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18 Dicembre

Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio

di Remo Rapino

Edizioni Minimum fax

Narrativa 

Un Candido proletario

Nel panorama letterario mondiale, e a maggior ragione in quello italiano, fra i libri che escono ogni anno è sempre più difficile trovarne uno che presenti una spiccata originalità, quella originalità che potrebbe all’inizio disorientare il lettore, ma che poi finirebbe per attrarlo irresistibilmente qualora fosse stata ben concertata. Al riguardo indubbiamente originale è Vita, morte e miracoli di Bonfiglio Liborio, che anche per questo motivo ha collezionato una vera e propria messe di premi, e fra questi il prestigioso Campiello. E pure io, da appassionato, ma anche smaliziato lettore in forza di una lunga esperienza, se sono rimasto sconcertato all’inizio dal linguaggio adottato, poco a poco ho convenuto che è perfettamente funzionale alla vicenda narrata, una storia di solitudini e di miseria, mai tesa alla facile commozione e che presenta diversi piani di lettura, fra i quali, non determinante, ma di rilievo, quello dei fatti del nostro paese dalla seconda guerra mondiale fino a quasi oggi. Questa storia nella storia è narrata in prima persona da Bonfiglio Liborio, una cocciamatte, cioè un matto che non ha mai conosciuto il padre che, dopo aver messo incinta sua madre, è partito per l’America in cerca di fortuna senza più dare notizie di sé. Di lui sappiamo solo, come dice ogni tanto la madre di Liborio, che aveva gli stessi occhi del figlio, quel figlio bravo a scuola, ma segnato nella psiche dagli eventi, dalle rappresaglie naziste dopo l’8 settembre 1943, dalla morte del nonno socialista e dalla privazione anzitempo dell’affetto materno, una serie di segni neri che marcano l’esistenza. La presenza umile di un semplice che fa qualsiasi lavoro per sopravvivere scandisce il ritmo che va dal 1926, anno della sua nascita, al 2010 quando si appresterà a lasciare il palcoscenico della vita, un semplice che poco a poco, anche per la solitudine e la mancanza di affetti a cui è relegato, comincia a dare qualche segno di squilibrio, tanto che per un lungo periodo finirà al manicomio di Imola. Non è pericoloso, è solo strano, è un diverso in un mondo di omologati in cui cerca di entrare per essere poi sempre respinto. Come ho anzidetto, se all’inizio il linguaggio, una specie di dialetto abruzzese, sconcerta (in calce comunque c’è un utile glossario) ben presto si entra in empatia con il personaggio, con la sua naturalezza di comportamento, con una semplicità che equivale a una franca schiettezza, a cui da tempo non siamo più abituati, caratteristiche proprie di un Candido, però proletario. Liborio sarà una cocciamatte, avrà dei periodi in cui certi rumori che sono dentro la sua testa lo renderanno instabile, ma è un personaggio che desta una naturale simpatia e a cui si desidererebbe tendere la mano per farlo uscire da quella solitudine in cui è relegato chi vede come è la vita, ma non riesce a viverla come gli altri. Lavoro, qualche passione politica più istintiva che convinta, scarse e limitate amicizie, qualche soddisfazione sessuale di carattere mercenario, la lettura e continua rilettura del libro Cuore è questa l’esistenza di Bonfiglio Liborio, il cui periodo migliore, non a caso, è quello trascorso in manicomio, in cui per la prima volta prova un sentimento, misto d’amore e d’affetto, per una giovane ricoverata. E quando si appressa la fine  un uomo solo non può che sognare un colossale pranzo d’addio con tutti quelli che ha conosciuto, molti dei quali già scomparsi; li invita nella sua modesta casetta, nella piccola cucina che può contenere solo poche persone, ma le cui pareti miracolosamente si allargano per contenerle tutte. Liborio è grato a tutti, tranne a uno che bussa, ma non viene fatto entrare, è quel padre che se n’è andato lasciando la moglie e un figlioletto privi di assistenza. Sono pagine, queste, stupende e che portano a una naturale commozione, un sogno in cui entra anche il lettore che, oltre a tendere una mano, desidererebbe anche abbracciare Liborio che in punta di piedi ci lascerà nell’inverno del 2010.

Il romanzo è indubbiamente bello e credo che, oltre ad aver meritato il Campiello, possa meritare il plauso dei lettori.

Remo Rapino (1951) è stato insegnante di filosofia nei licei. Vive a Lanciano. Ha pubblicato i racconti Esercizi di ribellione (Carabba 2012) e alcune raccolte di poesia, tra cui La profezia di Kavafis (Moby-dick 2003) e Le biciclette alle case di ringhiera (Tabula Fati 2017).
Renzo Montagnoli

 

 

9 Dicembre

Il generale di Diocleziano. Il legato romano

di Guido Cervo

 Piemme

romanzo storico

 

Un protagonista indimenticabile

Ero ancora un bambino quando lessi Ivanhoe e per me fu una folgorazione, perché ritrassi l’impressione di essere entrato nella storia, con l’aggiunta di una mia fantasia personale che mi portava a vedere, secondo i miei gusti, le pagine che così sapientemente aveva scritto Walter Scott. Da allora questo genere è rimasto il mio preferito e posso dire che fra le mie letture è preponderante. Inoltre, ogni volta che inizio a leggere un romanzo storico provo ancora la stessa emozione della prima volta, a maggior ragione se so che l’autore è uno di quelli  che non mi tradirà, che non mi spaccerà per grande storia un raccontino banale e insulso, e fra questi validi narratori  figura Guido Cervo che ho avuto modo di conoscere con un’opera di narrativa di notevole pathos, quei Ponti della Delizia che parla della drammatica ritirata di Caporetto; poi l’ho apprezzato per la sua imparzialità nel descrivere la tragedia della guerra civile dopo l’8 settembre 1943 (Bandiere rosse, aquile nere) e infine ha continuato ad affascinarmi con la serie del Teutone, la trilogia del cavaliere dell’Ordine Teutonico Eustachius von Felben ambientata nel XIII secolo. Per completare la mia conoscenza di questo romanziere sono rimaste solo le opere del legato romano e Il generale di Diocleziano è la prima che ho esaminato. Al riguardo ritengo doverosa una premessa, cioè desidero mettere in risalto l’indubbia capacità di Cervo di creare personaggi con cui si entra facilmente in empatia e Valerio Metronio Stabiano, appunto il legato romano, è uno di questi. Uomo tutto di un pezzo questo gallo-romano abituato a vincere tutte le battaglie non è un genio, né un superuomo, è semplicemente un essere umano, dotato di indubbie qualità, che emerge per intelligenza e rettitudine, tanto che mi viene da dire che potrebbe essere il fratello che abbiamo sempre desiderato avere. Questo soldato apparentemente in disarmo e che conduce una vita da aristocratico nella sua bella villa viene richiamato per debellare prima la rivolta dei Bagaudi, che soffocherà riportando l’ordine, e poi l’invasione dei Burgundi, che verranno inevitabilmente e irrimediabilmente sconfitti. Queste campagne verranno svolte con forze ridotte, fra le quali spicca una legione, quella tebana, in precedenza assoggettata alla decimazione essendo costituita per una parte non trascurabile da convertiti al cristianesimo. I militi superstiti, ivi compresi alcuni cristiani che obtorto collo hanno sacrificato agli dei, desiderosi di riscattare il loro onore diventeranno la forza migliore a disposizione di Valerio Metronio. La descrizione dei luoghi, la capacità nel ricreare atmosfere sono proprie dell’autore e non poco contribuiscono al successo di un romanzo che si fa apprezzare anche per la caratteristica di avvincere il lettore, dall’inizio alla fine.

Mi preme inoltre evidenziare come l’autore abbia curato in modo particolare gli indispensabili riferimenti storici al punto perfino di indicare con l’originario nome latino le città interessate alla vicenda, opportunamente riportando all’inizio l’attuale corrispondente denominazione, in modo da aiutare il lettore a identificare esattamente sulla carta geografica le zone di svolgimento della storia che nelle sue linee essenziali corrisponde a ciò che effettivamente avvenne.

Concludo dicendo che Il Generale di Diocleziano mi ha talmente convinto che ho in animo di leggere anche i precedenti tre romanzi del Legato romano.

Guido Cervo vive e lavora a Bergamo. È autore di romanzi di successo, tutti pubblicati da Piemme, tra cui "La trilogia del Legato romano", che ora viene riproposta, nel suo primo volume, in una nuova versione, la serie Il Teutone e due romanzi che affrontano i tragici conflitti mondiali del Novecento: Via dalla trincea e Bandiere rosse, aquile nere...
Renzo Montagnoli

 

 

30 Novembre

La palude

di Charlotte Link

Corbaccio Editore

Narrativa

 

Nessuno è quel che sembra

Quale è quella nazione in cui si aggirano insospettabili serial killer, rapitori di donne e di ragazzine, che poi vengono ritrovate inevitabilmente morte nella brughiera, in un’atmosfera umida e appiccicosa, in cui predominano i toni scuri e in cui il sole sembra capitare lì per caso? E’ ovvio, è la Gran Bretagna, con le sue città popolose, ma anche con le sue lande desolate. Ed è proprio in quello stato che si svolge la trama di La palude, un thriller scritto non da un inglese, come tutto lascerebbe supporre, ma da una tedesca, una narratrice specializzata nel genere.

Dopo più di un mese di assenza forzata dalla lettura per un problema clinico (una cataratta secondaria che mi rendeva estremamente difficoltoso mettere a fuoco quanto scritto a stampa su una pagina) ho voluto ricominciare con qualcosa di non impegnativo e appunto La palude si è dimostrata una scelta azzeccata, perché è uno di quei romanzi da leggere lasciandosi andare, senza porsi particolari problemi, ma facendosi avvincere da una trama un po’ lenta nella prima parte, ma poi sempre più coinvolgente. Si inizia con il ritrovamento in una livida brughiera nell’ottobre del 2017  del corpo di Saskia Morris, una ragazzina di quindici anni scomparsa l’anno prima a Scarborough, nello Yorkshire. La vittima non ha subito violenze sessuali e non risulta nemmeno che sia stata assassinata con un’azione violenta, perché è semplicemente, e terribilmente, morta di fame e di sete. Poi scompaiono altre tre ragazze, ma una è ritrovata viva, essendo riuscita a sfuggire a chi l’ha rapita, il che dovrebbe risolvere il problema di trovare il maniaco, ma, per effetto dello choc, la fanciulla non ricorda nulla dei tremendi giorni della sua segregazione.

Nel timore di svelare troppo e quindi di togliere il piacere della lettura ad altri non vado oltre, anche se posso anticipare che, come si conviene in opere del genere, alla fine il bene trionferà sul male, e lo farà non con improvvisazioni, ma seguendo un percorso strettamente logico che porterà il lettore a una soluzione del tutto plausibile. Anche in questo caso c’è un agente di polizia, addirittura di Scotland Yard, Kate Linville, in paese per seguire la vendita della sua vecchia casa che, spacciandosi per giornalista, indaga, pervenendo alla conclusione. L’atmosfera è molto ben realizzata e anche i personaggi sono delineati con attenzione e con la caratteristica che nessuno è in verità quel che sembra, a cominciare appunto da Kate, poliziotta e non giornalista. Il ritmo, blando nella prima parte, assume un’intensità crescente e contribuisce non poco al desiderio del lettore di sapere chi è il serial killer, circostanza che, dato il genere, dovrebbe essere indispensabile, anche se non sempre scontata.

A me è piaciuto, mi ha consentito di trascorrere alcune ore con un crescente appagamento, e quindi credo proprio che la lettura sia consigliabile.  

Charlotte Link é una delle scrittrici tedesche contemporanee più affermate.
Deve la sua fama soprattutto alla sua versatilità: conosciuta inizialmente per i suoi romanzi a sfondo storico, ha avuto molto successo anche con i suoi romanzi psicologici, tanto che ogni suo nuovo libro occupa per mesi i primi posti delle classifiche tedesche.
È pubblicata in Italia da Corbaccio. Tra i titoli: La casa delle sorelle (2002), L'uomo che amava troppo (2004), L'ospite sconosciuto (2005), Un difficile eredità (2007), Giochi d'ombra (2015), La scelta decisiva (2017) e La palude (2019)
Renzo Montagnoli

 

 

21 Novembre

Ninfa dormiente

di Ilaria Tuti

Longanesi Editore

Narrativa romanzo

 

Troppa carne al fuoco

Il primo romanzo  di Ilaria Tuti che ho letto è stato l’ultima opera di questa narratrice friulana e si tratta di Fiore di roccia, un riuscito omaggio al duro e pericoloso lavoro delle portatrici nel corso della Grande Guerra. L’impressione che ne ho ricavato è stata positiva, tanto che l’ho giudicato buono e non un capolavoro a causa di una certa discontinuità logica, presente in tutte le parti, meno in quella finale. Poi, come i gamberi sono andato a ritroso e ho letto Ninfa dormiente, lavoro di tutt’altra natura, un thriller per intenderci dove si trova di tutto: dal bellissimo disegno di una ninfa addormentata realizzato con il sangue a una valle, per certi versi misteriosa, la Val Resia, abitata da popolazioni di origini slave in cui si svolge buona parte del romanzo, il tutto avvolto da un alone di mistero e condito da scomparse e uccisioni di esseri umani in modo decisamente sanguinario. E’ un’indagine difficile e pericolosa quella che conducono il commissario Teresa Battaglia e il suo aiutante l’ispettore Massimo Marini, in un ambiente paradisiaco quale può essere una valle alpina, ma anche ostile, teso a conservare un segreto con qualsiasi mezzo; a ciò si aggiungono le problematiche personali dei due poliziotti e che occupano una parte non trascurabile del romanzo che, se da un lato procede con la giusta tensione che si richiede per un thriller, dall’altro s’ingarbuglia sempre di più con l’introduzione di riti sciamanici e di cerimonie sacrificali con aspirazioni anche esoteriche, però mai concretizzate. In tutta sincerità devo ammettere che l’opera mi ha avvinto perché non c’è di meglio di un mistero irrisolto che, ogni tanto, si crede di aver svelato, ma che subito riprende corpo, per attirare di nuovo l’attenzione del lettore. Tuttavia, mano a mano che si procede diventa sempre più difficile districarsi fra realtà e turbe psicologiche,  tanto più che l’origine del tutto risale al 20 aprile 1945 e si perpetua negli anni successivi in un guazzabuglio di morti ammazzati perché non parlino e di altri che invece spariscono perfino dalle tombe del cimitero. Francamente, pur sempre più teso a conoscere la verità tanto che ho accelerato il ritmo di lettura, piano piano mi è venuto il sospetto che la soluzione avrebbe potuto rivelarsi una delusione, come poi è effettivamente stato. E così la torta troppo arricchita e troppo lievitata si è sgonfiata come un pallone e ci si chiede come sia possibile che l’omicida sia quello che viene rivelato e soprattutto come faccia il commissario Battaglia a intuire chi sia il serial killer, salvando in modo fantasioso se stessa e il suo ispettore.  E’ un peccato, anche perché mi è stato riferito che il precedente romanzo con protagonista sempre lo stesso commissario, vale a dire Fiori sopra l’inferno, è molto bello; a voler essere sinceri non è che Ninfa dormiente sia brutto, perché allo scopo di interessare per qualche ora il lettore riesce assai bene, ma alla fine la delusione prevale su tutto e quindi ci si rammarica per quel che poteva essere buono  e che invece si rivelato appena discreto.

Ilaria Tuti vive a Gemona del Friuli, in provincia di Udine. Ha studiato Economia. Appassionata di pittura, nel tempo libero ha fatto l’illustratrice per una piccola casa editrice. Nel 2014 ha vinto il Premio Gran Giallo Città di Cattolica. Il thriller Fiori sopra l'inferno, edito da Longanesi nel 2018, è il suo libro d'esordio. Ha scritto anche: Ninfa dormiente (Longanesi, 2019) e Fiore di roccia (Longanesi, 2020). Renzo Montagnoli


 

 

15 Novembre

Quello che ancora restava da dire

di Giuseppe Carlo Airaghi

Prefazione di Alessandro Ramberti

Copertina foto di Dante Zamperini

Nel testo La via del padre disegno di Giacomo Ramberti

Fara Editore

Poesia 

 

La sincerità prima di tutto

Dopo molte sillogi la cui comprensione non è facile di primo acchito – e nemmeno ritornandole a leggere più volte – una raccolta di poesie che già al primo colpo riesca a instaurare con il lettore un filo di empatia, che da un lato deriva dalla semplicità dell’esposizione e dall’altro dai temi trattati (non argomenti di notevole difficoltà, ma la vita stessa in tutte le sue sfaccettature, nel bene così come nel male), è indubbiamente un biglietto da visita benaugurale. Di questo autore non avevo mai letto nulla e l’opportunità di conoscerlo deriva dalla sua partecipazione al concorso Faraexcelsior 2020 con questa silloge, classificatasi al secondo posto. Oltre alle caratteristiche che ho riscontrato e indicate sopra, c’è anche una spiccata sincerità, un fermo proposito di non nascondersi dietro un velo di pudore al fine proprio di spalancare il proprio animo come una finestra in primavera (Da Per scrivere poesie: Per scrivere poesie sincere / è necessario essere innocenti / e spietati come bestie senza morale, / essere il morso che strappa la carne dall’osso, / il cane bastardo che non molla la presa, / che scava nel fango, / che porta alla luce la preda occultata. /...). Non mi è mai piaciuto l’ermetismo per l’ermetismo, come bastasse solo scrivere versi pressochè incomprensibili per realizzare una bella poesia; al contrario, credo che invece sia importante che la comunicazione poeta – lettore sia la più diretta e semplice possibile, ed è quel che cerco di fare io, e che ad Airaghi è riuscito perfettamente. Un esempio? Eccolo: Da nella luce d’autunno - Nella luce d’autunno - Nell’oro delle sere d’autunno, / nella loro simbologia fraintesa, / ci incamminiamo lungo il sentiero / che costeggia la roggia. / In faccia alla forza del sole che cala / non so dove poggiare lo sguardo / e il passo che non regge il fulgore. / Come renderti evidente questa luce, / condividere a parole il respiro / che mi illudo di avere compreso? / Ci abbaglia un riflesso che canta / tra i rami di questi alberi spogli, / tra queste foglie gialle, arrese / alla luce clemente di ottobre. / Ripeto parole che in fondo / conosco, capisco da sempre: / quanta bellezza concessa / a sorreggere il peso del mondo.). In una descrizione che sembra uscita dalla tavolozza di un pittore c’è l’intento di rendere partecipi delle spettacolo della natura chiunque si accosti a questi versi, con un sottofondo di tenera malinconia indotta dalla stagione e che sembra preludere a una visione serena del mondo, da sempre solcato da stagioni, come metaforicamente la vita stessa degli uomini.

Pur non risultando quest’opera un capolavoro (forse lo sarebbe stata se l’autore fosse sceso più in profondità) tuttavia, per l’immediatzza dell’esposizione, per la sincerità profusa, per l’indubbia capacità di ricreare ambienti e atmosfere Quello che ancora restava da dire è una raccolta in grado di dare ampia soddisfazione e piacere a chi legge, riuscendo anche a trasmettere quella serenità di cui è permeata.

Giuseppe Carlo Airaghi è nato a Legnano (MI)nel 1966. Vive a Lainate (MI). È impiegato presso un’azienda di servizi. In passato ha lavorato come geometra, animatore di villaggi turistici, venditore di prodotti siderurgici, cantante di musica blues. Nel 2019 ha pubblicato con Italic Pequod la raccolta di poesie I quaderni dell’aspettativa.
Renzo Montagnoli

 

 

10 Novembre

Ed ebbero la luna

di Alessandro Damiani

Nota dell’Editore

Prefazione di Fabio Russo

Postfazione di Nelida Milani

Edit La casa editrice degli italiani di Croazia e Slovenia

 

Un’autobiografia ideologica

E’ strana la vita e porta spesso a inusuali scoperte, magari dovute a casi fortuiti, ma sempre scoperte sono, perché altrimenti nulla si sarebbe potuto sapere di fatti e/o di personaggi. Conosco da diverso tempo (una conoscenza solo internettiana) Sandro Damiani, prima abitante a Spalato e successivamente a Fiume, entrambe due graziose cittadine croate sulla base delle impressioni che ho ritratto vedendo alcuni documentari televisivi sulle stesse. Ebbene, dopo saltuari scambi di opinioni in cui mi ero fatto solo l’idea che Sandro Damiani fosse il direttore di una compagnia teatrale, questi  mi ha dato alcuni cenni della figura di suo padre, approdato in territorio jugoslavo nell’estate del 1948, proveniente dalla natia Calabria, per unirsi nella guerra civile greca alla guerriglia comunista appoggiata da Tito. E’ ovvio che l’esperienza terrena di Alessandro Damiani va oltre, ma per evitare una doppia informazione invito a leggere la sua breve biografia riportata in calce. Che fosse giornalista ormai lo sapevo, quello che ignoravo è che fosse anche scrittore, almeno fino a quando il figlio Sandro non me ne ha parlato, invitandomi anche alla lettura di una sua opera, questo “Ed ebbero la luna” finanziato dall’Unione Italiana e dal Ministero degli Affari Esteri della Repubblica Italiana. Si tratta di un romanzo che ha vinto nel 1980 l’Istria Nobilissima per la narrativa e che rivela una penna dallo stile indubbiamente particolare, tutto proteso allo scopo dell’opera che ha una natura ibrida, nel senso che da un lato è un vero e proprio romanzo e dall’altro è un saggio storico, in cui tuttavia confluiscono discipline anche diverse, come la sociologia e la politologia. Ammetto che la lettura all’inizio mi ha un po’ sconcertato, perché l’opera, ben aderente a un determinato periodo storico e a un evento indimenticabile quale è stato il rapimento Moro, poco a poco assume le caratteristiche della metafora, quasi a stemperare da un lato la realtà in cui la mente umana che ha vissuto quel periodo potrebbe risultare troppo influenzata dal ricordo e dall’altro per dare spazio a riflessioni che vanno ben oltre il contingente. L’impressione che ho ritratto da una non facile lettura (ma gratificante comunque) è che si tratti dell’autobiografia ideologica dell’autore e se diamo uno sguardo alla sua pur breve biografia possiamo ben comprendere quante speranze, quante delusioni e quanti ripensamenti hanno arricchito, ma anche travagliato, la sua esistenza.  In una visione apocalittica dell’Europa che la relega a terra di sconfitte, un deserto di rovine tipico di una civiltà millenaria che ha distrutto se stessa, c’è tutto il percorso ideologico del protagonista che lo conduce a essere critico senza diventare ostile, a comprendere la realtà del momento, integrandosi in essa, nell’essere uomo fra gli uomini – quindi pragmatico -  e nel dare corpo al suo desiderio di partecipazione su basi oggettive. Questo mi sembra di comprendere che sia lo scopo principale dell’opera, per quanto Damiani inserisca tante e tali motivazioni di notevole portata che singolarmente potrebbero già essere la chiave di un romanzo.  E se ciò può comportare un’ulteriore difficoltà di lettura, viste le diverse riflessioni che vengono imposte, è pur vero che l’autore dimostra in tal modo di non essere imperativo, ma di lasciare a chi legge il privilegio di trarre le conclusioni che più gli aggradano, e questo è un ulteriore elemento di valore dell’opera, uno di quei libri che nel consigliarne la lettura è opportuno anche aggiungere che sarà necessario più volte prendere in mano, per successive, anche parziali, riletture, perché i concetti espressi sono veramente numerosi.   

Alessandro Damiani (Sant’Andrea Apostolo dello Ionio, 26 agosto 1928 – Fiume, 17 ottobre 2015)  è stato un  giornalista e scrittore della Comunità Nazionale Italiana in Croazia. Gli esordi giornalistici del Damiani risalgono al 1946 quando, diciottenne, collabora con Umanità Nova, l'organo dell'Anarchia italiana.

Arriva in Jugoslavia nell'estate del 1948 con un gruppo di giovani volontari italiani, coll'intento di unirsi alla guerriglia comunista nella guerra civile greca, appoggiata dalla Jugoslavia di Tito.

A seguito della rottura tra Tito e Stalin, la Jugoslavia chiude però i confini con tutto l'est europeo e toglie il proprio appoggio all'DSE (Esercito Democratico Greco), guidato dal comandante Vafiadis: quest'ultimo venne arrestato a Mosca, ed il suo posto venne preso del generale Zachariadis. La maggior parte delle migliaia di giovani volontari confluiti da ogni parte d'Europa ritorna quindi nei rispettivi Paesi, salvo un'aliquota di essi che venne perseguitata dai titoisti jugoslavi. Alcune centinaia divengono invece dei sostenitori del dittatore e rimangono in Jugoslavia. Vi rimane pure il ventenne Damiani, che si stabilisce a Fiume e nel 1948, entra nella compagnia di prosa del Dramma Italiano[1], dove conosce Piero Rismondo, all'epoca direttore e regista del complesso teatrale ed in seguito tornato in Austria, da dove era fuggito durante la guerra.

Nel 1950 Damiani sposa Olga Stancich (nata Stančić, nel 1916, nella Fiume ungherese), già cantante e doppiatrice di Marlene Dietrich. Nel 1957, deluso dall'esperienza jugoslava, fa ritorno in Italia.

Dopo nove anni trascorsi nel mondo del giornalismo[2], questa volta deluso dall'Italia se ne torna definitivamente in Jugoslavia coll'intento di contribuire alla salvaguardia del patrimonio linguistico-culturale italiano nell'area istro-quarnerina. Abbraccia le posizioni di Eros Sequi, secondo cui - a fronte delle pressioni nazionaliste panslave, sostituitesi ben presto nella Jugoslavia di Tito, agli ideali del socialismo, ed in assenza di adeguate attenzioni da parte dell'Italia - "bisogna salvare il salvabile", per evitare che del retaggio italiano nell'area non rimangano che vaghi ricordi.

Redattore del periodico Panorama e del quotidiano La Voce del Popolo, insegnerà giornalismo alla Facoltà di Italianistica di Pola dell'Ateneo fiumano e alla Scuola media superiore italiana di Fiume. Collabora con Tv-Capodistria e col mensile fondato da Pietro Calamandrei, "Il Ponte", di Firenze.

Pubblica saggi e libri sulla cultura italiana dell'Istria e di Fiume, romanzi, commedie, varie antologie di poesie.

Gran parte dei suoi lavori sono tradotti in croato ed alcuni anche in sloveno.

1^ Il Sandro Damiani che negli anni Novanta/Duemila sarà direttore della compagnia è suo figlio.

2^ Tra gli altri, collaborerà con Il Pensiero Nazionale diretto da Stanis Ruinas.

Fonte Wikipedia
Renzo Montagnoli

 

 

5 Novembre

Km 123

di Andrea Camilleri

Arnoldo Mondadori Editore S.p.a.

Narrativa romanzo

 

Un romanzetto solo discreto

Con Km. 123 ho ritratto l’impressione che si sia grattato sul fondo del barile, perché la feconda capacità creativa di Camilleri ha necessariamente un limite. Anche in questo caso si tratta di un giallo, per quanto atipico, ma che presenta a sprazzi le ben note caratteristiche dell’autore, capace di inserire un sottofondo di ironia di fronte a vicende che sono indubbiamente tragiche. E per non smentirsi Camilleri ha imbastito con Km. 123 una intricata storia di corna e controcorna, aspetto che prevale sulla vicenda poliziesca determinando gli accadimenti delittuosi. Pare proprio che a quel chilometraggio dell’arteria che porta da Roma al nord accadano cose strane, come che un’auto di grossa cilindrata speroni volontariamente una piccola Panda, facendola volare giù dalla scarpata e provocando gravi ferite al conducente. Alcuni giorni dopo però, sempre allo stesso chilometraggio e in fondo alla scarpata, viene ritrovato un SUV con a bordo il cadavere di una donna, una disgrazia che può far pensare a un incidente o, alla luce dei personaggi interessati, a un suicidio. Non aggiungo altro della trama, in verità un po’ intricata, per non togliere quel poco di suspense offerta dal romanzo, in cui abbondano i dialoghi, anche un po’ troppo. Km. 123 è indubbiamente un’opera minore di Camilleri, sia come struttura, un po’ debole, che come esposizione, esclusivamente in italiano, ma povera di descrizioni. Nonostante ciò, vuoi perché si sa chi è l’autore, vuoi perché la lettura è piuttosto scorrevole, Km. 123, che non è certamente un capolavoro, risulta un romanzo tutto sommato accettabile, anche perché saggiamente breve in presenza di una struttura non tanto solida.

Qualcuno potrebbe definirlo senza infamia e senza lode e probabilmente avrebbe ragione, ma io non intendo infierire, data la caratura dell’autore, e mi limito a definirlo un libro discreto, sicuramente leggibile, adatto a trascorrere senza pensieri qualche ora, e nulla di più.

A completare le 138 pagine del romanzo è riportato un intervento di Camilleri al convegno “ Scrittori e critici a confronto”, tenutosi all’Università di Roma Tre il 24-25 marzo 2003 e avente per oggetto una breve storia del romanzo giallo in Italia. E’ una lettura che si potrebbe definire interessante, se il brano non avesse il difetto di restare in superficie, di non approfondire, insomma con un impegno che sembra limitato anche il risultato è necessariamente modesto.

