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19 Dicembre

L’amico ritrovato

di Fred Uhlman

Feltrinelli Editore

Narrativa

 

Era mio amico

L’amico ritrovato è una novella (troppo corto per essere classificato come romanzo breve) che narra di un’amicizia scolastica nata fra due ragazzi di estrazione sociale completamente diversa. Uno, Hans,  è un ebreo figlio di un medico stimato ed eroe della Grande Guerra, l’altro, Konradin, è il rampollo di una primaria casata nobiliare. La vicenda si svolge in Germania nel 1933, quando il nazismo arrembante non è ancora riuscito a insediarsi con i pieni poteri, anche se spira un’aria che non lascia presagire nulla di buono, tranne per chi è convinto che il destino del popolo tedesco sia di comandare il mondo. E’ un’amicizia che nasce più per volontà del ragazzino borghese che per quella del nobile, anche se poi si instaurerà fra loro un legame fraterno. Le differenze di classe sembrano, nel loro caso, inesistenti, e nemmeno le convinzioni di superiorità degli ariani sugli ebrei sembrano incrinare una relazione e un vincolo del tutto esclusivo, senza che ci sia posto per l’ingresso di altri ragazzi . Poi, però, quando Hitler sale al potere e iniziano le prime ostilità razziali, il vento dell’odio finirà per travolgere quella che era stato un grande, sublime legame. Il ragazzino ebreo è inviato dai genitori negli Stati Uniti, nel timore, per nulla infondato, che le cose non possano che peggiorare, mentre il nobile, la cui famiglia e anche lui stesso sono filo nazisti,  sparisce semplicemente dalla scena, tanto che Hans se ne ricorderà quasi per caso dopo una trentina di anni, allorché gli arriva una lettera proveniente dal liceo che aveva frequentato, in cui c’è la richiesta di un contributo per la costruzione di un monumento agli studenti scomparsi durante la seconda guerra mondiale e di cui allegano un elenco. Sono tanti, troppi, ma lui è indeciso se leggere temendo di trovare anche il nome di Konradin, poi si decide e...Non intendo andare oltre, lascio che sia il lettore a proseguire, perché ho un nodo alla gola e le lacrime agli occhi.

Uhlman è riuscito a scrivere un gioiellino, con uno stile misurato, mai enfatico, è stato capace di rappresentarci perfettamente la nascita di un’amicizia giovanile, che è in parte di infatuazione. Non ha mai spinto sull’acceleratore della facile commozione, ha tenuto lontana la retorica, è stato spesso di una semplicità disarmante, non disgiunta tuttavia da una capacità di scavare nell’animo dei protagonisti, il tutto supportato da una vena poetica che qua e là traspare.

Imperdibile.

Fred Uhlman non era uno scrittore di professione, in quanto faceva l’avvocato ed era pittore.
Ha lasciato ai posteri pochi esperimenti letterari fra cui il celebre romanzo breve "L’amico ritrovato", l’unico realmente destinato alla pubblicazione.
Uhlman nasce nel 1901 a Stoccarda, città in cui frequenta il prestigioso liceo classico della città: l’Eberhard-Ludwigs-Gymnasium.
In seguito, dopo la prima guerra mondiale, intraprende gli studi in legge a Friburgo, Monaco di Baviera e Tubinga e, nel 1925, si laurea in legge. Tuttavia, a causa dell’insediamento nazista, non solo non può più esercitare la professione d’avvocato in patria, in quanto democratico ed ebreo, ma nel 1933 è costretto ad abbandonare per sempre il suo lavoro in legge.
Così a causa del crescente antisemitismo, Uhlman prende la decisione di fuggire dalla Germania e si trasferisce in Francia, dove prova a guadagnarsi da vivere come pittore, cercando di ammortizzare le spese facendo il mercante d'arte e il commerciante di pesci d'acquario.
Nel 1935, in Spagna, incontra la sua futura moglie, la studentessa inglese Diana Croft, figlia di un barone.
Nel frattempo, da autodidatta cerca di perfezionare la sua tecnica di pittura, cercando ispirazione nel fermento artistico parigino.
Nel 1936 si trasferisce in Inghilterra, dove si stabilisce con Diana.
Nel giugno del 1940, circa nove mesi dopo lo scoppio della Seconda Guerra Mondiale, Uhlman, insieme a migliaia di stranieri originari di paesi nemici, è confinato dal governo britannico sull'Isola di Man. Rilasciato sei mesi dopo, si riesce a ricongiungere con la moglie Diana Croft e la loro figlia, nata durante l'internamento.

Uhlman dopo la sua prima mostra personale a Parigi presso la Galerie Le Niveau nel 1935, a Londra, comincia a esporre alla Zwemmer Gallery nel 1938, cosa che segnerà l’inizio del suo successo artistico e lo porterà ad esporre regolarmente le sue opere in mostre personali e collettive in tutta la Gran Bretagna. Molto celebrata è la mostra presentata al Leighton House Museum di Londra nel 1968. Il suo lavoro è presente in molte importanti gallerie pubbliche, tra cui il Fitzwilliam Museum di Cambridge e il Victoria & Albert Museum di Londra.

Nel 1971 pubblica la sua opera più famosa di scrittore: il romanzo breve L'amico ritrovato (tit. orig. Reunion). Inizia così la cosiddetta “Trilogia del ritorno”, che comprende anche Un'anima non vile e Niente resurrezioni, per favore. Pubblica infine l'opera autobiografica Storia di un uomo ( tit. orig. The Making of an Englishman).

Decidendo di non fare mai più ritorno in patria, trascorre gli ultimi anni della sua vita a Londra.
Renzo Montagnoli

 

 

17 Dicembre

ABBRACCIO ALLA VITA DI VINCENZO PATIERNO (SCHENA)
Recensione di Gian Luca Guillaume

A volte capita di leggere libri vecchi di qualche anno, in questo caso del 2014, e riconoscere che poco nulla è cambiato.
Questo libretto di Vincenzo Patierno, intitolato Abbraccio alla vita, edito dalla Schena Editore, piccola realtà editoriale calabrese, ne è la dimostrazione.
Il libro tratta tematiche universali e attualissime: dall'immigrazione (Zattere alla deriva di umana disperazione, / in un mar che è tomba per molti / che fuggono da maledette terre / impregnate di sangue dei propri figli.) alle ingiustizie (un tempo rinchiusi e umiliati, / colpevoli solo di irrazionale esistenza), dalla rimembranza dei propri affetti (Sulla loggia di quell'antico palazzo / dove vissuta fu la vostra vita, / cresceste i vostri figli / e accoglieste con amore i vostri nipoti.) alla denuncia sociale (Scellerate mani furono a violare / le tue profonde viscere/innestando in esse maligni semi).
Anche la tradizione, per esempio il presepe, così poeticamente descritto nel componimento omonimo (Scende l'acqua nella piccola cascata / dove in piccole case / vivono i pastorelli. / Scende l'acqua nella piccola cascata / in una grotta, lì vicino, / nascerà Gesù Bambino.), emerge dalle pagine come testimonianza d'amore e di memoria.
Per quanto riguarda lo stile domina il verso libero: libero da schemi fissi (strofe libere), dal giogo delle rime (versi sciolti) e dai metri della tradizione poetica italiana; è un verso puramente novecentesco.
Il lessico oscilla fra l'aulico e il prosastico, con punte colorite di dialetto partenopeo qua e là, quel tanto che basta per solfeggiare altre note con allegria e divertimento.
Il poeta osserva e scruta il quotidiano con profonda fede e lucida severità, cattura la veridicità del dramma collettivo trasmettendola al lettore con naturalezza e semplicità, una semplicità che sa come cullare il lettore e non di rado riesce anche a regalargli un sorriso spontaneo, un sorriso sincero e non una contrazione involontaria del volto.
Il poeta non indossa armature per proteggersi, ma ci mostra la sua faccia più genuina e vulnerabile, così, pur consapevole che verrà ferito, proietta i versi attraverso gli occhi innocenti di un bambino gonfio di fiducia e domande, questo ha il potere di saturare tutti i pensieri più oscuri e polarizzare l'attenzione verso tramonti più rosei.
L'amore e l'empatia per i meno fortunati sembrano beni inesauribili nel bagaglio di Patierno, ma solo chi ormai non è troppo compromesso dalla malvagità dell'umanità, potrà non additarlo come puerile.
Per tutti gli altri c'è ancora speranza.
Gian Luca Guillaume

 

13 Dicembre

Caporetto.

Diario di guerra (maggio – dicembre 1917)

di Angelo Gatti

a cura di Alberto Monticone

Edizioni Il Mulino

Storia militare

 

Un testimone della disfatta

E’ indubbio che la disfatta di Caporetto, unitamente all’armistizio dell’8 settembre, siano i due avvenimenti che hanno segnato in modo indelebile la storia italiana, tanto che ancor oggi se ne discute. In particolare, il primo fu un disastro militare solo in apparenza non prevedibile; tanto si è scritto su Caporetto per determinare i motivi che provocarono l’evento, motivi che si possono ricercare in un errore militare e più in generale nell’incapacità di comandare i soldati. Che un errore militare ci sia stato, è ormai assodato, visto che non si preparò il terreno di operazioni in modo da contrastare con efficacia l’attacco del nemico, non imprevisto, visto che si sapeva già giorni prima del giorno, dell’ora e delle direttrici; inoltre, non si praticò per tempo il passaggio di una struttura militare dalla predisposizione per l’attacco, in essere fin dall’inizio della guerra, a quella per la difesa. Cadorna, peraltro, non sapeva comandare i soldati, con un’ottica mentale che li vedeva come numeri e non come esseri umani, da cui si pretendeva tutto senza giustificare gli immani sacrifici con delle finalità che li rendessero sopportabili, senza poi considerare la mancanza di stimoli, la spersonalizzazione, gli avvicendamenti in trincea non accuratamente programmati, insomma un distacco netto fra il comandante e la truppa che non può mai portare a nulla di buono; un altro aspetto negativo era poi dato dal fatto che Cadorna preparava le battaglie, iniziate le quali si estraniava, salvo continuare a sacrificare uomini per raggiungere obiettivi che sul campo si erano rivelati impossibili da realizzare,  e come se non bastasse aveva il difetto di effettuare troppe sostituzioni di ufficiali superiori, sovente in corso di battaglia.  

Fino ad adesso avevo letto libri che accusavano Cadorna, pur riconoscendogli l’abilità di aver condotto una ritirata nel migliore dei modi, ma nulla sapevo delle opinioni su quella disfatta di qualcuno del suo stato maggiore ed ecco perché assume importanza questo libro dell’allora colonnello Angelo Gatti che dirigeva l’ufficio storico del comando supremo. Si tratta dei diari tenuti da questo ufficiale sia nei mesi immediatamente precedenti la ritirata, sia nei giorni convulsi della stessa. Gatti, pur difendendo per certi aspetti Cadorna, onestamente ne evidenzia gli errori e non lo segue nella sua ostinata accusa alla truppa di essere stata corrotta dalla propaganda socialista e di aver ceduto senza combattere, anzi, pur sfumandola, parla  dell’ingenerosità del comandante supremo nei confronti dei suoi soldati, insensibile ai loro sacrifici, fautore di una disciplina ferrea con le punizioni più severe (tanti i casi di condanne a morte e di decimazioni). In buona sostanza Gatti finisce con il confermare le accuse che gli storici rivolgono a Cadorna, uomo di notevole preparazione militare, ma del tutto inidoneo a reggere il Comando Supremo.

Caporetto. Diario di guerra (maggio-dicembre 1917) è un libro di estremo interesse, la cui lettura pertanto è sicuramente consigliata.

Angelo Gatti (1875-1948), ufficiale di stato maggiore, durante la prima guerra fu addetto al comando della prima armata e dal gennaio del ’17 al Comando supremo, alle dirette dipendenze del generale Cadorna. È autore di numerose opere di storia e critica militare, da «Uomini e folle di guerra» (1921) a «Un italiano a Versailles» (1957) oltre che di fortunati romanzi tra cui «Ilia e Alberto» (1930).
Renzo Montagnoli

 

 

7 Dicembre

Le scarpe al sole.

Cronache di gaie e tristi avventure di alpini, di muli e di vino

di Paolo Monelli

Ugo Mursia Editore

Diaristica

 

Il valore del cameratismo

Mettere le scarpe al sole, nel gergo degli alpini, significa perdere la vita in battaglia e di alpini che muoiono colpiti da un proiettile o dilaniati da una bomba ce ne sono tanti in questo libro scritto da Paolo Monelli, un riuscitissimo diario sulla sua esperienza di vita nel corso della Grande Guerra. E’ quasi per caso che mi sono accostato a quest’opera e il merito è di mia madre, ormai scomparsa, che in verità ebbe a parlarmi dell’omonimo film, uscito nel 1935, diretto da Marco Elter, tratto dal libro, per quanto modificato nella trama, ma senza perderne lo spirito. Considerata l’epoca, nel pieno del ventennio, ci sarebbe da aspettarsi sia nel libro di Monelli che nel film l’esaltazione dei valori patriottici, il richiamo al popolo guerriero, una retorica assidua, e invece non è per fortuna così. Passo ovviamente allo scritto, tanto più che non ho visto la pellicola, e dico subito che a un iniziale sconcerto per lo stile che mescola, apparentemente alla rinfusa, riflessioni, ispirazioni poetiche, anche versi, gerghi militari e dialetti, è seguita una crescente attenzione, perché pagina dopo pagina si è aperto quello che è il sottotitolo (Cronache di gaie e tristi avventure di alpini, di muli e di vino), un mondo tutto nuovo in cui all’atrocità della guerra si contrappone un cameratismo in cui la solidarietà è un obbligo sentito; inoltre si combatte, rassegnati, sovente anche motivati, ma senza odio verso il nemico che anzi si considera un’altra vittima di decisioni che vengono dall’alto, fra una bevuta e l’altra di vino, l’autentica benzina che fa andare avanti un motore umano che altrimenti scapperebbe a gambe levate. Si beve insieme e si muore insieme, si patisce il freddo dell’inverno, ci si inzuppa con le piogge autunnali, non si ama la guerra che però viene considerata una necessità per raggiungere lo scopo di un’Italia più ampia e diversa.  Il protagonista principale, il tenente Paolo Monelli, partecipa e registra poi sul suo diario, descrive l’orrore, ma anche la bellezza della natura, va all’assalto senza odio, ama i suoi compagni e detesta gli imboscati, è un uomo a cui con il conflitto è sottratta la giovinezza e che matura amaramente giorno dopo giorno.

Verrà anche la prigionia, la fame, la fuga dal lager e la cattura, la pietà dei carcerieri austriaci, affamati come i detenuti, eppure spesso compassionevoli. Se la guerra è una gran brutta bestia, la successiva pace sarà ancora peggio, perché l’Italia allargata ritorna quella di prima, non ha nessun rispetto per i reduci e soprattutto per quelli che tornano dalla prigionia, illusi di rinascere a nuova vita.

Per certi aspetti Le scarpe al sole mi ricorda Giorni di guerra, di Giovanni Comisso, con una differenza però: nel primo rifulge il valore dell’amicizia, in grado di aiutare a sopportare ogni tormento, con le colossali bevute in compagnia, mentre nel secondo la guerra è vista come un’avventura con gli occhi di un soldato che ancora crede di giocare, ma che maturerà di colpo in occasione della disfatta di Caporetto. In entrambi i casi si tratta di libri di particolare valore, in grado di attrarre dall’inizio alla fine, e che hanno il pregio di non esaltare mai la guerra.   

Paolo Monelli (Fiorano Modenese 1891 - Roma 1984) giornalista e scrittore italiano. Ufficiale degli alpini durante la prima guerra mondiale, scrisse su quell’esperienza un fortunato libro di memorie (Le scarpe al sole, 1921). Congedato, intraprese la carriera giornalistica e fu redattore del «Resto del Carlino», del «Corriere della sera», della «Stampa». Scrittore elegante, educato alla scuola della prosa d’arte, portò nell’esercizio professionale il gusto della parola «scelta», e in una sorta di repertorio-pamphlet più volte ristampato (Barbaro dominio, 1921) difese la «purezza» della lingua contro barbarismi e forestierismi. Al tema della guerra dedicò altre opere di narrativa: Sessanta donne (1947), Morte del diplomatico (1952), Nessuna nuvola in cielo (1957). Interessanti, per la lucidità dell’analisi e la scioltezza dell’esposizione, alcuni libri di politica, fra cui Roma 1943 (1945) e Mussolini piccolo borghese (1950).
Renzo Montagnoli

 

 

2 Dicembre

Dante.

Il romanzo della sua vita

di Marco Santagata

Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Biografia

 

Il grande esule

Dopo la lettura di Dante, la biografia scritta do Alessandro Barbero, ho ritenuto opportuno leggere quella frutto delle mani sapienti di Marco Santagata, che più che storico è famoso quale esperto della poesia italiana del XIII e del XIV secolo, in particolare di quella di Petrarca e di Dante. Nonostante il sottotitolo sia “Il romanzo della sua vita” non è assolutamente una fiction, bensì è una biografia che riesce sapientemente a integrare il periodo storico con l’attività letteraria di Dante Alighieri. Qualcosa di simile aveva fatto anche Barbero, privilegiando però l’aspetto storico, mentre invece l’opera di Santagata è di carattere storico-letterario,  circostanza che, se da un lato rende meno facile e scorrevole la lettura, dall’altro presenta una completezza di notevole rilievo. Pagina dopo pagina, seguendo il corso della vita del poeta fiorentino e delle vicende storiche dell’epoca, in particolare di Firenze, si delinea la figura di un personaggio egocentrico, un uomo di indubbie qualità, ma che è convinto di essere un predestinato, un essere superiore agli altri in tutti i campi, ma che purtroppo per lui lo era solo in campo letterario. Un “io” così smisurato che lo faceva sentire come un inviato da Dio per salvare l’umanità era facile che finisse con lo scontrarsi con una realtà in cui diveniva vittima di se stesso, giacché, se la politica non era certamente nelle sue qualità, lui invece era convinto di essere un genio anche in quel campo, con i risultati che comportarono il suo esilio perpetuo e fecero di lui un esule alla disperata ricerca di un rifugio.

Santagata riesce nell’arduo compito di scrivere una biografia congiunta a un’analisi delle sue opere, così che risulta una completezza della figura del Dante uomo e del Dante artista, in grado di aiutarci a comprendere anche non pochi passi del suo lavoro migliore, la Divina Commedia.

Quindi, come ho sopra precisato, non ci troviamo di fronte a quel genere che con un anglicismo viene chiamato fiction, bensì a un testo scientifico elaborato però in modo da essere reso accessibile ai più, insomma non un libro greve e di difficile comprensione, bensì un discorso notevolmente approfondito, e pur tuttavia scorrevole, che non stanca e avvince invece.

Se la persona di un Dante egocentrico può a tratti apparire irritante, il prezzo pagato, cioè quell’incertezza che lo accompagnerà durante tutto l’esilio fino alla morte e che gli farà scrivere nel Paradiso (XVII 58 – 60)  “Tu proverà sì come sa di sale / Il pane altrui, e com’è duro calle / lo scendere e 'l salir per l'altrui scale.”, ci restituisce alla fine un uomo da ammirare per le sue grandi qualità letterarie, ma anche da compiangere per un destino così avverso che lo ha reso esule e alla mercé della benevolenza di coloro presso cui temporaneamente si rifugiava e che provvedevano al suo sostentamento.

C’è anche dell’altro, però, e cioè il disegno di un’epoca in cui imperano i comuni e che vede Firenze, fra alterne vicende, in crescita, quella Firenze le cui ricchezze artistiche sono oggi sotto gli occhi di tutti, ma che in quel tempo erano appena abbozzate, ancora al di là da venire, e allora viene da chiedersi che cosa avrebbe detto Dante se fosse potuto rientrare nella sua città diventata uno scrigno d’arte. Credo che avrebbe pensato che, come nella sua Commedia, dopo il periodo dell’Inferno e del Purgatorio fosse arrivato per lui il Paradiso.

Da leggere e rileggere.

Marco Santagata (Zocca, 28 aprile 1947 – Pisa, 9 novembre 2020) è stato docente e scrittore italiano.
Laureatosi alla Scuola Normale, ha insegnato Letteratura italiana all’Università di Pisa. Dal 1984 al 1988 ne ha diretto l’Istituto di letteratura italiana, ed è stato poi direttore del Dipartimento di Studi italianistici.
È stato visting professor in molti atenei prestigiosi come la Sorbona, l'Università di Ginevra, la UNMA di Città del Messico e Harvard.
La sua attività di studioso è stata rivolta soprattutto alla poesia dei primi secoli, con una particolare attenzione a Dante e a Petrarca.
Su Dante, di cui ha curato per i Meridiani Mondadori l’edizione commentata delle Opere, ha scritto il libro L’io e il mondo. Un’interpretazione di Dante (il Mulino, 2011) e la biografia Dante. Il romanzo della sua vita  (Mondadori, 2012). Tra i lavori petrarcheschi si segnalano il commento al Canzoniere (Mondadori, 2004)  e il libro I frammenti dell’anima (il Mulino, 2011).
Si è inoltre occupato di Leopardi (Quella celeste naturalezza. Le canzoni e gli idilli di Leopardi, Il Mulino, 1994) e della poesia fra Otto e Novecento (Per l’opposta balza. “La cavalla storna” e “Il commiato” dell’”Alcyone”, Garzanti, 2002). Accanto a quella scientifica ha svolto anche l'attività di narratore: con il romanzo Il Maestro dei santi pallidi (Guanda) ha vinto il premio Campiello 2003. Suoi anche Papà non era comunista (Guanda, 1996), L'amore in sè (Guanda, 2006), Il salto degli Orlandi (Sellerio, 2007), Voglio una vita come la mia (Guanda, 2008), Come donna innamorata (Guanda, 2015) grazie al quale entra nella cinquina dei finalisti del Premio Strega, e Il movente è sconosciuto (Guanda, 2018). Inoltre, ha scritto con Alberto Casadei il Manuale di letteratura italiana medievale e moderna (Laterza, 2007) e il Manuale di letteratura italiana contemporanea (Laterza, 2009). Per Mondadori esce inoltre il saggio a tema scientifico Un meraviglioso accidente, del quale è coautore insieme a Vincenzo Manca. Nel 2020 esce Il copista (Guanda). Lo stesso anno lo scrittore contrae il Covid-19, malato da lungo tempo, questo gli risulterà fatale portandolo alla morte il 9 novembre 2020.
Renzo Montagnoli

 

 

28 Novembre

La Resistenza della provincia mantovana

di Carlo Benfatti

Editoriale Sometti

Storia

Un saggio storico di grande interesse

La pianura, con le montagne piuttosto lontane, non è mai stato il terreno ideale di una guerra per bande, ma ciò nonostante la Resistenza fu ben presente nei territori pianeggianti, fra i quali quello della provincia di Mantova e a chi, nelle più svariate forme diede il suo contributo, è dedicato questo libro di storia, scritto da Carlo Benfatti con rigore e senza ombra di retorica. In tutta sincerità ero convinto che i partigiani, a parte la sollevazione negli ultimi giorni di guerra, si fossero limitati ad attività di propaganda o anche a esecuzioni di fascisti e di nazisti meritevoli di questa fine per la loro crudeltà; non avevo mai pensato che ci fossero state delle vere e proprie battaglie, convinto che al più ci fosse stata qualche scaramuccia. Mi sbagliavo  e solo grazie alla lettura di questo libro ho potuto avere un quadro esauriente di quel che in effetti fu la resistenza in provincia di Mantova, con il suo contributo di uomini caduti in battaglia o trucidati, non pochi, anzi purtroppo tanti. Il lavoro di Benfatti, sempre supportato da idonea documentazione, è stato molto organico, delineando le svariate forme di opposizione al nazi-fascismo, da quelle passive dei renitenti alla leva o dei soldati imprigionati nei lager dopo l’8 settembre 1943 che dissero no a un arruolamento nella Repubblica Sociale Italiana, nonostante le difficilissime condizioni di vita dietro il filo spinato, a quelle attive, cioè di coloro che imbracciarono le armi, compiendo sabotaggi e rendendo insicura l’occupazione. Fra queste due forme estreme ci sono poi quei cittadini che aiutavano i prigionieri a scappare, quelli che nascondevano soldati alleati ed ebrei, altri che osservavano e passavano notizie di carattere militare ad altri che le trasmettevano agli alleati. Tranne nel caso della resistenza passiva dei prigionieri dei lager, tutti gli altri commettevano azioni di ribellione punite duramente dall’occupante, che non esitava a torturare sperando in delazioni.

Quello che mi ha più colpito, però, è che i caduti, come ho già scritto tanti, siano stati in numero assai più rilevante nei giorni convulsi immediatamente prima e subito dopo il 25 aprile 1945, data assunta per convenzione come quello della Liberazione. Il motivo c’è, perché da un lato troviamo i partigiani che vogliono liberare il loro territorio prima dell’arrivo degli alleati e si tratta di gente che sovente ha un armamento inadeguato e poca esperienza, entusiasti assai, ma proprio per questo poco prudenti; dall’altro lato ci sono i nazisti in ritirata, che vogliono tornare in Germania, seguiti dagli irriducibili dei fascisti che desiderano ritagliarsi una parte in questo crepuscolo degli dei, in ogni caso truppe disposte a tutto, vendicative, cattive oltre ogni immaginazione, che desiderano portare con loro, nel rogo che li divora, quanti più nemici possibili. In quei giorni non si hanno vere e proprie battaglie, come quella di Monte Casale, ma scontri locali, in cui spesso vittime sono proprio i partigiani.

Delle diverse forme resistenziali, delle battaglie sostenute, di questi scontri di fine guerra Benfatti offre al lettore un’ampia narrazione, mai generica, ma sempre assai precisa, così che non sarà difficile per più di un mantovano trovare fra i combattenti, in particolare per quelli caduti, un parente, della cui morte aveva avuto una generica descrizione e che nel libro trova invece una sua precisa collocazione, con tanto di data, parte del giorno, del come avvenne.

Credo che La Resistenza della provincia mantovana abbia una completezza difficilmente eguagliabile e costituisca un testo indispensabile, in un’epoca in cui la memoria va accorciandosi, per sapere quante lacrime e sangue siano alla base della nostra libertà e democrazia.

Carlo Benfatti (Poggio Rusco, 15 marzo 1939) è uno storico, scrittore e giornalista, autore di libri che hanno per oggetto fatti ed eventi della provincia mantovana.
Renzo Montagnoli

 

 

24 Novembre

La fattoria del Coup de Vague

di Georges Simenon

Edizioni Adelphi

Narrativa

Nulla deve turbare il piccolo mondo

La fattoria del Coup de Vague, romanzo scritto da Simenon nel 1938, non è un poliziesco, e nemmeno un noir, ma è un ritratto impietoso non solo della provincia francese, ma anche delle tensioni e degli attriti che sorgono, quasi inevitabilmente, in una famiglia. La vicenda si svolge in un villaggio francese caratterizzato dall’attività della miticoltura e spesso all’interno della fattoria del Coup de Vague, il colpo d’onda. C’è un nipote di nome Jean, un ragazzone di bell’aspetto, che non si sa di chi sia figlio, e due zie zitelle, Hortense ed Emilie, estremamente possessive. Fra una raccolta e l’altra di ostriche (riuscitissime le descrizioni al riguardo) Jean, che è di bell’aspetto, come una farfalla coglie dei giovani fiori e tutto procederebbe tranquillamente se non accadesse che una delle ragazze, Marthe, rimane incinta. Ecco l’avvenimento che travolge come un’ondata la vita di questo nucleo familiare,  chiuso e quasi inaccessibile. Dal momento in cui il ragazzone comunicherà alle zie l’incidente, cioè l’aver ingravidato una ragazza, nulla sarà più come prima e avverranno una serie di fatti, strettamente concatenati, che riveleranno un mondo di grettezza e di malanimo. Però le carie zie, le megere per gli altri abitanti del villaggio, faranno di tutto per ristabilire la situazione come era sempre stata prima del fatto e poco a poco ci riusciranno.

Come ho detto sopra il romanzo non è un giallo, ma la tensione è ugualmente sempre palpabile, come se da un momento all’altro una situazione, già difficile, dovesse precipitare, mentre emergono conflitti, odi quasi atavici e il tutto mentre matura e si sviluppa un complotto di restaurazione con protagoniste Hortense ed Emilie e figurante, succube, Jean.

La vicenda è squallida e la penna di Simenon riesce a far crescere nella melma, oltre ai mitili, anche le personalità di individui che vogliono che nulla cambi, che il mondo, il loro piccolo mondo, fatto di gesti ripetuti, di possessività nemmeno tanto nascoste, resti sempre quello.

Come al solito la descrizione degli ambienti e delle atmosfere è impeccabile, mentre a volte l’analisi psicologica segue un percorso più accidentato, a volte di grande efficacia, altre invece un po’ monotona.  Comunque, nel complesso, La fattoria del Coup de Vague è un buon romanzo.

Georges Simenon (Liegi, 13 febbraio 1903 – Losanna, 4 settembre 1989). Romanziere francese di origine belga. La sua vastissima produzione (circa 500 romanzi) occupa un posto di primo piano nella narrativa europea.
Grande importanza ha poi all'interno del genere poliziesco, grazie soprattutto al celebre personaggio del commissario Maigret.
La tiratura complessiva delle sue opere, tradotte in oltre cinquanta lingue e pubblicate in più di quaranta paesi, supera i settecento milioni di copie. Secondo l'Index Translationum, un database curato dall'UNESCO, Georges Simenon è il quindicesimo autore più tradotto di sempre.
Grande lettore fin da ragazzo in particolare di Dumas, Dickens, Balzac, Stendhal, Conrad e Stevenson, e dei classici. Nel 1919 entra come cronista alla «Gazette de Liège», dove rimane per oltre tre anni firmando con lo pseudonimo di Georges Sim.
Contemporaneamente collabora con altre riviste e all'età di diciotto anni pubblica il suo primo romanzo.
Dopo la morte del padre, nel 1922, si trasferisce a Parigi dove inizia a scrivere utilizzando vari pseudonimi; già nel 1923 collabora con una serie di riviste pubblicando racconti settimanali: la sua produzione è notevole e nell'arco di 3 anni scrive oltre 750 racconti. Intraprende poi la strada del romanzo popolare e tra il 1925 e il 1930 pubblica oltre 170 romanzi sotto vari pseudonimi e con vari editori: anni di apprendistato prima di dedicarsi a una letteratura di maggior impegno.
Nel 1929, in una serie di novelle scritte per la rivista «Détective», appare per la prima volta il personaggio del Commissario Maigret.
Nel 1931, si avvicina al mondo del cinema: Jean Renoir e Jean Tarride producono i primi due film tratti da sue opere.
Con la prima moglie Régine Renchon, intraprende lunghi viaggi per tutti gli anni trenta. Nel 1939 nasce il primo figlio, Marc.
Nel 1940 si trasferisce a Fontenay-le-Comte in Vandea: durante la guerra si occupa dell'assistenza dei rifugiati belgi e intrattiene una lunga corrispondenza con André Gide. A causa di un'errata diagnosi medica, Simenon si convince di essere gravemente malato e scrive, come testamento, le sue memorie, dedicate al figlio Marc e raccolte nel romanzo autobiografico Pedigree.
Accuse di collaborazionismo, poi rivelatesi infondate, lo inducono a trasferirsi negli Stati Uniti, dove conosce Denyse Ouimet che diventerà sua seconda moglie e madre di suoi tre figli. Torna in Europa negli anni Cinquanta, prima in Costa azzurra e poi in Svizzera, a Epalinges nei dintorni di Losanna.
Nel 1960 presiede la giuria della tredicesima edizione del festival di Cannes: viene assegnata la Palma d'oro a La dolce vita di Federico Fellini con cui avrà una lunga e duratura amicizia. Dopo pochi anni Simenon si separa da Denyse Ouimet.
Nel 1972 lo scrittore annuncia che non avrebbe mai più scritto, e infatti inizia l'epoca dei dettati: Simenon registra su nastri magnetici le parole che aveva deciso di non scrivere più. Nel 1978 la figlia Marie-Jo muore suicida. Nel 1980 Simenon rompe la promessa fatta otto anni prima e scrive di suo pugno il romanzo autobiografico Memorie intime, dedicato alla figlia.
Georges Simenon muore a Losanna per un tumore al cervello nel 1989.
Renzo Montagnoli

 

 

18 Novembre

Il centodelitti

di Giorgio Scerbanenco

La Nave di Teseo Editore

Narrativa

 

Una notevole creatività

Giorgio Scerbanenco aveva un incredibile talento creativo che, unito a uno stile dinamico, ma elegante, riusciva a interessare e ad avvincere il lettore dalla prima all’ultima pagina. Di queste sue indubbie doti e soprattutto della prima costituisce ampia e completa prova una raccolta di racconti non tutti thriller chiamata Il centodelitti. Non ho contato esattamente il numero delle prose, ma se non è cento manca poco, perché in 638 pagine ce ne sono di abbastanza lunghi, ma anche molti brevissimi, tanta è la capacità di Scerbanenco di narrare una trama dall’inizio alla fine anche in poche righe. L’aspetto più eclatante però è che non si tratta di materiale di modesta levatura, ma invece di assoluta eccellenza, indipendentemente dalla lunghezza. Così a memoria e per fare un esempio mi vengono in mente questi racconti: L’agonizzatoio (la quasi incredibile vicenda di un signore molto anziano che decide di confessare un delitto commesso in gioventù nel lontano 1901 che solo ora vuole espiare, ma non viene creduto, anzi il maresciallo dei carabinieri per liberarsene gli dice che il reato è caduto in prescrizione e che pertanto l’assassino non è perseguibile. Non ha fatto però i conti con un uomo che vuole redimersi, scontando una pena, perché questi allora gli sforna una cadavere fresco fresco), Il ricatto (non è un giallo, ma un racconto brevissimo sulle astuzie fanciullesche per ottenere un bacio), Scuola serale (il particolare metodo di reclutamento dei killer da parte di un’anonima omicidi), Di professione farabutto (quando redimersi ti complica la vita), L’ultimo regalo (un perfetto alibi per una rapina), Quei manifesti, e basta (un racconto, brevissimo, non giallo, ma malinconico), E’ evidente (brevissimo, ma un’autentica perla).

