Racconti di Vincenzo Patierno


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Leggi le poesie di Vincenzo

La mia storia letteraria
Ebbi i natali, il 05/06/1966, in quel di Napoli, dove tutt'ora risiedo; con la mia città ho un rapporto d'amore conflittuale, perché davvero la vorrei vedere diversa e cambiare.
Iniziai a scrivere i miei pensieri nei primi anni dell'adolescenza, ispirato, si fa per dire, dal dolore per la morte della mia nonna Maria, poi dopo qualche anno smisi di scrivere, nessuno ha mai letto quegli scritti e tantomeno rammento il loro contenuto, non so nemmeno se si potevano definire poesia; solo qualche anno fa si è riaccesa la fiammella dell'ispirazione: era un pomeriggio nel quale dopo essermi svegliato dal pisolino pomeridiano, ispirato, presi il taccuino, la penna e scrissi la poesia "Il sogno". Sono consapevole che la passione fa in modo di far appassionare, il talento fa sì che la passione sia ben svolta, ma poi si deve studiare per capire e comprendere e io penso che ho ancora tanto da comprendere della poesia; però è l'unico modo, la scrittura e la poesia, tramite il quale mi sento libero e mi esprimo meglio. Il messaggio predominante che desidero dare con la mia poetica è sulle problematiche sociali, marcando i problemi di questa società un po' ambigua, più delle volte triste e scellerata. Non disdegnando altre tematiche, essendo che ritengo la poesia un mondo immenso e fantastico.
Nel giugno del 2014, con la Schena Editore ho la possibilità di vedere pubblicata la mia prima raccolta di poesie, racchiusa nel mio libro Abbraccio alla vita. Cod.
ISBN 88-6806-053-4
Il titolo del libro è dovuto alla poesia da cui prende il nome, inserita in esso, in cui si racconta della mia esperienza extracorporea durante un intervento chirurgico.
Abbraccio alla vita significa: " Non essere una minaccia ". Sentirsi protetti, essere compresi… Poi la tradizione dice che quando si abbraccia qualcuno, in modo sincero e disinteressato, si guadagna un giorno in più di vita ed io lo faccio attraverso la poesia.
Non cito i vari riconoscimenti fin ora aggiudicatomi essendo che li reputo unicamente gratificazione personale.
Vincenzo Patierno

 

Link dell'e-book del romanzo
https://www.ivvi.it/product/1977-alla-valle-dei-mulini-di-gragnano/
 

Sinossi

Sinossi di 1977- Alla valle dei mulini di Gragnano, di Vincenzo Patierno, edito IVVI
                   
Un reparto scout si reca nella Valle dei Mulini di Gragnano per un campeggio, che poi rappresenterebbe
il primo campo del narrante.
Questo non fa di “1977-Alla valle dei mulini di Gragnano”  romanzo sullo scautismo, neppure lo vuole essere.
La vita dei campeggiatori è quasi marginale, solo per alcuni di essi non è così: come per Aurelio,
che si trova a vivere una storia d’amore con Anna, una ragazza che vive tra l’abitazione ad Amalfi e la valle, all’interno di uno dei mulini, trasformato, negli anni addietro, in un’abitazione estiva, insieme al padre keir, uno scozzese ex pilota aviatore della RAF, trovatosi nella valle dopo essersi paracadutato, nel 42,
perché il suo aereo, colpito, stava precipitando; come per Andrea, che durante l’escursione personale incontra Matilde, la quale lo conduce alla scoperta del piacere fisico; come per Guglielmo, costui
è quel protagonista che, insieme ad altri personaggi frequentatori della valle, fa del romanzo un genere principalmente giallo; come per lo stesso autore, all’epoca appena undicenne, che oltre ad essere colui
che narra, e protagonista di alcune birichinate, è la pedina che indirizzerà alla soluzione di un fondamentale interrogativo.
La suggestiva valle dei mulini, dove per l’appunto sono ubicati i macinatoi, costruiti intorno al XIII secolo
per la lavorazione della farina, è una lingua di terra tra i monti Lattari, facente parte del comune
di Gragnano, anch’esso scenario principale, come lo sono Amalfi e Lettere.
L’accaduto è frutto unicamente dell’immaginazione dello scrivente, alcuna vicenda è realmente accaduta, come i personaggi, neppure nella sola descrizione; gli unici citati, anche nella descrizione, realmente esistiti, oltre naturalmente a Vincenzo Patierno, sono il nonno Vincenzo, padre Vincenzo e lo scout Gino; citate, questi tre, per l’affetto del loro ricordo.


 

