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16 Dicembre

Sulla pelle viva.

Come si costruisce una catastrofe. Il caso del Vajont

di Tina Merlin

Edizioni Cierre

Storia 

 

Una tragedia annunciata

Alle 22,39 del 9 ottobre 1963 una gigantesca frana di oltre 250 milioni di metri cubi di terra e rocce scese dal monte Toc nell’invaso realizzato grazie alla diga del Vajont, sollevando un’onda gigantesca che spazzò via tutto quello che incontrava nello scendere a valle e che cancellò letteralmente Longarone, provocando, oltre alle distruzioni, quasi duemila vittime.  Fatalità, evento imprevedibile, negligenza? All’inizio si invocò l’imprevedibilità del fatto, ma ben presto vennero alla luce decisioni ed eventi antecedenti che smontavano facilmente questa ipotesi, anche perché la giornalista dell’Unità Tina Merlin aveva scritto della estrema pericolosità ricollegabile all’edificazione della diga già a partire dai primi lavori, avviati nel 1957,  pur in assenza di una valutazione geologica di un territorio dalla particolare fragilità tanto che la montagna che sovrastava i paesi di Erto e di Casso si chiama Toc e toc indica nel dialetto locale qualcosa di guasto, di avariato. Infatti chi abitava lì era a conoscenza dell’instabilità di quel monte, già oggetto in passato di altre frane, e gli unici che sembravano non saperne nulla erano proprio gli azionisti e dirigenti della SADE Società Adriatica Di Elettricità che si erano messi in testa di costruire la diga più alta d’Europa in modo da realizzare un invaso gigantesco. Una perizia geologica in realtà esisteva, ma era stata predisposta ad arte per consentire di intraprendere un’impresa che altrimenti non sarebbe stata autorizzata. Purtroppo all’epoca c’era uno stretto legame di interessi fra il governo e la SADE, di cui beneficiavano entrambi, così che allegramente venivano saltate tutte le necessarie procedure, perfino per gli espropri dei terreni che sarebbero stati sommersi. La Merlin, che appoggiava i moti di protesta delle popolazioni locali, che temevano, a ragione, per la loro incolumità, fu addirittura accusata di diffondere notizie false e tendenziose atte turbare l’ordine pubblico, ma il Tribunale di Milano la assolse. Del resto tutta la zona aveva un equilibrio instabile, come testimoniato dalla colossale frana di 3 milioni di metri cubi, staccatasi dai monti Castellin e Spiz il 22 marzo del 1959, precipitata nel sottostante lago artificiale, provocando un’onda che superò la relativa diga di almeno 7 metri e fu solo per fortuna che ci fu un’unica vittima, un operaio che transitava lungo il percorso interessato dallo smottamento e il cui corpo non fu mai ritrovato. Dato che anche quell’invaso era opera della SADE questa cominciò a preoccuparsi, tanto più che una perizia geologica non di parte (uno degli estensori era il figlio del progettista della diga del Vajont) aveva evidenziato l’esistenza di un pericolo gravissimo, di cui si ebbe una prova  il 4 novembre 1960 quando dal monte Toc si staccò una frana di 800.000 mc, con caduta nel lago artificiale e conseguente ondata alta una decina di metri. Non ci furono vittime, ma questo dimostrava che mano a mano che le acque dell’invaso salivano (si era già a 650 metri) le spinte sui fianchi tendevano a innescare fratture nel terreno. A questo punto si decise di abbassare il livello, tanto più che si era evidenziata una lunga crepa nel fianco della montagna. Tina Merlin, nell’occasione, scrisse un articolo per l’Unità che riportava fra l’altro queste parole:”Si era dunque nel giusto quando, raccogliendo le preoccupazioni della popolazione, si denunciava l'esistenza di un sicuro pericolo costituito dalla formazione del lago. E il pericolo diventa sempre più incombente. Sul luogo della frana il terreno continua a cedere, si sente un impressionante rumore di terra e sassi che continuano a precipitare. E le larghe fenditure sul terreno che abbracciano una superficie di interi chilometri non possono rendere certo tranquilli.”.

Si tentò allora di mettere in sicurezza l’impianto, ma era troppo tardi, perché una volta che si viene a gravare su un difficile equilibrio è inevitabile che, prima o poi, se ne paghino le conseguenze. Lo sapevano dunque quelli della SADE e la possibilità che avvenisse un disastro era notevolissima.

Considerata che era imminente la nazionalizzazione delle imprese di energia elettrica, con lauti guadagni per queste, dopo aver ridotto il livello del lago, si aumentò di nuovo, in modo da arrivare al collaudo necessario per la cessione allo stato, ben sapendo che in questo modo il rischio sarebbe aumentato in modo massiccio ed è così che si giunse a quella famosa notte del disastro, nonostante, monitorando la montagna, ci si fosse accorti del pericolo enormemente incrementato, a cui si cercò di rimediare abbassando di nuovo il livello.  Era però troppo tardi  e il resto lo conosciamo.

Il libro della Merlin è un atto di accusa, chiaro e incontestabile, contro chi per denaro, e ben sapendo che il suo comportamento poteva provocare vittime, volle procedere lo stesso, un reato non da omicidio colposo, bensì quasi da omicidio volontario, ibrido peraltro non contemplato dal nostro codice penale, così che l’unica accusa fu quella di omicidio colposo. Non vado oltre perché occorrerebbero chissà quante pagine; mi limito solo a evidenziare il valore di questo libro. Tina Merlin è brava, perché unisce allo stile giornalistico una impronta narrativa, grazie alla quale ben si comprende l’atmosfera e si prende consapevolezza della paura di questi montanari, schiacciati da un potere insensibile. Le qualità che ho potuto apprezzare nel romanzo La casa sulla Marteniga qui sono al servizio di un’inchiesta giornalistica su un fatto drammatico, così che è evidente la tensione in attesa di un evento pressoché certo. Leggere queste pagine fa male, perché l’avidità di certi uomini  non ammette l’esistenza di sentimenti, in quella che può essere definita un’orgia del potere.

Da leggere senz’altro.

Tina Merlin nasce a Trichiana (Belluno) il 19 agosto 1926 e muore a Belluno il 22 dicembre 1991. Durante la guerra di liberazione è stata staffetta partigiana. Inizia la sua attività letteraria scrivendo racconti che vengono pubblicati sulla rivista Noi donne. Dal 1951 al 1967 è corrispondente locale del quotidiano L’Unità. Esordisce come scrittrice con Menica (1957), raccolta di racconti partigiani. Segue da vicino le vicende del Vajont. tentò di pubblicare un libro sulla vicenda, Sulla Pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso del Vajont, che tuttavia trovò un editore solo nel 1983.
Renzo Montagnoli

 

 

 

10 Dicembre

Son tornate le volpi

Come muore la nostra civiltà

di Ferdinando Camon

Apogeo Editore

Poesia

 

La paura deve finire

Si fa presto a dire che l’immigrazione è il nostro tardivo aiuto a popoli in un ancor recente passato vessati dalle potenze europee, ma questa moltitudine che fra mille difficoltà e rischi arriva nel nostro paese rappresenta di per sé una bomba orologeria, perché è inevitabile che si vengano a creare le occasioni per uno scontro di civiltà, soprattutto quando una di queste è improntata a una religiosità fanatica e di esclusione delle altre fedi. In un occidente europeo francamente decadente non sta avvenendo una pacifica integrazione di due concetti di società, ma piano piano sta prendendo il sopravvento il lato più oscuro e drammatico di popoli le cui convinzioni religiose, spesso, sono in netto contratto con le nostre leggi fondanti, scritte nelle costituzioni e rispecchianti il comune sentire. Ferdinando Camon che già ha scritto, benissimo, della scomparsa della civiltà contadina si è guardato intorno, ha osservato, ha tratto conclusioni e così è nato Son tornate le volpi con sottotitolo Come muore la nostra civiltà, senza paura di essere qualificato come razzista, perché razzista non è, perché vedere come stanno le cose non è razzismo, non è cercare di difendere i propri valori minacciati ogni giorno, non è desiderare di vivere in tranquillità, senza paura. E lui di paura non ne ha e non ne ha mai avuta, fin dai tempi di Occidente, quando i terroristi neri l’avevano messo nel mirino. E a maggior ragione non ne ha ora, quando, nell’esprimere lo sconcerto e i timori di tanta gente, ha in cuor suo il desiderio che il futuro della propria discendenza non venga minacciato.

La paura comunque c’è, è la paura di chi si accorge che l’illegalità è ovunque e che prende il sopravvento (Fa l’architetto / vive da solo, / e dopo tredici ore / di lavoro / torna nel cuore / della notte per buttarsi a letto. / Apre la porta come un automa, / accende la luce e la mano gli trema: / c’è un altro a letto, con la faccia truce, / dorme pesante, un sonno da coma. /…).

Come è possibile notare non si tratta di prosa, ma di poesia, il terzo libro di versi frutto dell’arte di Camon, e allora c’è da chiedersi come mai sia ricorso a questa forma per partecipare agli altri questo tema così contingente. Credo che stante la quotidianità di un crescente problema e l’acuirsi di una situazione che da disagio sta diventando paura l’autore padovano abbia ritenuto, secondo me giustamente, di comunicare con maggiore immediatezza, e per l’appunto in proposito non c’è nulla di più efficace della poesia. Del resto, fra le diverse liriche, ce n’è una che penso ben esprima il concetto; può sembrare un eccesso, ma non è un caso isolato e appunto per questo nei quotidiani passano eventi simili dalla prima pagina (quando sono novità) alla terza o alla quarta; la riporto per intero, si intitola Battaglia primordiale: “Padova, via Anelli: / a sirene spiegate, frena, balza, / la polizia arriva sulle Alfa / con scudi e manganelli, / dalle case escono tribù / di senegalesi e nigeriani / mezzo nudi, bastoni fra le mani / con movenze di kung-fu; / i poliziotti suonano le trombe / per fare i duri / dalle finestre rullano i tamburi / e piovono sassi come bombe. / La gente si ferma incantata: mai visto / uno scontro del genere. / Chi vincerà, il prima o il dopo Cristo?”. 

Certo la gente prima dimostra stupore, poi disagio e infine paura, una paura del diverso, tanto che basta che uno abbia la pelle un po’ scura per diventare un potenziale criminale. Ed è così che piano piano si passa dalla ideale  integrazione alla reale fagocitazione, perché se scompare la nostra civiltà non saremo più nulla, né per gli altri, né soprattutto per noi stessi. E di questo non hanno colpa i magrebini, i fondamentalisti, no, la colpa è solo nostra, di avere abdicato un po’ per volta ai nostri valori, di esserci spogliati delle nostre tradizioni, di essere diventati indifferenti a quanto più di sacro e importante abbiamo da coltivare e difendere: le nostre comuni radici.

E il titolo?  E’ quello di una poesia della raccolta, in cui al ritorno delle volpi, ai danni che provocano, soprattutto ai pollai, si accompagna la reazione dei contadini, nonostante la protezione che il governo ha concesso a questi carnivori; sembrerebbe poco attinente al tema della silloge, ma si può anche interpretare come un invito all’autotutela nei confronti di certe categorie di immigrati, di quelli completamente indifferenti alle nostre leggi e che mirerebbero a sovvertire l’ordine esistente, facilitati da leggi che tendono a proteggere chi entra nel nostro paese, e ciò indipendentemente dalla sua eventuale pericolosità sociale.

Leggete queste poesie, questo monito di un artista che non ha mai avuto paura, ma che sempre si è adoperato perché fossero eliminati i motivi della paura stessa; la nostra civiltà, benché ormai sbiadita, non è ancora morta, facciamo sì che possa continuare a vivere. 

Ferdinando Camon

Il primo romanzo di Camon uscì in Italia con una appassionata prefazione di Pier Paolo Pasolini e fu subito tradotto in Francia per interessamento di Jean-Paul Sartre. Camon si definisce “narratore della crisi”: ha raccontato la crisi e la morte della civiltà contadina (nei romanzi “Il Quinto Stato”, “La vita eterna”, “Un altare per la madre”, premio Strega, “Mai visti sole e luna”, nelle poesie “Liberare l’animale”, premio Viareggio, e “Dal silenzio delle campagne”), la crisi che si chiamò terrorismo (“Occidente”), la crisi che porta in analisi (“La malattia chiamata uomo”, “La donna dei fili”, “Il canto delle balene”) e lo scontro di civiltà, con l’arrivo degli extracomunitari (“La Terra è di tutti”). “La malattia chiamata uomo” fu recitata a Parigi al teatro L’Aquarium per 4 anni consecutivi. Il regista Claude Miller ne ricavò un film. Camon ha lavorato nel primo Centro Anti-Droga, che aveva sede a Padova, e l’ha raccontato nel libro “La droga discussa con i ragazzi”. I suoi romanzi più recenti sono “La cavallina, la ragazza e il diavolo” e “La mia stirpe”. È tradotto in 25 paesi. In Francia, Gallimard ha tradotto tutte le sue opere in prosa e in versi. Nel 2020 è uscito il suo “Dialogo sul Comunismo” con Pietro Ingrao, che Ingrao aveva bloccato per 25 anni. Ed è uscito il pamphlet “A ottant’anni se non muori t’ammazzano”, contro l’opzione di non curare i malati troppo anziani. Nel 2022 Apogeo ha ripubblicato “Occidente” nella stesura definitiva. Le sue opere sono pubblicate anche in edizioni per ciechi, in Italia e in Francia. Nel 2016 sono state raccolte in 16 ebooks e gli è stato assegnato il premio Campiello alla Carriera. Dal 2021 è in corso la pubblicazione delle sue opere in forma di audiolibri presso la casa editrice Il Narratore; sono già usciti 4 audiolibri.
Renzo Montagnoli

 

 

 

5 Dicembre

I fuochi di Manikarnica

di Daniela Raimondi

puntoacapo edizioni

Poesia

 

Il viaggio

Manikarnika è uno dei luoghi più antichi di cremazione esistenti in India e si trova lungo il Gange a Varanasi. E’ quindi spiegato il titolo di questa raccolta e pertanto c’è da chiedersi che cosa sia  I fuochi di Manikarnica: è forse  un libro sulla morte? Anche. E’ magari un libro sulla vita? E anche è la mia risposta. In realtà I fuochi di Manikarnica è un’opera sul viaggio, o meglio ancora sui viaggi, ma al di là del fatto che effettivamente si parla di diverse località, non si tratta solo di percorsi turistici, perché ci sono viaggi intesi come migrazione, come scoperta. Al riguardo ci sono alcuni capitoli di cui accennerò in seguito che risultano piuttosto chiarificatori di ciò che ho appena scritto. Invece il viaggio al singolare diventa una metafora, quella della vita, un percorso che per ognuno di noi va dall’alba al tramonto, con tutte le situazioni in cui ci si imbatte, con tutte le esperienze che si acquisiscono. Ed è proprio a Manikarnica che esemplarmente c’è il punto in cui si incontrano la nascita  e la morte, con quei poveri corpi che sono affidati alla funzione purificatrice del fuoco. Così i roghi diventano l’estremo saluto, il passaggio dall’entità solida e ormai inerte a quella divina, una morte che genera una nascita.

Questo in India, però, è solo uno dei viaggi della raccolta, perché ci sono anche gli altri, come per esempio la scoperta dell’America, l’esplorazione avventurosa di Cristoforo Colombo, e sempre verso l’America ci sono in navigazione i bastimenti che portano i nostri poveri emigranti, quelli che volentieri abbiamo dimenticato, quasi fossero una vergogna nazionale, allorché si tratta di osteggiare gli africani che fra mille insidie e pericoli arrivano via mare in Italia. Al riguardo, per quei nostri sventurati compatrioti che partivano per l’ignoto, ci sono versi che non possono lasciare indifferenti, come la Preghiera dell’addio: “Ce ne andremo un mattino d’inverno / nei piedi il peso della seta / e nelle mani una valigia vuota. / Cammineremo spinti dal vento / lasciandoci dietro tre ciglia sul cuscino, / l’odore aspro della terra e del sudore. / Partiremo soli / l’ultimo sguardo in fondo al giardino, / un ritratto premuto contro il petto. / Ma ugualmente andremo, dicendo: / “!Salvaci, Padre / dalla mancanza della felicità, salvaci da tutti i sogni / che abbiamo lasciato morire. / Togli dalle nostre bocche il tuo pane malato / e portaci verso cieli più miti, / il corpo a brillare fra i papaveri / e con il bene dentro.

E’ una preghiera che è frutto della disperazione, struggente, un addio alle proprie radici in quel passo verso l’ignoto.

La raccolta, come ho accennato, consta di diversi capitoli : Terra promessa (L’esodo ebraico), America (La scoperta), Emigranti (I nostri), Mare Nostrum (Immigrati), Circolo Polare Artico (Esplorazioni), Sanskrit (india), I fuochi di Manikarnica (Riti della cremazione in India), Africa (Corrispondenza con mia figlia).

Avrei dovuto parlare di tutte le parti dell’opera, ma mi sono limitato a  quelle delle cremazioni e delle migrazioni, sia per motivi di spazio, sia perché mi sono particolarmente care; infatti mi trovo in totale sintonia con i loro contenuti, in quanto uniscono a un tema sempre valido, quello dell’esistenza, un altro attuale che abbiamo continuamente sotto gli occhi, perché le migrazioni ci sono sempre state e sempre ci saranno. Nessuno può impedire a un essere umano di poter mettersi in cammino per sfuggire alla fame o alle guerre, o a entrambe, così che quel percorso intrapreso diventa il viaggio nel viaggio della vita.

Se i temi trattati poeticamente sono di particolare interesse non va sottaciuta l’ecletticità dell’autore, capace di spaziare da tematiche religiose ad altre civili, con una capacità di attrazione che finisce con il coinvolgere il lettore. E’ così che si ritrae l’impressione di essere a New York, a Ellis Island, in attesa dello sbarco di quei miseri in cerca di un futuro migliore ed è sempre così che si finisce con l’essere partecipi dei riti in riva al Gange, affascinati dai contrasti di una terra che è patria dello spirito e ristoro dell’anima. 

Da leggere, lo merita.

Daniela Raimondi è nata in provincia di Mantova e ha trascorso la maggior parte della sua vita in Inghilterra. Ora si divide tra Londra e la Sardegna.
Ha pubblicato dieci libri di poesia che hanno ottenuto importanti riconoscimenti nazionali. Suoi racconti sono presenti in antologie e riviste letterarie. La casa sull’argine, edito da Nord, è il suo primo e, al momento, unico romanzo.
Renzo Montagnoli

 

 

28 Novembre

Mario Rigoni Stern.

Un ritratto

di Giuseppe Mendicino

Laterza Editori

Biografia

 

La biografia

E’ notorio che Giuseppe Mendicino è il maggior conoscitore delle opere di Mario Rigoni Stern, una conoscenza che si è estesa anche all’autore, grazie alle frequentazioni avute, a quei contatti personali che sono più esplicativi di qualsiasi testo, perché spesso è guardandosi negli occhi che si può capire meglio e avere la possibilità di chiedere eventuali chiarimenti. 

Di conseguenza chi avrebbe potuto scrivere una biografia, anzi la biografia, perché questa è ormai un riferimento con cui confrontarsi quando si vuol parlare di Rigoni Stern, meglio di Giuseppe Mendicino? Nessuno, perché con la scomparsa del narratore di Asiago non c’è più da tempo l’opportunità di un colloquio franco e diretto con colui che è oggetto del lavoro.

Qualcuno potrà obiettare che non è difficile scrivere della vita di Rigoni Stern visto che quasi tutte le sue opere parlano della sua esistenza, dalla nascita ad Asiago fino all’ultimo periodo prima della dipartita. E anche quelle che sembrano estranee a questa regola – mi riferisco a Storia di Tönle e a L’anno della vittoria – sono frutto di ricordi di storie raccontate dal nonno e dai genitori quando Mario era bambino. Sì, non è difficile scrivere la biografia di questo grande narratore proprio per il motivo che ho appena esposto e sempre per lo stesso motivo però è difficile, in quanto raccapezzarsi, dare una continuità temporale logica rappresenta una sfida visto che Stern non ha avuto, almeno fino alla fine degli anni ‘50, una vita quieta, perché è passato per una guerra in cui è stato testimone e protagonista di tanti eventi. E poi, nel parlare di un autore, se dire della sua vita ha un senso, visto che la sua produzione la ricalca, è anche indispensabile porre l’accento sulle sue caratteristiche di uomo, che in questo caso si riflettono completamente nel Rigoni narratore. Da ciò risalta l’amore per la natura, la consapevolezza di esserne un umile parte e proprio per questo il profondo rispetto per la stessa. Per Mario Rigoni Stern non esistono alberi, ma gli alberi, cioè vegetali con proprie caratteristiche che oserei quasi definire personalità, così come gli animali non sono solo esseri viventi di rango inferiore, sono creature da amare. E questo amore viscerale per la natura si riscontra in tutte le sue pagine, anche quelle tragiche, come nel caso della ritirata in Russia durante la quale, nonostante le difficoltà, il freddo, la fame, la sofferenza riesce a trovare anche il tempo di ammirare queste enormi distese di neve, una neve che richiama alla memoria quella del suo altopiano. Non è che amando vegetali e animali sia però insensibile nei confronti degli uomini, dei suoi alpini che con sacrificio ha riportato a baita e di quelli che sono rimasti a dormire un sonno eterno nella steppa. Credo che per chi non ha mai letto nulla di Rigoni Stern, prima di passare ai romanzi e alle raccolte di racconti, sia di grande aiuto questa splendida biografia, perché è come ritrarre un’idea di quello che poi avrà il piacere di visionare, una sorta di guida che finisce con l’essere un invito ad accostarsi a questo grandissimo scrittore che ci ha lasciato nel 2008.

Da ultimo, in ordine cronologico e non di minore importanza, ci sono tre brevi saggi dell’autore; rappresentano una sintesi di quello che è stato, sia a livello letterario che personale, Mario Rigoni Stern. Troviamo così L’ Altipiano dei Sette Comuni e altre montagne, un affresco sul rapporto fra il narratore veneto e le nostre Alpi, Tra Col del Vento e Pian di Leguna, sulle tracce di Breve vita felice, dove Breve vita felice è un racconto che fa parte della raccolta Amore di confine, una prosa che riproduce un fatto veramente accaduto e per certi aspetti struggente, e infine quello che costituisce un ritratto di rilevante spessore, cioè L’etica civile di Mario Rigoni Stern, che fa ben comprendere la grandezza  di un uomo che nulla fece per essere grande, perché lo era per sua natura. 

Giuseppe Mendicino è considerato il maggior esperto dello scrittore Mario Rigoni Stern. Con Laterza ha pubblicato Mario Rigoni Stern. Un ritratto (2021). Ha redatto la voce Mario Rigoni Stern del Dizionario Biografico degli Italiani (Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani) ed è autore di Mario Rigoni Stern. Il coraggio di dire no (Einaudi, 2013), Mario Rigoni Stern. Vita, guerre, libri (Priuli & Verlucca, 2016), Portfolio alpino (Priuli & Verlucca, 2018) e Nuto Revelli. Vita, guerre, libri (Priuli & Verlucca, 2019). È socio accademico del GISM (Gruppo italiano scrittori di montagna) e collabora con le riviste «Doppiozero» e «Meridiani Montagne».
Renzo Montagnoli

 

 

21 Novembre

Storie minime

e una poesia per Rocco Scotellaro

di Maria Pina Ciancio

Fara Editore

poesia

 

Un canto per il Sud

Le storie delle proprie origini mi hanno sempre incantato, con le descrizioni di paesini che stanno legati alla terra con la forza della disperazione perché poco a poco si spopolano, avari, prima ancora che di vita, di lavoro. Si trovano soprattutto nel Sud, un meridione che nella sua sventura di essere madre ingrata dei figli mantiene la sua dignità e che così bene ha cantato nella sua pur breve vita Rocco Scotellaro. Più recentemente mi hanno affascinato i versi di Vincenzo D’Alessio, un caro amico purtroppo già scomparso. Ed ecco che allora si spiega il mio interessamento per questa raccolta di Maria Pina Ciancio, poetessa nata in Svizzera, ma poi ritornata nei luoghi delle sue radici, in Lucania.

Anche lei canta la disperazione di chi è costretto ad andare, dell’emigrante che, povero fra i poveri, si mette su un treno sperando in un futuro migliore, con tutto il dolore che può provare chi è costretto a lasciare la sua terra (Evaporano i sogni e dentro i sogni / la storia di mio padre  / quella di valigie di cartone cotte al sole / trascinate a mani strette / dentro vagoni neri di carrubi / e sguardi claudicanti aggrappati al finestrino / …). Sono versi quasi sussurrati, nonostante la passione che l’autore riesce a stento a contenere; non ci sono toni enfatici, c’è una malinconia di fondo che stringe piano piano la gola come un cappio e che impedisce alla voce di uscire, di gridare trasformando il dolore in rabbia per una sorte che è una condanna originaria.

Ritrovo in questi versi lo struggente amore per le sue genti di Rocco Scotellaro, il poeta sindacalista verrebbe da definirlo certamente non sbagliando, ma prima di tutto acuto osservatore di una realtà immutabile che sembra senza tempo. In questo migrare, che porta i corpi lontano, ma con le anime che cercano di non disancorarsi da quel piccolo mondo ingrato in cui si è cresciuti, si nota implacabile lo spaesamento ( Lo spaesamento, ecco cos’è: /  un tempo in cui le mani non sanno più/ se stringersi a pugno / o fermarsi / distendersi a ramo sul cuscino). E’ così che si va con la lacerazione dentro, mentre c’è chi resta, straziato dalla rassegnazione, in un palcoscenico i cui attori recitano la commedia della vita con i loro tradizionali riti, legati ad antichi valori, in cui ritrovano, nel dolore di vivere, il coraggio per vivere.

E’ indubbio l’amore di Maria Pina Ciancio per la sua terra, i versi delle sue poesie sono palpitanti, sgorgano dritti dal cuore, si fanno immagine e atmosfera,  rivelano la ricchezza di un sentimento inalienabile.

In questo quadro mi pare logica una poesia dedicata a Rocco Scotellaro, di cui ebbi a scrivere, recensendo Tutte le poesie 1940 – 1953, il suo tratto distintivo e cioè che “ Mai fu più intensa una così breve vita” . Lo scopo è di renderne il ricordo imperituro e con la memoria del poeta i suoi palpitanti versi, il suo amore per questa terra, per gli uomini che la calpestano e che rimangono nonostante tutto, per quelli che la lasciano con il desiderio di ritornavi già quando partono.

(…/ Se non ti addormenti figlio posso raccontarti la storia di un poeta che morì a trent’anni e che a venti era già giovane Sindaco di paese con il cuore rosso e l’anima di un padre. / …). Nella semplicità che caratterizza tutta la silloge in questi pochi versi c’è tutta la vita di Rocco Scotellaro e più avanti c’è la speranza, mai sopita, di un mondo nuovo, più giusto, più equo, perché la Lucania, il Sud non resti sempre così (.../ Ascolta figlio e impara l’amore e le preghiere / non straziarmi per dimenticanza il cuore / perché vedi, Rocco è tuo fratello grande / e ogni giorno è sempre nuova l’alba).

La raccolta ha collezionato diversi premi, ultimo, recentissimo, il primo premio Poesia minimalista Polverini 2022 e credo che siano tutti più che meritati. Da parte mia non posso che caldeggiarne la lettura.

Maria Pina Ciancio di origine lucana è nata a Winterthur (CH) nel 1965. Trascorre la sua infanzia tra la Svizzera e il Sud dell’Italia, dove attualmente vive coniugando la passione per l’insegnamento a quella per la poesia e la scrittura. Viaggia fin da quand’era giovanissima alla scoperta dei luoghi interiori e dell’appartenenza, quelli solitamente trascurati dai flussi turistici di massa, in un percorso di riappropriazione della propria identità e delle proprie radici.
Ha pubblicato testi che spaziano dalla poesia,
alla narrativa, alla saggistica. Tra i suoi lavori più recenti ricordiamo Il gatto e la falena (Premio Parola di Donna, 2003), La ragazza con la valigia (Ed. LietoColle, 2008). Suoi scritti e interventi critici sono ospitati in cataloghi, antologie e riviste di settore. È presidente dell’Associazione Culturale LucaniArt e su internet cura uno spazio laboratoriale sul romanzo e la poesia in Basilicata: 
lucaniart.wordpress.com
Renzo Montagnoli

 

15 Novembre

I centurioni del Malabar

di Guido Cervo

Edizioni Piemme

Narrativa

 

Legionari romani in India

Ho cominciato a conoscere come autore Guido Cervo leggendo gli unici due romanzi che ha scritto sulle due guerre mondiali del secolo scorso (I ponti della Delizia e Bandiere rosse, aquile nere), poi sono passato alla serie del Teutone (La croce perduta, La battaglia sul lago ghiacciato e La setta dei mantelli neri) e stranamente per ultima la serie con cui il narratore bergamasco ha esordito in campo letterario, quella del Legato romano (Il legato romano, Il generale di Diocleziano, La legione invincibile e L’onore di Roma). Ci si chiederà il perché di questo preambolo e la risposta è molto semplice, perché serve a inquadrare artisticamente Guido Cervo, uno scrittore che di sicuro si può apprezzare per il rigore storico su cui innesta la sua creatività, perché in ogni suo romanzo ci sono, fra gli altri, personaggi esistiti veramente e anche fatti almeno in parte storicamente accertati. A completare il quadro c’è anche una notevole capacità di avvincere il lettore, non disgiunta da un uso della lingua italiana più che corretto. Tutti i suoi lavori mi sono piaciuti e più o meno tutti mi hanno dato l’identico elevato livello di soddisfazione, insomma per farla breve Guido Cervo è uno di quegli autori le cui opere si possono acquistare a scatola chiusa. Questa fiducia trova un’ulteriore conferma in I Centurioni del Malabar, che all’inizio può lasciare perplesso il lettore scoprendo che si tratta di una spedizione romana in India. Dico subito che con ogni probabilità la missione del Tribuno e Legato Imperiale Marco Terenzio Massimo, con i suoi cinquecento classari (fanti di marina), per aiutare Nedunj Cheliyan, maharajah di Madurai, è frutto di pura invenzione, anche se il sovrano indiano è esistito veramente, ma che contatti commerciali fra Roma e l’Asia meridionale ci siano stati è comprovato, così come si ha notizie di viaggi di ambasciatori da quei lontani paese alla Caput mundi e viceversa, e questo aiuta non poco a immergersi nella fantasia della vicenda, perché in pratica non è tutto campato in aria. Peraltro, in questa trama di guerre, di intrighi di corte, di battaglie descritte magistralmente, oserei dire cinematograficamente, ci si avventura nella giungla intricata, nel caldo umido di quei territori, nelle piogge monsoniche, nei colori esotici dell’abbigliamento; sono tutte caratteristiche ambientali proprie   dell’India, ma hanno fatto emergere le mie reminiscenze dei romanzi di Emilio Salgari, con elefanti combattenti, tigri divoratrici di uomini, terribili serpenti velenosi, un invito al piacere dell’avventura. Le pagine scorrono veloci, si vive la vicenda, ci si emoziona per i pericoli che gravano sulla bella Satyavati, consorte del maharajah,  si trepida durante la battaglia finale per la sorte dei legionari, si arriva in crescendo all’ultima pagina e si chiude soddisfatti il libro. Da leggere, non c’è dubbio. 

Guido Cervo (Bergamo, 19 febbraio 1952) vive e lavora a Bergamo, dove ha svolto la professione di docente di Diritto ed Economia presso l'istituto superiore "Maironi da Ponte". I suoi romanzi, tutti pubblicati da  Piemme,  sono il frutto di ricerche storiche approfondite, che contribuiscono alla ricostruzione di affascinanti ambientazioni e scenari, teatro di eventi riguardanti importanti personaggi storici, cui si intrecciano trame nate dalla fantasia dell'autore. Attualmente risultano pubblicate le seguenti opere: Il legato romano (2002), La legione invincibile (2003), L’onore di Roma (2004), Il centurione di Augusto (2005), Il segno di Attila (2005), Le mura di Adrianopoli (2006), L’aquila sul Nilo (2007), I ponti della Delizia (2009), La croce perduta (2010), La battaglia sul lago ghiacciato ( 2011), La setta dei mantelli neri (2013), Bandiere rosse, aquile nere (2016), Il generale di Diocleziano (2020).
Renzo Montagnoli

 

 

9 Novembre

Terre di sangue.

L'Europa nella morsa di Hitler e Stalin

di Timothy Snyder

Rizzoli

Saggistica storica

 

Un buon saggio storico

Leggi una pagina, ne leggi un’altra e cominci a sentire una fitta dentro, come se tutto il tuo corpo si ribellasse, come se tutto il tuo essere non potesse sopportare quell’orrore che lì è stampato, che è frutto del lavoro di uno storico americano, ma che non è invenzione, è solo drammaticamente vero.

Le terre di sangue sono esistite veramente, non con questo nome, perché si tratta di territori dell’Europa centro-orientale, fra cui l’Ucraina, la Bielorussia, la Polonia, gli stati baltici, dove fra il 1940 e il 1943 sono divampate le scellerate politiche sanguinarie di Hitler e di Stalin, sono le zone nelle quali questi due regimi dittatoriali hanno maggiormente sfogato la loro innata malvagità contro dissidenti, ma soprattutto contro inermi popolazioni. A questo bagno di sangue aveva dato inizio già negli anni 1932 – 1933 Stalin affamando i contadini ucraini che si opponevano alla forzata collettivizzazione dell’agricoltura; in questo caso non dovette nemmeno spendere per le munizioni, perché fra gli abitanti dell’Ucraina, privi di ogni sostegno alimentare, ci fu un numero altissimo di vittime, non esattamente quantificabili, ma che studi condotti con raziocinio fanno ascendere all’incirca a quattro milioni. In pratica morirono di inedia intere famiglie, uomini, donne e bambini, molti impazzirono e non furono rari i casi di cannibalismo. Con l’Holodomor, così gli ucraini chiamarono questo genocidio, si aprì quella mattanza che fece scomparire in quelle zone ben più di dieci milioni di persone, come per esempio gli ufficiali polacchi assassinati dai Sovietici, i corpi dei quali furono ritrovati  nelle fosse di Katyn. Da quel 1932 iniziò un flusso e riflusso di sangue che accompagnava le avanzate e le ritirate di tedeschi e russi. Lo studio di Snyder è stato condotto bene, non si può non apprezzare la sua meticolosità, la sua completezza che restituiscono un senso di angoscia nel leggere degli eventi, del numero delle vittime, della ferocia di belve assetate. L’autore è riuscito a dimostrare come i due regimi totalitari, quello nazista e quello sovietico, abbiano compiuto la stessa tipologia di reati, peraltro nello stesso periodo e negli stessi luoghi, comportando così un numero di vittime assai superiore a quello che sarebbe risultato se invece avessero proceduto singolarmente e in epoche diverse. Se lo scopo del libro è stato raggiunto, occorre tuttavia tener conto di alcuni elementi non proprio positivi, fra i quali, soprattutto, la grevità dell’esposizione che rischia di travolgere il lettore e la mancanza di indispensabili approfondimenti per fatti di rilevante importanza, quali per esempio la firma del famoso patto Molotov-Ribentropp, oppure la decisione di Hitler di accelerare lo sterminio degli ebrei nel momento in cui capì che non avrebbe potuto vincere la guerra con L’Unione Sovietica.

Nel complesso direi che Terre di sangue è un buon saggio e porta avanti una tesi innovativa foriera di possibili ulteriori approfondimenti; non posso però considerarla un’opera fondamentale per i motivi che ho sopra esposto, restando comunque un contributo non trascurabile per conoscere i fatti di una determinata epoca. 

Timothy David Snyder, nato il 18 agosto 1969, è uno storico, scrittore e accademico specializzato nella storia dell'Europa orientale e delll' Olocausto.
Tra i suoi libri, Il principe rosso (Rizzoli, 2009), Terre di sangue. L'Europa nella morsa di Hitler e Stalin (Rizzoli, 2011), Novecento. Il secolo degli intellettuali e della politica (Laterza, 2012), Terra nera. L'Olocausto fra storia e presente (Rizzoli, 2015) e Venti Lezioni (Rizzoli, 2017), La paura e la ragione. Il collasso della democrazia in Russia, Europa e America (Rizzoli 2018).
Renzo Montagnoli

 

3 Novembre

Avernus

di Daniela Raimondi

Prefazione di Enrico Di Palma

Nota di lettura di Ivan Fedeli

CFR Edizioni

Poesia

 

Il prima e il dopo

Il titolo di questa silloge fa pensare immediatamente al regno degli Inferi, proprio della mitologia latina, ma è una supposizione errata, perché non si parla di un viaggio nell’oltretomba; secondo me il vero significato è quello di inferno, l’inferno che deve passare in vita una persona la cui morte è annunciata e quella persona è il padre della poetessa. E’ così che abbiamo un diario in versi dell’ultimo periodo su questa terra di un essere umano, con le sensazioni, il timore l’angoscia di chi è presente e lo assiste, vale a dire Daniela Raimondi e gli altri familiari stretti. E’ una forma originale di raccontare, scandita dagli eventi, dalle fasi, fino al momento fatale, ma c’è anche il dopo, c’è quel ripensare a chi ci ha lasciato nella lenta attenuazione del dolore per la scomparsa di una persona cara.