Giunti alla fine del libro, più che soddisfatti, perché è una lettura avvincente, viene da chiedersi perché Scerbanenco non abbia sfruttato meglio tutte queste idee per scrivere qualcosa di più corposo, un romanzo, ma non c’è ovviamente risposta, per quanto, ed è solo una mia impressione, creda che sia stata invece l’occasione di dare libero sfogo alla sua creatività, senza impegnarsi troppo; insomma, almeno in questo caso, il lavoro di scrittore è stato finalizzato al puro divertimento dello stesso.

Non credo che debba aggiungere altro, se non l’invito a leggere Il centodelitti.

Giorgio Scerbanenco (Kiev, 28 luglio 1911 – Milano, 27 ottobre 1969),  scrittore italiano di origine russa. Di madre italiana e padre ucraino, a sedici anni si stabilì a Milano. Fu collaboratore, redattore e direttore di periodici femminili ad alta tiratura, per i quali scrisse racconti e romanzi «rosa», per lo più ambientati nell’America degli anni Quaranta. Più tardi approdò al genere poliziesco e fu il successo, prima con Venere privata (1966), poi con Traditori di tutti (1966). Altrettanto fortunate le opere successive, da I ragazzi del massacro (1968) a I milanesi ammazzano al sabato (1969), ai racconti postumi di Milano calibro 9 (1969) e Il centodelitti (1970). Protagonista di quasi tutta la serie è Duca Lamberti, accorto investigatore della Milano «nera». Prodigioso narratore di storie e maestro nel catturare l’attenzione del lettore, Scerbanenco fu uno dei primi, in Italia, a confrontarsi con i gusti di un pubblico di massa. La sua scrittura, insieme ingenua e ricercata, antiletteraria, piena di sprezzature, veloce, è singolarmente efficace. Nel 2018 esce Luna di miele per La Nave di Teseo.
Renzo Montagnoli

 

 

13 Novembre

Sfinge di pietra

di Claudia Piccinno

Prefazione di Dante Maffia

Edizioni Il Cuscino di Stelle

Poesia

 

Osserva e rifletti

Nell’antico Egitto la sfinge era un monumento che veniva posto vicino alle piramidi a protezione delle stesse e mi sono chiesto a lungo il perché di questo titolo della silloge di Claudia Piccinno. Anche volendo pensare che metaforicamente abbia voluto mutuare questo antico simbolo, è pressoché impossibile pensare a questa interpretazione. Se invece si considera l’altra chiave, cioè sfinge come chi è osservatore impassibile e muto, forse si riesce a trovare il bandolo della matassa. E del resto, nel leggere le poesie di questa raccolta, si ritrae l’impressione di un autore dedito a osservare silenziosamente il mondo che lo circonda e di cui è parte, rapportando la visione, le sensazioni che percepisce con il suo metro di paragone, insomma con quello che spesso non sempre propriamente definiamo il proprio “Io”. Un esempio di questo concetto è dato dai versi di Sull’adulazione ( Resta sempre il sospetto / che vogliate mortificare / il mio intelletto. / Sono abile e allenata / a riconoscere / simile rima baciata. / Non si esalta alla luna / quanto compete al sole. / Non occorre giocare / con la ritrosia delle viole. / Quoque tu Brutus filii mii. / L'ho sempre saputo / ho solo finto / di averci creduto. / Sono disposta a prendervi per mano. / Chi mi ha seguito è arrivato lontano. / Ma vi prego non ingannatemi con penna adulatrice. / Usate inchiostro grezzo / che la stima non ha un prezzo.). Per quanto ci siano affermazioni enigmatiche, peraltro esposte ricorrendo alla rima, è chiaro che quello che può sembrare uno sfogo è solo una semplice constatazione, rivolta alla frequente  mancanza di sincerità che alberga negli adulatori.

Si può così ben comprendere come questa raccolta sia ben diversa da La nota irriverente, dove predominava quello che io definisco il sentimento primordiale, l’amore, mentre in questa Claudia si avventura in una foresta di considerazioni non sempre espresse in  modo chiaro, e del resto la stessa sfinge è di per se stessa un enigma; questo impone a chi legge frequenti pause per le inevitabili riflessioni volte a comprendere il significato dei versi, il che però non è un male, anzi è un bene perché solo in questo modo si riesce a entrare  in simbiosi con l’autore.  E’ indubbio che questo comporta una certa difficoltà, ma a certi livelli questa è la norma e quindi non c’è da stupirsi.

Non è che voglia fare paragoni a tutti i costi, ma mi sembra opportuno evidenziare che se in La nota irriverente era concettualmente e figurativamente presente un caleidoscopio di immagini, qui vi è un caleidoscopio di pensieri. Si tratta di tutta una serie di riflessioni sugli aspetti del mondo con il precipuo scopo di cercare gli autentici valori della vita, nobile scopo che impreziosisce l’opera e che la rende più che degna di essere letta. Da ultimo sottolineo come questa edizione sia bilingue, cioè in italiano e in inglese; che ci sia il recondito desiderio che il libro voli più delle parole oltre l’oceano, fino all’America? Non ho nulla da obiettare sulla versione in inglese, visto che le mie conoscenze di questa lingua sono senz’altro inferiori a quelle di Claudia Piccinno; mi basta, e avanza, quella in italiano, lessicalmente e concettualmente più che valida.

Claudia Piccinnonasce a Lecce nel 1970, ma si trasferisce giovanissima in Lombardia e poi in Emilia Romagna dove attualmente vive. Presente in oltre sessanta raccolte antologiche, già membro di giuria in vari premi letterari a carattere nazionale e internazionale.
Insegnante di ruolo nella scuola primaria, Laurea in Lingue e Letterature straniere.

Per ulteriori informazioni e per quanto concerne il corposo numero di opere pubblicate è opportuno un rimando al sito personale http://claudiapiccinno.weebly.com/
Renzo Montagnoli

 

 

8 Novembre

La lunga notte

di Leonardo Gori

Edizioni TEA

Narrativa

 

L’armistizio dell’8 settembre 1943

Credo che per Leonardo Gori Bruno Arcieri sia non solo il personaggio che ha creato, ma anche un amico ideale in cui si riflettono le sue sensazioni ed emozioni; del resto non potrebbe essere altrimenti, perché con La lunga notte siamo arrivati al tredicesimo episodio che, nella circostanza, vede impegnato l’eccellente ufficiale dei carabinieri in una delicatissima missione che si svolge, per lo più a Roma, dal 6 al 9 settembre 1943. Si tratta di quattro giorni fatidici, quelli che precedono e seguono immediatamente l’8 settembre, allorché il messaggio di Badoglio alla nazione, alquanto sibillino, annunciava l’intervenuto armistizio con gli anglo americani. Si tratta, ancor oggi, di un tema scottante, di cui non è facile parlare, perché un atto così determinante comportò l’abbandono dell’Italia e degli italiani al prevedibile risentimento dei tedeschi, con la vergognosa fuga del re e della sua corte con ogni probabilità mercanteggiata con i nazisti. E per fortuna che Vittorio Emanuele III era soprannominato il re guerriero, ma di certo gli si addiceva molto di più l’appellativo di  re sciaboletta, a causa della sua bassa statura, anche morale.

Alla luce di questi fatti Gori ha dovuto procedere con particolare attenzione riproducendo, sulla base della documentazione storica, quanto effettivamente avvenne, inserendo il personaggio del Capitano Arcieri con congruità rispetto agli avvenimenti. La sua missione è quella di far da interprete, ma anche di spiare, due alti ufficiali americani fatti venire a Roma per discutere dei piani di difesa della capitale. In questa vicenda si inserisce poi un’altra, nel non facile rapporto con la bella Elena Contini, coinvolta addirittura in un caso di omicidio.

Leonardo Gori si destreggia bene in una trama in cui sembrano maturare nuove congiure, con gli alti comandi che conducono un doppio gioco, un tira e molla che spazientisce gli americani che finiranno per rinunciare alla difesa di Roma, così come preteso da Badoglio e che fu probabilmente uno dei termini degli accordi con i tedeschi per permette al re di fuggire. In questo guazzabuglio lo sfacelo di un regime è reso splendidamente, tanto che sembra di respirare un’aria marcescente, con personaggi di primo piano che hanno perso completamente il senso dell’onore e che ignorano ciò che vuol dire il termine dignità; così tutti pensano solo all’interesse personale, a mettersi in salvo, tutti meno il capitano Bruno Arcieri.

La serie mi è piaciuta tutta nel complesso, magari con qualche episodio che ho gradito meno, ma credo che il livello qualitativo si sia mantenuto buono. Questo tredicesimo, tuttavia, anche per le difficoltà che comportano la vicenda storica e per la capacità dell’autore di attenersi strettamente ai fatti è indubbiamente di notevole qualità, tanto che credo si possa considerare come il capolavoro di Leonardo Gori.

Non è un problema quindi consigliarne la lettura, anzi mi sento di raccomandarla vivamente.

Leonardo Gori è uno scrittore italiano, autore del ciclo di romanzi di Bruno Arcieri, capitano dei Carabinieri nell’Italia degli anni Trenta. Il primo romanzo, Nero di maggio, si svolge nella Firenze nel 1938; seguono Il passaggioLa finaleL’angelo del fango (Premio Scerbanenco 2005), Musica neraLo specchio nero e Il fiore d’oro, gli ultimi due scritti con Franco Cardini. La serie di romanzi è in corso di riedizione in TEA. Ha scritto anche thriller storici ed è stato co-autore di saggi sul fumetto e forme espressive correlate (illustrazione, cinema, disegno animato).
Renzo Montagnoli

 

 

3 Novembre

Di terre straniere

di Carla Malerba

Presentazione di Francesco Prestopino

Edizioni La Vita Felice

Poesia 

Lo straniamento

Carla Malerba è nata in Africa, per la precisione in Libia, terra che ha lasciato nel 1970 per venire a vivere in Italia. Questa breve premessa è d’obbligo perché è inevitabile che resista sempre un particolare legame affettivo con il luogo in cui si è nati e si è vissuta la propria giovinezza. Così ricorre ogni tanto la nostalgia, giacché il ricordo, per quanto sopito, è sempre presente. Al riguardo c’è chi si esprime narrando del suo trascorso laddove è nato e c’è invece chi in poesia parla di questa sua particolare situazione, cioè di una persona che ha trovato una nuova patria, in cui pure sta bene, ma che ha ancora affondate le radici in quella da cui è venuta. In quest’ottica è nata questa raccolta, opportunamente intitolata “Di terre straniere”, con l’evidente intento di esprimere il concetto di questa particolare condizione e di trasporre in versi la memoria.

Le poesie sono sempre una proiezione del nostro “io”, lo specchio di ciò che alberga nella parte più recondita di noi stessi e quasi sempre a noi sconosciuta, fino a quando non riusciamo a farla emergere; sono sensazioni, emozioni di cui avvertiamo i palpiti e che cerchiamo di esprimere nel linguaggio poetico. Ovviamente è anche questo il caso delle poesie contenute in questa raccolta, come, per esempio, in Canzone (Ho lasciato in fondo / a un corridoio lungo / un abito di festa, / ho chiuso la porta / del guardaroba / caldo di vapori / e ripensato a un giorno, / nell’androne buio di casa, / quando in cima alle scale / mi sporgevo / per vederti arrivare. / (Le camelie ingiallivano piano / nell’afa di agosto) / Avevi un vestito di seta / sì lieve / che ondeggiava nel vento / e pareva / tessuto di nebbia mattinale.); in questi versi, che sembrano emergere da un’atmosfera densa e lattiginosa, complice il ritrovamento di un abito da festa, affiora il ricordo di un giorno e di una figura cara, che con ogni probabilità è la madre, con felici scelte descrittive che portano il lettore a vedere in estate una donna avvolta in un vestito di seta mosso dal vento, talmente leggero, quasi evanescente da sembrare un tessuto fatto con quella nebbiolina tenue che si riscontra nella stagione estiva all’alba.

Più chiaramente la memoria della terra natia è richiamata con forza nei versi contenuti in Lungomare di Oea (Lungomare di scarpate / e balaustre, / di forti sensi, lungomare lungo, / il vento gonfia / vele di pietra. / Lungomare di palme e di oleandri:/ una gazzella / che una donna abbraccia / è immoto sogno / fino a che il lontano / squarcia improvviso / il quotidiano vivere / e lo scalda.). Ora, di questa descrizione della parte più antica di Tripoli mi piace cogliere quella che è l’immagine memorizzata dalla poetessa, una visione che, come sempre, non è perfettamente nitida, anzi spesso e volentieri finisce con l’essere l’interpretazione di un’emozione, come in questo caso (con felice scelta, viene scritto che il vento gonfia vele di pietra, cioè affonda la sua forza nei muri delle case).

Comunque, se voleva spiegare ciò che prova con il ricordo, credo ci sia riuscita benissimo. E ancor meglio ha fatto con Altra vita ( Altra vita era / quella di cui poco /  è rimasto: / memorie di strada / e di volti, / gialla la luce / della sera sulle case, / nei vicoli / canti e richiami. / L’ombra dei vent’anni / che scivola tra le dita / come acqua di fonte / e sentirsi a volte / come collocata a forza / entro paesaggi stranieri, / ferita pulsante / la non appartenenza / né a questo, né a quello / di paese. / L’ unico paese / che mi è rimasto / è il mio cuore.).

E’ una lirica che definirei ungarettiana perché riesce bene a esprimere quella sensazione di straniamento che coglie chi, come Carla Malerba, ha vissuto in parte (la parte più importante della vita, cioè la giovinezza) in un paese, per trasferirsi poi in un altro. Le scelte lessicali sono veramente azzeccate e la chiusa sintetizza in modo splendido il contenuto di una poesia che già da sola dà lustro all’intera raccolta; ma non è che le altre siano da poco, anzi sono di un livello di eccellenza che il lettore attento e appassionato non può non cogliere.

Ovviamente Di terre straniere è ben meritevole di lettura.

Carla Malerba è nata in Nord Africa, ma dal 1970 risiede in Italia. A Tripoli, sua città natale, pubblica giovanissima i suoi primi versi. Si laurea nel 1986 presso l’Università degli Studi di Siena con una tesi sulla poesia per l’infanzia. Ha insegnato Lettere ad Arezzo, città nella quale vive tuttora.

Nel 1999 pubblica a Cortona la sua prima raccolta “Luci e ombre “, seguita nel 2001 da “Creatura d’acqua e di foglie (Ed. Calosci, Cortona). In esse i temi della perdita e del dolore si fanno pressanti anche se, a tratti, la memoria assume una funzione salvifica. Con le raccolte “Di terre straniere” e “Vita di una donna” (entrambe pubblicate con La vita felice, Milano 2010 e 2015) la poetessa riprende i temi del viaggio esistenziale e degli affetti.

“Poesie future” (Puntoacapo editrice, giugno 2020) è la sua ultima raccolta

Alcune sue liriche sono presenti nell’antologia Novecento non più-Verso il Realismo terminale, (La Vita Felice, 2016), in Pioggia Obliqua Scritture d’arte (Nuovo poesia proposta) in Fiordalisi-Menti sommerse, in Tanti pensieri, in Alma poesia, in Poetrydream. Scrive anche racconti brevi alcuni dei quali sono stati pubblicati su Essere, periodico del Centro di solidarietà di Arezzo.

Ha ricevuto diversi riconoscimenti per la poesia inedita in concorsi nazionali tra cui un Premio speciale della Giuria al Premio Ossi di seppia 2020; primo premio al concorso Territori della parola, IV edizione 2018-2019 per la poesia inedita; nel 2020 il Gran Premio della giuria al Concorso Le occasioni C19 per le sezioni A e B; nel 2021 il Premio speciale Fondazione Giovanni Pascoli per la raccolta “Poesie future”; al Premio internazionale Le occasioni 2021 secondo Premio per la sezione B.
Renzo Montagnoli

 

 

30 Ottobre

Mario Rigoni Stern.

Vita guerre libri

di Giuseppe Mendicino

Edizioni Priuli & Verlucca

Biografia

 

Il dono

Mario Rigoni Stern è da considerarsi, senza remore, uno dei migliori scrittori, a livello mondiale, dello scorso secolo, un uomo che scriveva la sua quotidiana esperienza, cioè stilava un’opera lasciando ben poco spazio alla fantasia.  Del resto lui stesso ne era consapevole, tanto che amava definirsi “un narratore che racconta quello che ha visto e vissuto”. E che narratore, vien da dire, capace di avvincere con uno stile sobrio, sovente venato da un estro poetico, in grado di essere presente attraverso le pagine, tanto da immaginarlo lì davanti a raccontare, seduto in poltrona, accanto al fuoco di un camino. Certo che la vita che ha condotto e soprattutto la guerra nel suo aspetto più orrendo sono state un insegnamento pratico che ha dovuto accettare e di cui non ha mai cessato di parlare, da pacifista, non da guerrafondaio. Sono tuttavia sicuro che anche se non ci fosse stata la tragica esperienza del secondo conflitto mondiale avrebbe trovato facilmente tanti argomenti da rendere oggetto della sua prosa, dalla storia travagliata del suo paese Asiago durante la Grande Guerra  all’apparente monotona vita dei suoi ultimi sessant’anni, capace come era di saper osservare e guardarsi intorno, cogliendo nella natura la bellezza e il mistero, pronto a esternare le sue sensazioni ed emozioni. E’ inutile che dica che è uno dei miei autori preferiti, di cui ho letto praticamente tutta la produzione e per il quale ho scritto una monografia, di grande impegno, ma dai risultati modesti se paragonati alla stupenda biografia uscita dalla penna di Giuseppe Mendicino, che l’ha conosciuto nella seconda parte della sua vita.

Mario Rigoni Stern Vita guerre e libri è un’opera straordinaria, di notevolissimo interesse, perché l’autore è riuscito nel non certo facile compito di far rivivere lo scrittore asiaghese, tanto che, come nei suoi libri, sembra davanti al lettore, la stessa sensazione che si ritrae in questa sua biografia, completa senza essere greve, un libro indispensabile per chi voglia iniziare a leggere gli scritti di Rigoni Stern, ma anche utilissima per chi  ne ha in corso la lettura. Di grande efficacia è poi l’impostazione, con la descrizione  degli eventi  di un periodo storico che ritroviamo puntuali in un romanzo, o in un saggio, ovvero ancora in un saggio-romanzo, come in effetti sono quasi tutte le opere di questo grande autore. Giuseppe Mendicino non è certo asettico nello scrivere, vista la conoscenza diretta di Rigoni Stern, ma non usa mai toni eccessivi, non è smodato nel parlare del valore, il che consente di non essere influenzati nella lettura, da cui però si trarranno considerazioni entusiastiche. Dall’infanzia e dalla giovinezza, passando per gli anni della guerra, fino agli ultimi mesi di vita questa biografia è una vera e propria sinfonia, dove al posto delle note ci sono parole, misurate, eppure così indovinate da riuscire a disegnare un ritratto perfetto, sorretto da una mano ferma e da un lucido entusiasmo. Per quanto volessi ancora dire non potrebbe mai risultare esplicativo  e completo come quello che ha scritto Giuseppe Mendicino, ed è con le sue illuminanti parole a chiusura del suo libro che concludo questa recensione: “ Il 16 giugno 2008 Mario Rigoni Stern se n’è andato per sempre, ma non è scomparso. Quando ci fermiamo a guardare una meraviglia della natura o un suo piccolo fuggevole dettaglio, quando siamo incerti su una decisione che mette in gioco il nostro codice etico, quando ci chiediamo quale sia davvero il senso del nostro vivere inquieto, ricordarlo, rileggere le sue pagine, può farci sentite meno soli. E’ questo il suo ultimo dono.”.

Giuseppe Mendicino è considerato il maggior esperto dello scrittore Mario Rigoni Stern. Con Laterza ha pubblicato Mario Rigoni Stern. Un ritratto (2021). Ha redatto la voce Mario Rigoni Stern del Dizionario Biografico degli Italiani (Istituto dell’Enciclopedia Italiana Treccani) ed è autore di Mario Rigoni Stern. Il coraggio di dire no (Einaudi, 2013), Mario Rigoni Stern. Vita, guerre, libri (Priuli & Verlucca, 2016), Portfolio alpino (Priuli & Verlucca, 2018) e Nuto Revelli. Vita, guerre, libri (Priuli & Verlucca, 2019). È socio accademico del GISM (Gruppo italiano scrittori di montagna) e collabora con le riviste «Doppiozero» e «Meridiani Montagne».
Renzo Montagnoli

 

 

23 Ottobre

Fiori sopra l’inferno

di Ilaria Tuti

Edizioni Longanesi

Narrativa 

 

Vittima e carnefice

Fiori sopra l’inferno è il romanzo con il quale Ilaria Tutti si è rivelata al pubblico dei lettori, un esordio quindi, e peraltro nel complesso positivo, senza con questo arrivare a formulare certi commenti entusiasti, e francamente eccessivi, che ho avuto occasione di leggere.  Come ogni opera del genere (è un thriller) c’è una suspense, un omicidio, delle aggressioni e la ricerca del colpevole affidata all’acume di un commissario di polizia che nel caso specifico è una donna, tale Teresa Battaglia, non giovane, anzi avanti con gli anni. Uno dei segreti dei romanzi di questo genere è l’azzeccata figura dell’investigatore e Ilaria Tutti si è impegnata non poco per portare alla conoscenza dei lettori una persona capace, umana, ma anche vittima di complessi, di paure, frutto di una violenza subita in passato. E’ una figura che attrae con i sentimenti che cerca di celare, ma che anche respinge con un modo di fare burbero, in alcuni casi anche dozzinale, insomma un personaggio che indubbiamente ha connotati non riscontrabili in altri. L’antefatto dell’indagine affidata a Teresa Battaglia è il ritrovamento del corpo di un uomo privato degli occhi, in una giornata d’inverno, nei pressi di Traveni, un paesino sulle montagne del Friuli vicino al confine. A questo atto di violenza ne seguiranno altri, senza però che alle vittime sia tolta la vita e sempre commessi dalla stessa mano, un essere misterioso la cui descrizione, appena accennata, ma illuminante, è certamente un parto felice uscito dalla penna di Ilaria Tuti. Non vado oltre a parlare della trama, piuttosto complessa, tanto che potrei ingenerare confusione nei possibili lettori, e anche perché non c’è di peggio che riassumere un thriller. Preferisco invece soffermarmi su alcune caratteristiche dell’opera, fra le quali spicca uno stile senz’altro personale che, unito alla capacità di ricreare atmosfere e ambientazione, consente a chi legge di lasciarsi avvincere poco a poco, pagina dopo pagina, immerso in una vicenda che scorre velocemente davanti ai suoi occhi, provando lui stesso un brivido di paura nell’attesa della prossima mossa del serial killer, sempre del tutto imprevedibile nei tempi, nei modi e nelle persone offese. C’è di più, però, perché è presente un senso di vera pietà nei confronti di chi commette questi atti orribili (come per esempio strappare a morsi naso e orecchie) in quanto lui stesso, oltre che carnefice, è anche vittima, reso per quel che è da un folle esperimento di cui è stato oggetto fin dai primi giorni della sua vita. Però, se anche lui è una vittima, chi è l’effettivo colpevole, che è stato l’artefice di questo folle esperimento? C’è la risposta a questa domanda ed è un peccato che non sia molto logica, anche se d’effetto. Resta comunque più che apprezzabile l’analisi psicologica dei personaggi, anche se nel caso del commissario Teresa Battaglia si possono osservare delle forzature che si ritrovano anche nel successivo romanzo Ninfa dormiente che, pur presentando i pregi di questo, è caratterizzato da un’accentuazione dei suoi difetti, così che può essere considerato meno riuscito, anche se gradevolmente leggibile.

Mi sento in ogni caso di consigliare la lettura di Fiori sopra l’inferno, al fine di immergersi in un mondo in cui alla bellezza della natura si contrappone l’insano comportamento degli uomini, e alla serenità di boschi e cime innevate si oppone l’orrore che solo una mente malata può creare. 

Ilaria Tuti è nata a Gemona del Friuli, in provincia di Udine. Ha studiato Economia. Appassionata di pittura, nel tempo libero ha fatto l’illustratrice per una piccola casa editrice. Nel 2014 ha vinto il Premio Gran Giallo Città di Cattolica. Il thriller Fiori sopra l'inferno, edito da Longanesi nel 2018, è il suo libro d'esordio. Tra i suoi libri ricordiamo anche: Ninfa dormiente (Longanesi, 2019) e Fiore di roccia (Longanesi, 2020). Del 2021 il romanzo La luce della notte, il ritorno dell'amatissima Teresa Battaglia in un romanzo di rinascita e speranza. Nello stesso anno esce Figlia della cenere (Longanesi).
Renzo Montagnoli

 

 

19 Ottobre

Alabama

di Alessandro Barbero

Sellerio Editore Palermo

Narrativa

 

Le origini del razzismo

L’assalto al parlamento americano dei sostenitori di Trump, delusi per la sua mancata rielezione, un vero e proprio arrembaggio di suprematisti, di appartenenti a sette razziste, di individui della violenza più cieca è stato visto da milioni di telespettatori, grazie alle riprese televisive. Una gran parte di questi facinorosi sono del sud degli Stati Uniti, di zone in cui il razzismo non è certo storia recente, anzi ha origini ben lontane, alimentato da chi, come allora, detiene posizioni di privilegio, sostenendo per difenderle la cupa rabbia di gente povera e ignorante, orientata a punire per la loro condizione non i colpevoli, ma i diversi, e fra questi soprattutto i neri, visti come negri, gli schiavi di un tempo a cui mai hanno riconosciuto una parità di diritti con i bianchi.

Questo preambolo potrebbe far pensare che Alabama, l’ultimo romanzo storico di Alessandro Barbero, parli del fatto di cui ho accennato, ma non è così, perché invece è la narrazione di una strage di soldati unionisti neri avvenuta nel corso della guerra di secessione, una storia con cui si mostra il volto di un’America retriva che da allora non è cambiata; è così  che la mente corre a episodi più recenti, come l’assassinio di Martin Luther King, leader del movimento per i diritti civili degli afroamericani avvenuto a Memphis (Tennessee) il 4 aprile 1968 e l’assalto del 6 gennaio 2021 al Campidoglio degli Stati Uniti per opera appunto dei delusi sostenitori del presidente uscente Donald Trump.

Barbero è molto abile a descrivere un fatto di circa centocinquant’anni fa con l’escamotage di una giovane studentessa di un college che, poco dopo l’attacco giapponese a Pearl Harbor, per una sua ricerca è riuscita a trovare un superstite della guerra di secessione da cui spera di avere informazioni su una notizia, di cui non ha certezza, secondo la quale al termine di una battaglia i soldati confederati avrebbero massacrato i soldati dell’Unione di pelle nera che si erano arresi. Si dipana così il racconto del reduce solo al termine del quale avremo certezza che la strage è effettivamente avvenuta e che alla stessa lui ha preso parte. Quel che più conta, però, è la storia che l’uomo ricorda dal suo arruolamento fino a quell’episodio, una storia di pochi ricchi piantatori di cotone e di tanti bianchi che tirano avanti alla meno peggio, non schiavi come i neri, ma succubi dei padroni del vapore che abilmente orientano le loro insoddisfazioni verso i lavoratori di pelle nera. Superstizioni, una religione di facciata, l’ignoranza diffusa (la maggior parte sono analfabeti) sono un terreno fertile perché individui frustrati si sentano forti solo con i più deboli e incolpevoli.

E’ un romanzo di forte tensione quello di Barbero, perché pagina dopo pagina nel lungo monologo di questo anziano reduce emergono a poco a poco segnali, tracce, cause che sfoceranno nel massacro. C’era il rischio di stancare il lettore ma non è così perché la narrazione del vecchio è diretta, si ha l’impressione che sia davanti a chi legge, raccontandoci il tutto. Quindi, è un’opera che avvince dalla prima all’ultima pagina, una lettura da cui si esce consapevoli dei motivi di certi comportamenti, fantasmi di un passato che ogni tanto ritornano.    

Alessandro Barbero (Torino, 30 aprile 1959), è scrittore e storico italiano. Laureato in Storia Medioevale con Giovanni Tabacco, nel 1981, ha poi perfezionato i suoi studi alla Scuola Normale di Pisa sino al 1984. Ricercatore universitario dal 1984, diventa professore associato all’Università del Piemonte Orientale a Vercelli nel 1998, dove insegna Storia Medievale. Ha pubblicato romanzi e molti saggi di storia non solo medievale. Con il romanzo d’esordio, Bella vita e guerre altrui di Mr. Pyle gentiluomo, ha vinto il Premio Strega nel 1996.
Collabora con La Stampa e Tuttolibri, con la rivista "Medioevo", e con i programmi televisivi ("Superquark") e radiofonici ("Alle otto della sera") della RAI. Tra i suoi impegni si conta anche la direzione della "Storia d'Europa e del Mediterraneo" della Salerno Editrice. Tra i suoi titoli più recenti ricordiamo: Lepanto. La battaglia dei tre imperi (Laterza 2010), Il divano di Istanbul (Sellerio 2011), I prigionieri dei Savoia (Laterza 2012), Le ateniesi (Mondadori 2015), Costantino il vincitore (Salerno 2016), Dante (Laterza 2020) e Alabama (Sellerio 2021).
Renzo Montagnoli

 

 

14 Ottobre

I superstiti del Télémaque

di Georges Simenon

Edizioni Adelphi

Narrativa

 

Non il solito Simenon

Per quanto la capacità creativa di Simenon potesse sembrare inesauribile ogni tanto doveva sopravvenire qualche stanchezza, un calo di forma che inevitabilmente si rifletteva in una produzione non del consueto elevato livello. Deve essere accaduto anche per I superstiti del Télémaque, dalla lettura pur sempre gradevole, ma romanzo che non è all’altezza di quanto ci ha abituato l’autore belga. Eppure la storia parte da un elemento di indubbio interesse, da un delitto che pare trovare origine in quanto accaduto dopo il naufragio del Télémaque, allorché i superstiti, per sopravvivere, dovettero ricorrere al cannibalismo. La moglie di uno dei possibili divorati è impazzita e i figli Pierre e Charles, gemelli, scontano della tragica fine del padre e dello stato mentale della madre la loro esistenza, con il primo tutto forza e muscoli, ma poco cervello, e il secondo, malaticcio, ma capace di ben ragionare.

E’ Pierre che viene accusato dell’omicidio di un superstite di quel naufragio e spetterà all’insicuro Charles l’ingrato e delicato compito di tirarlo fuori dalle rogne scoprendo il vero colpevole.

La trama è quella che è, tanto più che la scoperta del reo è abbastanza nebulosa, ma in genere quello che si apprezza di Simenon sono le capacità di ricreare l’ambiente e di sondare psicologicamente l’animo umano. La prima non manca, perché la descrizione e l’atmosfera di Fécamp, cittadina della Normandia che vive soprattutto con la pesca dell’aringa sono come al solito  rese perfettamente.

Quello che invece non è al solito livello è l’indagine psicologica, con questi due gemelli per niente uguali e dalle caratteristiche completamente diverse, notevolmente accentuate nei caratteri, tanto da essere quasi innaturali. Insomma, nessuno dei due è riuscito a rientrare nelle mie simpatie, perché troppo estremizzati.

Direi che questo romanzo è stato scritto forse frettolosamente, oppure, come ho accennato all’inizio, era un periodo un po’ di stanchezza; con ciò non intendo affermare che è un lavoro da poco, no, solo che è semplicemente un giallo, e non il solito, ma eccellente giallo di Simenon.