Shiarrael e Mattia
Shiarrael è nel giardino d'inverno, dietro una vetrata formata da una struttura con vetri quadri
e chiari; ad entrambi i lati, accanto ai muri, una fila colorata dalle tinte calde.
Garofani; gerani; ciclamini; alberelli di rosa; erica; ficus; un alberello di limone; una felce;
piante rampicanti, tra cui un bouganville e altra flora che con il tutto è a comporre ciò che lei definisce, orgogliosamente, un grazioso boschetto, nel cui interno si trovano delle gabbie che ospitano dei canarini,
un tavolino con intorno quattro sedie, con sopra la seduta e accanto alla spalliera dei grossi cuscini,
in ferro battuto e una panchina in marmo su cui è seduta, con le mani, giunte con le dita intrecciate,
che poggiano su un libro posto sulle cosce.
La donna, col marito Mattia, risiede a Cernusco sul naviglio, comune dell'hinterland milanese,
zona della Martesana.
Il matrimonio gli ha regalato quattro figli che, ormai grandi, hanno preso la loro strada, tra lavoro
e proprie famiglie; hanno molti più nipoti che prole, che però non possono godersi quanto vorrebbero, essendo che non vivono tra quelle zone, come i propri genitori.
Sono tanti anni che abitano a Cernusco, nella quale realtà sono integrati bene,
superando la diffidenza dei primi tempi nei loro confronti da parte dei cernuschesi.
Entrambi, che si conoscono da ragazzi, sono nativi di Napoli, se pur Shiarrael e di origine rom.
Anni settanta, Mattia ogni domenica mattina accompagna nonna Pina alla cappella di famiglia
al cimitero di Santa Maria del Pianto.
Nel tempietto, la donna e le cognate si adoperano in grandi pulizie, facendo quasi a gara a chi fatica di più: tolgono la polvere, lavano marmi, pavimento, lucidano il lampadario in bronzo, i portalampade in bronzo,
i portafiori a cui cambiano acqua e fiori, luci votive, cambiano i paramenti sull'altare, puliscono le sedie;
un affaccendarsi come se durante i giorni precedenti della settimana i defunti residenti avessero organizzato feste e festi.
Alla fine, accomodatesi sulle sedute sui due lati della cappella al di sotto dei loculi, recitano il rosario.
Una volta al mese, insieme ai propri consorti, quelli ancora di questo mondo, partecipano alla Santa Messa lì all'interno, celebrata dal prete della chiesa del cimitero.
Egli è un sacerdote a modo suo: oltre ad avere il vizio di giocare d'azzardo, nel retrobottega
di un bar/bigliardo, spendendo offerte dei fedeli, ha come perpetua la propria comare,
con la quale convive da moltissimi anni, con cui ha un figlio, fattolo crescere, dalla nascita,
dai genitori di lui in un paesino della Basilicata.
Mattia, che è sempre l'unico bambino della comitiva, scorrazza all'esterno, raggiunto ogni tanto dalla voce
di nonna Pina, che gli chiede dove sta e cosa stia facendo, che poi, se pur lui è un continuo combina guai,
cosa può mai fare in un cimitero per passare il tempo?
Al massimo può togliere fiori e foto da loculi e tabernacoli funerari, ma non di più.
A cento di metri di distanza dalla cappella vi è quella di Antonio de Curtis in arte Totò, lì seduta, sui gradini sotto il marmo a forma di pergamena su cui è incisa la Livella, v'è sempre una rom in cerca
di elemosina, in compagnia di una ragazzina intenta a nascondersi tra l'ampia e lunga gonna della donna.
In una delle consuete giornate, il ragazzo, non curante delle raccomandazioni avute di stare lontano
da tali persone, conoscendo tutti i luoghi comune sul perché deve farlo, si avvicina alle due e presa
una caramelle dalla tasca la porge alla bambina, chiedendole come si chiami, lei, con un filo di voce, gli dice di chiamarsi Shiarrael, nello stesso tempo tende timidamente la mano per ricevere la caramella.
Mattia gli dice il suo di nome, poi ritorna alla cappella.
Ogni domenica, recatosi dalla nonna, prima di uscire non dimentica mai di farsi dare le Mou da poter offrire alla fanciulla quando è a trovarla.
I due, le volte che s'incontrano, giocano insieme sullo spiazzale che si affaccia sul belvedere,
dove lo sguardo arriva al mare, fino alla penisola sorrentina e all'isola di Capri.
Il tempo passa e Shiarrael inizia a sbocciare, assumere quei lineamenti femminili che la fanno una piccola donna.
Da una domenica come tante non la si vede più in compagnia della donna seduta sui gradini sotto
la pergamena, Mattia, anche se spera sempre di rincontrarla, non si avvicina mai alla rom per chiederle
della ragazza e il perché non è più ad accompagnarla.
Scorono le stagioni, lasciandosi alle spalle le età.
Mattia, ormai diciottenne e fresco di diploma, in una sera d'autunno, è imbarcato sul treno, che partito dalla stazione centrale di Napoli, lo sta conducendo nel capoluogo lombardo.
Sono circa le sette e quaranta quando giunge a Milano, dove trova ad attenderlo, sulla banchina del binario, la zia Graziella, che ha preso per lui appuntamento con il capo del personale, suo amico, di un'azienda chimica, essendo il giovane un perito chimico fresco di diploma.
Il colloquio va bene e viene assunto, ma chissà quanto grazie alle grazie della zia.
Con l'impiego milanese Mattia corona il sogno di abbandonare una città con un contesto che non ha mai sentito vestito adatto a lui.
Per circa un anno risiede a casa degli zii, contribuendo in parte al ménage familiare, per non pesare,
ma una mattina confida ai parenti la volontà di volersi affittare una casa per avere una propria autonomia.
Dopo un periodo di ricerca, trovato un appartamento adatto alle sue possibilità economiche, inizia la vita
da single.
Mattia, quando il tempo lo permette, e il tempo di Milano non è quello di Napoli che sono più le volte
che lo permette, ama trascorre la giornata domenicale in giro per la città.
E' una di quelle occasioni, si è nel pomeriggio inoltrato, il giovane si trova in una delle stazioni metropolitane del centro cittadino, in attesa del metrò che giunge nella zona dove abita, quando sente
una mano che si poggia sulla spalla, di soprassalto si gira: è una giovane donna.
Il giovane si chiede tra sé e sé se sia persona che conosce, essendo che non ha un viso, in memoria, conosciuto.
<< Ciao, sei Mattia?
Mi sembri tu, il viso è quello del bambino che ricordo.
Ti ricordi di me, se sei tu e non mi sono sbagliata?>>
Mattia inizia ad aprire i cassetti della memoria e da uno di essi esce il ricordo di quando giocava
con una piccola rom sullo spiazzale del cimitero, dove lo sguardo arriva al mare, fino alla penisola sorrentina e Capri.
Dice di essere lui quel ragazzo, esclamando il nome di lei: Shiarrael!
In due si abbracciano affettuosamente, dopo di che Mattia<< Come mai non venisti più al cimitero tutto
ad un tratto e cosa fai qui a Milano?>>
Shiarrael << Dovetti fuggire!
La donna con cui venivo al cimitero, che era la sorella di mio padre, una mattina mi venne a prendere
alla baracca insieme ad altre due donne, ero sola, mi chiesero se volessi seguirle, mio padre sapeva
che sarebbero venute a prendermi, almeno così mi dissero, le seguii senza obiettare.
Ci dirigemmo fuori del campo, raggiungemmo con vari mezzi Agnano, arrivati ai semafori dell'incrocio
dove v'è la strada per le concessionarie ci fermammo.
Le tre, in disparte, si misero a confabulare sottovoce, dopo poco accostò una grossa macchina nera,
a quel punto mia zia mi venne a prendere per il braccio, salimmo a bordo, l'uomo, che aveva un'aria tutt'altro che raccomandabile, prima di rimettere in moto, consegnò alle tre una busta con un mucchio
i soldi, le donne a quel punto scesero, restai da sola con lui seduta tremante sul sediolino posteriore, l'auto s'incamminò, giunti a Cavalleggeri d'Aosta, per il traffico, l'auto rallentò tantissimo, fu allora
che presi coraggio e mi lanciai al difuori, mi misi a correre, mi trovai dinanzi alla stazione, vi entrai, raggiunsi i binari, in quell'istante giungeva la metropolitana, salii sul treno, arrivati alla stazione di Napoli raggiunsi
i binari e m'imbarcai sul primo treno in partenza, mi sedetti in un vagone accanto a una coppia d'anziani,
che vedendomi impaurita mi chiesero cosa fosse successo, glielo raccontai, anche per questo quando venne il controllore mi pagarono il biglietto per Milano, facendo così in modo che non dovessi scendere alla prima fermata.
A Milano ho vissuto per strada, chiedendo l'elemosina, un mese fa, passando dinanzi ad una trattoria
a Quarto Oggiaro lessi che cercavano una sguattera, entrai chiedendo di lavorare, il proprietario subito acconsentì, mi sembrò strano che vedendo una rom gli desse il lavoro, iniziai il mio compito lavorativo.
La sera tardi, prima che me ne andassi, l'uomo mi chiese se avessi dove dormire, dissi no e a quel punto
mi propose di dormire nella stanza al disopra del locale, da quella sera non chiudo occhio, essendo
che debbo barricarmi all'interno perché lui cerca ogni modo e pretesto per entrare per farmi sua.
Mattia, senza indugio, gli chiede se volesse essere accompagnata per prendere le sue cose e trasferirsi
a casa sua, l'assicura che non ha da temere, lo fa soltanto per l'amicizia che li lega da piccoli, gli consiglia anche di abbandonare quel lavoro.
Da quel giorno i due vivono sotto lo stesso tetto.
Mattia gli cede la sua camera, mentre lui si sistema nello studio.
Dall'inizio della convivenza lei si occupa delle faccende di casa ed egli lavora per il sostentamento
e per le spese varie.
Una grande amicizia può tramutarsi in un sentimento diverso e non programmato:
in un giorno come tanti i due s'incontrano in corridoi, gli sguardi, inaspettatamente diversi
da quelli di prima, s'incrociano, i due si avvicinano, ad un palmo l'uno dall'altro si stringono cercando entrambi le labbra dell'altro: è l'inizio di un sentimento diverso dall'amicizia, è amore.
In quell'appartamento in affitto, insieme trascorrono tre anni, nei quali concepiscono e iniziano
a crescere il primo figlio.
Mattia ha la possibilità di avere un secondo lavoro per incrementare la possibilità di spesa,
propostogli dal cognato della zia Graziella, che lui accetta: lavorare nel laboratorio di quest'ultimo.
Una sera, prima di cena, appena rientra in casa, Mattia ha la notizia, da parte di Shiarrael, che diventerà
padre per la seconda volta, entusiasta decide che la domenica successiva, per festeggiare, andranno a fare un pic-nic nella zona della Martesana.
Nel giorno feriale, organizzatasi per la scampagnata, la famigliola si mette in viaggio.
Ed è quando giungono a Cernusco sul naviglio che vedono per la prima volta, con un cartello indicante
che è in vendita fisso su di essa, la casa con la veranda che poi diventerà un giardino d'inverno.
Il giorno seguente, tornato da lavoro lui, i due si recano in agenzia per iniziare le pratiche per acquistare quello che ad oggi è il loro focolare, nel quale, la prima volta, accederanno da coniugi.

