lo stimolo per una riflessione del lettore.
Poi ci sono tutti gli ingredienti perché possa
avvincere chi legge, perché induce alla commozione, date le caratteristiche
dei due protagonisti ed è permeata da una specie di realismo magico che mi ha
fatto venire in mente Cent’anni di solitudine, il più riuscito romanzo
di Gabriel Garcia Marquez, da cui credo abbia tratto ispirazione.
Vegliare su di lei mi è piaciuto,
come mi risulta sia stato gradito da tanti; se dovessi dare un giudizio
stringato, direi che è senz’altro eccellente e considerato che la produzione
attuale è per lo più di modesta levatura è cosa non da poco, tale proprio da
caldeggiarne la lettura.
La trama non manca di certo di originalità, un
valore notevole se rapportato alla banalità di tanti romanzi che sono editi in
questi anni, i personaggi sono azzeccati, in particolare Mimo, un Michelangelo
del XX secolo, ma anche l’androgina Viola, enigmatica e in continua fuga dal
mondo dorato in cui è rinchiusa.
Forse non raggiunge i vertici propri del
capolavoro, ma quello di cui sono certo è che Vegliare su di lei
è un’indimenticabile storia di due esseri, un uomo e donna, che si cercarono
sempre, reciprocamente attratti dalle loro personalità.
Jean-Baptiste Andrea
(Sant-Germain- en-Laye, 4 aprile 1971) è un regista, scrittore e sceneggiatore
francese. Mia regina (Einaudi
2018), il suo romanzo d'esordio, ha vinto il Prix Femina des lycéens e il Prix
du premier roman e in totale ha raccolto 12 premi letterari. Lavora come
sceneggiatore e regista tra la Francia e gli Stati Uniti. Il suo secondo
romanzo Deux million d'années
et un jour è
uscito dopo due anni. Des
diables and saints (L'uomo che suonava Beethoven,
Einaudi 2022) fa parte della sua trilogia sull'infanzia e si è aggiudicato il
Grand Prix RTL-Lire, il premio Relay des Voyageurs Lecteurs e il Prix
Ouest-France Étonnants Voyageurs. Nel 2023 conquista il Premio Goncourt con Vegliare
su di lei, «la
storia d’amore tra Michelangelo - che sogna di diventare un grande artista - e
Viola - che sogna di volare. Un romanzo perfetto, sull’amore per l’arte,
sull’amore eterno tra un uomo e una donna, sul coraggio di seguire i propri
sogni e le proprie idee», come ha scritto Elisabetta Sgarbi, editore La Nave
di Teseo.
Renzo Montagnoli
2 Gennaio

Il duomo racconta.
Santi e briganti nella
cattedrale di Mantova
di Roberto Brunelli
Tre Lune Edizioni
Saggistica
Pagg. 350 con ill.ni
ISBN
9788887355420
Prezzo Euro 61,97
Per conoscere il duomo di Mantova
La chiesa madre della diocesi mantovana è il
Duomo, noto anche come Cattedrale di San Pietro. E’ da quasi nove secoli che
si affaccia su una delle più belle piazze del mondo, quasi in sordina,
restando però ferma la sua centralità liturgica. Non ha certamente lo stile
arioso della concattedrale di Sant’Andrea, né può ambire a raccogliere in sé
folle debordanti stante la sua più ridotta dimensione, è stato frutto di
successive riedificazioni e di ampi restauri tanto che non ha un’impronta
artistica ben determinata, quasi fosse un arlecchino architettonico. Forse è
anche per questo che non piace a molti mantovani, fra i quali il sottoscritto,
e che preferiscono bearsi dell’imponenza, tuttavia per nulla greve, frutto
dell’ingegno di Leon Battista Alberti, della basilica di Sant’Andrea. Ed è
probabilmente per tale motivo che ho voluto accostarmi, con naturale
curiosità, a questo libro sulla Cattedrale di San Pietro, onde saperne di più
e conoscere un’opera che è lì da tanto di quel tempo che si può dire che ha
assistito, muta testimone, alla storia della città.
La scelta, ponderata, si è rivelata giusta perché
l’autore, monsignor Roberto Brunelli era un autentico esperto, un religioso
che metteva passione e studio non solo nella sua vocazione, ma anche nella
storia, soprattutto artistica, di Mantova.
In questo corposo volume di storia ce n’è un bel
po’, perché sono le vicende di un borgo quasi dalla sua nascita in avanti,
abbracciando soprattutto il periodo d’oro della reggenza dei Gonzaga. In
queste pagine gli anni corrono inesorabili e il Duomo è sempre lì, magari
temporaneamente fuori uso per un incendio, ma immediatamente ricostruito,
simbolo del potere del vescovo di Mantova, ma al tempo stesso faro religioso
per gli abitanti della città.
L’opera è impostata in modo organico, per temi,
così da apparire quasi di immediata consultazione; le immagini (fotografie di
Toni Lodigiani) abbondano, tanto che verrebbe da dire che è inutile recarsi in
Duomo a visitarlo, perché in questo modo è possibile farlo comodamente da
casa. In un lasso di tempo così lungo non potevano mancare tantissime storie e
infatti ci sono, così come i riferimenti all’iconografia religiosa, con tante
particolarità e meglio ancora curiosità che svelano aspetti, caratteristiche,
simbolismi che altrimenti forse non avremmo notato con una visita diretta.
Emerge indiscussa la conoscenza che si potrebbe
definire enciclopedica di Roberto Brunelli che tuttavia non rende gravosa la
lettura grazie alle ben note capacità di sintesi dell’autore.
Insomma, il libro ha il pregio di destare
l’interesse anche di chi da tempo ha preferito senza indugio la Basilica di
Sant’Andrea, che magari non cambierà il suo gusto, ma che di certo vedrà in
nuova luce una costruzione che gli era sempre sembrata, più che buia, cupa,
più che pesante, un incrocio di stili vari.
Da leggere quindi, un consiglio rivolto non solo
ai mantovani, ma anche ai tanti turisti che sempre più apprezzano Mantova.
Roberto Brunelli
( Piubega,
30 marzo 1938 – Mantova, 21 novembre 2022)
è stato un religioso, critico d’arte e
direttore del Museo diocesano di arte sacra Francesco Gonzaga, nonché autore
di testi di argomento religioso, di storia dell’arte e di narrativa. Negli
anni ’80 ha collaborato con Mondadori come curatore e traduttore di alcuni
titoli della popolare collana enciclopedica per ragazzi I
grandi libri e
come autore del Grande
libro della Bibbia (1983).
Fra le sue opere thriller ricordiamo “Delitto
in sagrestia”,
la ricostruzione storica di “Giallo
a corte”,
dedicata ad alcuni delitti irrisolti di epoca gonzaghesca, “Requiem
in rosso” e
il racconto “Papa
a sorpresa”,
dove l’autore, prima della diffusione della notizia delle dimissioni di
Benedetto XVI, ipotizzava che cosa sarebbe potuto accadere con le dimissioni
di un pontefice. Nella sua opera ricorrono in particolare i saggi storici e
artistici di argomento mantovano, oltre a un filone di narrativa noir.
Renzo Montagnoli
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