Nato a Porto Empedocle (Agrigento), Andrea Camilleri ha vissuto per anni a Roma. 
Dal 1939 al 1943, dopo un periodo in un collegio da cui viene espulso, studia ad Agrigento al Liceo Classico Empedocle dove ottiene la maturità classica senza dover sostenere l’esame a causa dell’imminente sbarco degli alleati in Sicilia. A giugno inizia, come ricorda lo scrittore, "una sorta di mezzo periplo della Sicilia a piedi o su camion tedeschi e italiani sotto un continuo mitragliamento per cui bisognava gettarsi a terra, sporcarsi di polvere di sangue, di paura".  S’iscrive all’Università (Facoltà di lettere) ma non si laureerà mai. Si iscrive anche al Partito Comunista.
Inizia a pubblicare racconti e poesie e vince il Premio St Vincent.
Dal 1948 al 1950 studia regia all’Accademia d’Arte Drammatica Silvio d’Amico e inizia la sua attività di sceneggiatore e regista.
Perde un concorso per diventare funzionario Rai, ma dopo qualche anno inizia a lavorarvi.
Nel 1958 porta in Italia il teatro dell'assurdo di Beckett con Finale di partita, prima al teatro dei Satiri di Roma e poi in televisione con Adolfo Celi e Renato Rascel.
Insegna al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma.
Molte le produzioni Rai di cui si occupa, particolarmente famosi gli sceneggiati del tenente Sheridan con Ubaldo Lay e "Le inchieste del commissario Maigret" con Gino Cervi. Nel 1977 ottiene la cattedra di Istituzioni di Regia all'Accademia di Arte Drammatica. La manterrà per vent'anni.
L’esordio in narrativa è del 1978 con Il corso delle cose pubblicato da un editore a pagamento ed è un insuccesso.
Nell’80 pubblica con Garzanti Un filo di fumo, il primo romanzo ambientato nell’immaginario paese di Vigàta e con questo romanzo vince il Premio Gela.
Per 12 anni non escono più suoi romanzi.
Nel 1992 pubblica per Sellerio La stagione della caccia. Nel 1994 con La forma dell’acqua dà vita al personaggio del commissario Montalbano, protagonista di una nutrita serie di romanzi. Da quel momento la sua produzione è molto ricca e il successo immenso.
Alla fine del 2002, accetta la nomina a direttore artistico del Teatro Comunale Regina Margherita di Racalmuto.
Nell’aprile 2003, in onore a Camilleri, il comune di Porto Empedocle assume come secondo nome «Vigàta».
Il 4 settembre 2008 vince il premio de Novela Negra RBA con un inedito in lingua spagnola dal titolo La muerte de Amalia Sacerdote pubblicato in Spagna nell’ottobre 2008 ed in Italia nel 2009 con il titolo La rizzagliata.
Tra i premi che gli sono stati conferiti ricordiamo il Premio Campiello 2011 alla Carriera e il Premio Chandler 2011 alla Carriera.
Tra le sue opere più recenti che non hanno come protagonista il commissario Montalbano: Il diavolo, certamente (2012), Dentro il labirinto (2012), Il tuttomio (2013), La rivoluzione della luna (2013), Come la penso (2013), Inseguendo un'ombra (2014), Segnali di fumo (Utet 2014), Il cielo rubato. Dossier Renoir (Skira 2014), Andrea Camilleri incontra Manuel Vázquez Montalbán (Skira 2014), La relazione (Mondadori 2015), Il quadro delle meraviglie. Scritti per teatro, radio, musica, cinema (Sellerio 2015), Le vichinghe volanti e altre storie d'amore a Vigàta (Sellerio 2015) Topiopì(Mondadori 2016), La cappella di famiglia e altre storie di Vigàta (Sellerio 2016), La mossa del cavallo (Sellerio 2017), La rete di protezione (Sellerio 2017), La targa (Rizzoli 2017), Esercizi di memoria (Rizzoli 2017). Tra il 2018 e il 2019 insieme ai romanzi della serie dedicata al commissario Montalbano, Il metodo Catalanotti e Il cuoco dell'Alcyon, (Sellerio) vengono pubblicati da Mondadori i suoi racconti gialli, Km 123, e da Salani i racconti illustrati con protagonisti gli animali, I tacchini non ringraziano, la pièce teatrale Conversazione su Tiresia (Sellerio) e i racconti dedicati alla sua casa di campagna a Porto Empedocle, La casina di campagna, del piccolo editore siciliano Henry Beyle.
Andrea Camilleri si è spento il 17 luglio 2019 all'età di 93 anni, dopo aver pubblicato più di cento libri, romanzi, saggi, opere teatrali, fumetti, poesie e dopo aver inventato un nuovo linguaggio, misto di italiano e siciliano. Nel 2003 è stato insignito, su iniziativa del Presidente della Repubblica, dell'onorificenza di Grande Ufficiale dell'Ordine al merito della Repubblica Italiana.
Renzo Montagnoli

 

 

26 Ottobre

Morsa di ghiaccio

di Clive Cussler e Dirk Cussler

TEA Edizioni

Narrativa

 

Azione ed ecologia

Il caldo estivo mi ha imposto la necessità di restare in casa al fresco del climatizzatore, ma, se in questo modo la temperatura era accettabile, per non dire gradevole, restava il problema di come trascorrere il tempo. Rimanere ore e ore davanti allo allo schermo del personal computer non mi attirava, mentre sembrava, e lo era, una soluzione migliore la lettura di qualche libro. Sorgeva però impellente una domanda: cosa leggere? L’opera di qualche mostro sacro, un testo di saggistica letteraria o storica? Con il caldo non si ha molta voglia di porsi dei quesiti, di fermarsi a riflettere, e allora meglio una lettura d’evasione. Non è un caso poi se la mia scelta è caduta su Morsa di ghiaccio, di un autore noto e prolifico per i romanzi d’avventura, perché il titolo e la trama richiamano inevitabilmente atmosfere che vanno ben oltre la frescura e se anche si tratta di sensazioni di freddo, non corrispondenti quindi alla realtà, leggere di qualcosa di ambientato al circolo polare artico, o nei suoi pressi, sembrava benaugurale, visto invece il caldo opprimente di quei giorni.

Ciò premesso e considerato che non chiedevo di più di qualche ora di evasione Morsa di ghiaccio ha rsposto alle mie aspettative, con una vicenda che parte da lontano, addirittura nel XIX secolo per giungere quasi ai giorni nostri, in cui mistero,  azione, fantasia al massimo, temi ecologici si mescolano per servire un piatto di bell’aspetto, anche se poco saporito. Sì, perché se consideriamo che la verosimiglianza della trama è quanto mai labile, la semplicità nel descrivere i protagonisti (o tutti buoni, o tutti cattivi) e un certo ritmo letargico nella prima parte sono le basi per un giudizio che tiene necessariamente conto solo della capacità del libro di concedere un po’ di svago e nulla più. Non è che Clusser sia un narratore da due soldi, ma, dato che ha al suo attivo ben 88 progetti editoriali a suo nome, che sono tanti pur considerando la sua non certo breve esistenza (è vissuto 88 anni e qualche mese), inevitabilmente ha finito per ricorrere a un clichè, a una struttura collaudata, anche se alla fin fine ripetitiva.

Probabilmente non aspirava a riconoscimenti di grande prestigio, ma gli bastava vivere bene dei proventi della sua attività, il che di fatto ha impedito che ci fossero evoluzioni nello stile, ricorrendo infatti l’autore a soluzioni vincenti, ma non di certo originali. Così anche in Morsa di ghiaccio, dove addirittura si rischia un conflitto fra Stati Uniti e Canada per colpa di un magnate che al denaro e al potere sacrifica tutto, quando gli immancabili eroi sono prossimi a essere sconfitti ecco che arriva la carica del settimo cavalleggeri, che ha l’aspetto di un sottomarino nucleare battente la bandiera a stelle e strisce. Per quanto ovvio il cattivo di turno, un feroce killer al servizio del magnate, verrà sconfitto e anche il mandante di tanti omicidi farà una fine collegata a una delle sue attività (lo stoccaggio dell’anidride carbonica). E la ricerca del rutenio, il metallo catalizzatore di una reazione del biossido stesso che tanto contribuirebbe alla soluzione dei problemi ecologici come finirà? Non lo dico, sta al lettore scoprirlo, altrimenti il ritmo più veloce della seconda parte e la suspense più accentuata finirebbero con il perdere di valore. 

E sempre in termini di valore, anzi di valutazioni, il mio giudizio dell’opera è che si tratta di un libro idoneo a far trascorrere, senza tanti affaticamenti mentali, alcune ore; è inutile chiedere di più, perché è tutto quello che può offrire e comunque riesce nello scopo.  

Clive Cussler è stato uno scrittore statunitense, famoso per i suoi innumerevoli romanzi d'avventura.
Nato in Illinois da madre americana e padre tedesco, da piccolo si trasferisce con la famiglia in California. Comincia poi a studiare al Pasadena City College, ma interrompe dopo due anni per arruolarsi nell'aviazione: partecipa quindi alla Guerra di Corea come sergente e lavora anche come meccanico e ingegnere aeronautico per il Military Air Transport Service (MATS).
Nel 1955 sposa Barbara Knight, che gli rimarrà accanto per quasi cinquant'anni; dandogli tre figli: Teri, Dana e Dirk. Quest'ultimo (chiamato così in onore del personaggio di maggior successo di Cussler, Dirk Pitt) si è laureato a Berkeley ed ha lavorato per molti anni in campo finanziario prima di dedicarsi a tempo pieno alla narrativa, sulle orme paterne, collaborando alla stesura di tre romanzi scritti a quattro mani con il padre.
Terminato il servizio militare, Cussler negli anni '60 lavora con successo nella pubblicità, come direttore creativo di una delle più importanti agenzie pubblicitarie degli Stati Uniti. Fonda nel 1978 la National Underwater & Marine Agency, fondazione non profit specializzata nella localizzazione, identificazione e recupero di relitti marini di rilevanza storica, che ha preso il nome dall'omonima agenzia governativa di fantasia per cui lavorano i personaggi dei suoi libri.
In seguito alla pubblicazione di Cacciatori del mare (1997), primo lavoro interamente realistico scritto in collaborazione con Craig Dirgo, è stato nominato dottore in lettere ad honorem dalla State University of New York Maritime College.
La sua carriera di scrittore comincia nel 1965, una notte in cui doveva badare ai figli mentre la moglie lavorava. Esordisce però solo otto anni dopo, con la pubblicazione del romanzo Enigma, cronologicamente il secondo dedicato alle avventure di Dirk Pitt. Il primo (Vortice, fino ad allora inedito), verrà pubblicato nel 1982. La svolta si avrà con Recuperate il Titanic! (1976), che lo porterà a diventare uno dei romanzieri d'avventura più conosciuti.
I romanzi di Cussler sono numerosissimi, e si dividono in vari cicli e seconda dei protagonisti: citiamo almeno Le avventure di Dirk PittNUMA filesOregon FilesFargo adventuresLe indagini di Isaac Bell e Fuga (scritto insieme a Justin Scott), La vendetta dell'imperatore con a Boyd Morrison, Attentato con Justin Scott (2019) e Il destino del faraone con Dirk Cussler (2020).
L'editore di riferimento in Italia è Longanesi (nonostante le prime opere di Cussler siano state pubblicate negli anni '70 da Rizzoli).
Da segnalare che per ben 17 scritti consecutivi lo scrittore ha raggiunto la prima posizione nella hit parade del «New York Times» dedicata ai romanzi di fiction.
Il 24 febbraio 2020 muore all'età di 88 anni.

 Dirk Cussler, laureato a Berkeley, ha lavorato per molti anni in campo finanziario prima di dedicarsi a tempo pieno alla narrativa, sulle orme del padre, il famoso Clive Cussler, che ha seguito partecipando attivamente a numerose spedizioni della NUMA. I suoi libri sono scritti a quattro mani con il padre. Fra questi ricordiamo: Il tesoro di Gengis KhanVento nero, Morsa di ghiaccio, Alba di fuoco, La freccia di Poseidone, Havana storm.
Renzo Montagnoli

 

 

19 Ottobre

Poesie minuscole

di Colomba Di Pasquale

Prefazione di Vivian Lamarque
Postafazione di 
Anna Ruotolo

Fara Editore

Poesie

 

Il contenuto è tutt’altro che minuscolo

Occorre riconoscere che il titolo della raccolta è veramente azzeccato, perché si tratta di poesie notevolmente corte, quasi delle impressioni impresse sul foglio nel timore che fuggano dal magazzino della mente. Un altro poeta probabilmente ne avrebbe approfittato per considerarle degli spunti su cui costruire un discorso più ampio e invece Colomba Di Pasquale non è improbabile che le abbia acconciate per farle diventare in via definitiva dei componimenti. Non siamo al livello della celebre Mattina di Ungaretti, brevissima e folgorante, né si sarebbe preteso così tanto, eppure non mancano guizzi di particolare rilievo in grado di tenere a mente quanto si è letto (Basterà il tempo da vivere / per essere felici?, oppure Scrivere serve a poco / in un paese che non legge). Si tratta solo di due esempi, due riflessioni che tuttavia sottendono una risposta, tali da farle classiificare quasi come aforisma e la ragione è presto detta, perché nel primo caso è la dimostrazione di come la felicità, inseguita giorno per giorno, sembri una chimera, mentre nel secondo  è un’amara constatazione di un qualcosa che è peculiare del nostro paese. Ce ne sono forse anche di più indovinate come questa: i poeti seminano parole / a raccogliere frutti di stagione. Come è possibile comprendere si tratta quasi di istantanee, brevissime e facilmente comprensibili, un caso non infrequente, e non poche volte finiscono con l’essere dei consigli spassionati come “ti togli un sasso dal cuore / e ti liberi un po’”. Altre volte invece emergono ricordi, immagini che si materializzano e che tradotte in parole si fissano sulla carta, come   “i fenicotteri disegnarono una f reccia / di sopra le nostre teste zeppe di stupore”, oppure sono manifestazioni amorose, espressioni di sentimento autentiche, per quanto ponderate “sei tu il mio volo  / tu che mi doni un piccolo tempo / quando puoi / ogni giorno o due”.

Sono sincero nel dire che è una lettura agevole, ma insolita, un contatto con la poesia che si esaurisce, come si suol dire in “un amen”, uno sfioramento più che altro, ma che tuttavia lascia il suo segno perché impone continue riflessioni, comparazioni che ci toccano direttamente e che quei pochi e scarni versi fanno affiorare.

Da leggere, quindi, a casa come in treno, al parco come in spiaggia, poiché  questi versi si rivelano anche un piacevole passatempo, tuttavia non fine a se stesso, visto che implementano meditazioni personali, fenomeno non consueto  nel caos della vita moderna.

Colomba Di Pasquale vive e lavora a Recanati. Tra le sue opere in versi: Viaggio tra le parole (Del Monte 2006); Una vita altrove (Nicola Calabria 2007); Il resto a voce (Fara 2008); Dulcamara (prefazione di Vivian Lamarque, Genesi 2010); Il mio Delta ed dintorni (prefazione di Vivian Lamarque, Fara 2014); Circostanze certe (Fara 2017); Poesie minuscole (ebook, Nomos 2017).
Renzo Montagnoli
 

 

 

11 Ottobre

L’amore ai tempi del colera

di Gabriel García Márquez

Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Narrativa

 

Il vero amore non ha età

L’amore ai tempi del colera narra di una tormentata storia d’amore, in cui la fedeltà e la pazienza di un uomo, Florentino Ariza, ha indubbiamente dell’inverosimile, ma se si considera la personalità dell’individuo, la sua passione che gli consente di vivere per quanto inappagata, il suo romanticismo in cui sofferenza e felicità si incrociano e sono indispensabili luna all’altra, si può comprendere come nulla sia impossibile quando ci sono in gioco dei sentimenti che travalicano qualsiasi logica. Il suo desiderio è per Fermina Daza, figlia di una famiglia assai ricca e che desidera per lei un matrimonio molto più di prestigio di quello che invece potrebbe contrarre con un figlio del popolo. Lei è lusingata dalle attenzioni del giovane, ma forse il sentimento che prova non è amore, ma compiacimento, così che, senza che vi sia una vera e propria attrazione, sposa il Dott. Urbino, un partito d’oro, un medico, l’uomo più in vista e stimato della città. Mentre poco a poco lei finirà con l’apprezzare il marito, il giovane Florentico, che si è proposto di fare una scalata sociale per assicurare a Fermina quell’agiatezza e quel livello a cui è abituata, non demorde, se ne sta in disparte, sembra quasi rassegnato, ma il suo proposito di poter un giorno unirsi alla donna dei suoi sogni resta inalterato e arriva perfino a consumare amori carnali usando tutte le cautele possibili perché lei non ne venga a conoscenza, tanto che con il tempo, quando la sua carriera   nell’azienda dello zio lo porterà molto in alto, la gente penserà di lui come di un invertito o addirittura di un pederasta. La morte improvvisa che coglie il dottor Urbino, quando lui e la moglie Fermina sono ormai avanti con gli anni, consente a Florentino di concretizzare infine il suo sogno.

Non è mia abitudine raccontare la trama dei libri che leggo, ma in questo caso ho dovuto tracciarla, sia pure nelle sue linee generali, perché il romanzo di Marquez, pur presentando una storia avvincente, ha pregi che vanno ben oltre e risiedono nella straordinaria capacità dell’autore di rendere plausibile una storia che ha dell’inverosimile, destreggiandosi abilmente fra due vite che sono necessariamente diverse e che sembrano procedere indipendenti l’una dall’altra, con le descrizioni puntuali delle atmosfere, dei paesaggi, dei protagonisti di una repubblica sudamericana che vede ogni tanto scoppiare guerre locali e in cui quasi endemico è il colera, con ricorrenti epidemie. Mi soffermo in particolare su un aspetto importantissimo relativo alla capacità di dare credibilità alla vicenda, un risultato ottenuto con una strategia narrativa in cui al centro dell’attenzione ci sono i sentimenti e fra questi l’amore, per il quale nulla è impossibile; inoltre i molti personaggi femminili sono perfettamente funzionali allo scopo, sono madri premurose per Florentino che arriva alla vecchiaia quasi senza accorgersene e che appunto in età avanzata riuscirà a concretizzare quell’amore con Fermina che è stato il fine della sua vita. Sono pagine di grande dolcezza, in cui non sarebbe stato difficile cadere nel ridicolo senza la sensibilità di Marquez che riesce perfino a rendere commovente un amplesso fra due individui che ormai sono nell’inverno della loro esistenza.

Mi è piaciuto molto, l’ho letto con un interesse via via crescente e alla fine ho provato un concreto appagamento, ho gioito nel vedere come l’amore, quello vero, non abbia età. 

Gabriel García Márquez scrittore colombiano Premio Nobel per la Letteratura nel 1982.
Come giornalista ha soggiornato in Francia, Messico e Spagna; in Italia è stato allievo del Centro sperimentale di cinematografia.
Ha esordito con un breve romanzo, dove più evidente è l’influenza di Faulkner: Foglie morte (La hojarasca, 1955), cui sono seguiti Nessuno scrive al colonnello (El coronel no tiene quién le escriba, 1961); i racconti raccolti ne I funerali della Mamá Grande (Los funerales de la Mamá Grande, 1962), nei quali, soprattutto in quello che dà il titolo al volume, è già tratteggiato il mondo mitico e paradossale del narratore; La mala ora (La mala hora, 1962), altro romanzo, dove si narra una storia spietata di lettere anonime che coinvolge un intero paese, e Cent’anni di solitudine (Cien años de soledad, 1967), considerato il suo capolavoro, centrato sull’immaginaria ed epica comunità di Macondo.
Fuori del ciclo macondiano stanno il romanzo L’autunno del patriarca (El otoño del patriarca, 1975), torbida e visionaria vicenda d’un dittatore imprecisato, di segno anch’esso mitico; il racconto lungo L’incredibile e triste storia della candida Eréndira e di sua nonna snaturata (La increíble y triste historia de la candida Eréndira y de su abuela desalmada, 1972); il romanzo breve Cronaca di una morte annunciata (Crónica de una muerte anunciada, 1981), dove un fatto di cronaca, un delitto d’onore, sembra rovesciare ogni logica sotto il segno d’un destino emblematico, tanto spietato quanto capriccioso; il romanzo L’amore ai tempi del colera (El amor en los tiempos del colera, 1985) in cui si racconta la lunga storia ottocentesca di un amore che resiste a trent’anni di separazioni e traversie; Il generale nel suo labirinto (El general en su laberinto, 1989), ispirato alla vita e agli amori di Simón Bolívar; Dell’amore e di altri demoni (Del amor y otros demonios, 1994).
Ha inoltre pubblicato la raccolta di articoli Taccuino di cinque anni 1980-1984 (1991) e l’indagine giornalistica Notizia di un sequestro (Notícias de un secuestro, 1996, sul rapimento di dieci persone da parte dei narcotrafficanti). Attraverso disarticolazioni cronologiche e forme fiabesche e leggendarie, spesso lievitate in pagine di gustoso umorismo, G.M. dà nelle sue opere una visione complessa e contrastata della «solitudine» dell’uomo latinoamericano e della condizione alienata e allucinata del mondo tropicale.
Nel 2001 è uscita la prima parte della sua autobiografia, Vivere per raccontarla (Vivir para contarla) cui ha fatto seguito il romanzo Memoria delle mie puttane tristi (Memorias de mis putas tristes, 2004).
Nel 1982 ha ottenuto il premio Nobel per la letteratura «Per i suoi romanzi e racconti, nei quali il fantastico e il realistico sono combinati in un mondo riccamente composto che riflette la vita e i conflitti di un continente».

Parzialmente tratto da: Enciclopedia della Letteratura, Garzanti 2007
Renzo Montagnoli

 

 

28 Settembre

Lo straniero

di Albert Camus

Bompiani Editore

Narrativa

 

L’estraneità al mondo

“Oggi è morta mia mamma. O forse ieri, non so”

Già l’incipit, che riporto sopra, offre una visione, se pur ancor approssimativa di quel che è Meursault, il protagonista, un francese che risiede in Algeria e che in prima persona descrive la sua vita come se questa gli fosse estranea, come se lui vedesse solo da osservatore il procedere degli eventi. E in effetti, insensibile a qualsiasi approccio affettivo, lascia scorrere l’esistenza di cui appare più  soggetto passivo che artefice. Diviso in due parti il romanzo porta alla conclusione un Meursault che uccide senza motivo, che viene condannato alla ghigliottina e che solo quando avverte che la sua fine è imminente prova per la prima volta un desiderio, quello di ricominciare, di ricostruirsi una nuova vita, come aveva fatto sua mamma quando lui l’aveva rinchiusa in un ospizio. Lo straniero è un’opera di grandissimo spessore, anche se di primo acchito e affrontata con superficialità potrebbe apparire dimessa. La forza straordinaria del libro è che in realtà non porta nessun insegnamento, ma dopo averlo letto si avverte chiaro che in noi è cambiato qualcosa e che se anche non è stata una lezione però ha avuto un risultato eccezionale, nel senso che ci apre la piccola porta attraverso la quale entriamo nel mondo, ingresso che sarà tanto più redditizio quanto più giovani saremo, perché è evidente che è pressochè impossibile ritornare a vivere da vecchi. Alla luce di questo Lo straniero non è il classico romanzo con una trama che avvince, che appassiona, bensì è una meditazione sull’approccio di una persona con il mondo e il vero valore dell’opera, che la rende più che mai attuale, risiede nell’incompletezza dell’essere umano, nella sua assurdità di essere al contempo né morale e nemmeno amorale, un’ambiguità da cui non riusciamo, ma anche non vogliamo uscire.

Non è certo un libro di facile lettura, o meglio ancora quella che invece può apparire una facile lettura richiede continue riflessioni e approfondimenti, senza i quali la sola trama sarebbe ben poca cosa e appunto come ho scritto prima è alla fine che ci si accorge che senza che lo vogliamo qualcosa è cambiato in noi, che in fondo, sia pur su scala diversa, potremmo essere dei Meursault e che, forse, siamo ancora in tempo per ricominciare, per rapportare diversamente la nostra vita con il mondo che ci circonda.

Non aggiungo altro, se non l’invito a leggerlo.      

Scrittore, filosofo, saggista, drammaturgo e anarchico francese, importantissimo esponente dell'esistenzialismo. Albert Camus nacque in Algeria, dove studiò e iniziò a lavorare come attore e giornalista. Affermatosi con il romanzo "Lo straniero" e con il saggio "Il mito di Sisifo", raggiunse un vasto riconoscimento di pubblico nel 1947 con "La peste". Dal 1940 a Parigi, partecipò alla resistenza. Nel dopoguerra fu caporedattore del giornale "Combat". Nel 1957 ebbe il nobel per la letteratura (con questa motivazione: "per la sua importante produzione letteraria, che con chiarezza e onestà illuminai problemi della coscienza umana nei nostri tempi"). Morì in un incidente automobilistico, a Villeblevin. Fra i titoli più celebri di Camus , oltre ai già citati "Lo straniero" e "La peste", possiamo citare "Caligola", "Il rovescio e il diritto", "La caduta", "L’uomo in rivolta", "Il primo uomo".
Renzo Montagnoli

 

 

19 Settembre

A ottant’anni se non muori t’ammazzano

di Ferdinando Camon

Apogeo Editore 

L’amore per la vita non ha età

E’ indubbio che l’attuale pandemia abbia colpito all’improvviso la popolazione del pianeta, con una scia di morti soprattutto fra le persone anziane, più deboli fisicamente, ma anche spesso vittime di una selezione forzata che ha indotto i medici, in assenza di adeguate strutture di terapia intensiva, a privilegiare i più giovani per le maggiori aspettative di vita, ma anche per i minori costi.

Fra i vecchi c’è stata quindi una vera e propria ecatombe e Ferdinando Camon, che giovane di certo non è essendo nato nel 1935, è insorto, un po’ per tutelare chi come lui potrebbe rientrare fra i perdenti della selezione, un po’, anzi soprattutto, per rivendicare il diritto alla vita indipendentemente dall’età. Ha scritto così questo libriccino (ha solo 92 pagine), che non ha per fortuna le caratteristiche di un pamphlet, ma è il frutto di osservazione dei comportamenti umani in epoca di Covid 19. In un certo senso e in scala ridotta si riallaccia al suo riuscito Tenebre su tenebre, perché l’esame da un punto di vista dell’analisi del comportamento umano è precisa e anche tagliente. Infatti é veemente la sua difesa della vita di una persona anziana, che non è assolutamente detto che vegeti dopo gli ottant’anni, ma che ancora ha il piacere di esistere e che può dare tanto all’umanità. Il tema e lo sviluppo però vanno ben oltre gli effetti del morbo e la falcidia dei vecchi e così in queste pagine si ripercorrono i giorni della pandemia dall’epoca in cui si decise la chiusura pressochè totale a quella della riapertura, con osservazioni e riflessioni per nulla scontate. Se puntuali sono le disamine dei provvedimenti, spesso gli effetti sono descritti con una punta di ironia che, senza nulla togliere all’efficacia di quanto deciso, ne smussa l’indispensabile carattere imperativo. E così inevitabili sono i fenomeni di chi cerca di evitare la forzata clausura, dalla donna che portava a spasso la tartaruga ai cani costretti a uscire più volte al giorno, oltre il necessario. Un paragrafo a parte, questa volta dolente, è poi dedicato ai medici e ai sacerdoti morti nell’adempimento delle loro funzioni, spesso appellati come eroi, ma non come quelli di un tempo che cadevano combattendo, perché questi di oggi vengono a mancare lavorando, insomma un eroismo occasionale del militare contrapposto a quello continuativo del personale sanitario. Eppure per questi che umilmente rischiano ogni giorno non ci sono medaglie, né ricompense, come se il loro fosse un atto dovuto e anche rimetterci la vita rientrasse nello loro normali funzioni. E infine, pur nella difesa della vita, Camon ha un occhio di riguardo per chi muore, per quelli (erano tanti, circa 500 al giorno) che si sono spenti nel loro letto di dolore senza il conforto della presenza dei familiari, impossibilitati addirittura a vedere il loro congiunto da defunto.

La resurrezione, perché così può essere chiamata, cioè la fine della reclusione in casa, apre lo spiraglio a nuove speranze, ma il riaffacciarsi al mondo esterno dell’anziano non solo non è scevro da rischi, ma talvolta presenta anche degli inconvenienti. Ritrovare gli amici è come ricominciare a dove ci si era fermati prima, ma in questa strage all’appello manca sempre qualcuno, della cui scomparsa ci si accorge solo ora, il che rende triste la ripresa e fa capire quanto labile sia l’esistenza, ritornando nuovamente il pensiero a quel morbo che ancora è ben presente.

Graffia questo libro ed è bene che sia così, perché, in questi frangenti, agli anziani non resta che una protesta tanto più sterile quanto più urlata; se invece si toccano i punti chiave, le storture, le magagne, le manchevolezze, ironizzando, si raggiunge lo scopo che è quello di ricordare che l’amore per la vita non ha età.   

Ferdinando Camon é nato nel 1935 in un piccolo paese della campagna veneta. Il suo primo romanzo, uscito con una prefazione di Pier Paolo Pasolini, è stato subito tradotto in Francia per interessamento di Jean-Paul Sartre. Nei suoi libri Camon ha raccontato la crisi e la morte della civiltà contadina (nei romanzi "Il quinto stato", "La vita eterna", "Un altare per la madre", Premio Strega, "Mai visti sole e luna", Premio Stazzema, e nelle poesie "Liberare l’animale", Premio Viareggio, e "Dal silenzio delle campagne"), la crisi che si è nominata terrorismo ("Occidente"), la crisi che porta in analisi ("La malattia chiamata uomo", "La donna dei fili", "Il canto delle balene") e lo scontro di civiltà, con l’arrivo degli extracomunitari ("La Terra è di tutti"). I suoi romanzi più recenti sono "La cavallina, la ragazza e il diavolo" (2004, Premio Giovanni Verga) e "La mia stirpe" (2011, Premio Vigevano-Mastronardi). Nel 2019 è uscito da Ediesse "Tentativo di dialogo sul comunismo", con Pietro Ingrao. Nello stesso anno Guanda ha pubblicato "Scrivere è più di vivere". È tradotto in venticinque paesi. Le sue opere sono pubblicate anche in edizioni per ciechi, in Italia e in Francia. Nel 2016 gli è stato assegnato il premio Campiello alla Carriera.
Renzo Montagnoli

 

 

12 Settembre

La strada di casa

di Kent Haruf

Traduzione di Fabio Cremonesi

NN Editore

Narrativa

 

La città che non c’é

Lo ammetto, ho un debole per una cittadina rurale del Colorado che si chiama Holt e di cui ho percorso le strade, incontrando gente che non potrò scordare. Se qualcuno osa dirmi che è impossibile, che non ho mai visitato quel luogo, gli grido in faccia che è un bugiardo, ben sapendo che ha ragione, perché non ho mai messo piede negli Stati Uniti e ovviamente a Holt, cittadina frutto del talento creativo di Kent Haruf.  Quanto volte sfogliando le pagine dei suoi romanzi ho immaginato le caldi estati, i freddi e nevosi inverni, le bevute del sabato sera, e quante volte nei miei sogni mi sono imbattuto nei suoi umanissimi protagonisti! Se è con Vincoli che ho fatto conoscenza con un microcosmo agricolo, è con la Trilogia della Pianura (Canto della pianura, Benedizione e Crepuscolo) che sono entrato a farne parte,  rapito dallo stile di un narratore che sussurra le vicende che racconta, che sonda con pudore l’animo umano e ci fa accostare piano piano ai suoi protagonisti, nessun eroe, ma normali uomini e donne, esseri pulsanti che sentiamo talmente vicini da intuirne la presenza che prende corpo nella nostra mente. Ed è per questo motivo che quando ho appreso che era uscito l’ultimo libro, non ancora pubblicato, scritto prima della Trilogia della Pianura, mi sono precipitato ad acquistarlo, certo e consapevole che avrei ritrovato ambiente, atmosfera e figure che ormai sono parte di me.