 

La terra
La casa comune


Gaia, in quel scorcio d'infinito avesti origine; giovincella di natura focosa e inaccessibile, ma riuscì a mutare
e divenisti per incanto mansueta e praticabile.
Il brodame divenne maggior porzione di te, il ruggito degli irrequieti ancor scuoteva e si rizzava,
e il predestinato, ahimè o ben così, era a confinarsi in disagevoli spelonche, ché pur preda.
Tu non ansimavi quasi più.
Ad un tratto, l'immemore eletto s'isso sulle gambe, iniziò a pretendere i tuoi servigi da ingordo figliastro.
Abbandonò clave e pietre.
Il comparir di fumanti pipe episodiche le lucciole all'orizzonte.
Con il collassar dei giganti a settentrione, il sempre meno lattee le prosperose guglie,
la persistenza di foschia che intrisa l'etere, il man mano più cagionevole il territorio
su cui non è possibile muovere passi, se pur sé riuscito a calpestare, e l'addensarsi dei verdi polmoni,
si assiste al tuo mutare, se pur non l'hai bramato. Pian piano hai iniziato a divenir nel corso
costantemente meno ubertosa.
Il predestinato, imperterrito, seguita a considerarti alla stregua di un limone.
Rantolo inascoltato il di tuo, in frequenza decifrabile; un omicidio suicidio è a perpetrarsi?
Ai posteri l'ardua sentenza?
Tronfi paperoni son svezzati con Risiko e Monopoly.
Codesto immemore, la sua generazione e quella contemporanea, saranno da tempo tornati a te
per il poter vivere il non perseverare o il perseverare; due viottoli, con il primo, suppongo, di pochi passi.
Gaia, dimora comune, forse unica del tuo genere, l'immemore eletto, resa te decrepita bagascia, studia
la maniera per l'abbandono, per migrar nel luogo rosso; ivi sarà la sua natura piaga parassita?


Sturiella 'e Natale
Stammatina, 'ntramente stevo dinto 'a stanzulella meja, aggio sentito na vucella ca me chiammava d''a foro 'o balcone << Viciè! Viciè! >>
Songo asciuto sentenne ca vucella se faceva 'nsiste<< Viciè! Viciè! Viciè! >>
Fore là, appuiato 'ncoppo 'a chianta 'e geranio, ce steve nu passero, d''e penne se vedeva ca er vicchiariello.
Ce so' ghiuto 'ncontro alluccuto << Marò! Piccerì sì propeto tu ca me chiamma?
E' propeto 'a toja 'a vucella 'o è na fantasia? >>
<< Viciè stamme 'a sentì, te vurria cerca 'n attenzione. >>
<< 'N attenzione! 'E qual attenzione vuò 'a me?>>
<< Ca Scrive na puoesia p''e 'o Santo Natale.>>
<< Piccirì, sì pur veco ca 'e penne toje so' chiù ianche d''e zirule meje, nu so' pueta e po' 'e sapè ca d''a quanno er criaturo,
tantu tiempo fa, into 'a 'sti feste, l'anema meja s'accupa; cuieto vurria durmì nu suonno futo pe' tutto 'o tiempo d''e ceremmonie:
'a lummenaria chiù lucente, l'apparamiento chiù bello, ogne tipo 'e festeggiamento, ogne magnata sapurita
e 'o rialo chiù desiderato mai m'hanno allerato...
Te vurria fa' cuntento, sì sulo l'anema nu fosse appucundruta 'e sapesse scrivere parole juste p''a nasceta chiù Sacra,
int''a qual Cristo è vunuto 'o munno c''o penziero 'e dà cuscienza 'a nuje uommeni;
ma fujme tanto "santarielli" c''o mettettemo 'ncoppo 'a croce attortamente.
Dinto 'a chisti juorni 'a priezza nun essa essere p' 'o rialo avuto 'o rato, ce fa' vedè ca ce sbattimmo 'mpietto pe' cumparì 'e core.
Avesseme avè crianza p' 'o mutivo Sacro 'e 'stu tiempo... >>
'O passero me stato 'a ascutà, po', doppo ca c'aggio dato doje mullechelle 'e nu pucurillo d'acqua
se n'è vuliato into 'a nu cielo lucente...


Storiella di Natale
Stamattina, mentre ero dentro alla mia stanza, ho sentito una vocina che mi chiamava da fuori al balcone <<Vincenzo! Vincenzo!>>
Sono uscito sentendo che la vocina diventava insistente <<Vincenzo! Vincenzo! Vincenzo!>>
Lì fuori, appoggiato sopra la pianta di geranio, ci stava un passero, dal piumaggio si notava che era vecchierello.
Ci sono andato incontro meravigliato << Madonna! Piccolo sei proprio tu che mi chiami?
E' proprio la tua la vocina o è una fantasia?>>
<<Vincenzo ascoltami, ti vorrei cercare una cortesia.>>
<< Una cortesia! E quale cortesia vuoi da me?>>
<< Che scrivessi una poesia per il Santo Natale.>>
<< Piccolo, se pur vedo che le tue penne sono più bianche dei miei capelli, non sono un poeta
e poi devi sapere che da quando ero bambino, tanto tempo fa, durante queste feste il mio animo s'incupisce;
beato vorrei dormire in un sonno profondo per tutto il tempo d'ogni celebrazioni:
la luminaria più splendente, l'addobbo più bello, ogni tipo di festeggiamenti, ogni buona mangiata
e il regalo più desiderato mai mi hanno rallegrato…
ti vorrei far contento, se solo l'animo non fosse triste e sapessi scrivere giuste parole per la nascita più Sacra,
durante la quale Gesù è nato con l'intento di far riflettere noi uomini;
ma fummo tanto "bravi" che lo mettemmo sulla croce ingiustamente.
Dovremmo avere rispetto per motivo Sacro di questo periodo…>>
Il passero mi è stato ad ascoltare, poi, dopo che gli ho dato qualche mollichina e un pochino d'acqua
se ne è volato tra un cielo terso…