Il vero lutto non fu la sua morte. Non fu nemmeno la sua / assenza. Fu sapere che la sua vita finiva: vivere i giorni del corpo / malato, condividere l’agonia.  /...

E’ questa parte della prima poesia di questa raccolta e credo non ci sia bisogno di spiegazioni, anche perché molti di noi hanno vissuto questi periodi angoscianti, attoniti per l’impossibilità di porre rimedio e per poter lenire le sofferenze. Daniela Raimondi l’ha provato con il padre, io con mia madre. Dalla scoperta della malattia alla morte i versi scandiscono questa fase (.../ “Cos’ha, Dottore?” / Mi ha detto del tumore. L’impossibilità di operare o di curare. / “Quanto tempo gli resta?” - La mia voce era ferma. 7 “Bisognerà fare altri esami, ancora non sappiamo.” - Ha risposto. / Me lo ha detto a occhi bassi. Sapevo che mentiva.) (.../ Passo la notte seduta accanto a te nel Reparto Geriatria. / Sento le battaglie di chi lotta per raggiungere la fine: /    l’eco dei lamenti, il pianto di un vecchio, i passi di un’infermiera. / Un malato bestemmia. / Un telefono squilla. /…) (.../ C’era un letto. / Disteso nel bianco il corpo di uno scon0sciuto. / Un involucro di carne. / Il faraone con le mani incrociate sul petto. / Immobile. / …).

Non tutto finisce con la morte, anzi comincia per chi resta. Nell’inconscio tentativo di assimilare il dolore ciò che si nota è quello che non c’é, è l’assenza, ma si deve tornare a vivere (Poi è tornata la calma, la fame, la noia. / Si è dovuto vivere. Si è dovuto tornare a camminare nel mondo.  / Dimenticare la nebbia. Muoversi di nuovo insieme ai vivi, ai cani, / le formiche, i motorini rossi).

Se nel periodo dell’agonia il dolore di chi assiste impotente è angoscia senza fine, dopo c’è la sofferenza per l’assenza e per  la memoria dei giorni dei giorni di attesa per un evento irrimediabile; sono segni incisi nell’anima che con la quotidianità si cerca di celare, ma sono lì, sempre pronti a uscire, a reclamare la tua attenzione, e così basta una data, un ricordo, un’immagine e, benché non più così violento, riaffiora il dolore.

Si cerca di porre rimedio pensando ai momenti che furono lieti, ma molto più spesso prepotenti ritornano le ore d’angoscia, l’impossibilità di portare un concreto aiuto, le menzogne anche che sono state necessarie per cercare di dare un po’ di sollievo al malato.

Il ricordo è uno sfogo, ma anche la condanna di chi resta.

Daniela Raimondi è nata in provincia di Mantova e ha trascorso la maggior parte della sua vita in Inghilterra. Ora si divide tra Londra e la Sardegna.
Ha pubblicato dieci libri di poesia che hanno ottenuto importanti riconoscimenti nazionali. Suoi racconti sono presenti in antologie e riviste letterarie. La casa sull’argine, edito da Nord, è il suo primo e, al momento, unico romanzo
Renzo Montagnoli

 

 

28 Ottobre

Viva Migliavacca!

e altri 12 racconti

di Piero Chiara

Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Narrativa

 

Una piacevole raccolta

Piero Chiara, se non scrisse molti romanzi, tuttavia diede alle stampe parecchi racconti, dimostrando così che la prosa breve gli era particolarmente gradita. E’ anche questo il caso di Viva Migliavacca! e altri 12 racconti, tredici piccole perle, molto variegate. Si va dal primo racconto, Con quel naso, una storia boccacesca, con un risvolto malinconico, all’ultimo, Viva Migliavacca!, che è sostanzialmente una parodia di un capitalismo estremizzato, in cui l’uomo che si fa da sé, accumula ricchezze e potere, si illude di poter disporre della propria vita e del suo destino. Fra gli altri ne troviamo in cui è presente una nota satirica, talvolta dolente, come in Il martire che prende spunto dall’omicidio non per motivi politici di un giovane fascista, che il regime fa diventare un martire, con il padre costretto a piangerlo solo in privato, perché nelle cerimonie pubbliche deve continuare a ricordarlo senza lacrime; ci sono però anche quelli in cui predomina una malinconia di fondo per i fatti della vita che sembrano congiurare contro chi ne ha tratto sofferenza, come nel caso di E’ tornato Gaudenzio, il ritorno a casa di un reduce dalla prigionia in Germania, dove si ritrova in un natio paese così diverso da prima, beneficato in verità dal signor Gino, un imprenditore la cui generosità non è senza tornaconto e che, fra l’altro, è diventato l’amante della moglie.

In genere i racconti sono tutti azzeccati, anche se ovviamente ce ne sono di diversa qualità – ma comunque sempre di buon livello – e poi c’è quello in cui Chiara eccelle ed è Un colpo di fucile, per il quale desidero spendere qualche parola in più. Infatti la creatività che vi è profusa ha quasi dell’incredibile; la vicenda è intricata, il personaggio chiave, Giacinto Rimoldi, soprannominato il “Cudegoma” per via della sua sagoma elefantesca e dell’eccessiva grossezza dei suoi quarti posteriori, è uno di quelli che non si possono dimenticare, un uomo veramente “tuttofare”.

Insomma, questi tredici racconti riflettono le caratteristiche del loro autore ormai maturo come tale e come uomo, con i sentimenti attenuati, un velo di malinconia che consente un certo distacco (non troppo, però) nel narrare le vicende e un apparente continua ricerca dei risvolti delle storie, come se fossero un divenire continuo a cui appassionarsi al pari del lettore ansioso di sapere come andrà a finire.

 Piero Chiara nacque a Luino nel 1913 e morì a Varese nel 1986. Scrittore tra i più amati e popolari del dopoguerra, esordì in narrativa piuttosto tardi, quasi cinquantenne, su suggerimento di Vittorio Sereni, suo coetaneo, conterraneo e grande amico, che lo invitò a scrivere una delle tante storie che Chiara amava raccontare a voce. Da Il piatto piange (Mondadori, 1962), che segna il suo esordio vero e proprio, fino alla morte, Chiara scrisse con eccezionale prolificità, inanellando un successo dopo l'altro.

E' stato autore particolarmente fecondo e fra le sue numerose pubblicazioni figurano Il piatto piange (1962), La spartizione (1964), Il balordo (1967), L'uovo al cianuro e altre storie (1969), I giovedì della signora Giulia (1970), Il pretore di Cuvio (1973), La stanza del Vescovo (1976), Il vero Casanova (1977), Il cappotto di Astrakan (1978), Una spina nel cuore (1979), Vedò Singapore? (1981), Il capostazione di Casalino e altri 15 racconti (1986).
Renzo Montagnoli

 

23 Ottobre

Enchiridion celeste

poesie

di Alessandro Ramberti

Fara Editore

Poesia

 

Non arrendersi mai

Il primo problema che ho dovuto affrontare nel leggere questa raccolta è stato il titolo, per me del tutto incomprensibile. Qualcuno potrà dire che è una parola greca, ma a suo tempo purtroppo ho studiato solo il latino, e non anche il greco. E allora mi sono dato alle ricerche, in Internet, e così ho appreso che è un manuale ed è anche il titolo di uno scritto di filosofia e di etica stoica dello scrittore greco-romano Arriano. E quel celeste perché c’è? Il manuale potrebbe essere di qualsiasi colore, ma perché proprio celeste? Ci penserò, perché può darsi che nel corso di lettura arrivi la risposta.

Si diceva del manuale e di che si tratti si capisce abbastanza facilmente, in pratica sono consigli su come accettare con serenità i dubbi e i timori che sono insiti nella strada della vita che percorriamo. Senza con questo fornire un modo di comportamento, anche perché tanti, anzi troppi sarebbero i casi, verso dopo verso, pur apprezzando l’opera, ho in me quel tarlo che reclama, dapprima lieve, e poi a viva voce, il motivo di quel celeste.  Quasi a indispettirmi devo arrivare quasi in fondo per scoprirlo, perché dopo una prima parte intitolata “Idilli” ne viene una seconda, che nemmeno a farlo apposta l’autore  ha classificato come “Piccolo manuale per abbracciare il cielo”.  Devo tuttavia riconoscere che, considerando il notorio spirito religioso di Alessandro Ramberti, avrei dovuto capire subito, ma allora come avrei potuto leggere anche con l’interesse di chi sta cercando una risposta le poesie che compongono la raccolta? Non avrei potuto forse apprezzare nella giusta misura “Nel bosco” ( Un tuono mi richiama / risalgo dal torpore / mi aggrappo a delle immagini / la luna sul sentiero / il rumore dei sassi / un niente di respiro.) che non sono solo versi con cui si descrive un aspetto della natura, ma sono il risvolto intimistico di una visione che va oltre la realtà, una sensazione di un’immagine che si vede più con il cuore che con gli occhi.

C’è sempre nell’uomo quell’ansia di correre, di fuggir via non si sa da cosa, di leggere a raffica le poesie, di trovarsi poi all’ultima sera con in mano solo un pizzico di fredda cenere, è in fondo un passar via per non affrontare i dubbi e i timori della vita, e invece c’è sempre una via di fuga e siamo noi a doverla cercare, un percorso che non è senz’altro facile, ma che ci fortifica, ci rende uomini, dà un senso a un’esistenza che da grigia può diventar celeste.

Da leggere, non c’è dubbio.

Alessandro Ramberti (Santarcangelo di Romagna, 1960) laureato in Lingue orientali a Venezia, master (UCLA) e dottorato (Roma Tre) in Linguistica, ha pubblicato in prosa: Racconti su un chicco di riso (Pisa, Tacchi 1991) e La simmetria imperfetta con lo pseudonimo di Johan Haukur Johansson (2022). Con la poesia Il saio di Francesco ha vinto il Pennino d’oro al Concorso Enrico Zorzi 2017. Le più recenti raccolte di versi sono: Vecchio e nuovo (2019), Faglia (2020) e Medèla (2021).
Renzo Montagnoli

 

 

16 Ottobre

La congiura del doppio inganno

di Tiziana Silvestrin

Scrittura & Scritture Edizioni

Narrativa

 

Fra Mantova e Venezia

Era da un po’ di tempo che non avevo l’occasione di incontrarmi con Biagio dell’Orso, per l’esattezza dalla fine dell’inverno del 2019 quando ho avuto il piacere di leggere La profezia dei Gonzaga, quinto episodio con protagonista il capitano di giustizia più affascinante della storia italiana del Cinquecento.  Poi c’è stato un periodo di silenzio e probabilmente anche il Covid ha avuto il suo peso, ma finalmente quest’anno ha fatto la sua comparsa nelle librerie il sesto episodio, un intricato giallo frutto, come i precedenti, della fantasiosa penna di Tiziana Silvestrin. Dopo quasi quattro anni dall’ultima lettura devo dire che mi sono accostato con emozione a La congiura del doppio inganno, a testimonianza che a tanto è arrivata la capacità dell’autore di fidelizzare i suoi lettori. Del resto il protagonista principale e quelli che possiamo definire coprotagonisti, vale a dire la bella Rosa, fidanzata di Biagio,  e il dottor Donati, consigliere del Duca di Mantova, sono stati già in origine ben delineati con pochi e sicuri tratti di penna e a ogni episodio c’è un piccolo tratteggio, a beneficio di chi per la prima volta si accosta a questa fortunata serie di gialli storici.

Questa volta il thriller è particolarmente intricato perché il capitano di giustizia indaga sull’uccisione di due sorelle, avvenuta a Mantova in due giorni diversi anche se molto vicini. Purtroppo, per proteggere Rosa dalla vendetta di alcuni sicari che Biagio ha perseguito, si preferisce allontanarla da Mantova mandandola a Venezia nella sua locanda, seguita a breve dal fidanzato che ha rassegnato le dimissioni dall’incarico di capitano di giustizia, con suo grande dispiacere tanto più che è ritornato a Mantova, con la raccomandazione di un ministro dell’imperatore, l’ex podestà, un pessimo individuo con cui esiste un conto in sospeso. Anche a Venezia ci sono dei misteriosi omicidi, gente accoltellata, senza che si sia potuto scorgere l’assassino che lascia sul luogo del delitto una berretta gialla, copricapo distintivo degli ebrei. Antonio Mocenigo, Signore della Notte, che svolge un incarico affine a quello di capitano di giustizia, non sapendo più che pesci pigliare e avuto notizia che a Venezia c’è un famoso ex investigatore, cioè Biagio dell’Orso, chiede il suo aiuto. E da lì si dipana una vicenda di grande tensione e particolarmente  avvincente di cui non dico nulla per non guastare il piacere di chi leggerà.

Mi sembra logico invece anticipare che le indagini di Mantova e Venezia assicureranno i colpevoli alla giustizia, dopo una serie di colpi di scena particolarmente azzeccati.

Mi è piaciuto anche questo episodio, però quando arriva l’ultima riga mi prende sempre un senso di sconforto, perché temo che non ci possano esserne di ulteriori, ma poi mi dico che la formula è così ben oliata e che la creatività di Tiziana Silvestrin è così ben sperimentata che è impossibile non possa esserci un seguito; è quel che spero ed è anche la raccomandazione che faccio all’autore.

Tiziana Silvestrin vive e lavora a Mantova. Entrata a far parte di una compagnia di teatro amatoriale, inizia a scrivere commedie. Alla passione per la recitazione e per la lettura, si aggiunge la curiosità per la storia. Quando, con un racconto, vince un premio letterario, le viene il sospetto che forse può mettere a frutto le sue ricerche per scrivere gialli storici. Così, mescolando fantasia, storia, personaggi reali e non, ha scritto I leoni d’Europa (2009), Le righe nere della vendetta (2011), Un sicario alla corte dei Gonzaga (2014), Il sigillo di Enrico IV (2017) e La profezia dei Gonzaga (2018). Tutti pubblicati da Scrittura & Scritture.
Renzo Montagnoli

 

 

11 Ottobre

Il medico di campagna

di Honoré de Balzac

Traduzione di Andrea Zanzotto

Introduzione di Ferdinando Camon

Edizioni Garzanti

Narrativa

 

Un mondo ideale

Se le aspirazioni politiche di Balzac furono deludenti, tanto che non riuscì a farsi eleggere deputato, miglior fortuna - se non dopo un periodo abbastanza lungo di magra - ebbe il suo desiderio di diventare uno scrittore di successo; al riguardo non è difficile vedere un nesso logico fra la mancata carriera politica e un romanzo scritto nel 1833, Il medico di campagna. In questo libro profuse tutte le sue idee di una amministrazione pubblica perfetta immaginando un paese montano, nei pressi di Grenoble, in cui grazie alle intuizioni e alle scelte del dottor Benassis, medico, nonché sindaco del villaggio, la popolazione da uno stato di indigenza passa a uno di prosperità, non solo materiale.  Che il sanitario sia una specie di benefattore è indubbio, tanto più che viene da un’esperienza parigina tutt’altro che edificabile, per non dire riprovevole, ma l’uomo desidera riscattarsi e vi riesce pienamente, come ha modo di constatare un vecchio soldato, il comandante Genestas, giunto fin lì per farsi curare per malanni non ben precisati. E’ un mondo nuovo quello  fondato da Benassis, basato sulla fede e sul lavoro, in pratica sul cattolicesimo e sul capitalismo. Quest’ultimo è indispensabile per avviare le prime attività che consentono l’avvio di un timido benessere e poi una crescente diffusione della ricchezza ed è allora che diventa importante la religione, per temperare la spinta dei nuovi investimenti, per finalizzarla a scopi più elevati di quello che può essere il risultato economico del singolo, volgendola invece a portare in palmo di mano un interesse collettivo. Per fa questo occorre una forza morale e questa viene data dalla fede, da un sentimento comune di appartenenza. Verrebbe da pensare al famoso motto: tutti per uno, uno per tutti. Si tratta di una bellissima idea su cui fantasticare, ma idea resta, inapplicabile tale e quale è stata concepita. Del resto di ipotesi di comune esistenza ne fiorirono parecchie nel XIX secolo:  senza andare a scomodare Marx, il cui pensiero economico e filosofico può apparire vicino a quello di Balzac, ma che invece ne è lontanissimo, mi viene in mente il Cristo dell’Amiata, Davide Lazzaretti, fondatore di una comunità con caratteri propri di un socialismo mistico, senz’altro utopistico, guarda caso sorta nella seconda metà del 1800, esperienza conclusasi tragicamente, con l’uccisione dello stesso Lazzaretti, e lo scioglimento di quella che potrebbe essere definita, come nel caso anche del villaggio del romanzo di Balzac, una Comune.

Se però si è ben consapevoli dell’impossibilità di trasformare una società secondo lo spirito del dottor Benassis e quindi si dà per certo che tale idea sia del tutto utopica, resta valido il concetto secondo il quale chi amministra una comunità lo deve fare nell’esclusivo interesse della stessa, svolgendo, più che un incarico, una missione, concetto che ahimè cozza con la realtà del nostro paese, in cui i politici costituiscono una casta che si autoalimenta rappresentando, anziché i cittadini elettori, solo gli eletti.

Il medico di campagna finisce così con il diventare un esempio di quello che dovrebbe essere il buongoverno, con l’aiuto di felici descrizioni dell’ambiente e di proficue conversazioni che fanno dimenticare lo stile inevitabilmente un po’ datato, ma comunque mai greve, un’opera insomma che mette in luce altre caratteristiche di Balzac, un autore che dopo quasi due secoli è sicuramente ancora apprezzabile.

Honoré de Balzac (Tours, 20 maggio 1799 – Parigi, 18 agosto 1850), nacque in una famiglia della media borghesia e solo dal 1830 aggiunse il «de» al suo cognome; suo padre, che era stato segretario del consiglio del re durante l’Ancien Régime, fu poi capo della sussistenza della 22a divisione militare di Tours; la madre proveniva da una famiglia di commercianti. Dal 1807 al 1813 studiò come interno nel Collège de Vendôme. Quando la famiglia si trasferì a Parigi, iniziò gli studi di giurisprudenza e seguì alla Sorbona i corsi di Cousin, Guizot, Villemain.
Nel 1819 i genitori gli concessero un periodo di prova per saggiare la sua vocazione letteraria. In una mansarda del quartiere della Bastiglia, in rue Lesdiguières, scrisse le sue prime opere, una tragedia in versi, Cromwell, e un romanzo filosofico, Sténie. L’insuccesso lo spinse a cercare nel giornalismo e nella letteratura spicciola un mezzo per assicurarsi l’indipendenza.
Dal 1821 al 1829, pubblicò, da solo o in collaborazione e sotto vari pseudonimi, opere narrative spesso ispirate al «romanzo nero» inglese, e un gran numero di saggi e articoli. Oltre che giornalista, fu anche editore e tipografo, ma senza successo e si ritrovò, a trent’anni coperto di debiti.
Fu allora che pubblicò un romanzo storico sulla ribellione della Vandea, Gli Sciuani (Les Chouans, 1829), che ottenne un discreto successo; a esso seguì quasi subito il saggio La fisiologia del matrimonio (La physiologie du mariage, 1830), che fece scandalo e rese noto lo scrittore presso il grande pubblico. Pubblicò le novelle che compongono le Scene della vita privata (Scènes de la vie privée, 1830), poi La pelle di zigrino (La peau de chagrin, 1831), Il colonnello Chabert (Le colonel Chabert, 1832), Il curato di Tours (Le curé de Tours, 1832), Louis Lambert (L’histoire intellectuelle de Louis Lambert, 1832), Il medico di campagna (Le médecin de campagne, 1833), La ricerca dell’assoluto (La recherche de l’absolu, 1834), Le sollazzevoli istorie (Contes drolatiques, 1832-37).
Degli stessi anni sono Eugénie Grandet (1833) e Papà Goriot (Le père Goriot, 1834), le sue due opere più famose e forse più perfette.
Fu allora che Balzac concepì l’idea, destinata a sfociare nella Commedia umana (La Comédie Humaine), di fondere tutti i suoi romanzi in un’opera unica, facendo riapparire in nuove vicende gli stessi personaggi delle opere precedenti e organizzando i vari romanzi e racconti in modo da presentarli come parti autonome, ma complementari, di un quadro d’insieme.
Nel 1833 ebbe inizio, con uno scambio di lettere, la sua relazione con una ricchissima nobildonna polacca Eve (Eveline) Háska, che lo scrittore sposò solo dopo molti anni. Le lettere che egli le scrisse sono il documento più completo sulla sua vita, descrivendo le rovinose imprese economiche dello scrittore e la sua straordinaria volontà.
Nel 1841 firmò il contratto per la grande edizione delle sue opere narrative, illustrata da pittori come Gavarni, Meissonnier, Daumier, per la quale ben quattro editori si erano consorziati e alla quale egli premise il famoso Avant-propos del 1842.
Dopo questa data, continuò a produrre (ricordiamo fra l’altro I contadini, Les paysans, del 1844, e il ciclo I parenti poveri, Les parents pauvres, del 1846-47), ma il fisico dello scrittore era logorato, il suo morale era minato dai continui rifiuti dell’Académie française e dall’ostilità di critici e giornalisti invidiosi del suo successo. Nel 1850 sposò la Háska, ma lo scrittore non sopravvisse che qualche mese alle nozze. Morì a Parigi, nella casa lussuosamente arredata di rue Fortunée (ora rue Balzac), la sera del 18 agosto.

Fonte: parzialmente tratta dall'Enciclopedia della Letteratura Garzanti
Renzo Montagnoli

 

 

4 Ottobre

I promessi sposi di Piero Chiara

di Piero Chiara

Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Narrativa

 

Lucia, la porcellina

Nel rileggere per l’ennesima volta I promessi sposi mi sono chiesto se Alessandro Manzoni, anziché essere nato nel XIX secolo avesse visto la luce nel XX, come avrebbe scritto la sua opera più famosa, e non mi riferisco tanto all’aspetto linguistico, a quella ricerca del perfezionismo nell’italiano, bensì allo svolgimento della trama. E’ indubbio che all’epoca vigeva una certa morale che giudicava sconveniente tutto quanto riguardasse l’aspetto sessuale, circostanza acuità dal cattolicesimo francamente bigotto  di Manzoni. La risposta sembrerebbe impossibile, ma c’è chi ha provveduto a riscrivere il celebre romanzo secondo i canoni  e l’etica del secolo successivo con lo scopo di stilare una sceneggiatura per un film che poi non si fece. E infatti questa aggiornata versione dei Promessi sposi ha tutti gli aspetti di una bozza necessaria per poter pensare di trarne una pellicola. Mi sembra giusto chiedersi chi è stato che ha osato così tanto, chi è stato questo dissacratore nato?  Questa volta la risposta non dovrebbe essere difficile, perché il Pierino autore di questa specie di parodia, e Pierino lo era come registrato all’anagrafe, è quel grande scrittore, cantore della provincia, che risponde al nome di Piero Chiara. E poiché la trama originaria imbastita dal Manzoni è quella di un amore quasi platonico fra due giovani popolani, contrastato dalla libidine feroce di un signorotto, si buon ben immaginare quanta sia stata materia su cui lavorare, tanto che avrebbe potuto essere fonte di ispirazione per un poeta licenzioso come Pietro Aretino.

Ciò che nel romanzo di Manzoni può essere intuito, soprattutto con il senso etico attuale, Chiara mette in chiaro e mi scuso per il gioco di parole, ma sta di fatto che sentimenti, emozioni, comportamenti sono espliciti, senza per questo modificare la personalità dei personaggi manzoniani. Infatti, Don Abbondio è il pavido che ben conosciamo, ma con dei sani appetiti sessuali che vengono placati da Perpetua, una donna florida e con un seno abbondante; Lucia non è la giovane pudica e timorata di Dio che conosciamo, anzi è molto appariscente, tanto da irretire Don Rodrigo e soprattutto da risvegliare le insane voglie di Fra  Cristoforo e dell’innominato, che risponde al nome di Bernardino Visconti e che  si scoprirà impotente. La fanciulla, tutt’altro che ingenua, è come un ape che svolazza di qua e di là, turbando i sensi degli uomini, fra i quali il povero Renzo, che non si chiama più Tramaglino, ma Brambilla, e che sarà la vera vittima, colui che resterà con il cerino in mano e costretto a una forzata astinenza. La pulzella approfitterà della peste e della morte della padrona della casa dove è ospitata per impalmare il ricco vedovo, un nobile spagnolo da cui avrà un figlio, fra Cristoforo e don Rodrigo saranno stroncati dal morbo e Renzo...Renzo che si era messo nei guai come presunto sobillatore dei tumulti del pane si ricongiungerà con la sua ex promessa sposa, trovando occupazione  da lei come umile cocchiere. Insomma si tratta di una parodia godereccia,  ideale per trascorrere allegramente alcune ore ed è inutile pretendere di più. Poi il film, che doveva essere diretto da Marco Vicario non si fece, e allora Piero Chiara, memore che non doveva essere buttato via nulla, soprattutto se ottenuto con il sudore della fronte, adattò la sceneggiatura, facendola diventare un romanzo. E fece bene.

Piero Chiara nacque a Luino nel 1913 e morì a Varese nel 1986. Scrittore tra i più amati e popolari del dopoguerra, esordì in narrativa piuttosto tardi, quasi cinquantenne, su suggerimento di Vittorio Sereni, suo coetaneo, conterraneo e grande amico, che lo invitò a scrivere una delle tante storie che Chiara amava raccontare a voce. Da Il piatto piange (Mondadori, 1962), che segna il suo esordio vero e proprio, fino alla morte, Chiara scrisse con eccezionale prolificità, inanellando un successo dopo l'altro.

E' stato autore particolarmente fecondo e fra le sue numerose pubblicazioni figurano Il piatto piange (1962), La spartizione (1964), Il balordo (1967), L'uovo al cianuro e altre storie (1969), I giovedì della signora Giulia (1970), Il pretore di Cuvio (1973), La stanza del Vescovo (1976), Il vero Casanova (1977), Il cappotto di Astrakan (1978), Una spina nel cuore (1979), Vedò Singapore? (1981), Il capostazione di Casalino e altri 15 racconti (1986).
Renzo Montagnoli

 

 

26 Settembre

Come sugli alberi le foglie

di Gianni Biondillo

Guanda Editore

Narrativa

 

La dura realtà della guerra

Gli anni corrono veloci e del passato, soprattutto quello che non ci ha visto presenti, spesso e volentieri abbiamo solo alcuni cenni, i più importanti, i più significativi. Proprio per questo credo che pochi sapranno che cosa sia stato il futurismo, un movimento d’avanguardia letterario, artistico, culturale e musicale nato in Italia nel primi anni del secolo scorso (il Manifesto Futurista è del 1909), con cui si esaltava la tecnica, con una fiducia illimitata nel progresso, considerando decadute le vecchie ideologie, sbeffeggiate con  l’epiteto “passatiste”; inoltre era presente e forte l’esaltazione del dinamismo, dello spirito guerriero, e della guerra, considerata purificatrice. E infatti fra gli accesi sostenitori della Grande Guerra ci furono appunto i futuristi. Filippo Tommaso Marinetti, Umberto Boccioni, Carlo Carrà,  Giacomo Balla, Gino Severini, Luigi Russolo furono i firmatari del manifesto e ad essi successivamente  si aggiunsero altri, fra i quali  Antonio Sant’Elia, architetto, a cui si deve un manifesto futurista dell’architettura e che, nella sua pur breve vita, ideò una miriade di progetti avveniristici.

Non è probabilmente un caso se Come sugli alberi le foglie, un romanzo storico che richiama una celebre poesia di Ungaretti, sia stato scritto da  Gianni Biondillo, giallista di buon livello, ma anche di professione architetto.

All’inizio della lettura ho avuto l’impressione che l’autore avesse come scopo solo il tema del futurismo, ma mi sono dovuto ricredere, perché questa piacevole opera è soprattutto contro la guerra; eppure sappiamo che Tommaso Filippo Marinetti e gli altri non si sono limitati a discorsi veementi che incitavano a intraprendere un conflitto con l’Austria, ma si sono arruolati in massa, coerenti con la loro idea. Tuttavia le sofferenze sui campi di battaglia, la disumanità che riduceva gli uomini a carne da cannone,  la “bella morte” che si dimostrava tutt’altro che bella, incisero profondamente sullo spirito di questi interventisti, che comunque si batterono con coraggio, meritando anche medaglie al valore. Si accorsero però soprattutto dell’estrema incertezza della vita, quella stessa incertezza che fece scrivere a Ungaretti “Soldati” (Si sta come / d’autunno / sugli alberi / le foglie).

Fra tutti i personaggi spicca, perché è quasi sempre presente, Antonio Sant’Elia, l’architetto, una figura che diventa il protagonista principale e che cadrà in combattimento il 10 ottobre 1916 durante un assalto nei pressi di quota 85 di Monfalcone, vicino al cimitero in corso di costruzione per i caduti della Brigata Arezzo, l’ultimo dei suoi tanti progetti. Nelle linee generali il romanzo rispecchia la storia, con un ritmo che a volte rallenta, e altre accelera, come nel caso della cattura e conseguente esecuzione di Cesare Battisti e di Damiano Chiesa. Inoltre è anche opportunamente inserita nella trama una relazione amorosa che riguarda Antonio Sant’Elia,  un sentimento naturale e descritto quasi pudicamente con una vena di poesia che non solo non guasta, ma apporta altri valori all’opera.

Come sugli alberi le foglie mi è piaciuto, si legge facilmente, è uno di quei libri che, senza diventare un capolavoro, si avvicina all’eccellenza e lo fa con semplicità, in punta di piedi, senza ricorso a stereotipi e alla non infrequente retorica che invece si incontra sovente in molte opere in cui è presente la guerra.

Gianni Biondillo (Milano, 3 febbraio 1966). Architetto e saggista scrive per il cinema e per la televisione. Fa parte della redazione di Nazione Indiana. Ha pubblicato per l'Universale di Architettura diretta da Bruno Zevi, Carlo Levi e Elio Vittorini. Scritti di architettura (1997) e Giovanni Michelucci. Brani di città aperti a tutti (1999).
Nel 2001 ha pubblicato, per Unicopli: Pasolini. Il corpo della città, con un'introduzione di Vincenzo Consolo.
Il suo primo romanzo, nel 2004 per i tipi di Guanda, è Per cosa si uccide, "un tributo di riconoscenza dello scrittore verso la propria città, che viene descritta in tutte le sue molteplici sfaccettature".
Sempre per Guanda sono usciti Con la morte nel cuore  (2005), Per sempre giovane (2006), Il giovane sbirro (2007) e nel 2008 la raccolta di saggi Metropoli per principianti, il saggio Manuale di sopravvivenza del padre contemporaneo, scritto a quattro mani con Severino Colombo, oltre all'antologia di racconti erotici al maschile da lui curata, Pene d'amore.
Del 2014 il racconto lungo Nelle mani di Dio. Un'indagine dell'ispettore Ferraro (Guanda).
Nel 2015 ha pubblicato L'incanto delle sirene. Un'indagine dell'ispettore Ferraro, nel 2016 Il giovane sbirro Come sugli alberi le foglie, e nel 2018 Il sapore del sangue sempre con Guanda. 
Renzo Montagnoli

 

 

17 Settembre

La casa sulla Marteniga

di Tina Merlin

Cierre Edizioni

Narrativa

 

Una lettura sorprendentemente piacevole

Ai giovani, ma anche a non pochi della mia età, il nome Tina Merlin non dice niente ed è già tanto, se in un tentativo di dimostrare il loro grado di conoscenza la confondono con la senatrice socialista Lina Merlin che nel 1958 ebbe il merito di promuovere la legge che abolì la regolamentazione della prostituzione, con conseguente chiusure della case di tolleranza e che introdusse anche i reati di sfruttamento e favoreggiamento della prostituzione.

Se Lina Merlin fu indubbiamente una donna battagliera, volta a eliminare il degrado del suo sesso, Tina Merlin va invece giustamente ricordata per la lunga battaglia che condusse per portare alla luce la verità sulla costruzione della diga del Vajont, e questo ben prima della nota tragedia avvenuta il 9 ottobre 1963. Di orientamento politico di sinistra (era iscritta al Partito Comunista) di professione faceva la giornalista per l’Unità, ma amava anche scrivere, oltre agli articoli, saggistica e  narrativa, come nel caso di La casa sulla Marteniga.

La lettura di questo libro è stata determinata dalla mia curiosità di sapere come scrivesse Tina Merlin e diciamo che non avevo grandi aspettative, perché ero convinto che fosse una semplice cronaca di quella che è stata la vita dell’autore fino alla fine della seconda guerra mondiale. Pagina dopo pagina ho dovuto invece riscontrare con vero piacere che mi sbagliavo, perché La casa sulla Marteniga mi ha rivelato una scrittrice di grande valore, capace di narrare della propria vita con sincerità, in modo semplice ma efficace, e di sondare l’animo umano con una capacità senz’altro invidiabile. Un altro pregio è dato dal fatto che, nonostante la militanza politica, questa non si avverte mai, senza dimenticare che, seppur bocciata in quinta elementare, per poi abbandonare la scuola e andare subito a servizio presso famiglie milanesi, ha uno stile gradevole e fa un uso corretto della lingua italiana, qualità che impreziosiscono ancor più quest’opera, pubblicata solo dopo la sua morte. La casa sulla Marteniga piacque tanto a Mario Rigoni Stern, che ne curò una breve presentazione, e se si considerano i temi di cui scrisse l’autore asiaghese è del tutto comprensibile; infatti in Tina Merlin ritroviamo lo stesso stupore per la natura, le riflessioni sui fatti del mondo -  in particolare nei colloqui con la madre alla fine di ogni capitolo -,  tutti argomenti cari a Rigoni Stern.

In queste pagine non c’è altro che la vita, dura e all’apparenza senza speranza di un ceto povero, come quello contadino, in un’epoca in cui ancora esisteva quella civiltà contadina di cui tanto ha ben narrato Ferdinando Camon. La Marteniga è un torrente che bagna parte dei confini della piccola proprietà dei Merlin ed è come una linea di confine che divide i poveri del contado dagli agiati del vicino paese, una barriera che Tina vuole superare per rivendicare la sua dignità di essere umano alla ricerca della realizzazione di un mondo più giusto e più equo. Un cambiamento non sarà tuttavia possibile fino a quando impererà il fascismo; sarà la guerra, grazie soprattutto alla Resistenza, che darà una svolta a questa umanità fino ad allora senza speranza. La Merlin vi parteciperà assai giovane come staffetta, un servizio umile, ma indispensabile e pericoloso. E anche qui nella narrazione non ci sono eroi, ci sono solo esseri umani in cerca di riscatto. Ci furono tanti morti fra i partigiani e fra questi anche il fratello, gente caduta combattendo per un mondo nuovo che, però, finita la guerra piano piano ritornò a essere quello delle ingiustizie sociali, della prevaricazione del più forte sul più debole. Tina Merlin accenna appena e malinconicamente a questa delusione, ma non si considera vinta, perché la speranza in lei è ancora viva e forte.

Da leggere, merita senz’altro.