Georges Simenon (Liegi, 13 febbraio 1903 – Losanna, 4 settembre 1989). Romanziere francese di origine belga. La sua vastissima produzione (circa 500 romanzi) occupa un posto di primo piano nella narrativa europea.
Grande importanza ha poi all'interno del genere poliziesco, grazie soprattutto al celebre personaggio del commissario Maigret.
La tiratura complessiva delle sue opere, tradotte in oltre cinquanta lingue e pubblicate in più di quaranta paesi, supera i settecento milioni di copie. Secondo l'Index Translationum, un database curato dall'UNESCO, Georges Simenon è il quindicesimo autore più tradotto di sempre.
Grande lettore fin da ragazzo in particolare di Dumas, Dickens, Balzac, Stendhal, Conrad e Stevenson, e dei classici. Nel 1919 entra come cronista alla «Gazette de Liège», dove rimane per oltre tre anni firmando con lo pseudonimo di Georges Sim.
Contemporaneamente collabora con altre riviste e all'età di diciotto anni pubblica il suo primo romanzo.
Dopo la morte del padre, nel 1922, si trasferisce a Parigi dove inizia a scrivere utilizzando vari pseudonimi; già nel 1923 collabora con una serie di riviste pubblicando racconti settimanali: la sua produzione è notevole e nell'arco di 3 anni scrive oltre 750 racconti. Intraprende poi la strada del romanzo popolare e tra il 1925 e il 1930 pubblica oltre 170 romanzi sotto vari pseudonimi e con vari editori: anni di apprendistato prima di dedicarsi a una letteratura di maggior impegno.
Nel 1929, in una serie di novelle scritte per la rivista «Détective», appare per la prima volta il personaggio del Commissario Maigret.
Nel 1931, si avvicina al mondo del cinema: Jean Renoir e Jean Tarride producono i primi due film tratti da sue opere.
Con la prima moglie Régine Renchon, intraprende lunghi viaggi per tutti gli anni trenta. Nel 1939 nasce il primo figlio, Marc.
Nel 1940 si trasferisce a Fontenay-le-Comte in Vandea: durante la guerra si occupa dell'assistenza dei rifugiati belgi e intrattiene una lunga corrispondenza con André Gide. A causa di un'errata diagnosi medica, Simenon si convince di essere gravemente malato e scrive, come testamento, le sue memorie, dedicate al figlio Marc e raccolte nel romanzo autobiografico Pedigree.
Accuse di collaborazionismo, poi rivelatesi infondate, lo inducono a trasferirsi negli Stati Uniti, dove conosce Denyse Ouimet che diventerà sua seconda moglie e madre di suoi tre figli. Torna in Europa negli anni Cinquanta, prima in Costa azzurra e poi in Svizzera, a Epalinges nei dintorni di Losanna.
Nel 1960 presiede la giuria della tredicesima edizione del festival di Cannes: viene assegnata la Palma d'oro a La dolce vita di Federico Fellini con cui avrà una lunga e duratura amicizia. Dopo pochi anni Simenon si separa da Denyse Ouimet.
Nel 1972 lo scrittore annuncia che non avrebbe mai più scritto, e infatti inizia l'epoca dei dettati: Simenon registra su nastri magnetici le parole che aveva deciso di non scrivere più. Nel 1978 la figlia Marie-Jo muore suicida. Nel 1980 Simenon rompe la promessa fatta otto anni prima e scrive di suo pugno il romanzo autobiografico Memorie intime, dedicato alla figlia.
Georges Simenon muore a Losanna per un tumore al cervello nel 1989.
Renzo Montagnoli

 

 

13 Ottobre

      

Recensione del racconto di Angela Ceraso “Natalino, il monello compie una buona azione”.
                                                                      Edito da Lupi editore

Ci s’immerge nella lettura di una bellissima fiaba che ad ogni bambino va letta, che possa così comprendere quanto è fortunato a vivere la normalità della sua età, al contrario di quei bambini rilegati
in un letto d’ospedale, anche nella notte più magica dell’anno: come dice Natalino non si può vivere così anche la notte di Natale, almeno quella notte quei bambini hanno diritto anche loro di essere felici, ritornando alla normalità quotidiana.
A ciò aggiungo: che tutti i bambini che soffrono in ogni modo o per qualsivoglia ragione, pur non stando soggiornando tra fredde pareti di un ospedale, avrebbero diritto di essere felici, stando a vivere
la normalità della quotidianità che spetta al loro status di fanciulli; non solo la notte di Natale.

Lapponia, alla finestra Natalino si era perso a guardare il papà che caricava la slitta con sacchi enormi, pieni, zeppi di regali; non aveva mandato giù il fatto che anche quest’anno non andasse con il genitore
a consegnare i regali in giro per il mondo.
Ma, con l’aiuto della sorellina Celeste, fece in modo  di svolgere lui quel compito.
Si trovarono a fare una sosta a Napoli, Natalino si rese conto che la slitta era ferma costeggiando
l’ospedale pediatrico Santobono Pousillipon, a quel punto tirò fuori un grido dopo aver dato un pugno sull’asfalto, pensando a tutti quei bambini come lui, privi di libertà perché ammalati, cagionevoli, fragili, perciò decise, con l’aiuto della fatina Giada, di fare in modo che almeno per quella notte potessero essere felici, ritornando per un attimo alla normalità della loro quotidianità d’un tempo.
Giada, la fatina, al rientro a casa, fece si che il papà e la mamma non si rendessero conto di quanto accaduto.

Non sono uno che si emoziona facilmente, ma questo racconto ha smosso in me qualcosa.

“Quando ero bambino, ma anche tutt’oggi, nel periodo natalizio il mio animo s’incupiva, avrei preferito sprofondare in un sonno che sarebbe durato per tutto il periodo della ricorrenza: nulla riusciva
a rallegrarmi, neppure il regalo più desiderato.
Forse perché Natalino non è mai venuto ad allietarmi.”
 Vincenzo Patierno

 

 

9 Ottobre

L’inverno più nero.

Un’indagine del commissario De Luca

di Carlo Lucarelli

Edizioni Einaudi

Narrativa 

Freddo, fame e paura

Bologna, dicembre 1944, gli alleati sono ormai alle porte, ma, complice l’inverno, preferiscono sospendere le operazioni, in pratica provvedono a svernare. Ma se sui crinali degli Appennini c’è quasi una tregua, peraltro non concordata, nella città capoluogo dell’Emilia si combatte ogni giorno per sopravvivere. Invasa dagli sfollati, che popolano la Sperrzone, il centro, sorvegliato dai soldati della Feldgendarmerie, fra animali di ogni genere, dai manzi alle galline, più che una città ha assunto le caratteristiche di una corte dei miracoli, con la popolazione che patisce la fame e il freddo, stretta nella morsa delle SS e degli irriducibili repubblichini (anche se più d’uno di questi sta già pensando di cambiare casacca), teatro della continua guerriglia urbana dei partigiani,  Bologna è l’ombra di quella che fu. In questo ambiente e con questa atmosfera opprimente, entrambi resi benissimo dall’autore, troviamo il commissario De Luca, diventato vicecomandante della sezione politica, a cui viene affidato l’incarico, da parte di tre committenti diversi, di indagare su altrettanti omicidi. Ci sarebbe da mettersi le mani nei capelli, perché in un momento storico come quello sarebbe già tanto risolvere un caso di omicidio, ma tre, e peraltro non collegati fra loro, sembrano, e sono, qualcosa di eccezionale tale da ricordare le mitiche fatiche di Ercole. Tuttavia, De Luca – ci si chiede però perché faccia parte della famigerata “politica” senza essere un fanatico e un violento – ritrova il piacere per le investigazioni, per scoprire i colpevoli di atti criminali non legati a opposte fazioni; si rimbocca le maniche e, con la collaborazione di terzi e con un po’ di fortuna, giunge a risolvere i tre casi. Nel frattempo, però, qualcosa in lui è cambiato, perché se prima era indifferente alle violenze a cui erano sottoposti i partigiani arrestati, ora vede le cose diversamente e si vergogna di essere corresponsabile, non torturatore, ma certamente colpevole di aver contribuito ad alimentare questa catena di orrore. Passerà dall’altra parte? O più semplicemente lascerà tutto e tutti per sprofondare nell’anonimato? Non ci è dato di sapere, perché il suo capo, alla fine, gli anticipa che smobiliteranno gli “uffici” per andare al Nord. E’ una conclusione che sinceramente mi ha spiazzato, perché lascia aperte le possibilità che ho elencato e c’è da augurarsi che Lucarelli, nel prossimo romanzo con protagonista De Luca, dia una risposta.

L’inverno più nero è diverso dai soliti polizieschi per il periodo storico in cui svolge la trama e questo è un altro pregio di un’opera senz’altro meritevole di lettura. 

Carlo Lucarelli (Parma, 26 ottobre 1960) Affermato scrittore di letteratura gialla e noir, vive tra Mordano (Bo) e San Marino.
Il suo percorso narrativo va dai racconti brevi sparsi nelle varie antologie del Gruppo 13 (di cui fa parte) alla trilogia giallo-storica con il commissario De Luca pubblicata dalla Sellerio (Carta biancaL'estate torbida e Via delle Oche). Dopo Almost blue (1997), Il giorno del lupo (1998 e 2008), L'isola dell'Angelo caduto (1999, Finalista al Premio Bancarella 2000), Mistero in blu (1999 e 2008), Guernica (2000) e Lupo mannaro (2001), tra i suoi libri pubblicati da Einaudi Stile libero ci sono il romanzo Un giorno dopo l'altro (2000 e 2008) e i racconti di Il lato sinistro del cuore (2003); poi Misteri d'Italia (2002), Nuovi misteri d'Italia (2004), La mattanza (2004) e Piazza Fontana (2007), gli ultimi due con allegati i Dvd del ciclo televisivo "Blu notte".
Insieme a Eraldo Baldini e Giampiero Rigosi ha scritto Medical Thriller (2002), mentre suoi racconti sono inseriti nelle antologie Crimini (2005) e Crimini italiani (2008). Nel 2008, Einaudi ha pubblicato il suo romanzo, L'ottava vibrazione, e Storie di bande criminali, di mafie e di persone oneste.
Nel 2010 è uscito I veleni del crimine e Acqua in bocca (scritto a quattro mani con Andrea Camilleri). Nel 2013 è uscito Il sogno di volare (Einaudi Stile Libero). Nel 2018 è uscito il saggio Amok. Le stragi dell'odio, scirtto insieme a Massimo Picozzi, e Peccato mortale. Un'indagine del commissario De Luca (Einaudi).
L'opera di Lucarelli è tradotta in piú lingue (anche per la prestigiosa Série noir della Gallimard in Francia) ed è oggetto di versioni cinematografiche e televisive, tra cui la serie "L'ispettore Coliandro" e il ciclo dedicato al commissario De Luca. Da un suo racconto (La Tenda Nera in Nero Italiano, Mondadori) è stato tratto uno sceneggiato televisivo con Luca Barbareschi e dal suo romanzo Almost Blue Alex Infascelli ha tratto il film omonimo. Inoltre ha collaborato con Dario Argento per il suo ultimo film Nonhosonno.
Il suo libro Lupo Mannaro è diventato un film di Antonio Tibaldi con sceneggiatura sua e di Laura Paolucci. Sono pronte le sceneggiature e sono stati acquistati i diritti anche di diverse sue opere quali Laura di Rimini.
Conduce da alcuni anni in Tv "Mistero Blu", intitolata successivamente "Blu notte", la fortunata trasmissione dedicata a casi misteriosi e insoluti, o ad aspetti in ombra della storia italiana. Per questo programma ha ricevuto il Premio Flaiano nel 2006.
Membro della sezione italiana dell’AIEP (Associazion Internazional Escritor de Poliziaco, fondata a Cuba da Paco Ignatio Taibo II) è stato docente di scrittura creativa alla Scuola Holden di Alessandro Baricco a Torino e nel carcere "Due Palazzi" di Padova. Ha creato e curato la rivista telematica "Incubatoio 16".
Ha sceneggiato il radiodramma Radio "Bellablù" per RadioTre e condotto il programma Radio "DeeGiallo" per Radio Dee Jay. Tra le sue numerose altre attività: scrive sceneggiature di fumetti e soggetti per videoclip (anche per Vasco Rossi, con la regia di Roman Polansky), canta per diletto talvolta con il gruppo post-punk Progetto K. Per il teatro ricordiamo alcuni spettacoli tratti da sue opere o portati in palcoscenico da lui stesso: "Pasolini", "Guernica", "Tenco a tempo di tango".
È uscita nel 2014 una raccolta di racconti gialli dal titolo Giochi criminali dove il suo testo A Girl Like You appare accanto a quelli di De Giovanni, De Silva e De Cataldo. Nel 2017 in Intrigo italiano ritorna sulla scena il Commissario De Luca, protagonista della fortunata trilogia pubblicata da Sellerio nei primi anni '90. Nel 2020 esce per Einaudi L' inverno più nero. Un'indagine del commissario De Luca.
Renzo Montagnoli

 

4 Ottobre

Patria

di Fernando Aramburu

Guanda Editore

Narrativa

 

Le tragedie della guerra civile

In Spagna, nei Paesi Baschi, vivono, fra l’altro, due famiglie, nelle quali il capofamiglia dell’una muore assassinato in un attentato dell’ETA, nelle cui file milita un membro dell’altra. Peraltro, i due nuclei erano molto amici, circostanza che rende ancora più stridente l’evento delittuoso, una tragedia nella tragedia, perché nulla sarà più come prima. Aramburu, nel parlarci dei membri di queste famiglie, riesce a ricreare l’atmosfera di un paese in cui i “nemici” possono risiedere nella stessa casa, magari avere addirittura il pianerottolo in comune, e questo è il dramma di ogni guerra civile, forse la più “incivile” fra tutte le guerre. Inoltre l’autore ci riporta le sensazioni, le opinioni di ognuno di questi familiari, quasi un’inchiesta, che però è un romanzo e del romanzo ha le caratteristiche di opera che scorre veloce, ma che permette anche al lettore di riflettere. Così facciamo conoscenza con Txato, la vittima, con la moglie Bittori, con i figli Xavier e Nerea; per l’altra famiglia ci sono le storie vissute da Joxian con la moglie Miren, con il primogenito, membro dell’ETA, Joxe Mari, e gli altri due figli Arantxa e Gorka. Di ognuno prendiamo così una conoscenza diretta, riusciamo a comprendere torti e ragioni, poco a poco si ritrae l’impressione di averli sempre conosciuti, si arriva a illudersi che potrebbero essere nostri vicini di casa. Ma su tutto domina la sofferenza, la sofferenza dei familiari per la perdita del padre, il dolore dell’altra famiglia per la perdita di un amico e per un’amicizia che non sarà più tale. Aggiungo che questa sensazione di entrare a far parte della storia porta dapprima a una nostra attrazione, poi all’immaginazione di vivere anche a noi nel paesino della vicenda, Euskadi. Sono d’accordo che è un’illusione, ma la capacità di attrarre il lettore è proprio quella di coinvolgerlo, di essere almeno un testimone inerte, se non addirittura partecipe della storia. Aramburu raggiunge questo raro pregio mescolando abilmente i periodi temporali, come se anche noi, nel corso della narrazione, avessimo memoria degli eventi passati, come se le radici degli altri fossero anche le nostre.

Patria è questo e proprio per questo è un capolavoro.

Fernando Aramburu, nato a San Sebastián nel 1959, ha studiato Filologia ispanica all’Università di Saragozza e negli anni Novanta si è trasferito in Germania per insegnare spagnolo. Dal 2009 ha abbandonato la docenza per dedicarsi alla scrittura e alle collaborazioni giornalistiche. Ha pubblicato romanzi e raccolte di racconti, che sono stati tradotti in diverse lingue e hanno ottenuto numerosi riconoscimenti. Patria (Guanda, 2017), uscito in Spagna nel settembre 2016, ha avuto un successo eccezionale e un vastissimo consenso, conquistando – fra gli altri – il Premio de la Crítica 2017. In Italia ha pubblicato Vita di un pidocchio chiamato Mattia (Salani, 2008), I pesci dell'amarezza (La Nuova Frontiera, 2007), Il trombettista dell'utopia (La Nuova Frontiera, 2005), Anni lenti (Guanda, 2018) e Mariluz e le sue strane avventure (Guanda, 2019).
Renzo Montagnoli


 

30 Settembre

Monte Casale
L'ultimo combattimento.

di Carlo Benfatti

Editoriale Sometti

Storia

 

Battaglia sulle colline moreniche del Garda

Credo che sia necessaria una precisazione: il 25 aprile, anniversario della Liberazione, riferito appunto al 25 aprile 1945, non è il giorno in cui in Italia sono cessati i combattimenti, bensì è quello in cui il Comitato di Liberazione Nazionale Alta Italia ha proclamato l’insurrezione generale in tutti i territori ancora occupati dai nazifascisti. Nei giorni immediatamente successivi è avvenuta così la liberazione di vaste zone, per esempio il 28 aprile quella di Venezia, ma si sono avute ancora alcune battaglie e fra le ultime quella del  30 aprile in provincia di Mantova, nei pressi di Ponti sul Mincio, quando sul Monte Casale, una collina morenica, fu stanata una colonna di SS, di soldati tedeschi e di militi della Repubblica Sociale Italiana, che si era rifugiata lì con l’intento poi di spingersi più a nord per raggiungere la Germania, non senza aver lasciato prima dietro di sé una scia di sangue.

Di questo fatto d’armi si parla in Monte Casale, l’ultimo combattimento, opera dello storico mantovano Carlo Benfatti. Che si sia trattato dell’ultimo combattimento non è probabilmente esatto, visto lo scontro che si ebbe il 2 maggio 1945 in val Sabbia in provincia di Brescia, come riportato peraltro dall’autore stesso, ma resta il fatto che le forze germaniche in Italia firmarono la resa il 29 aprile e che questa divenne effettiva il 2 maggio. Quindi gli scontri successivi alla data del 29 aprile si dovettero quasi esclusivamente a una resistenza ottusa degli irriducibili, soprattutto le famigerate SS.

Il combattimento di Monte Casale si inserisce in questi episodi di fanatismo, atteso che il comandante delle forze naziste arroccatesi sulla collina era un giovane ufficiale delle SS che non esitava a passare per le armi chi voleva arrendersi; catturato gravemente ferito, morì mentre era trasportato in ospedale.

Il resoconto di quanto avvenne è reso dall’autore in modo encomiabile, con uno stile documentaristico che impreziosisce l’opera, arricchita dalla narrazione di avvenimenti antecedenti  la battaglia in argomento, e cioè le fasi della ritirata tedesca nella provincia di Mantova, portando notizie documentate che spiegano come si svolsero tanti fatti di sangue per la efferata crudeltà di un esercito ormai sconfitto e disperato.

A parte la precisa citazione delle fonti bibliografiche, assumono particolare valore le testimonianze di chi allora era presente e partecipò al combattimento, voci che senza retorica descrivono quel che accadde.

Sono dell’opinione che leggere questo libro sia, oltre che istruttivo, un atto di riconoscenza ai partigiani e agli arditi del gruppo di combattimento “Legnano” del Corpo Italiano di Liberazione che parteciparono all’azione e che contarono nelle loro file ben 8 caduti, a cui sono da aggiungere un militare americano e un abitante del luogo.

Con ogni probabilità furono fra le ultime vittime di una guerra sanguinosa e insensata che travolse l’Italia e da cui è nata una nazione libera e democratica.

Carlo Benfatti (Poggio Rusco, 15 marzo 1939) è uno storico, scrittore e giornalista, autore di libri che hanno per oggetto fatti ed eventi della provincia mantovana.
Renzo Montagnoli

 

26 Settembre

Sei giorni di preavviso

di Giorgio Scerbanenco

Edizioni La nave di Teseo

Narrativa


Primo contatto con Giorgio Scerbanenco

Mi sono finalmente deciso a conoscere la scrittura di Giorgio Scerbanenco e per farlo ho pensato di procedere per gradi, iniziando dal suo primo romanzo giallo, Sei giorni di preavviso, che ha dato alla luce nel 1940. In quell’occasione compare per la prima volta un curioso investigatore, Arthur Jelling, un archivista della polizia con un’autentica passione per quegli aspetti secondari dei delitti, i cosiddetti dettagli, che appaiono stridenti, in poche parole che non tornano secondo logica.

La vicenda si svolge all’estero, a Boston negli Stati Uniti, e non potrebbe essere altrimenti, perché nel regime fascista c’è un’avversione per la letteratura poliziesca che viene tollerata solo per trame in cui i reati siano commessi preferibilmente da stranieri, perché, come noto, erano taciuti i fatti di cronaca nera al fine  di  dimostrare che con il regime tutto era in ordine, tanto da poter dormire con la porta aperta.

In un crescendo ossessivo, simile al Bolero di Ravel, all’attore fallito Philip Vaton arrivano biglietti giornalieri in cui lo si preavvisa della sua prossima morte, fissata per il 12 novembre di mattina. E’ inutile che vada oltre perché rischio non poco, e cioè di togliere l’indispensabile suspense, elemento imprescindibile e qualificante di qualsiasi romanzo giallo. E’ invece opportuno rilevare l’eccellente stile dell’autore, capace di dare al personaggio di Jelling una statura qualitativa di assoluta eccellenza, in contrasto con il carattere sottomesso dello stesso. Si tratta di un uomo che arriva alla soluzione per deduzione, in possesso di una logica ferrea e incontrovertibile, capace di rivoltare l’animo come un guanto, ma non privo di umanità e quindi dotato di una naturale simpatia, quel che si potrebbe definire, senza voler fare paragoni, ma al solo scopo di descriverlo meglio, una via di mezzo fra l’Hercule Poirot di Agatha Christie e il Jules Maigret di Georges Simenon. E’ un investigatore che insegue la perfezione senza essere perfetto, che si pone teorie di cui cerca le prove e che è anche capace di ricredersi, insomma un uomo, non un superuomo, e per questo apprezzato, oltre che dai superiori, anche dai lettori.

E’ superfluo dire che arriverà alla soluzione del caso, per niente campata in aria, e ciò dopo una lettura avvincente, che è poi il segreto del successo di ogni libro.

Il mio primo contatto con Giorgio Scerbanenco è stato quindi positivo e sono più che certo che leggerò altri suoi romanzi.

Giorgio Scerbanenco,  scrittore italiano di origine russa. Di madre italiana e padre ucraino, a sedici anni si stabilì a Milano. Fu collaboratore, redattore e direttore di periodici femminili ad alta tiratura, per i quali scrisse racconti e romanzi «rosa», per lo più ambientati nell’America degli anni Quaranta. Più tardi approdò al genere poliziesco e fu il successo, prima con Venere privata (1966), poi con Traditori di tutti (1966). Altrettanto fortunate le opere successive, da I ragazzi del massacro (1968) a I milanesi ammazzano al sabato (1969), ai racconti postumi di Milano calibro 9 (1969) e Il centodelitti (1970). Protagonista di quasi tutta la serie è Duca Lamberti, accorto investigatore della Milano «nera». Prodigioso narratore di storie e maestro nel catturare l’attenzione del lettore, Scerbanenco fu uno dei primi, in Italia, a confrontarsi con i gusti di un pubblico di massa. La sua scrittura, insieme ingenua e ricercata, antiletteraria, piena di sprezzature, veloce, è singolarmente efficace. Nel 2018 esce Luna di miele per La Nave di Teseo.
Renzo Montagnoli

 

22 Settembre

La storia

di Elsa Morante

Edizioni Einaudi

Narrativa

 

La storia da parte di chi l’ha subita

Nella saggistica storica si parla quasi sempre dei protagonisti e degli eventi che gli stessi hanno determinato e così gli attori sono politici, uomini di stato, alti gradi militari, industriali e banchieri, insomma chi, a vario titolo, viene definito il padrone del vapore.  Ci sono però anche quelli che subiscono questi eventi, comparse senza volto a cui nei saggi si fa sporadicamente riferimento, proprio di una massa indistinta che sempre rimarrà tale, anche quando il fatto si è concluso ed è calato il sipario sul teatro della vita. E’ a questi sconosciuti che Elsa Morante ha dedicato La storia, un romanzo di straordinaria bellezza, di una notevole profondità a dispetto di una semplicità di esposizione che, senza tralasciare nulla, dice esemplarmente tutto. Non c’è retorica, né ci sono eroi, e questo è un altro pregio dell’opera, atteso che dato il periodo in cui si svolge la trama (dal 1941 al 1947) e quindi per la quasi totalità durante la seconda guerra mondiale, sarebbe stato facile, ma non intelligente, abbondare di retorica e di atti di valore.

La storia narra di Ida Ramundo, una vedova con un figlio adolescente di nome Ninnuzzu e un altro, frutto di una violenza subita per opera di un tedesco ubriaco, di nome Giuseppe, ma chiamato poi da tutti Useppe. La vita è quella della povera gente, ancor più misera per il periodo bellico, con Ida, maestra elementare, che si arrangia come può per mandare avanti la sua famiglia. Più male che bene si riesce a campare, nell’incubo dei pericoli della guerra e con il non infondato timore di Ida di subire delle conseguenze per l’essere in parte ebrea. Poi il bombardamento sul quartiere romano di San Lorenzo distrugge la casa in cui Ida e i suoi familiari abitano, così che è gioco forza adattarsi a un alloggio comune. Si tratta di esseri umani che non sono protagonisti della storia, ma che la subiscono ogni giorno, anche con le inquietudini che caratterizzano il dopo guerra, e senza dimenticare che, ricchi o poveri, ci si può ammalare, ma che per i poveri non ci sono l’assistenza e le medicine riservate ai ricchi.

La trama, tutto sommato, potrebbe sembrare poca cosa, ma è l’abilità di chi scrive, la sua capacità di ricreare ambienti, atmosfere e di suscitare emozioni che nobilitano le pagine, che fanno di una storia la storia di tutti, di tutti quelli che patiscono le decisioni di chi conta, loro che sono numericamente assai più numerosi, ma che non hanno nessuna voce in capitolo, loro che comunque vada a finire la storia in cui sono semplici comparse non avranno né prebende, né vantaggi, ma, solo nella migliore delle ipotesi, una sofferenza minore di quella che di solito patiscono.

Ci sono pagine che mi hanno commosso, mi hanno inumidito gli occhi, perché una donna mite come Ida avrà tanto ancora da subire, come la morte del primo figlio, che scompare in circostanze drammatiche, e le condizioni di salute di Useppe, nato sottopeso, minato da una malattia poco conosciuta clinicamente all’epoca (l’epilessia) che lo isola dagli altri bimbi, ma non gli toglie quel desiderio di afferrare una vita che giorno dopo giorno gli sfugge di mano. La povera donna darà i primi segni di cedimento della sua mente con la morte di Ninnuzzu, per poi avere il colpo di grazia con la scomparsa di Useppe, a cui sopravviverà per alcuni anni, ma ormai vinta, un povero essere che tanto ha combattuto per i suoi figli e che senza di essi non è più nulla, è svuotata del tutto, senza più volontà, solo un cuore che batte sempre più piano.

La storia è  un romanzo stupendo, uno di quelli che restano per sempre nel cuore di chi legge.

Elsa Morante è stata una scrittrice, saggista, poetessa e traduttrice. Figlia di una maestra, Elsa Morante non frequentò la scuola elementare e imparò da sola a leggere e scrivere. Iniziò giovanissima a scrivere filastrocche, favole per bambini, poesie e racconti brevi, e a pubblicare su svariati giornaletti per ragazzi. Nel 1942 i suoi scritti per ragazzi vennero raccolti in un volume da lei stessa illustrato e pubblicati da Einaudi con il titolo Le bellissime avventure di Caterì dalla trecciolina (poi riscritto nel 1959 con il titolo Le straordinarie avventure di Caterina). Tra il 1935 e il 1940 scrive eleganti cronache di costume per riviste culturali. Da quell’esercizio giornalistico nacque il primo volume di racconti, Il gioco segreto, che uscì nel 1941. Ma l’opera che l’ha imposta all’attenzione della critica è Menzogna e sortilegio (1948, premio Viareggio), la cui vicenda (la decadenza di una famiglia gentilizia del sud, attraverso la ricostruzione allucinata che ne fa una giovane donna sempre rinchiusa nella sua stanza) precisa la vocazione favolosa e magica della Morante nei suoi termini di angosciosa separazione dalla realtà.

E, in forme più turbate e assillanti, il tema della solitudine, nutrita di miti ambigui e funesti, torna nel romanzo L’isola di Arturo (1957), storia della difficile maturazione di un ragazzo che vive come segregato nel paesaggio immobile dell’isola di Procida, all’ombra del grande penitenziario.
Dopo la raccolta di versi Alibi (1958) e i racconti dello Scialle andaluso (raccolti in volume nel 1963), il libro che ha segnato una svolta nella poetica della scrittrice è Il mondo salvato dai ragazzini (1968).

Articolato in testi dalla forma prevalentemente poematica (con strutture strofiche che ricordano gli esperimenti della neoavanguardia), in realtà esso accosta organismi letterari di segno diverso, dal dramma alla satira, dal «manifesto» al documento ideologico; ma l’elemento unificante di tanta disparità espressiva è una sorta di tensione vitalistica che libera i fantasmi della sofferenza claustrale nel credo quasi gioioso dell’anarchismo e del pauperismo, nella fiducia accordata ai «ragazzetti celesti», ingenui portatori dell’unica possibile felicità, quella dell’innocenza astorica e divinamente barbarica.
Tale visione utopica è anche alla base del più discusso romanzo della Morante: quel vasto affresco intitolato La storia (1974) che racconta l’odissea bellica dell’Italia e del mondo (1941-47) riflessa nell’umile microcosmo d’una famigliola romana, composta da una donna spaurita e immatura, da un ragazzotto, da un bambino e da un paio di cani. Accusato di ripristinare anacronisticamente messaggi poetico-consolatori, il romanzo esplicita invece uno «scandaloso» rifiuto della storia, opponendo problematicamente il mondo «fanciullo» e «povero» a un mondo fittizio, generatore di morte e di scempi. Un’ulteriore prova di forte intensità è il romanzo Aracœli (1982), dove l’autrice disegna il ritratto dolente di un personaggio «diverso», disperatamente proteso a ricostruire – attraverso un viaggio che non è solo della memoria – l’amata figura materna, perduta e irraggiungibile. Anche in quest’opera, ma con tratti più angosciati e sconvolti, la prosa della Morante conferma il carattere fondamentale del suo fascino sottile: un equilibrio miracoloso tra il candore magico-evocativo (una sorta di attitudine naturale al simbolo) e la sinuosa, febbrile capacità di penetrazione psicologica.
Renzo Montagnoli

 

18 Settembre

La banda degli uomini

di Flavio Villani

Neri Pozza Editore

Narrativa 

Il grigiore di una metropoli sotto la dittatura

E tre! Si perché questo è il terzo romanzo di Flavio Villani che ho avuto il piacere di leggere e a differenza degli altri, di genere giallo, con protagonista  il commissario Cavallo, La banda degli uomini è un noir, anche se c’è un’indagine investigativa, se pur a livello familiare. Accenno brevemente alla trama, costituita in buona sostanza da due storie che finiscono con l’incontrarsi: la ricerca, da parte dei figli, dei colpevoli dell’assassinio del padre e il furto, su commissione, di un quadro di grande valore. Si comincia con la descrizione di una Milano operaia di anteguerra (l’anno è il 1938) con un ex sindacalista che fa lo stradino, ma è dedito al bere in un modo esagerato, alcool che non assumerà più nella speranza di sopravvivere a una tubercolosi diagnosticata; e quasi ci riesce, ma una sera torna casa alla sua famiglia gravemente ferito, lui dice di essere caduto, di non chiamare il medico, ma quando questo arriva con notevole ritardo per la necessità che ha avuto di assistere un malato grave, il povero Carlin – così si chiama l’ex alcolizzato – è già morto. Poiché l’autopsia svelerà che è stato vittima di un pestaggio, i figli si mettono in cerca del colpevole, certi che la polizia non intraprenderà indagini per la morte di un poveraccio. L’ambientazione, l’atmosfera di una città oppressa dalla dittatura fascista è sicuramente apprezzabile e richiama alla memoria certe pellicole fotografiche noir di produzione francese. La vicenda del furto del quadro, che vede come protagonista un fascista della prima ora emarginato dal partito per aver alzato le mani su un superiore, è più convenzionale, ma acquista originalità nel momento in cui questa trama incrocia quella dei figli che vogliono vendicare il padre. I personaggi anche in questo caso, tranne per le figure dei capoccioni, sono di basso livello, uomini con poco cervello e solo forza bruta, insomma la manovalanza di un partito dittatoriale. Con l’incontro delle due trame le vicende si fondono ed è un bene perché i colpi di scena si susseguono, con quello finale del tutto inaspettato che francamente mi ha sorpreso, perché una fine vera e propria non c’è; infatti,  l’ultimo evento è l’omicidio di uno dei protagonisti durante la festa di Carnevale, mentre il resto è lasciato all’intuito del lettore, come il destino dei ragazzi, cioè dei figli di Carlin, unitisi con altri giovani emarginati a formare così una banda, e altrettanto sconosciuta è l’esito dell’indagine per la morte di Carlin stesso. Questa peculiarità mi ha lasciato perplesso, al punto che mi è anche sorto il dubbio che Villani voglia dare un seguito a questo romanzo, che ho apprezzato soprattutto per i paesaggi metropolitani di case decrepite fronteggiate da palazzi signorili, per il grigiore diffuso e il senso di oppressione che solo una dittatura può diffondere.

Comunque, la vicenda, al di là della strana conclusione, è senz’altro piacevole da leggere e finisce con l’avvincere, desiderosi di arrivare a una fine che, senza essere deludente, ha invece il pregio di un’opera eccellente, anche se  incompiuta.

Flavio Villani è nato a Milano nel 1962. Neurologo, ha lavorato negli Stati Uniti come ricercatore nel settore della neurofisiologia. Come scrittore ha esordito con L’ordine di Babele (Laurana, 2013), seguito dal poliziesco Il nome del padre (Neri Pozza, 2017), con protagonista il vice ispettore Cavallo. Nel 2018 Villani ha pubblicato un secondo romanzo giallo, dal titolo Nel peggiore dei modi (Neri Pozza).
Renzo Montagnoli
 

 

12 Settembre

Irradiazioni.

Diario 1941 – 1945

di Ernst Jünger

Guanda Editore

Narrativa 

 

Il guerriero nelle retrovie

Nel corso della Grande Guerra, a cui partecipò da volontario,  Ernst Junger venne ferito ben 14 volte e venne decorato nel 1917 con la Croce di Ferro di prima classe e addirittura con la più alta onorificenza bellica tedesca nel 1918, l’ordine Pour le Mérite. Da quell’esperienza trasse un libro, diventato famosissimo,  Nelle tempeste d’acciaio, un romanzo autobiografico degli anni del conflitto, lontano tuttavia anni luce da quel capolavoro che è Niente di nuovo sul fronte occidentale, di Erich Maria Remarque. Infatti, mentre in quest’ultimo c’è l’orrore per la guerra, nell’opera di Junger c’è invece il compiacimento non solo per primeggiare in battaglia, ma anche nel realizzare il sogno, in verità delirante, dell’uomo cacciatore. Sarebbe tuttavia incompleto un giudizio su Junger basandosi su un solo libro, perché ne ha scritti molti altri,  diventando inoltre anche un filosofo di chiara fama. E’ per questo motivo che ho voluto leggere questo diario di guerra (la seconda guerra mondiale) a cui partecipò con il grado di capitano, mai però impegnato in combattimenti, ma emblema del soldato tedesco per sua aureola di eroe.