L’opera è divisa in due parti, di cui la prima è indispensabile per comprendere la seconda, ma se devo essere sincero le 86 pagine della prima mi hanno un po’ scombussolato, perché ho trovato un narratore che dipinge un’America secondo i suoi classici stereotipi, con un protagonista che è ben lontano, sotto l’aspetto umano, da quelli dei successivi romanzi. A essere sinceri Jack Burdette è il classico ragazzone, muscoloso e poco intelligente, ma che sa rendersi simpatico e piace alle donne. Ha un’esistenza che a definirla poco edificante è ricorrere a un eufemismo, anche perché, dotato di pochi pregi, fra i tanti difetti ha quello della disonestà. Per certi versi le pagine iniziali richiamano le scene di diverse pellicole americane che ci sono state propinate soprattutto in piena guerra fredda e quindi sembra di vedere qualcosa che si conosce già. Cominciavo già a disperare, quando con l’inizio della lettura della seconda parte ho ritrovato quel narratore profondamente umano che ha saputo così bene conquistarmi; la vicenda, dopo un periodo temporale in cui sboccia con lentezza un amore più ragionato che istintivo, facendo balenare uno sbocco alla grigia esistenza del direttore del giornale locale, separato di fatto dalla moglie, e un suo futuro roseo con la consorte di Jack Burdette, sparito e irrintracciabile dopo aver commesso una truffa, vira sul tragico e se non ci scappa il morto è un caso. E si può ben dire che alla vicenda non si applica il classico “e vissero felici e contenti”, visto che la nascente relazione è troncata pressochè agli inizi, lasciando un alone di infelicità.  La seconda parte è bella e commovente, fa ritrovare ai suoi lettori uno scrittore che, pur cantando di una cittadina immaginaria dell’America, ha per trame, capacità di approfondimenti, abilità nel comunicare  un’elevata attitudine artistica che si estrinseca in un linguaggio intenso, ma non greve, riuscendo a creare opere che vanno ben oltre i confini dello stato in cui si trova Holt, opere che non hanno tempo e pertanto sono sempre attuali, come si addice ai capolavori.

Kent Haruf (1943-2014), scrittore americano, dopo la laurea alla Nebraska Wesleyan University ha insegnato inglese. Prima di dedicarsi alla scrittura ha svolto diversi lavori, come operaio, bracciante, bibliotecario. Grazie ai suoi romanzi, tutti ambientati nella fittizia cittadina di Holt, ha ricevuto diversi riconoscimenti, tra cui il Whiting Foundation Award e una menzione speciale dalla PEN/Hemingway Foundation. Con il romanzo Il canto della pianura è stato finalista al National Book Award, al Los Angeles Times Book Prize, e al New Yorker Book Award. Con Crepuscolo, secondo romanzo della Trilogia della Pianura, ha vinto il Colorado Book Award, mentre Benedizione è stato finalista al Folio Prize.
Renzo Montagnoli

 

 

5 Settembre

Il mercante di libri maledetti

di Marcello Simoni

Newton Compton Editori

Narrativa

 

Romanzo del tutto mediocre

Per me non c’è di peggio di leggere un libro che ho comprato, nonostante la sensazione che non mi avrebbe soddisfatto, e verificare che avrei avuto ragione a non acquistarlo. Ma anche in questo caso il battage pubblicitario, il Premio Bancarella (mi chiedo come abbiano potuto attribuirglielo) mi hanno purtroppo influenzato e puntuale alla sauspicata soddisfazione è seguita la delusione e, diciamolo francamente, anche un po’ di rabbia, perché scrivere un romanzo senza capo né coda, ottenerne la pubblicazione e anche un premio importante mi lascia alquanto perplesso. Certo è stato, come si suol dire, pompato molto, qualcuno addirittura è arrivato a paragonarlo a Il nome della rosa, un accostamento francamente blasfemo. La vicenda, che si svolge nell’anno 1205, di per sé potrebbe essere essere anche interessante, se non fosse infarcita di pseudo rituali magici, esoterici, di diavolerie del tutto campate in aria, con le pagine che si susseguono aggiungendo mistero a mistero, con colpi di scena, alcuni prevedibili, altri del tutto illogici.  La ricerca ossessiva intrapresa dal mercante di reliquie Ignazio da Toledo del libro rarissimo Uter Ventorum, bramato anche da una setta religiosa, passa attraverso mille peripezie, violenze, omicidi, personaggi che si credevano amici e invece sono nemici, con pagine che spesso e volentieri portano a un vero e proprio torpore, salvo risvegliare improvvisamente, ma per poco, perchè si ricade presto nella noia. Insomma, dopo aver letto un centinaio di pagine, mi era venuta l’ispirazione di gettarlo nel cestino della carta straccia  e solo la decisione di arrivare fino in fondo per averne un giudizio compiuto mi ha indotto a proseguire la lettura, che non è stata assolutamente appagante. Infatti, gli intrecci, gli intrighi, i misteri incalzanti  mi sono apparsi fini a se stessi, cioè non inseriti in una struttura equilibrata, in assenza della concreta capacità di rendere le atmosfere e di sondare intimamente i vari personaggi. Direi che lo stile si è perso per strada e con esso anche la mia speranza che, nonostante la buona volontà che ho profuso per leggerlo, il romanzo potesse decollare, che l’autore riuscisse a conferirgli un’aria di mistero per gli inganni e non per situazioni paradossali.

E’ a malincuore pertanto che archivio questo pseudo romanzo storico, più che mai convinto che non ne leggerò altri di Marcello Simoni.

Marcello Simoni,  ex archeologo, laureato in Lettere, svolge il lavoro di bibliotecario. Ha pubblicato diversi saggi storici, ha partecipato all’antologia 365 racconti horror per un anno, a cura di Franco Forte (2011). Altri suoi racconti sono usciti per la rivista letteraria «Writers Magazine Italia». Con Il mercante di libri maledetti (Newton Compton 2011), il suo primo romanzo, ha vinto il Premio Bancarella. Nel 2012 sempre con Newton Compton ha pubblicato La biblioteca perduta dell'alchimista, nel 2013 Il labirinto ai confini del mondo e L'isola dei monaci senza nome. Del 2014 è L'abbazia dei cento peccati, e nello stesso anno il suo racconto "La prigione delle anime" appare nell'antologia Delitti di Capodanno, sempre per Newton Compton. Nel 2016 esce per Einaudi Il marchio dell'inquisitore, e nel 2018 Il monastero delle ombre perdute.
Tra le sue recenti pubblicazioni si ricordano: Il lupo nell'abbazia (Mondadori, 2019) e La selva degli impiccati (Einaudi, 2020).
Renzo Montagnoli

 

 

31 Agosto

Tintinnio di Lapislazzuli

poesie

di Bruna Cicala

Copertina di Giacomo Ramberti

Fara Editore

Poesia

 

Il senso della vita

Se è vero – e quasi sempre lo è – che nelle nostre scelte di opere letterarie molto influiscono i titoli delle stesse, ciò trova riscontro anche nel mio caso, in quanto non conoscendo l’autore, ciò che mi ha indotto a leggere questa raccolta è stata l’intestazione, anche se corroborata dai pochi versi riportati nel catalogo in cui la stessa appare. La calura dell’estate, i giorni di estesa sonnolenza – mi son detto – forse vengono mitigati da questa silloge che mi appare foriera di colori che ribaltano il bagliore accecante delle prime ore pomeridiane, e ho avuto fortuna, anche se ovviamente l’opera non è solo questo, come scrivo più avanti.

Se in tema di tinte predominante appare l’azzurro intenso del lapislazzulo, forse il colore che per eccellenza infonde un senso di libertà (azzurro è il cielo, azzurro è il mare), è pur vero che una raccolta di poesie non può basarsi solo su questo elemento che magari ha una funzione di contribuire a creare empatia con il lettore, ma deve avere ben altri contenuti, e li ha. A ben guardare, tutte le sillogi rispecchiano direttamente, o indirettamente, la vita dell’autore, le sue intime interrogazioni sull’esistenza, il confronto fra sé e sé nel tempo  e Tintinnio di Lapislazzuli non viene meno a questa impostazione spesso inconscia.

Il poeta in particolare si è chiesto perché non parlare della parabola della vita, di quella fase in cui, giunti al vertice, comincia la discesa e lo fa (Non piove, ancora, ma il diluvio indugia alle porte del sentire / se ne avverte il fragore dietro l’uscio / negli anfratti segreti del dolore artigliato, / nel rincorrere l’ultimo sprazzo di sole / a piedi scalzi in un campo di ortiche dissimulate /

[da viole. /…. - da Illudendo il crepuscolo), oppure :Svuotato il cassetto delle possibilità, / non resta che l’attesa. /… (da Bruciature). Ancor più il senso di rassegnato abbandono si riscontra in altri versi, come in Azzurro polvere (Rimesse dismesse / semi abbandonate sulla riva / han perso già i colori /

nell’umido che impera, / pieno di salmastro e di alghe morte. /…).

Non si creda tuttavia che Bruna Cicala si lasci vincere dallo sconforto, perché nel suo pragmatismo la fase calante dell’esistenza non è altro che una tappa del percorso della vita ed allora proprio per questo non ci si deve domoralizzare, anzi si deve vivere pienamente perché ogni istante deve meritare la nostra completa partecipazione; non è un caso quindi se la raccolta termina con una lirica initolata Lettera, che è un canto d’amore  in cui riappare il colore azzurro di un cielo terso, simbolo di libertà e di speranza (Come vorrei, amore mio, / confondere il tempo delle attese / dentro un piccolo bistrot, / tra le note un po’ stonate / di una musette su f isarmonica / accordata sull’istante. / Verbo voce e disincanto, / un sorriso ed un boccone /  l’occhio languido e rapace / per quel bacio che s’indugia / sulla soglia del piacere. / Come vorrei, amore mio, / dire al tempo che c’è tempo, / che nel mondo è la bellezza / artigliata sui miei  fianchi, / che tra il rosso della stanza / spicca azzurro un cielo terso, / pur perdendosi all’inferno / di quei sensi troppo accesi. ).

Gioe, dolori, soste, corse, e ogni tanto a fermarsi per pensare quale è il senso della vita, tante domande, poche risposte e neppure certe, ma così è la vita e in ogni caso merita di essere vissuta.

Grazie, Bruna Cicala, per questa lettura appagante.

Bruna Cicala è genovese e l’anima stessa della sua città racchiude l’essenza della sua poesia un po’ chiusa e misteriosa, rude e affascinante. Ti allontana e ti richiama a sé, come i mille carruggi e le creuze che fendono alti muretti a secco, dove la solitudine contemplativa si stempera in malinconia. Ha pubblicato in poesia con le Edizioni I Rumori dell’Anima:Tra dune di lava antica  (2015) Tra rovi e pietre preziose (2017).
Renzo Montagnoli

 

 

26 Agosto

Il ragazzo inglese

di Leonardo Gori

Edizioni TEA

Narrativa

 

Guerra, o non guerra?

Cavallo che vince non si cambia, verrebbe da dire dopo aver letto Il ragazzo inglese. Infatti, dopo la buona prova di La nave dei vinti, romanzo di gradevole lettura, ma non poco perfettibile, Leonardo Gori si cimenta nuovamente con un periodo storico che gli riesce particolarmente bene, vale a dire quello del ventennio. Premetto subito che l’opera è stata oggetto di meticolosa cura, così che le incongruenze, le trovate ad effetto, ma poco realistiche che caratterizzavano il precedente lavoro, qui sono assenti, anzi si nota una ricerca accurata di preziosismi, uno su tutti la storia nella storia, con i capitoli alternati fra una spy story degna dei migliori autori e un’epoca di molto successiva che vede Arcieri, ormai pensionato, insieme al maresciallo Guerra impegnati a evitare un non improbabile duello all’ultimo sangue fra Daniele e Oscar per accaparrarsi i favori della bella, anche se stagionata, Nanette. Nella vicenda di spionaggio, che si svolge nel 1940, alla vigilia dell’entrata in guerra dell’Italia, ritroviamo i consueti protagonisti, come il capitano Arcieri, la sua bella fidanzata Elena Contini, il Comandante, un ancor giovane Daniele, nonché nuovi personaggi, fra cui soprattutto Johnny, un giovane inglese impiegato al Consolato anglosassone a Firenze. La storia è intricata, ma perfettamente logica con gente che di facciata è ben diversa da quello che effettivamente è, con una serie di circostanze, di intralci e di fatti delittuosi (un marito che vola giù da un balcone) e con un’atmosfera più densa del consueto, perché oltre alla mano pesante della dittatura si unisce il pericolo di una guerra che qualcuno vuole evitare e qualcun altro invece desidera ardentemente. La mano di Leonardo Gori è particolarmente felice, con descrizioni mirate e perfette, senza la benché minima sbavatura, con un ritmo costante che porta a una palpabile tensione, insomma, per farla breve, questo romanzo è con ogni probabilità il migliore scritto dal narratore toscano, un’opera che non è solo fine a se stessa, cioè il far trascorrere con gran piacere il tempo della lettura, ma ha anche un suo messaggio sul valore effettivo dell’amicizia e sulle strategie spesso contorte, incomprensibili, che coprono interessi, sicuramente non condivisibili dai più, dei politici.

Mi sembra che alla produzione letteraria di Gori manchi il periodo bellico, con Arcieri che, fedele al re, dopo l’8 settembre si batte come agente segreto contro i tedeschi. Auspico che un così bravo narratore non perda questa occasione e che stia già pensando a un romanzo su quegli anni. Per ora accontentiamoci (si fa per dire, perché l’opera è assai piacevole e senz’altro riuscita), con la lettura consigliatissima di questo libro.

Leonardo Gori è uno scrittore italiano, autore del ciclo di romanzi di Bruno Arcieri, capitano dei Carabinieri nell’Italia degli anni Trenta. Il primo romanzo, Nero di maggio, si svolge nella Firenze nel 1938; seguono Il passaggioLa finaleL’angelo del fango (Premio Scerbanenco 2005), Musica neraLo specchio nero e Il fiore d’oro, gli ultimi due scritti con Franco Cardini. La serie di romanzi è in corso di riedizione in TEA. Ha scritto anche thriller storici ed è stato co-autore di saggi sul fumetto e forme espressive correlate (illustrazione, cinema, disegno animato).
Renzo Montagnoli

 

 

20 Agosto

Le assaggiatrici

di Rosella Postorino

Feltrinelli Editore

Narrativa romanzo storico

 

Non bene, anzi male

Romanzo vincitore del Premio Campiello 2018, del Premio Wondy 2019 e finalista alla 32^ edizione del Premio Chianti, un palmarès che impone- ed esige – che le aspettative siano tante, e invece era da tanto tempo che non mi capitava di imbattermi in un romanzetto, alla cui notorietà ha di certo contribuito un battage pubblicitario questo sì riuscito. Eppure lo spunto della storia di questa donna che, insieme ad altre, diventa l’assaggiatrice dei pasti destinati ad Adolf Hitler sarebbe interessante soprattutto se si fosse curata l’atmosfera particolare che regnava nell’ultimo periodo di vita di un folle e sanguinario dittatore. Purtroppo invece non è stato così per una scrittrice che non va oltre la narrazione, compita ed educata, di una storiella, quasi lo svolgimento, in modo scolastico, di un tema.   

Mi dispiace dover esprimere un giudizio sostanzialmente non positivo su un’opera che ha vinto un premio prestigioso quale il Campiello, ma è proprio per questo motivo che si pretendono qualità e che non si sorvola su difetti come invece potrebbe accadere per romanzi che non sono stati gratificati da riconoscimenti di particolare livello. C’è anche da dire che la vicenda narrata non ha una trama particolarmente attraente, ma in questo aspetto gioca un ulteriore elemento negativo, vale a dire la monotonia della marrazione che presenta pur tuttavia ogni tanto degli acuti che rendono però più stridente il quotidiano grigiore di parole, di frasi che denotano uno stile fin troppo elementare.

Tengo a precisare che il mio giudizio non è stato frettoloso, nel senso che ho preferito leggere due volte il romanzo, la cui carenza principale è probabilmente una struttura debole, tanto più rilevante quando si affronta un argomento non certo facile quale è quello di prendere (o non prendere) decisioni vitali in un momento storico in cui anche la dignità viene facilmente sepolta.

Se i giurati del Campiello hanno votato secondo coscienza l’opera che hanno ritenuto migliore, posso solo immaginare di che basso livello fossero gli altri libri in concorso; del resto è da un po’ di tempo che rilevo un peggioramento generale della qualità delle opere letterarie, in sintonia peraltro con un diminuito grado di cultura, e questo purtroppo mi spiace, perché è la sconfitta della letteratura, il crollo di ogni valore e l’incapacità di creare e di comprendere il bello.

Rosella Postorino è cresciuta a San Lorenzo al mare (IM) e vive a Roma. Ha esordito con il racconto In una capsula (Ragazze che dovresti conoscere, Einaudi Stile libero 2004), ha poi pubblicato alcuni racconti e un saggio di critica letteraria, Malati di intelligenza (nell’antologia Duras mon amour 3, Lindau 2003). Il suo primo romanzo, La stanza di sopra, uscito a febbraio 2007 per Neri Pozza Bloom, è entrato nella rosa dei tredici finalisti del Premio Strega e ha vinto il Premio Rapallo Carige Opera Prima e il Premio Città di Santa Marinella. Collabora con le pagine romane del quotidiano «la Repubblica» e scrive su «Rolling Stone».
Ha pubblicato inoltre L’estate che perdemmo Dio (Einaudi Stile Libero, 2009; Premio Benedetto Croce e Premio speciale della giuria Cesare De Lollis) e Il corpo docile (Einaudi Stile Libero, 2013; Premio Penne), la pièce teatrale Tu (non) sei il tuo lavoro (in Working for Paradise, Bompiani, 2009), Il mare in salita (Laterza, 2011) e Le assaggiatrici (Feltrinelli, 2018). È fra gli autori di Undici per la Liguria (Einaudi, 2015). Nel 2019 esce il suo esordio Tutti giù per aria, edito Salani.
Renzo Montagnoli

 

 

29 Luglio

M. Il figlio del secolo

di Antonio Scurati

Bompiani Editore

Narrativa

 

L’ascesa di Benito Mussolini

La curiosità mi ha indotto ad acquistare e a leggere questo libro, per sapere come Antonio Scurati potesse riuscire a dare un volto letterario a un personaggio ampiamente sviscerato dagli storici, oggetto di numerosi e approfonditi studi, e di cui in pratica si sa pressochè tutto. Se qualcuno si aspettasse un romanzo storico penso che ne resterebbe francamente deluso; certo, ci sono alcune caratteristiche del genere, ma quella principale è la cura minuziosa dell’aspetto storico, elaborato e proposto con una serie di quadri in ordine temporale in cui di volta in volta risultano protagonisti Benito Mussolini, la sua amante e mecenate Margherita Sarfatti, un ancor giovane Italo Balbo, il fedelissimo Leandro Arpinati, Gabriele D’Annunzio dagli ultimi fuochi con l’impresa fiumana al suo ritiro nella villa sarcofago sul Garda, e altri personaggi ancora, realmente esistiti, di un’epoca cruciale nelle vicende italiane. La successione dei tempi va dagli albori del fascismo al clamoroso discorso del 3 gennaio 1925 alla Camera dei Deputati con il quale Mussolini assume su di sé le colpe delle violenze fasciste e in particolare dell’omicidio di Giacomo Matteotti. Credo che con questo discorso il futuro duce, oltre aver rinsaldato la sua posizione, abbia di fatto sancito la definitiva morte della democrazia in Italia, rappresentata da uno sparuto ed esile numero di inconcludenti socialisti di cui l’unico veramente capace, tecnicamente e soprattutto politicamente, era proprio Giacomo Matteotti. Ci si chiede anche ora se l’omicidio sia stato voluto da Mussolini, se lui stesso invece avesse cercato tramite i suoi scagnozzi di intimidirlo e che poi, per eccesso di violenza, fosse morto nelle mani dei suoi aguzzini. Sono domande a fronte delle quali non vi sarà mai risposta certa e l’unico dato di fatto sicuramente inoppugnabile è che Mussolini e il fascismo avevano trovato in Matteotti l’unico vero avversario, peraltro in procinto di abbattere, sulla base di prove certe di misfatti e di ruberie in camicia nera, un regime che stava avviandosi alla sua instaurazione.

Credo che però sia opportuno tornare indietro negli anni proprio per comprendere come il fascismo sia nato e come abbia potuto prendere piede e di certo non manco di rilevare l’abilità di Scurati nel parlare più delle manchevolezze delle sinistre, senza con ciò procedere a una difesa d’ufficio del nascente movimento reazionario. Nel nostro paese, dove ancora è presente una faziosità deleteria, occorre riconoscere all’autore il merito di non avere preconcetti e di essere un convinto democratico, il che gli consente un equilibrio non da poco, visto che non tace né le violenze fasciste, né quelle commesse dalle sinistre che hanno le loro colpe riscontrabili soprattutto in una emulazione della rivolta proletaria sovietica. Quindi vi è da dire che il fascismo fu una reazione, senza una precisa ideologia a sostegno, se non un programma politico vago che spaziò agli inizi da una indefinita forma socialista per radicalizzarsi sempre più in una patina altamente nazionalista, ancor più a destra dei conservatori stessi. Mi sembra che Scurati abbia posto giustamente in luce l’abilità di Mussolini contrapposta alle indecisioni e alla conflittualità interna delle sinistre e all’attesismo colpevole dei liberali e dei popolari, convinti di incorporare nei loro partiti quello fascista, un metodo che nell’assicurare, almeno nei loro intendimenti, una certa pacificazione sociale avrebbe permesso di mantenere inalterati i loro privilegi. Non fu così, come sappiamo dalla storia, ma a posteriori è sempre facile criticare.  Per il resto, l’autore non disconosce le capacità politiche, e anche il trasformismo, di Mussolini, ma non lo esalta, anzi ne fornisce un quadro che conferma che l’individuo, il maestro elementare prima socialista e contro la guerra, poi interventista e infine nemico dei suoi vecchi compagni di partito, sia stato, in buona sostanza, un uomo con una capacità dialettica e di conoscenza della psiche umana di notevole livello, ma in cui allignava una ferocia oscura che lo portava a cattiverie insensate, a violenze incontrollate come quelle che aveva propugnato, sostenuto e poi pubblicamente giustificato, avvalendosi dell’opera  delle sue camicie nere.

Questo dovrebbe essere il primo di tre volumi dedicati alla storia italiana nel ventennio, che è poi è come dire storia fascista e meglio ancora la vita di Benito Mussolini dal suo affacciarsi sulla scena politica alla sua tragica caduta. Non so se e quando usciranno gli altri, ma di una cosa sono certo, e cioè che li leggerò con la stessa passione con cui ho passato ore e ore sulle pagine di questo primo volume, alla fine del quale ho tratto due semplici conclusioni. La prima è che la storia si ripete perché l’Italia attuale, per certi aspetti, ricalca quella appena uscita dalla Grande Guerra; la seconda è che forse uno degli scopi del libro è di far conoscere ai giovani che hanno un’idea vaga del fascismo che cosa esso sia effettivamente stato. Questo intento è indubbiamente nobile, anche se dubito che i giovani in massa corrano a leggere questo libro se non altro perché spaventati dal notevole numero di pagine (ben 848).

Da parte mia ammetto di essere stato scettico all’inizio, ma poi di aver scoperto, pagina dopo pagina, come una storia raccontata in questo modo, una storia che potrei forse classificare come romanzata, mi abbia consentito di trascorrere piacevolmente le lunghe giornate di quarantena, portandomi anche inconsciamente a riflessioni senza preconcetti, al fine di cercare di comprendere le cause dei comportamenti delle parti in gioco e forse ci sono riuscito, almeno così spero.

Antonio Scurati, ricercatore allo IULM di Milano, coordina il Centro studi sui linguaggi della guerra e della violenza e insegna all'Università di Bergamo Teorie e tecniche del linguaggio televisivo.
Editorialista della «Stampa» è anche columnist di «Internazionale».
Nel 2005 ha vinto il Campiello con il romanzo Il sopravvissuto. Nel 2011 pubblica La seconda Mezzanotte e nel 2013 Il padre infedele. Nel 2015 arriva tra i finalisti al Campiello con Il tempo migliore della nostra vita, edito come sempre da Bompiani. Nel 2018 esce M. Il figlio del secolo, un romanzo sul fascismo raccontato attraverso Benito Mussolini, vincitore del Premio Strega 2019.
I suoi libri sono stati tradotti in varie lingue.
Renzo Montagnoli

 

 

19 Luglio

Fiore di roccia

di Ilaria Tuti

Longanesi Editore

Narrativa

 

Donne coraggiose

Ci sono opere letterarie che hanno un particolare pregio, cioè quello di far conoscere o di porre in giusto risalto fatti e personaggi di grande significato, ma dimenticati, al punto da essere destinati altrimenti al perpetuo oblio. La vicenda delle portatrici carniche non mi era sconosciuta, ma avevo solo una conoscenza del fenomeno del tutto superficiale, per quanto nell’economia della Grande Guerra queste umili donne, per lo più contadine, siano state essenziali per mantenere una linea di fronte, che senza  la loro giornaliera e pericolosa fatica sarebbe altrimenti crollata. Sì, perché i soldati, pur al riparo delle trincee, hanno bisogno costante di rifornimenti, di cibo e di munizioni, e quando il fronte è attestato in alta montagna, in una zona impervia dove neanche i muli, se ci sono, riescono ad arrivare tutto deve essere portato dagli uomini che in questo caso hanno il volto sofferto, ma deciso delle donne di quei posti, che conoscono tutti i sentieri per risalire al Pal Piccolo e al Pal Grande. E non c’è tempo che tenga, perché anche con il gran caldo, come con il gran freddo e la neve occorre andare, è indispensabile rifornire chi combatte. Non è improbabile che agli inizi sia stata la fame e la paga con cui era possibile almeno in parte saziarsi a spingere a questo lavoro la cui fatica era pari al pericolo a cui si andava incontro, come per esempio capitare nel mezzo di un bombardamento o essere prese di mira dai cecchini; in seguito, visto il costante sacrificio dei nostri soldati e quell’inevitabile tenerezza che permane pure in donne quasi abbrutite dalla fatica, ma che non esitano a vedere in quei nostri giovani i loro figli o i loro fratelli, si è fatto strada un sentimento più forte, un’identificazione con i combattenti che si è tradotta in un amor di patria. Finita la guerra le portatrici furono dimenticate e solo più recentemente ci si è ricordate di loro, così che un romanzo che le vedesse protagoniste era da considerarsi quanto mai opportuno. Allo scopo ha provveduto Ilaria Tuti con Fiore di roccia dove c’è un io narrante, Agata Primus, certamente di fantasia ma che ha il compito, indubbiamente non facile, di mostrare attraverso la sua vicenda ciò che rappresentò il fenomeno delle portatrici. Se devo essere sincero la narrazione mi ha a lungo disorientato, anche perché - per quanto sia un rimprovero benevolo, lo devo fare - il romanzo ha un’accentuata verbosità, soprattutto quando il personaggio principale fa delle lunghe riflessioni, non lasciando però spazio al riguardo da parte di chi legge, perché un conto è indurre a riflettere, un conto è farlo anche per il lettore. Inoltre non riuscivo a capire i piani di lettura che si sono per fortuna svelati negli ultimi capitoli. Infatti lo scopo dell’opera non è solo di porre in giusto risalto il fenomeno delle portatrici, ma è anche uno studio accurato sull’emancipazione femminile, introdotta con la guerra, ma solo in parte realizzata. Infine più volte mi sono chiesto se l’opera abbia un intento patriottico o invece pacifista, tutte domande a cui non sono riuscito a dare risposte fin quasi al termine della lettura. Peraltro la Tuti è stata molto abile nel non scivolare nella retorica di basso livello, è sempre rimasta saggiamente in bilico e questo è un merito che le si deve riconoscere. Incerto nel farmi un giudizio, ma sempre più interessato ho proseguito metodicamente la lettura e alla fine non ho potuto che convenire sul messaggio di pace che viene portato avanti con la storia d’amore, che non nasce all’improvviso, fra la protagonista e un cecchino austriaco, vicenda nella vicenda in cui non era difficile cadere nel romanzetto rosa, ma l’autore è riuscito a mantenere la giusta tensione per la diffidenza reciproca in quanto nemici nonostante il sentimento che stava per sbocciare, così che il lavoro ha preso un marcato equilibrio che in precedenza era meno evidente.

Non aggiungo altro, leggetelo, perché se non è un capolavoro è comunque un buon romanzo.       

Ilaria Tuti vive a Gemona del Friuli, in provincia di Udine. Ha studiato Economia. Appassionata di pittura, nel tempo libero ha fatto l’illustratrice per una piccola casa editrice. Nel 2014 ha vinto il Premio Gran Giallo Città di Cattolica. Il thriller Fiori sopra l'inferno, edito da Longanesi nel 2018, è il suo libro d'esordio. Ha scritto anche: Ninfa dormiente (Longanesi, 2019) e Fiore di roccia (Longanesi, 2020).
Renzo Montagnoli

 

 

12 Luglio

Dalle stanze del cuore e della mente

(Poesie 2018)

di Felice Serino

Libreria Editrice Urso

Poesia

 

Sublimare la parola

Felice Serino, più che un poeta, è un artista che vive per la poesia ed è tanto più vero qualora ci si lasci coinvolgere dalla sua consistente produzione che lo vede sulla breccia da molti anni. Con Dalle stanze del cuore e della mente, raccolta di poesie del 2018, l’autore, pur nell’ermetismo che la caratterizza, lascia prorompere una creatività sognante, un’ispirazione profonda che tende a sublimare la parola. In effetti, come nella famosa poesia di Luzi intitolata Vola alta  parola, anche in questa raccolta i versi si fanno eteree immagini, spiccano il volo, liberi da qualsiasi legame terreno  (da Fonemi -   nella bocca della notte / -la luna sopra il petto / il letto è un mare dove sillabe / perdono sangue /…) e, in aggiunta ( Ricordi - confondersi del sangue col colore / dei papaveri nel sole / ampie distese a perdersi / mentre all'orecchio del cuore / a far capolino una / melodia nel tempo andata / ricordi / ci si appiattiva scalzi col fiatone / nell'erba alta / dopo una volata e / in levità d'angeli / quasi non si toccava terra). Quella delicatezza di esposizione, che da sempre lo contraddistingue, trova conferma anche in questa raccolta, è sempre più un segno distintivo del suo stile ed è frutto di come si accosta alla poesia, non con timore, ma con profondo rispetto. Chissà perché credo che questa sua caratteristica sia un che di originario, sia frutto di un sentimento nato in lui le prima volte che scriveva in versi, così che la poesia, la sua creatura, fosse, e probabilmente lo è ancora, avulsa dalla sua volontà, come se lui risultasse solo il semplice braccio di un disegno più ampio da cui inconsapevolmente scaturisce il risultato finale, ed è questo il rispetto per qualcosa di superiore che si compone sotto i suoi occhi. E ancor oggi che l’età non è più quella dei verdi sogni, l’aspetto sognante, l’emotività che si innesta riga dopo riga offre l’impressione di trovarsi di fronte allo stupore e alla serena innocenza di un bambino, come, per esempio, in La passera (memore della bella accoglienza / me la trovo sul davanzale ogni mattina / per "condividere" la colazione / è d'un piumaggio lucido e vellutato / l'ho chiamata "nerina" / …) e probabilmente ancor più con Primavera (capita che il bosco mi parli / ogni volta che abbraccio il "mio" albero / -risale / a un rito atavico / l'abbraccio: patto di luce-amore /  mi parla -il bosco / tendendo le mille sue braccia / nell'espandersi in canti che allargano il cielo / ….). La straordinarietà di queste poesie è nella loro semplicità, non disgiunta tuttavia dallo svolgimento di tematiche che inducono più a riflessioni che a interpretazioni perché l’ermetismo dell’autore non esclude mai la facile comprensibilità, circostanza che, in un’epoca in cui spesso mi tocca leggere componimenti che risultano del tutto incomprensibili perché chi li ha scritti non ha idee chiare, conferisce un plus di valore alle stesse. Non credo debba aggiungere altro, se non il mio augurio di buona lettura.