Tina Merlin nasce a Trichiana (Belluno) il 19 agosto 1926 e muore a Belluno il 22 dicembre 1991. Durante la guerra di liberazione è stata staffetta partigiana. Inizia la sua attività letteraria scrivendo racconti che vengono pubblicati sulla rivista Noi donne. Dal 1951 al 1967 è corrispondente locale del quotidiano L’Unità. Esordisce come scrittrice con Menica (1957), raccolta di racconti partigiani. Segue da vicino le vicende del Vajont. tentò di pubblicare un libro sulla vicenda, Sulla Pelle viva. Come si costruisce una catastrofe. Il caso del Vajont, che tuttavia trovò un editore solo nel 1983.
Renzo Montagnoli

 

12 Settembre

Ragazzi di zinco

di Svetlana Aleksievič

Edizioni e/o

Narrativa

 

Un libro imperdibile

Dopo aver letto Gli ultimi testimoni (i ricordi degli allora bambini di quella che fu per loro la seconda guerra mondiale) e Preghiera per Cernobyl’ (la ricostruzione non tanto degli avvenimenti, ma dei sentimenti della popolazione vittima della tragedia causata dall’esplosione del reattore numero quattro) ho messo mano, anzi ho messo gli occhi su Ragazzi di zinco, un ennesimo dramma provocato dalla guerra condotta in Afganistan dall’Unione Sovietica, che costò ai russi dell’epoca 26.000 morti e circa 54.000 feriti su un totale di 130.000 effettivi, senza dimenticare le vittime dell’alleato esercito della repubblica democratica dell’Afganistan (18.000 morti) e quelle civili, il cui computo è assai difficile, ma che si possono fare ascendere a una forbice fra 600 mila e 2 milioni. Come è noto in questo conflitto l’Unione Sovietica si dissanguò e di fatto le conseguenze furono la caduta del comunismo. Anche per Ragazzi di zinco la Aleksievič usa la tecnica positivamente sperimentata di fare raccontare questa guerra dai militari che vi hanno combattuto, dalle loro madri, dalle loro mogli; ne risulta così una narrazione corale che ha il potere dell’autenticità e che ben riesce a descrivere un dramma che coinvolge il lettore, lo rende spettatore sgomento e attonito di efferatezze, di stragi, di dolore, di un inferno in terra che nessuna fantasia può immaginare. Ci sono soldati usciti di senno, altri invalidi privi di gambe e braccia, altri ancora che hanno superato il confine che separa l’essere umano dalla bestia e che sono diventati incapaci di condurre un’esistenza normale in quel mondo che avevano lasciato andando in guerra e che ora non riconoscono più.

Per i morti parlano le madri, le vedove che hanno visto rientrare i loro cari dentro casse di zinco, acclamati dal partito come eroi di una guerra inutile e solo di potenza, avviata per nascondere la tragica realtà di un regime morente. In Afganistan ai soldati russi manca tutto, non ci sono bende, cerotti, siringhe, sono mandati allo sbaraglio senza un calcolo strategico di ampio respiro e privi di un supporto tattico, una storia che si ripete, si potrebbe dire, viste le attuali carenze dimostrate nel corso dell’attuale conflitto con l’Ucraina, ma quello di mandare insensatamente al macello le proprie truppe sembra una costante dei russi, come già visto nel corso della Grande Guerra e della seconda guerra mondiale. L’elemento umano è disumanizzato, gli si fa credere dapprima che è inviato magari a Taskent e poi da là lo si sposta a Kabul, gli si dice di una guerra patriottica, che è invece è nazionalista, lo si arruola con la falsa promessa di andare in Afganistan per costruire scuole, ospedali, infrastrutture civili. E’ un copione quindi che si ripete: così sotto lo zar, poi sotto la falce e il martello e ora sotto Putin.  

Come per i precedenti da me letti, di cui ho brevemente accennato, il libro  della Aleksievič scava profondamente l’animo di chi legge, perché non si può restare insensibili davanti all’orrore e alla sofferenza, aspetti comuni alle due parti in lotta, ma soprattutto all’inerme popolazione civile.

La visione dell’autore va tuttavia oltre l’evento, perché nella sua ottica il rilievo è per l’essere umano, capace di essere carnefice, ma anche vittima, quel che si direbbe un controsenso, ma che è proprio della nostra specie da quando si è affacciata sulla Terra.

Arrivato all’ultima pagina, il sentimento di orrore che mi aveva preso con le prime interviste poco a poco si è trasformato in pietà, in pietà per quei soldati, per quei civili, ma anche in pietà per noi stessi, per uomini e donne di questo XXI secolo, per l’incapacità non tanto di opporci alla guerra, ma di saper coltivare e difendere la pace.

Ragazzi di zinco è un libro imperdibile.

Svetlana Aleksievič è nata in Ucraina nel 1948 da padre bielorusso e madre ucraina. Giornalista e scrittrice, è nota soprattutto per essere stata cronista per i connazionali dei principali eventi dell’Unione Sovietica nella seconda metà del XX secolo. Fortemente critica nei confronti del regime dittatoriale in Bielorussia, è stata perseguitata dal presidente Aleksandr Lukašenko e la sua opera è stata bandita dal paese. Dopo dodici anni all’estero è tornata a Minsk, ma nel settembre del 2020 è stata costretta a fuggire in Germania. Per i suoi libri, tradotti in più di quaranta lingue, ha ricevuto il Premio Nobel per la Letteratura nel 2015.
Renzo Montagnoli

 

 

6 Settembre

Il fiore gelido

di Alessandro Damiani

Edit – Fiume

Poesia

 

Un uomo, la poesia

E’ ben strana la vita, perché il destino (se così vogliamo chiamarlo) ci impone delle scelte che ci allontano dagli obiettivi che avevamo ben radicati nella mente ed è stato così anche per Alessandro Damiani, aspirante guerrigliero che nel lontano 1949 arrivò in Jugoslavia per unirsi ai combattenti comunisti della guerra civile in Grecia, ma che poi per i giochi di potere che di continuo tesseva Stalin dovette rinunciare, per fermarsi definitivamente nello stato retto da Tito. Probabilmente fu un bene, perché forse come partigiano dell’Esercito Democratico Greco non sarebbe stato molto valido e invece come civile dedito alla letteratura e al giornalismo seppe dare il meglio di sé.  Eclettico, tanto che scrisse articoli, saggi, commedie, romanzi e poesie, fu un faro per la Comunità Italiana di quel paese, di cui ha cercato di salvaguardare lo spirito e la cultura. Già l’avevo conosciuto leggendo un suo romanzo Ed ebbero la luna, un ibrido fra narrativa e saggistica storica, ma nulla mi era noto della sua attività poetica, fino a quando suo figlio Sandro mi ha parlato di Il fiore gelido, una corposa raccolta di liriche.

Sono sincero e confesso che quando mi trovo davanti a una silloge costituita da molte poesie ho un timore reverenziale nei confronti della stessa, al punto che rinvio di continuo l’inizio della lettura, poi però mi decido, perché nasce in me un obbligo morale nei confronti di chi ha scritto questi versi. Complice soprattutto il caldo torrido ho preso in mano il libro solo al primo accenno di rinfrescamento, titubante in verità, intimorito da quelle poesie che a prima vista mi sono sembrate di grande lunghezza. Ma non è la dimensione ciò che conta, perché quel che caratterizza e dona valore a un’opera sono i contenuti e la forma e in questo caso ci sono entrambi. Premetto che la raccolta non è monotematica, ci sono diversi argomenti, direi uno sguardo, disincantato, su come va il mondo, con una visione che, nonostante la formazione politica, si può considerare nel complesso oggettiva. Così troviamo grandi temi, come la guerra e la pace, ma anche aspetti più semplici, osservazioni di costume, dediche ad altri poeti (Pasolini) e anche dissertazioni sulla poesia, sul suo senso, sull’opportunità che resista, nonostante ogni tentativo di relegarla in soffitta. Non c’è una malinconia di fondo, anzi ho ravvisato un’ironia, benefica, anche nel caso degli Epicedi, pescando dalla tradizione greca dei canti funebri, una sorta di pre-epigrafi in cui si rivela tutta la filosofia dell’autore nei confronti dei grandi temi dell’esistenza. E per finire c’è una sezione che, nonostante il nome (Post scriptum) non è qualcosa che è venuto in mente a opera conclusa, perché in effetti è la fine e il fine dell’opera stessa, una confessione, o anche un testamento, comunque un lascito, questo sì malinconico come può esserlo un commiato in cui si ripresenta tutta la propria esistenza; inoltre c’è l’amara constatazione che il tempo sta per finire, con un mesto rimpianto per gli inevitabili errori che non si possono più correggere e che si vorrebbe non aver mai commesso. E’ forse la parte che mi è piaciuta di più, che avverto più in sintonia con ciò che provo in questa ultima stagione, tanto che il gradimento si è unito a una incontrollabile commozione. Ci sono altre tematiche, ma non vado oltre, sia per ragioni di spazio che di tempo (meriterebbero tutte un discorso approfondito, e in tal caso occorrerebbe scrivere un corposo saggio), ma farei un torto all’autore se mi dovessi fermare qui, perché è d’obbligo evidenziare lo stile, anche se magari solo con un cenno. Uomo del secolo  trascorso, così fecondo di rinnovamenti poetici, Alessandro Damiani parte da una base classica e costruisce sulla stessa -  grazie al frutto degli studi effettuati e con influssi magari di Leopardi, Pascoli, pure di Ungaretti, ma nei contemporanei soprattutto di Montale – una sua ben precisa poetica, una costruzione armonica personale che dona ritmo ed equilibrio a liriche anche di consistente lunghezza. Del resto tutto quello che siamo culturalmente è frutto del pensiero di chi ci ha preceduto e che abbiamo studiato; Damiani non è diverso, ma è riuscito a darsi uno stile che è una sintesi di voci e correnti non solo dello scorso secolo, ma anche precedenti. Talora ho addirittura riscontrato un accenno petrarchesco con delle sfumature e dei rimandi che, secondo me, ricordano anche Guido Cavalcanti. Non c’è nulla invece di D’Annunzio, perché l’autore non ama sprecare parole, parole che devono essere un mezzo e non un fine, e proprio per questo D’Annunzio viene escluso.  E così è tutto un fiorire, non casuale, di  novenari e soprattutto di settenari, formula questa certamente non facile, ma di grande effetto. La rima? La rima non è ricercata, meglio le assonanze, le rime eventualmente interne, insomma la parola è certamente il mezzo, ma non è per niente trascurata, anzi…

Giunto al termine della lettura, invero appagante, credo che Alessandro Damiani nella sua poliedricità sia riuscito a privilegiare la poesia, una poesia forse non semplice, ma certamente di notevole qualità,  sia per contenuti che per stile.

Alessandro Damiani (Sant’Andrea Apostolo dello Ionio, 26 agosto 1928 – Fiume, 17 ottobre 2015) è stato un giornalista e scrittore della Comunità Nazionale Italiana in Croazia. Gli esordi giornalistici del Damiani risalgono al 1946 quando, diciottenne, collabora con Umanità Nova, l'organo dell'Anarchia italiana.

Arriva in Jugoslavia nell'estate del 1948 con un gruppo di giovani volontari italiani, coll'intento di unirsi alla guerriglia comunista nella guerra civile greca, appoggiata dalla Jugoslavia di Tito.

A seguito della rottura tra Tito e Stalin, la Jugoslavia chiude però i confini con tutto l'est europeo e toglie il proprio appoggio all'DSE (Esercito Democratico Greco), guidato dal comandante Vafiadis: quest'ultimo venne arrestato a Mosca, ed il suo posto venne preso del generale Zachariadis. La maggior parte delle migliaia di giovani volontari confluiti da ogni parte d'Europa ritorna quindi nei rispettivi Paesi, salvo un'aliquota di essi che venne perseguitata dai titoisti jugoslavi. Alcune centinaia divengono invece dei sostenitori del dittatore e rimangono in Jugoslavia. Vi rimane pure il ventenne Damiani, che si stabilisce a Fiume e nel 1948, entra nella compagnia di prosa del Dramma Italiano[1], dove conosce Piero Rismondo, all'epoca direttore e regista del complesso teatrale ed in seguito tornato in Austria, da dove era fuggito durante la guerra.

Nel 1950 Damiani sposa Olga Stancich (nata Stančić, nel 1916, nella Fiume ungherese), già cantante e doppiatrice di Marlene Dietrich. Nel 1957, deluso dall'esperienza jugoslava, fa ritorno in Italia.

Dopo nove anni trascorsi nel mondo del giornalismo[2], questa volta deluso dall'Italia se ne torna definitivamente in Jugoslavia coll'intento di contribuire alla salvaguardia del patrimonio linguistico-culturale italiano nell'area istro-quarnerina. Abbraccia le posizioni di Eros Sequi, secondo cui - a fronte delle pressioni nazionaliste panslave, sostituitesi ben presto nella Jugoslavia di Tito, agli ideali del socialismo, ed in assenza di adeguate attenzioni da parte dell'Italia - "bisogna salvare il salvabile", per evitare che del retaggio italiano nell'area non rimangano che vaghi ricordi.

Redattore del periodico Panorama e del quotidiano La Voce del Popolo, insegnerà giornalismo alla Facoltà di Italianistica di Pola dell'Ateneo fiumano e alla Scuola media superiore italiana di Fiume. Collabora con Tv-Capodistria e col mensile fondato da Pietro Calamandrei, "Il Ponte", di Firenze.

Pubblica saggi e libri sulla cultura italiana dell'Istria e di Fiume, romanzi, commedie, varie antologie di poesie.

Gran parte dei suoi lavori sono tradotti in croato ed alcuni anche in sloveno.

1^ Il Sandro Damiani che negli anni Novanta/Duemila sarà direttore della compagnia è suo figlio.

2^ Tra gli altri, collaborerà con Il Pensiero Nazionale diretto da Stanis Ruinas.
Fonte Wikipedia
Renzo Montagnoli

 

 

1 Settembre

Il Moro della cima

di Paolo Malaguti

Edizioni Einaudi

Narrativa

 

Un romanzo rasserenante

Ho letto ormai diversi libri scritti da Paolo Malaguti, un autore che alcune volte mi ha convinto, come nel caso di Prima dell’alba e di Sul Grappa dopo la vittoria, a mio avviso due autentici capolavori, e altre invece mi ha lasciato perplesso e mi riferisco in particolare a La reliquia di Costantinopoli e a I mercanti di stampe proibite; i primi due si svolgono durante la Grande Guerra e nei giorni immediatamente successivi, gli altri in epoche ben antecedenti. Forte di questa constatazione ho deciso di leggere anche Il Moro della cima, visto che la trama si sviluppa soprattutto durante il primo conflitto mondiale; brevemente è una biografia molto romanzata di un personaggio esistito veramente, tale Agostino Faccin, che tutti chiamano “il Moro” e la cui grande aspirazione è di salire di quota, di percorrere quelle montagne che svettano vicino a casa e in particolare una, la Grapa, l’odierno Grappa, per la quale ha una particolare e intensa venerazione. Vorrebbe che rimanesse sempre così, come era da tempo immemorabile, ma nell’economia della Grande Guerra la Grapa può diventare un forte baluardo atto a frenare e a impedire l’avanzata nemica ed ecco allora che vengono realizzate strade, scavate gallerie e trincee, insomma uno sconvolgimento di quel mondo che il Moro ritiene perfetto e in cui si sente realizzato. Sarà costretto dai militari ad andarsene, a scendere al piano, ma quando quella carneficina finisce ritornerà sulla cima e di fronte allo sconquasso provocato dalla guerra cercherà, in base alle sue possibilità, di rendere onore alla sacralità della montagna. Grosso modo la trama è quella a cui ho appena accennato e di per sé è interessante perché sono continui gli squarci storici e pure l’atmosfera di dolore e di morte è ben resa. Ho l’impressione, tuttavia, che la figura del Moro sia un po’ troppo caricata, cioè che l’autore abbia calcato un po’ la mano, anche se di personaggi così se ne possono trovare, uomini fieri, indipendenti, tesi continuamente a rivendicare e a difendere la loro personalità; la mia è una sensazione, che può anche essere sbagliata, e del resto il romanzo si fa ben valere per altri aspetti, per niente secondari, come anche il profondo rispetto per natura e soprattutto per la sua montagna, quella Grapa che Agostino sognava fin da bambino. E’ questa sorta d’amore che dona lustro all’opera, sono le descrizioni di un mondo eternamente incantato e che solo l’avidità dell’uomo può corrompere, sono le pagine in cui la prosa è soffusa da un alone di poesia, come nel caso della morte del cane che gli ha fatto a lungo compagnia quando il Moro gestiva il rifugio sulla cima, senza dimenticare che la tragedia della guerra con i suoi mutilati e i suoi morti viene anteposta ai risultati delle battaglie, un chiaro intento pacifista che non può essere che lodevole, perché rifugge dalla facile retorica. Aggiungo anche che la scrittura, priva di ampollosità, non poco contribuisce al piacere della lettura che mi ha deliziato in questi giorni di intenso caldo estivo, dandomi un ristoro dell’anima, perché pagina dopo pagina si avverte nel proprio intimo il sorgere di una gradevole dolcezza che allontana i brutti pensieri e che poco a poco conduce a quello stato di beatitudine che è proprio della serenità. Credo proprio che Il Moro della cima rientri fra i romanzi di Malaguti che mi hanno convinto e pertanto invito a leggerlo, perché lo merita.

Paolo Malaguti è nato a Monselice (Padova) nel 1978. Attualmente vive ad Asolo e lavora come docente di Lettere a Bassano del Grappa. Con Neri Pozza ha pubblicato La reliquia di Costantinopoli (2015), finalista al Premio Strega 2016. Tra le sue opere Nuovo sillabario veneto (BEAT, 2016), Prima dell'alba (Neri Pozza, 2017) e L' ultimo carnevale (Solferino, 2019).
Renzo Montagnoli

 

 

8 Agosto

Sabbia nera

di Cristina Cassar Scalia

Edizioni Einaudi

Narrativa

 

Un romanzo giallo particolarmente avvincente

Può sembrar facile scrivere un romanzo giallo, che si basa soprattutto su una trama secolare, vale a dire un delitto, la ricerca del colpevole da parte dell’autorità giudiziaria e infine la chiusura delle indagini con la scoperta del reo, ma non è così, proprio perché una trama obbligata richiede, per attirare il lettore, un’originalità, dei personaggi ben disegnati e uno stile particolarmente scorrevole. Per Cristina Cassar Scalia, di professione oftalmologo, cioè oculista, l’impegno profuso per scrivere Sabbia nera deve essere stato notevole, poiché è riuscita a dare al suo lavoro una struttura equilibrata, una vicenda di una originalità particolare (il casuale rinvenimento di una mummia di una donna ammazzata mezzo secolo prima), un vicequestore (Giovanna Guarrasi, detta Vanina,  a cui dona vita con caratteristiche sue peculiari, non solo fisiche, in corso d’opera), i collaboratori dello stesso, validi e che suscitano immediata simpatia, fra i quali particolarmente riuscita è la figura di Biagio Patanè (un anziano ex commissario occasionalmente coinvolto), una soluzione del caso che avviene dopo un susseguirsi di colpi di scena caratterizzati da una loro logicità, l’ambientazione a Catania e in una villa sotto l’Etna in eruzione e che ricopre tutto di cenere nera, donde il titolo azzeccato.

Sinceramente, prima di leggere ero scettico sulla possibilità che il romanzo potesse interessarmi in modo particolare, ma mi sono dovuto ricredere già dalle prime pagine, tanto che è cresciuta in me l’ansia di non staccare gli occhi dal volume fino a quando le indagini non si fossero concluse, uno stato d’animo che non sperimentavo da diverso tempo. A ciò ha contribuito in modo determinante lo stile, con una fluidità della scrittura e un ritmo mai eccessivo, ma costante, che non poco ha contribuito affinché fossi avvinto da questa trama che vede un duplice delitto commesso addirittura mezzo secolo fa, il che rende particolarmente difficili le indagini, anche perché eventuali testimoni in buona parte hanno finito con il passare a miglior vita. Proprio per questa discrepanza temporale l’autore avrebbe potuto cadere in una narrazione caratterizzata da una discontinuità dovuta a non improbabili flashback, che invece ha giustamente preferito evitare restando nel tempo presente, ma riuscendo a dare un’idea convincente di quello accaduto una cinquantina di anni prima.

Ne è uscito un romanzo capace di attrarre considerevolmente e di far trascorrere con piacere alcune ore di una amena lettura, il che non è proprio poco.

Cristina Cassar Scalia (1977)  è originaria di Noto. Medico oftalmologo, vive e lavora a Catania. Ha raggiunto il successo con i romanzi Sabbia nera (2018), La logica della lampara (2019), La Salita dei Saponari (2020), L’uomo del porto (2021) e Il talento del cappellano (2021) – tutti pubblicati da Einaudi Stile Libero – che hanno come protagonista il vicequestore Vanina Guarrasi; da questi libri, venduti anche all’estero, è in progetto la realizzazione di una serie tv. Con Giancarlo De Cataldo e Maurizio de Giovanni ha scritto il romanzo a sei mani Tre passi per un delitto (Einaudi Stile Libero 2020).
Renzo Montagnoli

 

 

1 Agosto

La banalità del male.

Eichmann a Gerusalemme

di Hannah Arendt

Feltrinelli Editore

Saggistica

 

Quando il male non è avvertito come tale

Adolf Eichmann, Obersturmbannfuhrer delle SS, l’organizzatore dei convogli ferroviari con cui gli ebrei erano trasportati nei campi di detenzione e di sterminio, non era in sé l’incarnazione del male, ma era un uomo normalissimo, magari mediocre e di poca sostanza, ma dedito al suo lavoro, del tutto incapace di porsi delle domande sulla legittimità morale dei propri atti, un ragioniere dello sterminio, senza coscienza,  insomma non  colui che ama compiere atti efferati, ma la rappresentazione della banalità del male. Catturato da un commando israeliano l’11 maggio 1960 in Argentina, dove viveva sotto falso nome, Eichmann fu trasferito, non senza difficoltà, in Israele per essere sottoposto a processo. Date le circostanze e nonostante che fosse passato più di un decennio dal processo di Norimberga il procedimento giudiziario ebbe enorme risonanza, con la partecipazione di giornalisti di quasi tutto il mondo e fra questi Hannah Arendt, ebrea tedesca sfuggita alle persecuzioni emigrando per tempo. Presente a tutte le udienze scrisse per il suo giornale (New Yorker) molti articoli, approfondendo le problematiche giuridiche, politiche e soprattutto morali che non erano solo attinenti il giudizio in corso, ma che erano alla base della figura dell’imputato e in generale di tutta la struttura nazista.

Ne emerge un quadro allucinante, perché i nazisti non sono considerati l’incarnazione dei peggiori istinti dell’uomo, ma degli individui qualunque, mediocri, in fondo anonimi, poco consapevoli o addirittura inconsapevoli dell’aspetto morale degli atti compiuti, ma inseriti in modo perfetto in un meccanismo del tutto infernale. In pratica chiunque, o comunque una persona del tutto normale, può diventare un aguzzino spietato se diventa parte di un apparato politico o anche poliziesco che lo stimola ad agire senza pensare. Ecco, il nazismo aveva reso i suoi cittadini del tutto incapaci di pensare, di porsi delle domande sulla moralità di ciò che essi facevano.

Il libro non piacque agli ebrei, volti a una demonizzazione di Hitler e del nazismo, anche perché la banalità del male non è stata una prerogativa solo della Germania nazista, ma potrebbe ripresentarsi in altri paesi, anche con ideologie diverse.

Il saggio, che è filosofico, ben rappresenta il concetto introdotto dalla Arendt, ma credo che più delle mie parole si pensi a una cosa semplicissima, e cioè che sarebbe stato lecito supporre che sparito il nazismo non dovesse più esistere il male istituzionalizzato, ma purtroppo non è stato così, e vi sono chiari esempi di non pochi totalitarismi in cui questa banalità si ripresenta, e, solo per citarne alcuni, il periodo dei khmer rossi in Cambogia, oppure la rivoluzione culturale cinese, ma purtroppo ce ne sono altri e altri ancora ne verranno.

Si rimane, più che sconcertati, scossi nel venire a sapere che “quel male”, quello con la Croce uncinata, che speravamo fosse l’ultimo e l’unico possa avere dei seguiti, cioè che possa ripetersi questa banalità del male, perché  avevamo sempre considerati delle eccezioni anche i casi successivi, ma quando questi non sono più rari vuol dire che il male che è in noi potrebbe emergere prepotente e, istituzionalizzato, diventare lo scopo della nostra vita.

Da leggere, indubbiamente.

Hannah Arendt (Hannover, 14 ottobre 1906 – New York, 4 dicembre 1975), filosofa tedesca.
Formatasi nelle università di Marburgo, Friburgo e Heidelberg, ebbe come maestri Heidegger, R. Bultmann e K. Jaspers.
Di origini ebraiche, nel 1933 emigrò in Francia, per poi trasferirsi negli Stati Uniti nel 1940.
I suoi principali interessi si sono orientati sull’agire politico, inteso come dimensione pubblica dell’esistenza umana.
In "Le origini del totalitarismo" (1951), la Arendt ricostruisce il processo storico
che ha condotto alle dittature europee e alla seconda guerra mondiale; i momenti decisivi di tale processo (antisemitismo, imperialismo e trasformazione plebiscitaria delle democrazie) sono interpretati come effetti di una complessiva de-politicizzazione della cultura moderna.
"Vita activa" (1958) propone l’e1aborazione in termini filosofici del contrasto tra un tipo di comunità politica - la polis greca al tempn di Pericle - e la decadenza dell’agire politico nel pensiero occidentale.
Benché nella contrapposizione tra Grecia e modernità si avvertano influssi heideggeriani, la Arendt rifiuta l’esito anti-mondano dell’ultima filosofia di Heidegger.
L’agire, per la Arendt, definisce l'essere umano come essere-con-gli-altri: l'identità umana costituisce nell’intimità della coscienza soggettiva e neppure nella società (intesa come sfera dei bisogni, del lavoro e della riproduzione), ma piuttosto nella sfera pubblica.

La Arendt ha delineato quest'antropologia politica in numerosi contributi: "Sulla rivoluzione" (1963) analizza soprattutto gli esiti perversi delle rivoluzioni americana e francese, cioè il passaggio dalla libertà pubblica al dominio della società amministrata e dello Stato
"Passato e futuro" (1961) e altri saggi estendono la critica della modernità a problemi come la storia, l'autorità e la tradizione; "Ebraismo e modemità" (1978, postumo), e, soprattutto "Rahel Varnhagen" (1958), biografia di un'eroina della Berlino romantica, interpretano l'ebraismo moderno come scisso tra l'aspirazione all'assimilazlone sociale e la fuga nell’interiorità, aspetto proprio di una più ampia tendenza del moderno alla polarizzazione tra coscienza soggettiva e sfera sociale.
Favorevole a una cultura ebraica laica e tollerante, la Arendt si è spesso trovata in contrasto con le comunità ebraiche ortodosse, a partire dal controverso reportage sul caso Eichmann, "La banalità del male" (1963).
Negli ultimi anni della sua riflessione, ha operato una rivalutazione della vita contemplativa; in "La vita della mente", opera rimasta incompiuta e uscita postuma nel 1978, l'esperienza spirituale viene articolata in tre attività fondamentali: pensare, volere e giudicare
Senza rinunciare al ruolo preminente dell'agire nella definizione dell’identità umana, la Arendt esprime un certo scetticismo nei confronti della possibilità di un'esperienza politica autenticamente libertaria nella società di massa.
Atteggiamento ribadito anche nel ciclo dl lezioni sulla filosofia politica di Kant (1982, postumo)in cui la dimensione pubblica dell'esistenza non è più individuata nell’agire politico, ma nel giudizio, vale a dire nella capacità di saper osservare lo "spettacolo del mondo".
Tratto dall'enciclopedia Garzanti della Filosofia
Renzo Montagnoli

 

 

26 Luglio

Ucraina. Il genocidio dimenticato (1932-1933)

di Ettore Cinnella

Della Porta Editore

Storia

 

Morire di fame

Molti non ne saranno nemmeno a conoscenza, altri avranno una vaga idea, altri ancora, pochi in verità, sanno esattamente di che si è trattato e che cosa rappresenti l’Holodomor, termine strano che deriva dall’unione di due parole in lingua ucraina, holod (fame, carestia) e moryty (uccidere, affamare). In pratica  con questo vocabolo si identifica la volontà di far morire di fame, una crudeltà inaudita, incredibile, eppure verificatasi nell’Unione Sovietica negli anni 1932 e 1933, in particolar modo in Ucraina. Quanti furono i morti? Si tratta di una cifra difficilmente quantificabile, ma che nel libro Cinnella fa ascendere a non meno di sei milioni, di cui quattro milioni nella sola Ucraina, e il resto soprattutto in Kazachistan.  Come è possibile però che così tanta gente sia morta per fame? Ci fu veramente intenzionalità? Ucraina il Genocidio dimenticato risponde a queste domande. In particolare i prodromi della tragedia risiedono nella volontà di Stalin di procedere a tappe forzate nella realizzazione del comunismo e quindi in campo agricolo nella collettivizzazione delle colture e degli allevamenti. In un paese in cui i contadini erano passati da poco dalla figura di servi della gleba propria dell’epoca zarista a quella di piccoli proprietari delle terre destinate all’agricoltura l’imporre di colpo l’abbandono di questa attività in proprio per prestare pressoché gratis la stessa in un kolchoz o in un sovkhoz non poteva che portare a una forte opposizione; fra l’altro proprio negli anni 1932 e 1933 ci fu un minor raccolto e della circostanza trasse profilo il dittatore georgiano per privare della totalità dei prodotti della terra e degli allevamenti questi ribelli che in tal modo nulla avevano da mangiare. Il libro, scritto da uno storico e sulla base di dati inoppugnabili, descrive questa immensa tragedia, con la gente che, colpita da inedia, lentamente moriva, oppure, impazzita, si dava al cannibalismo, uccidendo e cucinando i propri congiunti. Il mondo in parte sapeva, ma nulla fece per portare soccorso a questi infelici, tanto più che il governo sovietico faceva di tutto per nascondere questa orrenda verità, mostrando ai rari visitatori stranieri cittadini sazi e soddisfatti, una vera e propria rappresentazione teatrale. Poco a poco, decimati dalla fame, persa perfino la volontà di rivendicare un’entità nazionale, gli agricoltori ucraini si assoggettarono, andando a lavorare nelle fattorie statali per poco e niente e accontentandosi di vivere con la casa rurale, un piccolo appezzamento di terreno e qualche animale per “gentile” concessione del regime sovietico. La storia dimostrerà che mentre i sovkhoz producevano ben poco, le piccole proprietà portarono sui mercati rionali prodotti che costavano di più di quelli di stato, ma in quantità e qualità superiori, tali da permettere di vivere ai cittadini dell’Unione Sovietica.

Quindi Cinnella con il libro ci fornisce le risposte ai due quesiti, spiegando esaurientemente come questa immane tragedia sia potuta avvenire e nel contempo fornendo le prove dell’intenzionalità, perché se è vero che Stalin nulla fece per determinare la carestia, al contrario mise in atto una politica di sequestri dei generi alimentari al fine di concretizzare il piano economico basato sul passaggio accelerato al collettivismo; avrebbe potuto andare in soccorso, come gli era stato più volte richiesto, ma ha sempre preferito immettere sul mercato internazionale la gran parte del più ridotto raccolto per acquisire da un lato la valuta estera necessaria per acquisire i macchinari indispensabili per la realizzazione di una forte industria, e dall’altro per affamare gli agricoltori e renderli umili e disinteressati lavoratori delle fattorie collettive. Questo è stato l’Holodomor, una strage di stato  e quindi si è trattato di un vero e proprio genocidio.  Sulla base della documentazione emersa dopo il crollo dell'URSS, il libro ricostruisce quei drammatici avvenimenti e spiega le motivazioni che spinsero Stalin a prendere decisioni così spietate. E’ probabilmente da quegli anni di orrore che gli ucraini, tesi a rivendicare la propria identità nazionale, cominciarono a odiare il potere centrale di Mosca e per estensione i russi, tanto che all’epoca dell’invasione tedesca, nella speranza anche di poter così ottenere l’indipendenza, molti diventarono collaboratori dei nazisti, e non pochi addirittura si arruolarono nelle famigerate SS. Ciò può anche spiegare lo spirito di resistenza che anima gli ucraini che si oppongono con tutte le loro forze all’attuale invasione russa. Del resto le esperienze del passato si manifestano sempre nel presente ed è per questo anche che si studia la storia, che si è sempre detto che è maestra di vita, ma, visti i continui errori, c’è da dubitare sulle capacità di apprendimento degli allievi.

Da leggere per sapere e comprendere il perché del presente.

Nato a Miglionico (Matera) nel 1947, Ettore Cinnella è stato allievo della Scuola Normale Superiore di Pisa. Ha insegnato molti anni Storia contemporanea e Storia dell’Europa Orientale all’Università di Pisa. Dopo il crollo del regime comunista nell’URSS, ha lavorato spesso a Mosca nell’ex Archivio centrale del partito comunista (oggi Archivio statale russo di storia politico-sociale, RGASPI).  Ha scritto saggi di storia contemporanea, storia della storiografia, letteratura greca, storia della Russia e dell’Unione Sovietica. I suoi ultimi libri sono 1905. La vera rivoluzione russa (2008), Carmine Crocco. Un brigante nella grande storia (2010 e 2016), 1917. La Russia verso l’abisso (2012), L’altro Marx (2014), Ucraina 1932-1933. Il genocidio dimenticato (2015), tutti usciti per i tipi di Della Porta editori.
Renzo Montagnoli

 

 

20 Luglio

Eneide.

Testo latino a fronte

di Publio Virgilio Marone

Edizioni Einaudi

Poema

 

Il mito dell’origine di Roma

Dopo Bucoliche, prima opera di natura prettamente intimistica, e la successiva Georgiche, di carattere didascalico, Eneide è l’ultimo e più importante lavoro di quello che, senza enfasi, può essere definito il più grande poeta latino. Fu commissionata dall’imperatore Augusto che desiderava che le origini del suo grande dominio non trovassero riscontro in un popolo di rozzi bifolchi insediato secoli prima sul Tevere, ma che alla base ci fosse qualcosa di più importante, di mitico; è per questo scopo che nacque l’Eneide, un’opera che potrebbe sembrare la naturale continuazione, dal punto di vista dei perdenti, della famosa Iliade, e che fu scritta in un arco di tempo che va dal 31 a.C. al 19 a.C.. Con una notevole dose di fantasia Virgilio narra della fuga da Troia in fiamme di Enea, il figlio di Anchise, del suo peregrinare per mare in cerca di un nuovo lido in cui approdare fino a giungere alle coste del Lazio, diventando così di fatto il primo antenato del popolo romano.

Il poema, piuttosto corposo, si compone di dodici libri, dal primo in cui Enea assiste alla rovina di Troia e salpa con la sua flotta verso terre ignote, all’ultimo, in cui Turno, re dei Rutili, viene sconfitto in duello dall’eroe troiano, rendendo così possibile agli esuli di stabilirsi definitivamente nel Lazio. Per quanto ovvio, il capostipite di un popolo che diventerà padrone del mondo, e cioè Enea, progenitore putativo di Augusto, racchiude in sé le più alte doti, e cioè l’onestà, il coraggio, la giustizia, la lealtà, la pietas (intesa come devozione nei confronti delle divinità e rispetto degli altri uomini), la pazienza e un elevato senso civico, dai quali deriva l’esaltazione dei valori del cittadino romano, che le ripetute guerre fratricide avevano oscurato e che il primo imperatore si era imposto di far nuovamente trionfare.

L’Eneide, scritta in esametri dattilici, una metrica complessa, ma capace di rendere più gradevole l’opera all’ascolto, è stilisticamente perfetta ed esalta, oltre alle origini di Roma, l’abilità del suo autore, che fa ricorso a diverse figure retoriche, quali l’allitterazione, capace di aggiungere armonia ad armonia, e la difficile assonanza, rivelando, sempre che ce ne fosse bisogno, data la genialità  di Virgilio, capacità tecniche ancor oggi ritenute eccezionali.

Tuttavia il fato volle che l’opera non potesse essere completata, perché l’autore, di ritorno da un viaggio in Grecia, giunto al porto di Brindisi, morì probabilmente per un colpo di sole. La leggenda vuole che, sentendo l’approssimarsi della fine, abbia raccomandato ai suoi compagni di studi Plozio Tucca e Vario Rufo di distruggere il manoscritto, ma i due avrebbero disobbedito, consegnando l’opera all’imperatore.  Del resto, per quanto leggendo l’Eneide ci si accorga che si tratta di un lavoro non ultimato, la sua bellezza stilistica, la creatività profusa, la profondità di quanto esposto, tenendo presente la finalità, resta sempre un unicum di elevatissimo valore, alla pari con l’Iliade e l’Odissea. E di ciò se ne accorse Augusto, che già aveva avuto occasione di leggerne gran parte in anteprima, con Virgilio ancora vivente; l’imperatore ne fu talmente soddisfatto da farla diventare, ufficialmente, il poema nazionale. Era passato molto tempo da quando il poco ciarliero poeta mantovano si era rivelato con Bucoliche, riconfermandosi con Georgiche, ma nemmeno lui avrebbe potuto immaginare che quell’Eneide, a cui aveva dedicato il lavoro di gran parte della sua vita, l’avrebbe consacrato come il più grande fra i grandi, al pari del greco Omero, e che, come le opere di quest’ultimo, anche la sua ultima fatica sarebbe diventata materia di studio nei programmi scolastici.