Ebbene, gli anni a volte non trascorrono invano e Ernst Junger mi è parso cambiato, più dedito a osservare e riflettere che ad agire, meno interessato a misurarsi continuamente e con gioia con la morte; addirittura in lui compare un’umana pietà, come per esempio quando è costretto ad assistere alla fucilazione di un disertore, o quando fa delle amare riflessioni sulla guerra ormai perduta. Non è in sintonia con il capo indiscusso del nazismo, ma nemmeno si dissocia, vive così alla giornata, conosce la cerchia degli attentatori del Fuhrer del 20 luglio 1944, fra i quali il generale Speidel, ma non ha conseguenze, tranne quella di essere congedato dall’esercito, e questo perché la figura dell’eroe della Grande Guerra si mantiene inalterata nell’immaginario collettivo, ma soprattutto nella mente di Adolf Hitler.

Irradiazioni, che è poi il diario dal 1941 al 1945, è un’opera di notevole interesse, anche per le escursione in campo letterario, a cui l’autore si dedicava prevalentemente nella Francia occupata e in cui ebbe occasione, fra l’altro,  di conversare  con uno scrittore del calibro di Cocteau. Da uomo emblema era ovviamente a contatto anche con gli esponenti di regime, il che però non gli precluse la possibilità di essere in amichevoli rapporti con gli alti ufficiali dissidenti, insomma un osservatore attento e posso dire anche imparziale. Infatti, Junger rappresenta un punto di vista sostanzialmente obiettivo, di parte tedesca, di quel che fu l’avventura di una guerra iniziata assai bene e conclusa rovinosamente, sepolta dalle macerie di mezza Europa, da milioni di soldati e civili morti, ma soprattutto lordata dall’ignominia dell’Olocausto.

Da leggere, non c’è dubbio.

Ernst Jünger (Heidelberg 1895 - Riedlingen, Alta Svevia, 1998) scrittore tedesco. Volontario nel primo conflitto mondiale, idealizzò la guerra come prova di coraggio e presa di coscienza di ignote dimensioni psichiche, nel diario di guerra Tempeste d’acciaio (In Stahlgewittern, 1920), nei racconti di Fuoco e sangue (Feuer und Blut, 1925) e Ludi africani (Afrikanische Spiele, 1936), nei saggi La lotta come esperienza interiore (Der Kampf als inneres Erlebnis, 1922) e Il cuore avventuroso (Das abenteuerliche Herz, raccolti nel 1929). Nel saggio L’operaio (Der Arbeiter, 1932) polemizzò con il romanticismo politico e identificò nel lavoratore-soldato il rappresentante dell’epoca moderna, che ha distrutto in sé ogni individualità. J. fu nazista, ma già nel romanzo Sulle scogliere di marmo (Auf den Marmorklippen, 1939) si avverte il suo distacco dall’ideologia nazionalsocialista. Egli condannò quindi l’attacco alla Francia nel diario Giardini e strade (Gärten und Strassen, 1942), che fu proibito. Fra i suoi scritti successivi si ricordano il diario della seconda guerra mondiale Irradiazioni (Strahlungen, 1949), i romanzi allegorici Heliopolis (1949), Le api di vetro (Gläserne Bienen, 1957), e una serie di saggi, tra cui Cacce sottili (Subtile Jagden, 1967) e Numeri e Dei. Filemone e Bauci (Philemon und Baucis, 1973). La sua vasta produzione è continuata con il racconto Il problema di Aladino (Aladins Problem, 1983), il poliziesco Un incontro pericoloso (Eine gefährliche Begegnung 1985), l’autobiografico Due volte la cometa (Zwei Mal Halley, 1987, il cui titolo allude al fatto di aver visto due volte nella propria vita - 1910 e 1986 - la cometa di Halley) e con il volume Le forbici (Die Schere, 1990). La prosa di J., limpida sino alla freddezza, tende a trasfigurare la realtà in allegoria.
Renzo Montagnoli

 

30 Agosto

Sopra il senso delle cose

di Felice Serino

Libreria Editrice Urso

Poesia

 

Esperienza e creatività

Sopra il senso delle cose è un’altra silloge che si aggiunge alla già corposa produzione poetica di Felice Serino a cui di certo non mancano né l’esperienza né la creatività che con il passare degli anni si sono fatte più mature, pur restando la tipicità dell’autore di trasporre la realtà in una visione onirica, che ben si presta a essere espressa in versi, come nel caso di Sopra il senso delle cose, poesia che dà il titolo all’intera raccolta (  chi può conoscere / meglio della terra i morti / l'inverno col suo bianco manto / il silenzio copre e il loro cuore / oltre orizzonti di palpiti / vegliando aleggia / il mistero / sopra il respiro dei vivi / sopra il senso delle cose / come un sole freddo ).

Come sempre Serino tende a sublimare la parola, così che la stessa non è solo parte di un discorso, ma diventa autonomamente mezzo di espressione, frutto di una ricerca per nulla semplice, ma dai risultati di notevole effetto, e ciò nonostante predomini un certo ermetismo, peraltro di non difficile interpretazione ( di sguardi è il sogno o polvere / della nostra creazione noi polvere / del sogno noi sogno di Dio / tra intermittenze / di fòsfeni veleggia / l' "occhio" per inesplorati lidi ).

Ogni tanto il tema ripercorre il passato, sempre più presente mano a mano che aumenta l’età, ma non c’è rimpianto, se non la semplice constatazione che ogni epoca ha le sue caratteristiche e che la vecchiaia è fatta di ricordi che appaiono luminosi nella nebbia del tempo trascorso ( Mare d’erba - con l' avanzare degli anni / riduci sempre più il percorso / delle tue camminate / giungerà il momento / di affacciarti solo sull' uscio / o dalla finestra vedere l' immensa / distesa di verde e nello / stravedere la scambierai per quel mare / che ti vide nascere / -ti brilleranno gli occhi andando /  col pensiero alla fanciullezza gaia / ora quella luce è fuggita / lascerai / impregnato quel mare d'erba / di amori e pene ed eterei voli ).

Sarà per la mia non più verde età ma resta il fatto che sono in sintonia con quanto esprime Felice Serino e quindi il mio giudizio ampiamente positivo ne è influenzato; tuttavia, anche leggendo e analizzando asetticamente le poesie che compongono questa raccolta non si può fare a meno di rilevare le felici scelte espressive, lo svolgimento armonico delle tematiche e l’indubbio piacere che si ritrae, tutti elementi altamente qualificanti che se sono una caratteristica comune a tutta la produzione dell’autore non sono però scontate nel caso di altri poeti.

Aggiungo inoltre che la semplicità che caratterizza le composizioni è da sempre una meritoria caratteristica di Serino, il cui ermetismo, mi preme ribadirlo, è tale da non rendere problematica l’interpretazione dei suoi versi, a tutto vantaggio della gradevolezza che si accompagna alla lettura.

Felice Serino è nato a Pozzuoli nel 1941 e vive a Torino. Autodidatta.

Copiosa la sua produzione letteraria (raccolte di poesia: da “Il dio-boomerang” del 1978 a “Dalle stanze del cuore e della mente” del 2020); ha ottenuto importanti riconoscimenti e di lui si sono interessati autorevoli critici. E’ stato tradotto in nove lingue.

Intensa anche la sua attività redazionale. 

Gestisce vari blog e tre siti.
Renzo Montagnoli

 

25 Agosto

La repubblica dei brocchi.

Il declino della classe dirigente italiana

di Sergio Rizzo

Feltrinelli Editore

 

Non è un paese per gente capace

Nel nostro paese chi è capace viene emarginato, mentre l’incompetente fa carriera, caratteristiche che giustificano ampiamente il declino dell’Italia sotto ogni suo aspetto. E’ cosa risaputa, certamente, ma uno studio del problema e soprattutto dei motivi che l’originano appare indispensabile e a ciò ha provveduto Sergio Rizzo con questo libro di facile e illuminante lettura. Veniamo così a sapere che il degrado non riguarda solo la politica e i burocrati pubblici, ma anche i manager delle aziende private, circostanza questa particolarmente deleteria come dimostrato dai continui ridimensionamenti, in senso negativo, delle nostre industrie di grandi e piccole dimensioni. Purtroppo la situazione è destinata a peggiorare, perché l’impreparazione di chi è nei ruoli chiave è sempre più accentuata e ci distanzia ulteriormente dalla classe dirigente dei paesi più sviluppati. Non è una bestemmia dire che da noi sono i brocchi che comandano e in quanto tali vogliono mantenere le loro rendite di posizione, circondandosi di collaboratori ancor più incapaci di loro, onde evitare di essere soppiantati prima del tempo dagli stessi. Gli esempi eclatanti che Rizzo fornisce sono tanti e riguardano tutte le categorie, dai dirigenti dei ministeri ai giudici, dai liberi professionisti agli amministratori di aziende private, solo per citarne alcune. Nel leggere questo libro viene spontaneo chiedersi come l’Italia possa andare avanti ed è comprensibile, perché è come una candela che brucia e fa luce fino alla fine, quella fine a cui ormai siamo vicini. Con una burocrazia ottusa, ma che serve a conservare posizioni di privilegio, il paese è ingessato e chi volesse dare una svolta, creando nuova occupazione, incontrerebbe più ostacoli che favori; per dirla in breve da noi la meritocrazia non è certo di casa, il che spinge i giovani preparati e capaci a emigrare trovando lavoro e idonea retribuzione all’estero, visto che in Italia non sarebbero considerati e farebbero la fame. Questa fuga di cervelli ovviamente aggrava la situazione e aumenta ulteriormente la distanza fra noi e i paesi più evoluti. Evidentemente è un problema che non interessa a chi, brocco, ricopre tuttavia una posizione di responsabilità che alla luce delle sue effettive incapacità diventa di irresponsabilità.

Si tratta di vedere se è una caratteristica di tutti gli italiani usare la parola “meritocrazia” senza poi applicarla, o discenda da una classe politica del tutto inutile, quando addirittura non dannosa. Sta di fatto che ci sono dei corporativismi miranti solo a difendere la posizione raggiunta, chiusi, anzi ostili a ogni riforma, i cui privilegi sono irrinunciabili anche se il paese – ed è sotto gli occhi tutti – procede a gran velocità come il Titanic contro l’iceberg. Il bello della questione, però, è che i brocchi, pur consapevoli della situazione, non fanno nulla – ammesso che ne siano capaci – per mettere in atto una svolta destinata a risolvere i problemi che affiggono l’Italia e che ritengono eterni e insanabili.

Da leggere senz’altro, anche se le arrabbiature si susseguono, pagina dopo pagina.   

Sergio Rizzo, giornalista, ha lavorato in particolare per il "Corriere della Sera". Nel 2007 ha pubblicato La casta (scritto con  Gian Antonio Stella ed edito da Rizzoli), che con oltre 1.200.000 di copie vendute e ben 22 edizioni è stato uno dei libri di maggior successo del 2007. Del 2008 un altro titolo scritto con Stella: La deriva. Perché l'Italia rischia il naufragio (sempre edito da Rizzoli). Sempre per la casa editrice Rizzoli nel 2009 esce Rapaci. Il disastroso ritorno dello Stato nell'economia italiana, nel 2010 La cricca. Perché la Repubblica italiana è fondata sul conflitto di interessi, e nel 2011 torna a collaborare con Stella per Vandali. L'assalto alle bellezze d'Italia e, successivamente, per Licenziare i padreterni. L'Italia tradita dalla casta. Tra le pubblicazioni di Feltrinelli si ricordano i seguenti libri: Da qui all’eternità. L’Italia dei privilegi a vita (2014), Il facilitatore (2015), La repubblica dei brocchi (2016), Il pacco. Indagine sul grande imbroglio delle banche italiane (2018), 02.02.2020. La notte che uscimmo dall’euro (2018), La memoria del criceto. Storie da un paese che dimentica (2019) e Riprendiamoci lo stato (Feltrinelli, 2020).
Renzo Montagnoli

 

5 Agosto

QUEL GIORNO NON AVEVANO FIORI DI MARCO FLORIO (NULLA DIE)

Recensione di Vincenzo Patierno          

 

L’autore inizia il romanzo raccontandoci dell’attentato alla stazione di Bologna del 2 agosto 1980, giorno in cui la vita di ottantacinque persone fu spazzata via.

Intanto, un’altra vita veniva al mondo già orfana di padre, morto nello stesso ospedale dove la figlia stava nascendo, per la deflagrazione che quel giorno devastò la città bolognese.

Non ho vissuto gli anni di piombo e non avevo un’età per poterli ricordare nel pieno della loro drammaticità.
Forse, è anche il fatto che tendiamo a dimenticare in fretta il dolore che non appartiene al nostro “sangue”; alcuni, poi, ne restano del tutto indifferenti.

Questo romanzo, che mi ha coinvolto, ha fatto battere la lingua sul dente che duole, rinfrescando quelle domande che mi porto dentro da sempre.

Ci può essere politica e amministrazioni senza malaffare e senza mafia?

‒ vabbè che questo è un altro triste tema ‒  

Il malaffare potrebbe sopravvivere senza la partecipazione e la reggia della politica, dell’amministrazione e del “potere”: quanti tra queste file sono collusi?
L’Italia è uno dei paesi più corrotti e dove bivacca più il malaffare al mondo?

Quello che  mi fa prendere lo stomaco è l’inutilità, l’ipocrisia, il tanto per far bella figura, del dopo, quando assisti alle inutili sfilate del ministro di turno e così via, con le strette di mani, le pacche sulle spalle e le medaglie di latta, che hanno un sapore amaro per i cari delle vittime, nonché per la memoria dei caduti.

I “sopravvissuti”, a loro è dedicato il romanzo, sono condannati all’ergastolo del dolore: dalla lentezza della giustizia, dai depistaggi, dalle mezze verità, dalle condanne che non verranno mai applicate per latitanza dorata, dal perché non sempre si riesce a far luce sui fatti, né si individuano colpevoli o non si vogliono individuare, per non parlare dei mandanti.
Commemorazioni che poggiano su quale realtà? Mi chiedo.
Un sistema colluso e corrotto, nelle cui fila ci sono tutt’oggi i burattinai.

Pietà per innocenti di ogni età, sesso e religione che si sono trovati e che si trovavano in un luogo sbagliato, al momento sbagliato, in un giorno di ordinaria follia.

Federica, nata il 2 agosto, festeggia il suo compleanno il 2 settembre. Nel corso degli anni non ha mai risposte, dalla madre Alessandra e dalla nonna materna, su come fosse morto suo padre e sulla sua storia, fino al suo dodicesimo compleanno, quando scopre che in realtà è nata nel fatidico giorno di agosto.

Di molti episodi dell’infanzia, negli anni, avrebbe serbato lo stesso ricordo: la memoria di tante domande cadute nel vuoto, per un passato ingombrante che non bisognava interrogare.
Ma ormai crescendo, la storia della sua vita, per come le era stata e continuava ad esserle raccontata, non le stava più bene.

La ragazza un giorno si ritrova tra le mani un vecchio articolo di giornale che riporta del coinvolgimento di suo padre Giulio con il terrorismo e del suo arresto.
Allora inizia a puntare di più i piedi per avere quelle risposte che pensa le spettino di diritto.

Anche se le accuse a carico di suo padre Giulio decaddero, tutti erano diffidenti sulla sua estraneità.
Lui non provava neppure a convincere la moglie e il padre, che con quella storia non c’entrava niente. Fu tirato in mezzo perché si trovò a dover salvare la vita di un terrorista, fratello di Beatrice, la donna di cui si era invaghito senza essere corrisposto, se pur legato in matrimonio ad Alessandra, futura madre di sua figlia.

Sarà proprio Beatrice a riscattare la memoria di Giulio agli occhi di Federica, raccontandole i fatti.

È assurdo quanta gente sia morta in modo violento in Italia e continui a farlo, anche in tempo di pace…

Ad un tratto si ha la sensazione, insieme al racconto fatto da Federica della sua vita, che ci sia un volersi raccontare postumo di Giulio alla propria figlia. 

Ma lo scrittore, si sa, è un prestigiatore, sa cambiare le carte senza farci accorgere, più è bravo
e più ci fa credere che abbiamo intuito e quando siamo certi ci spiazza, ma solo quelli che davvero sanno maneggiare la penna, come Marco Florio, hanno tale abilità.

Vincenzo Patierno
Nato a Napoli, in quel del ‘66, iniziai a scrivere nell’adolescenza degli sketch che, nei campi scout, facevo rappresentare e rappresentavo, insieme a pensieri e poesie che iniziai a comporre dalla morte
di mia nonna. La scrittura e la poesia, che ho ripreso solo da qualche anno, sono il tramite che mi fa sentire libero e con cui mi esprimo meglio. Alcuni miei racconti e componimenti in versi sono pubblicati in varie antologie letterarie. Ho un romanzo chiuso in un cassetto. Nel 2014, ho pubblicato il mio libro di poesie “Abbraccio alla Vita”, Schena Editore.

 

31 Luglio

Sicilia esoterica

Alla scoperta dei miti e dei riti arcaici dell’isola del sole

di Marinella Fiume

Newton Compton Editori

Saggistica esoterismo

 

L’isola che è un mito

Sono sicuro che più d’uno, leggendo il titolo di questo libro, storcerà il naso, perché  il termine esoterismo identifica certe dottrine spirituali in larga parte segrete, magari estendendo con ribrezzo questo concetto al satanismo, che è tutt’altra cosa. Basterebbe che leggesse il sottotitolo di questo interessante libro e capirebbe di che si tratta in realtà.  In ogni parte del mondo esistono dei miti da scoprire e sono presenti dei riti antichissimi che si perpetuano non tanto come attrattiva turistica, ma perché chi li pratica è consapevole delle proprie radici. E’ ovvio che anche la Sicilia presenta queste caratteristiche, anzi di miti e di riti ne ha  tantissimi, frutto delle diverse dominazioni che si sono avvicendate, ognuna collaborando a questo patrimonio collettivo. Perché l’Etna è anche chiamato Mongibello? Basta leggere questo libro e scopriremo l’origine di questo nome e delle numerose leggende che caratterizzano questo vero e proprio signore del fuoco. Vado a memoria e cito solo quelli di cui ho il ricordo, come il culto di Sant’Agata, oppure la biblica manna, che nell’isola è coltivata, senza dimenticare i non infrequenti terremoti e maremoti e il mito di Colapesce. Sono sovente tradizioni nate in epoche remote e che resistono ancor oggi perché fanno parte del patrimonio culturale di ogni siciliano, un patrimonio che incuriosisce il lettore e lo sprona ad andare avanti con le pagine alla ricerca di ulteriori notizie, in un crescendo d’interesse. Ci sono anche poi delle note dolenti, come nel caso del carcere dello Steri a Palermo, dove fra il 1500 e il 1782 il Sant’Uffizio torturò, mandando poi spesso anche a morte, centinaia di esseri umani accusati con leggerezza di eresia. Particolarmente interessante poi è anche il fenomeno dei santi neri, neri di pelle s’intende, oppure un personaggio a suo modi unico che risponde al nome di Giuseppe Migneco, ma anche chiamato, non a torto, Cagliostro il Piccolo. In queste pagine si mescolano, sovente accavallandosi, sacro e profano, a testimonianza che antichi riti pagani sono stati, solo in parte, sostituiti da quelli cristiani. Non potevano poi mancare l’occultismo, opportunamente distinto dall’esoterismo,  il magnetismo animale e il sonnambulismo, elementi che introducono al più vasto discorso della psichiatria.

C’è anche un po’ di spazio, poco in verità, per Satana con l’ora dei demoni, quella in cui è più facile assaltare l’anima umana, sottraendola a Dio e possedendola. Ora, per alcuni si tratta del mezzogiorno, per altri della mezzanotte, insomma non c’è unanimità di vedute, come spesso capita al punto che la stessa fenomenologia è diversa fra località a volte distanti solo pochi chilometri. Io ho cominciato la lettura con l’intenzione di far passare un po’ di tempo, ma poi – devo ammetterlo – pagina dopo pagina mi sono dapprima incuriosito, poi mi sono veramente appassionato, tanti e spesso originali sono i miti e riti presenti in quest’isola che già di per sé è un vero e proprio mito.

Pertanto, appare ovvio come Sicilia esoterica non sia solo un passatempo, ma anche un testo capace di concretizzare un accrescimento culturale e in tal senso non posso che caldeggiarne la lettura.        

Marinella Fiume, nata a Noto (Sr), laureata in Lettere classiche, è dottore di ricerca in Lingua e letteratura italiana. È stata sindaca del Comune di Fiumefreddo di Sicilia (Ct) e socia fondatrice e presidente dell’Associazione fiumefreddese antiracket e antiusura “Carlo Alberto Dalla Chiesa”. Già responsabile della Commissione Arte e cultura della Fidapa e presidente del Soroptimist “Val di Noto”. Ha pubblicato saggi, biografie, racconti, romanzi, sceneggiature, canzoni; nella rivista Notabilis cura la rubrica fissa “Donne che ballano coi lupi”. Ha ricevuto diversi premi per il suo impegno sociale e la sua produzione letteraria, tra gli altri, il Premio “Franca Pieroni Bortolotti” della Società delle Storiche e del Comune di Firenze (2000).

Tra le sue opere: Feudo del mare La stagione delle donne (2010); Di madre in figlia – Vita di una guaritrice di campagna (2014); La bolgia delle eretiche (2017); Ammagatrìci (2019); Le ciociare di Capizzi (2020).
Renzo Montagnoli
 

 

22 Luglio

Tutto il tempo sul petto
Poesie (2006-2021)

di Carla De Angelis

Prefazione di Stefano Martello

copertina di  Giacomo Ramberti

Fara Editore

Poesia
 

L’opera omnia (fino ad adesso)

Tutto il tempo sul petto
è il titolo di una raccolta che comprende tutte le poesie scritte da Carla De Angelis nel periodo che fa dal 2006 fino al corrente anno; vi rientrano quindi anche quelle già pubblicate, quasi esclusivamente con l’editore Fara di Rimini e che a suo tempo ho recensito positivamente, tranne che Salutami il mare, che ho avuto l’occasione di leggere solo ora (Salutami il mare, A dieci minuti da UranoIl giorni e le strade, Mi fido del mare, Fra le dita una favilla sembra sole). Tuttavia, sono presenti anche le ultime che costituiscono una novità, riunite in una silloge a cui l’autore ha attribuito come nome Tutto il tempo sul petto, che dà il titolo all’intera pubblicazione.  Salutami il mare costituisce la prima pubblicazione, che risale al 2006. Per quanto possa essere considerata, a torto, acqua passata, ha lasciato il segno, con quello stile particolare che è proprio di Carla De Angelis e che verrà via via affinato nel tempo.  Si tratta di versi incisivi, quasi secchi, pochi e assai esplicativi (Ho chiesto al sole / Fatti vedere / Questa settimana / Sorridi come il suo sorriso / Usa la tua sapienza / Anima i corpi / A nostalgiche esperienze / Proiettale al futuro). Da notare come l’essenzialità non vada a scapito della facilità di comprensione, che non viene mai meno.

Per quanto invece concerne l’ultima silloge (Tutto il tempo sul petto) verrebbe da dire che non ho trovato qualcosa di nuovo, perché il percorso poetico di Carla De Angelis si snoda su una strada che parte dall’osservazione del mondo all’intorno per partecipare ciò che si riflette nel suo animo. Certo, l’esperienza aiuta e troviamo dei continui affinamenti, sempre permanendo tuttavia una sorta di preambolo, uno svolgimento e una conclusione (Ciascuno un ingranaggio del sistema / così funziona / lo sguardo coglie e accoglie / i saluti i sorrisi il buongiorno / L’ho chiesto al cielo /mi rapisce il mistero). E’ uno schema che può apparire logico, ma che da un po’ di tempo è poco adottato, determinando così delle poesie che spesso sono sospese, e non infrequentemente come troncate, e quindi rendendo estremamente difficoltosa l’interpretazione. Non è così per il poetare di Carla De Angelis, che si affida alla chiarezza, senza provocare equivoci, ma suscitando, verso dopo verso, l’interesse del lettore (Non conosco l’ora giusta / aspetto l’alba e appena giorno / mi metto in cammino / cerco l’orizzonte / in tasca molti passi / e un cesto di parole in mano / L’occorrente per il viaggio / sperando che non sia vano).

Si può senz’altro dire che questo volume, con le sue 240 pagine e la prefazione di qualità di Stefano Martello, rappresenta per l’autore, ma anche per il lettore un compendio di una produzione poetica di un ampio spazio temporale, costituendo un punto fermo di ciò che si è scritto, i risultati di anni di creatività, organicamente raccolti. La raccomandazione è che sia la base per una prosecuzione dell’estro poetico e che  all’opera, di cui alla presente, seguano altre sillogi per quei versi – e in proposito sono pressoché sicuro – che usciranno dalla penna di Carla De Angelis, versi come al solito incisivi e in grado di infondere quella serenità che ogni volta il mio giudizio ha riscontrato.

Potrei aggiungere dell’altro, ma sono dell’opinione che non ci sia nulla di meglio che leggere questo libro, una vera e propria opera omnia che Carla ha voluto predisporre per i suoi affezionati lettori, ma che rappresenta anche l’occasione per chi non dovesse conoscere questo autore di entrare nel suo mondo fatto di luce riflessa e di sogni pescati nell’azzurro del mare o nel verde del bosco, in una natura che nel tempo si va perdendo, ma che immutata é rinchiusa nel petto di questa brava poetessa.

Carla De Angelis è nata e vive a Roma. Suoi testi sono presenti in riviste e opere collettanee edite da Perrone, Estroverso, David & Matthaus, Limina Mentis, Delta3, Pagine, Aletti, Fara. Nel 1995 il Presidente della Repubblica le ha conferito l’onorificenza di Cavaliere. Con Fara ha pubblicato in poesia: Salutami il mare (2006), A dieci minuti da Urano (2010), I giorni e le strade (2014). Nel 2011 esce Mi vestirei di mare (Progetto Cultura). Ha ideato e cocurato le antologie Corviale cerca poeti per la Biblioteca “Renato Nicolini” di Roma e, con Stefano Martello, i saggi Diversità apparenti (2007), Il resto (parziale) della storia (2008), Il valore dello scarto (2016). Nel 2017 ha pubblicato con Fara la pluripremiata raccolta Mi fido del mare e nel 2019 Fra le dita una favilla sembra sole, votata al Faraexcelsior. È inserita ne Le ali della terra. Altre poetesse fuori dal coro (a cura di Marco Onofrio, EdiLet 2021).
Renzo Montagnoli
 

 

16 Luglio

Il rogo della Repubblica

di Andrea Molesini

Sellerio Editore Palermo

Narrativa romanzo storico


Potere e giustizia

Accusati di aver rapito e ucciso un bimbo per impastare con il suo sangue le focacce pasquali, l’archisinagogo Servadio e altri due ebrei cedono alla tortura ammettendo di aver compiuto ciò che in effetti non hanno fatto. E proprio per questo, per l’ammissione di una colpa inesistente solo per evitare i tormenti, i tre fanno ricorso e il processo, conclusosi

in primo grado nel luogo dove avrebbero commesso il reato, prosegue davanti al Senato di Venezia. In questa vicenda si inserisce Boris da Candia, un avventuriero anche umanista di cui si serve la Serenissima per eliminare uomini a lei ostili, oppure per spiare. E qui mi fermo, perché non intendo assolutamente svelare come procederà questo bellissimo romanzo e tanto meno la fine dello stesso. 

Andrea Molesini precisa, prima dell’elenco delle numerose fonti, che il fatto di cui si narra è realmente accaduto; tuttavia molti personaggi, soprattutto Boris da Candia, sono esclusivo frutto di immaginazione. Se la vicenda di per sé è di notevole interesse, il pregio dell’opera va cercato ben oltre; certo non mancherà di appassionare la trasformazione di Boris da uomo di inganno e omicidio a essere consapevole dei suoi errori, impregnandosi di quella umanità che non gli è mai stata propria, in un lungo e anche faticoso cammino di vera redenzione. Ciò che però Il rogo della Repubblica è in grado di offrire come rilevante valore è l’onnipresente conflitto fra potere e giustizia e questo non solo allora, ma anche oggi, anzi in qualsiasi epoca. Le conversazioni di Boris da Candia con il carcerato archisinagogo Servadio, quella illuminante con Giacobbe Barbato che ritraendo la sua confessione fa cadere le assurde accuse contro gli altri incriminati e che per questo, affinché la sua decisione non possa essere formalizzata deve essere eliminato, sono un continuo riaffermare la violenza sulla giustizia di chi ha il potere, al punto che il sicario Boris, che pure non ha provveduto a uccidere come avrebbe dovuto, assistendo invece al suicidio volontario della sua vittima, afferma in un bordello “Questa notte un uomo mi ha ucciso con la sua bontà”. Se il potere non è mai giusto perché fa prevalere, a costo anche di condannare degli innocenti, la ragion di stato sulla verità, è altrettanto vero che la giustizia non può trionfare senza un suo effettivo potere. Eppure, l’ingiustizia tende a prevalere, perché chi l’amministra sono uomini, con tutti i loro difetti, il che fa dire a Boris “Sugli scranni dei giudici non siede nessuna autorità, ma solo un potere.”.

E’ un’amara, ma veritiera constatazione, di cui abbiano continue prove, tanto che la giustizia, quella asettica, rappresenta una chimera, un desiderio che quando sembra concretizzarsi sfugge di mano.

Scritto con grande cura, caratterizzato da un’ambientazione ricreata in modo impeccabile, con il tema dell’ostilità nei confronti dei diversi che sfocia nel grande tema della incompatibilità fra potere e giustizia, Il rogo della Repubblica è un gran bel romanzo storico e conferma le eccellenti capacità dell’ autore già riscontrate sempre nella produzione precedente.

Quindi si tratta di un’opera assolutamente meritevole di essere letta.

Andrea Molesini, scrittore, è nato e vive a Venezia. Ha curato e tradotto opere di poeti americani: Ezra Pound, Charles Simic, Derek Walcott. Ha scritto anche storie per ragazzi tradotte in varie lingue.

"Sono nato e cresciuto in un luogo d’acqua. L’acqua verde buia dei canali, che sa di cicoria bollita, di detersivo e di fogna. L’acqua della laguna aperta, che in estate prende il colore dell’erica delle barene e sa di pesce e di uccelli lenti come le darsene coi pescherecci. Le acque del Sile e del Brenta che per un poco si mantengono dolci prima di cedere alla salinità che il mare impone alla laguna. Acque differenti, le une ostili alle altre, che si mescolano e contendono lo spazio secondo tempi e modi che sfidano le leggi della fisica per sconfinare nel sortilegio.

E sopra l’acqua la pietra. La pietra di una città fitta di case e di osterie, di comignoli e di gatti, di uccelli e di vento e di nebbia e di scorci di bellezza toccante e di raffiche maleolenti. C’è anche la pietra delle isole, ridotte dall’abbandono a tane di falchi e gabbiani, di serpi, di contrabbandieri e di ratti più lunghi di un avambraccio.

Poi ci sono gli ubriachi. La mia infanzia è piena di ubriachi che vagano e tentano gli orli delle fondamenta e non cadono mai in acqua. Venezia sembra un film di Chaplin dove qualcuno con gli occhi bendati pattina sull’orlo del precipizio ma per quella comica fortuna che protegge gli innocenti il vuoto li rifiuta e finché non lo vedono non vi precipitano. Nessuno, a Venezia, si è mai annegato. Ecco la mia prima bugia. In verità è successo, è successo a un barbone che si chiamava Dante (sic!), che la sera si spogliava ubriaco e che dopo decenni di quest’abitudine, che popolazione e polizia ignoravano tra le risate, finì coi polmoni pieni d’acqua fetida in un canale. Ma Dante non fa storia, è sparito dalla memoria collettiva, anzi, credo sia più giusto dire che non ci è mai entrato. Perché Venezia è un luogo senza memoria.

Sono nato e cresciuto in un luogo scolpito nella lentezza, fatto di spazi ridottissimi, calli strette, case che si toccano, turisti che intasano i sottoporteghi, barche che nei canali a stento sfilano le une accanto alle altre senza toccarsi. Scolpito nella lentezza, dicevo, perché fuori, sulle paludi ferme e immense che circondano la pietra abitata c’è un altrove senza echi percorso da uomini lenti che vogano alla valesana. C’era, dovrei dire, perché oggi vedo più barchini rombanti che altro. E questa è una catastrofe, perché Venezia è una città di suoni, non di rumori. Si sentono i gatti miagolare e si sentono i tacchi a spillo sui masegni. Il rumore dei motori è relegato ai canali, una maglia di vie ancora abbastanza silenziose e percorse dalla lentezza (le barche, anche quelle a motore, grazie a dio non hanno i freni)."
Renzo Montagnoli

 

 

12 Luglio

Semi nudi

di Franca Canapini

Prefazione di Fernanda Caprilli

puntoacapo Editrice

Poesia
 

Il mondo siamo noi

Dopo un periodo dedicato alla prosa, con un racconto di memoria di eccellente qualità (Dal fondo – I miei primi dieci anni) Franca Canapini è ritornata al primo e immutato amore per la poesia con Semi nudi, una raccolta dal titolo indubbiamente efficace, ma che può dar luogo a diverse interpretazioni, anche antitetiche (comunque, leggendo, è possibile comprendere il motivo di questo titolo; infatti, questi versi spiegano l’arcano: …./ Ma nella settima, infine / sono seme nudo – fluisce l’acqua / dalla sorgente dell’intimità /…. - da Il palazzo della matrioska.).