La storia di Teresa la balia
Teresa, la lattarola per buona parte dei puteolani, aveva compiuto da poco trent'anni
ed era una bellissima bruna di struttura robusta longilinea e prosperosa,
nonché moglie di Vincenzo, belloccio e vanaglorioso di una gloria fatta di chiacchiere;
con lui aveva quattro figli, tutti maschi.
L'uomo da sette anni, dopo aver svolto lavori saltuari, più perché non gli piaceva tenersi
un'occupazione stabile, lavorava in un'impresa edile di Milano.
Teresa e Vincenzo si erano conosciuti quando entrambi erano poco più che diciassettenni,
dopo un anno e mezzo di fidanzamento, dato l'ostilità alla relazione da parte dei genitori di lei,
originaria del quartiere di Fuorigrotta di Napoli, avevano compiuto la classica fuitina.
Il padre e la madre non vollero più saperne della figlia, soprattutto quando seppero che era incinta
dell'allor primo figlio.
Nei primi tempi andarono ad abitare nella casa della famiglia di lui, in una traversa alle spalle del porto
di Pozzuoli, ma con un figlio avuto quand'ancora erano adolescenti e un altro arrivato da qualche mese
lì non potevano più risiedere: in due stanze, con il bagno e la cucina sul terrazzino, vi abitavano loro
e prole, i genitori di Vincenzo e una sorella mamma di cinque figli, più il marito di costei
quando tornava dai viaggi fatti sulle navi mercantili.
L'alloggio in cui si trasferirono e l'intero stabile di cui faceva parte, in via Napoli a Pozzuoli,
appartenevano a don Armando, un quasi cinquantottenne aitante di bell'aspetto;
anche se nei giorni lavorativi a guardarlo ti sembrava quasi da elemosina nei giorni domenicali
e delle festività faceva sfoggio di vestiti di ottima sartoria.
Costui possedeva pure una bottega di rigattiere locata al piano terra dello stesso palazzo,
che dava sulla strada, tale attività era unicamente di facciata, quella principale era di strozzino
e intrallazzatore; la maggior parte della merce esposta e in vendita nel negozio veniva sottratta
con forza alla gente che per sventura o bisogno cadeva tra i suoi tentacoli e non riusciva ad estinguere prestiti maggiorati dagli esosi interessi aggiunti.
Vi erano pagamenti che riscuoteva in natura da donne senza disponibilità di moneta
e correva voce che alcune di loro erano a partorire la sua prole,
oltre a quella che aveva con la sua consorte.
Vincenzo e Teresa di certo non si sarebbero potuti permettere di andare ad abitare nel millenovecento cinquantasette in via Napoli, dato la disponibilità economica: lui un lavoratore saltuario
fino a qualche anno prima e ora un operaio, lei una nutrice.
( A tale attività venne avviata dall'ostetrica che si occupava dei suoi parti, glielo propose, dato la sua predisposizione mammaria, dopo la nascita del secondo genito.
La sua opera raggiungeva i comuni limitrofi e il suo nutrimento arrivava, quando richiesto,
all'Annunziata di Napoli.
Per ogni poppata per seno si faceva pagare duecentosettanta lire, il prezzo di tre litri di latte d'allora.)
I familiari del puteolano continuavano a contribuire al ménage familiare per quello che potevano, soprattutto con vestiari per i ragazzi.
Il pseudo rigattiere aveva messo gli occhi su Teresa: fece in modo di allontanare il marito,
facendolo assumere nell'impresa di un suo cugino nel capoluogo lombardo e offrì loro il pigione
a un prezzo quasi irrisorio e non rifiutabile, tutto per averla nella sua zona.
Se a Vincenzo lo conosceva da sempre o quasi, era amico del padre dall'infanzia, a Teresa la conobbe
dopo che i due si sposarono e come faceva con tutte le donne e fanciulle che adocchiava
cercava il modo e l'opportunità di sedurla, senza porsi alcun problema.
Lei non incrociava mai lo sguardo di altri uomini, camminava diritta per la sua strada
eppure quando don Armando la vedeva passare dinanzi al negozio o la incrociava in giro per il vicinato oppure per Pozzuoli con una scusa l'avvicinava canticchiandole << Voglio naufragar nel profondo Suez,
inerpicarmi su quei promontori ove guglie campeggiano, valicare il bradisismo,
ruzzolare fin alla foresta nera e lì la caldana discendere.>>
Teresa era innamorata del marito, ne sentiva la mancanza, esso di rado tornava a Pozzuoli: lo faceva all'incirca ogni anno e mezzo; il Natale passato come altri lo aveva trascorso sola con i suoi figli
e con quest'ultimi ogni domenica mattina si recava a piedi, facendo un cammino costiero
di circa due chilometri, alla chiesa di Gesù e Maria, prima dell'inizio della prima messa
alla quale partecipavano, nel cui interno si trovava la statua raffigurante San Vincenzo,
a cui porgevano raccomandazioni e preghiere.
Giunse la prima settimana di aprile, la donna sperava che per la Santa Pasqua, che cadeva il ventuno
di quel mese, il marito fosse a casa con la famiglia, ma dopo un paio di giorni dalla domenica delle Palme, prima che alla mattina uscisse per le varie poppate programmate, il postino busso alla porta
e le consegnò un telegramma, lei pensava che annunciasse l'arrivo di Vincenzo, mentre il mittente,
il datore di lavoro del coniuge, le comunicava l'improvvisa morte dell'uomo, avvenuta sul posto di lavoro.
Non finì nemmeno di leggere la notizia che diede un urlo disumano, crollando a terra.
Rinvenuta trasudante di struggente sconforto si rese conto che non aveva la possibilità economica
per raggiungere il defunto a Milano, allora la sua vicina, accorsa, si propose di accompagnarla
dall'unica persona che avrebbe potuto aiutare la poveretta: don Armando!
Fu lieto di operarsi perché Teresa potesse raggiungere il capoluogo lombardo.
La donna partì sola, la sera stessa, i suoi figli li affidò all'anziana e affranta, per la funesta notizia, suocera.
Il treno giunse nella stazione centrale di Milano la mattina del giorno seguente.
Teresa era frastornata e più che giù di morale, aveva trascorso la notte di viaggio in bianco, avrebbe voluto nel corso degli anni poter fare una sorpresa al povero uomo ma non aveva mai avuto la possibilità: doveva accudire quattro creature, il marito le mandava o le portava, quando scendeva a Pozzuoli,
solo parte degli stipendi guadagnati.
Dal finestrino vide un uomo che aveva tra le mani un cartone con la scritta: attendo sig. Teresa,
moglie di Vincenzo.
Era un collega del marito mandato dal titolare a prendere la donna per condurla dov'era la salma; quest'ultimo dell'arrivo della vedova venne avvisato dal cugino.
Preso il bagaglio scese dal treno raggiungendo chi l'attendeva e insieme uscirono dalla stazione,
dove raggiunsero un'auto.
Lasciarono Milano e si diressero ad un comune limitrofo.
L'autovettura si fermò davanti ad una chiesa, l'autista disse alla donna che erano arrivati e di scendere; anche lui sarebbe sceso.
Entrambi entrarono.
Il compagno di lavoro di Vincenzo si fermò lungo la navata, sedendosi su di una panca, Teresa proseguì
fin nei pressi della bara, accanto alla quale vide in ginocchio una donna di alcuni anni meno di lei e vicino, in piedi, un bambino di circa tre quattro anni, fotocopia spiaccicata del consorte.
La donna capì il perché delle prolungate assenze di quest'ultimo e del non ricevere molto sostentamento per lei, la prole e le spese per la casa e quindi s'asciugò le lacrime, voltò le spalle all'altare,
raggiunse l'accompagnatore e gli chiese se potesse riportarla in stazione,
lì attese la partenza del treno direzione Napoli.
Giunta a Pozzuoli, senza recarsi dai figli e dalla suocera, si recò nella bottega di don Armano,
egli credeva che volesse dargli ragguagli sulla vicenda e dell'eventuale trasferimento del morto,
ma prendendolo da parte, lontano da orecchie indiscrete, gli disse << Appena puoi vieni a casa, vorrei sentire bene la canzoncina che quando mi vedi canticchi.>>
L'uomo intuì, riferì al dipendente di prendersi il resto della giornata di festa, chiuse la bottega
e raggiunse la donna.
Teresa smise di dare ad allattare soltanto i poppanti: iniziò a dare a poppare coloro
che avevano la possibilità di farle fare una vita migliore e aiutarla a crescere i frutti
avuti nel matrimonio.
Nel giorno di Pasqua la tavola, intorno alla quale sedeva con i figli, era adeguatamente bandita.
Vincenzo non venne condotto al cimitero di Pozzuoli, restò dove morì
e il resto della famiglia non fece più processioni domenicali alla chiesa di Gesù e Maria.


Il terno di Sant'Antonio

I
Ciro fu uno di quegli italiani che, nel febbraio del 1946, per primi, dalla stazione di Milano, presi il treno, emigrarono in Belgio con la prospettiva di un'occupazione: si trovò a lavorare da minatore nella miniera
di carbone a Marcinelle; firmò un contratto di dodici mesi, alla scadenza del quale ritornò a Napoli.
Si rimise a fare il lustrascarpe nei pressi della stazione ferroviaria sotterranea di piazza Camillo Benso
conte di Cavour, come aveva iniziato a fare agli inizi del 44 avviato dal padre, che possedeva una bottega
di ciabattino a Salvator Rosa.
Nel quarantanove si sposò con Anna, la figlia del panettiere di Porta San Gennaro, che conosceva,
si può dire, da quando entrambi erano in fasce; lei, da alcuni anni, lavorava presso un laboratorio sartoriale
in via Duomo.
Andarono ad abitare in via Fontanelle nel rione Sanità, in un'abitazione in affitto avente una stanza
in cui dormire e pranzare, la cucina e il bagno, al primo piano di una palazzina con accanto
al portone d'ingresso un'edicola votiva dedicata a Sant'Antonio da Padova.
Non avendo né l'opportunità di guardare la televisione a quei tempi, né alcun svago, quand'erano
in casa, chiuse le imposte al piccolo balcone, s'impegnavano nell'intento di accrescere
l'esiguo nucleo familiare, senza riuscirci; ad ogni giungere del periodo di menorrea, del mese seguente,
era un versare, da parte di entrambi, lacrime d'avvilimento.
Si era giunti nei primi giorni d'agosto del cinquantuno, già nelle prime ore di luce il mese faceva percepire
il suo essere il periodo dell'anno più caldo, Anna uscita dal portone dello stabile come ogni mattina si fermò dinanzi all'edicola, fattasi il segno della croce prese la strada per recarsi al lavoro, ma fatti due passi
si sentì chiamare da una voce a lei familiare, voltatasi vide che a chiamarla era stata colei a cui aveva pensato: donna Nunzia.
Costei, nel rione Sanità, veniva chiamata lo stregone dei Vergini, abitava per l'appunto in via Vergini,
il luogo in cui si svolgeva il mercato di quartiere, lavorava come infermiera all'ospedale San Gennaro
e aveva aiutato a partorire, oltre a svolgere ogni opera infermieristica, in casa molte donne delle zona, compreso donna Antonietta, la madre di Anna; le si dava il merito di riuscire, al contrario dei fallimenti medici, a far restare incinte figliole, che maritatesi, non riuscivano a sfornare marmocchi.
Donna Nunzia giunta ad un metro da colei che aveva chiamata<< Piccerè, per me sei sempre la mia piccina, come tutti quelli che ho fatto sbocciare restano i miei piccoli, ma quando mi dai il piacere d'accogliere
il tuo nato, ma vi date da fare tu e Ciro? >>
Anna<< Cero donna Nunzia, come non vorrei darvelo! Ogni mese è 'o chianto 'a Matalena
da parte di entrambi, poi ci rincuoriamo a vicenda e continuiamo a tentare.>>
( 'O chianto 'a Matalena, pianto della Maddalena, è un pianto intenso, di dolore e sconforto.
Il modo di dire fa riferimento al pianto di Maria Maddalena accanto alla croce di Gesù. )
Donna Nunzia<< Come ogni volta che posso sono andata dalle anime del Purgatorio del cimitero
e uscita ho fatto apposta la strada che mi portava da queste parti, volevo tue notizie,
ora faccio il mio solito giro, in ospedale ho il turno di notte, quando ritorni da lavoro vieni a casa mia,
prima che vada a prendere servizio, parliamo un po', vediamo di risolvere questa cosa.
Però quello che ti voglio dire è che non ci devi mettere il pensiero se resti o meno incinta, certe cose vanno fatte per il piacere di farle, non per avere per forza un risultato, non ci devi pensare!>>
Donna Nunzia diede un bacio sulla fronte ad Anna per salutarla e ognuna riprese la sua strada, quest'ultima nel tardi pomeriggio, uscita da lavoro, si precipitò a casa di lei.
Trascorse il mese corrente senza che cambiasse nulla, ma il mese settembrino fu per Anna e Ciro auspicio
di primavera e a giugno del cinquantadue, all'alba del tredici, a Sant'Antonio, la levatrice fu a prendere
tra le mani la figlia dei due, Antonietta; chiamata così sotto suggerimento di donna Nunzia.
Anna partorì in casa e dopo essersi stabilita divenne sua consuetudine accendere un lumino, ogni sera,
e porlo ai piedi dell'edicola, chiedendo al Santo, come preghiera, di vegliare sulla piccola e ogni domenica, dopo la prima poppata, si recava con la figlia nella piccola chiesetta del cimitero delle Fontanelle,
ove vi era un antico Crocifisso posto dietro l'altare di marmo.
Il complesso ossuario distava dall'abitazione circa trecento metri. Nel corso degli anni Ciro e Anna, nonostante il desiderio e l'impegnarsi, non ebbero altri figli,
la donna continuò a raccomandare la figlia al Santo, come ogni domenica mattina non mancava
mai nel recarsi con lei a pregare alla cappella nella catacomba.