Da leggere per chi non la conoscesse, da rileggere per chi l’ha studiata a scuola, perché l’Eneide è un’esperienza nuova ogni volta, sia la prima che le successive.

Publio Virgilio Marone (Andes, 15 ottobre 70 a.C – Brindisi, 21 settembre 19 a.C.).

Opere principali: Bucoliche, Georgiche, Eneide
Renzo Montagnoli

 

 

14 Luglio

Il dottor Bergelon

di Georges Simenon

Edizioni Adelphi

Narrativa

 

Un uomo senza qualità

Con Il dottor Bergelon si parte da un caso di malasanità, provocato dall’assoluta indifferenza di chi dovrebbe salvaguardare una vita e invece non fa il suo dovere. Che poi il dottor Malin e il dottor Bergelon nella circostanza siano ubriachi non è di certo un’attenuante, bensì un’aggravante, perché la deontologia professionale imporrebbe a due medici la sobrietà e la disponibilità, requisiti che nel caso del parto travagliato di una giovane donna sono stati talmente assenti, che non solo in nascituro è morto subito, ma che ha comportato anche il decesso della puerpera. Si dà però il caso che il vedovo non sia d’accordo sulla giustificazione di comodo circa l’impossibilità di salvare il bimbo e la madre e che dia inizio a una sottile vendetta, prendendo soprattutto di mira chi ha meno colpe (il dottor Bergelon), ma che appare per le sue caratteristiche l’ideale capro espiatorio. Inizia così per il medico in questione, che già vive un’esistenza grigia, un periodo di grande difficoltà, fra lettere minatorie e incontri per la strada non proprio amichevoli. Che fare? La decisione è quella di sparire, di cambiare vita, magari senza riuscirci, ma almeno per non essere passivo ed esperire così questo estremo tentativo. La sua sembrerebbe una fuga senza speranza, ma quasi all’improvviso il vedovo smette di perseguitarlo, dicendogli in un incontro ravvicinato che ha trovato nuove motivazioni per vivere ed è così che Bergelon rinuncia alla possibilità di mettersi alla prova ricominciando da zero, perché torna a casa, dalla moglie e dai figli, e al suo grigiore quotidiano, in una vicenda in cui domina, per colpa del protagonista, uno squallore disarmante.

Che Simenon sia capace di aprire l’animo umano, di fare un’analisi psicologica approfondita  è una qualità che non gli fa difetto ed è notoria; questa volta, però, ha a che fare con un personaggio che è un incompiuto: si è innamorato di sua moglie senza particolare trasporto, come se fosse una routine giornaliera, fa il medico di quartiere come un impiegato che timbra il cartellino, ha un’attrazione per una prostituta che guarda caso è l’amante di Cosson (il vedovo), ha una relazione occasionale in villeggiatura al mare con una donna con un figlio, rifiuta a un amico un’offerta di lavoro  che gli consentirebbe di togliersi di dosso quell’abito di mediocrità che da sempre l’accompagna. Insomma, il dottor Bergelon si lascia trascinare dalla vita, non ha rimorsi e nemmeno gioie, vegeta, si potrebbe dire, ed è lì l’origine dello squallore.

Descrivere la psicologia di un individuo così è difficile e non è facile nemmeno per un narratore come Simenon, tanto che riesce solo in parte nello scopo, un risultato tuttavia che influisce relativamente sulla gradevolezza della lettura. Non sarà il miglior romanzo di Simenon, o uno dei suoi migliori, ma resta il fatto che chi legge non può che apprezzare, provando anche un senso di repulsione per quell’uomo senza qualità che è il dottor Bergelon.

Georges Simenon (Liegi, 13 febbraio 1903 – Losanna, 4 settembre 1989). Romanziere francese di origine belga. La sua vastissima produzione (circa 500 romanzi) occupa un posto di primo piano nella narrativa europea.
Grande importanza ha poi all'interno del genere poliziesco, grazie soprattutto al celebre personaggio del commissario Maigret.
La tiratura complessiva delle sue opere, tradotte in oltre cinquanta lingue e pubblicate in più di quaranta paesi, supera i settecento milioni di copie. Secondo l'Index Translationum, un database curato dall'UNESCO, Georges Simenon è il quindicesimo autore più tradotto di sempre.
Grande lettore fin da ragazzo in particolare di Dumas, Dickens, Balzac, Stendhal, Conrad e Stevenson, e dei classici. Nel 1919 entra come cronista alla «Gazette de Liège», dove rimane per oltre tre anni firmando con lo pseudonimo di Georges Sim.
Contemporaneamente collabora con altre riviste e all'età di diciotto anni pubblica il suo primo romanzo.
Dopo la morte del padre, nel 1922, si trasferisce a Parigi dove inizia a scrivere utilizzando vari pseudonimi; già nel 1923 collabora con una serie di riviste pubblicando racconti settimanali: la sua produzione è notevole e nell'arco di 3 anni scrive oltre 750 racconti. Intraprende poi la strada del romanzo popolare e tra il 1925 e il 1930 pubblica oltre 170 romanzi sotto vari pseudonimi e con vari editori: anni di apprendistato prima di dedicarsi a una letteratura di maggior impegno.
Nel 1929, in una serie di novelle scritte per la rivista «Détective», appare per la prima volta il personaggio del Commissario Maigret.
Nel 1931, si avvicina al mondo del cinema: Jean Renoir e Jean Tarride producono i primi due film tratti da sue opere.
Con la prima moglie Régine Renchon, intraprende lunghi viaggi per tutti gli anni trenta. Nel 1939 nasce il primo figlio, Marc.
Nel 1940 si trasferisce a Fontenay-le-Comte in Vandea: durante la guerra si occupa dell'assistenza dei rifugiati belgi e intrattiene una lunga corrispondenza con André Gide. A causa di un'errata diagnosi medica, Simenon si convince di essere gravemente malato e scrive, come testamento, le sue memorie, dedicate al figlio Marc e raccolte nel romanzo autobiografico Pedigree.
Accuse di collaborazionismo, poi rivelatesi infondate, lo inducono a trasferirsi negli Stati Uniti, dove conosce Denyse Ouimet che diventerà sua seconda moglie e madre di suoi tre figli. Torna in Europa negli anni Cinquanta, prima in Costa azzurra e poi in Svizzera, a Epalinges nei dintorni di Losanna.
Nel 1960 presiede la giuria della tredicesima edizione del festival di Cannes: viene assegnata la Palma d'oro a La dolce vita di Federico Fellini con cui avrà una lunga e duratura amicizia. Dopo pochi anni Simenon si separa da Denyse Ouimet.
Nel 1972 lo scrittore annuncia che non avrebbe mai più scritto, e infatti inizia l'epoca dei dettati: Simenon registra su nastri magnetici le parole che aveva deciso di non scrivere più. Nel 1978 la figlia Marie-Jo muore suicida. Nel 1980 Simenon rompe la promessa fatta otto anni prima e scrive di suo pugno il romanzo autobiografico Memorie intime, dedicato alla figlia.
Georges Simenon muore a Losanna per un tumore al cervello nel 1989.
Renzo Montagnoli

 

9 Luglio

Il sogno del principe.

Vespasiano Gonzaga e l'invenzione di Sabbioneta

di Edgarda Ferri

Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Storia biografia

 

La città ideale

E’ il mese di febbraio del 1591  e fuori dal palazzo nevica, copiosamente. Vespasiano Gonzaga, morente, fa un un ultimo sforzo e viene vestito di tutto punto per dettare al notaio le sue ultime volontà, poi, affranto, si corica, assistito amorevolmente dalla terza moglie Margherita Gonzaga e a cui si rivolge con un’ulteriore lascito, cioè il racconto della sua vita. E’ così che inizia a parlare, a dire tutto, dalla sua nascita a Fondi il 6 dicembre 1531, primogenito di Isabella Colonna e di Luigi Gonzaga “Rodomonte” fino al suo ultimo soffio di vita, in un’esistenza tutta dedita a servire il suo Signore Filippo II di Spagna; del grande monarca fu l’assai fidato consigliere e uomo d’armi, ripagato da onori e gloria, ma soprattutto con il titolo di Grande di Spagna e con l’onorificenza del Cavalierato dell’Ordine del Toson d’Oro. Fu un continuo accorrere alle chiamate del suo re, quasi sempre lontano da casa, impegnato a costruire fortezze, di cui era un esperto, o a combattere, oppure ancora ad amministrare grandi territori in qualità di vice re. Il tempo per la famiglia fu necessariamente poco, eppure riusci a contrarre tre matrimoni, di cui il primo con Diana Folch de Cardona, che morì nel novembre 1569 in circostanze poco chiare (con ogni probabilità assassinata da Vespasiano, a cui erano giunte missive anonime relative a un suo presunto tradimento coniugale, rivelando un’indole violenta che si sarebbe ancor più manifestata nel 1580 allorché uccise per futili motivi  con un calcio all’inguine l’unico figlio maschio, il quattordicenne Luigi); anche la seconda moglie,  Anna Trastamara d’Aragona, imparentata con il re di Spagna e di salute assai cagionevole, venne a mancare nel 1567; miglior fortuna ebbe la terza consorte Margherita Gonzaga, che appunto assistette Vespasiano durante il trapasso, ma che non riuscì a dargli un figlio (circolarono voci che lei fosse sterile, ma la verità era che Vespasiano aveva contratto il mal francese, cioè la sifilide, con tutti i problemi e conseguenze che comporta) . Fra gli onori e la gloria vi fu anche la nomina, da parte dell’imperatore Massimiliano II d’Asburgo, di Principe del Sacro Romano Impero, titolo che spettava ai feudatari che dipendevano direttamente dall’imperatore, il quale già l’aveva gratificato nel 1565 del titolo di Marchese. Completò la sua carriera nobiliare, a chiaro simbolo del suo prestigio, l’elevazione a ducato del marchesato di Sabbioneta. Fino a qui è la brillante carriera di un uomo del rinascimento, come non ve ne furono molti, ma l’importanza di Vespasiano è nell’aver concretizzato un sogno che possiamo toccare con mano, che è meta di tanti visitatori:  la realizzazione, partendo da un piccolo borgo, di una città rinascimentale chiamata anche la Piccola Atene. Ai confini occidentali estremi del mantovano, non lontana dal Po, circondata dalla sua stupenda cinta muraria sorge Sabbioneta, quell’ideale in cui Vespasiano credette fino in fondo e che lo sostenne nelle sue lunghe assenze nel corso delle quali trovava il tempo per progettare la sistemazione architettonica. E mentre lui combatteva in Spagna contro i moriscos, pietra dopo pietra la meraviglia nasceva, quella che nella sua mente avrebbe dovuto rappresentare, come in effetti rappresenta, una città ideale, da stupire il mondo, in cui altri, ma soprattutto lui vivere realmente un sogno. Qualcuno potrà pensare a un buen retiro, e non sbaglierebbe, per quanto la definizione sia un po’ riduttiva, perché probabilmente in Vespasiano allignava la gioia della creazione, il piacere di dire:”questo è sì mio, ma l’ho realizzato io”.

Edgarda Ferri è molto brava, scrive delle biografie in cui si ha la sensazione di essere accanto al personaggio della narrazione, ma forse con  “Il sogno del Principe” si è superata. Si avverte infatti palpabile l’ammirazione per quest’uomo, per ciò che ha realizzato, per quei tesori di cultura che ha lasciato e che tutti possono vedere, perché se Mantova vuol dire Gonzaga e quindi il castello di San Giorgio, il Palazzo Ducale, il Palazzo Te, Sabbioneta è uno scrigno prezioso che emerge dalle nebbie della pianura e splende di luce propria.

Da leggere senza dubbio. 

Edgarda Ferri (Mantova, 24 gennaio 1934) vive e lavora a Milano. Scrittrice, saggista, giornalista, ha pubblicato tra le altre le biografie di Maria Teresa d’Austria, Giovanna la Pazza, Caterina da Siena, Matilde di Canossa e Piero della Francesca.
Renzo Montagnoli

 

 

2 Luglio

Occidente

di Ferdinando Camon

Apogeo Editore

Narrativa

 

Perché gli attentati?

Credevo di aver finito anni fa con la lettura di opere di Ferdinando Camon, anche se in tempi più recenti qualcosa ha pubblicato, romanzi che a definirli minori può essere eccessivo, ma che se rapportati a La vita eterna e a Un altare per la madre appaiono quantomeno di minor impegno. Non ho mancato tuttavia di tributare a essi gli onori che si meritano, perché in quelle pagine mai viene meno l’impronta dell’autore che sa quel che vuole e che è capace di renderlo interessante per il lettore. Cosa dicevo? Ah, sì, che credevo di aver finito di arrovellarmi su nuovi libri di un uomo che, superati gli ottanta, non dovrebbe avere ancora voglia e spirito per buttarsi a capofitto in una nuova avventura letteraria, e invece ecco che mi arriva fra capo e collo Occidente. Il titolo non mi è nuovo – ho pensato, aggiungendo che probabilmente era una nuova edizione di Occidente. Il diritto di strage che mi aveva impegnato un po’ prima del Natale del 2009 e per il quale, riflessione dopo riflessione, avevo scritto una recensione, manco a dirlo, ampiamente positiva. No, mi ha detto Ferdinando, è lo stesso libro e non lo è, un gioco di parole da mago Zurlì per farmi capire che non era uguale, soprattutto perché riscritto a mente fredda, non con i patemi d’animo che avevano accompagnato la stesura dell’altro nei lontani anni ‘70, anni di piombo, quando, per rendersi complicata vita, lo scrittore padovano aveva iniziato a interessarsi dell’eversione nera, ricavandone minacce, danneggiamenti, insomma quella che si può definire una vita non proprio tranquilla. Allora fu un parto indubbiamente sofferto, oggi invece, in confronto, è stata una passeggiata. Devo dire che la nuova edizione evidenzia una minor partecipazione emotiva dell’autore, guadagnandone sia in leggibilità che in comprensione dei propositi alla base del lavoro. Capire la psicologia di un terrorista non ha solo scopi di curiosità, ma significa conoscere con chi si ha a che fare, e quindi poter più facilmente arrivare a un’azione di contrasto. Sono sicuro che se il libro fosse uscito negli Stati Uniti avrebbe ottenuto il riconoscimento del Premio Pulitzer, e non solo quello pur importante, ma indubbiamente minore, di giornalista dell’anno. Dopo questa chiacchierata, che ritengo utile per focalizzare i motivi per i quali Camon ha deciso di porre mano a un’opera di per sé validissima, penso che forse non sarebbe sbagliato se ne parlassi ed è quello che adesso farò. Premetto che, leggendo, si ha l’impressione di entrare in una sorta di limbo, un mondo a sé stante in cui il terrorista ha una visione dell’esistenza che è completamente diversa da quella della quasi totalità degli esseri umani, con una ricerca del razionale per dare inutilmente un senso logico all’irrazionalità; infatti occorre quasi fare un passo oltre un invisibile ostacolo per cercare di penetrare nell’assurdità di idee aberranti. In quest’ottica la strage non è solo una necessità, ma è un diritto ed è grazie a essa che si può pervenire alla disgregazione del sistema; ne consegue che non può che esistere una situazione continua e crescente di terrore.

Come è noto il nostro paese anni fa è stato travagliato da un lungo periodo di attentati, di matrice di estrema destra e di estrema sinistra, che necessita di una comprensione, per capire il perché, per trovare una giustificazione logica a un qualche cosa di illogico, per sapere, onde evitare che questi anni di piombo si possano ancora ripresentare. In questo il libro di Camon è essenziale, oserei dire indispensabile, anche se è una discesa all'inferno per cercare di comprendere i motivi di questo orrore e in pratica diventa  un viaggio nell'incubo, nella follia di menti che, prive di senno, hanno con le loro azioni sconvolto un paese e la vita dei suoi abitanti. Non c'è nulla di più drammaticamente conclusivo dei concetti espressi da Franco, il capo dei neri, un individuo che teme la morte, anzi il solo pensiero che un giorno tutto dovrà finire gli rende impossibile la vita; e allora si fa lui portatore di morte, indiscriminatamente la esporta verso ignari cittadini, ritraendo il sottile piacere di liberarsi momentaneamente del suo incubo per trasferirlo ad altri.

Per far questo si costruisce anche un'idea che sia lo specchio della coscienza, così da giustificare il suo odio e il suo crimine. In questo mondo ci sono gli eletti e lui è uno di questi, mentre tutti gli altri sono comparse inutili, o meglio sono utili quali vittime sacrificali per la purificazione di un sistema in cui l'apoteosi è solo il senso di onnipotenza del carnefice, in una convulsione di egocentrismo che prevede solo la sua esistenza.

E' inutile dire che in simili individui non esistono né la pietà, né la consapevolezza dei propri limiti; per loro uccidere diventa così una necessità quale respirare per vivere e le stragi che pongono in essere non vengono considerate atti criminosi, trovando giustificazione in una contorta e aberrante filosofia che non è alla base del loro comportamento, ma è stata adattata appositamente per fornire una motivazione dello stesso.

In realtà gente come Franco è il ritratto dell'insoddisfazione per ciò che realmente si è, rispetto a ciò che si vorrebbe essere, è la figura di frustrati, pavidi e in rotta con se stessi, ma che trovano sfogo al rancore che li pervade scaricandolo su altri, del tutto inermi ed incolpevoli, e proprio per questo idonei capri espiatori.

Camon ci ha fornito un quadro, un'analisi attenta e apolitica di un movimento, sondando gli aspetti psicologici dei componenti e mettendo a nudo l'altra verità che è in noi, quella paura ancestrale che a volte, come nel caso specifico, può portare a uno stato di follia individuale e collettiva. L'onnipotenza bramata dall'uomo è quindi il segno manifesto della sua debolezza, l'uccisione di altri, del tutto innocenti, è rivelatrice di una sete di vendetta per la propria condizione di immaturità.

Ma il terrorismo è anche rosso ed ecco allora il narratore che ci parla di Miro che, a differenza di Franco, non sogna di distruggere una società, ma brama cambiare un sistema, un fine da raggiungere con qualsiasi mezzo, anche con l'omicidio di coloro che rappresentano la struttura portante dello stato.

E' una figura in apparenza solo migliore di quella di Franco, se non altro perché non c'è una vocazione nichilista, ma anche qui esiste quel diabolico potere -  che si autoalimenta - di poter disporre della vita d'altri, una frenesia che sconvolge e travolge.

Nel caso di Franco è la visione dell'individuo che prevale, in quella di Miro invece è quella della massa, un fiume che avanza e che spezza tutto.

Nel primo si potrebbe dire che i mezzi sono il fine, nel secondo i mezzi servono a raggiungere il fine, ma in entrambi è presente un egocentrismo che li porta a considerarsi superiori a tutti e quindi a decidere anche per gli altri.

Occidente è un romanzo complesso, ma anche rivelatore, in grado ri rispondere logicamente al perché di tante illogicità, e proprio per questo assume una valenza notevole, tale da classificarlo fra le più riuscite opere di Ferdinando Camon.

Ferdinando Camon é nato nel 1935 in un piccolo paese della campagna veneta. Il suo primo romanzo, uscito con una prefazione di Pier Paolo Pasolini, è stato subito tradotto in Francia per interessamento di Jean-Paul Sartre. Nei suoi libri Camon ha raccontato la crisi e la morte della civiltà contadina (nei romanzi "Il quinto stato", "La vita eterna", "Un altare per la madre", Premio Strega, "Mai visti sole e luna", Premio Stazzema, e nelle poesie "Liberare l’animale", Premio Viareggio, e "Dal silenzio delle campagne"), la crisi che si è nominata terrorismo ("Occidente"), la crisi che porta in analisi ("La malattia chiamata uomo", "La donna dei fili", "Il canto delle balene") e lo scontro di civiltà, con l’arrivo degli extracomunitari ("La Terra è di tutti"). I suoi romanzi più recenti sono "La cavallina, la ragazza e il diavolo" (2004, Premio Giovanni Verga) e "La mia stirpe" (2011, Premio Vigevano-Mastronardi). Nel 2019 è uscito da Ediesse "Tentativo di dialogo sul comunismo", con Pietro Ingrao. Nello stesso anno Guanda ha pubblicato "Scrivere è più di vivere". Nel 2020 con Apogeo Editore è uscito "A ottant'anni se non muori t'ammazzano". È tradotto in venticinque paesi. Le sue opere sono pubblicate anche in edizioni per ciechi, in Italia e in Francia. Nel 2016 gli è stato assegnato il premio Campiello alla Carriera.
http://www.ferdinandocamon.it/
Renzo Montagnoli

 

 

26 Giugno

Uno scrittore in guerra (1941-1945)

di Vasilij Grossman

Edizioni Adelphi

Storia

La verità, solo la verità

Quando ho letto Vita e destino, un’opera impegnata e impegnativa sul tema del bene e del male, ho avuto come una folgorazione, ho avvertito chiaramente che questo narratore ebreo e di origine ucraina aveva superato quell’invisibile confine, quasi sempre invalicabile, fra verità oggettiva e verità soggettiva, quella realtà così difficile da trovare e, soprattutto, da raccontare. Del resto l’autore si è sempre attenuto scrupolosamente a questo principio: «Chi scrive ha il dovere di raccontare una verità tremenda, e chi legge ha il dovere civile di conoscerla, questa verità.» Ed è così che sono nati i suoi capolavori, che piano piano, ora che è scomparso da tempo, si vanno scoprendo e vengono portati all’attenzione del mondo dei lettori. E’ anche questo il caso di Uno scrittore in guerra (1941 – 1945) con cui vengono narrate, peraltro in presa diretta, i fatti della seconda guerra mondiale sul fronte orientale. Grossman era inviato speciale di  Krasnaja zvezda (Stella Rossa), il giornale dell’esercito sovietico, di cui scrisse dalle prime disastrose fasi che videro la rapida avanzata delle truppe tedesche fino alla fine del conflitto che lo portò a essere presente in una Berlino distrutta, una visione apocalittica, la fine ingloriosa della follia nazista.

Dove c’era un fronte di battaglia Grossman c’era; che si trattasse della sua Ucraina, di Mosca quasi assediata o di Stalingrado quest’uomo, fuori dai canoni in tutto (si pensi che non era iscritto al partito comunista), osservava, intervistava grandi generali e umili soldati, raccoglieva gli sfoghi e le paure, attraverso la sua penna i soldati sovietici ritrovavano l’umanità soffocata dalla violenza e  anche laddove splendeva l’eroismo - e per altri trionfava la retorica -  lui si limitava a raccontare con un tono sobrio, senza esaltazioni, solo la guerra, le distruzioni, l’orrore, le speranze. In questo modo i suoi articoli erano seguiti da un numero via via crescente di lettori che si identificavano con i personaggi in essi citati, che vedevano in Grossman uno di loro, non di certo l’esponente del partito che chiedeva agli altri sacrifici e che poi si prendeva tutti i meriti. La gente capiva che quell’uomo coraggioso che descriveva con grande efficacia ed empatia la quotidianità di chi combatteva sapeva parlare con il cuore, sapeva porgere la verità senza remore e ostacoli. Può apparire incredibile che in un regime come quello sovietico, soprattutto in epoca staliniana, si potesse essere pubblicamente sinceri, ma nei posti chiave c’era chi capiva che cosa volessero i lettori e che questo dovesse essere dato a loro, pur con qualche taglio di tanto in tanto, per mantenere saldo quel morale, quello spirito patriottico di cui tanto aveva bisogno un popolo in guerra. Fra l’altro, lo stile di Grossman è di grande effetto, capace come è di descrivere poeticamente la bellezza e la serenità della natura, oppure di far piombare chi legge nell’angoscia più profonda come quando parla del lager di Treblinka, un’autentica discesa all’inferno.

L’autore, per i suoi articoli, si serviva delle annotazioni su taccuini, gli stessi che, opportunamente raccordati e introdotti da una parte propedeutica che tende a collegare gli uni agli altri, sono stati utilizzati da Antony Beevor e Luba Vinogradova per scrivere questo libro, un’opera di valore non solo letterario, ma soprattutto di testimonianza storica di assoluta rilevanza, meritevole senz’altro di attenta lettura.

Vasilij Grossman (Berdyciv, 12 dicembre 1905 – Mosca, 14 settembre 1964) è stato un giornalista e scrittore sovietico di origine ebraica.
Diventò ingegnere e dopo essere cresciuto a Ginevra e aver studiato a Kiev, all'epoca dei piani quinquennali credette talmente nella costruzione dell' "uomo nuovo" da abbandonare i cantieri minerari del Donbuss, dove lavorava, per mettersi a raccontare l'epopea dell'Unione Sovietica. 
Fu corrispondente di guerra per il quotidiano dell'esercito "Stella rossa" e seguì il fronte fino alla Germania. 
In quel periodo cominciò a comporre una grande opera sulla guerra, incentrata sulla Battaglia di Stalingrado, e diede alle stampe "Il popolo è immortale" (1943), esaltazione dei sacrifici sofferti dai popoli dell'Unione Sovietica durante l'invasione tedesca del 1941. 
Tra il 1944 e il 1945 lavorò a un'opera che documentava i crimini di guerra nazisti nei territori sovietici contro gli ebrei ("Il libro nero"). 
Grossman, ebreo sovietico, scrittore e giornalista, conobbe perciò direttamente le devastazioni della seconda guerra mondiale, la lotta contro i nazisti, la sconfitta di Hitler quindi l’ascesa di Stalin. 
Dopo aver assistito alla campagna antisemita (fra il 1949 e il 1953) si trovò in dissidio con il regime e cadde in disgrazia. 
Così la stesura finale della sua grande opera, Vita e Destino, venne sequestrata e non avrebbe mai visto la luce se qualcuno non avesse conservato e fatto pervenire clandestinamente una o due copie a Losanna, dove fu stampato nel 1980.
Renzo Montagnoli

 

 

20 Giugno

BREVI RIFLESSIONI SUL LIBRO

“LA RUSSIA DI PUTIN”

DI ANNA POLITKOVSKAJA
 

 

Siamo nel 2022 quindi sono già trascorsi sedici anni dall’assassinio, avvenuto a Mosca, della giornalista autrice di questo libro. Un assassinio ad oggi impunito. Raccontare la verità in certi Stati è proibito e si rischia la vita. Ma chi ama la verità e la libertà di divulgarla sa rischiare anche la vita. Ci ha lasciato i suoi libri, per fortuna. Prezioso dono.

Fin dalle prime pagine si può comprendere perché gli argomenti  di cui parla la Politkovskaja  non siano stati accolti con favore da qualche potente che, senza remore, ha deciso di farla tacere per sempre.

Questa è un’opera che  non si può leggere tutta d’un fiato in quanto le citazioni di fatti documentati con le relative date richiedono attenzione e riflessione particolari. È un testo imbevuto di coraggio e desiderio di urlare al mondo verità scomode sostituite da deplorevoli menzogne da parte di chi detiene il potere e lo usa, senza scrupoli di ogni genere, per il proprio tornaconto.

<Siamo solo un mezzo, per lui. Un mezzo per raggiungere il potere personale. Per questo dispone di noi come vuole. Può giocare con noi, se ne ha voglia. Può distruggerci, se lo desidera. Noi non siamo niente. Lui, finito dov’è per puro caso, è il dio e il re che dobbiamo temere e venerare. La Russia ha già avuto governanti di questa risma. Ed è finita in tragedia. In un bagno di sangue. In guerre civili. Io non voglio che accada di nuovo. Per questo ce l’ho con un tipico čekista sovietico che ascende al trono di Russia incedendo tronfio sul tappeto rosso del Cremlino>.

 Pagina dopo pagina si percepisce la  sofferenza della scrittrice russa nel vedere la sua gente costretta a subire le più vergognose menzogne senza possibilità di replica. Perché a subire ingiustizie e menzogne è sempre il cittadino semplice, che rispetta la legge, paga i tributi allo Stato i cui rappresentanti, in questo caso, con i loro fedelissimi, hanno raggiunto, chissà come,  un livello di ricchezza da far rivoltare nella tomba i famosi utopici filosofi Marx  ed Engels.

Il libro della Politkovskaja può essere, a mio parere, anche considerato una specie di preavviso ai successivi eventi dal 2006 fino ai giorni nostri. Giorni che sono stati sconvolti dall’inizio di una guerra di aggressione, voluta dalla Russia di Putin assieme al suo staff, contro uno Stato, l’Ucraina,  che faticosamente  aveva  raggiunto la democrazia e l’indipendenza.

Una guerra che ha colpito il popolo civile indiscriminatamente con distruzione, morte e atroci sofferenze. Una guerra che certo non ci si aspettava di vedere in un’Europa moderna e civilizzata. E che certo non lascerà un buon ricordo in coloro che l’hanno subita, e dalla quale hanno cercato giustamente di difendersi con ogni mezzo, e in quelli che l’hanno dovuta iniziare in obbedienza ad ordini superiori. Una guerra, ancora una volta, come tutte le guerre, vergogna dell’umanità.

Il coraggio eccezionale di Anna Politkovskaja ci ha lasciato dunque una testimonianza molto importante riguardo alla vita di quella parte della popolazione russa che non gode di ricchezza e privilegi. Attraverso le sue interviste comprendiamo le verità sui comportamenti del potere che, con tutti i mezzi, cerca di salvaguardare se stesso. Si può solo consigliarne la lettura così ognuno potrà trarre le proprie conclusioni. Io l’ho apprezzato molto proprio perché, rendersi conto che c’è ancora qualcuno al mondo che, senza paura, cerca di contrastare le menzogne  e l’arroganza,  fa ritrovare la fiducia nell’umanità degna di questo nome.

E sono orgogliosa che questo coraggio l’abbia avuto una donna. Perché la forza della parola non toglie la vita a nessuno, mentre si sa cosa succede con la forza delle armi…

Ascoltiamola, dunque, questa giornalista amante della giustizia e della legalità. Magari ci potrà chiarire le idee su come mai qualcuno in Russia, nel 2022 (!) abbia voluto iniziare una guerra assurda ed ignobile che distrugge e sbrana senza pietà.

-         Giovanna Giordani

 

 

Pulvis et umbra

di Antonio Manzini

Sellerio Editore Palermo

Narrativa

 

Un uomo disperatamente solo

Antonio Manzini è riuscito indubbiamente a creare un personaggio, perché il vicequestore Rocco Schiavone ha una sua ben precisa personalità, nel suo campo è un battitore libero, più propenso ad agire tralasciando le vie gerarchiche e anche le modalità comuni a tutti i suoi colleghi, magari con un senso della legge tutto personale, che lo porta anche a commettere qualche reato, ma però con una grande capacità di risolvere i casi, un pregio che impedisce di fatto che vengano svolte indagini interne su di lui. Questa sua autonomia, il modus operandi che gli è proprio, una tristezza di fondo data dalla prematura scomparsa della moglie lo portano a essere un uomo disperatamente solo, tradito anche da colleghi e non solo nell’attività professionale, ma anche negli affetti. Manzini, pur dotato di un’indubbia creatività, alterna romanzi, con protagonista Rocco Schiavone, di ottimo livello ad altri più modesti, ma per fortuna questo Puivis et umbra rientra fra i primi, con due indagini che vengono svolte in parallelo, ad Aosta ove si ricerca il colpevole dell’omicidio di un transessuale, e a Roma dove in un campo dei dintorni viene ritrovato il cadavere di un uomo sgozzato, ma con in tasca un biglietto si cui è riportato il numero del cellulare di Rocco Schiavone. La trama di entrambi i casi è molto bella, ma lo conclusioni sono di quelle che lasciano con l’amaro in bocca. Ci sono infatti  indagini che non possono portare a una soluzione, perché entrano poteri dello Stato che prevaricano il normale corso della giustizia e ce ne sono altre che pur portando all’arresto del colpevole fanno emergere ipotesi, non campate in aria, di possibili tradimenti. E al povero Schiavone allora non rimane nulla, se non la compagnia della sua Lupa e il ricordo, che ogni tanto riaffiora, della moglie morta, con la quale instaura un dialogo muto che per alcuni istanti lo fa sentire meno solo.  Pulvis et umbra, sì, siamo tutti polvere e ombra, si vive per arrivare alla morte e questo Rocco Schiavone riesce a diventare un personaggio che avvince non solo per le sue abilità investigative, ma anche per il senso della vita, che attraverso di lui, Antonio Manzini fa emergere. E’ così che le ombre sono i nostri fantasmi, contro i quali lottiamo, e quando crediamo di averli afferrati ci resta in mano solo un mucchietto di polvere.

Pulvis et umbra è un bel romanzo, che va oltre il genere poliziesco e che merita senz’altro di essere letto.

Antonio Manzini (Roma, 7 agosto 1964) Attore e sceneggiatore, romano (allievo di Camilleri all'Accademia Nazionale d'Arte Drammatica), ha esordito nella narrativa con il racconto scritto in collaborazione con Niccolò Ammaniti per l'antologia Crimini.
Del 2005 il suo primo romanzo, Sangue marcio (Fazi).
Con Einaudi Stile libero ha pubblicato La giostra dei criceti (2007).
Un suo racconto è uscito nell'antologia Capodanno in giallo (Sellerio 2012).
Del 2013, sempre per Sellerio, ha pubblicato il romanzo giallo Pista Nera. Secondo episodio della serie: La costola di Adamo (Sellerio 2014).
Nel 2015 pubblica Non è stagione (Sellerio), Era di maggio (Sellerio) e Sull'orlo del precipizio (Sellerio). Del 2016 è Cinque indagini romane per Rocco Schiavone (Sellerio). Altri suoi romanzi pubblicati con Sellerio sono: 7-7-2007 (2016), Pulvis et umbra (2017), La giostra dei criceti (2017), L' anello mancante. Cinque indagini di Rocco Schiavone (2018), Fate il vostro gioco (2018), Rien ne va plus (2019), Ogni riferimento è puramente casuale (2019), Gli ultimi giorni di quiete (2020), Vecchie conoscenze (2021) e Le ossa parlano (2022).

Renzo Montagnoli

 

 

10 Giugno

Storia dei cavalieri templari

di Marco e Matteo Salvador

Edizioni Biblioteca dell’Immagine

Narrativa

 

Quello che è importante sapere

L’Ordine dei Templari fu fondato nel 1129 dal nobile Ugo de Payns, dietro richiesta di Bernardo di Chiaravalle e alla fine della prima crociata, con lo scopo di proteggere i luoghi santi e i pellegrini con l’uso anche delle armi, una vera e propria novità visto che si trattava di monaci soldati. Fra alterne vicende furono in auge fino al 1307, quando iniziò un processo a carico degli aderenti promosso dal re di Francia Filippo IV che intendeva, come effettivamente fece, incamerare le cospicue ricchezze dell’ordine per rimpinguare le ormai vuote casse dello Stato; l’ordine fu poi sospeso amministrativamente dal pontefice Clemente V che agì così, pur consapevole dell’insussistenza delle accuse alla base del processo, al fine di evitare uno scisma nella chiesa cattolica. Fra abiure e condanne a morte i confratelli superstiti confluirono in un altro ordine, quello dei cavalieri Ospitalieri.   

Di questi monaci soldati parla questo libro, uscito nel marzo c.a., quindi dopo la morte di Marco Salvador avvenuta il 16 febbraio e dispiace ulteriormente sapere che non ha potuto vederlo pubblicato, tanto più che non si tratta di un’opera minore, ma di un lavoro di notevole interesse come tutti quelli dell’autore friulano. Certo che non è facile pensare come un così lungo periodo storico (circa due secoli), denso di avvenimenti, possa essere raccontato in sole 180 pagine, eppure i Salvador (è coautore il figlio Matteo) ci sono riusciti e molto bene, grazie a uno stratagemma, vale a dire parlare solo dei fatti ritenuti più rappresentativi e più importanti. Non solo, ma per introdurre meglio il discorso il libro inizia con un prologo in cui è descritta la fine dei tre più importanti rappresentanti dell’ordine, cioè Ugo de Painard, già ispettore di Francia, che morirà per le torture subite, Goffredo de Gonneville, a suo tempo precettore di Poitu-Asquitania e il Gran Maestro Giacomo de Molay. Questi ultimi due periranno invece su un rogo allestito in un’isola della Senna il 18 marzo 1314. Indi si prosegue con gli albori dell’ordine, il viaggio del fondatore in occidente per reclutare volontari e trovare finanziamenti; a seguire l’assedio di Ascalona con la morte del Gran Maestro Bernard de Tremely, la disfatta di Hattin, con il trionfo dei Saraceni, la crociata senza gloria di Federico II, la decadenza e la perdita della Terra Santa a seguito della presa di Acri, le trame ordite da  Filippo IV per impossessarsi delle ingenti ricchezze dell’Ordine, gli ultimi anni del Gran Maestro prima di finire sul rogo e la politica adottata dal Pontefice Clemente V per non inimicarsi il re di Francia. Insomma, c’è tutto quello che serve per conoscere, se non approfonditamente, ma logicamente la storia dei Templari. Tuttavia gli autori hanno ritenuto di aggiungere un’appendice, soprattutto per far comprendere l’interesse attuale per quest’Ordine, interesse  che in realtà inizia già nel XVIII secolo, cioè dopo ben quattrocento anni dal suo scioglimento. Successivamente è tutto un fiorire di romanzi con protagonisti questi cavalieri, prose che spesso sono opera solo di pura fantasia, ma che attraggono per l’alone di mistero, probabilmente dovuto alla tragica fine dell’ordine. Completa il tutto un viaggio pittorico in alcuni dei luoghi in cui i cavalieri operarono; si tratta di dipinti, molto belli, di David Roberts realizzati nel 1838 e nel 1839 nel suo lungo viaggio in Terra Santa e in Egitto.