Nel leggere queste liriche, alcune da me già conosciute, noto con piacere che Franca ripercorre temi a lei cari e che pure a me sono veramente graditi; mi riferisco a una vocazione per un ritorno alla natura, in uno con un dialogo più approfondito con il proprio IO, una via, probabilmente l’unica, per porre rimedio a un mondo caoitico che ogni giorno di più ci sfugge di mano. Non è un caso quindi se in premessa sono riportati pochi, ma significativi versi tratti dal De rerum natura, di Tito Lucrezio Caro). E come se non bastasse una delle prime poesie è L’aratore (Nei secoli dei secoli / seme da seme / corpo da corpo / venire al mondo / solo / per arare / a testa bassa / la Terra /….), una figura non fine a se stessa, ma una metafora del viaggio dell’uomo su questa terra; se non mancano versi dedicati al passato, a figure ormai eteree, che si confondono con i sogni, diventando esse stesse miti, latente, a volte più presente, c’è un esoterismo di fondo con un richiamo a una vita più a misura d’uomo. In fondo, mi pare di scorgere in queste poesie, non intrise di malinconia, un rimpianto costante per ciò che è stato e che mai più sarà. Eppure Franca Canapini è un essere umano positivo, una persona che non si lascia trascinare dall’angoscia dei suoi pensieri, ma che li espone in una sorta di riflessione, utile per lei e anche per chi legge. In fondo è piacevole entrare poco a poco nei suoi versi, centellinare le parole, vedere un mondo diverso in cui realtà e sogno si confondono mirabilmente, perché tutto si può chiedere al mondo, senza magari nulla ottenere, ma di certo siamo noi il mondo e a noi spetta il compito di plasmarlo, ove possibile, di adeguarlo alla nostra dimensione, al nostro senso della vita (Sera di primavera -    In una sera così  / di mezza luna e qualche stella / d’alberi tutti in fiore tra le luci / nell’aria che s’intenera / non si dorme e non si veglia / cullati dalle ninne degli uccelli / quietamente si trasogna /  In una sera così /  ci facciamo aria /  erba fiore / nulla). Se pure a gruppi, i temi non sembrano uguali, ma emerge comunque evidente il pensiero di Franca Canapini, senza tanti trinceramenti, anzi esposto in modo chiaro e convincente, quel modo di vedere, quell’impronta da dare alla vita partita dalla raccolta Stagioni sovrapposte e confuse (Montedit, 2012) e riproposto via via in tutte le sue pubblicazioni, ivi comprese quelle in prosa, soprattutto in Dal fondo – I miei primi dieci anni ( Youcanprint, 2019), che oltre a essere una sua particolare caratteristica, è autentico piacere di lettura per chi desidera fuggire, almento spiritualmente, dal dilagante materialismo di un mondo che è vittima e carnefice di se stesso.

Franca Canapini, nata a Chianciano Terme (SI), risiede ad Arezzo dal 1975. È stata docente di Lettere nella Scuola Media. Ha pubblicato: Stagioni sovrapposte e confuse, Montedit 2010; Tra i solstizi, Aletti 2011; Il senso del sempre, Helicon 2013; Viaggio nella poesia, Helicon 2014; Gente in cammino, Montedit 2014; La bellezza tragica del mondo, ivi 2016). Ha all’attivo un romanzo (Un giorno, la vita, Pegasus 2017), una raccolta di favole (Favolette per grandi e per piccini, Helicon 2017), un romanzo breve (Melina – Una storia surreale, Giovane Holden 2019) e un racconto di memorie (Dal fondo – I miei primi dieci anni, Youcanprint 2019). Fa parte del Direttivo dell’Associazione degli Scrittori Aretini “Tagete” ed è membro di giuria di alcuni premi letterari. Suoi lavori si trovano in diverse antologie di poesia e in alcuni siti e blog letterari.
Renzo Montagnoli

 

6 Luglio

Le tigri di Mompracem

di Emilio Salgari

Giunti Editore

Narrativa 

 

Sulle ali della fantasia

Fra tante letture, facili, per nulla impegnative, da farsi o sotto l’ombrellone in spiaggia o su una panchina in un bosco, non poteva mancare anche quella di un romanzo di Emilio Salgari, autore prolifico, ma anche sfortunato, che non potè mai diventare famoso come Alexandre Dumas e Jules Verne, pur non essendo come qualità inferiore a entrambi, soprattutto al primo. Per uno che non si era praticamente mai mosso da casa deve essere stato notevole l’impegno a costruire con la fantasia storie che si svolgono in paesi di cui poteva sapere solo il nome e che aveva trovato sull’atlante. Al riguardo, mi sembra di vedere Salgari che passa le mani sul mappamondo e, arrivato alla Malesia, si ferma e sembra assorbire dai polpastrelli delle dita atmosfere e paesaggi di quel territorio a lui sconosciuto. E’ così che nascono trame e personaggi, alcuni mitici, come il grande Sandokan o la sua donna, la Perla di Labuan, alias di Lady Marianna Guillonk, senza dimenticare il fedelissimo Yanez de Gomera.  Sandokan è un pirata, ma lo è diventato perché inglesi e olandesi hanno sterminato la sua nobile famiglia e ora vive solo per la vendetta, aiutato da un numero crescente di fedelissimi, i tigrotti, desiderosi di sottrarsi al dominio della Compagnia delle Indie. I duelli, gli scontri, i tradimenti, le passioni anche violente sostengono una trama di per sé esile, ma che l’autore riesce a rendere attraente, a patto che anche il lettore non sia troppo smaliziato e in questo senso bambini e ragazzi sono l’ideale. Tuttavia, anche gli adulti non si sottraggono al fascino di terre lontane e di avventure mirabolanti, soprattutto con le trasposizioni cinematografiche e televisive; al riguardo ricordo con piacere lo sceneggiato Sandokan del 1976, interpretato da un attore indiano fascinoso e anche bravo (Kabir Bedi), mentre nella parte del cattivo c’era il nostro Adolfo Celi, il tutto per la regia di Sergio Sollima.

Come adulto sorvolo su alcune ingenuità presenti nella scrittura, anche perché tengo conto del fatto che l’autore mai ebbe occasione di visitare i posti oggetto della narrazione, un uomo che si esaurì a scrivere giorno e notte per cercare di sanare notevoli problemi economici che lo assillavano e che derivavano dalle condizione di salute di alcuni suoi familiari. Salgari volò tanto con la fantasia e, lasciatemelo dire, è in grado di far volare anche noi.

Emilio Salgari, narratore italiano. Nonostante il successo ottenuto dai suoi libri, fu afflitto da angustie economiche e morì suicida.
Narratore di grande energia, suggestionato dagli esempi di Verne, Sue e Dumas padre, scrisse un’ottantina di romanzi e circa 150 racconti destinati ai ragazzi e continuamente ristampati ad altissime tirature.
Fra i titoli più noti (anche per le trasposizioni cinematografiche e televisive) I misteri della jungla nera (1895), i romanzi del ciclo dei corsari (Il Corsaro Nero, 1899; Jolanda, la figlia del Corsaro Nero, 1905) e soprattutto quelli del ciclo dei pirati (I pirati della Malesia, 1896; Le tigri di Mompracem, 1901; Sandokan alla riscossa, 1907).
Ignorato a lungo dalla critica, guardato con diffidenza dalla pedagogia, Salgari fu tuttavia un rinnovatore della letteratura italiana per ragazzi.
Il suo stile è approssimativo e i sentimenti su cui fa leva sono quasi sempre elementari: l’onore, l’amicizia, la vendetta, la protezione dei deboli ecc. Ma a riscattare le carenze formali e le ingenuità psicologiche interviene un’immaginazione fervidissima, capace d’inventare personaggi dall’eroismo esaltante, intrecci ricchi di azione e di suspense, ambienti e atmosfere dal forte colorito esotico.

Fonte: 
Enciclopedia della Letteratura, Garzanti 2007
Renzo Montagnoli

 

13 Giugno

Viaggio al centro della terra

di Jules Verne

Feltrinelli Editore

Narrativa

Viva la fantasia!

Jules Verne e H. G. Wells posso giustamente essere considerati i fondatori del genere fantascientifico. Particolarmente prolifico è stato il primo, con una varietà di opere e di trame indubbiamente notevole, ma se Ventimila leghe sotto i mari e Dalla Terra alla Luna stupiscono per aver previsto con largo anticipo i notevoli successi in campo scientifico del genere umano, c’è un altro romanzo che costituisce un esempio di fantasia ben difficilmente concretizzabile in realtà ed è Viaggio al centro della terra. Perchè sia irrealizzabile è abbastanza evidente, viste le pressioni e le temperature che impedirebbero qualsiasi tentativo di giungere al nucleo terrestre, senza dimenticare che il progetto non rivestirebbe interesse economico.

In Viaggio al centro della terra si narra di un percorso sotterraneo effettuato da uno scienziato tedesco e dai suoi collboratori, un viaggio in un mondo che Verne lascia intuire che un tempo fosse invece in superficie. 

Adesso può far sorridere la descrizione di questo territorio inesplorato, soprattutto alla luce delle nostre conoscenze maturate, ma all’epoca in cui il romanzo uscì rappresentò un motivo di interesse notevole che giustificò ampiamente il grande volume di vendite.

La fantasia di Verne ha dell’incredibile con un mondo sotterraneo dve c’è un vasto lago con funghi giganteschi e ci sono animali preistorici. Dato che lo scrittore francese ha sempre cercato di dare uno spunto scientifico alle sue opere è giusto ricordare che questo percorso viene fatto iniziare calandosi nel cratere di un vulcano, l’islandese Sneffels, e riemergendo poi nel corso di un’eruzione dello Stromboli (è evidente che sarebbe l’itinerario più logico, anche se occorre chiudere gli occhi sulle inevitabili nefaste conseguenze di una simile partenza, per non dire poi dell’incredibile arrivo). Il romanzo ancor oggi tuttavia rappresenta una buona lettura di evasione, tanto è vero che dallo stesso sono state tratte diverse pellicole cinematografiche. 

Jules Verne, scrittore francese (Nantes 1828 - Amiens 1905). Figlio primogenito di un avvocato, a lui spettava di proseguire la professione del padre. Ma fin da ragazzo rifiutava gli studi e si aggirava per la città e le banchine del porto, avido di racconti marinari e avventurosi. Il fratello Paul, più fortunato, potè seguire la sua vocazione e arruolarsi in marina per poi viaggiare, come aveva sempre sognato insieme a Jules. Questi invece, dopo una breve avventura - quando dodicenne riuscì a imbarcarsi su un mercantile diretto in America, venendo subito scovato, redarguito e rispedito a casa – venne mandato a Parigi per seguire gli studi di giurisprudenza. Ma il ragazzo non si applicava e questa negligenza incrinò presto i rapporti con il padre, che gli tolse la rendita mensile che gli serviva a sopravvivere: egli prese a trascorrere le sue giornate in biblioteca, per riscaldarsi e per poter leggere romanzi d'avventura e di viaggi. Aveva infatti promesso, dopo quella bravata sul mercantile, che non avrebbe più viaggiato, se non con l'immaginazione. Fu durante una di quelle lunghe giornate che, per puro caso, si imbattè in A. Dumas. L'aneddoto racconta che il giovane cadde addosso allo scrittore scivolando come un monello dalla ringhiera di una scala. Dumas lo prese in simpatia e lo introdusse nell'ambiente letterario. Nonostante l'innata attrazione per la letteratura scientifica e i diari di viaggi e d'avventura, V. cominciò a scrivere sceneggiature teatrali, commedie e libelli. Con l'aiuto di Dumas riuscì a vendere qualche lavoro e ottenne il posto di segretario al Théàtre Lyrique (1850). Scrisse anche libretti di "opera comique" con scarso successo. Nel 1856 sposò una ricca vedova, Honorine Anne Hebe-Morel, che risolse finalmente il problema della sua sussistenza economica. Nel frattempo concluse gli studi voluti dal padre e divenne agente di cambio. Il lavoro però non lo interessava affatto, mentre continuava ad alimentare la passione per la lettura. Frequentando i circoli scientifici conobbe Felix Tournachon, con il quale progettò dettagliatamente un viaggio in pallone. Fortunatamente non riuscì a salire su quel pallone, mentre il suo amico precipitò malamente dopo un breve volo. Da allora cominciò a scrivere il diario di bordo di quell'ipotetico viaggio. Il lavoro venne rifiutato da tutti gli editori a cui lo presentò, finché non lo propose a Jules Hezel, editore per ragazzi. Cinque settimane in pallone (Cinq semaines en ballon) venne pubblicato nel 1863 ottenendo una buona accoglienza e V. firmò un contratto per due romanzi all'anno; da allora ne scrisse 60, con straordinario successo. Non perse mai la passione per il teatro e si occupò della versione teatrale di alcuni tra i suoi romanzi più famosi. Si ritirò ad Amiens, dove divenne consigliere municipale e fu attivissimo cittadino. La celebrità gli procurò anche dei nemici: nel 1886 un pazzo gli sparò davanti al cancello di casa ferendolo a una gamba e rendendolo zoppo. Lo scrittore non si verdette d'animo e continuò a lavorare fin oltre i settant'anni.

* L'Enciclopedia della Letteratura (DeAgostini)
Renzo Montagnoli

 

7 Giugno

I giorni più belli

di Giancalo Melosi

Newton Compton Editori

Narrativa

 

Desiderio di libertà

Nella Roma del XVI secolo vive e lavora come cerusico Michael De Segni, un giovane ebreo che con la famiglia abita, obbligatoriamente, nel serraglio, dove ogni sera vengono chiusi i cancelli e nessuno può più entrare né uscire fino alla mattina del giorno dopo.

La sua è un’esistenza in cui è presente, e lancinante, la consapevolezza di non essere uguale ai cristiani, di non poter avere le loro stesse libertà, e con il timore che, da un momento all’altro, vengano inasprite le regole a cui i giudei sono sottoposti. Michael non è un coraggioso, ma nemmeno un pavido e per lui, e soprattutto per la sua famiglia, è disposto a fare qualsiasi cosa per respirare aria di libertà. La sua vita è una continua avventura, rischiando perfino di essere condannato a morte per un delitto che non ha commesso, uscendo dalla pericolosa situazione per il cosiddetto rotto della cuffia. E’ un uomo onesto, stimato anche da cristiani che sanno distinguere le qualità indipendentemente dalla razza e dal credo religioso, tanto che lo aiutano, nei momenti particolare difficoltà, come in occasione del famoso, e famigerato, sacco di Roma. Con il trascorrere degli anni il racconto inizia ad assumere il sapore di una saga familiare, in cui sempre presenti, e sicuro punto di riferimento, sono Michael e la moglie Ruth; così assistiamo alla morte per peste dell’unica figlia Ariel e di suo marito, che lasciano i loro due bambini, il maschio Nathan e la femmina  Devora. Ma se la seconda si dimostrerà una nipote su cui fare sicuro affidamento, il primo, irretito dalle prediche di alcuni gesuiti rinnegherà la sua religione, diventando a sua volta gesuita e arrivando al punto di perseguire i familiari onde ottenere la loro conversione. E per fortuna che Michael, Ruth e Devora, in cerca di quella libertà che avvertono come un diritto inalienabile, fuggono da Roma, per rifugiarsi a Pitigliano, ai confini del papato, e da lì riparare a Livorno, oltre questi confini, e quindi al sicuro, in una terra in cui non esistono differenze per razza o religione.

Al di là della vicenda, caratterizzata da numerosi eventi, mi sembra che l’intenzione dell’autore sia stata quella di rivendicare per gli ebrei una condizione di equaglianza con gli altri, dimostrando al riguardo un particolare odio per la chiesa cattolica che, imputandoli per la condanna a morte del Cristo, li perseguitava con acredine e anche violenza. La scrittura è fluente, così che la lettura risulta facile e scorrevole, con una apprezzabile capacità di ricreare un’epoca e un’ambientazione, senza dimenticare che i personaggi storici e gli eventi di maggior rilievo sono veramente tutti accaduti, come appunto il sacco di Roma, descritto in modo appassionante, una serie di immagini che avvincono e danno risalto all’opera stessa.

Sinceramente è una delle poche volte che un libro va oltre le mie aspettative e questo è sicuramente un pregio, al punto tale che mi auguro che l’autore voglia provvedere a un seguito, visto che il romanzo finisce con l’arrivo della famiglia Di Segni in quella sorta di terra promessa che è la città di Livorno. 
Giancarlo Melosi é nato nel 1951, vive tra l’isola d’Elba e l’entroterra toscano. Ha iniziato la sua vita professionale con un breve periodo come insegnante, poi per più di trent’anni ha lavorato come dirigente alla Regione Toscana, occupandosi di sanità, ambiente, programmi comunitari e turismo. I giorni più belli è il suo primo romanzo.
Renzo Montagnoli

 

1 Giugno

Il paese del vento

di Grazia Deledda

Edizioni Il Maestrale

Narrativa
 

Un sentimento sopito

Mai e poi mai mi sarei aspettato dall’autore di Canne al vento e di Elias Portolu un romanzo come questo, al di fuori della sua tradizionale produzione letteraria che lo vede parlare della sua terra natia ponendo in evidenza passioni e tradizioni nel solco del verismo, a cui si accompagna anche una vena decadente. E invece Il paese del vento, parziale autobiografia, rivela una Grazia Deledda capace di scrivere di intimità con una raffinatezza e delicatezza che riscontriamo solo in certi grandi autori di lingua inglese.  

In pratica, nel viaggio di nozze che la porta con il marito in un ameno luogo di villeggiatura che si presume sardo anche se imprecisato, lei ritrova in un villeggiante malato di tubercolosi all’ultimo stadio, ospite in una villetta vicina, un giovane, figlio di un notaio in rapporti con la sua famiglia, ospitato anni prima in casa sua e con il quale era nato un sodalizio spirituale che a definirlo amore è un’esagerazione, ma che si era concretizzato in una infatuazione che in lei, giovinetta acerba, era apparsa cosa grandiosa, ma che poi altro non era che una pudica attrazione. Poi il giovane se n’era andato per studiare medicina a Monaco di Baviera e di lui non si erano avute più notizie, salvo ora ritrovarlo morente. Ancora c’è un fuocherello sotto le brace ed è logico attendersi un incontro chiarificatore fra la sposina e l’amico ritrovato, con il marito, giustamente geloso, che ha subdorato qualcosa. Ma il miracolo di anni prima, la scintilla che era scoccata non si ripete, con lui avido di quella vita che sta perdendo, e non d’amore. L’incontro, burrascoso, vedrà fugata ogni possibilità di riprendere un filo interrotto, a maggior ragione per la morte di lui che avverrà da lì a poco.

Non si può parlare di passione, ma di sentimento, quale quello che può aver provato una giovincella e di cui è rimasta una labile traccia per tanti anni, ora ritrovata; combattuta fra il non voler tradire il legittimo consorte e il desiderio di sapere se quello che credeva amore lo fosse per davvero, in una natura dominata dal vento che a giorni soffia impetuoso, Grazia esperimenta su di sé tutti i dubbi e le incertezze della situazione, e lo fa con una eleganza e una misura a dir poco encomiabili. Quasi a voler stemperare il dramma intimo che l’assale si sofferma di tanto in tanto a osservare la natura, descrivendocela con un realismo magico di colori e di profumi che sembrano emergere dalle pagine.

Del resto, in questo romanzo scritto alla fine della sua vita quando il marito era già defunto, Grazia ci lascia un testamento in cui sembra voler dirci che le esperienze della vita devono essere messe a frutto, che le sensazioni devono essere verificate, che i sentimenti possono durare dall’alba al tramonto, oppure per decenni.

Credo che Il paese del vento sia il più bel romanzo scritto da Grazia Deledda.   

Grazia Deledda, premio Nobel per la letteratura, studiò da autodidatta ed esordi come giornalista su riviste di moda. Incrociando influssi veristi e dannunziani, scrisse romanzi e racconti dalla vena etica in cui è descritta la dura vita quotidiana dei compaesani sardi (Canne al ventoElias PortoluMarianna Sirca).
Renzo Montagnoli

 

 

26 Maggio

Il mercato delle idee

Endecasillabi narranti

di Francesco Belluomini

Prefazione di Vincenzo Guarracino

Postfazione di Federico Migliorati

Di Felice Edizioni

Poesia 

 

Un messaggio senza tempo

In tutta sincerità il mio incontro con la poesia di Francesco Belluomini è stato del tutto fortuito, allorchè lo scorso anno, in piena iniziale pandemia del Covid, Alessandro Canzian, titolare  della Casa Editrice Samuele, onde lenire gli effetti claustrofobici degli italiani forzatamente rinchiusi in casa ha messo a disposizione gratuita la quasi totalità dei volumi da lui pubblicati e scaricabili senza limiti a proprio piacimento. Fra questi mi hanno colpito tre raccolte poetiche, una delle quali, Ultima vela, era uscita postuma nel 2018, un anno dopo la scomparsa dell’autore. Non sto a spiegare il motivo per il quale questa silloge tematica mi ha colpito da subito, perché, per brevità, è possibile leggere qui la mia recensione scritta nella circostanza, e anche perché mi sembra giusto mi debba occupare di questo poema in endecasillabi, uscito pure lui postumo, il che mi fa pensare che Francesco Belluomini abbia scritto tanto da non riuscire a pubblicare tutto in vita.

Qualsiasi poeta traspone in versi le sue esperienze, arrivando assai sovente a scrivere sprazzi di una autobiografia e Francesco Belluomini è un poeta che sa parlare di sé, parlando della vita, oppure viceversa, come qualcuno non di certo sbagliando potrebbe pensare. Sarebbe stato indubbiamente bello poter porre qualche domanda all’autore, soprattutto in ordine agli scopi prefissati per la sua produzione, ma purtroppo non è possibile; in verità la lettura delle sue opere, in particolare di questa, ci svela la risposta al quesito che non abbiamo potuto porre.

In ogni uomo è presente  un intimo, a volte inconsapevole, desiderio di lasciare una traccia di sé, un fil rouge nella speranza così di sconfiggere la morte, di ritagliarsi un posto nell’eternità e così, per esempio, Belluomini intende rendere partecipe chi legge delle esperienze maturate nella vita dell’uomo di mare, durante le ore di navigazione, nel corso dei tanti approdi e nei contatti con  gli svariati popoli conosciuti; il tutto è ovviamente proposto in versi, ognuno di canoniche undici sillabe, una notevole capacità che però non va a discapito dei contenuti, tanto che le tematiche più varie afferenti la nostra contemporaneità vengono esposte alla luce di un filtro intimistico che propone, dispone, enuncia i risultati di osservazioni e di riflessioni non di rado permeate di una sana, per quanto appena percettibile, ironia.

Risulta così un poema per nulla epico, e del resto cosa ci può essere di epico nell’epoca attuale, se non – e non è un’astrazione e nemmeno una forzatura – lo sguardo disincantato di un uomo che ha trovato una ragione superiore per vivere con la poesia. Non so se ci sono altre raccolte nel cassetto che attendono la pubblicazione, ma questa è a mio parere il commiato ideale, il saluto denso di significati di un uomo che ha chiuso il corso della sua esistenza proiettando il suo pensiero oltre i confini del presente, e così rendendolo immortale.

Francesco Belluomini (Viareggio 1941 – Camaiore 2017) inizia la sua attività poetica nel 1975 e nel 1977 entra nella cinquina dei libri finalisti del Premio Viareggio con la sua opera prima L’altro io (ed. Campobasso). La sua vena poetica lo porta a dare alle stampe altri libri, risultando una delle penne più incisive nel panorama letterario del secondo Novecento italiano. Nel 1981 è ideatore e fondatore del prestigioso Premio Letterario Canaiore. Nel suo viaggio letterario ha ricevuto molti riconoscimenti nazionali e internazionali.Alcune sue opere sono state tradotte in diverse lingue.
Renzo Montagnoli

 

 

20 Maggio

Congo

di David Van Reybrouck

Feltrinelli Editore

Storia

 

Un paese grande, non un grande paese

Un brodo giallastro, ocra, ruggine. Ti trovi ancora a centinaia di miglia dalla costa, ma già lo sai: qui comincia la terra. Il fiume Congo si getta nell’Oceano Atlantico con una forza tale da cambiare il colore dell’acqua per centinaia di chilometri.”

Già l’incipit di questo libro riesce a dare un’idea delle dimensioni di questo grande stato, vale a dire l’ex Congo belga, che ora si chiama Repubblica Democratica del Congo esteso per 2.344.858 km quadrati (all’incirca otto volte l’Italia) e con una popolazione di circa 17 milioni di abitanti. Del resto il fiume stesso, cioè il Congo, ha una lunghezza di ben 4.300 km., con un bacino idrografico che è superato solo da quello del Rio delle Amazzoni. Quindi si tratta di un paese molto grande, con una bassa densità di popolazione, immense foreste, miniere di diamanti, rame, uranio e cobalto, per lo più concentrate nella provincia del Katanga, il che dovrebbe far pensare a uno stato ricco, con un Pil pro capite particolarmente elevato, e invece non è così. Anzi, vi regna la miseria, vi dilaga la corruzione, la mortalità infantile è particolarmente elevata. Perchè? Il perché ce lo spiega David Van Reybrouck con questo libro corposo (sono più di 600 pagine), ma ben strutturato e completo quanto ad analisi della storia di questo stato e della della sua evoluzione dopo aver raggiunto l’indipendenza il 30 giugno 1960, troppo presto perchè potesse reggersi in modo equilibrato da sé, con una classe dirigente impreparata sotto l’aspetto politico e quello amministrativo. Quindi, l’iter di decolonizzazione non si può dire certamente ben riuscito, con questa fretta di rendersi autonomi, anche perché il Belgio temeva che potesse nascere una guerra di indipendenza come quella che incendiava l’Algeria; un po’ questa decisione affrettata, un po’ la frenesia degli emergenti capi congolesi, sta di fatto che il lavoro di emancipazione non fu completato, determinando tutta una serie di conseguenze, quali colpi di stato, guerre, purghe etniche, dittature mascherate da democrazie, pessima o addirittura inesistente amministrazione che hanno portato un paese potenzialmente ricco a essere invece misero. Le Nazioni Unite dovettero intervenire più volte, ma non risolsero il problema di fondo dell’impreparazione culturale al concetto di libertà e democrazia di chi aspira ai posti di comando.

L’autore ha la straordinaria capacità di narrarci la storia del Congo dalle sue origini, quando era un Regno che poi divenne proprietà del re del Belgio Leopoldo II, che non esitò a sfruttare in modo impietoso la popolazione, come se anche questa fosse una sua proprietà personale; decise poi di conferire questo suo territorio privato nelle colonie belghe nel 1908 quando si accorse delle notevoli difficoltà di gestire questa entità troppo grande. Il libro è in grado di farci conoscere passo dopo passo la storia del paese, e lo fa in un modo che posso definire avvincente, del tutto inusuale cioè per un saggio storico, notoriamente greve. Quindi, ne consiglio la lettura perché è più che mai utile capire come un paese che avrebbe tutte le carte per essere ricco sia invece povero e come il rimedio sia ben lungi dal venire, perché uno spirito libero e democratico non si crea mai di colpo, ma ha bisogno di tempi che possono essere più o meno lunghi.

David Van Reybrouck é uno dei più importanti intellettuali in Belgio, è ricercatore, giornalista, poeta. Ha scritto numerosi libri, ma è con Congo (Feltrinelli, 2014) che ha ottenuto rinomanza internazionale. È presidente del Pen Club belga. Nel 2011 ha lanciato in Belgio il progetto G1000, una piattaforma di innovazione democratica per aumentare la partecipazione dei cittadini al processo politico. A questi temi ha dedicato il saggio Contro le elezioniPerché votare non è più democratico (Feltrinelli 2015).
Renzo Montagnoli

 

14 Maggio

Potenza e Bellezza

Cronache da Roma e da Parigi (1796-1819)

di Elido Fazi

Fazi Editore

Narrativa
 

...il naufragar m'è dolce in questo mare.

“Ahi serva Italia, di dolore ostello”, inizia con questa invettiva un verso del VI canto del Purgatorio nella Divina Commedia; quando Dante Alighieri scrisse la sua famosa opera era a cavallo fra il XIII e il XIV secolo e la decadenza dell’Italia, divisa in tanti staterelli, era sotto gli occhi di tutti. Anche sul finire del XVIII secolo la situazione non era cambiata, tanto che di queste divisioni approfittò Napoleone Bonaparte per mettere i suoi artigli sul Bel Paese, promettendo agli italiani una libertà e fraternità che erano intrise dei colori della bandiera francese. Il romanzo storico di Elido Fazi da un lato si occupa dell’ascesa e poi della caduta dell’astro napoleonico, divorato dalla sua stessa sete di potenza, e dall’altro, in parallelo, delle arti, del vivere civile in pace in sintonia e in armonia con se stessi e con la natura, attraverso le storie  di Costantino che non ci sta a essere soffocato dal potere francese e del conte Monaldo, pavido, e dedito soprattutto alle letture. Entrambi hanno due figli con lo stesso nome, cioè Giacomo, ma solo uno, l’erede di Monaldo, diventerà famoso non solo in Italia e anche nei secoli a venire. La violenza arrembante del corso che crede in una sua inarrestabile ascesa, che crea il suo stesso mito e poi lo distrugge, aspetti entrambi di una potenza fine a se stessa, e l’intelligenza che cerca di penetrare i misteri del mondo, conoscendo anche meglio se stessi, propri di Giacomo Leopardi, si confrontano a distanza, senza mai incontrarsi, troppo diverse nelle loro caratteristiche la potenza e la bellezza, quest’ultima non dell’aspetto fisico, ma della natura e delle arti. In 432 pagine Fazi riesce a parlarci della parabola del giovane generale corso che, in preda a una sete inestinguibile, sale sempre più in alto alla ricerca del potere per il potere, arrivando a distruggere se stesso, e in contrapposizione della serena e profonda visione della vita del giovane Leopardi. C’è un punto dell’opera in cui il narratore riporta l’orazione per la liberazione del Piceno tenuta appunto dal nostro Giacomo e la riporta perché nessun altro pensiero, nessun altro sunto potrebbe spiegare meglio l’alto concetto nella stessa contenuto  e da cui si evince che a soli 17 anni avesse già capito tutto. Il passo che ci interessa è eloquente e lo riporto perché non saprei dire di meglio:” Ma supponiamo che questa supposizione – e cioè che un Paese potente è anche il più felice – non sia vera, e che la vera felicità dei popoli fosse riposta non nella Potenza ma nella pace necessaria alla creazione di cose belle, alle arti più utili, alle lettere, alle scienze, nella prosperità del commercio e dell’agricoltura, fonti della ricchezza delle nazioni. Se que­sto fosse vero, e cioè che il paradigma per valutare la felicità degli Stati è la Bellezza e non la Potenza, probabilmente non esisterebbe al mondo un popolo più felice di quello degli Italiani”.

Il romanzo scorre fluido come un fiume pacioso che s’avvia alla foce; la penna di Fazi sa regalare momenti di ironia non disgiunti da una malinconia di fondo per quello che il nostro paese era ed è, e non per quello che potrebbe essere. Se le figure di Napoleone Bonaparte e di Gioacchino Murat appaiono come meteore che velocemente solcano il cielo, per poi svanire, il personaggio di Giacomo Leopardi è quello di un’astro che brilla in eterno, e non a caso il romanzo termina riportando per intero l’Infinito. “Sempre caro mi fu quest’ermo colle...”, una lirica di una forza sovrumana, che parla persuasiva  di un processo interiore, di una simbiosi fra uomo e natura, un discorso rivolto a ogni uomo e in ogni epoca, un’opera immortale.

Elido Fazi si laurea in Economia e Commercio presso l'Università La Sapienza di Roma e nel 1977 consegue un Master in Economia presso l'Università di Manchester. Nel 1979, dopo due anni presso la Ford of Europe di Londra, entra alla Business International Corporation, per la quale dall'86 dirige la sede italiana. Nel 1989 viene nominato Vice Presidente di Business International/The Economist Intelligence Unit, con responsabilità per i paesi mediterranei. Nel 1993 fonda Business International, società a capitale italiano che gestisce il marchio Business International di proprietà dell'Economist Group con un accordo di licensing. Nel 1994 fonda la casa editrice, Fazi Editore. Ha tradotto e pubblicato il poema in versi La caduta di Iperione (1995), e ha scritto due romanzi ispirati alla vita di John Keats, L'amore della luna (2005) e Bright Star (2010). Con Paolo C. Conti, ha pubblicato il pamphlet Euroil. La borsa iraniana del petrolio e il declino dell'impero americano (2007). Di grande successo fu la collana One Euro, in cui pubblicò La terza guerra mondiale? La verità sulle banche, Monti e l'Euro (2012) e La terza guerra mondiale? libro secondo - Chi comanda, Obama o Wall Street? (2012). Con Gianni Pittella (vice presidente del Parlamento Europeo) ha pubblicato Breve storia del futuro degli Stati Uniti d'Europa (2013).
Renzo Montagnoli

 

9 Maggio

Il regno di Olinto e altri racconti

di Sonia Gardini

Fara Editore

Narrativa

 

Olinto “ad Baracaun”

Ogni anno l’editore Fara, più specializzato per la poesia che per la narrativa, indice un paio di concorsi letterari dedicati a entrambi i generi; è questo il caso di Narrabilando le cui risultanze, frutto del lavoro dei giurati, hanno premiato questa raccolta, scritta da Sonia Gardini e intitolata Il regno di Olinto e altri racconti. Altri potrebbe far pensare a chissà quanti e invece, in tutto e certamente non brevi, sono quattro. I primi due, Il regno di Olinto e Il giardino di mia madre, sono ambientati in terra romagnola negli anni immediatamente successivi alla fine della seconda guerra mondiale  e danno l’impressione che parlino di vita vissuta, che sia effettivamente esistito, anche come padre dell’autore, questo Olinto chiamato “ad Baracaun”, cioè uomo scherzoso.