Felice Serino è nato a Pozzuoli nel 1941 e vive a Torino. Autodidatta.

Copiosa la sua produzione letteraria (raccolte di poesia: da “Il dio-boomerang” del 1978 a “Dalle stanze del cuore e della mente” del 2020); ha ottenuto importanti riconoscimenti e di lui si sono interessati autorevoli critici. E’ stato tradotto in nove lingue.

Intensa anche la sua attività redazionale. 

Gestisce vari blog e tre siti.
Renzo Montagnoli

 

 

6 Luglio

Lo scialo

di Vasco Pratolini

Edizioni BUR Biblioteca Universale Rizzoli

Narrativa romanzo 

Borghesia e fascismo

Si deve riconoscere a Vasco Pratolini il grande merito di aver narrato la storia d’Italia della prima metà dello scorso secolo, creando trame e personaggi che ben riescono a rappresentare ciò che sono stati quegli anni. Non è un osservatore degli accadimenti di un’epoca che possa essere definito imparziale, perché l’idea politica comunista che lo anima finisce con il dare corso alle sue storie, ma se il punto di vista è marxista c’è anche una grande correttezza e sensibilità nel non esacerbare le vicende, nel descrivere i personaggi con quella punta d’affetto propria di ogni grande autore, indipendentente dalla loro positività o negatività. Lo scialo è il secondo romanzo di una trilogia intitolata Una storia italiana e viene dopo lo stupendo Metello (il terzo è Allegoria e derisione); narra di Firenze fra le due grandi guerre e potrebbe essere definito come la parabola della piccola e media borghesia di quella città, estensibile però senza particolari problemi a quella di tutta l’Italia. E’ nata così un’opera che forse non era per corposità nelle intenzioni dell’autore, ma che lui ha sentito come necessaria, per non dire indispensabile, per descrivere, attraverso i tanti personaggi, protagonisti di vita quotidiana, dei rapporti fra il fascismo e appunto la borghesia. Ho detto che si tratta di un lavoro di consistente mole e forse sarebbe meno faticosa la lettura se l’autore avesse provveduto, in sede di stesura definitiva, a qualche opportuna sforbiciata, ma ciò non toglie che, superato lo sgomento iniziale quando ci si accorge delle tante pagine da leggere, il risultato alla fine risulta appagante. 

Per quanto, a mio avviso, non si possa parlare di un capolavoro, ma di un romanzo che presenta un livello di eccellenza, occorre riconoscere che l’indagine storico sociologica di Pratolini ha consentito di ben delineare i rapporti fra una borghesia cristallizzata, ma con più ampie aspirazioni, e l’arrembante regime fascista. E non si tratta di una relazione conflittuale, bensì vede questa classe intermedia cercare di cogliere l’occasione per assurgere a più alti livelli. Si tratta di gente che non esita a sporcarsi le mani, a rinnegare le sue origini, in passato proletarie, per lasciarsi trascinare in un folle arrivismo che non scuote le loro coscienze, perché lo scopo è solo uno: emergere, anche a scapito degli altri. Potrei dire che questa classe sociale non ha idee politiche e non è nemmeno fascista, eppure con una leggerezza imperdonabile salta in groppa al cavallo del fascismo, senza pudore e anche senza nessuna convinzione. Mussolini e i suoi fedeli sono soltanto l’occasione e nulla di più, ma se questo può essere la naturale conclusione di un un erudito saggio sociologico, così non si può dire per l’opera letteraria che di certo ha impegnato moltissimo Pratolini, che riesce a generare una trama, densa di personaggi che ruotano incontro a quattro protagonisti principali, e riconoscendo a tutti, nessuno escluso, una dignità che si estrinseca nella loro credibilità, perché mai, e ripeto mai, si ingenera nel lettore il dubbio che gli stessi siano frutto d’invenzione, come in effetti sono.

Certo che Lo scialo finisce con l’apparire un’opera ambiziosa e che talora si perde per strada, complice l’inusitata lunghezza, ma poi alla fine quel fil rouge che appariva incredibilmente aggrovigliato si scioglie e si dipana, recuperando quella logica continuità che, se pur temporaneamente, pareva essersi persa.

Da leggere, senza il benchè minimo dubbio.    

Vasco Pratolini (Firenze, 19 ottobre 1913 – Roma, 12 gennaio 1991). Di famiglia operaia, è costretto a interrompere gli studi e svolge mestieri diversi per potersi mantenere.
Autodidatta, entra in contatto con l’ambiente degli artisti e degli scrittori che gravitano attorno al pittore Ottone Rosai, frequentandone la casa.

Pratolini comincia a collaborare al periodico «Il Bargello» e diviene redattore con Alfonso Gatto, nel 1938, della rivista «Campo di Marte». Nel 1951 si trasferisce a Roma, città nella quale vivrà da allora in poi.
Le sue prime esperienze narrative ("Il tappeto verde", 1941; "Via de’ magazzini", 1941; "Le amiche", 1943; "Cronaca familiare", 1947) compongono il ritratto di un'infanzia e di una giovinezza piuttosto picaresche.

Il registro adottato, sin da quelle prime prove, si pone a mezza via fra il realistico e il lirico.
"Il quartiere" (1943) è un affresco corale che narra della presa di coscienza del sottoproletariato urbano. 
Gli stessi temi sono riproposti, con tono appena più svagatamente satirico, ne "Le ragazze di San Frediano" (1949), e trasposti poi in una più approfondita lettura psicologica in "Cronache di poveri amanti" (1947).

Pratolini svolge con successo, in questi anni, anche un'attività di sceneggiatore e soggettista cinematografico, e intraprenderà in seguito una carriera di autore di testi teatrali ("La domenica della povera gente", 1952; "Lungo viaggio di Natale", 1954).

Nel 1955 pubblica Metello (premio Viareggio), primo romanzo di quella che diverrà la trilogia "Una storia italiana", essendo completata da "Lo scialo" (1960) e da "Allegoria e derisione" (1966).
Nella trilogia, la vita dei fiorentini, descritta attraverso la caratterizzazione di personaggi emblematici del proletariato e della borghesia, diviene il microcosmo in cui analizzare lo svolgimento di dinamiche sentimentali e politico-sociali.

Alla città e al mondo dell’adolescenza sono dedicati ancora un romanzo, "La costanza della ragione" (1963), e le poesie raccolte in "La mia città ha trent’anni" (1967). Alcune «cronache in versi e in prosa», scritte dal 1930 al 1980, sono riunite nel volume "Il mannello di Natascia" (1984, premio Viareggio).
Renzo Montagnoli
 

 

29 Giugno

Transatlantic

di Colum McCann

BUR Biblioteca Universale Rizzoli

Narrativa 

La lettera mai recapitata

Transatlantic è un romanzo che abbraccia un periodo di tempo che va all’incirca dalla metà del XIX secolo fino a quasi i giorni nostri, un’opera di narrativa in cui  si raccontano vicende solo apparentemente non collegate. Infatti, presenta ben otto protagonisti, le cui storie iniziano nel lontano 1845 e terminano nel ben più vicino 2012. Storicamente si basa su personaggi esistiti veramente, come lo scrittore nero abolizionista Frederick Douglass, gli aviatori Alcook e Brown, il senatore statunitense Mitchell. Come possono essere collegati, trattandosi di figure vissute in epoche assai diverse? A legarli sono quattro donne, quattro generazioni di donne per la precisione, figure che con tenacia e coraggio affrontano tutte le avversità della vita. E queste quattro donne sono le autentiche protagoniste, senza togliere nulla alle qualità degli uomini che, grazie a questo particolare elemento femminile, illuminano e rendono interessante un romanzo che francamente altrimenti sarebbe risultato un po’ scialbo. I nomi delle protagoniste sono  Lily Duggan, Emily Ehrlich, Lottie Ehrlich e Hannah Tuttle, collegate, oltre che da un vincolo di sangue, da una lettera, scritta da Emily per conto della madre Lily e consegnata all’aviatore Brown affinché provvedesse a recapitarla in Irlanda. La missiva non giungerà mai a destinazione, ma verrà tramandata da madre in figlia, fino a quando il destino consentirà al suo ultimo possessore e ai lettori di conoscerne il contenuto. Preciso che non è che ci sia da attendersi chissà quali rivelazioni, perché in fondo la lettera è l’espediente per creare un po’ di tensione in un romanzo altrimenti grigio, che tuttavia presenta anche dei pregi, come la particolare struttura adottata, la capacità di ricreare ambienti e atmosfere, una scrittura garbata e senza enfasi. Il romanzo si legge con interesse, anche se nell’ultima parte si avverte un po’ di stanchezza nell’autore, come se avesse voglia di concludere alla svelta, ma senza idee in proposito, e in effetti arrivati all’ultima riga si è presi da una sensazione di incompiutezza. E’ un peccato, anche perché questo finale strascicato è frutto dalla troppa carne al fuoco riscontrabile nell’opera, oltre tutto non distribuita bene, così che vi sono parti ridondanti e altre più normali, alcune addirittura mosce, come appunto quella con cui si conclude il lavoro.    

Non ci saremmo trovati di fronte in ogni caso a un capolavoro, ma solo e comunque a un libro di eccellente fattura, e invece questo squilibrio narrativo toglie parecchio non solo al valore del romanzo, ma anche all’interesse del lettore che, giunto all’ultima pagina, si accorgerà di aver trascorso piacevolmente un po’ di tempo, ma che le aspettative sono state purtroppo in parte disattese.  

Colum McCann è uno scrittore irlandese. Vive da tempo a New York dove insegna al MFA program (scrittura creativa) all'Hunter College. È stato vincitore del National Book Award con il romanzo Questo bacio vada al mondo intero (titolo originale Let the Great World Spin), pubblicato da Rizzoli nel 2010. Scrive per The New York Times, The Atlantic, GQ, The Times, The Irish Times e anche per La Repubblica. Nel 2003 l'Esquire Magazine l'ha nominato uno dei migliori scrittori viventi.Il suo romanzo Transatlantic (2013), è stato finalista al Man Booker Prize 2013.
Renzo Montagnoli
 

 

21 Giugno

LTI La lingua del Terzo Reich

Taccuino di un filologo

di Victor Klemperer

Edizioni Giuntina

Saggistica

 

La forza del linguaggio

I libri che parlano della Shoah sono, per fortuna, moltissimi e raccontano di esperienze dirette, sono frutto di approfonditi studi storici e in genere esaminano questo tragico fenomeno con un approccio globale, pur cercando di evidenziare motivi che ancor oggi, oltre che apparire demenziali, non riusciamo del tutto a chiarire. Il nazismo non è stato solo un caso politico, ma ha voluto fortemente rappresentare una nuova idea di società basata sulla violenza non solo fisica, ma anche verbale. Al riguardo, Victor Klemperer, insegnante al’Università di Dresda, da cui fu costretto a dimettersi per le leggi razziali, ha scritto fra il 1933 e il 1945 dei diari, frutto di un’osservazione attenta, non disgiunta da una riflessione approfondita, in cui da catedrattico di Filologia spiega come sia possibile che la lingua di un regime totalitario, se sapientemente diffusa, a piccole, ma ripetute dosi, diventi un veleno devastante in grado di trasformare perfino la coscienza di un popolo, fosse anche il più evoluto, il più colto, il meno recettivo. E’ allora che la lingua non diventa solo uno strumento per comunicare, ma un’arma che consente da un lato di omologare tutti al pensiero del capo e dall’altro un’arma altrettanto feroce che rimuove lo spirito critico, ricaccia nel più profondo il senso individuale di umanità. E queste parole sono quelle che Klemperer sente mentre lavora, oppure che pronuncia Goebbels nei suoi istrionici discorsi alla radio, che si leggono sui giornali nazisti oppure sul Mein Kampf. Per quanto possa sembrare incredibile, le mutazioni nell’uso del linguaggio, le parole mutuate da idiomi di altri, perfino la punteggiatura concorrono a questo sconvolgente risultato. Addirittura esemplare è il caso delle iniziali, della loro grafica come nel caso delle SS, dove  ci sono due saette che danno l’idea da un lato della rapidità di azione di chi fa parte di quel corpo e dall’altro dell’inevitabilità della punizione di chi cerca di opporsi. Nel teatro di ogni dittatura -  un teatrino grottesco quello dell’epoca mussoliniana, un teatro tragico wagneriano quello del nazismo -  tutto poggia su riti che richiamano antiche e improbabili virtù e su parole che colgano nel segno, che dimostrino quell’onnipotenza che in realtà non c’è.  Se questo libro vuole essere una particolare testimonianza, finisce anche però con il diventare un monito, una raccomandazione di stare ben attenti a come il linguaggio cambia, come vengano coniate nuove parole (al riguardo facebook è una miniera inesauribile) perché dietro c’è sempre un disegno, il tentativo di classificare la gente in amica e nemica, il disprezzo del pensiero individuale per arrivare a imporre quello collettivo conforme ai voleri di chi comanda.

Victor Klemperer (1881-1960) si laurea a Monaco nel 1914. Nel 1935 le leggi razziali lo obbligano a lasciare la cattedra al Politecnico di Dresda. Sebbene perseguitato, riesce, in quanto sposato a una «ariana», a scampare alle deportazioni, e dopo la guerra riprende il suo posto all'Università di Dresda. Nel 1947 pubblica questo straordinario diario-saggio sulla lingua del Terzo Reich.
Renzo Montagnoli

 

 

14 Giugno

La peste

di Albert Camus

Bompiani Editore

Narrativa


Si deve sempre combattere il Male

Devo premettere che in tutta sincerità la decisione di acquistare il libro e di leggerlo è stata influenzata non poco dall’attuale pandemia per Covid 19; probabilmente prima o poi sarebbe dovuto rientrare fra le mie letture, ma certo è che l’evento contingente ha anticipato i tempi. 

Come dice il titolo si narra di una epidemia che colpisce la città di Orano in Algeria, un luogo abbastanza anonimo e anche deludente nella sua assenza di attrattive, eppure densamente popolato da duecentomila uomini e donne ignari della tragedia che sta per colpirli e che è preannunciata – ma nessuno riesce a cogliere il segno – dalla comparsa di migliaia di topi che escono dalle loro tane e vengono a morire sulle strade. Finita l’ecatombe dei ratti, inizia la pestilenza, dapprima in sordina e poi sempre più virulenta, uccidendo gli abitanti senza distinzione di sesso e di censo.

Come accade sempre in questi casi, quando si verifica un comune dramma, emergono chiari, per quanto antitetici, sintomi di evidente disgregazione e di umana solidarietà. Il vero scopo del romanzo di Camus non è tanto quello di parlarci della pandemia come potrebbe fare qualsiasi giornalista, ma di cogliere gli aspetti sociali e psicologici di chi ogni giorno non solo deve misurarsi con la morte, ma che è costretto a vivere in un regime di semi libertà, che avvilisce  e provoca a tratti improvvise e inconsulte reazioni. In questo contesto la fede religiosa, l’incapacità di restare soli, magari perché la persona amata si trova al di fuori della cerchia cittadina che non può essere oltrepassata, la convinzione che si deve fare, nonostante tutto, il proprio dovere finiscono con il diventare gli autentici protagonisti della trama, in contrapposizione al panico, all’indifferenza e peggio ancora all’egoismo stolto e gretto che caratterizza non pochi individui.

Il personaggio principale è il dottor Bernard Rieux, medico di Orano, che annota su taccuini gli eventi di quei giorni di terrore in cui il morbo infuria, ricomprendendovi la descrizione di altri personaggi che presentano le caratteristiche, anche quelle in contrapposizione, che ho descritto sopra. La pestilenza, come è venuta, se ne andrà, provocando tanti morti, fra i quali anche alcuni protagonisti, come Jean Tarrou, un benestante che vive in albergo e che ha un approccio filosofico con la morte del tutto personale, o come Padre Paneloux, un religioso che va cercando un motivo per esserlo. Fra quelli che sii conosceranno nel corso della lettura si salveranno solo il giovane giornalista Rambert che combatte per poter rivedere la propria innamorata lontana e che non può raggiungere, l’umile impiegato Joseph Grand, che ancora ama la moglie che l’ha lasciato e che è alle prese con la stesura di un romanzo che molto probabilmente non finirà mai, ma che è tutta la sua vita, e il Dottor Rieux, diviso dalla moglie gravemente ammalata che si trova in cura in un ospedale esterno e che poi morirà, un uomo tenacemente legato al suo lavoro; il medico si prodiga oltre ogni limite per un accentuato senso del dovere, anche se sa che chi può salvare ora con le sue cure un giorno, come tutti, dovrà morire. 

La peste è una di quelle opere senza tempo, o meglio sempre attuale, perché in effetti la natura umana, chiamata a esprimersi da un fatto drammatico, si manifesta nelle forme di cui ho accennato, ed è qui la grandezza dell’opera, valida oggi, come fra cento, duecento anni e oltre, anche perché, se si riflette  un po’, è una grande metafora di come la violenza e la morte siano una peste in politica, nei regimi totalitari come il nazismo e il comunismo, rappresentando quell’illogicità che ci allontana dalla supremazia del bene sul male.

Scrittore, filosofo, saggista, drammaturgo e anarchico francese, importantissimo esponente dell'esistenzialismo, Albert Camus nacque in Algeria, dove studiò e iniziò a lavorare come attore e giornalista. Affermatosi con il romanzo "Lo straniero" e con il saggio "Il mito di Sisifo", raggiunse un vasto riconoscimento di pubblico nel 1947 con "La peste". Dal 1940 a Parigi, partecipò alla resistenza. Nel dopoguerra fu caporedattore del giornale "Combat". Nel 1957 ebbe il nobel per la letteratura (con questa motivazione: "per la sua importante produzione letteraria, che con chiarezza e onestà illuminai problemi della coscienza umana nei nostri tempi"). Morì in un incidente automobilistico, a Villeblevin. Fra i titoli più celebri di Camus , oltre ai già citati "Lo straniero" e "La peste", possiamo citare "Caligola", "Il rovescio e il diritto", "La caduta", "L’uomo in rivolta", "Il primo uomo".
Renzo Montagnoli

 

 

7 Giugno

Pensieri in volo

di Gavino Puggioni

a cura di Emilia Fragomeni

con prefazione della stessa

Disegno e foto della copertina di Emilia Fragomeni e Tiziana Nucera

Edito in proprio

Poesia

 

Disegnare la memoria

Quando scrivo la recensione di un’opera non è una mia abitudine andare a leggere prefazioni o postfazioni presenti nel volume, proprio per non essere influenzato nel giudizio. Questa volta tuttavia, nello scorrere le pagine, all’inizio ho incontrato l’ampia prefazione di Emilia Fragomeni che, ovviamente non ho letto se non nelle righe iniziali, perché in sostanziosa sintesi c’è lo spirito e anche lo scopo di questo libro. Scrive infatti la prefatrice   <<”Ricordare è come / dipingere un quadro / disegnare la memoria.” In questa frase c’è tutta la filosofia che permea la silloge “Pensieri in volo” di Gavino Puggioni.>> Mi sono fermato lì, non sono andato oltre, anche perché è difficile trovare un sunto così breve e illuminante e del resto, proprio leggendo le successive poesie, si conferma questa volontà di fissare la memoria, circostanza non inusuale in una persona arrivata a una certà età, che nulla ha da attendersi dal futuro, mentre è quanto mai opportuno riesumare il passato per acquisire la consapevolezza di aver vissuto. I temi trattati dal poeta gli sono consueti e comprendono, oltre ad analisi introspettive, l’amore e la viscerale passione per la sua terra e il suo mare, il tutto esposto con il consueto garbo e delicatezza che sono caratteristiche tipiche dell’autore.

Che si tratti di poesia in cui la riflessione è preponderante, senza tuttavia essere ridondante, è fuor di dubbio, anzi direi che mai come in questa occasione Puggioni è ricorso al confronto con il suo “io” per sublimare vocazioni e sentimenti che gli sono sempre stati comuni, ma che nella circostanza appaiono essenziali, principali nell’ispirazione e nello svolgimento. Ed è una poesia per lo più non breve, quasi un dialogo fra sé e sè in estensione a chi leggerà, scritta traendo il meglio dalla sua tavolozza di colori, che permangono tenui e mai violenti (In quest’angolo di mare / ora in tempesta, / ho aspettato nuova vita / tra ruppi d’argento, a piccoi, /  sopra seni di mirto e lentisco / dove riccioli bianchi e rossi / confondevano la mia   solitudine. / …). Questa solitudine è un po’ tipica dell’età, appare, scompare, riappare, ma sta di fatto che ha bisogno di essere esternata, quasi ad avviare un dialogo con il lettore (La tristezza, / la solitudine, / quell’Amore mai avuto / ed ora a me arrivato / han fatto di me una nuvola / accarezzata da vento gentile / che mi conduce nelle tue braccia. / …). E’ così che si approda  al tema dell’amore, l’unico capace di lenire quella tristezza di fondo derivante da una solitudine interiore che è tipica di chi vive senza poter pensare al domani. Eh sì, l’età ha il suo peso e anche Puggioni, che pur sa cogliere il meglio in ciò che il giorno offre, non è da meno; se ci si ferma a meditare, l’ideale sarebbe rilasciare questi pensieri, farli volar via, ma la realtà impone che ciò che vediamo di noi stessi, quelle emozioni e sensazioni che proviamo ci devono essere fidate e costanti compagne, perché il senso della vita è di accettarla per quel che si è e per ciò che ci viene riservato.

Opera in cui predomina il topos filosofico caratteristico di Gavino Puggioni, Pensieri in volo è uno squarcio netto dell’anima dell’autore, una ricca serie di riflessioni sia per sé che per gli altri.  

Gavino Puggioni è nato a Porto Torres (Sassari) nel 1939. Scrive dall'età di 18 anni ed ha pubblicato le sue prime poesie in alcune riviste letterarie nel 1959. Dopo una lunga parentesi dedicata al lavoro, nel 2003, pubblica 'Finagliosu', con dodici racconti giovanili e, dal 2004 al 2013, le raccolte: 'L'arcobaleno in giardino', 'Nel silenzio dei rumori', editi dalla Magnum Edizioni di Sassari. Negli ultimi anni: 'Le nuvole non hanno lacrime', altra silloge, pubblicata da Edizioni Il Foglio Letterario, di Piombino; 'Nelle falesie dell'anima', silloge autopubblicata; Afonie indispensabili da Thoth). Diverse sue poesie sono state premiate in vari concorsi letterari, nazionali e internazionali, ed altrettante pubblicate in antologie.
Renzo Montagnoli

 

 

31 Maggio

La Congiura.

Potere e vendetta nella Firenze dei Medici

di Franco Cardini e Barbara Frale

Laterza Editori

Storia

 

Il prezzo del potere

La repubblica di Firenze era tutto fuorchè democratica, in quanto aveva tutte le caratteristiche dell’oligarchia, con famiglie per lo più di banchieri a reggerne le sorti, in perenne conflitto fra di loro al fine di pervenire, nelle decisioni, alla supremazia. Cosimo de Medici e suo figlio Piero riuscirono nel difficile intento di non apparire, ma in effetti di comandare dietro le quinte; certo non era vita facile, in un continuo rimescolamento di alleanze, perpetuamente nel timore di qualche colpo di stato, che in effetti vi fu più di una volta. I successori di Piero, il primogenito Lorenzo e l’altro Giuliano proseguirono all’inizio l’accorta condotta del padre e del nonno, ma poi subentrò quel desiderio di affermazione  e di raggiungimento del pieno potere che era tutto il contrario della politica degli avi. Desideroso di fare sua Firenze quasi fosse una bella donna, ma ancora timoroso di prenderne possesso ufficialmente, accontentandosi dell’ufficiosità, fu Lorenzo, giacché il fratello Giuliano, più giovane, gli era un po’ succube. L’aver intrapreso una politica meno accorta, tesa a gettare le basi anche di un potere ecclesiastico, comportò tuttavia una serie di errori che resero inviso, molto più di quanto lo fossero  stati Cosimo e Piero, proprio Lorenzo, errori che comportarono una totale revisione della politica, pur restando punti fermi gli appoggi, o comunque le segrete alleanze, con il re di Francia e il duca di Milano. Non sto a raccontare tutte le trame, gli intrighi, i voltafaccia perché sarebbe come fare un ampio riassunto di questo eccellente saggio scritto da Franco Cardini e Barbara Frale, e mi limiterò quindi a evidenziarne l’impostazione, notevolmente razionale. Grosso modo l’opera può essere divisa in tre tempi: il prima, cioè gli anni che precedono la famosa Congiura dei Pazzi, la congiura stessa e i giorni di sangue che ne seguirono, il dopo che non arriva alla morte di Lorenzo, ma che delinea ciò che furono i suoi ultimi anni. Del prima ho già scritto, della congiura non intendo aggiungere altro a quello che già si sa e per il dopo mi limito solo a evidenziare come il raggiungimento, sia pur non ufficiale, del pieno potere segnò in modo negativo, triste, malinconico, angosciante l’ultimo percorso dell’esistenza di questo principe senza investitura. La Congiura è un’opera di rilevante interesse e credo si possa definire come uno dei migliori saggi storici che siano stati scritti; la completezza, quasi maniacale, delle informazioni, il ritmo che sembra assecondare lo svolgimento dei fatti, uno stile che non è mai assolutamente greve e che avvince il lettore, insomma tutti elementi che normalmente sono presenti nel romanzo storico di un grande autore. Qui, tuttavia, è lasciato ben poco spazio alla creatività  e preminenti e quasi assoluti restano i fatti, le supposizioni e le interpretazioni dei due storici, inserite in un contesto che fa sì  che sembrino più ipotesi formulate all’epoca degli eventi e non a posteriori. Viene da chiedersi se questo sia un saggio storico e indubbiamente lo è, perché i richiami alle abbondanti fonti, elencate in calce, sono continui, ma comunque resta una costruzione snella, ma non per questo incompleta o superficiale, che attira irresistibilmente perché francamente viene spontaneo di continuo chiedersi come si rimedierà a quell’errore, quali mosse saranno intraprese per giungere allo scopo, insomma ci si appassiona come fossero eventi contemporanei e non di più di cinquecento anni fa. Forse - è però una mia ipotesi - a quest’opera calzerebbe meglio la definizione di storia romanzata e meglio ancora di storia narrata.

Se tutto sommato la figura di Lorenzo ne esce un po’ ridimensionata, cioè sì un grande politico, ma anche uno la cui spregiudicatezza lo condusse a non pochi errori, resta inalterata la stima per il poeta, e non a caso il saggio, dopo aver rimarcato gli ultimi anni di un’esistenza che vide il politico solo, angustiato, e in preda a quella malinconia che coglie chi sa che non potrà più cambiare ciò che è stato e che la vita vista da vecchi è più rimpianti che gioie,  si chiude con i celebri versi, in apparenza lieti, ma che riassumono lo stato d’animo del Magnifico: “Quant’è bella giovinezza / che si fugge tuttavia / chi vuol esser lieto, sia, / di doman non c’è certezza. “.
 

Franco Cardini è professore ordinario di Storia medievale presso l'Università di Firenze, e come giornalista collabora alle pagine culturali di vari quotidiani. Professore Emerito dell'Istituto Italiano di Scienze Umane alla Scuola Normale Superiore di Pisa, da mezzo secolo si occupa di crociate, pellegrinaggi, rapporti tra Europa cristiana e Islam, anche trascorrendo lunghi periodi di studio e insegnamento all'estero. Ha fatto parte dei consigli d'amministrazione di Cinecittà e della Rai.
La sua produzione di saggi storici, sia specialistici che divulgativi, è copiosissima. Tra questi ricordiamo L'avventura di un povero crociato (Mondadori, 1998), Giovanna D'Arco (Mondadori, 1999), I Re Magi. Storia e leggende (Marsilio, 2000), Il Medioevo (Giunti Junior, 2001), Carlo Magno. Un padre della patria europea (Laterza, 2002), Europa e Islam. Storia di un malinteso (Laterza, 2002), Astrea e i Titani. Le lobbies americane alla conquista del mondo (Laterza, 2003), Il Barbarossa (Mondadori, 2006), Lawrence d'Arabia (Sellerio, 2006), La vera storia della Lega Lombarda (Mondadori, 2008), I templari (Giunti, 2011), GerusalemmeUna storia (Il Mulino, 2012) Alle origini della cavalleria medievale (Il Mulino, 2014), L'appetito dell'Imperatore. Storie e sapori segreti della Storia (Mondadori, 2014), Il califfato e l'Europa. Dalle crociate all'ISIS: mille anni di paci e guerre, scambi, alleanze e massacri (UTET, 2015), Un uomo di nome Francesco. La proposta cristiana del frate di Assisi e la risposta rivoluzionaria del papa che viene dalla fine del mondo (Mondadori, 2015), Onore (Il Mulino, 2016), I Re Magi (Marsilio 2017), e La pace mancata (Mondadori 2018).
Firma inoltre molti libri di storia per i licei e numerose monografie sulla sua città natale, Firenze.