Storia dei Cavalieri Templari si fa apprezzare anche perché le vicende narrate sono come quelle effettivamente avvenute, lasciando poco spazio alla creatività, ma con uno stile sobrio che privilegia l’immediatezza e che pertanto avvince il lettore.

Marco Salvador ci ha lasciato con un’altra opera di grande valore, la cui lettura non può che essere vivamente raccomandata.  

Marco Salvador (San Lorenzo, 10 novembre 1948 – San Lorenzo, 16 febbraio 2022). La narrativa di Salvador, sia essa di ambientazione storica sia d'impegno civile, ha una costante: la critica, alle volte feroce, al potere quando questo è sopraffazione o finalizzato unicamente a soddisfare personali ambizioni e interessi. Il tutto con una scrittura agile eppure intrigante sia nella prosa sia nella trame, in grado di non annoiare il lettore neppure trattando tematiche complesse. Le sue opere hanno ottenuto ottime critiche, traduzioni in varie lingue e numerosi riconoscimenti. A prova dell'accuratezza delle ambientazioni e ricostruzioni storiche, gli è stato assegnato il più prestigioso premio per la divulgazione storica: il Premio Riccardo Francovich, nel 2013.

Opere

Il Longobardo (Piemme, 2004) con cui ha vinto il "Premio Città di Cuneo per il primo romanzo", è un romanzo storico ambientato nel VII secolo e che ha come protagonista il re Rotari prima della sua salita al trono. ISBN 88-384-8192-X

·La casa del quarto comandamento (Fernandel 2004) narra la storia, i sentimenti e i pensieri di Martino, un settantenne relegato dal figlio in una casa di riposo. Il romanzo ha avuto due diverse trasposizioni teatrali e i diritti sono stati acquistati per una fiction RAI. ISBN 88-87433-49-6

·La vendetta del Longobardo (Piemme 2005) è un secondo romanzo storico ambientato nell'VIII secolo, che narra le vicende di Evaldo, un franco che dopo la deposizione dell'ultimo re merovingio Childerico III ad opera di Pipino il Breve, si rifugerà alla corte longobarda del re Desiderio.

·L'ultimo longobardo (Piemme 2006) è l'ultimo romanzo storico del trittico longobardo, ambientato nel periodo detto "pornocratico" quando crolla l'ultimo dominio longobardo a Benevento, e Marozia regna su Roma e dà origine alla leggenda della papessa Giovanna.

·Il maestro di giustizia (Fernandel 2007) narra una storia d'amore costretta a confrontarsi con la "dignità" del dolore e l'eutanasiaISBN 978-88-87433-87-6

·La palude degli eroi (Piemme 2009), si tratta di un romanzo storico ambientato nel XIII secolo e riguarda le vicende della fase finale del dominio di Ezzelino da Romano e segue le peripezie di un suo seguace scampato alla disfatta della famiglia Da Romano.

·L'educazione friulana (Edizioni Biblioteca dell'Immagine 2010), è stato definito un "amarcord friulano, colmo di ironia e di amore".

·L'erede degli dei (Piemme 2010) [[romanzo storico]] ambientato nel XIV sec. racconta le vicende di Corrado Da Romano, erede di Ezzelino da Romano e consigliere di Cangrande I della Scala.

·Il sentiero dell'onore (Piemme 2012) ultimo capitolo del trittico su Ezzelino da Romano e i suoi discendenti. Ambientato nel Patriarcato di Aquileia nel corso di un secolo e mezzo sino agli inizi del XVI secolo.

·Il trono d'oro (Piemme 2013) un affresco sulla grandezza e sullo splendore dell'Italia meridionale al tempo del principato longobardo di Salerno – Benevento.

·Processo a Rolandina (Fernandel 2017) la storia vera di un intersessuale condannato al rogo nella Venezia del XIV secolo. Trasposizione teatrale nel 2021.

·Lapis Lydius, (a cura del Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Volturnia 2018) gli intrighi tra monaci Franchi e Longobardi nell'abbazia di S. Vincenzo al Volturno.

·Una saga Veneziana (Edizioni Biblioteca dell'Immagine, 2019). La storia di una famiglia emigrata a Venezia da Firenze al principio del '300. Una saga nella quale le vicende personali e famigliari si mescolano a quelle della Serenissima e fanno rivivere al lettore la quotidianità di nobili, mercanti, armatori e popolani durante il periodo di massima potenza della città.

·Castelli Friulani (Edizioni Biblioteca dell'Immagine, 2020). Due volumi sul castelli del Friuli e il loro territorio, in collaborazione con Matteo Salvador e illustrati da Pierfranco Fabris.

·Storia dei cavalieri templari (Edizioni Biblioteca dell’Immagine, 2022), in collaborazione con Matteo Salvador.

Fonte Wikipedia

Matteo Salvador è Laureato in Economia Aziendale, ma le sue autentiche passioni sono  la storia delle fortificazioni (dai castelli medievali alle strutture difensive degli ultimi conflitti mondiali), la tutela e la protezione dell’ambiente soprattutto nella destra del Tagliamento, la fotografia.

Opere:

·Castelli Friulani (Edizioni Biblioteca dell'Immagine, 2020). Due volumi sul castelli del Friuli e il loro territorio, in collaborazione con Marco Salvador e illustrati da Pierfranco Fabris.

·Storia dei cavalieri templari (Edizioni Biblioteca dell’Immagine, 2022), in collaborazione con Marco Salvador.
Renzo Montagnoli

 

 

5 Giugno

Il libro degli animali

di Mario Rigoni Stern

Edizioni Einaudi

Narrativa

 

Il rispetto per la natura

E’ noto il profondo amore di Mario Rigoni Stern per la natura, un amore che è dato da uno scrupoloso rispetto della stessa, in tutte quelle che sono le sue manifestazioni, dal suo variare nelle stagioni agli animali che ci circondano. Quello però che è per lui l’attrazione maggiore, il punto di riferimento che avvince, con i suoi silenzi, con i suoi misteri, con gli esseri che lo abitano, è il bosco. Con Mario Rigoni Stern gli alberi non sono semplici vegetali, sono protagonisti dell’esistenza al pari degli uomini, ma quelli che più di tutti appaiono in sintonia con lui sono gli animali, dai cani ai galli cedroni, ai caprioli. Nel leggere i racconti di questa raccolta ci si accorge come un uccello, o un cane, o comunque qualsiasi altra creatura finisca con il diventare personaggio di sicuro interesse al pari certi uomini. Non ci si può non emozionare nel leggere di Alba e di Franco, due cani da caccia quasi leggendari, bravi e intelligenti, oppure del capriolo nato sotto la pioggia del temporale, fra tuoni e fulmini che hanno temporaneamente allontanato la madre, ma che la bontà di alcuni taglialegna gli permettono di superare indenne le difficili prime ore di vita e di seguire poi la genitrice che verrà a prenderlo quando smette di piovere. Ma ci sono anche storie di api, di sciami che lo spirito di osservazione di Rigoni Stern, unitamente alla sua passione per l’apicultura, diventano un vero e proprio trattato di etologia, interessante, piacevole e facile da leggere. E fra tutte queste storie c’è anche quella di un bosco che muore per colpa di un parassita, però con la speranza che possa presto rinascere a nuova vita, una resurrezione che l’autore, dati i tempi non brevi di crescita, paventa, tristemente, di non poter vedere.

Questi racconti, di carattere naturalistico, sono frutti delle attente osservazioni di Rigoni Stern e fra questi c’è una chicca, poiché uno parla di un gufo delle nevi, una assoluta rarità per l’altopiano, trattandosi di un volatile il cui habitat è nell’estremo nord dell’emisfero boreale.

E’ bello conoscere come l’equilibrio della natura sia perfetto e come possa essere compromesso solo dall’uomo, incapace di rendersi conto di essere parte della natura e non superiore alla stessa. Il libro degli animali è un giusto richiamo ecologico a un approccio attento e rispettoso con il mondo che ci circonda, di cui tutti dovrebbero tenere conto per la salute dello stesso, e quindi anche nostra.

Da leggere, più che un consiglio è una raccomandazione.

Mario Rigoni Stern (Asiago, 1 novembre 1921 – Asiago, 16 giugno 2008). Scrittore italiano. Esordì con Il sergente nella neve (1953), una delle più notevoli testimonianze letterarie della seconda guerra mondiale, alla quale l’autore partecipò con gli alpini sul fronte russo. Dopo anni di silenzio Rrigoni Stern è tornato alla narrativa con i racconti Il bosco degli urogalli (1962) e i romanzi La guerra della naia alpina (1967), Quota Albania (1967), Ritorno sul Don (1973), Storia di Tönle (1978, premio Campiello), emblematica biografia di un solitario montanaro durante la grande guerra, uno dei suoi esiti più alti. Successivamente, accanto a nuovi romanzi, L’anno della vittoria (1985) e Amore di confine (1986), lo scrittore ha pubblicato diverse opere che testimoniano di una sua crescente adesione al mondo della natura: Uomini, boschi e api (1980), Il libro degli animali (1990), Arboreto selvatico (1991). In Le stagioni di Giacomo (1995, premio Grinzane) ha raccontato i luoghi d’origine. Nella produzione successiva tornano i suoi temi dominanti: Sentieri sotto la neve (1998), Tra due guerre e altre storie (2001), Stagioni (2006), I racconti di guerra (2006).
(dall'
Enciclopedia della Letteratura Garzanti)
Renzo Montagnoli

 

 

31 Maggio

Sorgo rosso

di Mo Yan

Edizioni Einaudi

Narrativa 

Quasi un poema epico

Mi corre l’obbligo di una premessa che ritengo indispensabile, soprattutto per chi ha conoscenze botaniche limitate come nel mio caso, tanto che non sapevo assolutamente cosa fosse e come fosse il sorgo. E’ un cereale simile al mais con un fusto che può arrivare anche a tre metri d’altezza e che in autunno, a completa maturazione, assume un bel colore rosso. Per quanto possa essere indicato per l’alimentazione umana e del bestiame nel libro di Mo Yan viene utilizzato per produrre una bevanda alcolica, una specie di vino.

Ciò premesso, passo a quest’opera la cui lettura non è certo facile, ma che per molti versi è possibile definire affascinante. Innanzi tutto il libro è dato dall’unione di 5 romanzi, ognuno suddiviso in capitoli, e per la precisione e completezza intitolati, rispettivamente, Sorgo rosso, Vino di sorgo, Le vie dei cani, Il funerale del sorgo e Pelli di cane. Sebbene non mi piaccia fornire anticipazioni della trama -  nel caso specifico piuttosto complessa ricorrendo parecchie volte, forse anche troppe, ai flashback -  è tuttavia indispensabile che fornisca alcuni brevi cenni per comprendere di che si tratta. Si parla dell’epopea, quasi una saga, di una famiglia di produttori di vino di sorgo in un arco di tempo del secolo scorso che va dal banditismo degli anni Venti alla tremenda invasione giapponese degli anni Trenta e Quaranta per arrivare grosso modo al periodo immediatamente prima della Rivoluzioni culturale. C’è un narratore, che è l’ultimo discendente di questa famiglia, e che racconta le vicende, vere e proprie gesta, dei suoi nonni e dei suoi genitori. Ogni tanto torna indietro nel tempo, in genere con abilità, cioè senza ingenerare fastidio, ma qualche volta l’autore si è lasciato prendere la mano e allora diventa difficile fare i necessari raccordi. Comunque è scritto in modo magnifico, alternando sapientemente, a pagine di notevole violenza, altre in cui la natura provvede a portare in chi legge un profondo senso di serenità. In particolare ho trovato una notevole capacità nel descrivere scene di battaglia, quasi come se davanti ai nostri occhi scorresse un film, ma dove si supera Mo Yan è proprio nella descrizione della natura, tanto che i campi di sorgo rosso che ondeggiano al vento, le acque del fiume che scorrono vicino e i tramonti che paiono pennellate sapienti di un pittore espressionista finiscono con il diventare un palcoscenico atto a smorzare gli orrori dei combattimenti, fanno vibrare il cuore del lettore, che, impietrito dalla follia sanguinaria degli uomini, ritrova il sentiero che lo riconduce a una vita più tranquilla, nella consapevolezza che noi non siamo altro che ignari attori di quella grande commedia che è la vita.

Di fronte alle emozioni che l’opera può suscitare i piccoli aspetti negativi dati da qualche flashback non raccordato benissimo diventano inezie, tanto è il piacere di immergersi in una narrazione che stupisce e avvince come poche.

Forse non è un caso se dall’opera è stato tratto un film, con lo stesso titolo, e con la regia di  Zhāng Yìmóu  che si è aggiudicato L’orso d’oro al Festival di Berlino  del 1988, così come non deve stupire che l’Accademia delle Scienze di Stoccolma abbia conferito a Mo Yan  il Nobel per la letteratura  nel 2012.

Il mio consiglio è di leggerlo senza fretta, di assaporare pagina per pagina il gusto di un’opera che non ne ha forse l’ambizione, ma che si riallaccia idealmente ai grandi poemi dell’antichità, con un tono epico in cui si integra benissimo qualche richiamo al fantastico, tanto che più d’uno ha ritenuto di accostarla a Cent’anni di solitudine del colombiano Gabriel Garcia Marquez.

Se la Cina può ancora sembrare un paese molto lontano, nonostante da tempo risulti più facilmente accessibile, fa piacere  che da esso sia arrivato uno scritto capace di unire gli uomini nel nome della grande letteratura, di quella sempre valida, cioè senza tempo, a dimostrazione che, se tante cose possono dividerci, l’arte, soprattutto quando è eccelsa come nel caso di Sorgo rosso, è sempre in grado di affratellarci. 
Mo Yan (1955, Gaomi), pseudonimo dello scrittore cinese Guan Moye.
Mo Yan significa, «colui che non vuole parlare» ed è una sorta di risposta scherzosa alla nonna che lo zittiva sempre.
Fondatore del movimento letterario «Ricerca delle radici», è considerato il più rilevante scrittore cinese contemporaneo.
Dalla sua scrittura evocativa e potente emerge l’anima senza tempo della grande civiltà cinese, impregnata di poesia, di violenza, di sentimenti primigeni.
Mo Yan, originario di Gaomi nella provincia dello Shandong, nasce da una famiglia numerosa di contadini poveri e, dopo aver terminato i cinque anni delle scuole elementari, smette di studiare.
In principio porta al pascolo mucche e pecore e i suoi rapporti con questi animali sono più frequenti di quelli con le persone; prova cosí il gusto della solitudine, ma acquista una profonda conoscenza della natura. Crescendo, unendosi agli adulti partecipa alle attività lavorative della comunità.
A diciotto anni va a lavorare in una manifattura di cotone, e facendo capriole tra le balle si riempie di fili.
Nel febbraio del 1976 abbandona il povero e isolato paese natale per arruolarsi nell'esercito. Fa il soldato semplice, il caposquadra, l'istruttore, il segretario e lo scrittore.
Nel 1997, congedatosi dall'esercito, inizia a lavorare per un giornale. Nel frattempo si è laureato presso la Facoltà di Letteratura dell'Istituto Artistico dell'Esercito di Liberazione Popolare (1984-1986) e ha ottenuto un Master in Studi letterari e artistici presso l'Università Normale di Pechino (1989-1991). Inizia a pubblicare nel 1981.
Fra le sue numerose opere narrative, Einaudi ha finora pubblicato Sorgo rosso ("grandiosa epopea che, attraverso le vicende e gli amori del bandito Yu Zhan’ao, ritrae a tutto tondo un popolo e la sua terra, sullo sfondo dei grandi eventi storici: dal banditismo degli anni Venti all’occupazione giapponese, fino alle soglie della Rivoluzione culturale"), L'uomo che allevava i gatti (entrambi del 1997), Grande seno, fianchi larghi (2002, censurato in patria per la crudezza), Il supplizio del legno di sandalo (2005, "sconvolgente esplorazione d’ogni forma dell’agonia condotta attraverso un gioco sottile di stili narrativi, reinterpretati dall’opera cinese classica, che lascia vibrare l’accordo dissonante dell’eccesso, teso tra il sublime e il mostruoso") e Le sei reincarnazioni di Ximen Nao.
Nel 2005 gli è stato assegnato il Premio Nonino.
Delle sue undici novelle si ricordano Felicità, Fiocchi di cotone, Esplosioni, Il ravanello trasparente. Tra i racconti, Il cane e l'altalena e Il fiume inaridito, che Einaudi ha pubblicato nella raccolta di racconti L'uomo che allevava i gatti (2008).
Ha anche scritto opere teatrali e sceneggiature cinematografiche come Sorgo rosso, Il sole ha orecchie, Addio mia concubina.
Il film Sorgo rosso (con la regia di Zhang Yìmóu) è stato premiato con l'Orso d'Oro al Festival del Cinema di Berlino. Il film Il sole ha orecchie è stato premiato con l'Orso d'Argento al Festival del Cinema di Berlino.
Nel 2005 gli è stato assegnato il Premio Nonino per la sua intera opera.
Nel 2012 vince il Premio Nobel per la Letteratura con la seguente motivazione: "who with hallucinatory realism merges folk tales, history and the contemporary" (con realismo allucinatorio fonde fiabe popolari, storia e contemporaneità). Nel 2019 con Einaudi esce I tredici passi.
Fonti: Archivio storico Einaudi, Enciclopedia della Letteratura Garzanti
Renzo Montagnoli

 

26 Maggio

Equilibrio

di Gabriele Oselini

Fara Editore

Poesia

 

La serenità della natura

Di questo poeta mantovano avevo già letto le sillogi Piove (Fara, 2011), La mia casa (Fara, 2014) e Fiori rossi (Fara, 2018), ritraendone una positiva impressione; in particolare ho potuto apprezzare le tematiche, connesse alla natura, una natura di certo reale e non idilliaca, per quanto non manchino note  che richiamano una osmosi fra il mondo circostante e l’intima natura dell’autore, note che senza giungere a far assumere ai versi un alone mistico pur tuttavia li nobilitano con una rappresentazione intensa e di chiara efficacia. Anche in Equilibrio ritroviamo argomenti già affrontati, ma esposti in modo diverso, frutto di più attente osservazioni e di intuizioni più felici (  Memoria - lenti passi cadenzati / e brezza odorosa / sui campi coltivati / rosso tramonto / sulla spianata / d’argento / un morbido / grigio nebbia / sfuma anche la memoria ); è appena il caso di far rilevare che a questa atmosfera quasi rarefatta molto contribuiscono aspetti della natura tipici della zona di residenza dell’autore, con i campi coltivati e la felice chiusa finale che accompagna il grigio della nebbia alla memoria che si impigrisce e viene lentamente meno. Questa immersione nella natura è sempre presente e in alcuni casi diventa prevalente, tanto da fornire con poche e sapienti pennellate un quadro d’insieme che non è solo visione, ma è anche atmosfera, come in Primavera ( Incanto / sonoro / nell’aria / musicata / dagli uccelli / brillano / i campanili / nascosti a tratti / da brutti edifici / ma rami / in fiore / di ogni colore / profumano / tenaci / l’aria / della primavera). E ogni osservazione del mondo circostante determina sensazioni ed emozioni che Oselini puntualmente riporta ed esterna con i suoi versi. E’ tanto più apprezzabile questa sua capacità di comunicare quanto prova perché lo fa con semplicità e pertanto il risultato è di particolare efficacia. Del resto la vita di paese, il Po, fiume imponente e silenzioso che scorre vicino, i campi coltivati, i filari di pioppi, i colori dell’alba e del tramonto si riflettono puntualmente nell’autore, determinano gli slanci di creatività, fanno sì che tutta la sua produzione presenti un filo conduttore che non viene mai meno. Oselini vede con gli occhi, ma soprattutto con il cuore e riesce a cogliere quella magia della natura che l’uomo del XXI secolo sembra aver dimenticato per rincorrere un fatuo benessere (sulla riva del fiume fra salici e fruscii nembi d’uccelli neri si specchiano nell’acqua grigia l’onda leggera risucchia nella sabbia avvolgente e sinuosa orme di piedi nudi una frasca nasconde i pudici sguardi di due giovani amanti ). E’ una scena incantata che compone un quadro d’insieme in cui, in un mondo quasi primigenio, l’uomo sembra ritrovare le passioni, gli affetti, con quei pudici sguardi di due innamorati nascosti da una frasca. Non credo che debba aggiungere altro, se non l’invito a leggere questa raccolta che, come le altre dello stesso autore, è capace di infondere un grande senso di serenità.

Gabriele Oselini (1953) è nato e risiede a Viadana (MN). Ha conosciuto negli anni ’70 Daniele Ponchiroli, caporedattore della casa editrice Einaudi, col quale ha intessuto un rapporto di profonda amicizia e dal quale ha ricevuto numerosi stimoli culturali e umani.

Ha partecipato a diversi concorsi nazionali di poesia. È stato segnalato alla III edizione del concorso Pubblica con noi di Fara Editore, con cui ha pubblicato (2005) una selezione di versi all’interno di Antologia pubblica, e successivamente le sillogi Specchio (2006), Finito (2008), Piove (2011), La mia casa (2014) e Fiori rossi ( 2018). Ha collaborato con l’editore Afro Somenzari di Fuoco fuochino. È stato premiato al VII Concorso di poesia Roberto Fertonani di Rivarolo Mantovano (2017)
Renzo Montagnoli

 

21 Maggio

Castelli friulani.

Vol. II

di Marco Salvador e Matteo Salvador

Illustrazioni di Pierfranco Fabris

Edizioni Biblioteca dell’immagine

Storia

Sicuramente interessante

Dato il numero di certo non trascurabile dei castelli friulani per parlarne di tutti è stato necessario un secondo volume che comprende i rimanenti, vale a dire quelli di  Caneva, Cordovado, Pinzano, Polcenigo, Porcia, Sesto al Reghena, Spilimbergo, Toppo, Torre, Valvasone e Zoppola.  Come per il precedente l’esposizione ha carattere preminentemente storico, ma non trascura anche le indispensabili indicazioni per i visitatori, diventando così una guida concisa, ma completa. Se queste antiche fortezze potessero parlare avrebbero da raccontare tante storie, ma poiché sono impossibilitate per fortuna ci hanno pensato Marco e Matteo Salvador a parlarci di personaggi, di eventi e anche di leggende, che sempre si accompagnano a queste antiche vestigia. Sono vicende di dame, di cavalieri, di guerre e anche boccacesche, come quella che riporto per intero di seguito: “Dopo aver abitato per alcuni anni a Valvasone, i discendenti di Giovanni Francesco si stabilirono a Pordenone con un'ottima posizione sociale e una discreta ricchezza. Ciò fino al 1560, con un Francesco il cui padre aveva sperperato tutto lasciandogli solo cinquanta ducati. Egli allora si trasferì a Cormons dove le cose gli andarono di male in peggio. Perciò accolse l'oscena proposta, ma ben pagata sotto forma di dote, del nobile Giacomo de Casali di Udine: sposarne la figlia Francesca già ingravidata dal canonico Nicolò de Cassinis, a sua volta figlio illegittimo del canonico Leonardo e di una monaca di S. Nicolò di Udine, suor Soave. Francesca, definita dai più gentili come 'donna impudica', partorì da li a poco una figlia cui fu dato il nome di Leonarda; ma anche a far nascere la seconda figlia, Costanza, ci pensò il canonico Cassinis così come il terzo ed unico figlio maschio, Enea, nato quando il povero Francesco era già morto. Enea, a sua volta, scoperto dal padre naturale Nicolò de Cassinis a svuotargli il forziere, fu da questi assassinato a pugnalate nel 1546. Allora il boccaccesco canonico venne rinchiuso nella prigione di Gradisca dove tentò il suicidio. Trasportato a Cividale, morì poco dopo assistito dalla sua amante Francesca. “.

Potrei dire che ce n’è per tutti i gusti, ma soprattutto che è una cavalcata in un mondo che non c’è più e che ai nostri occhi appare affascinante, ma che all’epoca doveva essere piuttosto tenebroso. In ogni caso di tratta di una lettura che accresce culturalmente e che è veramente piacevole, due caratteristiche che rendono questo secondo volume, come il primo del resto, particolarmente interessante.

Da ultimo un cenno doveroso alle riuscite illustrazioni di Pierfranco Fabris, capaci di mostrare i castelli ammantati da un fascino che sa di magico e di antico.

Marco Salvador (San Lorenzo, 10 novembre 1948 – San Lorenzo, 16 febbraio 2022). La narrativa di Salvador, sia essa di ambientazione storica sia d'impegno civile, ha una costante: la critica, alle volte feroce, al potere quando questo è sopraffazione o finalizzato unicamente a soddisfare personali ambizioni e interessi. Il tutto con una scrittura agile eppure intrigante sia nella prosa sia nella trame, in grado di non annoiare il lettore neppure trattando tematiche complesse. Le sue opere hanno ottenuto ottime critiche, traduzioni in varie lingue e numerosi riconoscimenti. A prova dell'accuratezza delle ambientazioni e ricostruzioni storiche, gli è stato assegnato il più prestigioso premio per la divulgazione storica: il Premio Riccardo Francovich, nel 20131.

Opere

Il Longobardo (Piemme, 2004) con cui ha vinto il "Premio Città di Cuneo per il primo romanzo", è un romanzo storico ambientato nel VII secolo e che ha come protagonista il re Rotari prima della sua salita al trono. ISBN 88-384-8192-X

·La casa del quarto comandamento (Fernandel 2004) narra la storia, i sentimenti e i pensieri di Martino, un settantenne relegato dal figlio in una casa di riposo. Il romanzo ha avuto due diverse trasposizioni teatrali e i diritti sono stati acquistati per una fiction RAI. ISBN 88-87433-49-6

·La vendetta del Longobardo (Piemme 2005) è un secondo romanzo storico ambientato nell'VIII secolo, che narra le vicende di Evaldo, un franco che dopo la deposizione dell'ultimo re merovingio Childerico III ad opera di Pipino il Breve, si rifugerà alla corte longobarda del re Desiderio.

·L'ultimo longobardo (Piemme 2006) è l'ultimo romanzo storico del trittico longobardo, ambientato nel periodo detto "pornocratico" quando crolla l'ultimo dominio longobardo a Benevento, e Marozia regna su Roma e dà origine alla leggenda della papessa Giovanna.

·Il maestro di giustizia (Fernandel 2007) narra una storia d'amore costretta a confrontarsi con la "dignità" del dolore e l'eutanasiaISBN 978-88-87433-87-6

·La palude degli eroi (Piemme 2009), si tratta di un romanzo storico ambientato nel XIII secolo e riguarda le vicende della fase finale del dominio di Ezzelino da Romano e segue le peripezie di un suo seguace scampato alla disfatta della famiglia Da Romano.

·L'educazione friulana (Edizioni Biblioteca dell'Immagine 2010), è stato definito un "amarcord friulano, colmo di ironia e di amore".

·L'erede degli dei (Piemme 2010) [[romanzo storico]] ambientato nel XIV sec. racconta le vicende di Corrado Da Romano, erede di Ezzelino da Romano e consigliere di Cangrande I della Scala.

·Il sentiero dell'onore (Piemme 2012) ultimo capitolo del trittico su Ezzelino da Romano e i suoi discendenti. Ambientato nel Patriarcato di Aquileia nel corso di un secolo e mezzo sino agli inizi del XVI secolo.

·Il trono d'oro (Piemme 2013) un affresco sulla grandezza e sullo splendore dell'Italia meridionale al tempo del principato longobardo di Salerno – Benevento.

·Processo a Rolandina (Fernandel 2017) la storia vera di un intersessuale condannato al rogo nella Venezia del XIV secolo. Trasposizione teatrale nel 2021.

·Lapis Lydius, (a cura del Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Volturnia 2018) gli intrighi tra monaci Franchi e Longobardi nell'abbazia di S. Vincenzo al Volturno.

·Una saga Veneziana (Edizioni Biblioteca dell'Immagine, 2019). La storia di una famiglia emigrata a Venezia da Firenze al principio del '300. Una saga nella quale le vicende personali e famigliari si mescolano a quelle della Serenissima e fanno rivivere al lettore la quotidianità di nobili, mercanti, armatori e popolani durante il periodo di massima potenza della città.

·Castelli Friulani (Edizioni Biblioteca dell'Immagine, 2020). Due volumi sul castelli del Friuli e il loro territorio, in collaborazione con Matteo Salvador e illustrati da Pierfranco Fabris.

·Storia dei cavalieri templari (Edizioni Biblioteca dell’Immagine, 2022), in collaborazione con Matteo Salvador.
Fonte Wikipedia

Matteo Salvador è Laureato in Economia Aziendale, ma le sue autentiche passioni sono  la storia delle fortificazioni (dai castelli medievali alle strutture difensive degli ultimi conflitti mondiali), la tutela e la protezione dell’ambiente soprattutto nella destra del Tagliamento, la fotografia.

Opere:

·Castelli Friulani (Edizioni Biblioteca dell'Immagine, 2020). Due volumi sul castelli del Friuli e il loro territorio, in collaborazione con Marco Salvador e illustrati da Pierfranco Fabris.

·Storia dei cavalieri templari (Edizioni Biblioteca dell’Immagine, 2022), in collaborazione con Marco Salvador.

 Pierfranco Fabris, nato nel 1948 a Venezia, dove vive e lavora. Ha esercitato la professione di architetto per quarant’anni fino al 2015 e da allora si dedica totalmente alla pittura e all’illustrazione. Ha nel corso degli anni presentato i suoi lavori in mostre personali e collettive. Per Biblioteca dell’immagine ha pubblicato “Venezia, il Canal Grande” con Pier Alvise Zorzi, “Pordenone, la Città Dipinta” con Fulvio Comin, “Trieste, la Città Imperiale” con Nicolò Girardi, “Le Ville Venete” e “Le Ville Friulane, Istriane e Dalmate” con Alessandro Marzo Magno.
Renzo Montagnoli

 

8 Maggio

Castelli friulani.

Vol. 1

di Marco Salvador e Matteo Salvador

Illustrazioni di Pierfranco Fabris

Edizioni Biblioteca dell’immagine

Storia 

Andar per castelli friulani

Questo libro è stato scritto per essere anche una guida dei numerosi castelli del Friuli, ma ricomprende soprattutto preziose annotazioni storiche, in cui non mancano episodi relativi al loro passato splendore, alcuni dei quali hanno le caratteristiche della leggenda. Del resto, se la presenza di Matteo Salvador è garanzia di capace e attenta descrizione delle fortificazioni, la penna di Marco Salvador è invece l’ornamento prezioso di vicende storiche che impediscono di considerare queste strutture difensive delle semplici pareti di pietra e così, nella narrazione, ci è data la possibilità di conoscerne il passato, di renderli una presenza ancor oggi viva per ciò che hanno rappresentato secoli fa.

Dal castello di Ahrensperg a quello di Villalta, passando per molti altri manieri, si finisce così con il conoscere un po’ la storia del Friuli, di questa terra di frontiera in buona parte sotto il dominio del Patriarcato di Aquileia.

Nella lettura si avverte chiaramente la presenza di uno storico di valore, capace di sintetizzare avvenimenti di rilievo in poche righe, come queste “Il 4 novembre del 1431, dopo una tenace resistenza degli assediati, Rosazzo venne ripresa dalle milizie ungheresi le quali, trascorsi ben quattro secoli dalle terribili scorrerie che avevano portato in Friuli, non dovevano aver perso certe abitudini: tagliarono infatti la mano destra a tutti i sopravvissuti e saccheggiarono e devastarono l'intero complesso abbaziale. Alcuni giorni dopo l'esercito veneziano le affrontò fra Manzano e Cormons, sconfiggendole. A quel punto scattò la terribile vendetta dei serenissimi, raddoppiata in quanto a crudeltà: vennero infatti mozzate entrambe le mai agli ungari catturati, e cavati loro gli occhi. Poco prima che questo fiume di sangue si riversasse nei territori abbaziali, i monaci benedettini avevano preso la sofferta decisione di abbandonare il complesso. La politica e le guerre avevano soffocato il desiderio di dedicarsi a Dio in serenità. “.

Se l’intento dell’opera è di essere anche una guida per chi vuole visitare queste fortificazioni, il contenuto va però appunto oltre, tanto che si ha netta l’impressione di essere presenti davanti alle mura, o ai torrioni, mentre si svolge uno degli eventi del passato che vengono riportati in luce. Non è che possa sostituire la visita diretta, che anzi trae ampio giovamento da quanto scritto nel volume, ma per chi, come me, non avrà occasione di andare in Friuli queste pagine rappresentano un documento indispensabile per avere almeno un’idea degli apparati difensivi che caratterizzavano i feudi di questa regione.

Mi corre inoltre l’obbligo di fare almeno un cenno alle illustrazioni realizzate da Pierfranco Fabris, perché sono belle e, soprattutto, hanno una patina di antico che le rendono particolarmente attraenti.

Infine, e a titolo di ulteriore informazione, preciso che questo primo volume parla delle seguenti fortificazioni: Ahrensperg, Ariis, Artegna, Cassacco, Castelmonte, Colloredo di Monte Albano e Mels, Cucagna e Zucco, Moscarda, Osoppo, Partistagno, Ragogna, Rive d’Arcano, Rosazzo, Strassoldo, Udine, Villalta.

Marco Salvador (San Lorenzo, 10 novembre 1948 – San Lorenzo, 16 febbraio 2022). La narrativa di Salvador, sia essa di ambientazione storica sia d'impegno civile, ha una costante: la critica, alle volte feroce, al potere quando questo è sopraffazione o finalizzato unicamente a soddisfare personali ambizioni e interessi. Il tutto con una scrittura agile eppure intrigante sia nella prosa sia nella trame, in grado di non annoiare il lettore neppure trattando tematiche complesse. Le sue opere hanno ottenuto ottime critiche, traduzioni in varie lingue e numerosi riconoscimenti. A prova dell'accuratezza delle ambientazioni e ricostruzioni storiche, gli è stato assegnato il più prestigioso premio per la divulgazione storica: il Premio Riccardo Francovich, nel 20131.

Opere

Il Longobardo (Piemme, 2004) con cui ha vinto il "Premio Città di Cuneo per il primo romanzo", è un romanzo storico ambientato nel VII secolo e che ha come protagonista il re Rotari prima della sua salita al trono. ISBN 88-384-8192-X

·      La casa del quarto comandamento (Fernandel 2004) narra la storia, i sentimenti e i pensieri di Martino, un settantenne relegato dal figlio in una casa di riposo. Il romanzo ha avuto due diverse trasposizioni teatrali e i diritti sono stati acquistati per una fiction RAI. ISBN 88-87433-49-6

·      La vendetta del Longobardo (Piemme 2005) è un secondo romanzo storico ambientato nell'VIII secolo, che narra le vicende di Evaldo, un franco che dopo la deposizione dell'ultimo re merovingio Childerico III ad opera di Pipino il Breve, si rifugerà alla corte longobarda del re Desiderio.

·      L'ultimo longobardo (Piemme 2006) è l'ultimo romanzo storico del trittico longobardo, ambientato nel periodo detto "pornocratico" quando crolla l'ultimo dominio longobardo a Benevento, e Marozia regna su Roma e dà origine alla leggenda della papessa Giovanna.

·      Il maestro di giustizia (Fernandel 2007) narra una storia d'amore costretta a confrontarsi con la "dignità" del dolore e l'eutanasiaISBN 978-88-87433-87-6

·      La palude degli eroi (Piemme 2009), si tratta di un romanzo storico ambientato nel XIII secolo e riguarda le vicende della fase finale del dominio di Ezzelino da Romano e segue le peripezie di un suo seguace scampato alla disfatta della famiglia Da Romano.