Personaggi reali o immaginati contano relativamente nella dinamica di questi due racconti, perché il pregio maggiore è di parlarci di un’Italia certamente lontana nel tempo, uscita da poco da una guerra distruttiva, in un ambiente rurale in cui ancora vigeva una millenaria civiltà contadina, poi cancellata da un progresso insensibile che ha trasformato il coltivatore della terra in un imprenditore agricolo, con l’attività svolta con l’aiuto preponderante delle macchine. Questo mondo, per certi aspetti arcaico, è il palcoscenico su cui svolgono le trame dei due racconti, e la descrizione riesce, pur senza eccellere, ad appassionare il lettore, o curioso di sapere come era, oppure desideroso di ricordarlo.

La terza prosa, intitolata I segreti bevitori, è una specie di giallo che si svolge nella canonica di una parrocchia, con una investigatrice dilettante e dove non ci sono morti ammazzati, ma misteriose sparizioni di vino e alcolici. Si lascia leggere, senza entusiasmare.

Il quarto racconto, in prima persona, come i primi due, intitolato Vacanze parla di un viaggio, con relativa villeggiatura, con partenza da Milano e arrivo in Calabria. E’ la prima volta che nella trama l’io narrante vola e in tal senso cerca di spiegare le sue impressioni, e anche i suoi timori, senza però convincere del tutto. Arrivata a destinazione, la parte migliore è quella di una gita sulla Sila che risulta ben descritta e con una certa abilità nel creare l’atmosfera. Una possibile storia d’amore con un avvocato locale potrebbe essere la ciliegina sulla torta, ma la vicenda resta in sospeso, perché, a fronte di un evidente interesse dell’uomo, la donna, pur colpita e lusingata, respinge le prime manifestazioni di affetto. Il tutto finisce con il ritorno a Milano, negando perfino un’ultimo saluto all’ormai deluso spasimante. Si legge, sperando in un lieto fine, che non arriverà però.

Lo stile della narratrice è apprezzabilmente semplice, con il ricorso a un italiano corretto, anche se non particolarmente ricercato. La mia preferenza va ai primi due racconti  che hanno anche un  certo pregio per il tema trattato e per come è stata disposta la trama. Gli altri due sono indubbiamente inferiori, ma non disprezzabili.

In conclusione, la lettura consente di trascorre con piacere qualche ora senza che tuttavia si possa apprezzare un accrescimento culturale.

Sonia Gardini  è nata a Savignano sul Rubicone. È vissuta a Sant’Angelo di Gatteo (FC). Dopo la laurea, si è trasferita a Brescia, dove ha operato quale insegnante di Materie letterarie e, successivamente, come insegnante di sostegno nella scuola media. Nel 2006 ha pubblicato con Fara Editore una raccolta poetica dal titolo Dove allunata? Nel maggio del 2020 è uscita la raccolta di versi intitolata Haiku, III al concorso Narrapoetando.
Renzo Montagnoli

 

 

3 Maggio

L’onore di Roma. Il legato romano

di Guido Cervo

Edizioni Piemme

Narrativa

Ultimo romanzo della trilogia

Con L’onore di Roma si completa la trilogia del legato romano (gli altri due romanzi sono Il legato romano e La legione invincibile). Considerato che si tratta del completamento di un’opera di un impegno certamente notevole mi sarei aspettato una partecipazione massiccia della figura di Valerio Metronio, cioè del legato romano, e invece questo è il libro ove appare meno, limitando la sua presenza alle pagine iniziali con il suo ingresso a Lungudunum vincitore su Erennio Proculo che imprudentemente si era proclamato imperatore e che ora, con la moglie e il figlio, è in fuga, diretto nella zona di occupazione dei bagaudi, contadini e pastori celtici datisi alla macchia e diventati feroci briganti. Altri personaggi invece animano queste pagine, alcuni già presenti negli altri due romanzi, altri che si affacciano ora reclamando un po’ di notorietà. Uno si eleva su tutti ed è il retore e filosofo Marsilio, catturato, mentre cerca di tornare in Italia nelle terre natie, proprio dai bagaudi che gli lasciano un certo grado di libertà, visto quanto é inoffensivo e tenuto conto delle sue capacità, dovute anche a fortuna, di curare con le erbe. Il fil rouge del romanzo tuttavia è la ricerca del figlio del nobile romano Caio Amulio Aquilino, rapito dai bagaudi per farne oggetto di riscatto. Il bimbo però, grazie soprattutto a Marsilio, riesce a fuggire, ritornando alla casa paterna e dando indicazioni ai militari romani per raggiungere la base dei predoni e distruggerla. Nell’ambito della vicenda c’è poi lo sviluppo di un’ulteriore trama legata da un lato alla fine di Erennio Proculo e dall’altro alla possibilità di salvezza di sua moglie e del figlio, moglie che è la sorellastra di Barbaro, il feroce capo dei bagaudi. Non bastasse c’è anche la sollevazione di Gaio Quinto Bonoso, che, temendo serie conseguenze per aver perso la flotta sul Reno a opera dei Germani, si autoproclama imperatore, ma farà una brutta fine, perché l’uomo di riferimento di Roma, il capace e fedele  Valerio Metronio lo sconfiggerà e lo farà giustiziare.

Anche in questo romanzo ritroviamo la fedeltà dell’autore a fatti effettivamente avvenuti, come appunto il caso dei due autoproclamatisi imperatori, la capacità di avvincere dalla prima all’ultima pagina con una narrazione snella che non trascura tuttavia un’accurata ambientazione e un’attenta analisi psicologica dei maggiori protagonisti, insomma una realizzazione di pregevole fattura. Va da sé che la lettura, veramente gradevole, è più che consigliata.

Guido Cervo vive e lavora a Bergamo. È autore di romanzi di successo, tutti pubblicati da Piemme, tra cui "La trilogia del Legato romano", che ora viene riproposta, nel suo primo volume, in una nuova versione, la serie Il Teutone e due romanzi che affrontano i tragici conflitti mondiali del Novecento: Via dalla trincea e Bandiere rosse, aquile nere...
Renzo Montagnoli

 

26 Aprile

Si fa soglia il mare nel silenzio

di Mariangela De Togni

Prefazione di Gregorio Iacopini

Copertina di Dante Zamperini

Fara Editore

Poesia
 

La solennità della natura

E quattro! Dopo Frammenti di sale, Si può suonare un notturno su un flauto di grondaie? e Nel fiato umido dell’autunno, tutte sillogi edite da Fara, rispettivamente nel 2013, nel 2016 e nel 2019, e che ho avuto il piacere di leggere e di recensire positivamente, nel corrente anno è uscita una nuova raccolta di Mariangela De Togni, Si fa soglia il mare nel silenzio.

L’innata spiritualità della poetessa, una caratteristica che accomuna tutta la sua produzione, trova ancora una volta conferma e non  mi sento di definire i versi come prettamente religiosi, anche se le relative poesie lo sono, proprio per quella congenita capacità di vedere Dio in ogni cosa e soprattutto nella natura di cui noi siamo umili parti. Con il tempo lo stile si è affinato naturalmente, ma non è venuta meno la creatività che, anzi, mi sembra superiore al passato; ci sono versi che non ho timore di definire paradisiaci, descrizioni di atmosfere che tendono a sublimare il pensiero, quadri veri e propri dipinti con la penna ( Sotto il sole alto / si allargava una fragranza / densa di terra, di mare, di fiori selvatici, e una luce ambrata / entrava / attraverso la finestra / a bifora d’alabastro / della chiesa solitaria. ). Sono poche parole, ben congegnate, veramente ispirate, con le quali non solo ci è permesso di vedere una chiesa solitaria, ma se ne avverte l’atmosfera ieratica, quel senso di profonda quiete e serenità capace di creare perfino l’estasi. E questa capacità di cogliere il grande spirito della natura prosegue ( Come le stelle che seguono / il crescente lunare / sotto un cielo color perla / l’aria perse / quel fiato di gelo / che incrostava di ghiaccio / le parole. / L’azzurro filtrava / dalle sbarre dorate / del cancello / rivolto al mare / da sembrare di velluto. ). Ribadisco pertanto, come ho avuto già modo di scrivere nella recensione di  Nel fiato umido dell’autunno che bearsi della natura è bearsi di Dio, è trasfigurarsi lasciandosi andare a un crescendo emozionale che può saziare ampiamente il nostro spirito. La poesia di Mariangela è una poesia religiosa che troviamo anche in San Francesco, capace di cantare agli uomini le lodi al Signore descrivendo le meraviglie del Suo creato, così che quando leggo piano piano mi sembra di volare, ascendo in un empireo di cielo e di stelle in cui ritrovo tutto il bello del mondo, dimentico le miserie di ogni giorno, pur con i piedi su questa terra salgo con la mente verso vette sconosciute.

Sono tutte belle le poesie di questa silloge, ma ce n’è una che mi ha stregato, e stregato è una parola grossa visto visto che l’autore è una suora; al riguardo mi scuso,  ma non so esprimere meglio il senso di attrazione che ho provato. Mi riferisco a Perchè non parlare, in cui un’eterea anima riposa e vigila nell’incanto notturno (Perché non parlare dell’anima / al vento soffice della notte / piena di stelle mentre la luna / gioca con l’onda del mare. / Nel silenzio lungo che assorbe / i pensieri la veste è semplice, / le parole chiare. E i sogni / hanno il sapore delicato / di una carezza. ).

Da leggere, mi sembra ovvio.

Mariangela De Togni, savonese, è suora delle Orsoline di Maria Immacolata (Pia-cenza). Insegnante, musicista, studiosa di musica antica, ha pubblicato: Non seppellite le mie lacrime (1989), Nostalgia (1991), Una Voce è il mio silenzio (1995), Chiostro dei nostri sospiri (1998), Profumo di cedri (1998), Un saio lungo di sospiri (2000), Flauto di canna (2004), Nel sussurro del vento (in Quaderni di Letteratura e Arte, 2005), Nel silenzio della memoria (ne Le visioni del verso, 2008), Cristalli di mare (2010), Fiori di magnolia (2011), Frammenti di sale (2013), Si può suonare un notturno su un flauto di grondaie? (2016, I al Faraexcelsior), Nel fiato umido dell’autunno (2019, II al Narrapoetando). È presente in antologie, blog e riviste di poesia. Numerosi i premi e i riconoscimenti.
Renzo Montagnoli

 

18 Aprile

Sepolti vivi.

Monte Cimone e una mina.

Un destino crudele

di Alberto Di Gilio

Edizioni Gino Rossato

Storia 

Guerra di mine

Durante la Grande Guerra, quando certe posizioni apparivano imprendibili, soprattutto in montagna, si ricorse alla guerra di mine, cioè a uno scavo che portasse sotto la posizione avversaria dove, in una apposita camera, si ammassava esplosivo, fatto poi esplodere. Il risultato era sempre spettacolare, con la vetta che cambiava completamente fisionomia, la conquista della posizione, insomma un gran dispendio di forze e di esplosivo per impossessarsi spesso di soli pochi metri. Accadde così il 23 settembre del 1916 per il Monte Cimone (m. 1.226 slm), la vetta più alta di un sistema montuoso degradante rapidamente a sud verso Arsiero, nelle Prealpi vicentine. Alla sua occupazione si attribuiva una grande importanza, come accadde per il Pasubio, nella convinzione, rivelatasi poi infondata, che da lì fosse facile scendere nella pianura veneta. E così il Cimone, prima in mano austriaca, poi in quella italiana, assumeva i connotati di una specie di porta oltrepassata la quale si sarebbe potuto scardinare l’intero apparato difensivo italiano. Rivelatisi infruttuosi e con ingenti perdite gli attacchi austriaci, questo vennero alla determinazione di impossessarsi della vetta con una colossale mina. Di questo parla Sepolti vivi, un libro di storia, ma raccontato dall’autore con l’agilità e la capacità di attrazione di un romanzo.  Ben strutturato, c’è una parte propedeutica relativa alla riconquista italiana del Cimone per arrivare alla decisione austriaca di impadronirsene con una guerra di mina, dopo i sanguinosi e infruttuosi contrattacchi; infine c’è la fase vera e propria dello scoppio e delle conseguenze, non ultime il vano tentativo di ottenere una tregua per tirar fuori dalla terra i numerosi nostri soldati ivi sepolti e ancora vivi. Grazie alle testimonianze di chi era lì, e mi riferisco soprattutto al tenente Fritz Weber, autore di numerose opere sulla Grande Guerra, e al cappellano militare austriaco Bruno Spitzl, ma anche per la capacità di raccontare esprimendo stati d’animo, timori, angosce dei militari degli opposti eserciti, Alberto Di Gilio riesce a trasmettere al lettore un sentimento di autentica pietà per questi combattenti che, oltre al terrore per i bombardamenti, i tiri dei cecchini e i combattimenti, vivevano in condizioni miserrime, tormentati dalle pulci, dai ratti, dalla fame e dalla sete. E proprio questo sentimento di pietà costituisce, al di là di quello che fu l’evento storico, la sensazione di partecipazione di chi, come l’autore, non era presente, ma ha ben compreso quanto dolore si consumasse su quella montagna.

La documentazione è ampia e ben dettagliata, mentre non mancano, anzi sono anche abbondanti le foto scattate all’epoca, in un bianco e nero capace di contribuire a dare drammaticità all’intero elaborato.

Quindi Sepolti vivi è un libro senz’altro meritevole di lettura.

 Alberto Di Gilio è nato a Parma ma vive a Vigonza (Pd). Laureato in giurisprudenza e in possesso del titolo di avvocato, lavora presso la Regione del Veneto. Unisce alla passione per il primo conflitto mondiale la costante attività di ricerca documentale nei maggiori Musei, Biblioteche ed Archivi storici italiani.
Renzo Montagnoli

 

10 Aprile

Nives

di Sacha Naspini

Edizioni E/O

Narrativa

 

Una lunghissima telefonata

Naspini è una mia vecchia conoscenza, nel senso che come ha iniziato a scrivere ho cominciato pure io a leggere le sue opere pubblicate, a quel tempo, dal Foglio Letterario, la piccola casa editrice gestita da Gordiano Lupi. Ricordo che appunto a quest’ultimo, dopo aver letto I sassi, dissi che aveva fra i suoi autori uno che si staccava sicuramente dagli altri, un autentico talento che sarebbe emerso prepotentemente con il tempo dopo aver maturato la necessaria esperienza e aver dato allo stile l’impronta personale. Non mi sono sbagliato, sono venuti altri libri, pubblicati da un editore sicuramente più noto (E/O), che ho recensito positivamente anche se lo stile non ha ancora raggiunto la sua personale impronta, cioè quell’insieme di caratteristiche che ti fanno dire, leggendo un brano e non conoscendo il nome di chi l’ha scritto, di che autore si tratti. E’ un elemento di sicuro assai importante e mi meraviglio che ancora non sia proprio di Naspini, una mancanza che trova conferma anche  nel caso dell’ultimo romanzo pubblicato, questo Nives di carattere rurale e ambientato nella campagna toscana. La storia in sé è deboluccia, cioè questa donna, rimasta sola dopo la morte del marito, si fa compagnia con una gallina, che una sera, di fronte a un pubblicità televisiva del Dash (Das nel libro), si imbambola, tanto da sembrare morta, e per quanti sforzi faccia la signora Nives non riesce a farla tornare in sé; ecco che allora non trova di meglio che telefonare a un veterinario amico di famiglia, un colloquio a mezzo filo dove ne saltano fuori di tutti i colori, una trama di tradimenti, di corna, di cornuti e cornute che non è male, ma di certo non è il massimo, perché troppo lasciata a se stessa. Nasce così un dialogo lunghissimo, da fattura telefonica da capogiro, purtroppo continuo, mai intervallato da stacchi, il che, come noto, finisce con lo stancare il lettore. Fra l’altro qualche interruzione in cui magari ci fosse stata una descrizione degli ambienti, oppure meglio ancora un temporanea tregua, con ripresa il giorno successivo, sarebbe stata l’ideale. Il ritmo troppo blando induce allo sbadiglio, anche se per fortuna alla fine si passa a un crescendo con fuoco. Intendiamoci, Nives non è un brutto romanzo, ma segna un calo consistente nella qualità delle opere di Naspini, il che è decisamente un peccato.

Spero che il prossimo libro riscatti questo, perché se il mio giudizio su Nives è quello di un’opera al massimo discreta, resta invariata la mia stima nel Naspini scrittore, che però deve ancora crescere e affinare le sue indubbie qualità.

Sacha Naspini ha pubblicato vari libri, tra cui "I sassi" (Il Foglio), "Noir Désir. Nè vincitori nè vinti" (Perdisa Pop), Con "I Cariolanti" (Elliot, 2009) si è rivelato una delle migliori voci della narrativa italiana di oggi. Nel 2012 Elliot ha pubblicato anche il suo romanzo "Le nostre assenze", racconto degli avvenimenti che hanno coinvolto tre generazioni di una famiglia toscana. Il suo sito web è www.sachanaspini.eu.  
Renzo Montagnoli

 

2 Aprile

Fu sera e fu mattina

di Ken Follett

Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Narrativa


Non male, ma inferiore alle attese

Fu sera e fu mattina è il prequel di quel grande romanzo storico intitolato I pilastri della terra, una dei primi libri scritti da Ken Follett, capace anche di far uscire dalla sua penna una tormentata spy story come La cruna dell’ago, che ebbe una riuscita versione cinematografica. Comunque l’epoca medievale sembra particolarmente gradita all’autore britannico, visto che anche questa sua ultima opera si svolge a cavallo dell’anno 1000, una intricata vicenda che prende spunto da una razzia dei vichinghi alla città costiera inglese di Combe, episodio in cui abbiamo l’occasione di conoscere uno  dei due attori principali, il giovane Edgar. Poi, via via che la trama si dipana appaiono altri protagonisti, soprattutto la contessa Ragna di Cherbour, e piano piano tanti altri, con caratteristiche ben definite, nel senso che si tratta di uomini e donne o completamente buoni, o totalmente cattivi. Se questo aspetto può semplificare la narrazione però finisce con il trasformarla in una telenovela, laddove accanto a uomini di chiesa pii ve ne sono di empi e feroci, riservando ai personaggi femminili la soavità dell’animo, oppure la perfidia e la menzogna. Ho parlato di telenovela, perché Fu sera e fu mattina ne ha tutte le caratteristiche: passioni violente, tradimenti, innamorati non ricambiati che si struggono nell’ombra, vendette, ma soprattutto una lunghezza veramente consistente, non sorretta da una capacità di avvincere e di tenere il lettore in tensione, elenti positivi presenti invece nei primi lavori di Ken Follett. Aggiungo inoltre che, pagina dopo pagina, si ha a sensazione, poi confermata, di sapere come evolverà la trama che, immancabilmente, finirà con i cattivi giustamente puniti e con il trionfo dei buoni e dell’amore sincero.

Ogni tanto, comunque, si ha qualche sprazzo dell’originario talento dell’autore che, peraltro, in questo romanzo è solo un’ombra del tempo che fu, come se il trascorrere degli anni avesse inciso in modo determinante sulla capacità di attrarre in un delicato, ma perfetto equilibrio, fra vicenda raccontata e personalità dei protagonisti.

E così i personaggi sono ombre loro stessi degli analoghi presenti in I pilastri della terra, insomma, per non tediare troppo, sembra che la mano, ma anche la creatività di Ken Follett, con il passare degli anni si siano appannate, abbiano perso quello smalto che in passato avevo tanto apprezzato.

In ogni caso, la lettura non risulta mai impegnativa e anzi è gradevole e consente di trascorrere non poche ore in completo rilassamento, ma di più il romanzo, per quanto ho esposto, non riesce a dare. 

Scrittore inglese. Laureato in filosofia, poi cronista in un quotidiano, Ken Follett è diventato uno dei più popolari autori di best-seller con La cruna dell’ago (Eye of the needle, 1978).
Nell'infanzia è nata la sua passione per la lettura “Non avevo tanti libri, e sono sempre stato grato alla biblioteca pubblica. Senza libri gratuiti non sarei diventato un lettore accanito, e se uno non è lettore non può essere neanche scrittore” ha dichiarato.
Nel settembre del 1970, appena uscito dall’università, lavora come cronista per il «South Wales Echo» di Cardiff e poi come editorialista dell’«Evening News» di Londra. Non avendo sfondato come “il giornalista investigativo fenomenale” che aveva immaginato di poter essere, Ken Follett si dedica alla scrittura di romanzi. Nel 1974 lascia il giornalismo e comincia a lavorare per una piccola casa editrice, la Everest Books.
È La cruna dell’ago che lancia Follett come scrittore di best-seller. Pubblicato nel1978, vince il premio Edgar e vende rapidamente più di 10 milioni di copie: l'inizio di una carriera travolgente.
Sulle abitudini di scrittura ha dichiarato: “Sono mattiniero. Appena mi sveglio, voglio sedermi alla scrivania. La sera invece preferisco riposarmi, mangiare, bere e fare quel genere di cose che non creano stress”.
I suoi romanzi, che hanno trame ben congegnate e ricche di suspense, combinano avventura, ricostruzione storica, spionaggio e thriller: fra i molti, spesso portati con successo sullo schermo, si ricordano Il codice Rebecca (The key to Rebecca, 1980); L’uomo di Pietroburgo (The man from St. Petersburg, 1982); Sulle ali delle aquile (On wings of eagles, 1983); I pilastri della terra (The pillars of the earth, 1989); Una fortuna pericolosa (A dangerous fortune, 1993); Il terzo gemello (The third twin, 1996); Il martello dell’Eden (The hammer of Eden, 1998, premio Bancarella); Codice a zero (Code to zero, 2000); Il volo del calabrone (Hornet flight, 2002).
Mondo senza fine, pubblicato nel 2007, è il seguito del popolarissimo I pilastri della terra. Il libro fa ritorno a Kingsbridge duecento anni dopo e mette in scena i personaggi de I pilastri. La saga di Kingsbridge prosegue con l’ultimo romanzo, La colonna di fuoco (2017).
I protagonisti del ciclo epico successivo in tre romanzi abbracciano cinque generazioni su tre continenti, nella Trilogia del Secolo. La caduta dei giganti (2010); L’inverno del mondo (2012); I giorni dell’eternità (2014).
Del 2019 il breve scritto Notre-Dame, omaggio alla cattedrale prigina dopo l'incendio.
Del 2020 Fu sera e fu mattina un viaggio epico che termina dove I pilastri della terra hanno inizio.
Fonti: Enciclopedia della letteratura, Garzanti 2007; sito ufficiale dell'autore.
Renzo Montagnoli

 

 

20 Marzo

La bolgia delle eretiche

di Marinella Fiume

A & B Editrice

Narrativa

 

Dalla parte delle donne

Non credo ci siano dubbi sulla missione di Marinella Fiume volta a riscattare la figura femminile, vista troppo spesso -  più in passato che oggi - sottomessa all’uomo e a cui sono negati tutti i diritti tranne quelli che il maschio si degna di concedere al suo angelo del focolare. Personalmente ho sempre sostenuto la parità dei sessi in tutti i campi e quindi non posso che essere d’accordo con gli intenti di questa donna che rivela in un’isola che crediamo feudo esclusivo degli uomini una determinazione che non può che renderle onore.  La bolgia delle eretiche, a metà strada fra storia e romanzo storico, non è altro che un’opera che riconferma lo spirito che anima Marinella Fiume, ma prima di parlare di questo libro mi corre l’obbligo di fare una precisazione, perché, come ho intuito  dalla prima pagina, non a caso intitolata ex voto, con quest’opera l’autore intende anche sciogliere un debito con Maria Sofia Messana, una grande esperta di inquisizione spagnola in Sicilia e prematuramente scomparsa. Infatti c’era all’origine un progetto comune di stesura a quattro mani, con tanto di materiale già in buona parte raccolto, progetto vanificato appunto dalla improvvisa scomparsa della Messana; del materiale raccolto viene fatta espressa menzione con un pubblico ringraziamento.

Ma veniamo a La bolgia delle eretiche, bolgia come quella dei gironi danteschi, delle eretiche, cioè portatrici di un pensiero che si contrappone a una verità rivelata o supposta tale dalla Chiesa.

Si tratta di esseri umani che hanno avuto l’impudenza di scrivere, di esprimere un’opinione, tanto più grave perché,  oltre che a essere in contrasto con una verità rilevata, è frutto di uno spirito femminile. E’ così che ci imbattiamo in Ursula, una venditrice di pianelle, che il Sant’Uffizio ha messo al bando, non senza averla prima sottoposta al rito, considerato purificatorio,  della fustigazione; poi c’è una religiosa, suor Agueda, seguace del quietismo e per questo condannata; Francisca, che si suppone sia una strega e che è condannata a una pena perpetua, cioè la damnatio memoriae. E ce ne sono molte altre, che fra i tanti difetti hanno avuto quello di rivendicare la propria personalità. Ci si può anche stupire della mentalità dell’epoca, o meglio delle epoche, tutte bene antecedenti l’unità d’Italia, ma che dire del fatto che nel nuovo stato, nato dalla fusione del Regno di Sardegna con gli altri staterelli dello stivale, la donna non era assolutamente considerata, tanto è vero che occorrerà arrivare al 30 gennaio 1945 perché all’altro sesso fosse riconosciuto il diritto di voto?. Vero che in tanti secoli l’acqua che è passata sotto i ponti ha tolto un po’ di limo, ma siamo ancora lontani dal pervenire a una reale e unanimemente accettata parità. E’ quindi evidente che libri come La bolgia delle eretiche possano dare il loro contributo in tal senso, ma se guardiamo l’opera in se stessa non possiamo non apprezzare, oltre all’idea, anche il modo in cui è stata realizzata, tanto che mi viene da dire che questo romanzo, complesso, anche se ben articolato, scritto con mano sufficientemente lieve dato l’argomento, finisce con l’essere esso stesso un’eresia.

Marinella Fiume, nata a Noto (Sr), laureata in Lettere classiche, è dottore di ricerca in Lingua e letteratura italiana. È stata sindaca del Comune di Fiumefreddo di Sicilia (Ct) e socia fondatrice e presidente dell’Associazione fiumefreddese antiracket e antiusura “Carlo Alberto Dalla Chiesa”. Già responsabile della Commissione Arte e cultura della Fidapa e presidente del Soroptimist “Val di Noto”. Ha pubblicato saggi, biografie, racconti, romanzi, sceneggiature, canzoni; nella rivista Notabilis cura la rubrica fissa “Donne che ballano coi lupi”. Ha ricevuto diversi premi per il suo impegno sociale e la sua produzione letteraria, tra gli altri, il Premio “Franca Pieroni Bortolotti” della Società delle Storiche e del Comune di Firenze (2000).

Tra le sue opere: Feudo del mare La stagione delle donne (2010); Di madre in figlia – Vita di una guaritrice di campagna (2014); La bolgia delle eretiche (2017); Ammagatrìci (2019); Le ciociare di Capizzi (2020).
Renzo Montagnoli

 

 

17 Marzo

Parole raccolte
di Giampaolo Giampaoli
Editore Sillabe di sale
Anno di edizione 2020

Benché suddivisa in varie parti la silloge mantiene una chiara coerenza di intenti sia nella struttura compositiva  che nella accurata ricerca linguistica.

Si intuisce quanto siano fondamentali per l’autore  “mutamenti e illusioni” che fin dalla prima composizione si affacciano con il loro potenziale di rivelazione e aprono  spazi di pensiero contro l’opacità del nulla. 

Nella prima sezione  si coagulano i temi e le implicazioni legate al fare poetico. “Perdere l’ispirazione”: il panico che prende l’autore inerme contro il vuoto bianco della pagina…  la poesia intesa in chiave salvifica, “contro monotonie future”.

Ma è nella seconda parte che l’autore mette in scena la relazione con il mondo esterno, l’altro da  sé: le rimembranze fuggitive “il tuo baluginante sorriso”, l’incanto della natura, il tempo che trascorre inesorabile, i rimpianti “ripercorro i giorni”. I  temi si snodano e si dilatano intorno all’intensità di rapporti di vita vissuta e  racchiudono  tutta la loro accensione affettiva nei versi conclusivi  delle composizioni.

Già il trascorrere del tempo era stato sfiorato nelle pagine precedenti, ma in questo ulteriore segmento acquista un più intenso coinvolgente  potenziamento emotivo: i protagonisti dei testi sono ben identificati, definiti,  “il tuo lungo dormiveglia” ,  “le tue parole di follia”  i riferimenti  sono palpabili e le personalità si stagliano con amorosa nettezza.

Proseguendo nella lettura incontriamo i due testi conclusivi in cui si addensano le aspirazioni,  i disincanti e le incertezze in cui il poeta si  dibatte. 

Ma possiamo, tornando all’inizio, trovare già delineato in nuce  ciò  che  spinge l’autore a  esternare l’intima essenza della sua pulsione poetica: “ liberare  parole”.  Non quelle  compromesse dal banale scorrere quotidiano, ma le  altre che sgorgano con  intensità dal  tentativo  di offrire nuovi sensi all’esperienza: le parole della poesia.

Questa,  pulsione incontenibile  è il pungolo con  cui Giampaoli  si mette  in gioco per  assorbire, dalla   linfa  creativa che lo nutre, il proprio   progetto  comunicativo.  Non basta… la singolarità sofferta dell’autore prende respiro e ritmo anche dalla meditazione sulla sua finitudine e avverte la presenza di quell’oltre inafferrabile che si mostra solo come riverbero dell’ignoto.

Carla Paolini                
9 marzo 2021

 

14 Marzo

La legione invincibile.

Il legato romano

di Guido Cervo

Edizioni Piemme

Narrativa romanzo storico

 

Non solo guerre

Secondo volume della celebre trilogia, La legione invincibile parla di uno dei periodi più difficili per l’impero, assalito da orde di barbari che uccidono, violentano, saccheggiano impoverendo e provocando una tremenda carestia. Il legato Valerio Metronio è pressochè isolato a Mogontianum, forse l’ultimo baluardo romano sul Reno. Non deve far fronte però solo alle scorrerie dei barbari perché la fame porta a rivolte interne, acuite anche dall’atteggiamento irresponsabile degli accaparratori. Si tratta tuttavia di attendere perché il nuovo imperatore Aurelio Probo, uomo pragmatico e deciso, sta accorrendo in soccorso con un potentissimo esercito, con il preciso scopo anche di risolvere una volta per tutte il problema dei confini attraverso cui arrivano invasioni a ondate. In un contesto militare con belle pagine di battaglie c’è anche ampio spazio per il rapporto fra Valerio Metronio e la moglie Idelnia, nochè per altri protagonisti tutti dotati di un’innegabile carica di simpatia.  Anche questo secondo romanzo, benchè un po’ dispersivo per l’elevato numero dei personaggi, ha più di un motivo di attrazione che non è legato solo alle vicende storiche, ma anche alla costruzione di un tessuto meno semplicistico in grado di dare una visione più completa del mondo romano. Così si apprendono notizie utili su come si viveva, su come erano i rapporti interpersonali in una società classista, convinta di rappresentare la civiltà di fronte all’ignoranza di popoli non sottomessi (i barbari), relegati spesso (ma non è il caso di questo romanzo) a figure stereotipate, vale dire gente ignorante e rozza, priva di sentimenti e in preda solo a bramosie ispirate al più acuto materialismo.

Resta sempre pregevole la capacità dell’autore di ricreare ambienti e atmosfere, di far rivivere al lettore una grande battaglia dell’epoca quasi rendendolo partecipe, insomma, per non dilungarmi troppo, ancora una volta Guido Cervo ha fatto centro e ha assicurato alcune ore di piacevole e istruttiva lettura.  

Guido Cervo vive e lavora a Bergamo. È autore di romanzi di successo, tutti pubblicati da Piemme, tra cui "La trilogia del Legato romano", che ora viene riproposta, nel suo primo volume, in una nuova versione, la serie Il Teutone e due romanzi che affrontano i tragici conflitti mondiali del Novecento: Via dalla trincea e Bandiere rosse, aquile nere...
Renzo Montagnoli

 

6 Marzo

Non esistono posti lontani

di Franco Faggiani

Fazi Editore

Narrativa

 

Viaggio attraverso l’Italia durante la guerra

La trama del libro (il recupero di opere d’arte trafugate dai nazisti per riportarle a Roma nonostante l’Italia sia divisa in due dalla guerra) è di per sé interessante, e a maggior ragione quando questa missione viene effettuata da un maturo archeologo di fama mondiale e da un simpatico ischitano dalle mille risorse. Per quanto ovvio l’impresa non è di per sé impossibile, ma certamente difficile e pericolosa. E’ così che i due partono da Bressanone, passano il confine con Svizzera, rientrano in Italia dal Piemonte e lungo strade secondarie, caratterizzate da una paesaggistica di tutto rispetto, fra mille avventure e peripezie riescono nell’intento, arrivando alla capitale da poco liberata dagli alleati. 