Nata a Viterbo nel 1970, Barbara Frale è una storica medievista dell’Archivio Segreto Vaticano.
Esperta di scritture e documenti antichi, ha pubblicato diversi saggi scientifici sui Templari, la Sindone di Torino e le discusse dimissioni di papa Celestino V. È anche autrice di romanzi storici ispirati alle fonti originali che rappresentano il suo normale ambito di lavoro. Fra i suoi libri si citano: I Templari e la sindone di Cristo (2009), Il principe e il pescatore. Pio XII, il nazismo e la tomba di San Pietro (2011), La lingua segreta degli dei (2012), La guerra di Francesco. Gioventù di un santo ribelle (2016), Il gioco degli arcani (2016).
Renzo Montagnoli

 

 

19 Maggio

Voci

di Claribel Alegría

Traduzione di Zingonia Zingone e Marina Benedetto

Prefazione di Zingonia Zingone

Samuele Editore

Poesia

 

I versi del commiato

Confesso che non sapevo nemmeno che ci fosse una poetessa di nome Alegria e che se anche l’avessi saputo molto probabilmente non avrei letto nessuna delle sue opere, perché sono interessato soprattutto a raccolte di autori italiani.  Pertanto devo riconoscere ad Alessandro Canzian, poeta pure lui, ma anche titolare della casa editrice Sanuele, specializzata in testi poetici, il merito di avermi fatto scoprire questo autentico talento, che non è più fra noi dal 25 gennaio 2018. Nicaraguense, Claribel Isabel  Alegría Vides, più nota come Claribel  Alegría, si può a giusto titolo considerare una fra le maggiori esponenti della letteratura centroamericana, al punto da essere stata candidata nel 2016 al premio Nobel per la letteratura. Mi scuso per questa introduzione volta soprattutto a far sapere di chi si tratta,  e che ritengo indispensabile per inquadrare l’autore che nella sua non breve vita (era nata a Esteli il 12 maggio 1924) ha avuto un passato politico che ha caratterizzato il suo percorso, essendo stata un membro del fronte sandinista, di chiara ispirazione marxista. Tuttavia, l’aspetto ideologico sembra riflettersi marginalmente nella sua produzione, se non nel linguaggio che più che semplice si potrebbe definire popolare e che, nella raccolta in questione, insieme con la tematica mi è riuscito particolarmente gradito.

Voci, arricchita dal testo in spagnolo a fronte,  è a chiusura di un percorso ricco di soddisfazioni e di incontri con altri artisti che hanno avuto modo di entrare in contatto con Claribel, a cominciare dal suo mentore Juan Ramon Jiménez e poi via via molti altri, fra i quali Italo Calvino e Julio Cortazar.

Per una donna arrivata alla fine del ciclo vitale questa raccolta ha il sapore di un testamento, di un lascito in cui il tema svolto è la morte, nel tentativo di cercare una ragione per la quale sia possibile andare in un oltre a compensazione della perdita della propria fisicità. E’ un tentativo, e lei lo sa bene, di svelare un mistero con l’osservazione della natura, di quel creato di cui anche noi siamo parte, ed è in ciò che ci circonda che trova l’ispirazione per il suo discorso, per parlarne metaforicamente ( Torno verso il mare / è lì che nacqui / mi accolse una roccia / quando saltai sulla terra. / Scendo piano / mi trattengo nel muschio / tra i fiori selvatici / scendo a cercare il fiume / che mi riporti al mare. /  Il mio vicino / il torrente / non sa che io esisto / brama / salta / riempie canali /  scoppia / anche lui cerca il fiume / dissolversi nel fiume / che mi riporti al mare /  / erché il mare ci aspetta / perché il mare è la culla /

perché siamo il mare.).

Del resto non possiamo che riconoscere la sincerità di chi si sente alla fine dei suoi giorni e ancor più forte si pone quella domanda, spesso repressa in età più verde, sul perché esista la morte, se essa non sia che una semplice stazione di arrivo di una forma di vita da cui ripartire per una nuova e diversa forma di esistenza.

Stranamente Claribel alterna alle poesie delle brevi prose che altro non sono se non dei flash di vita trascorsa, cioè dei ricordi che riemergono all’improvviso, indubbiamente interessanti, ma che a mio avviso spezzano quel feeling che si vienre a instaurare tramite i versi fra chi legge e il poeta.

Nell’insieme è una raccolta che, lungi dall’assumere toni di accentuata liricità, dato l’argomento, scivola veloce agli occhi del lettore senza opprimerlo, ma interessandolo nella misura in cui si apprezza la capacità di affrontare un tema così drammatico con spirito lieve; inoltre traspare la convinzione che l’ultimo passo sia solo e semplicemente una fase dell’esistenza, la cui accettazione ci permette di meglio comprendere il percorso già effettuato, fin dalle sue origini, che ritornano con l’osservazione, con occhi da bambina, di una tartaruga, di un granchio, di una libellula.

L’opera si conclude con un messaggio ai figli, con un testamento poetico nella forma e nel contenuto (vi lascio una scala / traballante / incompiuta / con qualche scalino rotto / alcuni marci / e più di uno / intero. / Riparatela / mettetela in piedi / saliteci sopra / salite / fino a toccare la luce.).

Così è la vita, si potrebbe dire, che sta a noi improntare ai nostri sentimenti, una lunga scala che sale verso l’eternità.
Renzo Montagnoli

 

 

12 Maggio

Alla corte del Duce

di Antonio Spinosa

Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Storia

 

Una farsa finita in tragedia

Un uomo che detiene un potere assoluto è sempre solo, se pur circondato da una corte di uomini e donne, ossequianti, perennemente in contrasto fra loro, e comunque sempre pronti a scalare una posizione nella gerarchia, cercando perfino di subentrare al vertice. Anche nel caso di Benito Mussolini c’era un seguito di variegati personaggi, dal cretino, ma utile Achille Starace, al tentennante e vanitoso Galeazzo Ciano, tanto per nominarne un paio, ma erano molti, molti di più; non mancavano le donne, quasi esclusivamente quelle ben disposte ad appagare l’appetito sessuale del duce, raramente opportuniste, per lo più infatuate. Tutta questa gente, che viveva all’ombra del potente, tesa continuamente a mettersi in luce, agiva sul palcoscenico come burattini i cui fili erano tenuti da Mussolini, sempre occupato a impedire che qualcuno cercasse di fargli le scarpe. Ne temeva soprattutto due: Italo Balbo, fascista della prima ora, aviatore dalle imprese titaniche, che nei primi giorni di guerra perse la vita per fuoco amico, e Dino Grandi, altro elemento di spicco, peraltro untuoso, a capo delle prime squadre di camicie nere, doppio giochista abile e che infatti lo tradì in modo perfetto in occasione della famosa riunione del Gran Consiglio del Fascismo del 25 luglio del 1943. E poi, per il riposo del guerriero, c’erano le donne, che riceveva quasi sempre nel suo ufficio e che possedeva frettolosamente in piedi contro il tavolo; è impossibile nominarle tutte, perché in materia l’appetito di Mussolini era veramente esagerato, ma non si può tacere la sua lunga relazione con Margherita Sarfatti nata Grassini, un’ebrea scrittrice e critica d’arte, e che tanto l’aiutò disinteressatamente, come del resto suo marito Cesare Sarfatti, ex socialista, grande penalista e amico del Duce. E sempre in tema di donne mi corre l’obbligo solo di accennare alla signora che morì con lui, Claretta Petacci. Il saggio Alla corte del Duce di Antonio Spinosa parla di questa corte, ma va anche oltre poiché torna indietro nel tempo e scrive dell’infanzia di Mussolini e degli amici dell’epoca, di cui alcuni poi lo seguiranno nella sua avventura. Puntuale, preciso e snello nella narrazione questa volta Spinosa mi ha lasciato perplesso per alcune notizie che riporta e mette in evidenza, come il fatto che Mussolini non tenesse molto alla pulizia personale o che da piccolo manifestasse un carattere violento, strappando addirittura gli occhi a un gatto che gli aveva rubato un boccone; penso però che ci sia da dar credito a queste notizie perché l’impressione che ho ricavato è che Mussolini fosse un pazzo, come testimoniato  dagli occhi sbarrati dell’ultimo periodo, quello della Repubblica Sociale, espressione che gli doveva essere tuttavia abituale perchè la troviamo addirittura nella foto di copertina, scattata nel 1937 a Roma all’ippodromo di Tor di Quinto. Del resto, se si eccettuano le sue capacità giornalistiche e oratorie, resta ben poco, rimane l’immagine di un uomo in possesso di una incredibile sete di potenza, ma anche pavido, pronto a tirare il sasso e a nascondere la mano.  E’ un personaggio che comunque non è facile da descrivere, così come non appare facilmente comprensibile il perché di non pochi comportamenti; eppure, Spinosa riesce bene in questo scopo, con una grande capacità di sintesi, che  si può riscontrare nelle prime pagine del libro, in tre righe che riporto integralmente: “Il Duce, oltre se stesso, era una maschera che seppe tenere testa a un balletto di ombre, fino a quando non cadde il sipario, perché egli non era più in grado di reggere il ritmo incalzante della recita. Queste pagine sono come un palcoscenico sul quale lui e la sua corte recitano la parte che si sono ritagliati nella storia. Un palcoscenico in cui un ragazzotto di Predappio apparve ben presto irretito da un delirio di onnipotenza, all’inizio inconsapevole e istintivo ma che, col trascorrere degli anni, si fece sempre più assoluto come il suo regime”.

Da leggere, senza dubbio.

Antonio Spinosa, giornalista e scrittore, è stato direttore del nuovo «Roma», dell'agenzia Italia, della «Gazzetta del Mezzogiorno» e di Videosapere-rai; inviato speciale del «Corriere della Sera» e del «Giornale». È autore di numerosi saggi storici, politici, di costume e di biografie di personaggi che hanno c"ambiato il mondo e l'Italia in particolare, tra cui "Cesare", "Tiberio", "Augusto", "Paolina Bonaparte", "Murat", "Starace", "Mussolini", "Vittorio Emanuele III", "Hitler", "Pio XII", "Salò", "Edda", "Italiane", "L'Italia liberata", "La grande storia di Roma", "La saga dei Borgia", "Mussolini razzista riluttante", "Alla corte del duce", "Churchill", "Il potere", il destino e la gloria", "Cleopatra", "D'Annunzio", tutti editi da Mondadori.
Ha vinto il Premio Estense, il Saint-Vincent, il Bancarella, il premio Donna Città di Roma ed è stato finalista al premio Strega 1996 con Piccoli sguardi.
Renzo Montagnoli

 

 

2 Maggio

Perché il Sud è rimasto indietro

di Emanuele Felice

Il Mulino Editore

Storia economica

 

I veri motivi del divario Nord-Sud

Da un po’ di tempo è in atto un revisionismo storico del nostro Risorgimento relativamente all’annessione del Meridione al Regno d’Italia, con il quale si vuole dimostrare come il Mezzogiorno, prima prospero e florido, sia stato sistematicamente spogliato delle sue risorse, tutto a beneficio del Nord, determinando quell’arretratezza economica che tuttora, purtroppo, lo caratterizza. I dati su cui si basano queste asserzioni sono del tutto inattendibili e per così dire campati in aria, tanto che è possibile affermare che coloro che portano avanti questa storiella, chiamati anche neo-borbonici, nulla fanno per determinare gli autentici motivi della debolezza del nostro Sud, impedendo così di fatto la ricerca delle indispensabili soluzioni. La materia deve essere  ovviamente oggetto di studi seri che solo gli storici economici possono fare; al riguardo, proprio un meridionale, Emanuele Felice ha scritto un saggio di estremo interesse, intitolato Perchè il Sud è rimasto indietro. Nelle sue ricerche, ampiamente documentate, è dovuto a ricorrere a sperimentazioni, anche statistiche, di cui ha riportato il metodo; ciò è stato tanto più necessario ove si consideri che certi dati economici oggi di uso corrente all’epoca erano ignorati, ma soprattutto si è basato sulle correlazioni per verificarne o meno l’attendibilità. Così in epoca preunitaria, con riferimento all’anno 1861, possiamo vedere come il prodotto interno lordo del Sud differisse di poco (in meno) rispetto a quello del Nord (c’è da dire peraltro che entrambi gli indicatori sono piuttosto bassi rispetto a quelli di altri paesi europei, perché lo sviluppo industriale in Italia non era ancora arrivato, anche se il Nord aveva tutto il substrato necessario per parteciparvi a pieno titolo, a differenza di un meridione intrinsecamente debole). Se si vanno a vedere gli altri indicatori, però, è possibile determinare senza ombra di dubbio come il divario Nord-Sud sia sicuramente anteriore all’Unità d’Italia; infatti, strutturalmente si tratta di due entità agli antipodi, con il Nord che può contare su un regime più moderno, cioè una monarchia costituzionale, e il Regno delle Due Sicilie invece ingloriosamente racchiuso in una struttura istituzionale del tipo antecedente la rivoluzione francese; non sono nemmeno paragonabili le indispensabili infrastrutture, con le ferrovie che al Sud arrivavano a malapena a 99 Km., mentre Liguri e Piemontesi ne avevano per 850 Km.e il Lombardo-Veneto per 522 Km.; inoltre il supporto finanziario si basava nel Mezzogiorno su solo due banche, contro le decine che vi erano in Settentrione, e la circolazione monetaria era al Sud basata sulle antiquate monete, peraltro nelle mani di pochi; per quanto concerne l’analfabetismo in Piemonte era il 49% e in Lombardia il 51%, in Meridione l’86%; anche il grado di povertà era ampiamente diverso, tanto che al Centro-Nord chi viveva al di sotto della soglia di povertà era il 37%, mentre al Sud ben il 52%. Quindi, altro che paese felice come certe teste vanno predicando, anzi era un regno prossimo al disfacimento, su cui avevano messo gli occhi, per il dominio nel Mediterraneo, Francesi e Inglesi, con questi ultimi che ritennero che il male minore fosse che subentrassero gli italiani.

Ci sarebbero da scrivere pagine e pagine di questo libro di piacevole lettura, ma che esige delle indispensabili nozioni di Scienze Economiche e pertanto mi limiterò alle conclusioni, secondo le quali chi ha soffocato il Mezzogiorno sono state state le sue stesse classi dirigenti, peraltro poche in una società che vedeva un ristretto numero di detentori di ricchezza e una massa proletaria, con una sparuta percentuale borghese, per lo più di carattere burocratico; insomma non c’era il tanto indispensabile ceto medio e così chi era ricco, anziché rischiare capitali in nuove attività, preferiva una rendita di posizione.

Di conseguenza ecco il risultato che emerge nel saggio: 

Questa interpretazione della differenza di sviluppo del Sud rispetto al Nord-Ovest e al Nord-Est-Centro consente di intravedere gli elementi portanti di una strategia di superamento della differenza di sviluppo. Una strategia che non si basa più sulla richiesta di nuove leggi speciali o di nuovi trasferimenti aggiuntivi di risorse come risarcimento di un’inferiorità che si presume procurata dall’esterno o a saldo di nuovi strumenti di perequazione, ma una strategia che «dovrebbe puntare invece a modificare radicalmente la società meridionale, spezzando le catene socio-istituzionali che condannano la maggioranza dei suoi abitanti a una vita peggiore di quella dei loro concittadini del Nord: annientare la criminalità organizzata, eliminare il clientelismo, rompere il giogo dei privilegi e delle rendite. Riconvertire cioè le istituzioni del Mezzogiorno da estrattive a inclusive, passando per la trasformazione delle strutture sottostanti». Al riguardo ritengo opportuno chiarire il significato di due termini: poichè le istituzioni politiche ed economiche sono aspetti prioritari per lo sviluppo di un paese, queste possono essere inclusive se favoriscono il coinvolgimento dei cittadini e quindi, grazie anche alla crescita economica, lo sviluppo civile e umano, mentre sono estrattive qualora finalizzate ad estrarre rendite destinate a una minoranza di privilegiati.

Il libro di Felice è senz’altro di notevole interesse.

Emanuele Felice insegna Economia applicata nell’Università D’Annunzio di Pescara. Con il Mulino ha pubblicato «Divari regionali e intervento pubblico. Per una rilettura dello sviluppo in Italia» (2007) e «Ascesa e declino. Storia economica d’Italia» (2015).
Renzo Montagnoli

 

 

26 Aprile

La canzone del cavaliere

di Ben Pastor

Sellerio Editore Palermo

Narrativa

 

 

Chi ha ucciso Garcia Lorca?

La canzone del cavaliere, benché nella cronologia degli eventi con protagonista Martin von Bora sia il primo romanzo, ambientato come è nel corso della guerra di Spagna, figura come il quarto scritto da Ben Pastor, dopo gli ottimi Lumen e Luna bugiarda, ma soprattutto dopo l’eccellente Kaputt Mundi. Non ci è dato sapere il perché di questa scelta dell’autore ma sta di fatto che questo libro, pubblicato nel 2003, è di notevole qualità, e non solo per la trama, intricata, se pur comprensibile, o per l’atmosfera, che ci restituisce splendidamente un’epoca tragica per la Spagna, bensì soprattutto per la presenza di un rapporto amoroso, che per quanto primitivo, si ammanta comunque di una sensualità che si potrebbe definire magica. Qui si parla dell’amore di von Bora con la famosa Remedios, famosa perché il suo nome ricorrerà talvolta nelle opere successive. Il romanzo comunque è tutto imperniato sul tagico destino del grande poeta Garcia Lorca che nella trama non risulta ammazzato dai falangisti nel 1936, ma un anno dopo e in tutto un altro luogo, guarda caso vicino a un avamposto comandato dal giovane tenente Martin Von Bora. Chi l’avrà ucciso? Interessati ad avere una chiara risposta sono sia von Bora che il maggiore Philip Felipe Walton, un americano che era amico del grande poeta spagnolo, internazionalista e nemico posto con il suo distaccamento proprio di fronte a quello dell’ufficiale dell’Abwehr. Non aggiungo altro, per non svelare i contenuti e i risvolti di una trama costruita in modo impeccabile, limitandomi pertanto a evidenziare ancora una volta i meriti dell’autore. In questa zona assetata dell’Aragona il fronte ha un periodo di calma, nel senso che gli scontri sono sporadici, ma proprio per questo, grazie alla maestria di Ben Pastor, si respira quell’aria che è un misto di tensione per la consapevolezza che, nonostante la calma, una fucilata ti può togliere di mezzo, e di rassegnazione, perché in una guerra crudele quale può essere quella civile non si potrà mai assaporare in pieno il gusto della vittoria. Martin von Bora è un giovane ufficiale dell’Abwehr alle prime armi, che dimostra talento, ma anche i difetti dell’inesperienza; Walton è uno che ha già combattuto nella Grande Guerra e che ha partecipato anche alla battaglia di Guadalajara; in entrambi i fronti l’americano si è scoperto come pavido, addirittura vigliacco, eppure a tutti sembra un duro, uno che non teme la morte, che però forse inconsciamente cerca per porre rimedio alla sua dirompente paura. I due personaggi sono resi splendidamente e questo è un ulteriore motivo di interesse di un romanzo che è ampiamente meritevole di lettura.

Ben Pastor, nata a Roma, docente di scienze sociali nelle università americane, ha scritto narrativa di generi diversi con particolare impegno nel poliziesco storico. Della serie di Martin Bora Sellerio ha già pubblicato Il Signore delle cento ossa (2011), Lumen (2012), Il cielo di stagno (2013), Luna bugiarda (2013), La strada per Itaca (2014), Kaputt Mundi(2015), I piccoli fuochi (2016), Il morto in piazza (2017) e La notte delle stelle cadenti (2018).
Premio Flaiano 2018
Renzo Montagnoli

 

 

19 Aprile

Ultima vela

di Francesco Belluomini

Prefazione di Vincenzo Guarracino

Samuele Editore

Poesia

Collana Scilla

 

Il tribolato oceano dell’esistenza

L’ultima vela è l’ultimo spazio che un uomo può ritagliarsi nel suo percorso terreno, di cui intende lasciar traccia, se non per altri, almeno per sé, onde verificare il suo trascorso  prima di chiudere il libro dell’esistenza. Questa opera postuma è a tutti gli effetti un’autobiografia, in versi endecasillabi, che donano struttura, equilibrio e armonia a una poesia che ha un unico tema, quello appunto di parlare della propria vita.

Di raccontarsi, di essere sincero perfino con se medesimo lo si nota perfino dai primi versi, in cui l’autore non fa sconti per nessuno, e a maggior ragione per se stesso (Come se disarmato sulla testa / d’albero del velame di quest’ultima / regata, sulla boa di sopravvento /  tentassi completare la bolina / con la vela rimasta nel pozzetto, / per prendere le raffiche di poppa / e tagliare la linea del traguardo / nel valzer dell’insolite strambate. / Un percorso da stato d’emergenza / da vero giramondo dei mestieri, / non mancato scontare mio peccato / doppiando pure quattro continenti./ Non avere più nulla da mostrare / non significa farmi qualche giro / di respiro sul molo di Viareggio / o lungo le pinete disastrate / dal tempo e dall’incuria dei tutori,/ che tanto son finiti quei valori. / Ma posso sempre rendermi presente / narrando con la forma prigionata / il tempo dell’esposta controversia, / allineando quest’ultimo poema / dopo quelli che stanno decantando / ancora sul fondale del cassetto./ …).

Sarebbe però troppo riduttivo vedere l’opera solo sotto l’aspetto autobiografico, come del resto testimoniato da questa serie di metafore che traggono origine dalla trascorsa e lunga attività sul mare, dico che sarebbe riduttivo o ancor peggio semplicistico ricondurre il tutto a una se pur pregevole trasposizione in versi della propria vita. Del resto queste prime strofe che, anziché disorientare o affaticare il lettore lo avvincono con il ritmo che ha il sapore dell’onda che lenta alla spiaggia arriva, hanno anche il pregio di far balenare il vero scopo di questo bel lavoro. Già, parlar di sé senza raffrontarsi con il mondo che ci circonda sarebbe troppo semplice, ci farebbe apparire soggetti passivi trascinati dagli eventi e dal senso comune senza porci quei problemi che solo menti elette possono e devono proporsi. E’ così che l’autore espone il proprio senso della vita, in evidente contrasto con la società di cui è parte e  che, più che vivere, vegeta, distratta, priva di valori, dimentica del passato, incapace di rendere reattivo il presente e del tutto disinteressata del futuro. E’ l’ultimo canto di un uomo che nel vedere nello specchio se stesso non può fare a meno  di avvertire, intenso e profondo, quell’anelito per un mondo che sia costruttivo ed equo. giusto e solidale, un mondo che ha ormai smarrito quella strada che invece è propria dell’autore e che ora appare ai suoi occhi permeato dall’indifferenza di figure senza anima, né nerbo, gente che vive alla giornata, incapace di elevarsi oltre la mera e vorace soddisfazione dei beni materiali.

Completa l’opera un’appendice in deroga, ove più evidente riappare quella vita di mare che ha lungo ha accompagnato l’autore, solo due poesie, non a caso in chiusura di un lungo adagio, la nota finale che ribadisce quanto prima espresso, il tocco di grazia che chiude una sinfonia di parole.
Renzo Montagnoli

 

 

14 Aprile

Il sussurro del diavolo

di Alessandro Pugi

Onda d’Urto Edizioni

Narrativa romanzo

 

Servizi segreti deviati

Roma, 25 marzo 2008, è mattina presto, l’orario in cui la gente si sposta per andare a lavorare o recarsi a scuola, così che la metropolitana è particolarmente affollata. A una stazione sale una donna e trova posto vicino a un uomo; i due si scambiano dei convenevoli e si arriva perfino a ipotizzare che possa nascere una storia d’amore, ma a un’altra stazione sale un altro uomo e subito le cose precipitano. Quello a fianco della donna riesce a spingerla giù dalla carrozza sulla banchina e lei travolge un giovane in attesa. Poi il treno riparte e viene sconquassato da un’esplosione colossale, un attentato che provoca centinaia di morti. Inizia così l’ultimo romanzo di Alessandro Pugi che, dopo il riuscito poliziesco L’origine del male, si cimenta nel fecondo, ma difficile campo della spy story. E’ inutile che mi dilunghi per spiegare di che si tratti, perché sarebbe troppo complicato e poi farei un torto al lettore  togliendogli il piacere della scoperta, dirò solo che siamo in Italia e che ancora una volta troviamo i cosiddetti servizi segreti deviati, in una lotta di potere che provocherà altre morti e che sembrerà non aver fine. La creatività dell’autore riesce a imbastire una storia che non manca certo di originalità, ma questa ricerca di narrare una vicenda capace di dire qualcosa di nuovo va un po’ a scapito di un’altra caratteristica che avevo apprezzato in L’origine del male. I personaggi, numerosi, per quanto ben tratteggiati, presentano infatti un’analisi psicologica che scende poco in profondità, ma, se può essere in fondo poca cosa per quelli secondari, per i principali è una carenza che non permette al lettore di comprendere il perché di certi loro comportamenti. Certo la trama resta l’obiettivo principale e, per quanto complessa, è di quelle che riescono veramente ad avvincere, anche se avrei qualcosa da obiettare per il finale. Siamo abituati con Pugi a delle conclusioni inaspettate, pur se logiche, ma qui fra tanti doppi, o addirittura tripli giochi, c’è da perdersi tanto che il fil rouge che tiene unite le varie parti si ingarbuglia e non è facile districarlo. E’ un peccato che nulla toglie al piacere di un lettore che voglia soprattutto trovare un’accentuata e continua suspense, ma credo che una più studiata razionalità avrebbe portato maggiori benefici, e anche consensi, all’opera. Certo il mondo degli agenti segreti non esce bene da questo libro e conferma le famose massime di Giulio Andreotti, che valgono anche per altri campi, ma soprattutto per questo:”Fidarsi è male, non fidarsi è meglio” e “A pensar male ci si azzecca sempre”. Del resto, al di là dell’aneddotica o della fantasia dell’autore l’esperienza degli anni di piombo ci porta a dubitare della serietà dei servizi segreti, che oggi magari saranno cambiati, spero in meglio, ma che nel romanzo non è che ci facciano una bella figura, anche se i due protagonisti principali (un uomo e una donna) destano una naturale simpatia, lei un cane sciolto, lui un’idealista che finirà inevitabilmente, scottato dalla realtà, con il diventare un altro cane sciolto.

Da leggere.

Alessandro Pugi è nato a Portoferraio (Isola d'Elba) dove ha vissuto e vive tutt'ora. E’ ispettore capo di Polizia Penitenziaria. La passione per la scrittura nasce nel 2010 con la pubblicazione del suo primo romanzo: The Spanners, un testo fantasy/thriller che sperimenta le sue "scarne" doti di scrittore. Nel 2012 vede la luce "Il colore del cielo" romanzo tra i vincitori del Premio Internazionale Letterario "Cattolica". Dal 2012 al 2017 si susseguono: "La sottile linea del destino", "IL tredicesimo zodiaco", "Come il volo di una farfalla" finalista Premio Nazionale Regine Abruzzo, "Il cercatore di Stelle". Nel 2018 esce "L'Origine del Male", vincitore del premio "La Giuria" al Premio Letterario Internazionale "Milano International" e premiato al premio Internazionale "Michelangelo Buonarroti". Infine, l’ultima fatica “Il sussurro del diavolo”, pubblicato nel 2019 da Onda d’Urto.
Renzo Montagnoli

 

 

6 Aprile

Nell’angolo di quiete

di Eduard von Keyserling

L’Orma Editore

Narrativa
 

Un delicato acquerello di un’epoca crepuscolare

Eduard von Keyserling è l’autore di opere definite “le novelle del castello”, romanzi di notevole eleganza in cui si descrive la vita della nobiltà baltica, di cui lui era parte, nelle loro tenute, ambienti elitari, chiusi e protettivi, in cui  l’esistenza era di una monotonia stucchevole e tutto si svolgeva nella inconsapevole attesa di un evento che potesse cambiar tutto, il che ricorda non poco l’atmosfera e i personaggi di quel capolavoro di Dino Buzzati che è Il deserto dei tartari. Da un romanziere che si potrebbe definire senza infamia e senza lode mai ci sarebbe potuto attendere un lavoro come Nell’angolo di quiete, che pur presentando le caratteristiche classiche delle sue opere riesce a rappresentare, attraverso gli occhi di un bimbo, la fine di un mondo, il cui inizio è dato proprio dall’avvio della prima guerra mondiale e non a caso l’epoca della vicenda è quello. Nella residenza estiva, nelle Alpi bavaresi, della famiglia von der Ost si consuma una tragedia greca attraverso la quale si spegne un mondo di apparente normalità, in cui i rapporti, e anche le passioni, sono regolati da convenienze. Agli occhi di un bambino malaticcio, Paul von delr Ost, si squarcia poco a poco il sipario sull’esistenza, tramite atteggiamenti a lui al momento incomprensibili, ma che lo colpiscono. Così è per la corte alla madre del signor Hugo von Wirden, dipendente della banca di cui il signor Bruno von der Ost è direttore, come pure per l’attrazione che prova per una bimbetta figlia di agricoltori che si accompagna sempre con il rampollo del maggiore Welker, che guida un rapporto con lei quasi sadomaso. C’è ancora la pace, ma è di attese per l’imminente guerra, che poi inevitabilmente scoppia con il signor von der Ost che si arruola  e che poi cadrà sui campi di Francia lasciando una consolabile vedova che rinuncia alle profferte amorose di von Wirden solo perché le regole di casata le impongono ora una vita nel ricordo del marito defunto. Tutto procederebbe secondo i crismi che caratterizzano una nobiltà avulsa dal scorrere del tempo con i suoi progressi, se il bimbo, volendo dimostrare ai suoi due amichetti di non essere un pusillanime, non volesse dimostrare il suo coraggio partendo con lo scopo di arruolarsi, ma data l’età per lui il fronte non può essere che dopo la montagna che sovrasta il paese e verso cui si incammina. Il romanzo è breve e non aggiungo altro perché le ultime pagine sono un dono prezioso, qualcosa che si scolpisce in modo indelebile nell’animo del lettore e che lo induce a pensare, non a torto, di essere in presenza di un autentico gioiello, al cui giudizio contribuiscono, oltre alla trama, l’eleganza dello stile, la rara sensibilità dell’autore nello sfumare situazioni che in altre mani potrebbero definirsi scabrose, la descrizione poetica dei paesaggi e della natura, la fine analisi psicologica, grazie alla quale si è in grado di immergersi in un’atmosfera perfettamente ideata.

Eduard von Keyserling (Paddern, Curlandia, 1858 - Monaco 1918) scrittore tedesco. Nei racconti (La signorina Rosa Herz, Fräulein Rosa Herz, 1887; Beata e Mariella, Beate und Mareile, 1903; Giornate afose, Schwüle Tage, 1906) e nei romanzi (La terza scala, Die dritte Stiege, 1892; Onde, Wellen, 1911) rappresentò con dolente rassegnazione e raffinato impressionismo i conflitti di un’aristocrazia in lenta decadenza.
Renzo Montagnoli

 

 

25 Marzo

Canti in Carnia

di Gianni Moroldo

Samuele Editore

Poesia

 

Elegia carnica

Di cosa potrebbe scrivere, sia pure in versi, un ottuagenario? Del presente che ogni giorno che passa scandisce inesorabile l’approssimarsi dell’ultimo, in una società che diventa per lui sempre più incomprensibile? Del futuro, di cui consapevolmente non tiene conto, anzi cerca di non pensarvi? E allora non rimane che il passato, l’unico che dia la certezza di aver vissuto, e nel passato inevitabilmente si privilegia l’età più bella, mitizzandola, perché la giovinezza, arrivati a una certa età, sembra lo specchio di un modo perfetto, quel mondo che abbiamo sempre sognato e che oggi ci sfugge di mano.