II
Si arrivò nel millenovecentosessantanove, Antonietta compì nel corso dell'anno diciassette anni e lavorava nel laboratorio in cui era ancora occupata la madre, mentre Ciro, il padre, continuava
a fare il lustrascarpe al solito posto.
Nel medesimo anno, il giorno seguente l'ultimo di lavoro prima delle ferie estive,
una delle giovani lavoratrici della sartoria organizzò una festa a casa sua e invitò le altre,
compreso Antonietta.
Durante il festino la ragazza conobbe Ignazio, cugino dell'organizzatrice della festa, un ragazzo di cinque anni più grande di lei.
Agli inizi di settembre lui, che lavorava in qualità di autista dei mezzi pubblici, fece in modo d'incrociare
le sarte alla fine dell'orario di lavoro, facendosi adocchiare dalla parente, intanto che camminava davanti alla sartoria, che lo chiamò per salutarlo, ignara della messinscena: realizzo così l'intento d'incontrare
la figlia di Anna; quest'ultima era uscita insieme alle ragazze.
Si soffermò a confabulare con loro, dopodiché, mediante un pretesto, si accodò alla cugina, alla donna
e la figlia, che facevano tutte e tre un buon pezzo dello stesso cammino.
Giunti a via Foria il quartetto si fermò, essendo arrivato davanti al portone del palazzo dove abitava
la collega di lavoro, Antonietta e Anna salutarono e ripresero a camminare verso la via di casa;
Ignazio attese che le due si allontanassero, senza che uscissero dalla sua visuale, salutò la cugina
e le seguì.
Da quel giorno, quando i suoi doveri lavorativi glielo permettevano, faceva del tutto per incontrare Antonietta, approfittando soprattutto delle poche volte che si trovava da sola a fare qualche commissione.
Si prodigò in un incessante e romantico corteggiamento, fino alla capitolazione della resistenza
della ragazza.
Dopo il primo bacio Anna già sapeva tutto per bocca della figlia, per questo volle parlare
con lui per venire a conoscenza delle sue intenzioni.
Trascorsi alcuni mesi il giovane si andò a dichiarare da Ciro, chiedendogli la mano della figliola.
I genitori erano contenti del partito con un buon posto di lavoro che era toccato ad Antonietta;
egli era premuroso e pieno d'attenzioni con loro come lo era con la fidanzata.
Anna, che si rallegrò anche con donna Nunzia del buon fidanzamento, ogni volta che passava davanti
al Santo, compreso la sera quando si recava a portare il lumino acceso, non faceva altro che ringraziarlo
e continuò, senza mai mancare e insieme all'adorata figlia, a recarsi all'altare del cimitero delle Fontanelle
la domenica mattina.
Nell'autunno del settantatré, Antonietta, ormai maggiorenne, convolò a nozze con il suo amato.
"Eppure la vita è composta da cammino di gioia e dolore, non sempre suddivisi e distribuiti in ugual misura."
I novelli coniugi, ritornati dal viaggio di nozze trascorso in Sicilia, andarono ad abitare in un'abitazione
in uno dei palazzi di via Salvator Rosa.
Dai primi giorni nella dimora cessarono premure e romanticismi, dopo un mese Ignazio si licenziò
dal lavoro e per molti mesi non fece neppure andare a lavoro Antonietta, pretendendo di trascorrere, insieme a lei, giorno e notte sul talamo e se lei tentava di ribellarsi erano botte da orbi.
Poteva solo scendere dal letto per cucinare e uscire di casa per andare a fare la spesa;
non doveva mai dimenticarsi il vino.
Pranzavano e cenavano restando sul letto.
Anna e Ciro non riuscivano ad avere notizie della figlia e tantomeno sapevano dell'attuale situazione
che stava vivendo.
Dopo molto tempo la donna riuscì ad intercettare la figlia in una delle sue fugaci uscite e così seppe
della vicenda.
Antonietta, oltre ad avere un aspetto trasandato, era irriconoscibile anche agli occhi della madre.
Anna ritornò a casa sconvolta, come lo fu Ciro quando la sera ritornò da lavoro e seppe.
D'allora smise d'accendere lumini e recarsi la domenica, anche perché non lo avrebbe potuto fare unitamente alla figlia, al cimitero delle Fontanelle; cominciò, quando si trovava davanti all'edicola,
a chiedere a Sant'Antonio perché avesse smesso di proteggere la figlia.
Finiti i soldi che gli permisero di sopravvivere in quel periodo Ignazio concesse ad Antonietta di riprendere
il lavoro, mentre lui oziava tutto il giorno.
Il tredici giugno del millenovecento settantacinque, era un venerdì, Antonietta prima di andare al lavoro,
riuscì ad uscire più presto di casa quella giornata, si allungò a casa dei genitori, dove giunta
dinanzi al Santo, voltatasi per fare il segno della croce, il suo sguardo cadde su quello che sembrava
un rossiccio foglio di carta piegato lì per terra, sul quale risaltava il volto di uno che poteva sembrare
un monaco, anche l'abbigliamento del mezzo busto della raffigurazione faceva pensare ciò.
Lo raccolse e tenendolo tra le mani raggiunse l'abitazione, ad aprire la porta fu la mamma,
il padre già era sul posto di lavoro, che si meravigliò di vederla e gli chiese come mai fosse andata.
La figlia gli disse di aver trovato un santino ai piedi dell'edicola e glielo porse.
Anna incominciò ad aprire il foglio di carta iniziando a notare che la figura non era un monaco ma bensì Michelangelo Buonarroti e disteso del tutto apparve che era una banconota da diecimila lire
su cui, sul lato lateralmente all'immenso artista, vi erano scritti dei numeri con il loro significato:
26 Nanninella (Anna), 55 'a museca (la musica) e 85 ll'aneme 'o Priatorio ( le anime del Purgatorio).
Le due fecero la stessa pensata: uscirono di casa, entrambe si fecero la croce dinanzi a Sant'Antonio,
e si diressero alla ricevitoria del rione, dove, entrate, giocarono i tre numeri così com'erano scritti.
Quando il ricevitore chiese quale cifra desideravano puntare entrambe risposero: il valore della banconota stessa!
L'uomo alzò un istante gli occhi, li riabbassò e fece l'operazione.
Anna prese in consegna la ricevuta e uscite si diressero al lavoro, dal quale, il pomeriggio tardi,
ognuna si diresse alla propria abitazione, senza far parola né con le colleghe né con i rispettivi consorti.
Il fato o il miracolo volle che il sabato sera uscissero dall'urna tutti e tre numeri, uno in fila all'altro,
sulla ruota di Napoli; logicamente e per campanilismo madre e figlia su quella puntarono.
Anna lo disse la sera stessa a Ciro mentre Ignazio non seppe nulla e tantomeno sospettò qualcosa,
neppure nei giorni seguenti.
Dopo circa sei mesi, all'orario in cui sarebbe dovuta rincasare Antonietta, all'abitazione di quest'ultima suonò il campanello sulla porta d'ingresso, ad aprire andò, imprecando perché pensava che fosse la moglie e che non avesse la chiave, Ignazio.
Certo che era la consorte che aveva suonato il campanello, aveva immaginato bene, ma non immaginava che fosse insieme ai genitori e a due carabinieri: la moglie gli consegnò la richiesta di divorzio, gli agenti
gli intimarono di accettare le disposizioni e di rispettare la volontà di quella che sarebbe diventata
l'ex moglie.
Il "povero" Ignazio restò immobile e muto sull'uscio di casa, mentre vedeva i cinque, che gli voltarono
le spalle senza neppure salutarlo, scendere le scale del palazzo e allontanarsi…