Non esistono posti lontani ha il sapore di una favola  e alterna momenti di inevitabile tensione ad altri picareschi, anche se il tono semiserio non manca nemmeno nei fatti in cui dovrebbe essere tangibile il senso del pericolo. Nonostante si tratti di due caratteri che possono sembrare diversi (il professor Filippo Cavalcanti serioso, poco incline alla confidenza, tutto teso a svolgere al meglio la missione che si è prefissata, Quintino Aragonese, maestro nell’arte di arrangiarsi, incapace di resistere alla possibilità di un furtarello, ma generoso e appassionato con chi stima) in effetti hanno poche differenze, perché entrambi sono affascinati dalla farsa. Se la narrazione, e di conseguenza la lettura, scorrono senza intoppi è tuttavia preliminarmente necessario sorvolare su non poche incongruenze, come per esempio la facilità con cui in piena guerra si esce dall’Italia per andare in Svizzera e l’altrettanta facilità con cui è possibile rientrare, ma forse ciò è dovuto al tono semiserio che l’autore ha dato al racconto, tono che obiettivamente rende piacevole la lettura, più attratti dallo svolgersi della vicenda, che non finisce a Roma (e non aggiungo altro) e che procede veloce senza mai arrivare a livelli di autentica drammaticità, ricordando piuttosto per certi versi altri quella di due altri celebri personaggi, frutto dell’abile inventiva di Miguel de Cervantes, vale a dire Don Chisciotte della Mancia e il suo scudiero Sancho Panza. Certo qui non troviamo mulini a vento con cui duellare, bensì ci imbattiamo nei disastri di una guerra autentica, attraverso la quale Filippo e Quintino passano spensieratamente indenni. E come qualsiasi favola non può avere una conclusione triste, questo vale anche per questo racconto, che termina pur sempre nel mondo dell’arte, con  i due protagonisti pronti per una nuova impresa da tempo di pace e indubbiamente redditizia.

Mi sono divertito - ed è quel che conta -  senza che mi sia rimasto molto dentro, se non il valore dell’amicizia che può portare a risultati clamorosi, e chissà che l’autore non voglia dare un seguito, perché i due protagonisti lo meriterebbero senz’altro.

Franco Faggiani vive a Milano e fa il giornalista. Ha lavorato come reporter nelle aree più calde del mondo e ha scritto manuali sportivi, guide, biografie, ma da sempre alterna alla scrittura lunghe e solitarie esplorazioni in montagna. Con La manutenzione dei sensi (Fazi Editore, 2018), vincitore del Premio Parco Majella 2018, del Premio Letterario Città delle Fiaccole 2018 e del Be Kind Award 2019, si è fatto conoscere e amare da moltissimi lettori. Con Il guardiano della collina dei ciliegi (Fazi Editore, 2019), ha vinto il Premio Biblioteche di Roma 2019 e il Premio Selezione Bancarella 2020. Tutti i suoi libri (questo è in via di traduzione) sono stati pubblicati nei Paesi Bassi ottenendo un grande successo di critica e di pubblico.
Renzo Montagnoli

 

2 Marzo

La casa editrice I Quaderni del Bardo Edizioni è orgogliosa di pubblicare l’ultimo lavoro poetico di una delle voci più importanti del panorama poetico nazionale e internazionale: Tomaso Kemeny. L’Autore (Budapest 1938) vive a Milano dal 1948, come anglista ha scritto libri e saggi su Marlowe, Coleridge, Shelley, Lord Byron, Lewis Carrol, Dylan Thomas, James Joyce de Ezra Pound. Ha pubblicato oltre dodici libri di poesia, ed è presente nelle più importanti antologie poetiche di rilievo nazionale e internazionale. È uno dei fondatori del movimento Mitomodernista, del movimento ·Poetry and Discovery”, nonché della CASA DELLA POESIA DI MILANO (2006). Informazioni dettagliate sull’autore al seguente link di Wikipedia:

https://it.wikipedia.org/wiki/Tomaso_Kemeny

 

La nuova raccolta 25 appuntamenti + 2 col sicario di Tomaso Kemeny, che vede gli interventi critici di Donato Di Poce, Chiara Evangelista, Laura Garavaglia, Ottavio Rossani continua saldamente la tradizione per versi del Nostro, volta a realizzare quel sogno e segno incisivi nella realtà di ogni giorno attraverso l’utopico, l’eroico, l’eretico e l’erotico. Ogni componimento è un gioco alla roulette russa del Destino, dove solo la Poesia è in grado di porre Ordine al Caos. Il volume è inoltre impreziosito da 27 tavole grafico pittoriche dell’artista Paola Scialpi, che ha interpretato con il suo stile inconfondibile il messaggio poetico di Kemeny in questa silloge.

 

La CreAttività di Tomaso Kemeny,(uno dei nostri piu’ importanti poeti contemporanei e fulgido esempio di poesia totale), dopo romanzi, poesie, testi critici e action poetry, si arricchisce di questa sua matura suite aforistica (25 appuntamenti col sicario), spalancandoci le porte ad un ennesimo tesoro nascosto di bellezza ed energia poetica. Il poeta che ci fa dono di 25 appuntamenti con il sicario (figura simbolica che allude a qualcuno o qualcosa mandata da qualcun altro per uccidere, figura già presente in una raccolta giovanile di Kemeny  “Il guanto del sicario” degli anni ‘60). E allora Tomaso a distanza di anni raccoglie la sfida (del tempo, della morte e della non poesia) e ingaggia un corpo a corpo con le parole (amiche di sempre) sul ring della vita (su cui combatte da sempre), con Dio, con l’amore, con la poesia e con la luce della bellezza che fiammeggia qua e la’ nel cimitero dei vivi e dei sopravvissuti. (Donato Di Poce)

 

Tomaso Kemeny poeta e critico è partito da André Breton, fondatore del surrealismo, le cui poesie ha anche tradotto in italiano. Se ne è innamorato, lo ha conosciuto e frequentato negli ultimi anni prima della morte. Ha anche assorbito quella poetica che nei sogni trasferiva il senso della realtà presente e futura coniò il concetto di “automatismo psichico puro” (il pensiero non filtrato dalla razionalità”). L’energia bretoniana è entrata nel sangue di Kemeny non solo attraverso le parole e le opere, ma anche attraverso l’amicizia e la corrispondenza emotiva. Dal ribollire delle pulsioni giovanili Tomaso oggi è arrivato a poter raccontare le grandi imprese, o le pulsioni e le immagini quotidiane, per la poesia, per la Bellezza, per il senso del vivere e del pensare di questa umanità sempre ribollente di grandi decisioni e, però, anche di irrazionali crudeltà. (Ottavio Rossani)

 

(…) questi “incontri col sicario” che uniscono alla brevità la potenza della visionarietà, sono anche una riflessione sul trascorrere inesorabile del tempo, sul senso della vita, sul rapporto immanente-trascendente che a me sembra reso in maniera significativa da questi versi: “sul ring/ il silenzio di Dio/ mi mette/a tappeto”. Qui il poeta accenna al proprio passato, quando trascorse un periodo della giovinezza negli Stati Uniti e praticò con successo il pugilato. La metafora del ring è quella di una vita vissuta come “combattimento” per affermare la bellezza; ma per un istante egli sembra vacillare nelle sue convinzioni, perché agli esseri umani non è dato sapere cosa sarà dopo la vita terrena, non è concesso all’uomo sentire la voce di Dio. Tuttavia nei versi finali l’inquietudine sembra svanire nella consapevolezza che, quell’ “oltre“ a noi sconosciuto, avrà una “Bellezza nuova”: ricongiungersi con l’Universo, tornare ad essere, nel “latte blu”, metafora della nostra galassia, la Via Lattea, quella polvere di stelle da cui tutto e tutti proveniamo. (Laura Garavaglia)

 

Kemeny non si smentisce e ricerca il ruolo del testo nel contesto, il ruolo del poeta nell’insofferenza asmatica dell’indigesto hic et nunc. “Nella solitudine/il poeta/vive/ prostrato/ nella luce”. I versi sono esemplificativi di un dialogo tra l’infinitudine del Thumos greco (significante “anima emozionale”) e la “putrefazione epocale di un’estetica priva di utopia” in cui il poeta scava fino alle radici del Tempo asincrono e ha “sete di metamofosi”. Netto e decisivo è l’influsso della poetica surrealista di Andrè Breton sull’autore. “La poesia si fa con l’ombra dei larici e la melma e col riflesso azzurro del lago più lontano”, volendo citare alcuni versi noti del poeta francese. “I grandi poeti/defunti/ricordano/i versi/ che non ho/scritto/ e che non riuscirò/ a scrivere”. Kemeny eredita il Passato, snodando la trama chiaroscurale della grammatica del Presente, per farne una pagina di luce della poetica contemporanea. (Chiara Evangelista)


 

 

1 Marzo

La memoria dei nonni

di AA.VV.

a cura di Marinella Fiume

Algra Editore

https://www.algraeditore.it/narrativa/la-memoria-dei-nonni-racconti/

Narrativa racconti

 

I nonni e il Covid 19

Benché scriva recensioni da diversi anni incontro non poche difficoltà quando mi imbatto in un volume che raccoglie racconti di più autori e il motivo è molto semplice, cioè, anche qualora i testi fossero tutti di sicuro interesse e ben scritti,  parlarne, anche per brevi cenni, dilaterebbe enormemente il mio elaborato. In questi casi ricorro allora a una presentazione dell’opera, ma nella circostanza la prefazione di Marinella Fiume è talmente bella che finisce con il lasciarmi poco spazio, limita ulteriormente le mie possibilità di intervento. Tranquilli, però, perché non è che cerchi scuse per non esprimere un motivato giudizio, ma il problema, la cui soluzione spetta solo a me, è di pensare a qualcosa che possa apparire diverso. Benché sia più facile a dirsi che a farsi credo che forse un’introduzione al tema, univoco (un omaggio ai nonni che la pandemia ci sta strappando), possa essere accettabile.

Già, i nonni, questi cari vecchietti, categoria di cui alcuni degli estensori dell’opera fanno parte, sono le radici che questo morbo crudele va recidendo, sono esseri umani nella loro ultima stagione che pur fra tanti acciacchi reclamano il diritto di continuare a vivere, si ritengono ancora, se non indispensabili, almeno utili. E invece la mannaia del virus si abbatte su di loro in modo dirompente, toglie a molti, a troppi la possibilità di assaporare gli ultimi giorni dell’esistenza, li isola dagli affetti più cari, li fa morire in una drammatica solitudine. E’ la gente che da giovane ha vissuto la guerra o che ha visto la luce immediatamente dopo la fine della stessa in un’Italia devastata, misera e all’apparenza senza speranza, ma è stato con la loro forza di volontà e con il loro instancabile lavoro che questo paese è rinato, che ora possiamo parlarne, magari dimenticando chi ha reso possibile tutto ciò. Le nuove generazioni devono sapere da dove provengono, quali sono le radici, perché la conoscenza del passato permette di saper vivere il presente e anche di costruire il futuro. Così, in La memoria dei nonni, tanti nipoti scrivono del ricordo che hanno di questi loro parenti, alcuni già defunti da diversi anni, altri recenti vittime del Covid e altri ancora impegnati a sopravvivere. Sono storie ambientate lontano, in epoche che ci sembrano remote, ma che poi sono a noi abbastanza vicine, solo che non sappiamo più cogliere il senso del tempo, questo variare delle stagioni non solo atmosferiche, ma dell’esistenza di ognuno. C’è da commuoversi a leggere di difficoltà insormontabili o quasi che questi nostri nonni hanno dovuto affrontare, di quanto abbiano fatto e lavorato con l’intento di lasciare un mondo migliore di quello trovato venendo al mondo,  di come la serena attesa dell’ultimo passo, sempre pronti ad aiutare figli e nipoti, sia stata travolta da questa orrenda epidemia. I nostri nonni non meritano di finire così, soli, isolati, trattati come appestati, senza il conforto di una carezza sulla fronte madida di sudore. Lo so, la colpa non è nostra, è del morbo, ma in chi resta c’è il rimorso di non aver potuto dare un ultimo saluto in vita, un amorevole abbraccio, una parola di conforto.

E allora è più che mai giusto ricordare questi nostri nonni, come hanno fatto gli autori di questo libro che invito a leggere per conoscere quanto dobbiamo a questi cari vecchietti che in silenzio ci lasciano e della cui assenza ci accorgeremo nella casa diventata vuota; niente più colpi di tosse, né una cara voce amica, resta solo silenzio, null’altro che un assordante silenzio.   

Racconti di Fernando Massimo Adonia, Doroty Armenia, Enza Bifera, Ida Bonfiglio, Eliana Camaioni, Paolo Casamichele, Maria Castronuovo, Andrea Giuseppe Cerra, Giancarlo Consoli, Beatrice Contarino, Caterina Luisa De Caro, Elisa Di Dio, Mariella Di Mauro, Raffaello Di Mauro, Giulia Fiume, Marinella Fiume, Alessia Franco, Stefania Germenia, Carlo Giannetto, Carmen Giuffrida, Maria Rosaria Grasso, Gemma Incorpora Lucenti, Francesco Labriola, Rina Larizza, Paola Maria Liotta, Luca Migliorisi, Renzo Montagnoli, Liliana Nigro, Maria Rita Pennisi, Dario Piombino-Mascali, Salvatore Rabuazzo, Giusy Sciacca, Paolo Sidoti, Giuseppina Turiano, Angelo Vecchio Ruggeri, Giovanni Vecchio, Rosaria Rita Zammataro.

Marinella Fiume, nata a Noto (Sr), laureata in Lettere classiche all’Università di Catania, dottore di ricerca in Lingua e Letteratura italiana, è stata per due legislature Sindaca del Comune di Fiumefreddo di Sicilia (Ct), cittadina sulla costa jonico-etnea dove risiede. Impegnata sul fronte della cultura della legalità e dei diritti delle donne, tra le sue pubblicazioni: la cura di Siciliane Dizionario biografico (2006), Sicilia esoterica (2013), Di madre in figlia – Vita di una guaritrice di campagna (2014), La bolgia delle eretiche (2017), i racconti Ammagatrìci (2019), Le ciociare di Capizzi (2020).
Renzo Montagnoli

 

22 Febbraio

M. L’uomo della provvidenza

di  Antonio Scurati

Bompiani Editore

Narrativa 

Un uomo solo al comando, sempre più solo

Se con M. Il figlio del secolo Scurati si era occupato dell’ascesa di Benito Mussolini, dagli albori del fascismo fino  al clamoroso discorso del 3 gennaio 1925 alla Camera dei Deputati con il quale il Duce assunse su di sé le colpe delle violenze fasciste e in particolare dell’omicidio di Giacomo Matteotti, con questo secondo volume intitolato M. L’uomo della provvidenza ci parla del periodo che va dal 1925 al 1932. In un crescendo quasi rossiniano il capo del fascismo smantella i residui di democrazia e assume i pieni poteri, timoroso di delegarne parte ad altri, al punto che a un certo momento terrà per sé la bellezza di sette dicasteri. Senza più avversari, perché gli oppositori o sono esuli in Francia, o scontano giorni di inerzia e di inedia al confino, oppure in galera, l’uomo dovrebbe essere soddisfatto, dovrebbe progettare un futuro anche quando non ci sarà più lui, ma il fascismo non esisterebbe, se non ci fosse Mussolini, perché Mussolini è il fascismo; quindi, a differenza di dittature come quella sovietica, in Italia non è stato costituito un vero e proprio regime, poiché il potere non è accentrato in un gruppo ristretto, ma in una sola persona al punto che, caduta o morta questa, si ha il dissolvimento del centro decisionale, e questo è tipico dei movimenti di destra, come nel caso del nazismo e del franchismo.

Il nuovo periodo di tempo esaminato, se da un lato vede il consolidamento del potere di Mussolini, che può ormai decidere di tutto e di tutti, comincia a lasciar trasparire la solitudine di un uomo che si circonda di personaggi infidi, emarginando invece i pochi seri e capaci, in quanro possibili temuti concorrenti. E’ questo il caso dell’abile segretario del PNF Augusto Turati, contro cui è montata una campagna diffamatoria ingiustificata che il duce potrebbe troncare, ma non lo fa. Perfino il fedele fratello Arnaldo ne fa le spese e anche lui viene lasciato in pasto ai pescicani del partito che si azzuffano fra di loro, oltre che per il potere, per poter mettere le mani su affari danarosi e ovviamente illeciti. Il duce sa tutto di tutti, si compiace dei lori vizi ampiamente documentati dall’OVRA, la polizia politica guidata con grande capacità dall’ex prefetto di Genova Arturo Bocchini, prove che gli servono per eventuali e non improbabili ricatti.  Intanto la vita prosegue, una vita ben diversa da quella che era stata promessa agli italiani, non proprio una vita di miseria, ma per lo più di povertà. Ci sono altri traguardi a cui mira Mussolini con le bonifiche, i ponti, le strade, opere che si auspica  possano ampliare a dismisura la sua fama. Il suo capolavoro resta, tuttavia, l’accordo con il Vaticano, i famosi Patti Lateranensi con cui viene sanato il profondo contrasto sorto con la presa di Roma nel 1870. A conti fatti mi pare che da questi patti abbia ritratto maggiori soddisfazioni proprio il Vaticano, tacitate le sue richieste con un notevole esborso di denaro e la costituzione di più enclavi a Roma e nel Lazio, oltre all’aver proclamato come religione di stato quella cristiano cattolica apostolica romana. Certo, uno che va d’accordo con la Chiesa, specie se capo di un popolo di cattolici, ha le spalle un po’ più coperte, anche se l’esperienza dovrebbe insegnare che i patti, anche scritti, sono fatti per essere violati. Di pari passo con la conquista del potere in Italia si registrano le lunghe operazioni di sottomissione delle popolazioni delle nostre colonie libiche, grazie a operazioni militari che non vanno tanto per il sottile e che pur di ottenere lo scopo vedono il ricorso ai bombardamenti con il gas. Già è un abominio portare una morte orribile e dolorosa a popolazioni per lo più inermi, immaginate poi la tragedia dei campi di concentramento a ridosso della costa libica in cui furono internate più di 100.000 persone fra uomini, donne e bambini, per isolare le tribù ribelli che osavano rivendicare la loro libertà e la loro patria combattendo. In quei campi, voluti dal generale Graziani, sostenuto dal generale Badoglio e con l’approvazione di Benito Mussolini, la gente moriva di stenti, le donne erano soggette a violenze, non passava giorno che qualche prigioniero non venisse torturato o impiccato, insomma una vergogna non diversa dai futuri lager nazisti.

Anche questo secondo volume, in cui le vicende come nel primo sono proposte in una serie di quadri rigorosamente in ordine temporale, non mancano i motivi di grande interesse e quindi è senz’altro meritevole di lettura; considerato che il piano dell’opera completa prevederebbe tre volumi mi chiedo solo come possa essere possibile riunire nel terzo, per quanto corposo, gli ultimi anni di Mussolini, che non solo sono quasi tredici, ma che presentano argomenti di larghissima portata, quali la guerra d’Etiopia, quella di Spagna, le leggi razziali, l’entrata in guerra dell’Italia, la caduta del duce, la repubblica di Salò.

Come il primo volume tuttavia anche questo secondo non appare ben definito nella sua identità, vale a dire non è un saggio storico e nemmeno un romanzo storico, ma un ibrido che credo si possa definire come storia romanzata, alla portata di una platea di lettori non particolarmente colta e che proprio per questo presenta il pregio di parlare di un periodo storico che è ignorato da tanti, da troppi.

Antonio Scurati è nato a Napoli nel 1969, è cresciuto tra Venezia e Ravello per poi trasferirsi a Milano. Docente di letterature comparate e di creative writing all'Università IULM, editorialista del «Corriere della Sera», ha vinto i principali premi letterari italiani. Esordisce nel 2002 con Il rumore sordo della battaglia, poi pubblica nel 2005 Il sopravvissuto (Premio Campiello) e negli anni seguenti Una storia romantica (Premio SuperMondello), Il bambino che sognava la fine del mondo (2009), La seconda mezzanotte (2011), Il padre infedele (2013), Il tempo migliore della nostra vita (Premio Viareggio- Rèpaci e Premio Selezione Campiello). Del 2006 è il saggio La letteratura dell'inesperienza, seguito da altri studi. Scurati è con-direttore scientifico del Master in Arti del Racconto. Del 2018 è M. Il figlio del secolo, primo romanzo di una tetralogia dedicata al fascismo e a Benito Mussolini: in vetta alle classifiche per due anni consecutivi, vincitore del Premio Strega 2019; del 2020, il secondo capitolo M. L'uomo della provvidenza.
Renzo Montagnoli

 

16 Febbraio

Cent’anni di solitudine

di Gabriel Garcia Marquez

Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Narrativa  

La solitudine di ogni uomo

José Arcadio Buendia, capostipite di un

a stirpe numerosa, lascia il villaggio in cui è nato per sfuggire a un fantasma da cui è continuamente perseguitato. E così, dopo un lungo e avventuroso viaggio in compagnia della moglie, nonchè cugina Ursula, incinta del primo erede e terrorizzata per i vincoli di familiarità che la legano al marito e dalla possibilità di partorire un bimbo con la coda di maiale, arriva in una località in cui fonderà un paese felice, dove nessuno era più vecchio di trent’anni e dove non era mai morto nessuno. Lì a Macondo, il nome dato al paese, nasce Aureliano, senza coda di maiale, il primo a vedere la luce in quella località e che in futuro diventerà un colonnello leggendario, alla guida di una rivoluzione liberale in cui combatterà 32 guerre, perdendole tutte,  e che finirà i suoi giorni nel suo laboratorio a fabbricare pesciolini d’oro, per poi rifonderli e ricominciare da capo, in perfetta sintonia con la caratteristica della dinastia di fare per disfare.

Questa è, per sommi capi, la trama del più famoso romanzo di Gabriel Garcia Marquez, un intreccio in cui sogno e realtà si confondono e si fondono, con un’atmosfera fiabesca calata in un mondo che ben conosciamo essendo il nostro, un mondo in cui ogni cosa appare al contempo normalissima e prodigiosa.

E’ un aspetto questo che secondo me molto ha contribuito al successo di un romanzo che non si esaurisce in una originale, stilisticamente, coesistenza di prosa e poesia, perché in realtà si presta a più piani di lettura. Al riguardo basti pensare che la saga dei Buendia può essere vista in chiave allegorica come una rappresentazione dell’umanità con richiami perfino ad atmosfere dell’Antico Testamento. Infatti, il paese di Macondo alle sue origini, in cui nessuno moriva e nessuno in pratica invecchiava richiama molto il Paradiso terrestre e Josè Arcadio Buendia, divorato dalla sete di conoscere, potrebbe essere benissimo Adamo, e del resto la fine di questo Eden ha un che di apocalittico da richiamare quasi il Giudizio universale. Io tuttavia amo un’altra interpretazione di questo romanzo per via dei nomi dei vari José Arcadio e Aureliano che si ripetono molteplici volte, tanto da ingenerare confusione, ma a significare una circolarità dell’opera e in pratica del destino e della vita. Tutto si ripete, un mondo di nascite e di morti, in cui piccole fiammelle di vita brillano per un istante nell’eternità, per poi spegnersi al primo soffio, e nella moltitudine di esseri umani accomunati da un unico destino prevale immutabile solo una condizione, quella della solitudine. Pur in mezzo a tanti, pur nei rapporti inevitabili, ognuno è e sarà sempre solo, in ogni luogo, in ogni epoca, perché quello è il suo destino.

Cent’anni di solitudine è indubbiamente un romanzo suggestivo, ma è anche un capolavoro per quel che dice e per come lo dice.

Gabriel Garcia Marquez , scrittore colombiano Premio Nobel per la Letteratura nel 1982.
Come giornalista ha soggiornato in Francia, Messico e Spagna; in Italia è stato allievo del Centro sperimentale di cinematografia.
Ha esordito con un breve romanzo, dove più evidente è l’influenza di Faulkner: Foglie morte (La hojarasca, 1955), cui sono seguiti Nessuno scrive al colonnello (El coronel no tiene quién le escriba, 1961); i racconti raccolti ne I funerali della Mamá Grande (Los funerales de la Mamá Grande, 1962), nei quali, soprattutto in quello che dà il titolo al volume, è già tratteggiato il mondo mitico e paradossale del narratore; La mala ora (La mala hora, 1962), altro romanzo, dove si narra una storia spietata di lettere anonime che coinvolge un intero paese, e Cent’anni di solitudine (Cien años de soledad, 1967), considerato il suo capolavoro, centrato sull’immaginaria ed epica comunità di Macondo.
Fuori del ciclo macondiano stanno il romanzo L’autunno del patriarca (El otoño del patriarca, 1975), torbida e visionaria vicenda d’un dittatore imprecisato, di segno anch’esso mitico; il racconto lungo L’incredibile e triste storia della candida Eréndira e di sua nonna snaturata (La increíble y triste historia de la candida Eréndira y de su abuela desalmada, 1972); il romanzo breve Cronaca di una morte annunciata (Crónica de una muerte anunciada, 1981), dove un fatto di cronaca, un delitto d’onore, sembra rovesciare ogni logica sotto il segno d’un destino emblematico, tanto spietato quanto capriccioso; il romanzo L’amore ai tempi del colera (El amor en los tiempos del colera, 1985) in cui si racconta la lunga storia ottocentesca di un amore che resiste a trent’anni di separazioni e traversie; Il generale nel suo labirinto (El general en su laberinto, 1989), ispirato alla vita e agli amori di Simón Bolívar; Dell’amore e di altri demoni (Del amor y otros demonios, 1994).
Ha inoltre pubblicato la raccolta di articoli Taccuino di cinque anni 1980-1984 (1991) e l’indagine giornalistica Notizia di un sequestro (Notícias de un secuestro, 1996, sul rapimento di dieci persone da parte dei narcotrafficanti). Attraverso disarticolazioni cronologiche e forme fiabesche e leggendarie, spesso lievitate in pagine di gustoso umorismo, G.M. dà nelle sue opere una visione complessa e contrastata della «solitudine» dell’uomo latinoamericano e della condizione alienata e allucinata del mondo tropicale.
Nel 2001 è uscita la prima parte della sua autobiografia, Vivere per raccontarla (Vivir para contarla) cui ha fatto seguito il romanzo Memoria delle mie puttane tristi (Memorias de mis putas tristes, 2004).
Nel 1982 ha ottenuto il premio Nobel per la letteratura «Per i suoi romanzi e racconti, nei quali il fantastico e il realistico sono combinati in un mondo riccamente composto che riflette la vita e i conflitti di un continente».

Parzialmente tratto da: Enciclopedia della Letteratura, Garzanti 2007
Renzo Montagnoli
 

 

10 Febbraio

Prima di noi

di Giorgio Fontana

Sellerio Editore Palermo

Narrativa

Quattro generazioni

Leggo nella quarta di copertina dei giudizi entusiasti di Claudia Durastanti, una scrittrice e traduttrice, e di Marco Missiroli, pure lui scrittore, ma quello che mi colpisce di più è l’asserzione di quest’ultimo che paragona Prima di noi al grande romanzo americano, un paragone impegnativo con autori del calibro di William Faulkner, Philip Roth e Francis Scott Fitzgerald, che senza nulla togliere alle capacità letterarie di Giorgio Fontana sono di gran lunga a lui superiori. Sono state queste opinioni che mi hanno indotto a comprare il libro, nonostante la sua mole non certo trascurabile (896 pagine) e la finalità dello stesso di raccontare, attraverso quattro generazioni di una famiglia, le vicende italiane dalla rotta di Caporetto fino a quasi i giorni nostri. Certo le pagine sono tante e a maggior ragione le aspettative sono maggiori, anche se non è sempre detto che alla quantità si accompagni la qualità, perché intendiamoci, quando si realizza un’opera, non conta quanto si scrive, ma cosa e come si scrive. Il progetto di Fontana è stato senza dubbio ambizioso, nella consapevolezza di sperare di realizzare un romanzo sulla storia degli italiani che entrasse a far parte del patrimonio letterario nazionale a pieno titolo e a pieno merito. Dico subito che lo scopo è stato realizzato solo in parte, perché, accanto a pagine che si dilungano a narrare eventi di scarsa o modesta importanza se ne alternano altre in cui occorrerebbe approfondire maggiormente e non passare via velocemente. In particolare, il periodo della Resistenza è appena sfumato e non dovrebbe esserlo per la presenza notevole dei partigiani nella zona in cui è ambientato il romanzo, vale a dire il Friuli; invece si accenna, senbra quasi che ci sia il timore di prendere una posizione netta, forse giustificata dalla evidente volontà dell’autore di essere nell’opera apolitico. Peraltro, anche il periodo di lotte sindacali, che pur presenta un’ampia trattazione, sembra avulso dalla realtà, perché nell’epoca a riferimento c’ero e vivevo in un’atmosfera piuttosto complessa e pesante, quasi una premessa a quegli anni di piombo che sarebbero avvenuti di lì a poco. La scrittura non è certo greve e questo è un pregio di un romanzo che tuttavia non mi ha lasciato nulla dentro, nel senso che non c’è un personaggio memorabile con cui sia potuto entrare in sintonia. Ogni tanto ho avuto la sensazione di trovarmi di fronte a una sorta di soap opera, per fortuna quasi subito fugata, ma ritornata poi prepotentemente alla ribalta nelle ultime duecento pagine, francamente noiose.

Prima di noi si lascia leggere, ma non paragoniamolo al Grande Romanzo Americano, ne uscirebbe a dir poco travolto.  

Giorgio Fontana, nato Saronno nel 1981 e cresciuto a Caronno Pertusella,  vive a Milano dove collabora con diverse testate, sceneggia storie per il settimanale "Topolino" e insegna scrittura creativa.
Tra le sue ultime pubblicazioni: Per legge superiore (Sellerio 2011), La velocità del buio (Zona 2011), Morte di un uomo felice (Sellerio 2014, Premio Campiello), Un solo paradiso (Sellerio 2016) e il reportage a fumetti Lamiere (Feltrinelli 2019). Il suo ultimo romanzo è la vasta saga familiare Prima di noi (Sellerio 2020).
Renzo Montagnoli

 

5 Febbraio

Poesie future

di Carla Malerba

Prefazione di Ivan Fedeli

Postfazione di Gemma Mondanelli

puntoacapo Editrice

Poesia
 

Premessa enigmatica

Poesie future, l’ultima raccolta di Carla Malerba, ricomprende quattro sillogi tematiche, di cui peraltro l’autore ci fornisce un’anticipazione con i versi sibillini  riportati quasi come premessa, se non come un prologo (Cercherò la parola mare / per quante volte l’ho scritta / cercherò di non farmi dominare / dalla perversità della rima / o dalle immagini aperte./ Meglio la chiusa parola / che travesta il mistero / meglio celare il pensiero / di ciò che tocca a ciascuno.). Mi sono arrovellato a lungo onde comprendere cosa con essi si intenda dire o anche non dire, proprio per questo cverso” Meglio la chiusa parola / che travesta il mistero / meglio celare il pensiero / di ciò che tocca a ciascuno.”; il significato deve esserci, altrimenti non sarebbero stati posti lì, e mentre pensavo mi è venuto in mente un’altra frase, altrettanto enigmatica, Forse che sì forse che no, titolo di un romanzo di D’Annunzio, periodo  a sua volta ripreso  dalla scritta ben in evidenza nel labirinto sul soffitto dell’appartamento privato a Palazzo Ducale di Vincenzo I Gonzaga.  Dopo infruttuosi tentativi di interpretazione di questa dichiarazione programmatica ho deciso di passar oltre, con la speranza che la lettura delle poesie delle quattro sillogi potesse svelarmi il mistero.

Pulsano di vita vissuta le poesie della raccolta, ci sono rimpianti, episodi che hanno segnato un percorso esistenziale, fatti ed eventi filtrati da un naturale pudore, tanto che più che esserne resi edotti si finiscono con l’intuire (Sono in atto le attese / già da ora. / Anticipare i giorni / che verranno / è nel rapido pensarli. / La terra inaridita / in sé già cova / timidi semi e fragili. /…). Il ricordo sovviene non mai fine a se stesso e può essere una vestaglia rossa abbandonata nell’ombra della stanza, un senso di qualcosa che c’era e ora non c’è più, in una nota sommessa di rimpianto. I sentimenti non sono mai urlati, non sono passioni travolgenti, sono constatazioni per lo più amare, il filtro di un’emozione ormai nel tempo sbiadita, un fuoco che ormai quasi del tutto spento sopravvive senza speranza sotto la cenere (Senti, facciamo che ognuno / va per la sua strada. / Senti, facciamo che io / nel tuo animo non sono. / Le nostre vite, prima dipendenti / l’una dall’altra per amore in più, / oggi sono lontane e divergenti./  Essere due non è che un’avventura, / lo decidono gli astri o un temporale.).

Se pure è sempre presente un’attenta cura della struttura, onde pervenire a un equilibrio armonico, mi sembra che Carla Malerba dia il meglio di sé con le descrizioni misurate di paesaggi, da cui riesce a far emergere, ma sempre con mitigata dolcezza, l’emozione a suo tempo provata (Venezia fatta d’acqua, / ombre ed umori / sperdi nel tempo /  e li raccogli intatti. /….); nel ricordo, però, c’è il senso dell’attuale esistenza, lo straniamento (Straniamenti non a caso è il titolo della prima silloge) di chi è straniero in patria, esule suo malgrado da un mondo che gli giunge come una eco lontana, un suono che vibra all’interno dell’anima come un acuto di violino, ormai la memoria di un sogno che non tornerà (Oggi nessun paese / ho nel mio cuore. /  Di colonne stagliate / su azzurri di acque e di cieli, / di strade segnate dai millenni / era ricca la mia terra.).