·      L'educazione friulana (Edizioni Biblioteca dell'Immagine 2010), è stato definito un "amarcord friulano, colmo di ironia e di amore".

·      L'erede degli dei (Piemme 2010) [[romanzo storico]] ambientato nel XIV sec. racconta le vicende di Corrado Da Romano, erede di Ezzelino da Romano e consigliere di Cangrande I della Scala.

·      Il sentiero dell'onore (Piemme 2012) ultimo capitolo del trittico su Ezzelino da Romano e i suoi discendenti. Ambientato nel Patriarcato di Aquileia nel corso di un secolo e mezzo sino agli inizi del XVI secolo.

·      Il trono d'oro (Piemme 2013) un affresco sulla grandezza e sullo splendore dell'Italia meridionale al tempo del principato longobardo di Salerno – Benevento.

·      Processo a Rolandina (Fernandel 2017) la storia vera di un intersessuale condannato al rogo nella Venezia del XIV secolo. Trasposizione teatrale nel 2021.

·      Lapis Lydius, (a cura del Museo Archeologico Nazionale di Napoli. Volturnia 2018) gli intrighi tra monaci Franchi e Longobardi nell'abbazia di S. Vincenzo al Volturno.

·      Una saga Veneziana (Edizioni Biblioteca dell'Immagine, 2019). La storia di una famiglia emigrata a Venezia da Firenze al principio del '300. Una saga nella quale le vicende personali e famigliari si mescolano a quelle della Serenissima e fanno rivivere al lettore la quotidianità di nobili, mercanti, armatori e popolani durante il periodo di massima potenza della città.

·      Castelli Friulani (Edizioni Biblioteca dell'Immagine, 2020). Due volumi sul castelli del Friuli e il loro territorio, in collaborazione con Matteo Salvador e illustrati da Pierfranco Fabris.

·      Storia dei cavalieri templari (Edizioni Biblioteca dell’Immagine, 2022), in collaborazione con Matteo Salvador.

Fonte Wikipedia

Matteo Salvador è Laureato in Economia Aziendale, ma le sue autentiche passioni sono la storia delle fortificazioni (dai castelli medievali alle strutture difensive degli ultimi conflitti mondiali), la tutela e la protezione dell’ambiente soprattutto nella destra del Tagliamento, la fotografia.

Opere:

·      Castelli Friulani (Edizioni Biblioteca dell'Immagine, 2020). Due volumi sul castelli del Friuli e il loro territorio, in collaborazione con Marco Salvador e illustrati da Pierfranco Fabris.

·      Storia dei cavalieri templari (Edizioni Biblioteca dell’Immagine, 2022), in collaborazione con Marco Salvador.

Pierfranco Fabris, nato nel 1948 a Venezia, dove vive e lavora. Ha esercitato la professione di architetto per quarant’anni fino al 2015 e da allora si dedica totalmente alla pittura e all’illustrazione. Ha nel corso degli anni presentato i suoi lavori in mostre personali e collettive. Per Biblioteca dell’immagine ha pubblicato “Venezia, il Canal Grande” con Pier Alvise Zorzi, “Pordenone, la Città Dipinta” con Fulvio Comin, “Trieste, la Città Imperiale” con Nicolò Girardi, “Le Ville Venete” e “Le Ville Friulane, Istriane e Dalmate” con Alessandro Marzo Magno.
Renzo Montagnoli

 

 

4 Maggio

Di guerra e di noi

di Marcello  Dòmini

Marsilio Editori

Narrativa 

Un romanzo storico piacevole e istruttivo

Da un po’ di tempo in Italia si è scoperta la bellezza del romanzo storico, soprattutto quando a scriverlo è un italiano e relativamente a un periodo abbastanza recente, in particolare quello che va grosso modo dalla metà del XIX secolo agli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale. Sono nate così opere più o meno interessanti che hanno aiutato e aiutano a cercare una verità storica, e in questi lavori si inserisce Di guerra e di noi, scritto da un medico-chirurgo, professore associato dell’Università di Bologna. Dico subito che si tratta di un romanzo molto avvincente, perché nel narrare la storia della famiglia Chiusoli, in particolare dei due fratelli Ricciotti e Candido, non solo vengono rappresentati eventi che vanno dalla Grande guerra alla fine della seconda guerra mondiale, ma soprattutto si denota il tentativo di tracciare la biografia di un importante rappresentante del fascismo, di quel Leandro Arpinati, dapprima ras di Bologna, poi membro del governo Mussolini, infine caduto in disgrazia tanto da essere inviato al confino, da cui venne liberato prima del tempo, per metterlo agli arresti domiciliari nella sua azienda agricola vicino al capoluogo emiliano. Se Ricciotti è il protagonista principale, Arpinati è il suo mentore, è quasi il suo padre putativo visto che quello vero è stato ucciso in guerra. In questo senso appare chiaramente come la figura di maggior prestigio rifletta le sue caratteristiche peculiari nel più giovane allievo che, in tono minore, ha un’esperienza analoga, passando dal credo fascista alla resistenza, senza però ricorrere alla violenza, ma prestandosi con il soccorrere i feriti. Ricciotti è quel che potrebbe essere definito un moderato  e con questo si distingue dal primo Arpinati, il capo dei picchiatori fino alla marcia su Roma; tuttavia l’ex capo dello squadrismo bolognese è cambiato, maturando la consapevolezza degli errori commessi, al punto dall’essere disposto, nei giorni convulsi della liberazione, a essere processato e a scontare qualche anno di prigione, e ciò nonostante il suo tardivo ravvedimento che l’ha portato dopo l’8 settembre 1943 a rifiutare incarichi nella Repubblica Sociale Italiana offertigli da Mussolini e ad appoggiare invece la Resistenza, senza materialmente combattere. Sappiamo purtroppo come andò a finire, visto che fu assassinato da alcuni partigiani comunisti insieme al suo ospite da tempo, il socialista Torquato Nanni. Nel libro Ricciotti è presente all’omicidio e tenta di impedirlo, ma inutilmente, anzi restando ferito lui stesso ed è l’unico elemento di fantasia della ricostruzione fatta dal narratore, come del resto lo è tutta la famiglia Ricciotti, e anche altri attori; però non pochi personaggi e molti eventi sono reali, nel senso che non sono inventati, ed è un merito di Dòmini l’avere inserito perfettamente il frutto della propria creatività nel tessuto storico che contraddistinse quel periodo, rendendo ancor più credibili i protagonisti di sua invenzione. Direi che come opera prima è riuscita molto bene e sono pochi gli appunti che mi sento di fare, come per esempio i periodi, anche lunghi, in dialetto bolognese (io lo capisco, ma per altri credo che risulti un po’ ostico), oppure la favola lunghissima, interminabile che Ricciotti racconta alla sera ai suoi figli e nipoti, atteggiamento comprensibile per fare dimenticare loro la guerra, meno comprensibile è non averne solo accennato, ma dedicato diverse pagine che insomma tendono a portare fuori tema.

A parte questi peccati, che mi sento di definire veniali, la creatività dell’autore, lo stile fluente, la capacità di ricreare l’ambientazione e le atmosfere sono veramente aspetti qualitativi di tutto rilievo che mi consentono di caldeggiare la lettura di questo romanzo.

Marcello Dòmini (Bologna, 1965), medico-chirurgo e professore associato all’Università di Bologna dal 2004, opera e svolge le sue ricerche nell’ambito della chirurgia pediatrica. Di guerra e di noi è il suo primo romanzo.
Renzo Montagnoli

 

 

29 Aprile

Preghiera per Cernobyl'

Cronaca del futuro

di Svetlana Aleksievic

Edizio E/O

Narrativa 

 Un futuro distopico
“Questo libro non parla di Cernobyl’ in quanto tale, ma del suo mondo. Proprio di ciò che conosciamo meno. O quasi per niente. A interessarmi non era l’avvenimento in sé, vale a dire cosa era successo e per colpa di chi, bensì le impressioni, i sentimenti delle persone che hanno toccato con mano l’ignoto. Il mistero. Cernobyl’ è un mistero che dobbiamo ancora risolvere... Questa è la ricostruzione non degli avvenimenti, ma dei sentimenti. Per tre anni ho viaggiato e fatto domande a persone di professioni, destini, generazioni e temperamenti diversi. Credenti e atei. Contadini e intellettuali. Cernobyl’ è il principale contenuto del loro mondo. Esso ha avvelenato ogni cosa che hanno dentro, e anche attorno, e non solo l’acqua e la terra. Tutto il loro tempo. Questi uomini e queste donne sono stati i primi a vedere ciò che noi possiamo soltanto supporre... Più di una volta ho avuto l’impressione che in realtà io stessi annotando il futuro”.

C’è un capitolo del libro, il secondo, intitolato “Intervista dell’autrice a se stessa sulla storia mancata”, di cui sopra ho riportato uno stralcio, che ben esprime che cosa si è proposta Svetlana Aleksievič quando ha scritto l’opera, perché l’incidente nucleare di Chernobil, il più disastroso dell’ancor pur breve storia dell’energia atomica, orrendo nella sua tragicità, ha determinato un superamento del concetto di tempo, protraendo i suoi nefasti effetti anche negli anni a venire e definendo un nuovo scalino dell’evoluzione con l’homo chernobiliano. Che cosa è l’uomo chernobiliano? E’ un povero essere che fisicamente e psichicamente è la testimonianza vivente di una tragedia che va oltre ogni possibile immaginazione, tanto che verrebbe da dire che furono fortunati quelli che morirono nelle prime ore successive all’esplosione del reattore numero quattro. La conseguenza dell’incidente è stata il rilascio nell’atmosfera di una quantità abnorme di radionuclidi che hanno contaminato circa 30.000 Kmq. dei terreni più prossimi e che a distanza di tempo (l’incidente è avvenuto il 26 aprile 1986), in forza del continuo assorbimento, anche se in piccole dosi, incide sulla salute delle popolazioni dei territori limitrofi con tumori, ritardi mentali, disturbi nervosi, turbe psichiche e mutazioni genetiche. Non solo ha avuto serie conseguenze chi era presente quel giorno nell’area che venne contaminata, ma la maledizione si è estesa anche ai nati successivamente. Il libro della Aleksievic è a dir poco sconvolgente, con interviste a povera gente condannata anche per il futuro, con la rassegnazione di chi sa di avere un marchio indelebile che, prima o poi, si risveglierà dal letargo con tutta la sua forza provocando dolore e morte. Ma se tutto è stato colpa di un tragico errore, ben più grave è stata la risposta del regime sovietico, tutto teso a minimizzare l’incidente, non prendendo con rapidità gli interventi idonei per limitare le conseguenze. La gente, inesperta, si rivolse fiduciosamente agli scienziati che risposero in continuazione che tutto andava bene, che non c’era da aver paura, e di ricorrere, come unica precauzione, al lavaggio delle mani prima di sedersi a tavola per desinare. Ma non sapevano ancora che stavano per passare la porta dell’inferno, che quell’aria che respiravano, che quell’acqua che bevevano, che quel cibo che mangiavano erano un veleno a scoppio ritardato che dopo qualche anno si sarebbe mostrato in tutta la sua forza e aggressività. Così come non erano stati avvisati del pericolo i pompieri accorsi per spegnere l’incendio e  che non erano stati dotati di tute antiradiazioni, anche gli abitanti furono trattati alla stregua di vittime sacrificali e forse questo è l’aspetto più grave, cioè il disinteresse di chi aveva il dovere di limitare i danni che avrebbe subito la popolazione. Nell’immediato della sciagura ci fu l’orrore degli altamente contaminati, condannati a una lunga e dolorosa agonia, ma per gli anni a venire c’è lo stillicidio delle morti per cancro, dei nati deformi, delle depressioni che finiscono con il cogliere quelli che si sentono privati dell’unica, ma più grande ricchezza di un essere umano: il diritto alla vita.

Imperdibile.

Svetlana Aleksievič è nata in Ucraina nel 1948 da padre bielorusso e madre ucraina. Giornalista e scrittrice, è nota soprattutto per essere stata cronista per i connazionali dei principali eventi dell’Unione Sovietica nella seconda metà del XX secolo. Fortemente critica nei confronti del regime dittatoriale in Bielorussia, è stata perseguitata dal presidente Aleksandr Lukašenko e la sua opera è stata bandita dal paese. Dopo dodici anni all’estero è tornata a Minsk, ma nel settembre del 2020 è stata costretta a fuggire in Germania. Per i suoi libri, tradotti in più di quaranta lingue, ha ricevuto il Premio Nobel per la Letteratura nel 2015.
Renzo Montagnoli

 

 

19 Aprile

Traditori di tutti.

Un’indagine di Duca Lamberti

di Giorgio Scerbanenco

La Nave di Teseo Edizioni

Narrativa 

 

Colpevole, ma non criminale

Accadono troppi fatti strani fuori Milano, con un’auto che affonda nel Naviglio con due persone a bordo e che annegano, come un analogo incidente di alcuni prima rubricato come omicidio colposo, e poi un’altra automobile che si inabissa sempre con due occupanti durante un furioso temporale, ma quest’ultimo però è chiaramente un fatto delittuoso, visto che il mezzo, che era inseguito dalla polizia, viene crivellato di colpi. Tre accadimenti simili non sono necessariamente collegati, il tutto dipende da chi sono le vittime, che non sono però persone incensurate, anzi sono gaglioffi non da poco, con gli uomini papponi e trafficanti di droga e le donne un po’ troppo di facili costumi. Sarà possibile assicurare alla giustizia i colpevoli, visto quanto sono intricate le vicende? Niente paura, indaga Duca Lamberti, il medico cancellato dall’ordine e anche a suo tempo rinchiuso in carcere per avere ucciso per pietà una signora malata terminale, e che ora con questo caso si gioca la possibilità di diventare un poliziotto.

Scerbanenco imbastisce una storia di non facile scrittura, visti gli intrecci, i sospetti in un ambiente in cui sono maturati i delitti e con il tradimento che sembra essere una costante, dandoci una visione di una Milano ormai diventata metropoli e quindi anche con la malavita della grande città, che spazia in tutti i campi profittevoli. Non troviamo più il ladro di galline o il baro, emergono invece personaggi tesi al massimo guadagno e per questo disposti a tutto, anche a uccidere. L’ambientazione e l’atmosfera sono rese in modo impeccabile  e, elemento di particolare pregio, la descrizione dei protagonisti non è solo fisica, ma viene fatta anche un’analisi psicologica. Il ritmo e la tensione poi sono palpabili, al punto che, come ho iniziato a leggere, non mi sono concesso pause, ansioso di vedere gli sviluppi e soprattutto di chiarire un mistero, quello del secondo incidente in ordine di tempo, il cui movente risale a molto prima, addirittura ai primi giorni del 1945.

Ed è con la soluzione di quest’ultimo caso che si conclude il libro, con un Duca Lamberti, che ha superato brillantemente la prova per essere ammesso in polizia, ma che ha un sapore amaro in bocca, quello che provano le persone integerrime quando sono costrette dalle circostanze ad assicurare alla giustizia un colpevole, ma non un criminale.

Da leggere, lo merita.

Giorgio Scerbanenco (Kiev, 28 luglio 1911 – Milano, 27 ottobre 1969), scrittore italiano di origine russa. Di madre italiana e padre ucraino, a sedici anni si stabilì a Milano. Fu collaboratore, redattore e direttore di periodici femminili ad alta tiratura, per i quali scrisse racconti e romanzi «rosa», per lo più ambientati nell’America degli anni Quaranta. Più tardi approdò al genere poliziesco e fu il successo, prima con Venere privata (1966), poi con Traditori di tutti (1966). Altrettanto fortunate le opere successive, da I ragazzi del massacro (1968) a I milanesi ammazzano al sabato (1969), ai racconti postumi di Milano calibro 9 (1969) e Il centodelitti (1970). Protagonista di quasi tutta la serie è Duca Lamberti, accorto investigatore della Milano «nera». Prodigioso narratore di storie e maestro nel catturare l’attenzione del lettore, Scerbanenco fu uno dei primi, in Italia, a confrontarsi con i gusti di un pubblico di massa. La sua scrittura, insieme ingenua e ricercata, antiletteraria, piena di sprezzature, veloce, è singolarmente efficace. Nel 2018 esce Luna di miele per La Nave di Teseo.
Renzo Montagnoli

 

 

12 Aprile

Ipotetico approdo

di Claudia Piccinno

Mediagraf Edizioni

Poesie 

Ciò che si può cogliere

La poesia è lo specchio dell’anima, riflette quelli che sono i nostri sentimenti, è una cartina di tornasole di quel che dentro di noi definiamo l’IO, ciò che veramente siamo. E allora può capitare di leggersi, di scoprire nei versi che escono dalla nostra penna una figura che nemmeno supponevamo, ma che altri, attenti a osservare il fluire delle parole, gli accostamenti sillabici, il filo predominante del discorso, già ci avevano classificato. Nel leggere queste poesie della raccolta Ipotetico approdo si può solo pensare che l’autore possa essere, anzi sia, un attento osservatore di situazioni e di eventi, ma anche come il suo sguardo si posi soprattutto sugli ultimi, sui più deboli, sui più sfortunati, senza compassione, ma eventualmente con pietà verso un mondo che permette che esistano certe situazioni, che consenta prevaricazioni e inutili crudeltà (Li ho portati i miei / studenti al cippo di Sabbiuno di Piano / a leggere quei 34 nomi tenendoci per mano. / Arno e Vanes erano con noi a dir più volte / non eravamo eroi, / non c’erano né buoni né cattivi,  / c’era la guerra / e urgeva difendere la nostra terra. . /….). Che si tratti dell’eroico sacrificio di partigiani o del mondo chiuso di un bimbo autistico per arrivare al tormento dei profughi bambini Claudia sa cogliere di ognuno la dignitosa interpretazione del ruolo di emarginati, di sconfitti dagli uomini, ma non dall’umanità. Sono versi dolenti, ma non enfatici, sono uno stato emozionale che si trasmette al lettore in un flusso continuo, quasi un pianto da tragedia greca, che lo scuote, gli induce una ribellione che non è ricorso alla forza, ma condivisione, un bel passo avanti rispetto al grande male di quest’epoca: l’indifferenza. Ma c’è posto anche per altro, per i grandi misteri come l’amore, per i contrasti assoluti fra fede e ragione, e non poteva mancare, a maggior ragione con i fatti di questi giorni, anche se la raccolta è ben antecedente, il richiamo alla pace, un termine che esiste perché è usato anche quello della guerra, perché senza guerra l’uomo non desidera la pace.

Potrei scrivere ancora e forse finirei l’inchiostro, tanto avrei da dire, ma ricordo che la poesia parla da sola, non ha bisogno di intermediari, sta lì in attesa che qualcuno la legga e, soprattutto, che sia disposto ad accoglierla; versi dopo versi, parole che si susseguono, immagini che si materializzano nella mente, sensazioni che prendono corpo, un piccolo sorriso di soddisfazione che si disegna sul viso, questa è la poesia, un’ostrica che poco a poco si schiude per rivelare il suo tesoro, una libertà che nessuno potrà mai togliere (Io nuvola, lei rondine - Libera come nuvola / nel cielo di marzo,/  cosciente della / piccolezza della rondine, / pretesi di guidarla / verso la luce / ….)

Claudia Piccinno​nasce a Lecce nel 1970, ma si trasferisce giovanissima in Lombardia e poi in Emilia Romagna dove attualmente vive. Presente in oltre sessanta raccolte antologiche, già membro di giuria in vari premi letterari a carattere nazionale e internazionale.
Insegnante di ruolo nella scuola primaria, Laurea in Lingue e Letterature straniere.

Per ulteriori informazioni e per quanto concerne il corposo numero di opere pubblicate è opportuno un rimando al sito personale http://claudiapiccinno.weebly.com/
Renzo Montagnoli

 

 

8 Aprile

Vita di una donna

di Carla Malerba

La Vita Felice Edizioni

Poesia

 

Ricordando

Dite la verità, chi a una certa età non si è voltato per ripensare al tempo trascorso, a quella che è stata, fino a quel momento, la propria vita?  Che si tratti di un poeta, oppure di un uomo che non ha velleità artistiche, tutti, dico tutti, sono passati per questa porta, spalancata sul passato a portare testimonianza della propria esistenza. E così è stato anche per Carla Malerba che, scrivendo poesie, ha voluto poi mettere in versi le sensazioni e le emozioni che ha provato nel volgersi indietro. E’ nata così Vita di una donna, una raccolta tematica che incuriosisce, poiché la vita di ognuno di noi è unica e irripetibile. Si va indietro nel tempo, si vanno a cogliere quegli eventi che più di altri sono rimasti indelebili, se non nella precisa memoria, almeno in quelle sono state le impressioni, o addirittura i turbamenti provati, come nel caso dell’amore giovanile (Ricordo quegli anni tumultuosi / dove tutto pareva avesse le ali, / correvano le mie gambe / come puledre al vento dell’estate. / I portici un po’ oscuri / aprivano varchi inaspettati / e i pensieri ad ogni angolo / incrociavano riverberi di sole. / Irragionevole amore che ti inganna / e ti fa compiere imprese straordinarie, / radere a volo d’angelo scarpate, / sfidare tempeste in mare aperto, / irragionevole amore dei vent’anni. ). Mi trovo in sintonia con questi versi, capaci di esprimere con una vena di pudore un sentimento che nasce all’improvviso, irragionevole appunto, salvo poi domandarsi il perché un essere umano possa attrarre così tanto. Tuttavia, nella vita c’è sempre un’alternanza di gioia e di dolore, quest’ultimo quando si patisce la perdita di un proprio caro, come in Tu, padre mio (Tu, padre mio, / eri un uomo di poche parole, / di una mitezza ferma / trattenuta nello sguardo. / Nominavi spesso il Padreterno:/ poi il silenzio dei giorni ultimi / precipitati nel dolore / e nella chiaroveggenza del rifiuto, / nella parola invocata, / l’ultima tua notte sulla terra.). Poi ci sono le nascite, i figli, di cui si cercano di serbare ricordi che evochino il loro percorso, come per esempio, il famoso dentino da latte, per non parlare di oggetti di uso comune, ma che hanno l’immediatezza di richiamare un periodo e alcune caratteristiche di questo (Che assurde cose / tiene una madre /  in un cassetto:/ un fiocco azzurro / di prima elementare, / un mazzo di carte ingiallite / di partite col nonno /nei pomeriggi invernali, / un paio di guanti / lasciati in un’aula di università / e restituiti poi /ad un piccolo alunno / confuso tra i dottori, / buono e tutto preso / per un giorno / da un ruolo diverso, importante. ). Sono tanti i ricordi che emergono dall’oblio, che pretendono quasi di essere ascoltati, in questo giorno che è tutta una vita, amori, dolori, profumi, sensazioni, nulla è lasciato al caso, perché sono la testimonianza che abbiamo vissuto e non mancano i sogni, i desideri irrealizzati che fino a quando non sono rimpianti fanno bene all’anima (Mi piacerebbe abitare / in un porto di mare / con tre bambini che conosco / forse in altura / per vedere brillare le lampare / di notte, e di giorno / le isole sfumate di foschia. / E vivrei qui / soltanto / di pane e di poesia. ). Non è ancora rimpianto, ma è una lacrima pescata nel profondo del cuore per un desiderio che si sa irrealizzabile, ma che finisce con il rappresentare un preciso punto di riferimento nell’arco degli anni, tanto che è rammentato in versi, e non potrebbe essere diversamente per una donna che vorrebbe vivere lì solo  di pane e di poesia.

Anche questa, come le due precedenti raccolte (Di terre straniere e Poesie future), mi è piaciuta per la capacità di esporre sentimenti ed emozioni con immediatezza, per la ricerca di argomenti che sappiano toccare il cuore senza squarciarlo, e infine per la serenità che riviene dalla lettura.

Carla Malerba è nata in Nord Africa, ma dal 1970 risiede in Italia. A Tripoli, sua città natale, pubblica giovanissima i suoi primi versi. Si laurea nel 1986 presso l’Università degli Studi di Siena con una tesi sulla poesia per l’infanzia. Ha insegnato Lettere ad Arezzo, città nella quale vive tuttora.

Nel 1999 pubblica a Cortona la sua prima raccolta “Luci e ombre “, seguita nel 2001 da “Creatura d’acqua e di foglie (Ed. Calosci, Cortona). In esse i temi della perdita e del dolore si fanno pressanti anche se, a tratti, la memoria assume una funzione salvifica. Con le raccolte “Di terre straniere” e “Vita di una donna” (entrambe pubblicate con La vita felice, Milano 2010 e 2015) la poetessa riprende i temi del viaggio esistenziale e degli affetti.

“Poesie future” (Puntoacapo editrice, giugno 2020) è la sua ultima raccolta

Alcune sue liriche sono presenti nell’antologia Novecento non più-Verso il Realismo terminale, (La Vita Felice, 2016), in Pioggia Obliqua Scritture d’arte (Nuovo poesia proposta) in Fiordalisi-Menti sommerse, in Tanti pensieri, in Alma poesia, in Poetrydream. Scrive anche racconti brevi alcuni dei quali sono stati pubblicati su Essere, periodico del Centro di solidarietà di Arezzo.

Ha ricevuto diversi riconoscimenti per la poesia inedita in concorsi nazionali tra cui un Premio speciale della Giuria al Premio Ossi di seppia 2020; primo premio al concorso Territori della parola, IV edizione 2018-2019 per la poesia inedita; nel 2020 il Gran Premio della giuria al Concorso Le occasioni C19 per le sezioni A e B; nel 2021 il Premio speciale Fondazione Giovanni Pascoli per la raccolta “Poesie future”; al Premio internazionale Le occasioni 2021 secondo Premio per la sezione B.
Renzo Montagnoli

 

 

2 Aprile

Gli ultimi testimoni

di Svetlana Aleksievič

Bompiani Editore

Narrativa

 

L’infanzia rubata

Chi può ricordare oggi i giorni della seconda guerra mondiale se non quelli che allora erano bambini e se un conflitto è sempre una tragedia lo è ancora di più per l’infanzia, in tempi normali un periodo della vita spensierato e gioioso, ma che di fronte alla violenza, alle bombe e al sangue era allora un incubo.

E’ a questi piccoli uomini che è dedicato questo libro di Svetlana Aleksievic, scrittrice bielorussa insignita nel 2015 del premio Nobel per la letteratura.

In giorni come questi, in cui fra le tante infuria una guerra in un paese che ci è vicino, leggere questo libro è quasi doveroso, perché l’autore, persona sensibile e contro le follie perpetrate invocando soventi scopi fasulli, si è posta tante domande, ma è arrivata a un’unica risposta, conclusiva e non contestabile: nulla può giustificare anche una sola lacrima di bambino.

I piccoli uomini, ormai ampiamente adulti, stimolati dalla scrittrice, rievocano, raccontano di un dolore sopito che ritorna con le parole, di una parentesi che sembrava chiusa, ma non lo era, e così ascoltiamo tante storie, commoventi, struggenti, che non possono non stringere il cuore.

E’ un’infanzia rubata, piccole vite sballottate nel vento impetuoso della storia, private di ogni cosa, ma quel che è più grave spesso rese orfane dei genitori, soprattutto della mamma, il rifugio sicuro a cui ogni bambino tende nel momento del pericolo. E spesso non si tratta solo di mamma o papà morti nel corso di un bombardamento, perché c’è ancor di peggio: la follia cieca dei tedeschi che, per imporre il loro volere, uccide spesso innocenti che non hanno compiuto atti ostili, solo per dare una dimostrazione  della loro ferocia. Non sono solo i genitori fucilati davanti ai figli, perché non di rado anche i bimbi cadono sotto le raffiche di mitra, colpevoli solo di esistere.

Ci sono pagine e narrazioni capaci di smuovere anche il cuore più indurito, bimbi rimasti senza i genitori che fuggono disperati in cerca di qualcuno che li soccorra e questo capita quasi sempre. Come ci sono gli uomini che uccidono ci sono per fortuna quelli che aiutano, che comprendono e vedono il terrore negli occhi del bambino e allora, nonostante le difficoltà e i pericoli, vengono in soccorso, diventano nuovi padri e nuove madri, ridanno una speranza nel futuro a chi credeva di averla irrimediabilmente persa. Questi buoni samaritani oggi non ci sono più, sono mancati secondo il corso naturale della vita, ma sono sicuro che sarebbero felici se sapessero quanto sono ricordati, con quanto amore si parla di loro. Quello che però è più importante in questo libro è ciò che meno ci si aspetta: questi bambini a cui hanno ucciso i genitori, che hanno avuto paura per la loro stessa vita, che hanno spesso vissuto quasi solo d’aria, come quelli di Leningrado durante il famoso assedio, non odiano chi ha così infierito sulla loro infanzia. Era tanto il bisogno d’amore quando ne sono stati privati che non c’è stato posto per l’odio e così queste creature, a volte quasi in fasce,  alle cui lacrime si possono unire anche le nostre, insegnano il modo per non avere più guerre. Già lo sapevamo che l’amore può tutto, ma spesso ce ne dimentichiamo, eppure il rimedio c’è ed è in noi, basta metterlo in cima alle priorità, sommerso spesso da un egoismo che non soddisfa mai.

Da leggere, è un capolavoro.

Svetlana Aleksievič è nata in Ucraina nel 1948 da padre bielorusso e madre ucraina. Giornalista e scrittrice, è nota soprattutto per essere stata cronista per i connazionali dei principali eventi dell’Unione Sovietica nella seconda metà del XX secolo. Fortemente critica nei confronti del regime dittatoriale in Bielorussia, è stata perseguitata dal presidente Aleksandr Lukašenko e la sua opera è stata bandita dal paese. Dopo dodici anni all’estero è tornata a Minsk, ma nel settembre del 2020 è stata costretta a fuggire in Germania. Per i suoi libri, tradotti in più di quaranta lingue, ha ricevuto il Premio Nobel per la Letteratura nel 2015.
Renzo Montagnoli

 

28 Marzo

Monologo dell’angelo caduto

di Giuseppe Carlo Airaghi

Fara Editore

Poesia

 

Angeli e poeti

Sono sicuro che Giuseppe Carlo Airaghi abbia tratto l’ispirazione per questo suo Monologo dell’angelo caduto dal film di Win Wenders Il cielo sopra Berlino, in cui Damiel e Cassiel, due angeli invisibili a tutti, si aggirano per la capitale tedesca fino a quando il primo vede una trapezista e, poiché se ne innamora, si fa uomo e quindi mortale. Infatti non è un caso che l’io, più che narrante poetante, si chiami Damiel ed è pure lui un angelo che si innamora; troppe coincidenze che finiscono con dare credito alla mia ipotesi, peraltro avvalorata da quattro righe di introduzione e da successive illuminanti tracce. Tuttavia il richiamo al film non va oltre, perché l’opera in versi ha una sua autonomia che ne determina l’unicità. E’ poi particolarmente interessante il modo con cui l’autore si cala nei panni dell’angelo, per cui verrebbe da dire che per scrivere quest’opera da uomo si è fatto angelo (Ho barattato una immutata eternità // per la sete di un bacio ricambiato, / per un bicchiere di vino, per la curva / irripetibile di un collo di donna, // per pisciare sui cumuli di neve, / per imprimere la mia presenza, /Il mio segno tangibile nel mondo ). Se il modo interessa, il contenuto invece stupisce, perché questa creatura alata, caduta sulla terra e quindi fattasi mortale, mantiene ancora il privilegio di una visione celestiale di tutto ciò che incontra (Precipitato da una distanza di cielo / per accarezzare la curva che scende / tra il suo collo e la spalla. // Per capire cosa fosse la pelle / ho rinunciato al tempo eterno, / sono sceso a baciare la terra. // Da un bianco e nero manicheo / a una incredulità di colori / ancora tutti da nominare.// Ho risalito il fiume, raggiunto / la riva opposta per esprimere / finalmente un giudizio sul mondo. ). Fra l’altro questo straordinario protagonista rivela una simpatia del tutto particolare, vittima dei limiti dell’essere mortale, ma ancora capace di vedere oltre quelle nude immagini che si fissano nei suoi occhi (Non esiste solitudine senza eco. / Ovunque ci accompagna il rimorso / del passato oppure il rimpianto // che non dà meno dolore, il rombo / di un temporale lontano, un vento / che non sgombra il cielo in allarme. // Le sere d’inverno duravano anni, / troppo vaste per poterle varcare / senza pagarne il prezzo per intero. // Di molte sono stato spettatore. / Il tramonto era un sipario calato / sopra una recita senza finale. // Come spesso accade qualcuno balla / e qualcuno addossato alla parete / fissa un punto cieco nella stanza. // Con il bicchiere vuoto tra le mani. / La conversazione langue. Le cose / da dire hanno scarsa importanza. // Abbandonare la stanza è un’opzione / non contemplata dalle buone maniere. / A me parve non restasse altra scelta. ).

A un certo punto, e non credo di esagerare, mi si è accesa una lampada, ho avuto, quel che si usa dire, un’illuminazione, e cioè se Airaghi per scrivere si è fatto angelo, quell’angelo che per amore si è fatto uomo,  sono diventati entrambi un’entità sola, e allora come è possibile questa tramutazione? A ogni domanda c’è quasi sempre risposta, come anche in questo caso, perché sono più che convinto che sia la creatività del poeta che conduce a quell’estasi che è propria di un essere fuori dalla materialità delle cose, tanto elevata da sembrare irraggiungibile, eppure a portata di mano, purché si riesca a entrare in sintonia. In fin dei conti, chi scrive versi va oltre la modesta realtà di ogni giorno, cerca di sublimarsi nella ricerca, spesso inconscia, dell’Assoluto.

Questo Monologo dell’angelo caduto è ben diverso dalla silloge precedente Quello che ancora restava da dire, ma non è una differenza di valore, perché entrambe le opere sono senz’altro di eccellente qualità; secondo il mio giudizio si tratta invece della ricerca di un nuovo percorso espressivo che possa andar oltre i limiti naturali di una esternazione del proprio “Io” (Pensavi il tempo fosse una retta / chiusa tra un inizio e una fine. / Il tempo non va da nessuna parte, // non si arresta. Il presente è un punto / in continuo movimento, effimero / e immenso. Porta con sé l’universo. //  Tutte le vite precedenti trovano posto / nel susseguirsi infinito dei secoli, / perse nelle omissioni della Storia. ).

Da leggere, indubbiamente.

Giuseppe Carlo Airaghi è nato a Legnano (MI) nel 1966. Vive a Lainate. È impiegato presso un’azienda di servizi. Ha lavorato come geometra, animatore nei villaggi turistici, venditore di prodotti siderurgici, cantante di musica blues. Ha pubblicato le raccolte di poesia I quaderni dell’aspettativa (Italicpequod), Quello che ancora restava da dire (Fara Editore), La somma imperfetta delle parti (Giuliano Ladolfi Editore) e il romanzo I sorrisi fraintesi dei ballerini (Fara Editore).
Renzo Montagnoli

 

21 Marzo

Uomini, boschi e api

di Mario Rigoni Stern

Edizioni Einaudi

Narrativa

La serenità

Ogni volta che apro un libro scritto da Mario Rigoni Stern avverto una sensazione del tutto particolare che appare già dalle prime righe e che mi accompagna per tutta la lettura; infatti mi sembra di entrare in un altro ambiente, in una camera rischiarata solo dal fuoco di un camino, e c’è lui, Mario Rigoni Stern, che, ravvivata la fiamma con nuovi ciocchi, mi invita a sedere e comincia a raccontare, con un tono pacato, e una voce calda. E immediato è il senso di serenità che mi pervade, un appagamento dell’anima, una pace interiore, rara e infinitamente preziosa. E’ accaduto anche per questa raccolta di racconti, in cui i temi preponderanti sono quelli della natura vista con gli occhi di chi ha nei suoi confronti un profondo rispetto e così protagonisti sono diversi animali, dal gufo delle nevi al fagiano di monte, dal picchio rosso alle volpi, per non parlare delle api, per le quali l’autore ha una vera e propria venerazione. Se si parla di animali si finisce poi con il parlare di caccia, una caccia d’altri tempi, una sfida fra predatore e preda sostanzialmente su un piano di parità, sempre nell’ottica del più profondo rispetto per la natura. Non mancano poi prose su alcuni tipici lavori in montagna, da quello praticato dai cavatori di marmo rosso a quello dei carbonai, attività che oggi, non tutte, ma quasi, sono scomparse, e quindi la narrazione di Rigoni Stern è un prezioso contributo di carattere storico, è una testimonianza per il futuro al fine di poter conoscere tutto quanto rappresenta le nostre radici. Se la maggior parte dei racconti deriva da quotidiane osservazioni del mondo circostante, altri invece rappresentano il desiderio di conservare la memoria, come quello stupendo della battuta di caccia al cervo per la ricorrenza di Sant’Uberto, quando l’autore era detenuto prigioniero in un lager miniera di ferro a cielo aperto in Austria; c’era la guerra, ma l’umanità non si era persa, come dimostreranno tangibilmente dei vecchi cacciatori. Se poi vogliamo restare su tematiche che emozionano il libro finisce splendidamente  con il racconto L’ultimo viaggio di un emigrante, con cui rifulge tutta la carica umana di Rigoni Stern; sono righe struggenti che portano a una inevitabile commozione, e nella figura dell’emigrante che, con i risparmi di una vita, lascia l’albergo per anziani nel Michigan per una vacanza al suo paese d’origine, un ritorno alla propria terra, una rivitalizzazione delle proprie radici, un viaggio dagli Stati Uniti all’Italia che per lui sarà di solo andata ho ritrovato un po’ di  Tönle, la straordinaria figura del montanaro errante per mantenere la propria famiglia, protagonista di un romanzo breve di straordinaria bellezza e che a suo tempo fu onorato con il prestigioso premio Campiello.