La storia di un torinese emigrante

I
Agli inizi degli anni sessanta Evaristo Gusibolsi si trovò, a poco più di vent'anni,
a doversi trasferire a Napoli, anche se lui pensava di trascorrere una sorte di vacanza.
L'anomala emigrazione fu dovuta a una donna che acquistati dei panni e stoffe
al mercato di Resina, dopo averli trasformati o creati dal tessuto, partiva alla volta di Torino
per vendere la sua mercanzia tramite vendita porta a porta.
I genitori di Evaristo, che abitavano in una via del quartiere Vanchiglia del capoluogo piemontese,
erano tra i tanti clienti della venditrice in città; era sua consuetudine visitare la famiglia Guisibolsi
ogni mercoledì dell'ultima settimana del mese.
( Trascorreva un'intera settimana di ogni fine mese nella città torinese: partiva la domenica
e faceva ritorno nel capoluogo campano nella tarda mattinata del sabato.
Questo lavoro gli era stato trasmesso dal padre, che facendosi vecchio
e sapendo la situazione della figlia decise di farsi affiancare e dopo un periodo di apprendistato
e fattole conoscere i clienti e viceversa si era ritirato.
Donna Concetta, Cuncé per gli amici compaesani, poco più che cinquantenne,
con un marito ergastolano, doveva crescere e sfamare sei figli.
Aveva imparato bene come fare la venditrice, anche di sé stessa: sapeva come farsi benvolere dai clienti,
farsi accogliere come un'amica di famiglia e non come un'estranea, anche se poi quando era il momento
di farsi pagare i conti erano sempre salati, se pur dava ad intendere che si trattava di prezzo di favore.
Se solo i malcapitati avessero saputo dove avvenivano i suoi acquisti da rivendere e quanto miseramente
a lei costavano in realtà! )
In uno dei giorni di visita alla casa la donna chiese del ragazzo, lo conosceva da quand'era adolescente,
ma da tempo non lo vedeva, la madre e la nonna, madre della madre, gli dissero che era cresciuto
ed era diventato un bellissimo ragazzo e che finito l'istituto tecnico industriale ed espletato
il dovere di leva attendeva un' occupazione.
Mentre le tre donne stavano chiacchierando il dlin dlon del campanello sulla porta d'entrata catturò
la loro attenzione, la signora Guisibolsi si allontanò dalla cucina dove si stava tenendo la riunione
e si recò a vedere chi aveva suonato e se era il caso aprirgli la porta: era colui di cui stavano parlando, Evaristo.
La madre lo fece entrare e gli disse della presenza di donna Concetta e di recarsi a salutare,
anche perché aveva chiesto di lui.
Il giovine così fece, i due si salutarono, dopodiché la signora prima lo squadrò per bene,
era davvero un bel ragazzo e molto educato, fisicamente aitante ma non palestrato, longilineo,
superava il metro e ottanta e poi gli fece una sorte di terzo grado.
Donna Concetta, che parlava un italiano in modo approssimato,
imbastardito dal dialetto<< Era da molto che non ti vedevo, sei venuto su davvero bene.
Ti ho visto crescere e conoscendo che fai parte di una famiglia perbene vorrei proprio farti conoscere
la mia figlioccia di Napoli. >>
Che poi non era altro che la figlia di una sua cliente di Napoli.
La donna si rivolse alla madre << Se volete potete darmi una sua foto per farla vedere alla famiglia
e alla cara ragazza, io il mese prossimo, quando torno a Torino, vi porto una sua foto,
sempre se i genitori e lei accettano. >>
Evaristo diede l'impressione di essere contento, ma era solo troppo educato per dare una risposta di rifiuto, la madre, per una sorte di gratitudine, andò nella camera del salotto e tolto una foto fata dopo il diploma dalla cornice che era sul mobile la portò alla napoletana, la quale fu sul vago nel dare informazioni
sulla famiglia della fanciulla e su di essa; dopo poco lasciò la casa.
La nonna, che fino ad allora non aveva professato parola, non era entusiasta della situazione
in cui la figlia stava facendo incanalare il nipote, proferendo che sperava che la cosa
non sarebbe andata in porto.
Puntuale il mercoledì dell'ultima settimana del mese successivo, si era alla fine di gennaio
con una temperatura da neve, meno tre gradi, donna Concetta bussò alla porta Gusibolsi,
aveva lasciato Napoli con il sole che dava un tepore primaverile e un cielo libero da velature.
Si era abituata alle escursioni termiche tra le due zone del paese; già in treno, recatasi in bagno,
faceva il cambio di abbigliamento.
Ad accoglierla vi erano Evaristo, la madre e il padre, il quale fu messo accorrente della proposta della donna la sera stessa,
quando tornò da lavoro, del giorno in cui venne fatta, non è che ne fosse contento,
una volta tanto si trovava d'accordo con la suocera, ma aveva troppe magagne che doveva tenere nascoste
per mettersi contro le decisioni della moglie, gli conveniva accontentarla!
Si accomodarono in cucina, come in tutte le riunioni che avvenivano in quel giorno,
si sedettero tutti e quattro attorno al tavolo
e attesero che donna Concetta parlasse << Il giorno dopo il mio arrivo a Napoli,
la domenica dopo pranzo, ho fatto visita alla mia cara Angelina e ai suoi genitori,
gli ho detto che di mia iniziativa, conoscendo che famiglie siete e per l'affetto che provo
per entrambi i ragazzi, sono entrambi due pezzi del mio cuore che ho visto crescere…>>
Evaristo l'interruppe<<Grazie signora Concetta!>>
La donna continuando<<…mi sono permessa di espormi e farvi da intermediario in questa conoscenza,
se poi saranno fiori fioriranno.>>
Tirò fuori dalla borsa una foto del primo piano fatta in una macchina automatica per fototessera
e la posò sul tavolo: un bel viso tondo, uscito poco prima della foto dalle mani del parrucchiere
e del truccatore, di una fanciulla diciannovenne dai tratti mediterranei.
I tre familiari non restarono dispiaciuti dalla foto.
La padrona di casa << Signora Concetta, se mio figlio vuole fare conoscenza della ragazza,
che voi ci garantite che fa parte di una buona famiglia di Napoli, come ci potremmo disobbligare con voi,
per il vostro fastidio?>>
Donna Concetta << Ma quale fastidio! Per me è un onore e piacere, vi ho detto che lo faccio soltanto
perché conosco le famiglie e i ragazzi. Tu che ne dici ragazzo, ti farebbe piacere?
Al limite ti fai una vacanza!>>
Evaristo << Voi siete una garanzia, una persona di famiglia, sì, mi farebbe piacere, ma dove andrei a stare
in quei giorni?.>>
La madre << Vai a mamma, vai a conoscere Napoli, ti fai una vacanza al limite! Signora Concetta
lo affido nelle vostre mani, sapete che ho solo lui!>>
Donna Concetta << Non vi preoccupate è come se fosse mio figlio. Starai a casa mia, sia a dormire
che a mangiare, per tutta la settimana, certo non è così tranquilla come la vostra con sei figli che ho.>>
Rivolgendosi ai genitori<< Signora voi sapete la mia condizione familiare e per questo vi chiedo
un minimo di contributo, accompagnerò io stesso a conoscere vostro figlio ai genitori e alla ragazza.>>
Il padre del ragazzo<< Ma certo, copriremo le spese di mio figlio, non vogliamo che sia un peso.>>
Donna Concetta <<Per carità, quale peso è soltanto necessità! Sua moglie sa che le faccio sempre
dei prezzi di favore, è più per il piacere di recarmi in casa vostra che per la vendita.
Facciamo come se ci facessimo noi quattro un vestito confezionato a testa
e paghereste voi: centosessanta mila lire!>>
Il signor Guisibolsi si sentì come se si stesse per ingoiare la lingua, ripresosi,
accennò a professar parola ma lo sguardo della moglie lo colpì, come un automa
si recò in camera da letto per prendere la cifra che era stata richiesta
da uno dei cassetti del comò: certo il suo stipendio era di più di quello di un semplice operaio,
ma comunque era una bella botta alle finanze di famiglia, se pur la moglie contribuiva
con il suo stipendio da cassiera alla Standa.
Tornò in cucina a piccoli passi con lo sguardo fisso sui soldi che aveva in mano, giuntoci,
senza professare parola porse le centosessanta mila lire alla venditrice, che li prese e senza contarli
li mise in una borsetta che tirò dal reggiseno; depositati rimise la porta soldi dov'era.
Disse ai genitori di accompagnare il figlio alla stazione il venerdì successivo, li mise accorrente
sull'orario della partenza del treno, di fargli il biglietto d'andata e quello di ritorno, gli diede
dei consigli sull'abbigliamento, salutò cordialmente e se ne andò.