E’ certamente di un’epoca diversa ciò che nel raccontare, poetando, rappresenta per noi l’esperienza irripetibile della nostra esistenza e i versi di Gianni Moroldo riescono perfettamente a fissare il ricordo, prima ancora per l’autore che per i lettori, una memoria conservata prima gelosamente e che ora viene riesumata come antidoto alla malinconia dell’età (  Vorrei. / Come vorrei lanciarmi senza respiro / lungo il ripido pendio d’un prato / appena rinverdito,/ camminare fischiettando una villotta / gli occhi a un nastro di cielo / che sbircia a nascondino tra le case, / di un nulla ridere nell’acqua / scherzando con gli amici, / rotolarsi sulla linea di sabbia del fiume / e tuffarsi nell’onda veloce / tagliando la pozza fonda di un vortice / e vivere pienamente nel presente /

senza alcun pensiero molesto / per la vita o il domani. /….). E tutto riemerge il trascorso, le immagini di un paese in cui la vita scorreva quieta, e con esse la sua gente che non c’è più, che prima di noi si è accomiatata dal mondo; comprendo bene lo stato d’animo di Moroldo, perché anch’io sono in quell’età in cui così male si rammenta il da poco accaduto e in cui invece così bene si ricorda quanto avvenuto in un lontano passato; possono cambiare i luoghi, possono essere diverse le persone che abbiamo conosciuto, ma quella riesumazione equivale quasi a una rinascita di noi stessi, è lo strumento non solo necessario, ma addirittura indispensabile per poter andare avanti.  E per non smentire ciò che è stato, tutto si fa più bello e la memoria nei versi si tramuta quasi in elegia (... verso Carnia s’alzano i monti contro un cielo / che l’ora riveste di veli /tra l’arancio e il croco. / Con dolcezza lentamente incupiscono / bruno-rosati e viola / mentre gli ultimi raggi, rallentando, accarezzano profili che ci illudiamo / eterni. /…). Moroldo riesce così a dipingere a parole un tramonto nella sua terra, con pennellate tenui e con colori altrettanto delicati che coglie dalla tavolozza conservata nella sua anima. Sono sincero quando dico che probabilmente questa silloge incontra i miei favori anche perché, a parte una certa comunanza di età, sono temi, immagini che pure io tendo a mettere in versi. Non intendo tuttavia paragonarmi a un uomo che, prima ancora che poeta, denota un’accentuata sensibilità, quello che lo porta a vedere il placido fluire delle acque del suo fiume, oppure quello che accosta le stagioni passate alle attuali, entrambe vissute sotto l’aspetto delle sensazioni, di ciò che si avverte nel proprio intimo e che solo in parte altrimenti riverbera al di fuori. E poi vi è da considerare che ci troviamo di fronte a dei Canti, cioè a poesie che per loro natura presentano una particolare musicalità, a cui si perviene solo con un attento studio della struttura, il cui equilibrio in ogni parte, in ogni verso è essenziale. Non sono comunque solo il trascorso e la sua memoria a rappresentare particolare interesse per l’autore, ma vi è anche un amore viscerale per la sua terra, visto sia nelle sfaccettature della natura ivi presente, sia nelle testimonianze operose degli uomini, come i borghi, i paesi (Ciò che senza lacrime ancora piange / come tristezza ben nota ai miei giorni / è un canto lontano di mio padre / che viene rincasando nell’ultimo ritorno:/ messaggio di un dolore per anni soffocato / giunge ora al cuore inatteso e pur gradito / sulle nubi leggere o cupe di questa sera / col calore mai obliato di un abbraccio / dai borghi amati del mio tempo passato.).

Tutto questo però non basta, perché Moroldo deve aprire al mondo tutto ciò che intende dire, perché sa che il tempo corre e il futuro diventa ogni giorno più incerto. Forse è suggestionato da leggende, forse egli stesso inconsapevolmente vuole essere leggenda e allora pare di udire i suoni melodiosi e arcani dell’Arpa celtica (E’ strano, la nebbia oggi è qui, / ma già si scioglie e sale / mentre ci avvolge leggera / e subito svanisce / dalle cime delle mie betulle. / Ora già lumeggiano in oro pallido / trasparenti / le foglie più alte. / ….). E per finire un’amara riflessione sull’oggi (Fuggono nel gran mare dei ricordi / emozioni e pensieri di questo tempo / che segna ormai di ruggine rossastra / le ore tarde della mia vita. / E pure tardivi, nella bassa vallata, / risuonano gli striduli suoni / d’uno stormo in ritardo, qui / mi restano compagni / ultimi progetti, piccole attese. / Salgono intanto le ombre della mia sera. / Quale mai vita è senza rimpianti? / E tuttavia per nulla è sterile lamento, / solo un canto di leggera / forse un po’ patetica elegia.). No, non è un po’ patetica elegia, è un rimpianto sussurrato che scende dritto fino al cuore.
Renzo Montagnoli

 

 

18 Marzo

Gente in castello

di Maria Bellonci

Arnoldo Mondadori Editore s.p.A.

Narrativa

 

Un assaggio delle grandi capacità di Maria Bellonci

Gente in castello non è il titolo di un romanzo scritto da Maria Bellonci, ma un’antologia delle pagine più interessanti tratte da “Segreti dei Gonzaga”, “Tu vipera gentile” e “Rinascimento privato”, opere di grande valore dello stesso autore. Ci si potrà chiedere il perché di questo volume e credo che la risposta migliore sia che il libro possa essere considerato una specie di trailer, tale da invogliare a leggere i lavori di cui fornisce un’anticipazione. Per chi non ha mai letto nulla di questa scrittrice che ha fatto scoprire al mondo la storia e la grandezza della dinastia dei Gonzaga è quindi il mezzo per poter verificare la possibilità, con consistenti assaggi, di dotare il proprio patrimonio culturale con opere di notevole valore. Nella circostanza non si potranno che apprezzare i commenti, le precisazioni, gli approfondimenti di storici, di musicologi, di studiosi della lingua e dell’arte che costituiscono un corollario importante di queste pagine scelte. Sono nomi di esperti di chiara fama, quali Alessandro Barbero, che firma anche l’introduzione, Paola Besutti, Giuseppe Antonelli, Michele Bordin, Stefano Petrocchi e Raffaella Morselli. L’opera grosso modo è divisa in cinque capitoli, o anche cinque  estratti se vogliamo chiamarli così, e così distinti: Ritratto di famiglia, tratto da Segreti dei Gonzaga, Soccorso a Dorotea, posto al centro dei tre racconti costituenti Tu vipera gentile, Rinascimento privato, dall’omonimo romanzo, Principe a Mantova da Segreti dei Gonzaga e infine Delitto di Stato da Tu vipera gentile.

La lettura sarà un piacevolissimo viaggio nel passato, in un’epoca ricca di fasti e di intrighi, di amor cortese e di rapporti carnali, di follie passionali e di crude ragion di stato e sarà in grado di far comprendere anche l’assetto sociale e politico di un’Italia, sempre costituita da vari staterelli, su cui entità ben più grandi, come per esempio Francia e Spagna, erano disposte a mettere le mani.

Grazie a Maria Bellonci non solo si conosce un periodo storico di una grande dinastia, il periodo senz’altro migliore, ma si riesce a essere partecipi di vicende, a volte tenebrose, ma più spesso frivolmente contagiose.

Non aggiungo altro, perché credo proprio che non ci sia necessità, tranne la raccomandazione di leggere questo libro. 

Maria Bellonci, di origini piemontesi, nacque a Roma nel 1902 ed esordì nel 1939 con Lucrezia Borgia, che vinse il premio Viareggio. Insieme al marito Goffredo diede vita nel 1947 al premio Strega. Tra i suoi libri: Segreti dei GonzagaPubblici segretiTu, vipera gentileMarco PoloRinascimento privato esce nel 1985, l'anno precedente la morte dell'autrice.
Renzo Montagnoli

 

 

8 Marzo

L’origine del male

di Alessandro Pugi

CTL Editore

Narrativa romanzo 

Anche l’indifferenza uccide

Fra i reati gravi é particolarmente odioso il femminicidio, perché si tratta di un delitto compiuto su una donna solo perché è di sesso femminile e più passa il tempo più si diffonde, soprattutto nel nostro paese, in modo veramente inquietante. Non vado oltre, perché quel tanto che ci sarebbe da dire in proposito esula da quanto mi accingo a scrivere, cioè la mio opinione su questo romanzo di Alessandro Pugi, che non solo ha a che fare con il femminicidio, ma estende ad altri reati, sempre gravissimi, la narrazione. L’autore fa bene a parlarne e dissertandone nella trama di un romanzo è in grado di rendere più viva e attenta la partecipazione del lettore. La figura del procuratore della Repubblica Elena Banti, posta a capo di un pool che non solo deve assicurare alla giustizia i rei di femminicidio, ma nel limite del possibile anche impedirlo, è, pur nella forte personalità come viene descritta, sostanzialmente una debole nel momento in cui, svestiti i panni del magistrato, ritorna femmina, con un segreto che l’attanaglia e che condizionerà tutta la sua vita. Non mi dilungherò certamente sulla trama, ricca di colpi di scena e senz’altro avvincente, dando solo un’idea e cioè che nelle indagini di femminicidio si inseriscono quelle rivolte a scoprire chi sia il serial killer che sopprime giovani donne dopo inenarrabili torture. Il tutto si svolge sull’Isola di Sant’Andrea (Isola d’Elba), un posto dagli scorci naturali meravigliosi che fanno da sfondo a orrendi delitti, un’ambientazione ben ricostruita a cui occorre aggiungere anche una non indifferente capacità di realizzare atmosfere che quasi esigono la partecipazione del lettore che, pur se lasciato libero di fantasticare, vede scorrere immagini quali fossero parte di una pellicola del genere thriller. Peraltro, non poco conta il fatto che Alessandro Pugi sia nato e viva all’isola d’Elba, dove lavora al famoso carcere come ispettore capo; proprio l’attività svolta mi ha fatto sorgere il dubbio che il romanzo abbia tratto spunto dalla vicenda di qualche recluso, il che non è un difetto, ma eventualmente un ulteriore pregio per la capacità di scremare il monotono orrore dell’empietà di un mostro per trasformarlo in materia prima per un lavoro che va oltre i semplici fatti, non si ferma alla sola indagine, ma scende in profondità, al fine di concretizzare un quadro psicologico. E motivo di ulteriore pregio è questo aspetto, tanto che alla fine si apre agli occhi del lettore la psiche di una donna che è stata oggetto non solo delle attenzioni di uno stalker familiare, ma che ha subito minacce, percosse, in una vita d’inferno che l’ha svuotata a tal punto da rifiutare la propria personalità, assumendo quella di una donna immaginaria.

La conclusione del romanzo è quanto di più amaro si possa ipotizzare e si desidera quasi abbracciare questa donna, renderla partecipe della nostra solidarietà, e senz’altro in tal senso l’opera ha raggiunto il suo obiettivo; non è un caso infatti se in premessa è riportata questa frase di un sempre più grande Albert Einstein Il mondo è un posto pericoloso, non a causa di quelli che compiono azioni malvagie ma per quelli che osservano senza fare nulla. “. Forse il male più grave di questo secolo è proprio l’indifferenza e di questo sono convinto, come lo è anche l’autore che è riuscito a esprimere nel migliore dei modi le sue opinioni in questo libro, meritatamente pluripremiato.

Alessandro Pugi è nato a Portoferraio (Isola d'Elba) dove ha vissuto e vive tutt'ora. E’ ispettore capo di Polizia Penitenziaria. La passione per la scrittura nasce nel 2010 con la pubblicazione del suo primo romanzo: The Spanners, un testo fantasy/thriller che sperimenta le sue "scarne" doti di scrittore. Nel 2012 vede la luce "Il colore del cielo" romanzo tra i vincitori del Premio Internazionale Letterario "Cattolica". Dal 2012 al 2017 si susseguono: "La sottile linea del destino", "IL tredicesimo zodiaco", "Come il volo di una farfalla" finalista Premio Nazionale Regine Abruzzo, "Il cercatore di Stelle". Nel 2018 esce "L'Origine del Male", vincitore del premio "La Giuria" al Premio Letterario Internazionale "Milano International" e premiato al premio Internazionale "Michelangelo Buonarroti". Infine, l’ultima fatica “Il sussurro del diavolo”, pubblicato nel 2019 da Onda d’Urto.
Renzo Montagnoli

 

 

5 Marzo

Il sorriso di Minerva

Di Giovanni Paradiso

Antologia poetica

con un saggio critico di

Paolo De Stefano

Mandese Editore

Poesie

La poesia «Poetare» è la prima a comparire nella raccolta, un florilegio ideato e curato con profondo, illuminante spirito critico dall’esimio professore Paolo De Stefano: «Dopo un’accurata revisione delle numerose liriche, ho scelto», scrive l’illustre saggista e critico letterario nel suo commento all’opera, «quelle che mi sono sembrate unire valori di vita vissuti a momenti di sognante visione esistenziale;». E sono, certo, le poesie più espressive «dell’estrema tensione artistica» che percorre l’ispirazione del poeta Giovanni Paradiso. Tuttavia non il giudizio, per carità, ma una semplice riflessione sia pure critica su un’opera siffatta non è agevole, dovendo una raccolta antologica, anche se organizzata in maniera esemplare, divisa in quattro quadri che potremmo definire complementari nei confronti della

tipicità lirica dell’autore, essere non solo un compendio selettivo ma contenere composizioni evidentemente concepite in periodi diversi della vita artistica.

Esclusioni quindi e segmentazioni di una complessa attività creativa.

Eppure, già da una prima veloce lettura si è imposta la convinzione che si tratta di silloge vivamente organica, ben predisposta a illuminare la «sognante visione esistenziale» e la «forza morale ed etica», i caratteri peculiari, a mio avviso, della personalità del poeta. E il grande merito sia della felice scelta organizzativa che della coerente collocazione tipografica delle poesie nel volumetto va indubbiamente, e piace ripeterlo, al curatore.

«Poetare» quindi è il titolo dei primi versi raccolti nel florilegio, pochi semi sparsi per la prossima fioritura. Il programma dichiarato dal poeta apparentemente è semplice:

I colori,

i suoni,

le parole,

elementi primigeni costitutivi ma inerti fino a quando non «si purificano nella memoria». Dove si combineranno e rinasceranno immagini a sedimentare nel folto e fertile fondo dei ricordi. Sarà la persistente atmosfera evocativa che accompagnerà l’emergere di questi a sedurre il lettore. Lo strumento preciso ricco e raffinato delle parole diventa un morbido, talvolta ruvido ma mai appuntito, pennello che traccia sulla carta l’intenso e ampio spettro delle sensazioni, ma diventa insieme plettro che trae dalla «sognante visione esistenziale» brani di musica con i quali dà armonia di adagi incantati o di contrappunti incalzanti allo svolgimento dei versi. E la bottega del poeta ov’egli opera è propriamente la fucina in cui le immagini delle sempre diverse manifestazioni della natura contemplate nel loro eterno ciclo dell’ascendere e declinare e i suoni, accordati o dissonanti, emessi dal mondo circostante vengono elaborati e trasfigurati dalla coscienza sognante, avvolti in un velo di malinconia, che non si aggraverà mai di pessimismo, permanenti vibranti nel cuore del poeta esitante, fino a esigere di essere svelati in immagini e ritmi dei versi:

La penna trema

sulla pagina bianca,

sollecita a velare un imperito

rammendo di parole…

Dalla sollecitazione ruvida inesperta si giunge al miracolo della creazione, il verso vive di luce e sostanza; l’ispirazione è come un dono divino in Il verso si illumina.

Si veste di classica bellezza e si fregia di scandite armonie la poesia dedicata a Minerva, un peana testimonianza di un mai spento del tutto amore del poeta per la luminosa bellezza dell’arte greca:

Più belli

erano i capelli,

finissimi crini,

riflessi dorati

in nodi aggraziati

sull’alto del capo raccolti

e intorno alla nuca ravvolti

come ghirlanda floreale,

versi la cui musicalità, iniziata con il trisillabo come colpi di timpani festosi annunzianti il canto alla divinità, prosegue sostenuta e vivace tra senari e novenari a rime baciate, evocando la purezza di antichi ritmi imperituri.

L’universo poetico di Giovanni Paradiso è percorso da improvvise e sorprendenti illuminazioni sentimentali. Difatti in Autunno al mio paese troviamo la natura con le sue stagioni rispettata con dedizione quasi sacra; una natura contemplata con devozione ma da un punto di osservazione situato all’interno della sua coscienza. Da questa coscienza esitano pitture di ariosa bellezza, dalla filtrazione degli elementi naturali immagini colori suoni, e tutto ripassa sempre per quella parte della memoria in cui i ricordi vivono velati di nostalgia per il loro contenuto affettivo, emergendo poi alla vita della scrittura dove vengono cantati con un vibrare pacato, suadente, ricco di luce a volte di ombre, che richiamano la consapevolezza dell’irreversibile declinare.

Il languore, la malinconia

delle piogge ottobrine

annunciavano l’autunno,

che vestiva di favola prati e giardini

e di porpora velava le foglie

e proseguendo ancora

Freme il cuore,

scuote sogni e ricordi.

Ed è tra sogni e ricordi, propriamente in questo confine a valle che prendono vita, evocate da un substrato di malinconica nostalgia, scene e usi pescatori, come in Marina Vecchia, dove si espone dapprima il catalogo degli strumenti del mestiere:

Barche, nasse,

reti sparse.

Odore asprigno di salsedine

e subito dopo sorge l’uomo vivente in un fascino fotografico:

qualche pescatore,

calzoni rimboccati,

che armeggia

con un piede sulla barca

e un altro sulla riva

c’è qui tutto il gusto e il rispetto per la gente che vive sul mare e per il mare.

Ma non lasciamoci trarre in inganno da questa pur frequente rappresentazione della vita. Certo l’idillio è la sua condizione preponderante, la natura seduce il poeta fino all’incanto, spesso gli regala l’estasi nella contemplazione di sé, ma lui vive altresì con partecipazione attiva sempre assoluta, intima calda di composta umanità la sua condizione. Tra le tante albe cantate sorgenti «in filigrane d’oro», «tra cielo e mare», per le quali il poeta sembra avere una spiccata predilezione estetica, ce n’è una, L’alba di un sentimento, che è cosa ben diversa dal bel sorgere del sole in un limpido mattino. Qui non si descrive un paesaggio, matura una giovanile esistenza e in tale processo di maturazione il personaggio della lirica scopre e soffre lo svilupparsi in sé di sentimenti opposti, in doloroso conflitto. Qui c’è il sorprendente assaggio delle prime amarezze e delusioni. Questo tenero, impetuoso e delicato momento della vita il poeta l’affronta con una sensibilità psicologica profonda e vigorosa al contempo, lo vive intimamente, in responsabile comunione con il suo giovane personaggio, così da assumerlo nella propria coscienza, da farne sua esperienza che elabora e dalla quale si fa elaborare nel tempo perdurante:

Ricordo

la patina impassibile della tua maschera

che difficilmente si piegava

a farsi riflesso premuroso dei moti del cuore

Il sorgere nel cuore ancora giovane di perturbanti sentimenti viene taciuto all’adulto e a tale scopo impone al proprio volto la consueta espressione di fredda indifferenza. L’adulto poeta vede la fatica ostinata della reticenza nei mutamenti del corpo, quasi ostilità e prova allora un risentimento che si manifesta con prorompente veemenza:

Ricordo

la fiamma delle tue passioni

per te innocue

come fuochi fatui;

ricordo

l’impassibilità

che ti colmava le vene

col fiotto d’un sangue gelido.

Infine il giovane essere che emerge dal ricordo, geloso delle proprie emozioni, cede, la forza per sostenere a lungo questa chiusura dell’animo manca, supera le sue capacità e il cedimento spirituale, lo svelamento viene accolto dal poeta con arrendevole pacata dolcezza che gli ispira la precisa scelta delle parole e la loro collocazione esattamente lungo ogni delicata fase del processo di maturazione dei sentimenti, così da restituire al lettore, con tenere immagini, la levità malinconica della conversione:

Ora,

il palpito delle tue ciglia

prova a esprimere

il cadere dei petali

dei tuoi pensieri,

il tuo riso vacilla nell’imminenza

dell’orlo del pianto,

e già,

l’incerto fremito della tua bocca

svela l’alba di un sentimento.

Poesia di natura e uomo, spettacolo sovrumano in umano teatro, sulla scena dall’atmosfera malinconica per la chiara consapevolezza dell’incessante crescere e declinare della vita.

Grazie all’acume critico del professor Di Stefano, a noi lettori di questa raccolta antologica viene in fine concesso di entrare nella Casa del poeta, dove ci capita di trovarlo seduto all’antico tavolino, nascosto nell’ombra della mano, in quella solitudine dell’anima che d’ascendere anela a cercare il Bello il Profondo, il Vero.

Qui, nel suo guscio,

vive da sempre,

il poeta

curvo sul suo lavoro.

In una fucina dall’aspetto artigianale, povera di suppellettili, quasi intento a celare l’invincibile ansia che lo domina, il poeta pone il suo essere tra spirto e materia, appunto in quell’anfratto della divina irrazionalità che genera l’arte, come aveva cantato nella precedente poesia Ritrovare l’anima:

anelando l’alba

vai a ritrovare l’anima

tra cielo e terra,

laddove la natura

nella sua miracolosa apparizione,

ci appare più vera

e vicino a Dio.

Alla fine, per sintetizzare al massimo, si può dire con sicurezza che la poesia raccolta in questa antologia è una perla rara e pura, vivente in un periodo della nostra esistenza in cui la volgarità più tetra è spacciata per la miglior arte.

L’AUTORE: Giovanni Paradiso

Nasce a Palagianello (TA) il 29 maggio 1944.

Svolge per quasi quarant’anni attività lavorativa presso l’azienda delle Poste e riveste importanti incarichi sindacali, senza mai abbandonare il suo interesse e la sua passione per la letteratura e in particolare per la poesia.

Ha partecipato a diversi concorsi letterari con risultati lusinghieri:

2° classificato con libro edito di poesia al Premio Letterario Internazionale "MONDOLIBRO XVII ED. Roma.

Vincitore alla XV Edizione Concorso letterario Europeo di Poesia, sez. a Tema – Rinascita Piediluco – patrocinato dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri – Ministero Beni Culturali – Regione Umbra.

Vincitore ex aequo alla XVI edizione del Concorso Letterario Europeo di Poesia, sezione a Tema – Rinascita Piediluco – sotto l’alto patrocinio del Parlamento Europeo.

3° Premio alla IV edizione Concorso di Poesia "Risvegliare le parole", indetto dalla associazione culturale "Sveglia Cittadina – Lecce".

Premio Nazionale di Poesia "G.Piermarini" – Medaglia Aurata – Foligno – indetto dall’Accademia Amici dell’Umbria.

Vincitore all’edizione del 1976 del premio di poesia M. Sicilia (TA)

4° posto al Concorso Internazionale di poesia "G. Ungaretti", indetto dall’Accademia Internazionale San Marco di Belle Arti, Lettere e Scienze. Riceve dal Senato Accademico la nomina di Accademico Cor-Rispondente per "meriti letterari".

3° posto al Concorso Nazionale di Poesia "Sorrento 73" della rivista letteraria "Nuovi Orizzonti" in Napoli.

Vincitore della Seconda Edizione del Concorso di Poesia "Festa della mamma" bandito dal Comune di Sava.

Consegue ulteriori buone qualificazioni in altri concorsi letterari, con lusinghieri giudizi della critica.

LUIGI PANZARDI

4 marzo 2020

 

3 Marzo

 

Rosa del battito

di Donatella Nardin

Prefazione di Riccardo Deiana

Nota introduttiva di Fabrizio Bregoli

Copertina di Giacomo Ramberti

Fara Editore

Poesia

Ciò che resta

Il tema di un’opera, sia che si tratti di poesia che di narrativa, determina inevitabilmente un comune fil rouge che collega le sue varie parti ed è così anche per Rosa del battito, ultima fatica di Donatella Nardin e frutto di esperienze ben diverse da quelle della sua precedente silloge Terre d’acqua. Di che tratta, insomma? Non c’è bisogno di scervellarsi, di tentare, perché già all’inizio si trova una dedica, che in fondo è anche un’epigrafe, che recita:” A Voi, labili e assenti ormai, ma ancora chiari e vivi e impetuosi in noi”. Nel ciclo della vita, in questo cammino su cui procediamo spesso incerti, non è infrequente il caso di perdere per strada chi ci accompagna; nonni, genitori, fratelli e sorelle, mogli e mariti e ancor più dolorosamente figli sono testimoni preziosi della nostra esistenza che si distaccano dalla vita, ma che restano ben definiti in noi, che nella nostra memoria lasciano un segno intangibile.

Questa della Nardin è poesia sì del distacco, ma più che altro del ricordo, che resta l’unica consolazione di fronte alla sofferenza per una perdita, una lacerazione che con il tempo si chiude, facendo emergere più viva che mai la memoria. E rifiutiamo categoricamente la loro immagine da defunti o prossimi a defungere, ma finiamo per conservare gelosamente quella dei tempi migliori, come è il caso di nonna Luisa ( Per ogni passante acconcia / nonna Luisa – rarefatta / e impareggiabile ormai tra i rossi / sbocciati in giardino – /l’onda azzurra di uccelli in festa / che sapienziale le avvolge / le tempie e il sorriso/…). E se la morte richiama lugubre come colore il nero, il far rivivere, se pur dentro di noi, chi non c’è più implica invece una variegata policromia, una festa per gli occhi che si riflette nell’animo (L’alba intinge le dita nel succo / giallo dei giorni fino a ferirsi. / Si accendono le viole nel fremito / alto, vestite di sole graffiano /…), come anche “Sanno di miele e vaniglia / i giorni vogliosi / chiazzati di luce. /...”. In questo pellegrinaggio intimo ci sono le occasioni per constatazioni di carattere generale, come la contrapposizione fra gioia e dolore, che non potrebbero esistere totalmente separati (Come quando le cose migliori / accadono insieme, / da un taglio doloroso può entrare / la luce, a te ogni bene / e tutto daccapo a ogni gugliata / gioia e dolore insieme, innumerevoli / e diversi come le gocce di luna / piovute in giallo stasera / sul molo. ). Ogni tanto, come è logico, al ricordo si accompagna quel dolore che sembrava scomparso sotto la cicatrice e allora l’autore intona un canto lieve, quasi un sussurro, in cui emerge in tutta la sua crudezza il rimpianto (Ti ho evocato dal silenzio,  /   in silenzio hai risposto. /  Eri solo un’intenzione, sorta / dalla periferia del vissuto. /….). Per quanto finisca con il sembrare una poesia sulla morte, sul dolore di chi resta nelle sue varie fasi tutte espresse in modo veramente encomiabile, in realtà questa silloge è un canto della vita, di quell’incessante fluire che porta alla luce una generazione dietro l’altra, un’esistenza in cui ognuno di noi in un immaginario percorso dall’alba al tramonto vive sempre a contatto con la morte, senza tuttavia mai pensare (o forse è uno stordimento) alla propria. Ciò che oggi è rimasto in noi di chi ci ha lasciato entrerà un giorno, con la nostra personalità, la nostra immagine, i nostri pregi e i nostri difetti nel patrimonio della memoria di chi ci seguirà, perché è l’intera esistenza che è così.

Bella questa raccolta, con versi che mi hanno coinvolto e che hanno rievocato qualcosa del mio passato.

Donatella Nardin è nata e vive a Cavallino Treporti (VE). Pur praticando la scrittura – soprattutto poetica – da sempre, solo negli ultimi dieci anni ha dato visibilità alle sue opere partecipando a vari Concorsi Letterari con risultati gratificanti in quanto le sono stati attribuiti numerosi premi e riconoscimenti. In poesia ha pubblicato i libri: In attesa di cielo (Ed. Il Fiorino 2014); nel 2015, con la stessa Casa Editrice, la raccolta di liriche haiku Le ragioni dell’oro; e con Fara Editore, nel 2017, Terre d’acqua (1° class. al Premio Il Litorale di Massa 2019, 2° class. al Premio Città di Arona 2018, ecc.). Molte sue poesie e alcuni racconti sono presenti in antologie, in alcuni siti on line dedicati, in riviste letterarie e in raccolte collettanee di case editrici come LietoColle, Empiria, La Vita Felice, Fara Editore, Fusibilia e Terre d’ulivi.
Renzo Montagnoli

 

 

27 Febbraio

La scintilla.

Da Tripoli a Sarajevo: come l’Italia provocò la prima guerra mondiale

di Franco Cardini e Sergio Valzania

Arnoldo Mondadori Edirtore S.p.A.