Dispiace poi, arrivati all’ultima pagina, non poter continuare, ma la figura di Mario Rigoni Stern - che magicamente immagino visto che il fuoco si è spento - si alza e mi saluta, ma non è un addio, è un radioso arrivederci a domani, foriero di altre stupende narrazioni.

Mario Rigoni Stern (Asiago, 1 novembre 1921 – Asiago, 16 giugno 2008).  Scrittore italiano. Esordì con Il sergente nella neve (1953), una delle più notevoli testimonianze letterarie della seconda guerra mondiale, alla quale l’autore partecipò con gli alpini sul fronte russo. Dopo anni di silenzio Rrigoni Stern è tornato alla narrativa con i racconti Il bosco degli urogalli (1962) e i romanzi La guerra della naia alpina (1967), Quota Albania (1967), Ritorno sul Don (1973), Storia di Tönle (1978, premio Campiello), emblematica biografia di un solitario montanaro durante la grande guerra, uno dei suoi esiti più alti. Successivamente, accanto a nuovi romanzi, L’anno della vittoria (1985) e Amore di confine (1986), lo scrittore ha pubblicato diverse opere che testimoniano di una sua crescente adesione al mondo della natura: Uomini, boschi e api (1980), Il libro degli animali (1990), Arboreto selvatico (1991). In Le stagioni di Giacomo (1995, premio Grinzane) ha raccontato i luoghi d’origine. Nella produzione successiva tornano i suoi temi dominanti: Sentieri sotto la neve (1998), Tra due guerre e altre storie (2001), Stagioni (2006), I racconti di guerra (2006).
(dall'
Enciclopedia della Letteratura Garzanti)
Renzo Montagnoli

 

12 Marzo

Le terre del Sacramento

di Francesco Jovine

Donzelli Editore

Narrativa

 

Su la testa

Le terre del Sacramento è un dolente romanzo sulla condizione dei contadini del meridione e rappresenta, idealmente, la naturale continuazione di Signora Ava. Là l’epoca era quella dell’impresa dei Mille, in una versione del Gattopardo dal punto di vista degli ultimi, e non dei nobili e dei borghesi; e se la stratificazione sociale di Signora Ava poteva essere spiegabile, ma non giustificabile, con Le terre del Sacramento l’accusa a chi più ha e continua a volere di più è chiara e indiscutibile. La vicenda di Luca Marano che impegna la sua parola per un riscatto dei poveri contadini e viene tradito da una donna furba e avventuriera sembrerebbe chiudere la possibilità di qualsiasi riscatto di una infima classe sociale, ma è proprio il sacrificio di questo inconsapevole sindacalista a dare un tenue barlume di speranza, perché forse, solo uniti, si può giungere alla meta. In Signora Ava il periodo storico era antecedente  di più di mezzo secolo, al momento culminante del processo di unificazione dell’Italia, con le speranze spezzate delle classi più deboli; in questo romanzo invece il paese è già unito, è da poco uscito dalla Grande Guerra, anche questa infarcita di promesse non mantenute, e corre l’anno 1922, quello della marcia su Roma e dell’avvento del fascismo. La povera gente della Marsica, oltre ad avere come nemica la miseria, la tracotanza dei capitalisti e del mondo finanziario, l’indifferenza di uno stato sempre più prono di fronte al potere economico, ora ha un nuovo pericolo, il fascismo appunto, mano armata di chi da sempre comanda per conservare la propria posizione di privilegio.

In questo romanzo corale, in cui la ribellione dei contadini traditi non è armata se non dalla pacifica occupazione delle terre promesse, da loro faticosamente dissodate in virtù della promessa di essere concesse in enfiteusi, promessa disattesa, la trama, i protagonisti, perfino l’ambiente e l’atmosfera formano un grandioso quadro d’insieme che non è solo lo spaccato di un’epoca, ma è il pianto disperato di chi soffre da sempre senza riscatto. Forse qualcuno potrebbe trovare una matrice politica, un’ispirazione socialista, ma la visione di Jovine esula da qualsiasi preconcetto, è l’urlo di dolore di chi rivendica la dignità di essere umano, è la descrizione impietosa di una condizione di sudditanza, è la narrazione dell’anelito di una moltitudine a una vita migliore.

L’autore si può far rientrare nella tradizione verista italiana che inizia all’incirca dopo la metà del XIX secolo e che è ricca di nomi famosi, da Giovanni Verga a Federico De Roberto, a Ignazio Silone, a Rocco Scotellaro, ma se questo è un inquadramento che ha più a che fare con la letteratura, rimane l’importanza di quest’opera, come anche del precedente romanzo Signora Ava, e la sua valenza che va oltre il periodo temporale e anche oltre il limite territoriale. Quante genti al mondo sono da sempre, o quasi, vessate? Quanti, ma infinitamente più pochi, forti delle loro ricchezze accumulate nel tempo, non solo brigano per difenderle, ma per aumentarle, impedendo qualsiasi possibilità di riscatto? Chi non ricorda “ El pueblo unido jamàs serà vencido”? Ecco, nelle terre del Sacramento il popolo degli italici peones ha provato a unirsi, ma è stato sopraffatto dalla violenza fascista con il beneplacito delle autorità dello Stato. Si potrebbe dire che non c’è speranza e invece il sacrificio degli altri è lo stimolo per non abbattersi, per ritentare, per rialzare tutti insieme quelle teste da troppo tempo abbassate, ed è questo il grande messaggio di questo romanzo.

Le terre del Sacramento è assolutamente da leggere.

Francesco Jovine (Guardialfiera, Campobasso, 1902 - Roma 1950) narratore italiano. Ispirò alla nativa regione molisana le sue opere più significative: dal romanzo Signora Ava (1942) alla raccolta di racconti L’impero in provincia (1945), all’altro romanzo Le terre del Sacramento (1950, premio Viareggio), sorta di epopea del lavoro contadino e commossa celebrazione della propria terra. I temi tradizionali del feudo che va in rovina e del conflitto tra padroni e contadini vengono rappresentati, all’avvento del fascismo, con una forte carica polemica e uno stile asciutto che intreccia il rilievo di caratteri balzachiani alla coralità della struttura. Narratore di tradizione essenzialmente veristica, J. accolse nelle sue opere le istanze dell’antifascismo e delle lotte sociali del dopoguerra, senza tuttavia rinunciare a inflessioni di sottile lirismo. Nei suoi esiti migliori, egli amalgama felicemente le agitate vicende della storia e l’aura immobile del mito. Importante, nella Signora Ava, ma anche nell’Impero in provincia, il delinearsi di un giudizio riduttivo sul risorgimento, con motivazioni che più recentemente una parte della critica storica ha fatto proprie.
Renzo Montagnoli

 

 

5 Marzo

Quell’onda che ti tiene lieve

di Felice Serino

Libreria Editrice Urso

Poesie

 

Fra sogno e realtà

E tre, verrebbe da dire, perché con questa sono tre le raccolte di poesie di Felice Serino che ho avuto l’opportunità di leggere. La prima, che mi ha fatto incontrare l’autore, è stata Dalle stanze del cuore e della mente, una sublimazione della parola, la seconda è invece stata Sopra il senso delle cose, una silloge che, recensendola, ho ritenuto di definire frutto dell’esperienza e della creatività. Del resto il poeta, di origini napoletane, ma dimorante a Torino, è un artista di lungo corso che via via negli anni ha affinato il proprio modo di verseggiare, e ciò è facilmente riscontrabile leggendo le sue composizioni in ordine temporale. Questa che ora ci occupa si inserisce cronologicamente, almeno come epoca di pubblicazione, in posizione intermedia, senza segnare una marcata evoluzione e fermo restando quella ricerca introspettiva che è materia propria dell’autore uso  ad approfondire con progressività. Nel contesto di ricerca di ciò che può rivelare il proprio Io si nota particolarmente, apprezzando,  una visione evanescente che dona particolare fascino, ammantando il verbo di magia, all’intero corpo come in Angelo della luce:   adagiati creatura del sogno / sulla curva del nostro abbandono / la lontananza è ferita insanabile / un cielo d'astri divelti / e tu balsamo sei  / -tu orifiamma tu altezza / sognato stargate - /dove voce insanguinata c'inchioda  / dalla caduta. Sono versi che tendono a volare, a superare confini naturali per congiungersi a un mondo di fantasia, la cui porta, lo stargate, è in attesa di essere valicata. In questo universo che si potrebbe definire poetico Serino s’invola, novello Ulisse verso un’Itaca che è la propria dimensione interiore, un’avventura senza fine in cui conta di più la conoscenza che si incontra nel percorso che il raggiungimento della meta (da Sull’acqua: sul grande mare del sogno / veleggiano i miei morti / gli occhi forti di luce / con un cenno m'invitano / al loro banchetto sull'acqua / d'argento striata / m'accorgo di non avere / l'abito adatto /  cambiarmi rivoltarmi / devo /  vestire l'altro da sé .). E tutto procede in una sorta di limbo, un sogno che porta ad altra dimensione, e in cui con maggior chiarezza è possibile leggere dentro di sé, in una visione che continua a essere evanescente, una sorte di ectoplasma che avvince e respinge (da L’elemento celeste: tornerò ad essere pensiero espanso / quando dalla scena / sarò sparito / dove si curva all'orizzonte il mare / sarò forse atomo / fiore o stella e  / in estasi / mi unificherò all'elemento che da sempre / mi appartiene). Si resta attoniti, anche sgomenti spettatori di una metamorfosi, di una trasformazione che è un’implosione della persona stessa, e, comunque, il tutto si riassume, si comprende con chiarezza in questi versi, con cui vorrei chiudere la recensione di un’opera complessa, ma dall’indubbio fascino: da In vaghezza di sogno “ ti rigiri e vedi -in vaghezza di sogno / un te estraneo vagare / per strade buie e vuote / come un san sebastiano a trafiggerti / gli strali della notte – senti / recalcitrare / in te l'uomo vecchio - ah convivere / con gli umori di un corpo-zavorra / ti avvedi d'aver perso le chiavi / di casa mentre un gallo / canta / in lontananza ed è l'alba “.

Felice Serino è nato a Pozzuoli nel 1941 e vive a Torino. Autodidatta.

Copiosa la sua produzione letteraria (raccolte di poesia: da “Il dio-boomerang” del 1978 a “Dalle stanze del cuore e della mente” del 2020); ha ottenuto importanti riconoscimenti e di lui si sono interessati autorevoli critici. E’ stato tradotto in nove lingue.

Intensa anche la sua attività redazionale. 

Gestisce vari blog e tre siti.
Renzo Montagnoli

 

25 Febbraio

Il racconto del cortigiano

Vita e storie di Baldassarre Castiglione

di Edgarda Ferri

Solferino Edizioni

Storia biografia

 

Uno dei migliori cavalieri del mondo

Baldassarre Castiglione (Casatico, 6 dicembre 1478; Toledo, 8 febbraio 1529). E’ logico chiedere chi sia mai questo personaggio meritevole di una biografia e basta una breve ricerca su Internet per scoprire che si tratta di un letterato, nonché diplomatico e militare italiano al servizio dello Stato della Chiesa, del Marchesato di Mantova e del Ducato di Urbino. A prima vista sembrerebbe non meritevole di particolare attenzione, considerato che è stato né più né meno un cortigiano come tanti, uno di quegli uomini sempre presenti nelle corti dell’epoca con funzioni di consigliere e di ambasciatore, un lavoro comunque non semplice a cui dedicare ogni momento della propria vita, con una serie di attribuzioni e di incarichi i più disparati che richiedevano in ogni caso la fedeltà al proprio Signore. Baldassarre Castiglione, tuttavia, ha saputo parlare di questa professione, scrivendo un libro, Il cortegiano, assai famoso all’epoca e che mantiene ancor oggi immutato il proprio valore. Infatti, nella sua opera, l’autore tratta, sotto forma di dialogo, quali debbano essere i comportamenti più idonei di un uomo di corte e di una dama di palazzo, il tutto attraverso conversazioni che si immaginano tenute nel corso di serate di festa a Urbino alla corte della duchessa Elisabetta Gonzaga, consorte di Guidobaldo da Montefeltro. La premessa mi è sembrata opportuna e non vado oltre, né intendo parlare del Cortegiano, altrimenti andrei fuori tema, perché il libro di Edgarda Ferri è una riuscitissima biografia di Baldassarre Castiglione. Scrivere della vita di un diplomatico non può prescindere dall’epoca e dagli ambienti in cui ha operato, e infatti la narrazione ci mostra il personaggio nel suo tempo e nei luoghi in cui è stato presente, inquadrato benissimo nella storia d’Italia, teatro delle guerre fra Spagna e Francia. Si incontrano così tanti personaggi, dal marchese di Mantova Francesco II, di cui era parente per parte di madre,  al duca di Urbino Guidobaldo da Montefeltro, al pontefice Clemente VII, sotto i quali prestò i suoi servigi. Nella storia del periodo poi entrano di prepotenza altri protagonisti, come Lorenzo il Magnifico, l’imperatore Carlo V, grandi artisti come Raffaello e Michelangelo, umanisti come il Bembo. Più che una biografia Il racconto del cortigiano diventa un grandioso affresco storico, narrato in forma di romanzo, appassionante e in cui tuttavia è lasciato poco spazio alla fantasia, fedele, giustamente, Edgarda Ferri alle fonti storiche, peraltro abbondanti. La vita di Baldassarre Castiglione è movimentata, la dedizione ai suoi signori è totale, al punto che si sposa tardi, a quasi 38 anni, con una giovinetta di 15, Ippolita Torelli, figlia di Pietro Guido II, conte di Guastalla, e di Francesca Bentivoglio, figlia di Giovanni II, signore di fatto di Bologna, un matrimonio felice, nonostante le latitanze per lavoro dello sposo, ma finito troppo presto, con la scomparsa della sposa a 21 anni per complicanze intervenute poco dopo aver partorito il terzogenito. Rimasto così vedovo, si fa prete onde provvedere ai propri bisogni materiali, visto che per le poche entrate e le ben più ampie spese è indebitato fino al collo. In questa veste, quindi talare, ma anche come Nunzio, cioè ambasciatore dello Stato della Chiesa, trascorre l’ultimo periodo della sua vita in Spagna, dove, colpito da attacchi febbrili, viene a mancare a Toledo l’8 febbraio 1529. Il suo corpo viene traslato a Mantova sedici mesi più tardi e tumulato nel Santuario di Santa Maria delle Grazie nella tomba predisposta da Giulio Romano.

Con lui se ne andava una figura eccezionale, uno dei migliori cavalieri del mondo, come ebbe a dire l’imperatore Carlo V; visse in un’epoca tormentata, di guerre continue, seguì le alterne fortune dei suoi Signori, non venendo mai meno alla parola data, un personaggio che la mano sapiente di Edgarda Ferri è riuscita a far rivivere, a proporre al lettore in modo avvincente, uno dei tanti meriti dell’opera, senza dimenticare quello forse più importante, cioè essere riuscita a descrivere in modo ineccepibile e assai piacevole un periodo storico convulso.

Da leggere, senza il minimo dubbio.

Edgarda Ferri (Mantova, 24 gennaio 1934) vive e lavora a Milano. Scrittrice, saggista, giornalista ha esordito nel 1982 con Dov’era il padre, un romanzo che rimane tuttora un ritratto fondamentale e un punto di riferimento per un’intera generazione. Ha pubblicato inoltre, Contro il padre (1983), La tentazione di credere (1985), Il perdono e la memoria (1988), Luigi Gonzaga (1991), Quello che resta di Cristo dopo 2000 anni (1996) e, per Mondadori, Maria Teresa (1994), Giovanna la Pazza (1996), Io, Caterina (1997), Per amore (1998), L'ebrea errante (2000), Piero della Francesca (2001), La grancontessa (Le Scie, 2002), Letizia Bonaparte (2003), L'alba che aspettavamo (2005), Il sogno del principe (2006), Rodolfo II (2007), Uno dei tanti (2009).
Renzo Montagnoli

 

 

19 Febbraio

Quando le montagne cantano

di Phan Que Mai Nguyen

Editrice Nord

Narrativa

 

Profumo d’oriente e di pulito

Quando leggo un libro trovo inconfondibile il profumo della carta, ma in questo caso il mio olfatto è stato colpito anche da una fragranza di legno di sandalo, da un effluvio di spezie del lontano oriente, una miscela penetrante, ma nulla al confronto di un aroma di pulito, di un bucato in cui la massaia di un tempo ha profuso le sue forze ricorrendo al sapone di Marsiglia. E’ un intreccio di buoni sentimenti che scaturiscono da queste pagine, di amori, anche di odi, comunque di tutto ciò che è parte della vita di una famiglia, di generazione in generazione, uno splendido affresco che contemplo con gioia e con il timore di non riuscire a esprimere quanto elevato sia il mio grado di soddisfazione. Qualcuno, leggendo, potrà anche non essere d’accordo, ma credo che converrà su un punto: si può narrare dell’esistenza in tanti modi, ma in uno così discreto, e pur preciso, sommesso, ma affascinante, è cosa assai rara.

In breve è la storia che Dieu Lan narra alla nipote Huong, per infonderle fiducia, nel momento più tenebroso e orribile della guerra del Vietnam, allorché gli americani bombardano Hanoi. E questa nonna, che si piega, ma non si spezza al vento delle tragedie che costellano la sua esistenza, narra della vita della loro famiglia, dall’epoca del dominio francese, all’occupazione giapponese, dal ritorno dei francesi e alla loro cacciata, alla divisione del Vietnam in due stati, alla lunga e crudele guerra che vede il Nord, soggetto alla spietata dittatura comunista, contro il Sud, corrotto e appoggiata dalla più grande potenza terrestre. Come travagliata è la storia di questo paese, travagliata è la vita di Dieu Lan, che conoscerà l’amore e il dolore, la ricchezza e la miseria, le sofferenze e le gioie. Se tante sono le pagine in cui predomina la crudeltà della guerra o la durezza del regime comunista, ce ne sono altrettante che sono un canto alla vita, in cui i sentimenti sono espressi con naturale pudore e in cui è presente una salvifica vena poetica. Per quanto le vicende possano far apparire Dieu Lan come un’eroina, l’autentica impressione che si ritrae è che siano esistite moltissime Dieu Lan, donne combattenti per salvare la propria famiglia, mai dome, anche nei momenti più bui.

Particolarmente toccante è sapere che in ogni casa c’è un piccolo altare, con cui si venerano i familiari defunti, come avveniva in epoca romana con i lari, a testimonianza dell’alto valore riconosciuto alla famiglia e dell’importanza di non trascurare, anzi di ricordare le proprie radici, come fa Dieu Lan con la nipote Huong. E poi il romanzo è impregnato di una filosofia che forse è tipicamente orientale, ma che mi sento di condividere e che è riassumibile nella spiegazione che la nonna dà alla nipote del perché intende parlarle della storia della famiglia; Dieu Lan dice: “Mia adorata nipote, non fare quell’espressione sconvolta. Comprendi perché ho deciso di raccontarti della nostra famiglia? Se le nostre storie sopravvivono, noi non moriremo, neanche quando i nostri corpi non saranno più su questa Terra.”.Una vita possibile dopo la morte se si resta nel ricordo di qualcuno fa apparire ciascun membro di una famiglia come un anello indissolubile di una lunga catena che è fatta di nascite e morti, ma che è anche una traccia evidente di quanto siamo stati, mai inutili e sempre necessari.

Lo stile è snello, ma assolutamente non povero, anzi elegante e se proprio voglio trovare un difetto, di cui però non ha colpa l’autore al suo primo romanzo, è la confusione che si può fare con i tanti personaggi, ma non perché non siano ben descritti e identificabili, ma perché i nomi vietnamiti sono lontani dai nostri, spesso composti da tre incomprensibili parole.

Quando le montagne cantano è un romanzo che resta nel cuore ed è, a mio giudizio, notevolmente bello.  

Phan Que Mai Nguyen (1973), giornalista e poetessa, è nata in Vietnam, dove ha lavorato per anni come venditrice ambulante e coltivatrice di riso. Si è trasferita all'estero grazie a una borsa di studio, che le ha permesso di dedicarsi all'analisi degli effetti a lungo termine della guerra e successivamente di lavorare per diverse organizzazioni internazionali. Nel 2021, Nord pubblica il suo romanzo d'esordio Quando le montagne cantano, una saga familiare ambientata che ha come sfondo il Vietnam del Novecento.
Renzo Montagnoli

 

 

14 Febbraio

Il tempo che trasforma

di Patrizia Fazzi

Edizioni Prometheus

Poesia

 

A passo di danza

Era da un bel po’ di tempo che all’inizio di un’opera poetica non mi capitava di leggere un preludio e del resto questo breve cenno informativo era più in uso in un remoto passato tanto che lo troviamo nell’Iliade (Cantami,  o Diva del Pelide Achille…) e nell’Odissea (L'uomo ricco d'astuzie raccontami, o Musa.); eppure, per quanto scarsamente utilizzata, questa forma di introduzione, questa anticipazione in termini ristretti del tema svolto, ha una sua funzione, perché tende a mettere a suo agio chi si appresta a leggere. E senza che io in queste righe lo riporti mi limito a dire che quello di Il tempo che trasforma ha una liricità non di maniera e un contenuto che sembra annunciare una visione di integrazione dell’essere umano con la natura, con un estro creativo che giunge da lontano e trasferisce su carta  in modo tumultuoso, ma anche spumeggiante, ciò che da tempo era lì, nel proprio Io, e che attendeva solo il momento di essere colto.  Non intendo andare oltre, perché il tempo e lo spazio sono tiranni, e passo pertanto alle sensazioni di lettura delle poesie di questa raccolta. Come d’uopo è il bon ton, giusta appare un’auto presentazione dell’autore, con quel Io sono Patrizia, persona che vuole gioire della bellezza della vita, ma che presenta un fondo di tristezza che caratterizza un po’ tutti i poeti. E dal fondo di se stessa, da quella porta spalancata da cui esce turbinosa la poesia, frutto dell’imperscrutabile rapporto intercorrente fra il proprio Io e il mondo circostante, un po’ per volta conosciamo Patrizia, apprendiamo del suo carattere, delle sue aspirazioni, in un fil rouge stabilmente fissato nonostante che i versi abbiano visto la luce in periodi sicuramente diversi, anche a distanza di anni. Mi ha colpito, e non poteva essere diversamente avendo scritto anch’io qualcosa al riguardo, E’ nel silenzio, con quel suo dialogo in poesia che si completa con la successiva Fino all’anima, con la parte più regale di noi, appunto l’anima.

Comunque, in questa raccolta sono presenti, riuniti in tanti corpi diversi, più temi e non poteva mancare quello dell’amore, inteso nella sua accezione più ampia, con il suo preludio, breve, ma esaustivo ( E solo allora capisco, / mentre angosciata sorrido, / che formula strana / è l’amore, / che stare non può / senza la sua rima, dolore. ). Ai versi di questo corpo è stato dato il nome Là dove il cuore, a cui seguono quelli chiamati, nel loro complesso, Il respiro del mondo, pure qui con il suo bel preludio ( Poesia / è guardare / dall’alto di una finestra / un blu fittissimo / immenso,/  pullulante di stelle / e vedere / pian piano / affiorare / case e paesi, / esseri e vite. / Poesia è / calarsi in quel blu, / meravigliosa vertigine. ), in pratica così è la vita.

Seguono poi quelli del terzo corpo, chiamato terza danza, e che si intitola Alla soglia del bello, dove il bello è quello dell’arte, che attira e stupisce; esempio lampante sono le sensazioni ed emozioni provocate dalla musica, come in Dolce è perdersi, oppure un’architettura di difesa che richiama gesta epiche, come proprio in Il castello di Poppi.

E infine, a completamento della raccolta, il cosiddetto balletto finale intitolato il Tempo che trasforma. E’ una realtà che il tempo scorre e ha effetti su tutto, ma nel caso specifico soprattutto su di noi; in questo senso riporto integralmente quella che ritengo la migliore fra le tante, cioè Dal davanzale del tempo: “Dal davanzale del tempo osservo / il mulino degli anni / che macina e gira / i giorni e i mesi / e noi tutti sospesi / nell’acqua fluente / che chiara ci appare / solo quando ritorna alla fonte. / E a volte una vita, / coltivata nel cuore / con fatica e sudore, / si sfarina così, / quasi senza rumore / e del mattino di sole non resta /  che uno schianto leggero, / un lieve sfavillo / nel rosso teatro serale./  E poi tutto - pubblico o attore - / s’ingorga e s’involve / nella ruota dentata del tempo.”.  A parte il contenuto mi preme evidenziare le felici scelte che donano un sapore di affresco, come “il mulino degli anni / che macina e gira /”, oppure “ il lieve sfavillo / nel rosso teatro serale.”.

Sono arrivato così a ultimare la lettura, gratificante, con poesie dalla struttura equilibrata, e pertanto armonica, non fini a se stesse, non esercizi di virtuosismo, che pure non manca, ma un dialogo instaurato prima fra l’autore e il proprio Io, e poi con il lettore, che non può che ringraziare.

Patrizia Fazzi è nata e vive ad Arezzo. Laureata in Lettere presso l’Università degli Studi di Firenze, ha collaborato per alcuni anni presso la Cattedra di Letteratura Italiana Moderna e Contemporanea diretta da Giorgio Luti. Docente di Materie Letterarie e Latino negli Istituti di Istruzione Secondaria Superiore fino al 2007, è socia dal 1994 dell’Accademia Petrarca di Arezzo, dove ha tenuto varie comunicazioni, dal 2004 del PEN CLUB ITALIA, Associazione Internazionale Poets-EssaystNovelist. Attualmente è Presidente dell’Associazione degli Scrittori Aretini “Tagete”. Da molti anni si dedica alla scrittura e alla divulgazione culturale. Fin dalle prime opere è emersa una profonda fede nella parola poetica, una riflessione esistenziale e molti interessi per l’arte. Ha ottenuto numerosi riconoscimenti, tra cui, per la Poesia Inedita: 1° Premio “Marco Tanzi” 1998, (Presidente Vittorio Vettori), 1° Premio “MaestraleSan Marco” 2002 (Marengo d’Oro); 3° Premio assoluto Premio Internazionale “Il Molinello” 2003 (Presidente Mario Luzi); Finalista al “Premio Città di Corciano” 2001 (Presidente Valerio Magrelli); 1° Premio “Sandra Quaglierini” 2002 (Presidente Dino Carlesi) e 1° Premio Città di Rufina” 2003 , 1° Premio “Alessandro ed Elves Vettori” 2019 ed ottime qualificazioni al Premio “Casentino” dal 1998 al 2003 e 2014 e al Premio Firenze 2002 (“Segnalazione d’Onore”). Ha pubblicato le raccolte di poesie: Ci vestiremo di versi, Helicon 2000; Dal fondo dei fati, Edizioni del Leone 2005, (Fiorino d’argento 2005 e 1° Premio Tagete 2006); La conchiglia dell’essere - Poesie per Piero della Francesca, Le Balze, 2007 (Premio Speciale A.Contini Bonacossi 2007); Il filo rosso-Segno e simbolo nell’arte di Giampaolo Talani, Polistampa, 2008 (1° Premio Tagete 2011); L’occhio dei poeti, Edizioni del Leone, 2011, Prefazione di Paolo Ruffilli (Premio Speciale Firenze 2012, 1° Premio Tagete 2014); Finché ci sarà una nota, Prometheus, 2018, poesie dedicate alla Musica (Introduzione di Roberto Fabbriciani e di Claudio Santori). La conchiglia dell’essere, ristampata in edizione ampliata e aggiornata (anche in lingua inglese, The Shell of Being, Polistampa 2009), ha ricevuto la “Segnalazione d’Onore” al Premio Firenze 2010. È del 2015 il filmato Cuneo di luce, Italian Art Movie, in cui le sue poesie dedicate alla Cappella Bacci di Arezzo sono lette da Luca Biagini e unite alle immagini pierfrancescane e ad un sottofondo musicale. È autrice, insieme ad Anna Bartolini, della monografia Villa degli Orti Redi – Un giardino aretino da riscoprire, 2016, Prometheus Editrice, che ha ottenuto nel 2017 tre pregevoli riconoscimenti e da cui è stato tratto un omonimo filmato curato dalle autrici. Studiosa di Ottone Rosai, ha scritto vari saggi sull’artista, pubblicati in “Nuova Antologia”, negli Atti dell’Accademia Petrarca e in varie miscellanee. Altri saggi critici su Ugo Foscolo, Federigo Tozzi, il futurismo fiorentino, Paolo Ruffilli, etc sono apparsi, oltre che nelle precedenti riviste in “Studi Italiani”, “Il Portolano” ed altri siti letterari. Nel 2001 le è stato assegnato il “Fiorino di Bronzo” per la Saggistica, nel 2005 il Premio “Domina Donna” dalla Commissione Pari Opportunità della Provincia di Arezzo e nel 2012, nel Salone dei ‘500 a Firenze, il “Premio Speciale Firenze Mario Conti” per la sua attività letteraria. Dal 2013 Patrizia Fazzi è stata inserita nel sito www.italian-poetry. org/fazzi_patrizia.html, dedicato ai poeti italiani del Secondo Novecento, e dal 2020 ha una pagina nel sito www.wikiPoesia. Nel 2014 le è stata conferita l’Onorificenza di “Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica”. Sue poesie sono presenti in antologie, tra cui A mio padre, Newton Compton, 2006 e F. Manescalchi, Poesia toscana del Novecento, 2009; sue opere sono state oggetto di presentazioni o recital teatrali, in particolare ad Arezzo, Firenze, Roma (Ambasciata d’Austria), Parma (Teatro Regio, Auditorium Paganini, Corale Verdi), Nizza (Consolato Italiano), Cortona, Sansepolcro, San Vincenzo (Li), Lucca, Monterchi, Repubblica di San Marino, Milano. Su invito della Società Dante Alighieri, il 16 ottobre 2012 durante il Mese della Cultura e Lingua Italiana, il libro La conchiglia dell’essere è stato presentato al Théatre des Variétés alla presenza dell’Ambasciatore d’Italia e del Segretario di Stato del Principato; la raccolta è stata presentata a Milano EXPO 2015 insieme al filmato Cuneo di luce, successivamente proiettato nel 2016 al Teatro Petrarca di Arezzo durante l’evento “Piero: l’Oro di Arezzo” e a Roma, Palazzo Cesi (Festival Internazionale del Cinema Religioso). Sulle sue opere si sono espressi positivamente, tra gli altri, Giorgio Luti, Roberto Carifi, Paolo Ruffilli, Giorgio Barberi Squarotti, Giuseppe Marchetti, Luciano Luisi, Giovanni Faccenda, Giuseppe Panella, Neuro Bonifazi, Giovanni Giraldi, Giovanna Vizzari, Davide Puccini, Francesco Solitario, Pier Francesco Listri, Monica Venturini, Claudio Santori, Fernanda Caprilli, Liletta Fornasari, Fabrizio Fabbrini, Franco Manescalchi, Luciano Nanni, Vincenza Fava, Carlo Fini, Mariagrazia Carraroli, Alma Borgini, Giorgio Poli, Eugenio Nastasi, Plinio Maggiolini, Ettore Fini. Queste ed altre recensioni sono riportate in www. literary.it/autori/dati/fazzi_patrizia/patrizia_fazzi. html. 
Renzo Montagnoli

 

 

8 Febbraio

La sinagoga degli zingari

di Ben Pastor

Sellerio Editore Palermo

Narrativa

 

Stalingrado

Estate 1942, fronte orientale, il maggiore Martin von Bora della Wermacht, nonché membro dell’Abwehr, il servizio di controspionaggio militare del Terzo Reich, riceve dai suoi superiori l’incarico di cercare una coppia di rumeni, marito e moglie, due noti scienziati, eclissatisi dopo che l’aereo che li trasportava era stato costretto a un atterraggio di fortuna. Li rintraccerà, purtroppo ormai morti in quanto assassinati, con l’aiuto del maggiore Amerigo Galvani, in forza alla Terza Divisione Celere Duca d’Aosta. Chi ha commesso l’omicidio, per quali motivi e scopi è il nuovo incarico di von Bora, pressato per una rapida soluzione anche dal Generale Friedrich Paulus, comandante in capo della VI armata tedesca destinata a conquistare Stalingrado. E questa località, assai nota per quanto vi accadde appunto del corso della seconda guerra mondiale, a poco a poco prende il sopravvento nella narrazione, con i combattimenti per impossessarsene e con gli imminenti vincitori tedeschi che vengono circondati e stremati dalla fame e dal freddo, decimati dagli scontri, per doversi infine arrendere. E l’indagine? A tratti riaffiora, con sospetti che emergono, ma senza che abbiamo un riscontro positivo, così che tutto finirebbe dimenticato se Bora cadesse prigioniero, ma invece riesce con pochi dei suoi a forzare l’anello degli assedianti e, benché ridotto in fin di vita, riapproda dietro le linee tedesche. Ed è in una Praga occupata che il maggiore dell’Abwehr arriverà alla soluzione, forse inattesa, ma indubbiamente logica.

Era da un po’ di tempo che non avevo l’occasione di leggere i romanzi di Ben Pastor con protagonista questo ufficiale combattuto fra il senso dell’onore proprio del soldato prussiano e la coscienza dell’essere umano, una caratteristica che lo rende unico e di sicuro interesse e, a essere sincero, ero convinto che l’autore, a corto di idee, avesse interrotto una serie che lo ha reso famoso; e invece riecco un altro romanzo in cui la dimensione del dramma dell’assedio di Stalingrado ha un peso determinante, se non altro per le oltre 650 pagine dell’opera, di cui almeno la metà, se non di più, sono il resoconto di una delle più grandi battaglie della storia. Anche in questo caso, nella descrizione dell’atmosfera, dell’ambiente, degli scontri, nell’analisi psicologica approfondita dei protagonisti, Ben Pastor ha modo di mostrare le sue non di certo trascurabili capacità, ma forse presa dallo sviluppo della trama, magari anche un po’ esaltandosi, si è lasciata prendere la mano e ha scritto un po’ troppo. Non si tratta di un errore di particolare gravità, ma sta di fatto che La sinagoga degli zingari, pur restando appassionante, non è all’altezza delle opere precedenti.

La lettura resta indubbiamente gradevole, ma lo stile perde un po’ di quella fluidità sempre apprezzata nei lavori dell’autore, insomma il libro è buono, ma non eccellente.

Scrittrice italo americana Ben Pastor,  all'anagrafe Maria Verbena Volpi, nata a Roma il 4 marzo 1950 ma trasferitasi ben presto negli Stati Uniti, ha insegnato Scienze sociali presso le università dell'Ohio, dell'Illinois e del Vermont. Oltre a Lumen, Luna bugiarda, Kaputt Mundi, La canzone del cavaliere, Il morto in piazza, La Venere di Salò,  Il cielo di stagno, - ovvero il ciclo del soldato-detective Martin Bora (pubblicati da Hobby&Work a partire dal 2001 e poi da Sellerio) - è autrice di I misteri di Praga (2002), La camera dello scirocco, omaggi in giallo alla cultura mitteleuropea di Kafka e Roth (Hobby &Work), nonché de Il ladro d'acqua (Frassinelli 2007), La voce del fuoco (Frassinelli 2008), Le vergini di pietra La traccia del vento (Hobby & Work 2012), una serie di quattro thriller ambientata nel IV secolo dopo Cristo.
Nel 2006 ha vinto il Premio Internazionale Saturno d'oro come migliore scrittrice di romanzi storici.