II
Il sabato successivo il treno giunse a Napoli, presi i bagagli donna Concetta ed Evaristo scesero
dalla carrozza, ad attenderli due dei quattro figli maschi della donna.
I sei, espletati i saluti e le presentazioni, uscirono all'esterno della stazione, il tempo meteorologico
che aveva visto partire la venditrice persisteva, voltarono a destra imboccando corso Novara,
proseguirono a piedi fino al ponte di Casanova, giunti nei pressi del quadrivio attraversarono
prima il corso e poi da un lato all'altro via Casanova, nei pressi, giù delle scale,
vi era la stradina dove si trovava il palazzo in cui era ubicata, al primo piano, l'abitazione.
Giunti alla casa ad aprire la porta fu una delle due figlie della donna, Anna, una ragazza graziosa
che conosceva le buone maniere, di carattere riservato ma cordiale; aveva una fila di pretendenti,
che a turno, le facevano la serenata, ma ogni volta restava in camera senza uscire:
gli andava stretto quell'ambiente.
La madre la presentò ad Evaristo e mentre, rivolgendosi alla mamma, chiedeva, avendolo intuito,
se era lui che doveva conoscere Angelina, senza farsi accorgere dal ragazzo,
fece una smorfia tra il disappunto e il dispiaciuto.
La domenica giunse il grande giorno, dopo pranzo, verso le diciassette, su via Casanova un taxi
venne a prendere Evaristo e la signora Concetta, per condurli al vicoletto Donnalbina,
sito tra il complesso monumentale di Santa Maria la Nova e la chiesa Santa Maria Donnalbina;
uno di quei luoghi che da un balcone all'altro si possono, senza scendere in strada,
tanto passarsi una tazza di caffè o se prendono un questione fare a mazzate
saltando da un balcone all'altro.
Al terzo piano di uno dei palazzi abitava Angelina con i genitori e tre fratelli maschi.
La madre della ragazza, donna Sofia, vendeva le sigarette di contrabbando
alla via sulla quale si accedeva al vicoletto e di cui aveva lo stesso nome; il padre teneva una bancarella d'ambulante
 nei pressi del palazzo delle poste e telecomunicazioni; i fratelli si campavano da soli per strada.
Angelina si doveva occupare della casa; a scuola aveva frequentato fino alla quinta elementare,
i genitori decisero che l'apprendimento conseguito già le bastava.
Tutto il vicinato e dintorni sapevano che doveva giungere dal nord Italia
n pretendente per Angelina, a Napoli siamo così: si bruciano le tappe nel pensare e giudicare.
C'era gente affacciata ai balconi e in strada ad attendeva l'avvento.
Il taxi arrivò, i due uscirono tra sguardi e vocii, entrarono nel palazzo
e per raggiungere l'appartamento dovettero salire scalinate formate da scalini enormi.
Ad aprire la porta fu don Carmine, il probabile futuro suocero,
uno che per descriverlo basta dire che si poteva paragonare a un primate,
non per l'aspetto fisico, quello era trappano, ma per il suo pensiero.
Era convinto che un uomo non diventava tale se non trascorreva un periodo nelle patrie galere.
La signora Concetta, entrati, salutò l'uomo e poi gli presentò il ragazzo, i due si salutarono
con una stretta di mano.
Si diressero nella camera da pranzo; per i parenti presenti farei prima a dirvi quelli assenti.
Evaristo li salutò ad uno ad uno, poi, sempre in compagnia del padre di Angelina,
guidato da quest'ultimo, si diresse sul lato dove vi era il balcone, su cui erano accomodate,
su delle sedie, la probabile futura suocera, la cugina del cuore della probabile fidanzata e la stessa.
Il fanciullo torinese si sentiva fuori luogo, faceva fatica a non darlo a capire.
Ora stava riflettendo del perché la foto, portata a vedere a lui e alla sua famiglia,
ritraeva un primo piano con ritocchi d'antico photoshop.
I due, messi vicini, non formavano l'articolo "il" ma l'artico "lo", con la consonante maiuscola.
Alla fine della festa si trovarono seduti attorno al tavolo Angelina, il padre, la madre, Evaristo e donna Concetta;
 fu quest'ultima a mettere i puntini sulle I, era lontano da lei la volontà
di mettere in difficoltà il ragazzo, stemperò la situazione: conosceva bene la mentalità di quell' ambiente.
Infondo lei il ricavo lo aveva intascato.
Chissà quanti vestiti confezionati pagarono i genitori della ragazza per la sua intercessione?
Rimasero che i due si sarebbero incontrati nella settimana avvenire, prima della partenza del torinese,
per conoscersi: sarebbe stato lo stesso don Carmine ad andare a prendere Evaristo e insieme avrebbero raggiunto Angelina in via Roma,
dove i due avrebbero passeggiato sotto l'occhio vigile delle nonne di quest'ultima.
Martedì, il giorno della passeggiata, alle quattro passò a prenderlo l'uomo, chiedergli se prima di andare all'appuntamento
poteva accompagnarlo a fare una commissione e che poi da lì sarebbero andati all'incontro.
Di gran carriera l'auto si diresse nella zona di Secondigliano, l'uomo giunto vicino ad un palazzo entrò
a marcia in dietro nel portone, scese dicendo al ragazzo d'attenderlo a bordo.
Dato che il cofano della macchina era stato aperto e che la visuale degli specchietti laterali era impedita
dai muri dell'edificio Evaristo non vedeva con chi stesse parlando il napoletano e cosa stesse dicendo
con i suoi interlocutori, non li capiva; nonché cosa stessero caricando.
Ad un tratto si sentirono delle sirene: giunsero due volanti della finanza; dietro non si sentiva più nessuno
e niente più veniva caricato.
Gli agenti intimarono ad Evaristo di scendere con le mani in alto, il ragazzo, ignaro del perché di ciò,
appena si trovò in piedi fuori dell'auto, avendo difronte delle armi spianate,
crollò a terra battendo la testa violentemente.
L'ultima sensazione che ebbe fu quella che l'anima lo stesse abbandonando.