Storia

 

Come si arrivò alla Grande guerra

Le mie reminiscenze scolastiche di storia dicono che l’attentato del 28 giugno 2014 in cui restarono uccisi l’arciduca Francesco Ferdinando e la moglie Sofia fu la causa scatenante del primo grande conflitto mondiale, che coinvolse, senza una loro precisa volontà e per tutta una serie di circostanze Austria, Germania, Russia, Francia e Inghilterra. All’epoca in cui appresi queste nozioni restai perplesso e nel tempo, maturando, i dubbi da ipotetici divennero certezze, perché sarebbe un movente troppo semplicistico per spiegare le origini di un conflitto così sanguinoso. Del resto nella storia non accade nulla d’improvviso, ma un fatto è spesso conseguenza di avvenimenti accaduti addirittura anni prima. E’ molto più logico presupporre che lo scontro armato sia derivato da quella gran polveriera che erano i Balcani, da cui progressivamente era stato estromesso l’impero ottomano, ormai intrinsecamente debole e da tempo in continua decadenza, ma, per quanto fosse una pallida idea di quanto fu alcuni secoli prima, tuttavia costituiva ancora una potenza non disprezzabile, tanto da frenare i desideri di ampliamento degli stati balcanici. Solo la dimostrazione di una palese incapacità dei turchi di far fronte militarmente  a un nemico avrebbe potuto dar fuoco alle polveri accumulate in Serbia, Bulgaria, Montenegro, Grecia, e fu proprio il nostro sbarco in Libia che accese questa miccia. Certo ci si chiede che interesse avesse l’Italia di creare una colonia in una zona che, tranne lungo la costa, era esclusivamente desertica, con nessuna risorsa (ancora si ignorava che  nel sottosuolo ci fossero ingenti giacimenti di petrolio), una domanda per cui vi è una risposta ufficiale, vale a dire creare uno sbocco occupazionale per risolvere il cronico problema della disoccupazione italiana, ma la verità era un’altra. Giolitti, Presidente del Consiglio, per motivi interni, cioè per tacitare le opposizioni di destra e nel contempo per contrastare le giuste rivendicazioni sociali delle masse necessitava di una guerra, facile da vincere e non troppo onerosa. La Turchia, debole, cercò una soluzione adeguata, tipo un protettorato italiano, pur mantenendo almeno ufficialmente la titolarità su quel territorio. E’ ovvio che questo non andava bene per noi, perché necessitavamo di una guerra combattuta, ed e è così che ci imbarcammo nell’avventura di Libia, un conflitto che sarebbe dovuto durare al massimo un paio di mesi, ma che durò anni. Fu quando il governo italiano si accorse finalmente che per ottenere a pieno titolo la Tripolitania e la Cirenaica occorreva mettere l’impero ottomano con le spalle al muro, cioè mostrando i muscoli sotto le sue coste, che si riuscì a vincere la guerra, ma non la guerriglia. E fu allora che mostrati palesemente i propri limiti la Turchia si vide costretta a fronteggiare militarmente alleanze degli stati balcanici, sostenute dalla Russia. Ciò tuttavia non spiega perché le maggiori potenze diedero vita al primo grande conflitto mondiale e la risposta si trova in questo bellissimo saggio; Franco Cardini e Sergio Valzania infatti scrivono: “La guerra del ‘14 avrebbe potuto essere evitata. Almeno alcuni paesi avrebbero potuto preferire la soluzione dei problemi interni attraverso un’adeguata politica sociale. Si preferì la strada dell’orgoglio nazionale, della demagogia irredentista, del revanscismo, ottimi mezzi, fra l’altro, per distogliere le masse dai loro veri problemi.”. Quindi se l’Italia diede il via, gli altri alla prima occasione utile ne seguirono l’esempio, pur di non venir incontro alle esigenze di giustizia ed equità reclamate a gran voce dai lavoratori, sensibili alle crescenti ideologie socialiste, un bell’esempio di strapotere capitalistico che con la guerra non vide solo l’opportunità di incrementare considerevolmente gli utili, ma anche di porre un freno alla spinta delle masse tese a ottenere migliori condizioni di vita.

Cardini e Valzania hanno realizzato un lavoro di notevole interesse, in cui le ipotesi, sulla base di adeguate documentazioni, poco a poco si rivelano esatte, fornendo un quadro che aiuta non poco a spiegare  ciò che accadde prima della Grande guerra, con effetti anche negli anni successivi.

Quindi La scintilla merita senz’altro di essere letto.

Franco Cardini è professore ordinario di Storia medievale presso l'Università di Firenze, e come giornalista collabora alle pagine culturali di vari quotidiani. Professore Emerito dell'Istituto Italiano di Scienze Umane alla Scuola Normale Superiore di Pisa, da mezzo secolo si occupa di crociate, pellegrinaggi, rapporti tra Europa cristiana e Islam, anche trascorrendo lunghi periodi di studio e insegnamento all'estero. Ha fatto parte dei consigli d'amministrazione di Cinecittà e della Rai.
La sua produzione di saggi storici, sia specialistici che divulgativi, è copiosissima. Tra questi ricordiamo L'avventura di un povero crociato (Mondadori, 1998), Giovanna D'Arco (Mondadori, 1999), I Re Magi. Storia e leggende (Marsilio, 2000), Il Medioevo (Giunti Junior, 2001), Carlo Magno. Un padre della patria europea (Laterza, 2002), Europa e Islam. Storia di un malinteso (Laterza, 2002), Astrea e i Titani. Le lobbies americane alla conquista del mondo (Laterza, 2003), Il Barbarossa (Mondadori, 2006), Lawrence d'Arabia (Sellerio, 2006), La vera storia della Lega Lombarda (Mondadori, 2008), I templari (Giunti, 2011), GerusalemmeUna storia (Il Mulino, 2012) Alle origini della cavalleria medievale (Il Mulino, 2014), L'appetito dell'Imperatore. Storie e sapori segreti della Storia (Mondadori, 2014), Il califfato e l'Europa. Dalle crociate all'ISIS: mille anni di paci e guerre, scambi, alleanze e massacri (UTET, 2015), Un uomo di nome Francesco. La proposta cristiana del frate di Assisi e la risposta rivoluzionaria del papa che viene dalla fine del mondo (Mondadori, 2015), Onore (Il Mulino, 2016), I Re Magi (Marsilio 2017), e La pace mancata (Mondadori 2018).
Firma inoltre molti libri di storia per i licei e numerose monografie sulla sua città natale, Firenze.

Sergio Valzania è storico e studioso della comunicazione, autore radiofonico e televisivo, dal 2002 al 2009 ha diretto i programmi radiofonici della Rai. Dal 2001 insegna all'Università di Genova e dal 2010 alla Luiss di Roma. Ha scritto su «La Nazione», «Avvenire», «la Repubblica», «il Giornale», «L'Indipendente», «Liberal».
Fra le sue opere di storia militare pubblicate con Mondadori ricordiamo: Jutland (2004), Austerlitz (2005), Le radici perdute dell'Europa (con Franco Cardini, 2006), Wallenstein (2007), I dieci errori di Napoleone (2012), U-Boot. Storie di uomini e sommergibili nella seconda guerra mondiale (2011), I dieci errori di Napoleone. Sconfitte, cadute e illusioni dell'uomo che voleva cambiare la storia (2012), La scintilla. Da Tripoli a Sarajevo: come l'Italia provocò la prima guerra mondiale (2014, scritto con Franco Cardini), Cento giorni da imperatore (2015) e La pace mancata (Mondadori 2018). Per Sellerio esce nel 2006 Sparta e Atene. Il racconto di una guerra, nel 2011 Napoleone e nel 2012 La bolla d'oro. Nel 2008 esce per Longanesi La via Lattea, scritto con Piergiorgio Odifreddi, mentre nel 2015  Il Mulino pubblica Andar per le cattedrali di Puglia.
Renzo Montagnoli
 

 

24 Febbraio

ANTONIO SPAGNUOLO: "POLVERI NELL'OMBRA" - ED. OEDIPUS 2019

Chi segue i percorsi della poesia italiana, certamente conosce il lungo e intrigante itinerario poetico di Antonio Spagnuolo (nato a Napoli nel 1931), che è stato fondatore della rivista "Prospettive culturali", ha curato collane di testi, dirige "le parole della Sybilla" e la rassegna on line "Poetrydream". Soprattutto -però- Spagnuolo è un poeta di grande levatura: autore di numerose sillogi di poesia, la bibliografia sulla sua opera letteraria è assai vasta (Plinio Perilli, Elio Grasso, Bonifacio Vincenzi, Carlangelo Mauro hanno pubblicato monografie sulla sua poesia). E' tradotto in diverse lingue.
Il volumetto che ho fra le mani si intitola "Polveri nell'ombra" ed è fresco di stampa (luglio 2019), edito da Oedipus. Occorre subito dire che è un magnifico libro, che si situa lungo una linea più discorsiva e lirica, rispetto alle sue opere precedenti (il primo Spagnuolo era certamente più sperimentale e più ermetico, a volte di difficile lettura).

"Polveri nell'ombra" nasce dal sentimento di una 'perdita' (la compagna di una vita). Le parole più presenti sono appunto: solitudine, silenzio, ricordi, assenza, attesa, in un contesto che però non è mai di disperazione, piuttosto di tenero rammemoramento: "Il tuo bacio aveva anche il sapore/del temporale di agosto" e "ora ti cerco di notte, tra l'uggia e il viola,/nella vecchia illusione dei capelli, imbiancati dal tempo in solitudine". E' palpabile il senso di un'assenza 'fisica' (questa è anche poesia della 'tenerezza' del corpo), che vive oramai solo nel sogno: "Ma tu ormai non sei più con me!". Il poeta si aggira delicatamente fra i ricordi, dando vita a versi memorabili: "Ero nell'ombra e tu eri fanciulla"). La figura femminile era "la ninfa dal viaggio indefinibile". La lingua del poeta è di una trasparenza davvero rara, unita ad una grande sapienza letteraria. Vedi il testo 'Tormento”, con una serie di assonanze e rime interne tormento, lamento, tradimento). Il libro si chiude con un testo dall'incipit originale e affascinante: "Un Dio molto  complicato mi ha concesso in comodato gratuito ossa e carne per un corpo che avesse le ben note facoltà di pensare...”-"ora sono pronto a restituire l'involucro abbastanza consumato, ma ancora efficiente...".
Libro di tenerezza e di ricordi, che parte dall'esperienza personale dell'Autore per divenire a tutti consonante. Universale.
DANIELE GIANCANE

 

22 Febbraio

Il cuoco dell’Alcyon

di Andrea Camilleri

Sellerio Editore Palermo

Narrativa romanzo

 

Un Montalbano che non ti aspetti

Se uno si aspetta il solito poliziesco con protagonista il commissario Salvo Montalbano resterà quasi inevitabilmente deluso dalle prime pagine, ma poi se avrà la volontà e la costanza di proseguire nella lettura troverà un’opera di Camilleri che stupisce, perché diventa un romanzo d’azione. Niente più giornate al commissariato di Vigata nell’attesa che accada qualcosa, niente più porte sbattute da Catarella, insomma ora che non è più giovane Montalbano si deve inventare anche un’alta tensione e menare, se del caso, le mani e non solo quelle. Il cuoco dell’Alcyon inizia con uno sciopero in un cantiere navale i cui operai vengono licenziati per il mero interesse del proprietario, grande giocatore d’azzardo e tombeur des femmes. E’ ovvio che il commissario prenda la parte degli scioperanti, ma non fa solo questo, perché si permette, con la rapidità di un serpente che morde, di dare uno schiaffo al proprietario, indifferente al suicidio di un operaio disperato. Passa pochissimo tempo e dopo un colloquio con il questore con cui notoriamente non va d’accordo gli viene imposto di prendere alcuni giorni di ferie, dati i notevoli arretrati delle stesse. Però, in questo periodo di assenza dal lavoro che trascorre a Genova dalla fidanzata Livia, a Vigata avviene qualcora d’incredibile: si smobilità il commissariato, o meglio Montalbano viene radiato, Augello, Catarella e Fazio sono trasferiti o in altri incarichi o in altre dipendenze della questura. Perchè questa sorta di colpo di stato, che inalbera giustamente Montalbano tanto da  meditare una mossa al contrario? Mi fermo qui, perché da questo momento prende il via un avvincente romanzo d’azione e ci sarà anche la risposta a tutte le domande. Ovviamente, cambiando la tipologia dell’opera, il ritmo aumenta di velocità, circostanza che il lettore non potrà che apprezzare perché la vicenda è una di quelle che tiene con il fiato sospeso. Camilleri, al riguardo, dopo l’ultima pagina riporta una nota in cui dice che il racconto era nato una decina di anni prima come soggetto di un film italo-americano, progetto questo che poi non andò in porto, e che di conseguenza aveva utilizzato l’allora sceneggiatura adattandola alla forma tipica del romanzo. La precisazione mi è parsa solo una notizia, e non tanto una giustificazione, perché l’opera corre via che è un piacere, con non infrequenti rallentamenti dovuti più che altro alla necessità del lettore di comprendere l’esatto significato di alcune parole, scritte, come il resto, nel  tipico siciliano italianizzato inventato da Camilleri. Peraltro, più che in altre occasioni sono presenti situazioni esilaranti, perfino nella parte di romanzo d’azione che pure è caratterizzato da un’alta tensione. Insomma Il cuoco dell’Alcyon è una piacevolissima sorpresa, visto che si ride, si sta in ansia, si desidera arrivare alla conclusione con la massima celerità perché si agogna sapere come finirà una vicenda dalla trama intricata, ma dal ritmo indubbiamente assai veloce.

Nato a Porto Empedocle (Agrigento), Andrea Camilleri ha vissuto per anni a Roma. 
Dal 1939 al 1943, dopo un periodo in un collegio da cui viene espulso, studia ad Agrigento al Liceo Classico Empedocle dove ottiene la maturità classica senza dover sostenere l’esame a causa dell’imminente sbarco degli alleati in Sicilia. A giugno inizia, come ricorda lo scrittore, "una sorta di mezzo periplo della Sicilia a piedi o su camion tedeschi e italiani sotto un continuo mitragliamento per cui bisognava gettarsi a terra, sporcarsi di polvere di sangue, di paura".  S’iscrive all’Università (Facoltà di lettere) ma non si laureerà mai. Si iscrive anche al Partito Comunista.
Inizia a pubblicare racconti e poesie e vince il Premio St Vincent.
Dal 1948 al 1950 studia regia all’Accademia d’Arte Drammatica Silvio d’Amico e inizia la sua attività di sceneggiatore e regista.
Perde un concorso per diventare funzionario Rai, ma dopo qualche anno inizia a lavorarvi.
Nel 1958 porta in Italia il teatro dell'assurdo di Beckett con Finale di partita, prima al teatro dei Satiri di Roma e poi in televisione con Adolfo Celi e Renato Rascel.
Insegna al Centro Sperimentale di Cinematografia di Roma.
Molte le produzioni Rai di cui si occupa, particolarmente famosi gli sceneggiati del tenente Sheridan con Ubaldo Lay e "Le inchieste del commissario Maigret" con Gino Cervi. Nel 1977 ottiene la cattedra di Istituzioni di Regia all'Accademia di Arte Drammatica. La manterrà per vent'anni.
L’esordio in narrativa è del 1978 con Il corso delle cose pubblicato da un editore a pagamento ed è un insuccesso.
Nell’80 pubblica con Garzanti Un filo di fumo, il primo romanzo ambientato nell’immaginario paese di Vigàta e con questo romanzo vince il Premio Gela.
Per 12 anni non escono più suoi romanzi.
Nel 1992 pubblica per Sellerio La stagione della caccia. Nel 1994 con La forma dell’acqua dà vita al personaggio del commissario Montalbano, protagonista di una nutrita serie di romanzi. Da quel momento la sua produzione è molto ricca e il successo immenso.
Alla fine del 2002, accetta la nomina a direttore artistico del Teatro Comunale Regina Margherita di Racalmuto.
Nell’aprile 2003, in onore a Camilleri, il comune di Porto Empedocle assume come secondo nome «Vigàta».
Il 4 settembre 2008 vince il premio de Novela Negra RBA con un inedito in lingua spagnola dal titolo La muerte de Amalia Sacerdote pubblicato in Spagna nell’ottobre 2008 ed in Italia nel 2009 con il titolo La rizzagliata.
Tra i premi che gli sono stati conferiti ricordiamo il Premio Campiello 2011 alla Carriera e il Premio Chandler 2011 alla Carriera.
Tra le sue opere più recenti che non hanno come protagonista il commissario Montalbano: Il diavolo, certamente (2012), Dentro il labirinto (2012), Il tuttomio (2013), La rivoluzione della luna (2013), Come la penso (2013), Inseguendo un'ombra (2014), Segnali di fumo (Utet 2014), Il cielo rubato. Dossier Renoir (Skira 2014), Andrea Camilleri incontra Manuel Vázquez Montalbán (Skira 2014), La relazione (Mondadori 2015), Il quadro delle meraviglie. Scritti per teatro, radio, musica, cinema (Sellerio 2015), Le vichinghe volanti e altre storie d'amore a Vigàta (Sellerio 2015) Topiopì(Mondadori 2016), La cappella di famiglia e altre storie di Vigàta (Sellerio 2016), La mossa del cavallo (Sellerio 2017), La rete di protezione (Sellerio 2017), La targa (Rizzoli 2017), Esercizi di memoria (Rizzoli 2017). Tra il 2018 e il 2019 insieme ai romanzi della serie dedicata al commissario Montalbano, Il metodo Catalanotti e Il cuoco dell'Alcyon, (Sellerio) vengono pubblicati da Mondadori i suoi racconti gialli, Km 123, e da Salani i racconti illustrati con protagonisti gli animali, I tacchini non ringraziano, la pièce teatrale Conversazione su Tiresia (Sellerio) e i racconti dedicati alla sua casa di campagna a Porto Empedocle, La casina di campagna, del piccolo editore siciliano Henry Beyle.
Andrea Camilleri si è spento il 17 luglio 2019 all'età di 93 anni, dopo aver pubblicato più di cento libri, romanzi, saggi, opere teatrali, fumetti, poesie e dopo aver inventato un nuovo linguaggio, misto di italiano e siciliano. Nel 2003 è stato insignito, su iniziativa del Presidente della Repubblica, dell'onorificenza di Grande Ufficiale dell'Ordine al merito della Repubblica Italiana.
Renzo Montagnoli

 

 

15 Febbraio

La saga dei Borgia.

Delitti e santità

di Antonio Spinosa

Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Storia

 

Un casato tristemente famoso

Antonio Spinosa in questo suo saggio storico relativo alla famiglia Borgia mi è sembrato meno incisivo e scorrevole che in altre sue opere analoghe aventi per oggetto personaggi di epoche più recenti. Peraltro anche l’impostazione del libro mi ha lasciato piuttosto perplesso, con una larga parte iniziale dello stesso in cui si parla di Francesco Borgia (Gandia, 28 ottobre 1510 – Roma, 30 settembre 1572), discendente in linea retta del pontefice Alessandro VI, a differenza del quale condusse, dopo la morte della moglie, una vita di integerrimo religioso, diventando Preposto generale della Compagnia di Gesù, e dopo la sua scomparsa dapprima beatificato e poi santificato per i miracoli che gli furono attribuiti. Questa figura indubbiamente riscatta la triste nomea dei Borgia, con il trio Rodrigo, Lucrezia e Cesare, vituperato quando furono in vita (benchè poi Lucrezia, divenuta sposa di Alfonso d’Este e quindi duchessa di Ferrara, abbia tenuto in quella cittadina non solo un comportamento irreprensibile, ma addiritura vi sia morta in odore di santità). L’aver posto la vita di Francesco in primo piano ha appunto il significato di smorzare da subito le inevitabili illazioni che sorgono ancor oggi in chi sente pronunciare il nome Borgia, anche perché il comportamento di Alessandro VI, fra tanti intrighi, omicidi e guerre, non fu dissimile da quello dei potenti Signori a lui contemporanei. E allora perché tutta questa acredine, l’attribuzione di innumerevoli delitti, in parte del tutto gratuita, il richiamo alle peggiori nefandezze associate al nome Borgia? Alessandro VI, avvalendosi dell’opera di suo figlio Cesare, di ineccepibili capacità militari, ambiva sottomettere l’intera Italia, dando vita a uno stato nazionale retto appunto dal figlio. Poichè almeno agli inizi questo progetto sembrava si dovesse avverare è evidente che i Signori degli staterelli italiani, minacciati nel loro potere,  non potevano che vedere i Borgia come il massimo pericolo e quindi costruire per loro un’immagine che, nel farli assomigliare a dei diavoli, tendesse anche a porre in risalto, accentuandoli, vizi e difetti, e sminuendo le eventuali virtù.

Se la prima parte, cioè quella dedicata a Francesco Borgia, nell’esposizione è scorrevole, nella seconda, laddove appunto si parla di Rodrigo e dei figli, la necessità anche di concentrare tante notizie in un numero di pagine non rilevante implica una sintesi a volte soffocante, è come se il motore della narrazione prendesse ad avanzare a fatica.

E’ un peccato, perché i personaggi sono di grande interesse e avrebbero meritato ben altra attenzione, sicuramente superiore a quella riservata  al loro discendente Francesco, bisnipote di Alessandro VI.

Antonio Spinosa, giornalista e scrittore, è stato direttore del nuovo «Roma», dell'agenzia Italia, della «Gazzetta del Mezzogiorno» e di Videosapere-rai; inviato speciale del «Corriere della Sera» e del «Giornale». È autore di numerosi saggi storici, politici, di costume e di biografie di personaggi che hanno c"ambiato il mondo e l'Italia in particolare, tra cui "Cesare", "Tiberio", "Augusto", "Paolina Bonaparte", "Murat", "Starace", "Mussolini", "Vittorio Emanuele III", "Hitler", "Pio XII", "Salò", "Edda", "Italiane", "L'Italia liberata", "La grande storia di Roma", "La saga dei Borgia", "Mussolini razzista riluttante", "Alla corte del duce", "Churchill", "Il potere", il destino e la gloria", "Cleopatra", "D'Annunzio", tutti editi da Mondadori.
Ha vinto il Premio Estense, il Saint-Vincent, il Bancarella, il premio Donna Città di Roma ed è stato finalista al premio Strega 1996 con Piccoli sguardi.
Renzo Montagnoli

 

 

12 Febbraio

I misteri di Praga

di Ben Pastor

Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Narrativa

 

Delitti e misteri

Abituato alla presenza dell’ufficiale dell’Abwehr Martin von Bora, il personaggio di una riuscita serie di romanzi che ho letto quasi tutti, sono stato incuriosito da questo libro, in cui la quarta di copertina parla di due investigatori a Praga nei primi mesi dell’estate del 1914, uniti nella ricerca della soluzione di cinque casi molto enigmatici. Questa città in cui si dipana quasi per intero la trama ha di per sé un senso del misterioso, con un’atmosfera opprimente nell’imminenza della guerra, elementi  che la rendono affascinante, ma anche non poco intrigante. Già l’opera è impostata in un modo diverso dalle altre che vedono protagonista von Bora, perché a tutti gli effetti è divisa in cinque parti, in ognuna delle quali si narra un’indagine completamente autonoma dalle altre, tanto che si potrebbe pensare a una raccolta di racconti, se non ci fossero non solo la presenza di due investigatori, ma anche una consecutio temporis che finiscono con legarli strettamente, come cinque capitoli. L’accoppiata di Solomon Meisl, un medico ginecologo ebreo, e di Karel von Heida, un conte Primo tenente dei Lancieri, presenta aspetti positivi, ma anche qualche risvolto negativo, perché se è vero che esiste una complementarietà fra i due, entrambi non hanno una personalità così particolare da costituire un’evidente caratteristica di attrazione (e qui è inevitabile in confronto con il tormentato von Bora, sempre in preda a un conflitto interno fra il senso del dovere e la propria coscienza). Non sono protagonisti antipatici, anzi, per quanto stereotipati, destano una certa simpatia, ma non interessano più di tanto, soprattutto von Heida che, a fronte di delitti che rasentano il soprannaturale giunge a soluzioni sì non scontate, ma non rientranti in assoluto nella logica. Si può obiettare che a fronte di fenomeni inspiegabili la loro spiegazione non possa avere un senso logico concreto, ma allora ci si chiede quali siano i pregi di un giallo (o meglio cinque gialli) completamente al di fuori dei consueti canoni. In effetti, a ben guardare, delitti e loro soluzioni non proprio logici, i personaggi principali che non sono in grado di provocare una forte attrazione sono tutti elementi che lascerebbero presupporre un’opera di scarso o nullo interesse, e invece l’autore è riuscito a coinvolgere il lettore con una ambientazione e, soprattutto, un’atmosfera   veramente riuscite. E’ una cappa di mistero che incombe sulle pagine e che poco a poco si trasferisce a chi le legge, desideroso di arrivare quanto prima ad aprire uno squarcio in quella sorta di sudario che tutto avvolge. Poco importa se il caso viene risolto in modo non del tutto convincente, perché quel che conta è di trovare una via d’uscita nel labirinto magico predisposto da Ben Pastor.

E quindi è questo il pregio del romanzo, che si legge con piacere, sorretti dal desiderio di sapere come e perché un normale delitto diventi poco a poco un enigma complesso e difficile da risolvere se non con soluzioni altrettanto enigmatiche. 

Ben Pastor, nata a Roma, docente di scienze sociali nelle università americane, ha scritto narrativa di generi diversi con particolare impegno nel poliziesco storico. Della serie di Martin Bora Sellerio ha già pubblicato Il Signore delle cento ossa (2011), Lumen (2012), Il cielo di stagno (2013), Luna bugiarda (2013), La strada per Itaca (2014), Kaputt Mundi(2015), I piccoli fuochi (2016), Il morto in piazza (2017) e La notte delle stelle cadenti (2018).
Premio Flaiano 2018
Renzo Montagnoli

 

 

3 Febbraio

L’ultima scelta.

Il colonnello Arcieri e l’inverno della Guerra fredda

di Leonardo Gori

TEA Edizioni

Narrariva romanzo

 

Il doppio gioco è di scena

L’inizio del periodo oscuro italiano avviene il 12 novembre 1969 con l’attentato alla filiale della Banca Nazionale dell’Agricoltura in piazza Fontana a Milano. L’ex colonnello dei carabinieri Bruno Arcieri, già in pensione, in quell’occasione riceve un incarico che lo conduce sul luogo della strage (l’altro romanzo Non è tempo di morire), ma poi, terminato il lavoro, decide di chiudere definitivamente, di ritornare a una vita normale con la nuova compagna e con un gruppo di giovanissimi amici di una “Comune” con i quali intende mandare avanti  una trattoria a Firenze. Però il lavoro dei servizi segreti non cessa mai, nemmeno con la quiescenza, e capita così che il imaggiore Bertini, capo della sua sezione, lo coinvolga in un nuovo caso, con la promessa che sarà l’ultimo. Non sto a spiegare la storia che è complicata non poco, ma veramente avvincente; dico solo che si parla di servizi deviati, del tentativo di eliminare questi traditori, insomma una vera e propria spy story. La creatività di Leonardo Gori si è sbizzarrita alquanto con l’invenzione di un rifugio in cui preparare il tutto (una villa toscana in abbandono), con il far trovare vecchi personaggi (oltre a Bertini, infatti sono presenti Daniele, Nanette, il commissario Bordelli, il maresciallo Guerra), non facendone mancare di nuovi (l’agente Zero, il cuoco Max, il padrone della villa, una ragazzina un po’ strana e il suo ragazzo); le descrizioni e l’ambientazione sono ineccepibili, come anche la ciliegina sulla torta di far rendere parte dell’operazione, pur non essendo mai presente, la sua ex Elena Contini. Inoltre, poiché lo spunto è dato dall’inizio dello stragismo in Italia, campo che è storicamente ancora nebuloso, non sapendo chi sia stato il regista di questi anni di piombo, l’autore riesce a stare abilmente alla larga, cioè non approfondisce, perché anche lui non sa nulla di più di quanto sappiamo noi, ma anche se lo sapesse eviterebbe di parlarne, per ovvi motivi. Inoltre, il fatto che è palpabile la presenza di personaggi che fanno il doppio gioco, proprio sul piano della spy story Gori non va in là più di tanto, lasciando al massimo indizi, senza approfondire. Insomma, ciò che si apprezza nel romanzo è tutto quanto ho esposto fino a ora, senza tralasciare lo stile, con un italiano che forse non è corrente, ma che è impeccabile e che non può che piacermi. E’ bello L’ultima scelta e ho trovato che, al mio giudizio, è pari a Nero di maggio e a Il passaggio, le due opere con protagonista Arcieri che fino a prima che iniziassi la lettura di questo romanzo ritenevo le migliori scritte da Leonardo Gori. Questa non è da meno, è avvincente e quindi è senz’altro da leggere.

Leonardo Gori è uno scrittore italiano, autore del ciclo di romanzi di Bruno Arcieri, capitano dei Carabinieri nell’Italia degli anni Trenta. Il primo romanzo, Nero di maggio, si svolge nella Firenze nel 1938; seguono Il passaggioLa finaleL’angelo del fango (Premio Scerbanenco 2005), Musica neraLo specchio nero e Il fiore d’oro, gli ultimi due scritti con Franco Cardini. La serie di romanzi è in corso di riedizione in TEA. Ha scritto anche thriller storici ed è stato co-autore di saggi sul fumetto e forme espressive correlate (illustrazione, cinema, disegno animato).
Renzo Montagnoli

 

 

29 Gennaio

Luigi Gonzaga

1568 – 1591

di Edgarda Ferri

Edizioni Paoline

Storia biografia

 

Vita da santo

A volte non la si legge, per pigrizia o anche per non lasciarsi influenzare, ma nel caso di questa biografia direi che è indispensabile dedicare una decina di minuti a quella che si potrebbe forse definire meglio una premessa, perché l’autore spiega i motivi per cui è giunto alla conclusione che la santità riconosciuta a Luigi Gonzaga è senz’altro meritata per l’abnegazione con la quale lui, che era nato principe e che avrebbe potuto subentrare al padre nel marchesato di Castiglione delle Stiviere in qualità di primogenito, si diede agli altri, spogliato da ogni ricchezza, profondamente religioso e desideroso di soccorrere i tanti che avevano bisogno. Del resto anche la sua morte  fu accelerata dall’aver prestato soccorso a Roma a un malato colpito da un’epidemia di tifo che flagellava la città.

Quando si narra di santi ho sempre il timore che il narratore si lasci trasportare da un senso di misticismo che lo induce a evidenziare come doti straordinarie pregi tutto sommato comuni, e invece nel caso di Luigi ci troviamo di fronte a un essere che fin da piccolo ebbe una vocazione, quasi ossessiva, per la religione, tutto intento a pregare per lunghe ore, infliggendosi anche pene corporali. Non gli fu facile convincere il padre delle sue scelte, di quella rinuncia ai beni terreni per dedicarsi a Dio, ma dopo lunghe battaglie alla fine il marchese Ferrante, debilitato dalla gotta e prossimo alla morte nonostante fosse ancora giovane, fu costretto a cedere e da lì iniziò il percorso ufficiale ecclesiastico di Luigi nella Compagnia di Gesù.

Il libro è bellissimo, anche perché Edgarda Ferri, seguendo la breve esistenza di Luigi, ci propone fatti dell’epoca, descrive con perizia (ma senza appesantire) le atmosfere e i costumi, le trame ordite da chi circonda Luigi, ricomprendendovi anche, dopo la morte di Gugliemo Gonzaga duca di Mantova, il figlio di Lui vincenzo, tessitore di nuovi ricami di potere, che nel libro emergono in tutta la loro forza, con una presenza che non è azzardato definire viva. E così pagina dopo pagina ci si entusiasma, si è partecipi, si è a fianco di questo ragazzo che cresce, animato da un incrollabile sentimento religioso, debole nel corpo provato da numerosi malanni, ma forte nello spirito. Francamente Luigi desta simpatia, al di là di quella che è la sua religiosità, per la volontà che lo sostiene, per quel suo desiderio di donarsi a Dio, ma anche di scendere fra gli uomini ad aiutare i tanti che ne hanno bisogno. 

A me è piaciuto molto e ho potuto apprezzare anche una considerevole scorrevolezza che rende ancor più gradevole la lettura di un testo che giudico eccellente.