Le sue opere sono pubblicate negli Stati Uniti e in numerosi Paesi europei.
Un suo racconto è incluso nell'antologia Un Natale in giallo (Sellerio 2011).
Nel 2014 esce La strada per Itaca (Sellerio) e nel 2020 Il ladro d'acqua (Mondadori).
Renzo Montagnoli

 

 

3 Febbraio

Roma 1943

di Paolo Monelli

Edizioni Einaudi

Saggistica storica

 

Un anno decisivo per l’Italia

Se uno storico di grande prestigio come Lucio Villari scrive in IV di copertina

«Opera di grande giornalismo e di intensa testimonianza morale, "Roma 1943" - pubblicato per la prima volta nel 1945 - resta, a mio parere, un modello inarrivabile (forse, unico) di cronaca autentica, di verità essenziale che poco o nulla ha a che vedere con la tradizione spesso dissimulatrice del giornalismo italiano» c’è sicuramente da fidarsi ed è per questo motivo che  ho letto questo saggio storico – è così che deve essere classificato – con un piacere che raramente mi è accaduto di provare per un lavoro tecnicistico, perché è evidente, a meno che non si inventi, che un elaborato storico deve avere un substrato rigorosamente corrispondente a quanto effettivamente accaduto, ma proprio per questo il più delle volte, pur essendo interessante, non è tuttavia in grado di avvincere, di tenere incollato il lettore alle pagine. E invece questo Roma 1943 si legge come un romanzo fluente, nonostante la presenza di non pochi incisi, sempre però molto funzionali alla narrazione, che sono delle vere e proprie illuminazioni relativamente alle caratteristiche dei protagonisti, alle speranze e anche alle meschinità che si accavallano, all’incubo di quel che fu la dominazione tedesca e alla dignità e al coraggio di un popolo, quasi sempre assai migliore dei suoi comandanti.  Il libro inizia con i malinconici auguri per il nuovo anno scambiati fra Monelli e un suo amico il primo gennaio del 1943; c’è in giro un’apatia che contrasta con l’incrollabilità del popolo italiano  strombazzata dai giornali di regime e in fondo è anche comprensibile, perché, non solo la guerra è in essere con tutte le sue problematiche da quasi tre anni, ma ormai la situazione sui vari fronti lascia intendere che di speranze di vittoria non ce ne sono più. I caduti in battaglia, i bombardamenti, il razionamento alimentare rappresentano ormai una costante  per una nazione che entrò in guerra solo perché lo volle il capo, un uomo descritto come malato, vanitoso, irresponsabile. E il peggio deve ancora venire, perché persa la Libia ci sarà lo sbarco in Sicilia, indi la caduta del fascismo il 25 luglio votata dai membri del Gran Consiglio, l’arresto di Mussolini il giorno dopo appena uscito da villa Savoia dove era appena andato a conferire con Vittorio Emanuele III per quella esautorazione maturata in una notte di fuoco in cui il duce, più che  protagonista, pare essere stato un attonito spettatore, e infine quel maledetto armistizio dell’8 settembre che portò i tedeschi a occupare Roma e buona parte dell’Italia, una tragedia di cui fecero spese gli italiani, soggetti di una brutale repressione.  

Monelli analizza i fatti, descrive gli eventi, ricerca le motivazioni dei comportamenti, in un crescendo che avvince il lettore che, benché almeno a grandi linee sappia quel che accadde, ha l’impressione di trovarsi di fronte a qualche cosa di nuovo, a una visione quasi cinematografica che va dalla mestizia di due uomini che si fanno gli auguri il primo gennaio del 1943 alle scene di gioia, all’unanime sollievo degli esausti romani il 4 giugno 1944 allorché le avanguardie americane entrarono in città.

Non si evita nulla, anzi si scava a fondo senza riguardo per i protagonisti, perché in quanto tali responsabili di ciò che avvenne in quell’anno, responsabili nel bene e nel male, dagli arrivisti fascisti senza morale ai crudeli comandanti tedeschi, alle troppe incertezze del governo Badoglio all’incapacità degli Alleati di saper cogliere l’occasione per poter infliggere una sconfitta colossale alle truppe germaniche.

Roma 1943 è un libro di grande interesse, ben scritto, sincero e veramente avvincente.
Paolo Monelli (Fiorano Modenese, 15 luglio 1891 – Roma, 19 novembre 1984) giornalista e scrittore italiano. Ufficiale degli alpini durante la prima guerra mondiale, scrisse su quell’esperienza un fortunato libro di memorie (Le scarpe al sole, 1921). Congedato, intraprese la carriera giornalistica e fu redattore del «Resto del Carlino», del «Corriere della sera», della «Stampa». Scrittore elegante, educato alla scuola della prosa d’arte, portò nell’esercizio professionale il gusto della parola «scelta», e in una sorta di repertorio-pamphlet più volte ristampato (Barbaro dominio, 1921) difese la «purezza» della lingua contro barbarismi e forestierismi. Al tema della guerra dedicò altre opere di narrativa: Sessanta donne (1947), Morte del diplomatico (1952), Nessuna nuvola in cielo (1957). Interessanti, per la lucidità dell’analisi e la scioltezza dell’esposizione, alcuni libri di politica, fra cui Roma 1943 (1945) e Mussolini piccolo borghese (1950).
Renzo Montagnoli

 

29 Gennaio

Lungo il fiume della vita

di Giovanna Giordani

Youcanprint

Poesia

Serenità naif

Giovanna Giordani non mi è certo sconosciuta, essendo un ospite frequente di Arteinsieme, il magazine che conduco, e proprio per questo credo di poter scrivere a ragion veduta di un'artista che, animata dai migliori sentimenti, cerca di esprimerli in versi, non di rado con risultati lusinghieri. In cambio rare sono le pubblicazioni delle sue poesie, tanto che prima di questa rammento solo Sulla riva del fiume edita da Aletti nel 2009 e di cui scrissi una recensione positiva. In quel giudizio ormai datato rammento che la stessa Giovanna Giordani mi confermò quanto riportato nella quarta di copertina, che trascrivo fedelmente: "Il mio poetare non è ricercato, lo definirei naif, semplice, vero che ubbidisce ad una voce arcana che mi detta le parole per dar forma scritta alle emozioni, ai sentimenti." Sono parole che ancor oggi mi sembrano appropriate, perché la poesia dell'autore trentino ha effettivamente le caratteristiche che sono proprie della pittura naif, cioè la semplicità e il candore con cui vengono espressi i sentimenti. Ne scaturisce una poetica che ha un suo pregio e che in genere incontra il favore di chi legge.
"Quando il clamore del mondo / si spegne / riecheggia amico / il canto dei poeti . /…."(da Il canto dei poeti); "Il suo bussare fu lieve / e la terra comprese / e chiese al sole / un regalo speciale / per sconfiggere il gelo / che l'opprimeva. /..."(da il Bucaneve); "Le voci del bosco d'inverno / le senti frusciare / fra i rami svestiti / e le foglie rimaste / a vegliare /…." (da Le voci del bosco d'inverno); "Sguardi affacciati / dalle carrozzine / allineate / lungo il corridoio / come rondini in sosta / sui fili della luce / tenere / distanti" (da Casa di riposo).
Versi come questi, nella loro pacata armonia, ben esprimono sentimenti ed emozioni, sono inclini a penetrare senza sforzo nell'animo di chi legge, trasmettendogli un benefico senso di pace, con la dolcezza che li accompagna e una semplicità volta appunto all'immediatezza. L'impressione che mi sono fatta è che sgorghino senza freno dall'animo di Giovanna, pur con il pudore dei crochi che sbocciano nella neve nel tardo inverno e con l'ardore dei primi raggi di sole che annunciano l'arrivo dell'imminente primavera.
Dunque, una poesia semplice, ma per niente scontata, e che trova questo fiume ricorrente nei titolo delle raccolte di Giovanna Giordani, con l'agilità della corrente di parole che scandiscono i versi, saltellante fra le rocce con un suono cristallino e che non diventa mai rombo prima di adagiarsi, procedendo lentamente, nel suo cammino in pianura verso la foce.
Non c'è problema d'interpretazione perché si tratta di sentimenti puri e innati, si fiondano nel cuore di chi legge e ci restano, sono il sereno dopo una tempesta, sono la quiete in cui ogni tanto rifugiarsi.
Non credo di aver altro da dire, se non la raccomandazione di leggere Lungo il fiume della vita.

Giovanna Giordani, nata in Vallagarina (TN), vive sull’Altopiano della Vigolana,sempre in provincia di Trento, in mezzo a bellissime montagne.
Da sempre ama la poesia e la letteratura, ma la vita le ha impedito di dedicarsi ad esse come avrebbe voluto.
In età matura ha conseguito la laurea in lettere moderne ed è stata l’occasione per riprendere con piacere il suo grande hobby
capace come pochi di rasserenarle la vita.
Renzo Montagnoli

 

 

24 Gennaio

Silloge poetica Fibre di Possibilità
di 
Sergio Messere

 

 

Sinossi.
Questa silloge è suddivisa in sette aree tematiche e vuole essere un viaggio con l’Uomo e nell’Uomo, dando voce alle innumeri sfaccettature.
Si inizia con la Tetralogia degl’Inquieti, cammino tortuoso e collettivo verso la realizzazione del sé. Vibrazioni di amore e di energia, dove affronto il tema dell'amore nelle salse più disparate. Nei recessi più neri, laddove ci si interroga anche sulla presenza di un Dio impassibile, non presente. Le cose belle e semplici, in cui spicca la poesia dedicata all'amicizia. Passaggi autobiografici e momenti di svago. Infine, il vortice di esperienze inusuali, totalizzanti, dimensioni altre (su tutte,"Hypnotica" e "Idea").
 
Sergio Messere


 

23 Gennaio

Il coraggio di dire no

Conversazioni e interviste 1963-2007

di Mario Rigoni Stern

a cura di Giuseppe Mendicino

Edizioni Einaudi

Saggistica 

 

Per conoscere meglio Mario Rigoni Stern

Questo libro, che raccoglie molte delle interviste rilasciate in un lungo periodo (dal 1963 al 2007) da Mario Rigoni Stern, è frutto di una ricerca e di una scelta oculata di colui che può essere definito senza ombra di dubbio il miglior biografo del grande scrittore asiaghese, cioè Giuseppe Mendicino. Al riguardo c’è da precisare che la cernita non deve essere stata facile, vista la notevole disponibilità di Rigoni Stern a conversare con la gente e i frequenti incontri dello stesso non solo con giornalisti o altri scrittori, ma anche con le scolaresche. Di cosa si parlava in queste occasioni? C’è da precisare che a domanda Rigoni Stern rispondeva, magari ampliando il discorso, ma comunque evidenziando sempre un’ampia disponibilità a colloquiare, come se il raccontare del passato costituisse un’impellenza trattenuta a stento. Sarebbe però sbagliato pensare che i temi fossero solo quelli del suo trascorso e in particolare quelli della guerra, perché, abituato a scrivere il frutto delle sue osservazioni quotidiane, sono non pochi gli argomenti atemporali presenti in questi colloqui.

Del resto la grandezza dell’autore asiaghese risiede proprio in questa sua capacità di rapportarsi con la natura, con i sentimenti e le emozioni che sono propri degli esseri umani e che sono frutto di un attento spirito critico, una abilità rara che rende le sue opere sempre giovani in qualsiasi epoca. 

Ho trovato, peraltro, delle risposte illuminanti e di queste intendo riferire a titolo di esempio. A questa domanda di Alberto Papuzzi: “ E’ vero che la guerra dice la verità sugli uomini, chi è forte, chi è debole, chi audace, chi infingardo?”, Rigoni Stern risponde affermativamente, precisando che ci sono le stesse reazioni come nella montagna estrema, e così gli uomini si manifestano per quel che sono, con gesti di grande umanità, se non addirittura di eroismi, da parte di gente umile, e con altri di autentica vigliaccheria, come accaduto  con ufficiali di carriera che scappavano a gambe levate. In questa risposta emerge l’essenza dell’animo umano che, sottoposto a costrizioni o a pericoli, riesce a dare il meglio o il peggio di sé. E poi ce n’è un’altra di Renzo Oberti per Il Giornale di Vicenza, la cui risposta condivido parola per parola, perché avrei detto così anch’io. Il giornalista domanda:”Ha una ricetta da darci per procedere indenni fra gli scogli della navigazione quotidiana?” Trascrivo pari pari la risposta di uno Stern che nell’inverno della sua vita ha sublimato la saggezza che è sempre stata presente in lui:” Leggere molti libri e guardare poca televisione. La vita va costruita con la dignità del lavoro, non riconoscendo utopie lontane dalle nostre possibilità e dai nostri bisogni intellettuali e materiali.”. Ecco, questo è il senso della vita per un uomo che ha provato di tutto nella sua esistenza, che è riuscito a uscire vivo dall’inferno bianco della ritirata della campagna di Russia, che è sopravvissuto alla tragedia della prigionia nei lager tedeschi, che ha saputo sempre vedere intorno a lui con umiltà, ma soprattutto con umanità.

Fra le tante interviste raccolte da Giuseppe Mendicino ne manca una, la mia. Sono arrivato troppo tardi, quando già lui stava male, un po’ prima che morisse, e ovviamente ho rinunciato. Fra le tante domande che avrei voluto rivolgergli, ce n’era una che mi stava a cuore: “A un uomo che è scampato a tante battaglie, che è ora nella sua vecchiaia, come pensa sia giusto vivere?”; ebbene, leggendo i suoi libri e queste interviste mi sono persuaso che avrebbe risposto che il rispetto degli altri e della natura, la memoria delle proprie radici sono gli elementi basilari per poter vivere con serenità e in pace con se stessi.

Questo libro è sicuramente da leggere perché aiuta a conoscere meglio Mario Rigoni Stern.

Mario Rigoni Stern (Asiago, 1 novembre 1921; Asiago, 10 giugno 2008) 
Scrittore italiano. Esordì con Il sergente nella neve (1953), una delle più notevoli testimonianze letterarie della seconda guerra mondiale, alla quale l’autore partecipò con gli alpini sul fronte russo. Dopo anni di silenzio Rrigoni Stern è tornato alla narrativa con i racconti Il bosco degli urogalli (1962) e i romanzi La guerra della naia alpina (1967), Quota Albania (1967), Ritorno sul Don (1973), Storia di Tönle (1978, premio Campiello), emblematica biografia di un solitario montanaro durante la grande guerra, uno dei suoi esiti più alti. Successivamente, accanto a nuovi romanzi, L’anno della vittoria (1985) e Amore di confine (1986), lo scrittore ha pubblicato diverse opere che testimoniano di una sua crescente adesione al mondo della natura: Uomini, boschi e api (1980), Il libro degli animali (1990), Arboreto selvatico (1991). In Le stagioni di Giacomo (1995, premio Grinzane) ha raccontato i luoghi d’origine. Nella produzione successiva tornano i suoi temi dominanti: Sentieri sotto la neve (1998), Tra due guerre e altre storie (2001), Stagioni (2006), I racconti di guerra (2006).
(dall'
Enciclopedia della Letteratura Garzanti)
Renzo Montagnoli

 

 

18 Gennaio

La porpora delle api

di Anna Maria Ercilli

Postfazione di Alberto Mori

Foto in copertina di Anna Maria Ercilli

Fara Editore

Poesia
 

La delicatezza con cui sono espressi i sentimenti

Non trovo nessun meridiano / per unire i passaggi, /…” “Ricordiamoci il rumore / dei passi / nelle strade silenziose /…” “Lente scorrono sul vetro / rispecchiano il mondo /…”.

Se leggiamo le poesie di questa raccolta in religioso silenzio ci è possibile sentire un battito, quello di un cuore caldo che freme nell’osservare, nel guardare intorno per poi fissare su carta sensazioni ed emozioni, è un cuore che trema e gioisce, che lento scandisce ricordi trascorsi, che fa risentire passi lontani; è un cuore quello dell’autore che accompagna la nostra emozione, che ci incanta con le sue sublimi parole ( Si allontana, le spalle / ricurve come da / un peso / invisibile il fardello ma pesante, / sono mancate le parole / quelle facili per le nostre labbra, / nessuno s’è girato a raccogliere / uno sguardo, / l’ultimo incompiuto ponte / sospeso / ignoravamo come e dove / finivano le nostre sorti.). Di Come sospesi ho riportato integralmente i versi, perché è raro trovare una delicatezza e una sensibilità con cui esprimere i sentimenti, sussurrati in punta di penna.

Però questa poesia non è la sola a presentare queste caratteristiche senz’altro innate nell’autore, visto che è un piacere ritrovare questa dolcezza anche quando si scrive di cose che fan male, perché in fondo constatare non vuol dire concordare (Le parole - Le parole non portano / rancore sono disarmate, / ma sanno ferire / le parole incontrano finestre chiuse, / aprono porte nei cortili / sfregiano muri di argilla / non entrano nell’arido tempo / non lasciano arrivare il sonno,/  rodono il dubbio nel rumore / indefinito, stridono / nella lingua della notte / travisano il senso / a te pensano. ).

Chi come me scrive anche poesie potrebbe sembrare facilitato nello stilare la recensione di una silloge, ma non è del tutto esatto, perché prima di tutto mi deve spossessare della mia personalità poetica per entrare in quella dell’autore e ciò a volte è difficile, ma in questo caso non lo è, perché mi sono trovato di fronte a una persona che è sempre presente, in ogni verso, anche quando si chiude il libro. I sentimenti e il modo di esprimerli senza imporli, anzi proponendoli, mi hanno appagato, mi hanno indotto a una serie di riflessioni sul senso della vita, sui miei rapporti con gli altri che mi hanno condotto a quella serenità che si può provare solo quando si legge qualcosa che ti tocca nel profondo, che ti fa aprire il cuore per poi rinchiudervi dentro quell’emozione da ripescare nei momenti grigi.

Quando un’opera mi provoca questa sensazione non ho da chiedere altro, mi ha dato tutto ciò che cercavo e quindi inevitabile è il giudizio positivo della stessa, un giudizio che spero concordi con quello di altri che intendessero leggerla, ricordando che, a differenza di una prosa, la composizione poetica deve essere ponderata parola per parola, onde entrare in sintonia con l’autore.

Anna Maria Ercilli, vive a Trento con memorie liguri. Ha lavorato nel Servizio Sanitario. Ha pubblicato sette sillogi di poesia, scrive racconti e articoli culturali per le riviste «Il Furore dei libri» e «R&S», è inserita in alcune antologie (ControparoleHospiteL’evoluzione delle forme poeticheVivere l’abbandono) e riviste («La Mosca di Milano», «Il Monte Analogo» e altre). Presente anche nel dizionario delle parole perdute Nelle pagine del tempo (EmmeTi 2011) e nei volumi Le stagioni per posta Una lettera importante (entrambi con LUA di Anghiari), Quella volta su un treno (Equinozi 2020), iPoet Lunario in Versi (LietoColle). Fotografa per passione. Presidente della Società Dante Alighieri di Trento nell’anno sociale 2014-2015.
Renzo Montagnoli

 

14 Gennaio

Signora Ava

di Francesco Jovine

Ecra Edizioni

Narrativa

 

Dalla parte degli “ultimi”

Goffredo Fofi, nella sua prefazione, l’ha chiamato “Il Gattopardo dei poveri”, ma dopo averlo letto, concordo solo in parte; infatti, se le atmosfere e le date in cui si svolgono entrambi i romanzi (fra il 1859 e il 1860) sono pressoché uguali, differiscono invece nella sostanza, perché in quello scritto da Tomasi di Lampedusa viene descritta la fine del regno borbonico da parte di una famiglia di aristocratici, in quello di Francesco Jovine si parla soprattutto della nascita di quel complesso fenomeno che spesso troppo sbrigativamente va sotto il nome di brigantaggio. Dopo questa doverosa premessa, preciso anche che nessuno dei due prevale sull’altro, ma ambedue hanno il pregio di rappresentarci, nella loro veste di romanzi storici, come, con la spedizione dei Mille e l’occupazione del meridione, si poté arrivare all’unità d’Italia. Tutto ruota intorno alla famiglia De Risio, piccola aristocrazia di campagna in uno Stato che sembra immobile e ingessato, anche se va disgregandosi. Abitano nel paese molisano di Guardalfiera e a loro modo sono dei personaggi, emblematici perché ben rappresentano la stratificazione sociale degli abitanti del Regno dei Borboni nel suo crepuscolo. Troviamo così il vecchio zio prete Don Beniamino, che tiene i cordoni della borsa, Don Eutichio con la moglie sorda come una campana, tipico rappresentante di una proprietà terriera medievale, il Colonnello, reduce dalle guerre napoleoniche, aperto alle novità, ma disilluso, Don Matteo Tridone, un prete povero, ma generoso, ingenuo e protettore dei più deboli, Antonietta De Risio, malaticcia giovane erede della casata, e Pietro Veleno, un servo contadino, fedele alla famiglia, segretamente innamorato di Antonietta, che un po’ per volta ricambia. In questo contesto in cui nulla da tempo immemorabile accade, la venuta di Garibaldi e dei suoi volontari ha un effetto dirompente, con i contadini che cominciano a sperare nella promessa distribuzione delle terre, in una nuova atmosfera che dovrebbe sconvolgere l’ordine preesistente, ma i Savoia, giunti a reclamare il Meridione strappandolo a Garibaldi, ristabiliscono con i signori locali, i “galantuomini”, lo stato di cose precedente. Da qui la reazione esasperata, e senza speranza, delle classi emarginate, che sfocerà in una guerra sanguinosa in cui combatteranno l’esercito sabaudo con l’aiuto della locale Guardia Nazionale, di cui fanno parte quelli che prima avevano un po’ di potere, che ora temono di perdere. In questo contesto si svolge la vicenda con l’amore che sboccia fra Pietro e Antonietta, amore benedetto da Don Matteo Tridone, che vede nell’unione dei due giovani i germogli per una nuova coscienza civica, con il superamento delle classi. In fuga entrambi con il sacerdote, in quanto Pietro è stato denunciato alle autorità ingiustamente da Don Eutichio, tanto che ha dovuto rifugiarsi dai briganti e combattere con essi, vengono traditi da una guida mentre si apprestano a passare il confine con lo Stato della Chiesa, loro sicuro rifugio. Non sappiamo il seguito, Jovine non ce parla, ma si rimane come orfani di personaggi che sono entrati nel nostro cuore, soprattutto l’ingenuo, ma buono Don Matteo, sempre dalla parte degli ultimi.

Il romanzo, scritto impeccabilmente, è veramente stupendo.

Francesco Jovine (Guardialfiera, Campobasso, 1902 - Roma 1950) narratore italiano. Ispirò alla nativa regione molisana le sue opere più significative: dal romanzo Signora Ava (1942) alla raccolta di racconti L’impero in provincia (1945), all’altro romanzo Le terre del Sacramento (1950, premio Viareggio), sorta di epopea del lavoro contadino e commossa celebrazione della propria terra. I temi tradizionali del feudo che va in rovina e del conflitto tra padroni e contadini vengono rappresentati, all’avvento del fascismo, con una forte carica polemica e uno stile asciutto che intreccia il rilievo di caratteri balzachiani alla coralità della struttura. Narratore di tradizione essenzialmente veristica, J. accolse nelle sue opere le istanze dell’antifascismo e delle lotte sociali del dopoguerra, senza tuttavia rinunciare a inflessioni di sottile lirismo. Nei suoi esiti migliori, egli amalgama felicemente le agitate vicende della storia e l’aura immobile del mito. Importante, nella Signora Ava, ma anche nell’Impero in provincia, il delinearsi di un giudizio riduttivo sul risorgimento, con motivazioni che più recentemente una parte della critica storica ha fatto proprie.
Renzo Montagnoli

 

 

8 Gennaio

L’ultima magia.

Dante, 1321

di Marco Santagata

Edizioni Guanda

Narrativa
 

I ricordi di un vecchio

Se Dante. Il romanzo della sua vita era tutt’altro che un romanzo, bensì un riuscitissimo saggio storico-letterario, L’ultima magia è invece un’opera di narrativa di straordinaria bellezza.

Santagata ha voluto raccontarci dell’ultimo periodo di vita del sommo poeta, ospite a Ravenna dei Da Polenta, che lo incaricano di andare a Venezia in qualità di loro ambasciatore. Corre l’anno 1321, il mese di Agosto, e Dante dopo un lungo periodo di tribolazioni e di diversi padroni, ha trovato nella città romagnola finalmente un’oasi di pace, in cui, finalmente riunito stabilmente con la sua famiglia, può attendere con tranquillità l’ultimo passo, anche se qualche problema finisce con l’assillarlo, timoroso del fatto che, per un incidente di anni prima, un cardinale, segretario di stato pontificio, gli disse che se la chiesa perdona, però non dimentica. E fra i tanti ricordi propri di una persona avanti con gli anni quello di quell’incidente gli sovviene più prepotente e così comincia a raccontare una storia di negromanzia che lo ha visto involontario protagonista. E’ una narrazione da cui traspaiono le preoccupazioni del poeta, i timori allora provati e che ora si riaffacciano, più impietosi in quanto tormenti per un uomo che non ha più nulla da chiedere alla vita, ora che ha ultimato la Divina Commedia e che è conosciuto e stimato come il più grande dei poeti viventi. Il racconto del passato si alterna al presente, la memoria di ciò che è stato riaffiora a minare quella tranquillità che ha raggiunto, ma allora perché non rifugiarsi in ricordi più dolci, quale può essere quello di un amplesso, improvviso e non ricercato, con Alagia, la moglie del marchese Moroello Malaspina che ebbe l’opportunità di ospitarlo nel suo castello di Mulazzo vicino a Massa-Carrara? Si trattò di un atto di piacere isolato che non ebbe seguito se non molti anni dopo in una richiesta proprio di Alagia di un piacere per tutelare l’ultimogenito, che potrebbe essere stato concepito in quel rapporto frettoloso. Da lì si sviluppa la vicenda della negromanzia, da cui uscirà Dante perdonato, ma segnato nel libro nero della Chiesa, tanto che quando Galeazzo Visconti e Cangrande della Scala gli riproporranno un omicidio con una fattura, Dante troverà, dopo molti tormenti, il modo di uscirne pulito interessando la Chiesa stessa che lo ringrazierà facendolo ospitare dai Da Polenta.

L’ultima magia, frutto indubbiamente della creatività di Marco Santagata, per quanto i protagonisti principali siano veramente esistiti, è un romanzo storico molto ben strutturato, che appassiona progressivamente il lettore, tanto più che la trama è in grado di offrire momenti di tensione alternati ad altri di tranquillità e con una conclusione di una dolcezza disarmante, quasi che Dante, personaggio esistito veramente, fosse anche lui frutto della penna del narratore, quel figlio solo immaginato, ma capace di dare un senso alla vita di chi lo ha creato.

La lettura è indubbiamente consigliata e assicuro che alla fine si verrà contagiati dalla serenità raggiunta da Dante sulla base delle risultanze della sua tormentata vita da esule, da uomo passionale, impulsivo, egocentrico, ma anche capace di raggiungere vette sublimi con quella sua Commedia che già allora aveva successo, ma che nemmeno poteva immaginare che tale sarebbe rimasto anche nei secoli a venire.

Marco Santagata (Zocca, 28 aprile 1947 – Pisa, 9 novembre 2020) è stato docente e scrittore italiano.
Laureatosi alla Scuola Normale, ha insegnato Letteratura italiana all’Università di Pisa. Dal 1984 al 1988 ne ha diretto l’Istituto di letteratura italiana, ed è stato poi direttore del Dipartimento di Studi italianistici.
È stato visting professor in molti atenei prestigiosi come la Sorbona, l'Università di Ginevra, la UNMA di Città del Messico e Harvard.
La sua attività di studioso è stata rivolta soprattutto alla poesia dei primi secoli, con una particolare attenzione a Dante e a Petrarca.
Su Dante, di cui ha curato per i Meridiani Mondadori l’edizione commentata delle Opere, ha scritto il libro L’io e il mondo. Un’interpretazione di Dante (il Mulino, 2011) e la biografia Dante. Il romanzo della sua vita  (Mondadori, 2012). Tra i lavori petrarcheschi si segnalano il commento al Canzoniere (Mondadori, 2004)  e il libro I frammenti dell’anima (il Mulino, 2011).
Si è inoltre occupato di Leopardi (Quella celeste naturalezza. Le canzoni e gli idilli di Leopardi, Il Mulino, 1994) e della poesia fra Otto e Novecento (Per l’opposta balza. “La cavalla storna” e “Il commiato” dell’”Alcyone”, Garzanti, 2002). Accanto a quella scientifica ha svolto anche l'attività di narratore: con il romanzo Il Maestro dei santi pallidi (Guanda) ha vinto il premio Campiello 2003. Suoi anche Papà non era comunista (Guanda, 1996), L'amore in sè (Guanda, 2006), Il salto degli Orlandi (Sellerio, 2007), Voglio una vita come la mia (Guanda, 2008), Come donna innamorata (Guanda, 2015) grazie al quale entra nella cinquina dei finalisti del Premio Strega, e Il movente è sconosciuto (Guanda, 2018). Inoltre, ha scritto con Alberto Casadei il Manuale di letteratura italiana medievale e moderna (Laterza, 2007) e il Manuale di letteratura italiana contemporanea (Laterza, 2009). Per Mondadori esce inoltre il saggio a tema scientifico Un meraviglioso accidente, del quale è coautore insieme a Vincenzo Manca. Nel 2020 esce Il copista (Guanda). Lo stesso anno lo scrittore contrae il Covid-19, malato da lungo tempo, questo gli risulterà fatale portandolo alla morte il 9 novembre 2020.
Renzo Montagnoli

 

7 Gennaio

Abbraccio alla vita di Vincenzo Patierno

Raccolta poetica regalatami per Natale, regalo azzeccato e apprezzatissimo. Scartato la sera del 24 e il 25 mi aveva già conquistato con la sua genuinità, sincera, accogliente e ricca di buoni propositi. L'opera, anche se non è questo il suo intento, abbraccia e si fonde con il vero spirito natalizio, quello di pensare un po' più agli altri e non quello del consumismo compulsivo. Il poeta si avvale di un linguaggio semplice per conquistare il lettore, in finale, lui è un poeta che ci porta una cronaca delle sue reminiscenze, sogni e paure, mica un politico che deve convincerci a votarlo. Silloge consigliata a tutti gli amanti della poesia, quella non troppo arzigogolata, ma che poetica come mangia e sa come scaldare il cuore.

28 dicembre 2021
Nacho Perez

 

 

5 Gennaio

Abbraccio alla vita
di 

Vincenzo Patierno

Silvia Ferretti 

Questo Natale, per via della situazione che noi tutti conosciamo, l'ho passato da sola, potrei dire sola come un cane, ma sarebbe più corretto dire: sola con un gatto e un libro di poesie.
Le amiche e i parenti, con cui sono riuscita a vedermi prima delle feste e scambiarmici i doni, mi hanno regalato quasi esclusivamente libri (gradisco così) ed ecco che tra tanta meravigliosa narrativa mi spunta questo libricino di poesie, delicate e sensibili da cullarmi un po' e farmi sentire un po' meno sola.
Ho trovato gusto nella musicalità della raccolta e il moto del poeta di gli argomenti più scomodi, mi ha fatto riflettere e distogliere per qualche ora dalla realtà.
Alla mezzanotte, né il gatto, né le poesie così bere il prosecco, non volendolo sprecare in nome dei meno fortunati, mi sono ubbriacata e se questa volta la sbornia è stata più queste dolce è stato solo grazie a poesie.

 

4 Gennaio

I racconti della maturità

di Anton Cechov

Feltrinelli Editore

Narrativa

 

La vita in due

Questi racconti con ogni probabilità sono stati scritti verso la fine della vita di Cechov che morì a soli 44 anni in conseguenza di una tubercolosi che lo divorava da tempo e a cui invano cercò di sfuggire spostandosi di continuo in località più salubri. In ogni caso di tratta di prose che risalgono a ben oltre un secolo fa e quindi ci sarebbe da attendersi uno stile un po’ stucchevole, non disgiunto da una certa grevità tipica di quasi tutti gli autori russi. Invece, per fortuna, e ne guadagna così parecchio il piacere della lettura, lo stile è snello, tutto sommato semplice senza essere elementare, accompagnato da una tipicità di Cechov che, oltre all’indubbia dote di saper sondare l’animo umano, inserisce sempre un rapporto con la natura che va ben oltre lo sfondo in cui si svolge la trama, ne è parte essenziale, con una vena poetica che, senza sfociare nel lirismo, dona un tocco di grazia. 

Il volume riporta sei racconti, con un unico fil rouge che li accomuna, vale a dire il rapporto di coppia, tutte storie di amori che durano quanto un amen, di legami che da affetti si tramutano in obblighi, e in quanto tali destinati a essere osteggiati con il piacere del tradimento. Nel mondo di Cechov non c’è spazio per vicende in cui uomini e donne  riescano a conciliare una passione iniziale con un affettuoso legame successivo, anzi poco a poco si instaura una incomunicabilità che porta ognuno per la sua strada. E’ questo il caso del professor Kovrin, in preda a un delirio allucinatorio che lo porta a vedere un misterioso monaco nero, così come appare già segnato il matrimonio fra un infatuato Laptev e  Julija, che non lo ama. E’ l’impossibilità di essere omologato alla società di Misail che incrina la sua unione con Masa, e senza speranza è la relazione extraconiugale di Alechin con Anna, per non parlare dell’avventura, una delle tante, di Gurov, un’avventura che non si spegnerà in una semplice relazione. E infine c’è l’ultimo, il più bello, con Nadja, figlia di una famiglia borghese della provincia, che rinuncia all’imminente matrimonio per avere una vita sua, grazie ai consigli di un caro amico minato in modo irrimediabile dalla tubercolosi ormai all’ultimo stadio. 

Per lo più si tratta di racconti venati dall’amarezza, dall’impossibilità, che sembra connaturata, di vivere compiutamente in due, una visione, quella della incomunicabilità, a cui tanto concorre il tessuto sociale di un’epoca e che precorre autori della metà del ‘900, una prova di grande maturità artistica.

Anton Cechov (Taganrog, 29 gennaio 1860 – Badenweller, 2 luglio 1904).

Scrittore e drammaturgo russo. Cresciuto in una famiglia economicamente disagiata, si trasferì nel 1879 a Mosca dove si iscrisse alla facoltà di Medicina. Laureatosi nel 1884, esercitò solo saltuariamente, dedicandosi esclusivamente all'attività letteraria.
Nel 1890 raggiunse attraverso la Siberia l'isola di Sachalin, sede di una colonia penale, e sulle condizioni disumane in cui vivevano i forzati scrisse L'isola di Sachalin.
Minato dalla tubercolosi, passò vari anni nella piccola tenuta di Melichovo, nei pressi di Mosca.
Nel 1895 conobbe Tolstoj, cui rimase legato da amicizia per tutta la vita.
Nel 1900 venne eletto membro onorario dell'Accademia russa delle scienze, ma si dimise due anni dopo per protesta contro l'espulsione di Gor'kij.
Nel 1901 si sposò. In un estremo tentativo di combattere il male si recò a Badenweiler, una località della Foresta Nera e lì morì all'età di quarantaquattro anni.
La produzione novellistica di Cechov è particolarmente copiosa e percorsa da motivi e tonalità ricorrenti. Negli anni universitari compose le novelle, dal tono comico e grottesco, raccolte in Racconti di Melpomene (1884).
La fama arrivò con Racconti variopinti (1886) e Nel crepuscolo (1887).
Il 1888 è l'anno de La steppa, lunga novella elegiaca il cui vero protagonista è il paesaggio russo.
Seguono: Il duello (1892), La mia vita (1895), La signora col cagnolino (1898) e Nel burrone (1900).
Tra il 1884 e il 1891 Cechov scrisse per il teatro otto atti unici, tra i quali ricordiamo Il tabacco da male, Tragico contro voglia e Il canto del cigno.
A essi fecero seguito sei lavori in quattro atti che lo hanno consacrato come drammaturgo: Ivanov (1888), Il gabbiano (1895), Zio Vanja (1899), Le tre sorelle (1901) e Il giardino dei ciliegi (1904).
I personaggi di questi drammi subiscono una sorta di estraniazione che li rende incapaci di parlarsi. Cechov anticipa in questo senso alcuni motivi fondamentali della drammaturgia moderna.
Dopo la rivoluzione del 1917, dagli archivi sono emersi altri due lavori teatrali di Cechov, Tatjana Répina (1899) e Platonov (1880-1181), opera giovanile che ha per protagonista un eroe senza volontà.
Ci restano anche I quaderni del dottor Cechov, redatti tra il 1891 e il 1904.
Da: "
Enciclopedia della Letteratura", Garzanti, 2004
Renzo Montagnoli

 


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