E ora la domanda è d’obbligo: è stato svelato il mistero dei versi in premessa? Credo di sì, perché Carla Malerba s’apre e non s’apre, dice e non dice, in effetti si svela a spizzichi, trasmette indizi, centellina sentimenti, sta al lettore saper cogliere i messaggi velati che vengono con pudore lanciati.

Carla Malerba è nata in Africa Settentrionale e dal 1970 risiede in Italia. A Tripoli, sua città natale, ha frequentato il Liceo Scientifico Dante Alighieri e ha pubblicato i primi versi su quotidiani locali. Iscritta alla Facoltà di Lettere Moderne a Catania, interrompe gli studi a seguito di eventi politici legati al suo paese d’adozione. Si laurea nel 1986 presso l’Università degli studi di Siena con una tesi sulla poesia per l’infanzia. Ha insegnato Materie letterarie ad Arezzo, città nella quale vive tuttora. Ha pubblicato: Luci e ombre (Arti Tipografiche Toscane, Cortona1999), Creatura d’acqua e di foglie (Calosci, Cortona 2001), Di terre straniere (La Vita Felice, Milano 2010) e Vita di una donna (ivi, 2015). Alcune sue liriche sono presenti nell’antologia Novecento non più - Verso il Realismo terminale (premessa di Guido Oldani, La Vita Felice 2016), nella rivista Pioggia Obliqua-Scritture d’arte, in Fiordalisi-Menti Sommerse e in Tanti Pensieri. Scrive racconti brevi, alcuni dei quali sono stati pubblicati se Essere, periodico del Centro di solidarietà di Arezzo. Ha ricevuto riconoscimenti per la poesia inedita in alcuni concorsi nazionali tra cui un Premio speciale della Giuria al Premio “Ossi di seppia” e un secondo Premio per la sezione tematica al Premio “Le occasioni” 2019.
Renzo Montagnoli

 

1 Febbraio

Come una nuvola dentro un cortile

di Antonio Messina

Edizioni NullaDie

www.nulladie.com

Poesia

Emozioni misurate

Antonio Messina è una mia vecchia conoscenza, visto che siamo in contatto ormai da più di dieci anni, periodo in cui ho avuto modo di leggere buona parte della sua produzione letteraria, costituita per lo più da romanzi fantasy, un genere che non mi è particolarmente gradito, ma anche da raccolte di poesie di grande ispirazione e che mi sono sempre piaciute, quasi che la creatività in versi, per quanto variegata, non avesse il timore di nascondere il suo pregio, e cioè di essere aderente alla realtà. In verità si può sognare, è possibile sempre vagheggiare, purché si resti con i piedi per terra, ed è allora che il messaggio consapevole, e a volte inconsapevole dell’autore, può giungere comprensibile e apprezzabile al lettore. Come nuvola dentro un cortile è l’ultima fatica poetica di Antonio Messina ed è una poesia intimistica, riflessiva, in cui ricorrono temi che vanno da un rapporto conflittuale a una nostalgia appassionata, ma senza lirismo, per la propria terra. Non si può non apprezzare l’equilibrio armonico che, pur nell’impeto  - in ogni caso frenato – che prorompe dal cuore, traccia una linea di contenuta passione che mitiga, spunta gli eccessi, fissa l’immagine di un sentimento consapevole e razionale (Siamo come le nuvole / passioni nell’istante / frammenti d’altrui pensieri / piccoli uomini d’aria, /afflitti vaghiamo / il vento ad accogliere / gli spazi mancanti, / nell’abisso dei nostri sensi, /.). Ciò non toglie che si avverta egualmente il calore di una terra che ancora avvampa per il suo vulcano, ma che nei tempi è stata un succedersi di popoli, di dominazioni che hanno plasmato un carattere non freddo, ma comunque restio alla facile e improvvisa passione; è un calore misurato, è un’eco lontana di sentimenti ben radicati e che trovano l’apoteosi con i versi di Sicilia, poesia in cui trovi tutto meno quello che ti aspetteresti e perciò tanto più bella ( Sognerò, sognerai, le mani in grembo /  gli occhi dentro le tasche vuote / le voci che si perdono, muliebre il canto dei neonati / di donne magre con in testa le brocche d’acqua / le strade attraversate dalla polvere, incerte / nel vecchio borgo tornerò da vecchio / sarò lieve come il vento, sulle bocche della vita / nascosto come un ladro a guardare l’onda, / fiori di campo nel mio cuore, e profumi sotto il naso. /…).  In questi versi, per niente stereotipati, e anzi assai originali, troviamo tutto un popolo e la sua terra, percepiamo la nostalgia di chi li ha scritti, le immagini scorrono davanti agli occhi, una serie di quadri che forse già oggi non saranno più così, ma che nel ricordo sono rimasti vivi, in un anelito di libertà di di essere nuovamente partecipi di quel mondo in cui desidera l’autore tornare da vecchio. Troverà quello che è rimasto impresso nel suo animo? Non si sa, né si può sapere, l’unica cosa certa è che con la memoria in poesia tutto è possibile.  E infatti nulla vieta che si possa anche volare, un volo rapido teso a rasserenare, immaginando magari prati in fiore sulla luna, oppure il caleidoscopio di immagini proprie della poesia che dà il titolo all’intera raccolta (Non sarà come tu credi / i fiori nell’alba, la cenere sui capelli, / gocce d’oro nelle ciglia / fioriranno i sogni nelle serre / steli e steli di madreperla / e voci d’amore / abbandonate al silenzio. / …). Ma la malinconia di cui è pervasa fa sì che i piedi restino ben attaccati alla terra e che solo l’ispirazione riesca a volare, benchè rinchiusa nella gabbia di un’anima inquieta, che trattiene con dolcezza tempeste di passioni.

Antonio Messina è nato a Partanna (TP) e vive a Padova. Ha pubblicato romanzi, racconti e poesie.
Renzo Montagnoli

 

26 Gennaio

Il legato romano

di Guido Cervo

Edizioni Piemme

Narrativa romanzo storico

 

Ai confini dell’impero

Nel 275 d. C. l’impero romano inizia a mostrare la sua decadenza con imperatori che durano dall’alba al tramonto e con i confini che diventano permeabili alle frequenti e rovinose incursioni dei barbari. Anche lungo il Reno la situazione è in ebollizione e una grande coalizione di tribù germaniche si appresta a invadere la Gallia; le forze romane sono decisamente poche e insufficienti, ma occorre resistere nell’attesa di un auspicato, anche se incerto e lontano soccorso da Roma. Incaricata di questa impresa quasi disperata è la XXII legione, quella agli ordini del legato Valerio Metronio. Così, su un palcoscenico di terrore e di sangue si sviluppano le vicende di tanti protagonisti, delle loro esistenze, dei loro amori, uomini e donne che in gran parte ritroveremo negli altri due romanzi della trilogia, di cui Il legato romano è il primo. Si potrebbe dire che con questo volume Guido Cervo ha inteso effettuare la presentazione dei suoi personaggi, tutti di fantasia, benchè si muovano in un’ottica storica in cui gli imperatori e le grandi battaglie sono esistiti veramente. C’era il rischio di scrivere una lunga carrellata di nomi con le loro caratteristiche, ma per fortuna l’autore li presenta di volta in volta nell’ambito di una narrazione in cui diventano protagonisti di eventi. Così facciamo conoscenza già all’inizio di Valerio Metronio quando le sue truppe assaltano Ildivasio, un grosso villaggio dei barbari Suardoni, in cui si è rifugiato Arbogaste, il capo della bellicosa tribù; nella circostanza il legato nota fra le prigioniere una donna di rara bellezza, Idalin, di cui si invaghisce; via via salgono sul palcoscenico altri personaggi, romani e barbari, brava gente e pessimi soggetti, capi militari e capi civili, tutti attenti a recitare la loro parte con abilità e accortezza, senza predominare e mettere in ombra chi li ha preceduti o li seguirà.

Comunque, l’autentico grande protagonista è lui, il legato romano, di umili origini, che ha fatto carriera nell’esercito, fedelissimo a Roma, onesto e concreto, abile condottiero, ma non privo di umanità, una dote non frequente in un militare del grande Impero.

A Cervo va dato atto di essere riuscito sapientemente a far convivere autentiche vicende storiche con quelle di fantasia, a tutto vantaggio del piacere della lettura, senza dimenticare che ha cercato di esporci anche le ragioni dei nemici di Roma; certo, per alcuni aspetti, fra i quali il progressivo innamoramento di Valerio Metronio per Idalin, che da schiava la renderà liberta per poi sposarla, si ha l’impressione di trovarsi di fronte a un feuilleton, ma molto equilibrato e avvincente, un pregio questo assai notevole e che è il segreto del successo che ha avuto il romanzo.

Guido Cervo vive e lavora a Bergamo. È autore di romanzi di successo, tutti pubblicati da Piemme, tra cui "La trilogia del Legato romano", che ora viene riproposta, nel suo primo volume, in una nuova versione, la serie Il Teutone e due romanzi che affrontano i tragici conflitti mondiali del Novecento: Via dalla trincea e Bandiere rosse, aquile nere...
Renzo Montagnoli

 

 

20 Gennaio

La casa sull’argine.

La saga della famiglia Casadio

di Daniela Raimondi

Casa Editrice Nord

Narrativa romanzo

 

Sullo sfondo il grande fiume

Se non avessi letto la recensione positiva che ha scritto Franca Canapini, poetessa e narratrice del cui giudizio mi fido, con ogni probabilità non avrei letto questo romanzo, proprio perché non sono uno di quelli che rincorre le novità, anzi in questo periodo di totale o parziale segregazione a causa della pandemia mi diletto con i classici. Tale premessa è indispensabile per comprendere quanto ancor oggi conti il tam tam per la diffusione di un libro, che nel caso specifico ho preso in mano appena ultimata la lettura di un’opera corposa come Il mulino del Po, altra saga, quella della famiglia Sacerni. Anche in La casa sull’argine il più grande fiume italiano è sempre presente, magari sullo sfondo, tranne quando si parla della disastrosa alluvione del 1951 in cui diventa terribile protagonista. Insomma, per certi aspetti, ma non come trama, ci sono certe analogie con il romanzo di Bacchelli,  ed è evidente che arrivato all’ultima pagina dell’opera della Raimondi il confronto è stato inevitabile. Ebbene, dallo stesso La casa sull’argine non ne esce sminuita, anzi direi che un risultato di parità ci starebbe tutto. C’è da chiedersi allora che cosa abbia di così valido l’opera della Raimondi e dico subito che presenta delle qualità non comuni. Del resto questa storia di due secoli d’Italia vista dal basso, dal comportamento dei singoli, dai loro sogni, dai loro desideri, ha la capacità di avvincere pur senza raggiungere toni epici, ma con la forza che può avere un romanzo corale. Viene subito in mente Cent’anni di solitudine, tanto più che un po’ d’America (il Brasile) possiamo trovare in queste pagine ove tuttavia prevalenti ci sono le quattro case di Stellata e la vita agreste. Probabilmente quando Giacomo Casadio si innamora di Violica Toska, una zingara arrivata lì con una carovana, e se ne innamora tanto da sposarla, non avrebbe potuto immaginare che con lei avrebbe dato vita alla dinastia dei Casadio, con i discendenti che alternano i caratteri somatici di lui e di lei  in modo ben marcato, tranne in un caso in cui sono entrambi presenti. E la Violica da buona gitana predice il futuro con i tarocchi, un futuro di eventi che puntualmente si verificheranno. E’ il gioco del destino che di volta in volta gratifica o distrugge i membri delle varie generazioni, la cui vita cosi è data di seguire nel pre Risorgimento, nel Risorgimento stesso, nelle guerre, poi sempre più avvicinandosi all’epoca attuale, con il sussulto tragico degli anni di piombo. I personaggi sono tanti, come le vicende, e quindi la lettura deve essere attenta, ma non costituisce un problema, perché vuoi per lo stile piano e conciso, vuoi per la capacità di ricreare ambienti e atmosfere, e grazie anche un’analisi approfondita della psicologia dei protagonisti principali, il romanzo avvince dalla prima all’ultima pagina. 

Non sono uno che si lascia trascinare facilmente dall’entusiasmo, ma sinceramente La casa sull’argine mi ha emozionato, mi ha fatto sentire vicino ai personaggi più di quanto si possa credere, perché non si tratta di eroi, si tratta di uomini e donne della “bassa” che nascono, vivono e muoiono ai lati di questo grande fiume che bagna anche il mio paese, protagonisti rivieraschi con caratteristiche che ritrovo in me e nei miei compaesani. Ognuno ha la sua personalità, nel bene e nel male, né tutto buono, né tutto cattivo, sono tutti attori veritieri e perciò apprezzabili della commedia della vita, in cui l’autentico eroismo è riuscire a essere sempre se stessi.

Da leggere, lo merita. 

Daniela Raimondi è nata in provincia di Mantova e ha trascorso la maggior parte della sua vita in Inghilterra. Ora si divide tra Londra e la Sardegna.
Ha pubblicato dieci libri di poesia che hanno ottenuto importanti riconoscimenti nazionali. Suoi racconti sono presenti in antologie e riviste letterarie. La casa sull'argine è il suo primo romanzo.
Renzo Montagnoli
 

 

14 Gennaio

Dante

di Alessandro Barbero

Laterza Editori

Biografia  

 

Chi era Dante

La Divina Commedia è un’opera fra le più conosciute, che si studia a scuola non solo in Italia. Quindi, chi più chi meno, in base al livello di istruzione ricevuto, è a conoscenza di un contenuto che è in tutti i sensi senza tempo, proprio del capolavoro universale. Del suo autore Dante Alighieri tuttavia sappiamo poco, a mala pena conosciamo, pur se non sicure nel giorno, le date di nascita e di morte e della sua travagliata esistenza siamo solo al corrente che per motivi politici fu esiliato dalla sua Firenze. Tutto il resto, però, che occorre per inquadrare il personaggio nella sua epoca, i cui fatti indubbiamente finiscono sempre con avere riflessi su ciò che ha scritto, ci sono solo vagamente conosciuti, un po’ perché Dante è enigmatico, un po’ perché il periodo storico, a cavallo fra il XIII e XIV secolo, non era in grado di fornire ampie documentazioni sull’autore di un’opera che già allora era famosissima. Alessandro Barbero, di cui si apprezzano le indubbie qualità di storico, cerca di provvedere in merito, scrivendo una biografia che non è frequente nella sua produzione (così a memoria me ne sovviene solo un’altra, quella di Carlo Magno), ma che ha il pregio dei romanzi storici, senza tuttavia esserlo, perché alla fantasia non è lasciato nulla, nel senso che siamo in presenza di un vero e proprio saggio. Tuttavia l’abilità dell’autore nel proporre è tale che il risultato non è greve, come invece in genere sono i testi storici, ma ha la capacita di avvincere come in in romanzo ben riuscito. Del resto, l’incertezza su tanti fatti della vita di Dante lascia il campo a una fantasia tecnica, cioè alla formulazione di ipotesi, esaminate negli aspetti positivi e negativi, il più delle volte senza privilegiarne nessuna. Per esempio ci si chiede se Dante fosse un nobile e così veniamo a sapere che all’epoca il concetto di nobiltà era diverso da quello da noi conosciuto e nel caso specifico, pur considerando tanti elementi, la famiglia Alighieri si sarebbe potuta definire al più benestante, ma non certo nobile. Di pari passo, di ipotesi in ipotesi, sulla base di documenti dell’epoca, in apparenza  poco significativi, tenuto conto di quanto scritto in epoca successiva dal Boccaccio, nonché da storici quasi contemporanei, o di poco posteriori, siamo in grado di farci un’idea non solo di quel che fu l’esistenza di Dante, ma anche di come si vivesse allora. Così abbiamo capitoli dietro capitoli che parlano del clan degli Alighieri, dell’infanzia di Dante, dell’amore (puramente platonico per Beatrice, che morirà giovanissima e già maritata con altra persona), degli studi, del matrimonio stesso di Dante, dei suoi affari, della politica estremizzante in essere a Firenze, insomma tutta una serie di aspetti che, se pur relativi al poeta, ci danno una visione tutto sommato esauriente di un certo periodo storico che riguarda anche altre città, perché l’esilio di Dante fu tutt’altro che sedentario. Al riguardo dimorò, ospite dei signori del luogo, a Forlì, in Lunigiana, a Bologna, a Padova, nella Marca Trevigiana, nel Casentino a Verona, e da ultimo a Ravenna, dove morì. Benchè l’ospitalità si basasse sul presupposto di avere a corte un poeta famoso, che fra l’altro si rendeva utile come segretario o come incaricato di missioni diplomatiche speciali, era evidente che il soggiorno dopo un po’ di tempo, per vari motivi, ma soprattutto per la sensazione di essere di troppo finiva con il pesare nella decisione di spostarsi in altro luogo. In effetti Dante si crucciava di questo fatto, non dipendente dalla sua volontà, poiché all’esiliato erano confiscati anche i suoi beni in patria, al punto che nel Paradiso (XVII 58 – 60) scrive:  Tu proverà sì come sa di sale / Il pane altrui, e com’è duro calle / lo scendere e 'l salir per l'altrui scale. Più esplicito di così sulla sua condizione di esule non poteva essere.

Da questo lavoro di Barbero esce un Dante dalle molteplici sfaccettarure, un politico, prima ancora che poeta, che fu artefice e vittima della sua condotta fiorentina, sussistendo anche l’ipotesi che, quando rivestì delle cariche importanti nel governo della città, privilegiò taluni e magari non disinteressatamente. Se il politico Dante ha probabilmente limiti e anche colpe, di tutt’altra pasta è il poeta Dante, un artista eccelso, già famoso ai suoi tempi e ancor di più nelle epoche successive. Un grande, insomma si potrebbe definirlo, giudizio che può essere esteso al suo biografo Alessandro Barbero che ancora una volta si conferma storico scrupoloso (alle note sono dedicate un centinaio di pagine) e sempre capace di avvincere il lettore.

Alessandro Barbero, scrittore e storico italiano. Laureato in Storia Medioevale con Giovanni Tabacco, nel 1981, ha poi perfezionato i suoi studi alla Scuola Normale di Pisa sino al 1984. Ricercatore universitario dal 1984, diventa professore associato all’Università del Piemonte Orientale a Vercelli nel 1998, dove insegna Storia Medievale. Ha pubblicato romanzi e molti saggi di storia non solo medievale. Con il romanzo d’esordio, Bella vita e guerre altrui di Mr. Pyle gentiluomo, ha vinto il Premio Strega nel 1996.
Collabora con La Stampa e Tuttolibri, con la rivista "Medioevo", e con i programmi televisivi ("Superquark") e radiofonici ("Alle otto della sera") della RAI. Tra i suoi impegni si conta anche la direzione della "Storia d'Europa e del Mediterraneo" della Salerno Editrice. Tra i suoi titoli più recenti ricordiamo: Lepanto. La battaglia dei tre imperi (Laterza 2010), Il divano di Istanbul (Sellerio 2011), I prigionieri dei Savoia (Laterza 2012), Le ateniesi (Mondadori 2015), Costantino il vincitore (Salerno 2016) e Dante (Laterza 2020).
Renzo Montagnoli

 

9 Gennaio

Il mulino del Po

di Riccardo Bacchelli

Edizioni Mondadori

Narrativa 

Una grande saga

Nella vita accadono fatti strani, del tutto inspiegabili, come nel caso di una grande opera, Il mulino del Po, osannata dalla critica, accolta con ampio favore dai lettori, oggetto di uno sceneggiato televisivo in cinque puntate che agli inizi del 1963 entrò nelle case di tutti gli italiani, con protagonista principale un attore di grande calibro quale era Raf Vallone; ebbene, forse fu proprio la produzione televisiva, con la conseguente grande diffusione, che finì per bruciarlo, tanto che si tratta di un romanzo da tempo dimenticato (basti pensare che l’ultima ristampa nella collana Oscar Mondadori mi pare risalga al 2013 e non è che prima ce ne siano state a bizzeffe). Può essere che a interessare poco i lettori sia anche l’elevato numero delle pagine, ma ritengo più logico pensare che, dopo il grande clamore degli anni ‘60 e ‘70, ci si sia proprio dimenticati, nonostante che il romanzo possa essere avvincente, una saga familiare che va dalla fine del periodo napoleonico per arrivare al termine del Grande guerra, un po’ più di un secolo quello attraversato da quattro generazioni della famiglia Scacerni. In questo lasso di tempo c’è tanta storia d’Italia, con il nostro Risorgimento, il brigantaggio, i primi moti sociali, e proprio per questo risulta ancora più difficile comprendere l’oblio per un’opera che prima della seconda guerra mondiale uscì in tre volumi (Dio ti salvi nel 1938, La miseria viene in barca nel 1939 e Mondo vecchio sempre nuovo nel 1940), per poi essere riunificati in un unico libro con il titolo Il mulino del Po, pubblicato nel 1958 dalla Mondadori. Tutta la vicenda gira intorno a un mulino, il San Michele, ormeggiato sulle rive del Po alla Guarda Ferrarese, ed è appunto il grande fiume a determinare i fatti più salienti, con le sue improvvise e grandi piene, con avvenimenti che riguardano soprattutto la famiglia dei mugnai Scacerni, intorno alla quale comunque gravitano altri personaggi con le loro storie. In quattro generazioni ne capitano di tutti i colori, con disgrazie, arricchimenti, impoverimenti, insomma, nel bene e nel male, é la saga di una famiglia che finisce con il diventare la storia di un paese che attraverso le guerre riesce ad avere un’identità nazionale, a crescere fino a diventare un grande stato.

Il romanzo è ben strutturato, tanto che non ci sono mai degli alti e bassi, e del resto lo stile dell’autore è pregevole, riuscendo a far pervenire l’opera a toni epici, non tralasciando tuttavia e anzi dimostrando un attenzione particolare per i singoli, protagonisti a loro modo di una vicenda che finisce con l’essere corale, in una dinamica sociale che vede la presa di coscienza dei contadini della bassa ferrarese, quasi sempre gente povera, per non definire miserrima, la cui vita era tutta una lotta per non subire la furia della natura, le malatie endemiche e quelle ricorrenti, le tasse opprimenti che uno stato insensibile rinnovava di continuo.

Quindi, oltre all’aspetto strettamente storico, nel libro è presente anche un’attenta analisi sociologica, due elementi di pregio che da soli lo renderebbero degno di attenzione. E poi c’è la trama, di indubbio interesse, ben raccontata, insomma, per dirla in poche parole, Il mulino del Po è il classico caso di un capolavoro dimenticato. E se non è facile comprenderne i motivi, però sarebbe altrettanto facile riportarlo all’attenzione dei lettori; basterebbe che a scuola se ne parlasse per togliere la polvere del tempo da un’opera che dovrebbe essere invece oggetto di studi e quindi rientrare nei programmi scolastici.

Riccardo Bacchelli (Bologna 1891 - Monza 1985) scrittore italiano. Collaboratore della «Voce», fu poi tra i fondatori della «Ronda», accademico d’Italia e dei Lincei. Poeta, narratore, saggista, drammaturgo, ha al proprio attivo una produzione letteraria vastissima che si riallaccia sapientemente alla tradizione ottocentesca, soprattutto al filone manzoniano e a quello carducciano. Aperta alla rievocazione del passato e all’analisi storico-politica, sottilmente indagatrice delle motivazioni etiche dei fatti di cultura, la sua opera affronta i temi più diversi. I suoi versi (Poemi lirici, 1914; Parole d’amore, 1935 ecc.) innestano su una ricca esperienza autobiografica un discorso lirico-filosofico formalmente complesso che dà talora nel concettoso; e altrettanto può dirsi dei suoi scritti di teatro (Amleto, 1919; L’alba dell’ultima sera, 1949; Nòstos, 1957), ingegnosamente dialettici. La narrativa di B., densa di riferimenti eruditi, spazia dal quadro storico (Il diavolo al Pontelungo, 1927; Il rabdomante, 1936, premio Viareggio; Il mulino del Po, 1938-40; I tre schiavi di Giulio Cesare, 1958) al tema biblico (Il pianto del figlio di Lais, 1945; Lo sguardo di Gesù, 1948), dalla prosa satirica (La cometa, 1949) alla divagazione meditativo-fantastica in cui convergono ironia, moralità e un ricercato gusto figurativo (Lo sa il tonno, 1923), fino alla narrazione «privata» (L’Afrodite, un romanzo d’amore, 1967) e alla favola scanzonata (Il progresso è un razzo, 1975). L’elemento centrale della varia ispirazione bacchelliana è da identificarsi in una costante riflessione sulla condizione umana; ma ancora più significativo (e unificante) risulta lo stile, costantemente macchinoso e ornato, basato su una lingua che assorbe abilmente moduli idiomatici e dialettali entro un impasto illustre, teso a un vigoroso realismo. Di rilievo sono anche i saggi storici e critici di B., che testimoniano l’ampiezza dei suoi interessi culturali: La congiura di Don Giulio d’Este (1931), Confessioni letterarie (1932), Rossini (1954), Nel fiume della storia (1955), Africa fra storia e fantasia (1970).
Renzo Montagnoli

 

6 Gennaio

Faglia - Faulto (poesie). Avviamento all’esperanto

di Alessandro Ramberti

Fara  Editore

Poesia


La fede e la speranza

Tralascio il discorso dell’esperanto, una lingua universale che sembra  essere sempre in procinto di essere adottata, ma poi immancabilmente tutto cade; del resto mi interesso di poesie e sono quindi quelle di questa raccolta che vado a esaminare.

Premetto che Ramberti non è autore che verseggia con spirito dilettantistico, ma che invece è caratterizzato da una ricerca certosina delle parole giuste che, incastonate fra le altre, oltre a dare un senso estetico, forniscono esse stesse la chiave per una comprensione del tema esposto (Nel campo risplendono i papaveri / frammisti con grazia alle alte spighe / i corvi col nero del piumaggio / costellano a caso il coltivato / mettendo in risalto il biondo-grano / colorano il bello del creato.). Sembra un quadretto idilliaco e anche lo è, ma cela nel suo insieme una visione del perfetto equilibrio del creato, non nato e realizzato per caso, ma ideato e concretizzato da un’Entità superiore che non ci è dato di comprendere, ma solo di osannare. Comunque non è che le poesie della raccolta siano unite da un fil rouge, da un tema svolto che le accomuni, sono invece più frequenti riflessioni su valori e su evidenze, su aspetti e su sentimenti ( Gli amici ti aspettano pazienti / ti tirano fuori dallo Stige /gioiscono quando si è contenti.). Meglio non si sarebbe potuto dire del valore e dell’importanza dell’amicizia, ma, attenzione, di quella vera che ti aiuta a toglierti dai guai e che gioisce con te quando sei contento; poche parole, tre versi, apparentemente in facilità, e da un sentimento primordiale che da sempre accompagna l’uomo si dipana una visione e una definizione che non lascia adito a dubbi, che chiunque può ben comprendere. E poi, forse più che in altre, la raccolta presenta poesie intrinsecamente armoniose, dotate di una musicalità che deriva da una struttura equilibrata in cui nulla è dovuto al  caso, e questo senza tralasciare i contenuti ( Diventi viandante camminando / e prendi con te poche parole / le pause fra loro son distanze /    / le colmi coi passi con gli incontri / nel petto rifletti e immagazzini / le voci gli sguardi le posture / / ti trovi così – ti ridisegni / nei volti nei canti nell’ignoto / al vento che chiama ti consegni.). La vita appare così come un viaggio, un percorso a cui abbandonarsi secondo le decisioni di un destino non anonimo, ma capace di comprendere e di accettare l’umana debolezza, l’atavica paura, la lenta corrosione di un animo ferito (Le lacrime il pianto sono soglie / che aprono pagine intestine / conati che il Padre sempre accoglie.). Ma il percorso è anche letterario, addirittura filosofico, ed è sempre supportato dalla presenza della speranza, frutto della fede, che appunto consente di poter logicamente auspicare  tempi e vite migliori; ed ecco allora che mi viene il sospetto che la guida introduttiva all’esperanto, comprendente anche alcune poesie della raccolta tradotte in tale lingua, sia un simbolo di speranza, di un’attesa non catatonica, nè disperata di un uomo nuovo in un mondo nuovo. Sarà così? Forse sì, ma forse anche no, sebbene mi piaccia l’idea; probabilmente può sembrare una chimera, un sogno, ma è un sogno meraviglioso da cui è piacevole lasciarsi incantare.

Alessandro Ramberti (Santarcangelo di Romagna, 1960) laureato in Lingue orientali a Venezia, ha vinto una borsa (1984-85) per l’Università Fudan di Shanghai. Nel 1988 consegue a Los Angeles il Master in Linguistica presso l’UCLA e nel 1993 il dottorato in Linguistica presso l’Università Roma Tre. Ha pubblicato in prosa: Racconti su un chicco di riso (Pisa, Tacchi 1991) e La simmetria imperfetta con lo pseudonimo di Johan Thor Johansson (1996). In poesia: In cerca (2004, Premio Alfonso Gatto opera prima e altri), Pietrisco (2006, premi Poesi@&Rete e Cluvium), Sotto il sole (sopra il cielo) (2012, Premio speciale Firenze Capitale d’Europa), Orme intangibili (2015, Premio Speciale Casentino, II class. Tra Secchia e Panaro). Nel luglio 2017 è uscita la raccolta Al largo (Premio speciale Cittadellapoesia, III class. Premio Graziano). Con l’Arca Felice di Salerno ha pubblicato la plaquette Inoltramenti (2009) e tradotto 4 poesie di Du Fu: Paese in pezzi? I monti e i fiumi reggono (2011). Con la poesia Il saio di Francesco ha vinto il Pennino d’oro al Concorso Enrico Zorzi 2017. Nel 2019 è uscita la raccolta Vecchio e nuovo (Medaglia d’oro Premio Frate Ilàro 2019, II al Premio Universum Basilicata 2020, I al Premio Russell 2019, III al Premio Paolo Amato Città di Ciminna 2019, III al Premio Tra Secchia e Panaro 2019).
Renzo Montagnoli

 

4 Gennaio

La nota irriverente

di Claudia Piccinno

Introduzione di Nazario Pardini

Prefazione di Ester Cecere

Postfazione di Ignazio Gaudiosi

Edizioni Il cuscino di stelle

Poesia

 

Grazie, poesia.

La prima volta che ho un incontro con un poeta, un contatto che avviene attraverso una sua raccolta, sono invariabilmente perplesso perché ancora non sono in grado di conoscere le sue caratteristiche, il timbro potremmo definirlo della sua arte, e questo è tanto più difficile qualora si pretenda di entrare subito in sintonia con lui già dai primi versi, che ahimè scorrono impietosi senza che riesca a farmi un’idea. Ammetto che la pretesa è eccessiva, che occorre leggere e rileggere l’intera opera, tanto più che quasi sempre l’autore lascia una traccia per agevolare il lavoro del lettore e questa può essere la più varia, anche se molto più spesso è una poesia, assai frequentemente quella che dà il titolo all’opera. Ed è proprio così che Claudia Piccinno ha proceduto, tanto che troviamo un componimento che si intitola appunto La nota irriverente; non solo, però, ha fatto di più perché ha aggiunto una nota alla nota che dice: “ Questo componimento mira a evidenziare la complementarietà tra musica e medicina in un processo di cura per pazienti oncologici.”. Tutto semplice allora, perché basta pensare al binomio malattia oncologica e dolore per ritenere che sia una silloge che tratta del dolore?  E invece no, o meglio il dolore è un punto di partenza per approdare al più nobile dei sentimenti, a quello che riesce anche, se non a vincere, a mitigare la sofferenza, pur essendo esso stesso a volte fonte di dolore, e questo sentimento è quello che muove il mondo, quello che ci permette di vivere, quello che ci tormenta e ci delizia, è l’amore.

L’amore, quindi, che è visto in tutte le sue sfaccettature, quello per i propri cari defunti (Li ho riconosciuti a pelo d'acqua,e rano le anime dei miei cari tornati in altra forma a rendermi omaggio.), quello contrastato che stancamente si trascina alla sua fine (Convivio forzato esibito ostentato. Neanche lo spazio di un caffè una telefonata segreta un libro galeotto. Si contano i like per misurare la riuscita dell'inganno.Si indossano gli abiti della festa), quello di un legame già finito, ma che ci si ostina a mantenere in vita (filo che rammenda strappi non voluti), quello che ormai cessato senza speranza si trasforma in delusione rabbiosa, in odio ossessivo ( possa bruciare nel tuo fuoco fatuo ).  Ma, se non c’è più l’amore, cosa resta? Come è possibile procedere non a tentoni in un’esistenza apparentemente senza meta? La soluzione c’è ed è nello scavare in noi stessi, nello scoperchiare gli angoli più reconditi del nostro animo, nel gridare la nostra presenza aprendoci al mondo grazie a un’arte sublime, la poesia ( Fu il caso o la buona sorte la poesia fatta persona che ripulì la polvere tiranna e lucidò ingranaggi senza vita. Riprendo la mia corsa ). Sì, alla fin fine, partendo da una nota irriverente siamo infine approdati a qualcosa di riverente, alla gioia di poter dare tutto se stessi con la poesia, che è comunque sempre un atto d’amore.

E quindi allora dico grazie, poesia, ma anche grazie Claudia Piccinno.

Claudia Piccinno ​nasce a Lecce nel 1970, ma si trasferisce giovanissima in Lombardia e poi in Emilia Romagna dove attualmente vive. Presente in oltre sessanta raccolte antologiche, già membro di giuria in vari premi letterari a carattere nazionale e internazionale.
Insegnante di ruolo nella scuola primaria, Laurea in Lingue e Letterature straniere.

Per ulteriori informazioni e per quanto concerne il corposo numero di opere pubblicate è opportuno un rimando al sito personale  http://claudiapiccinno.weebly.com/
Renzo Montagnoli

 


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