III
Il vissuto e lo scorrere del tempo è cognizione umana e il vivere è cognizione degli esseri viventi,
ma Evaristo, se pur giunto al vespro della vita terrena e raggiunto quello che poteva essere
l'altrove aveva le stesse sensazioni e percezioni di quando era in un corpo.
In vita non era stato certo un peccatore, non ne aveva avuto il tempo,
per questo quella che era la sua anima si sentì defraudata: si trovò catapultata
in quella che poteva essere un'angusta caverna con un unico prosieguo in pendio.
Senza che se ne accorgesse o che ne avesse l'intenzione, ma come se fosse condotto,
proseguì lungo la china dove incrociò altre anime che proseguivano, in modo mesto,
nella stessa direzione, ignare a cosa andassero incontro;
tutte si chiedevano come mai fossero capitate ivi.
All'improvviso si videro parare davanti quelle che gli ricordavano due enormi colonne di fuoco;
ad una ad un si videro oltrepassare e ad una ad una ebbero la percezione di precipitare
in un precipizio che sembrava non avere fondo.
Fluttuanti arrivarono al cospetto di quello che appariva essere il guardiano di quel luogo.
Costui, con un calcio, le malcapitate anime le lanciava verso quella che era la fine del burrone.
Il fu Evaristo era smarrito, non ricordava e pur si sforzava a voler ricordare quali peccati, a vent'anni,
lo avessero condotto là, dopo la morte corporea.
Gli sembrò di essere chiamato da una voce profondamente tenebrosa,
li fu fatto cenno di raggiungerla e quando fu nei pressi di essa<< Putrida anima sei qui per scontare
la tua vita terrena!>>
Evaristo<< Scusate ma che ho fatto di così grave che io non ricordi? Non dico l'Elisio,
ma almeno il secondo regno, no addirittura la terza scelta!>>
L'interlocutore<< Evaristo Guscolzi…>>
Evaristo << Non iniziamo anche qua a non pronunciare bene il mio nome che è Evaristo Gusibolsi!>>
L'interlocutore infastidito e con cenno di ira << E' nato sulla terra, in tale continente, in tale nazione,
in tale regione, in tale città, in questa data? Qui è gradito!>>
Evaristo sconcertato di tutta risposta<< Signor no! Sapete che sono morto a Napoli
ma che non sono nato lì e nemmeno ci vivevo? Se volete vi racconto chi sono stato,
ci deve essere uno sbaglio di persona,
il mio posto era di sicuro di un altro, cercatelo, glielo cedo volentieri!
Forse era la persona con il cui nome avete chiamato me per sbaglio?>>
L'interlocutore che gli iniziava ad uscire il fumo dal naso<< Se ti trovi qui è perché ci devi essere,
non dire menzogne, e poi questo è il regno della menzogna, non hai nulla da insegnarci!>>
Evaristo<< Le decisioni si vede che qui le prendono coloro che furono umani!>>
L'interlocutore<< Badi a quello che dice, noi siamo diavoli, facciamo le cose seriamente!>>
Evaristo<< Signor diavolo lei sa quanti diavoli ci sono da dove vengo io
e che dicono la stessa cosa che ha detto lei?>>
Questa volta lo aveva davvero fatto infuriare!
Evaristo sembrava che stava per trascorrere un'eternità non sua, ma come si trovò nella caverna
ad un tratto ora si ritrovava nel suo giovane corpo che era su un letto dell'ospedale Ascalesi;
vide un medico che sopra di lui gli disse: guagliò ti è andata bene!
Sotto all'uscio della porta vi erano due agenti che lo piantonavano.
Si sentì tenersi la mano da un'altra mano, si girò e vide che era Anna, la figlia di donna Concetta,
restatagli accanto…


Antonio e la sirena fanciulla
In una giornata d'autunno, una di quelle dove si percepivano ancora fragranze di un'estate oramai passata,
del lontano millequattrocento sessant'otto, un viandante ormai attempato il cui sguardo era spento
dalle traversie della vita e del quale non si sapeva né da dove venisse e né chi fosse, anche se il suo nome
si seppe che era Antonio, giunse alle mura di Gragnano, entrato nella cittadina raggiunse, dove trovò riparo per alcuni giorni, la chiesa della SS. Maria dell'Assunta.
Una mattina ascoltata la S. Messa e presa l'eucarestia, essendosi voluto confessare prima e anche
per questo il suo dire e il suo narrarsi era celato dal segreto della confessione, raccolse la vecchia bisaccia che custodiva poche cose, il bastone con cui era solito accompagnare i suoi passi e uscì dalla chiesa.
Si diresse verso una delle porte del maniero, l'oltrepassò incamminandosi sulla strada che dalla valle
delle Ferriere conduceva ad Amalfi; lui non sapeva che avrebbe raggiunto tale località: dal confessore
gli venne indicata la strada per il mare, essendo che chiese indicazioni per raggiungere il mare,
prima di distogliersi dal confessionale accanto al quale stava genufletto.
Non del luogo ed essendo che non comprese bene le indicazioni dategli si smarrì.
Attraversò monti, boschi, radure e costeggiò e attraversò torrenti e ruscelli; durante il tortuoso cammino, dove esso costeggiava una delle cascata, si riposò, le logore e traforate calzature gli facevano lacerare
i piedi dai tortuosi sentieri che calpestava.
Quello che non incontrò fu un'anima ad incrociare i suoi passi.
Attese che le sue ferite si rimarginassero e le gambe riprendessero le forze e lo sorreggessero, riparandosi in una grotta.
Non si sa quale fu il suo sostentamento.
Durante l'incalzare d'un temporale, all'alba, ricominciò a dare i suoi passi verso la meta.
Prima di farlo lasciò la bisaccia in quel che fu riparo e rifugio, per lui un tesoro essendo che era tutto quello che possedeva ed era l'unico legame col passato, accertandosi di nasconderla in modo che non fosse trovata da qualcuno; forse era sua intenzione ripassare a riprenderla.
Giunto nella cittadina amalfitana e dopo aver girovagato in cerca d'elemosina o di cibo si diresse verso
una piccola spiaggia di scura sabbia situata in una conca, alla quale si accedeva dopo aver percorso
una serie di ripidi discese.
Lì restò assorto nei suoi pensieri e mentre la vita e i ricordi gli fluivano dinanzi agli occhi iniziò a passeggiare su e giù per battigia.
Le onde s'infrangevano accarezzando la sabbia e i suoi piedi; lo sciabordio risultava ad Antonio un dolce canto.
L'oro del tramonto iniziava a lambire il cielo quando decise di proseguire il suo vagabondare,
ma all'improvviso, quando rivolse un ultimo sguardo al mare, la sua attenzione fu rapita
da una figura non chiara all'orizzonte che emerse all'improvviso dalle acque e incominciò a nuotare
nella scia di luce verso la spiaggia, restò a guardarla arrivare; arrivò presso di lui manifestandosi
per quello che era, per cui egli divenne marmoreo.
I suoi occhi erano increduli e sbarrati per ciò che vedevano: una sirena!
Di colorito bronzeo, la chioma, corvina e folta adornata da variopinti coralli, le scendeva fin sui nudi seni facendoli solo intravedere; il vermiglio degli occhi, profondi e luminosi, era tutt'uno con quello del mare
e l'argentea coda luccicava nelle limpide acque.
Porse all'uomo la mano adornata da bracciali di conchiglie invitandolo a seguirla con voce suadente
e un sorriso che le riempiva l'ovale viso.
Antonio con voce tremante, che nessuno, tranne i monaci che lo accolsero, ai quali non raccontò apertamente dettagli della sua storia, nei giorni che si trovò a Gragnano udì<< Sto sognando o non sei mitologia? Non ho mai amato il mare se pur l'ho solcato, m'affascina il suo essere oceano misterioso
e scrigno di mondo parallelo a quello su cui si posano e restano proprie orme.>>
Lei non rispose ma continuava a tenere la ma protesa in segno d'invito a seguirla.
Se pur titubante l'uomo entrò in acqua prendendo la mano della marina fanciulla, i due insieme, mano
nella mano, iniziarono a nuotare.
Lontani dalla terra ferma s' immersero nel ventre degli abissi, nel tempo in cui gli ultimi istanti di tramonto scomparivano all'orizzonte.
L'uomo, che non si voltò neppure una volta indietro, non fece più ritorno nelle zone in cui fu visto
in quel tempo e neppure si seppe più nulla di lui.
Però una leggenda di pescatori del luogo narra che nella notte di S. Lorenzo si possono scorgere,
mentre le stelle cadenti sembrano spente sagitte che s'infrangono in cielo, lontano dalla costa e da occhi indiscreti, Antonio e la sirena, illuminati dal chiarore di luna, danzare dinanzi ad Amalfi tra le onde del mare.


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