Edgarda Ferri è nata a Mantova e vive e lavora a Milano. Scrittrice, saggista, giornalista ha esordito nel 1982 con Dov’era il padre, un romanzo che rimane tuttora un ritratto fondamentale e un punto di riferimento per un’intera generazione. Ha pubblicato inoltre, Contro il padre (1983), La tentazione di credere (1985), Il perdono e la memoria (1988), Luigi Gonzaga (1991), Quello che resta di Cristo dopo 2000 anni (1996) e, per Mondadori, Maria Teresa (1994), Giovanna la Pazza (1996), Io, Caterina (1997), Per amore (1998), L'ebrea errante (2000), Piero della Francesca (2001), La grancontessa (Le Scie, 2002), Letizia Bonaparte (2003), L'alba che aspettavamo (2005), Il sogno del principe (2006), Rodolfo II (2007), Uno dei tanti (2009).
Renzo Montagnoli 
 

 

24 Gennaio

Rossella

tra sogno e realtà

di Graziella Cappelli

A&A Marzia Carocci Edizioni

Narrativa

 

Il tempo è un Angelo, con tre facce

Non è raro non riuscire ad accettarsi per quel che si é, una insoddisfazione che può rendere anche grigia la vita, ma se si vanno a cercare i motivi di questo rifiuto (in genere tramite sedute psicoanalitiche), assai probabilmente si può dare una svolta alla propria esistenza, prendendo atto dell’interezza e della complessità della propria personalità. E’ possibile, anche se più difficile, pervenire allo stesso risultato con una forma di autoanalisi ed è quello che in effetti fa Graziella Cappelli con questo suo racconto lungo intitolato Rossella tra sogno e realtà. L’opera, a prima vista, potrebbe sembrare una favola, con la narratrice  che, assunto il nome di Rossella, penetra in uno specchio, una specie di porta del tempo, per ritrovarsi negli anni dell’immediato dopoguerra, spettatrice invisibile a tutti tranne a lei bambina. L’escamotage riesce perfettamente e così possiamo vedere, in un raffronto ideale, la bimba dell’epoca e la stessa, più che maggiorenne, dei giorni nostri, con inevitabili positivi effetti sull’intera narrazione. L’autore ci parla per bocca di Rossella adulta  di un mondo da  troppo tempo dimenticato, di un paese uscito distrutto dalla guerra, della fame che attanaglia la maggior parte dei suoi abitanti. Ho vissuto quell’epoca e so che Graziella Cappelli non inventa niente, perché purtroppo la povertà era diffusa e anche la miseria, compagna fedele e non certo desiderata di Rossella e famiglia, non era una condizione sociale rara. Al riguardo, in certe pagine del libro mi vengono in mente altre di due  grandi narratori, Dickens e Verga, che così bene sono riusciti a parlare della grande indigenza delle popolazioni della loro epoca. Una madre sfiduciata, anche un po’ spigolosa, un padre che si danna per trovare occasioni di lavoro rare e che spesso gli sfuggono, un fratello in collegio e l’altro più grande in sanatorio a curarsi inutilmente della tisi che l’ha colpito sono il ritratto di una famiglia che cerca di sopravvivere con onestà e con dignità, sono il palcoscenico di quella giovinezza in cui tanto si è patito da lasciare i segni anche in anni più maturi, quando si ricercano i perché di un passato che sembra una condanna del presente. Eppure, di fronte a tanto dolore, non mancano pagine di resurrezione, come quando con l’acclarata capacità poetica dell’autore ci sono intense descrizioni del paesaggio toscano, dove si riesce a cogliere il meglio della natura.

Mi è piaciuto questo racconto lungo, mi sono emozionato leggendo, ho rivissuto un lontano passato, e di ciò non posso che ringraziare Graziella Cappelli per averlo riesumato con mano leggera, ma anche con intensa partecipazione. La logica conclusione della storia narrata  è il ritorno ai giorni nostri di una Rossella, che metabolizzando il trascorso, è ora più consapevole di se stessa, ha compreso che quel conflitto che tutta la vita si era immaginato era solo una distorta proiezione della mente, frutto dell’incapacità di accettare quel lontano passato. Questo ritorno, a mio avviso, però è un po’ troppo affrettato, perché l’autore avrebbe dovuto e potuto narrarci ancora a lungo, molto di più di queste poche, se pur belle, 76 pagine. Quanto ancora avrei voluto leggere, quanto ancora avrei voluto così rivedere quegli anni in cui ci mancava tutto, fuorchè la speranza di un miglioramento! Era un altro modo di vivere, con una civiltà contadina ancora presente, ma che si sarebbe dissolta nell’arco di una quindicina di anni; non si aveva quasi niente, ma c’era una mutualità fra poveri che ora si ignora e che invece all’epoca era costituita da reciproci, per quanto modesti aiuti, era quel periodo di cui anni dopo si sarebbe di tanto in tanto ricordato con la famosa frase “si stava meglio quando si stava peggio”.

E’ un peccato quindi questo stop a pagina 76 e secondo me  Graziella Cappelli  avrebbe dovuto insistere, perché di sicuro c’era molto da raccontare, tanto da riuscire a mettere nero su bianco un romanzo piuttosto lungo, e non certo un racconto. Tuttavia la bellezza di quelle poche pagine è già più che sufficiente per soddisfare il mio appetito di appassionato di letteratura, tanto più che non mi è sfuggito un passo in cui si dà una descrizione del tempo veramente azzeccata, al punto che mi sento di riportarla di seguito: “Il tempo è un Angelo, con tre facce, una al presente, una al futuro e una al passato. Sta sempre con noi e ci accompagna sulla via della vita.”.

Da leggere? Senza il minimo dubbio, per scoprire un piccolo autentico gioiello.      

Graziella Cappelli è nata il 25 aprile 1945. Ha sempre vissuto a Empoli e lavorato come cassiera nei supermercati Coop. Ha pubblicato poesie e racconti in varie antologie e ha ottenuto diversi premi e riconoscimenti in concorsi e iniziative letterarie. Con Ibiskos Editrice Risolo ha pubblicato le raccolte di poesie. Son cresciute le ortiche (1999), Cielo inatteso (2002), Nei luoghi dell’anima (2006), Ai riflessi di una luna d’opale (2008), Oltre i passi lo sguardo (2010), Nel palazzo dell’ombra (2015), canti diVersi, poesie a otto mani (2016).
Renzo Montagnoli 

 

 

21 Gennaio

Cassandra.

Nel nome il mio destino

di Corrado Di Pietro

Algra Edizioni

Narrativa romanzo storico

 

Il ruolo subordinato della donna

Strano romanzo, questo, strano perché non è esattamente definibile il suo scopo. Se si voleva verificare che un nome, profetico quale è Cassandra, finisce per condizionare la vita di chi lo porta è semplicemente assurdo, perché il destino di ognuno di noi è indipendente dall’appellativo che gli è stato attribuito, a meno che non si voglia credere a certe superstizioni; se invece si vuole riportare alla luce una vicenda accaduta veramente nella seconda metà del XIX secolo, vicenda che è l’occasione per mostrare mentalità ormai obsolete, la stesura di questo libro assume maggiore valenza nei suoi propositi. Pur non conoscendo l’autore, dal suo curriculum posso evincere che si tratta doi persona colta e quindi la seconda ipotesi è senz’altro la più plausibile.

Ciò premesso, la storia narrata, vera, perché accaduta veramente, presenta le caratteristiche di un testo tanto caro a certi autori di fine ‘800, specializzati in romanzi d’appendice a tinte forti, la cui maggior rappresentante italiana fu Carolina Invernizio. La differenza è però presente e consiste appunto nel fatto che nulla è inventato, essendo realmente accaduto. La giovane costretta a sposare un uomo in vista più anziano di lei, vedovo e con prole, l’amore quasi incestuoso con il figlio maggiore, ma minorenne, dello sposo, la scoperta della tresca, le conseguenze, fra le quali l’emarginazione, un episodio quasi da lady Godiva, e altro che non sto a riferire, sono proprie di certi romanzi di appendice, ma costituiscono un indubbio motivo di curiosità. In questo contesto la narrazione di Di Pietro, basata su una scelta che vede un resoconto diaristico (inventato) della donna, inframmezzato da riflessioni, appendici, puntualizzazioni dell’autore appare  felice perché ha il pregio di coinvolgere senza essere noiosa o debordante, insomma in un sano equilibrio che rende gradevole la lettura. Ripeto però che la vicenda in sé è poca cosa, mentre di interesse non secondario è la ricerca antropologica, la vivisezione di una mentalità che all’epoca non era solo siciliana, con la figura subordinata della donna, sempre oggetto nelle mani degli uomini. L’atmosfera, per certi versi opprimente, l’ambientazione sono accurate, così come l’analisi psicologica del marito tradito; un po’ meno curato è l’approfondimento del carattere della donna, ma da un uomo non è che si possa pretendere più di tanto se non una difesa di una vittima, tale solo per il suo sesso, difesa che traspare chiaramente fra le righe. Come ho già precisato questa mentalità retrograda era tipica di quel periodo, e non solo, un po’ in tutto il mondo, quindi non si tratta di una peculiarità dell’isola; dove invece è presente la sicilianità è nel modo di scrivere di Di Pietro, meticoloso, puntiglioso, teso a non trascurare nulla, ma nemmeno greve o comunque asfissiante, una caratteristica che ho riscontrato in non pochi, se non in quasi tutti i romanzieri nati in Sicilia. In questo senso e anche per le finalità dell’opera che ho delineato in precedenza sono dell’idea che una lettura della stessa sia più che meritevole, perché Cassandra è un buon romanzo. 

Corrado Di Pietro è nato a Pachino (SR) ma vive ed opera a Siracusa. Poeta, saggista, conferenziere, Di Pietro si è sempre occupato di organizzazione di incontri d’arte e di cultura. È stato per otto anni il direttore artistico del Festival dell’Opera dei Pupi di Sortino e attualmente è Presidente del Centro Studi Arti e Scienze IL CERCHIO di Siracusa Attualmente scrive su La nuova Tribuna Letteraria, trimestrale di Lettere e Arti di Padova. Per la sua attività professionale gli è stato conferito il titolo di Cavaliere al Merito della Repubblica nel 2001 mentre per la sua attività culturale gli sono stati conferiti numerosissimi riconoscimenti. Ha vinto molti premi letterari e pubblicato 25 libri che riguardano la saggistica etnoantropologica, la poesia e la narrativa. Ricordiamo qui gli ultimi volumi: La Terra sopra Scibini. Romanzo. Fondazione Mario Luzi Editore. Roma 2014 Gli esagoni di Borges. Racconti. Morrone Editore SR 2016. Festa e Rito. Youcanprint editore 2018
Renzo Montagnoli 

 

 

12 Gennaio

La costanza della ragione

di Vasco Pratolini

BUR Biblioteca Universale Rizzoli

Narrativa romanzo

 

La storia di una educazione morale

Siamo a Firenze, nell’immediato dopo guerra, e Bruno, a cui è venuto meno  il padre nel corso del conflitto, cresce fra le angosce della madre Ivana, timorosa di perderlo, come le è accaduto per il marito, e la figura, di rigorosa moralità, di Miloschi, vecchio amico del padre e che poi è diventato tutore del ragazzo. Si raccontano, nel romanzo, i primi venti anni di vita di questo giovane, con tutti i passaggi tipici del periodo, con i primi ideali e ovviamente anche i primi amori. E se ci si basasse solo su questo si potrebbe parlare solo di un tipico romanzo di formazione, ma non è da Pratolini scrivere senza proporre qualcosa di diverso e peraltro non campato in aria, perché, accanto a un atteggiamento dei suoi vecchi che si lasciano travolgere dalla vita, con una atavica rassegnazione, incapaci di reagire, lui, Bruno, cerca di continuo una risposta logica alle sue inquietudini giovanili, anche per non affondare nel grigiore quotidiano di chi è più avanti negli anni e che, senza sentirsi uno sconfitto, non ha però più voglia di combattere. 

In questo lavoro di Pratolini siamo un po’ al di fuori delle sue classiche tematiche, nel senso che non si tratta più di un romanzo corale, e del resto anche l’ambiente è diverso, perché pur restando la città Firenze non si svolge in un antico rione popolare, ma in una nascente periferia.

Peraltro stupisce in quest’opera una ricerca intimistica, anziché una rappresentazione sociale, come se l’autore per una volta avesse voluto tralasciare la sua passione politica, che però non è assente nel romanzo, pur non risultando dominante. Pratolini, comunque, non sarebbe Pratolini se non avesse nei suoi intenti uno scopo, un fine; che si tratti di un desiderio di riscatto delle classi più deboli, o della trepidazione propria di chi cerca di dare risposte ai perchè della vita, è ben presente nell’autore la necessità di non creare soio un lavoro di semplice svago, ma di riflettere l’essenza di sé, di proporsi alternativamente a un mondo esterno che quasi mai è di suo completo gradimento.

Se Bruno, ricorrendo allo stretto pragmatismo, è convinto di avere le risposte che gli premono, ne uscirà sconfitto, perché il mondo può presentare aspetti spiegabili con la ragione e altri no, perché i  sentimenti non sono formule matematiche, ma passione. Dovrà anche lui patire la sconfitta, ma ha maturato la sua esperienza, ha costruito quella struttura fatta di gioie e dolori, di ansie e sereni momenti, di logicità e illogicità grazie alla quale potrà meglio affrontare la vita.

La costanza della ragione non è probabilmente un capolavoro, ma è comunque un’opera di notevole valore. 

Vasco Pratolini (Firenze, 19 ottobre 1913 – Roma, 12 gennaio 1991). Di famiglia operaia, è costretto a interrompere gli studi e svolge mestieri diversi per potersi mantenere.
Autodidatta, entra in contatto con l’ambiente degli artisti e degli scrittori che gravitano attorno al pittore Ottone Rosai, frequentandone la casa.

Pratolini comincia a collaborare al periodico «Il Bargello» e diviene redattore con Alfonso Gatto, nel 1938, della rivista «Campo di Marte». Nel 1951 si trasferisce a Roma, città nella quale vivrà da allora in poi.
Le sue prime esperienze narrative ("Il tappeto verde", 1941; "Via de’ magazzini", 1941; "Le amiche", 1943; "Cronaca familiare", 1947) compongono il ritratto di un'infanzia e di una giovinezza piuttosto picaresche.

Il registro adottato, sin da quelle prime prove, si pone a mezza via fra il realistico e il lirico.
"Il quartiere" (1943) è un affresco corale che narra della presa di coscienza del sottoproletariato urbano. 
Gli stessi temi sono riproposti, con tono appena più svagatamente satirico, ne "Le ragazze di San Frediano" (1949), e trasposti poi in una più approfondita lettura psicologica in "Cronache di poveri amanti" (1947).

Pratolini svolge con successo, in questi anni, anche un'attività di sceneggiatore e soggettista cinematografico, e intraprenderà in seguito una carriera di autore di testi teatrali ("La domenica della povera gente", 1952; "Lungo viaggio di Natale", 1954).

Nel 1955 pubblica Metello (premio Viareggio), primo romanzo di quella che diverrà la trilogia "Una storia italiana", essendo completata da "Lo scialo" (1960) e da "Allegoria e derisione" (1966).
Nella trilogia, la vita dei fiorentini, descritta attraverso la caratterizzazione di personaggi emblematici del proletariato e della borghesia, diviene il microcosmo in cui analizzare lo svolgimento di dinamiche sentimentali e politico-sociali.

Alla città e al mondo dell’adolescenza sono dedicati ancora un romanzo, "La costanza della ragione" (1963), e le poesie raccolte in "La mia città ha trent’anni" (1967). Alcune «cronache in versi e in prosa», scritte dal 1930 al 1980, sono riunite nel volume "Il mannello di Natascia" (1984, premio Viareggio).
Renzo Montagnoli 

 

 

8 Gennaio

Vittorio Emanuele III

L’astuzia di un re

di Antonio Spinosa

Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Storia biografia

 

L’ultimo re d’Italia

Vittorio Emanuele III (Napoli, 11 novembre 1869 – Alessandria d’Egitto, 28 dicembre 1947) è stato l’ultimo re d’Italia e anche per questo motivo il noto biografo Antonio Spinosa non poteva  esimersi dallo scriverne la vita, tanto più che il personaggio è stato un elemento chiave della storia italiana del XX secolo.  Succeduto al padre Umberto I, assassinato a Monza il 29 luglio 1900 dall’anarchico Gaetano Bresci, questo re sgraziato, di bassa statura, con le gambe gracili, frutto di un matrimonio fra consanguinei, regnò per ben 46 anni e in questo lungo arco di tempo gli eventi e i fatti importanti furono parecchi, a cominciare dalla guerra per la conquista della Libia, poi venne la denuncia della Triplice Alleanza, il trattato sottoscritto dal padre con Germania e Austria, con pressochè contestuale passaggio alla Triplice Intesa, i cui membri Francia, Inghilterra e Russia erano già in guerra con gli imperi centrali, conflitto che vide la nostra partecipazione con modeste vittorie e sonore sconfitte (cfr. La disfatta di Caporetto), ma che riuscimmo tuttavia a concludere vittoriosamente.  Già questi accadimenti sarebbero notevoli nella vita di un monarca, ma ve ne furono anche altri, forse più rilevanti; infatti, se non ne fu l’artefice, pur tuttavia collaborò all’affermazione del fascismo, visto probabilmente come un male minore rispetto al nascente bolscevismo. Vittorio Emanuele non amava Benito Mussolini, che ricambiava allo stesso modo, ma si instaurò, a beneficio di entrambi, una diarchia che, fra alti e bassi, durò circa una ventina di anni. Nell’interessante biografia di Spinosa si pone l’accento su questa reciproca disistima, evidenziando che il re, ligio ai doveri costituzionali, cercò più volte di defenestrare il Duce con metodi democratici, prendendo spunto da un fatto che potesse costituire il casus belli per una votazione parlamentare, almeno fino a quando vi fu un parlamento legittimo. Strano a dirsi, non fu mai trovata, o non si volle trovare l’occasione, e invece ci fu un momento in cui i due governanti furono completamente d’accordo, con il re commosso ed emozionato, il che accadde quando, a seguito della vittoriosa guerra d’Etiopia, fu proclamato imperatore. La vanità quindi prese il sopravvento su una supposta azione di contrasto al fascismo che in effetti non avvenne mai, nemmeno quando l’avvicinamento più che amichevole di Mussolini a Hitler faceva presagire un’imminente guerra almeno a livello europeo. Vittorio complottava con il genero del Duce, il ministro degli Esteri Galeazzo Ciano, notoriamente anti tedesco, ma più che qualcosa di serio sembrava un gioco, tanto che, benchè contrario allo scontro armato e dopo molto aver tergiversato, il re si risolse, visti gli esiti favorevoli ai nazisti dei primi mesi del conflitto, a firmare la dichiarazione di guerra sottopostagli da Mussolini. E’ notorio che il dittatore, pur consapevole delle rilevanti deficienze delle nostre forze armate, temeva che un ritardo nel nostro ingresso nel conflitto, reclamato a gran voce dai generali al fine di potersi preparare, avrebbe pregiudicato le nostre rivendicazioni territoriali, per cui visto come andavano bene le cose, come ebbe a dire Mussolini sarebbe bastato sedersi al tavolo della pace con qualche migliaio di morti per evitare di lasciarsi sfuggire un’occasione di gloria più unica che rara. Il re, che era un po’ un Don Tentenna come il suo predecessore Carlo Alberto, cominciò pure lui a sognare un altro po’ di grandezza e fini che così ci imbarcammo nella tragedia della seconda guerra mondiale. Tuttavia, le sconfitte nei territori oltre il suolo patrio e poi l’invasione della Sicilia spensero del tutto gli entusiasmi e così si cominciò a complottare per togliere di mezzo Mussolini; Vittorio aveva un suo piano, sempre pronto, ma mai utilizzato, e fu costretto a ricorrervi quando fu il Gran Consiglio del Fascismo a licenziare il duce. Poi, la vicenda è nota, con l’ex dittatore convocato da re, arrestato, trasferito in vari posti, ultimo il Gran Sasso, le trattative segrete con gli alleati per addivenire a un armistizio, mal preparato non solo da parte degli americani e degli inglesi, ma anche degli italiani, tanto che l’8 settembre 1943, quando fu proclamato, nessun militare italiano sapeva esattamente come avrebbe dovuto comportarsi con i tedeschi ex alleati. Inoltre, fatto altrettanto grave, la ignominiosa fuga del re a Brindisi, di cui si cerca dare una giustificazione poco convincente, secondo la quale sarebbe stato l’unico modo di avere nel nostro paese ancora un governo legittimo, non asservito ai tedeschi. Spinosa è bravo e fornisce delle interpretazioni degli eventi più importanti, interpretazioni che a volte non mi vedono d’accordo, perché troppi fatti mostrano che Vittorio Emanuele era un pavido e quindi le sue decisioni furono spesso dettate dai timori per la sua sorte, con lo Stato che veniva sempre e comunque in secondo piano. Pur tuttavia, desta un senso di pietà la figura descritta nelle ultime pagine, con questo ex re in esilio in Egitto che trascorreva mestamente le sue giornate, magari uscendo con la moglie su una barchetta a remi, onde pescare, grande passione di entrambi.

Credo peraltro che sia opportuno precisare che, sebbene a volte non in accordo con Spinosa, il mio giudizio su questa biografia sia ampiamente positivo, trattandosi di un’opera frutto di un lavoro meticoloso, ben scritta, per nulla greve e che ha il grande pregio di rappresentare la storia dell’Italia nella prima metà dello scorso secolo. 

Antonio Spinosa, giornalista e scrittore, è stato direttore del nuovo «Roma», dell'agenzia Italia, della «Gazzetta del Mezzogiorno» e di Videosapere-rai; inviato speciale del «Corriere della Sera» e del «Giornale». È autore di numerosi saggi storici, politici, di costume e di biografie di personaggi che hanno c"ambiato il mondo e l'Italia in particolare, tra cui "Cesare", "Tiberio", "Augusto", "Paolina Bonaparte", "Murat", "Starace", "Mussolini", "Vittorio Emanuele III", "Hitler", "Pio XII", "Salò", "Edda", "Italiane", "L'Italia liberata", "La grande storia di Roma", "La saga dei Borgia", "Mussolini razzista riluttante", "Alla corte del duce", "Churchill", "Il potere", il destino e la gloria", "Cleopatra", "D'Annunzio", tutti editi da Mondadori.
Ha vinto il Premio Estense, il Saint-Vincent, il Bancarella, il premio Donna Città di Roma ed è stato finalista al premio Strega 1996 con Piccoli sguardi.

 Si dedica da anni a riscoprire e reinterpretare eventi e personaggi che hanno cambiato la storia d'Italia, dall'antica Roma all'epoca napoleonica, all'età contemporanea.
Renzo Montagnoli 

 

 

5 Gennaio

Nel mare ci sono i coccodrilli.

Storia vera di Enaiatollah Akbari

di Fabio Geda

Baldi e Castoldi Editori

Narrativa
 

L’odissea di Enaiatollah Akbari

In un’epoca come l’attuale, in cui i sentimenti sono rari e che è caratterizzata da un’ondata di odio che non mi risulta abbia precedenti, leggere questo libro di Fabio Geda è un vero e proprio sollievo per l’anima. Le vicende di questo bambino afgano, lasciato dalla madre in Pakistan per poter aver salva la vita e nella speranza di un’esistenza migliore, con le sue peripezie che lo portano dapprima in Iran, poi in Turchia, quindi in Grecia e infine in Italia, sono veramente coinvolgenti, perché Enaiatollah Akbari è la simpatia in persona. A ciò non poco contribuiscono gli insegnamenti della mamma, a cui lui si attiene scrupolosamente; si tratta in pratica di tre comandamenti: non usare le droghe,  non usare le armi e non rubare. Il suo è stato un lungo viaggio, durante il quale ha lavorato, e sodo per essere un bimbo, ricorrendo magari a qualche aiuto, ma non ha mai assolutamente rubato, pur se ne aveva l’occasione ed era in stato di necessità. Il racconto, perché si tratta di una storia vera, raccolto da Fabio Geda e strutturato di tanto in tanto da più che legittime domande, ma anche da ponderose riflessioni, può a volte far sorgere il dubbio che molte situazioni siano inventate, ma conoscendo la cattiveria di non pochi uomini credo che invece tutto risponda a realtà, magari un po’ amplificata, ma il bambino non sembra per niente uno spaccone e lo dimostra ampiamente quando arrivato in Italia e preso in affido da una famiglia torinese che gli vuole bene, nel corso del colloquio avanti la commissione a Roma per ottenere lo status di rifugiato politico e quindi il permesso di soggiorno, considerato che tutta la sua storia non sembrava sufficiente per soddisfare la sua richiesta, ha tirato fuori un giornale, un quotidiano di pochi giorni prima, che riportava un articolo intitolato Afghanistan, bimbo talebano sgozza una spia e si diceva appunto di un bambino ripreso dalle telecamere mentre tagliava la gola a un uomo. Lui, Enaiatollah si è limitato ad aggiungere che quel bambino avrebbe potuto essere lui, convincendo la commissione.

Il rischio che quest’opera potesse diventare zuccherosa, sia per il protagonista che per le vicende, è sempre stato accuratamente evitato, ma ciò non toglie che per completare il libro non ci si potesse esimere dal raccontare un ultimo fatto, che mi ha commosso profondamente: Enaiatollah, che intanto studiava ed era al terzo anno delle superiori, ha cercato di contattare la mamma e dopo non poco tempo, con l’aiuto di amici residenti in Afghanistan, è riuscito a telefonarle, e ha iniziato dicendo solamente “Mamma” e subito si sono accomunate le lacrime della madre e del figlio.

Nel mare ci sono i coccodrilli è un piccolo gioiello, uno di quei libri non destinato solo ai bambini, come in apparenza potrebbe sembrare, ma anche e soprattutto agli adulti, in particolare a quelli che, in preda a un odio cieco, compulsivo, vogliono negare ad altri esseri umani il diritto di vivere. 

Fabio Geda (1972, Torino), si è occupato per anni di disagio giovanile, esperienza che ha spesso riversato nei suoi libri. Ha scritto su «Linus» e su «La Stampa» circa i temi del crescere e dell'educare. Collabora stabilmente con la Scuola Holden, il Circolo dei Lettori di Torino e la Fondazione per il Libro, la Musica e la Cultura. Esordisce nel 2007 con Per il resto del viaggio ho sparato agli indiani; segue L'esatta sequenza dei gesti (2008) e Nel mare ci sono i coccodrilli (2010) che ha avuto uno straordinario successo sia in Italia che all'estero. Nel 2011 esce L'estate alla fine del secolo, mentre del 2014 è Se la vita che salvi è la tua (Einaudi). Nel 2015 esce il primo volume della serie per ragazzi Berlin (Mondadori) scritta insieme con Marco Magnone, del 2017 Anime scalze (Einaudi). Nel 2019 pubblica per Einaudi Una domenica.
Renzo Montagnoli 

 

 

2 Gennaio

L’alba che aspettavamo.

Vita quotidiana a Milano nei giorni di piazzale Loreto 23 – 30 aprile 1945

di Edgarda Ferri

Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Storia

 

La fine di una lunga notte

Siamo alla fine dell’anno 2019 e quindi da quel 25 aprile del 1945, giorno che viene commemorato come quello della liberazione dell’Italia dal dominio nazi-fascista, sono trascorsi oltre 74 anni e ormai sono pochi quelli che ricordano quelle giornate fatidiche, pochi  che hanno avuto coscienza di quello che accadde, il che vuol dire che questi pochi all’epoca dovevano  avere almeno una decina di anni. Furono ore di trepidazione, di gente che sperava nell’arrivo degli alleati, ma che temeva anche colpi di coda dei fascisti e dei tedeschi, così come invece erano attanagliati dall’angoscia tutti quelli compromessi con il regime, perfettamente consapevoli della sua imminente fine e proprio per questo timorosi per la loro sorte. Dico solo che furono giorni convulsi, con continui ammazzamenti, con sentenze di morte pronunciate e subito eseguite da improvvisati Tribunali del popolo, con vittime in diversi casi anche innocenti, colpite da vendette o addirittura scambiate per altre persone, in un caos in cui non raramente non si riusciva a capire se alcuni armati fossero fascisti travestiti da partigiani o viceversa. Per chi a quell’epoca era troppo piccolo per comprendere, per quelli nati successivamente L’alba che aspettavamo è il libro che riesce a spiegare quel che accadde, sia pure limitatamente a Milano, dove peraltro c’erano i centri nevralgici degli opposti poteri. Edgarda Ferri, l’autore, allora era una bambina essendo nata nel gennaio del 1934, ma è indubbio che visse quei giorni, che fu testimone di fatti spesso sanguinosi e che, soprattutto, potè memorizzare l’atmosfera di una guerra e di una dittatura che, alimentata con il sangue, finiva nel sangue. Io non c’ero e pertanto ho potuto apprezzare la cronaca di quegli otto giorni (dal 23 al 30 aprile), quasi scandita ora per ora, una serie di eventi incrociati,  storie di personaggi famosi e altri senz’altro non noti, gli antifascisti che venivano ancora catturati e ammazzati, così come i membri delle varie soldataglie del Duce giustiziati lungo le strade, l’incontro in arcivescovado del cardinale Schuster con un Mussolini disperato, il contatto breve di questi con alcuni dei rappresentanti del Comitato di Liberazione per trattare la resa, una resa senza condizioni che il dittatore ormai detronizzato non accetta e che lo induce a fuggire verso la Svizzera, non sa nemmeno lui ancora se per tentare di rifugiarsi nel paese neutrale, oppure per andare a sparare le ultime cartucce nel fantomatico ridotto della Valtellina. Sappiamo come andò a finire, come sappiamo che Benito Mussolini, Claretta Petacci e gli altri gerarchi fucilati a Dongo furono appesi a un distributore in piazzale Loreto, lo stesso piazzale dove il 10 agosto 1944 erano stati fucilati 15 partigiani, i cui corpi furono tenuti ben in vista a lungo per un monito alla popolazione, che ora invece accorreva in massa a sincerarsi della morte di “mascellone”, esultando, infierendo sul cadavere, magari la stessa folla che il 10 giugno 1940 si era entusiasmata per il discorso del Duce con cui comunicava al paese l’avvenuto consegna delle dichiarazioni di guerra alle ambasciate inglesi e francesi. Edgarda Ferri si avvale di numerose testimonianze, di gente dell’una e dell’altra parte che le ha raccontato l’esperienza di quei giorni, ma contano anche le riflessioini dell’autore, molto equilibrate, e anche sincere, perché fa solo un cenno, ma questo basta e avanza per ricordare che già nei primi giorni di pace gli stessi profittatori di prima continuarono a operare indisturbati, che chi aveva potuto pagarsi la libertà era scampato al processo e che chi era il padrone del vapore prima lo era anche a guerra finita. Insomma, se c’era bisogno di un’ulteriore conferma, un cambiamento epocale di sostanza non c’è stato; certo, la guerra era finita, aveva vinto la democrazia, ma chi contava prima continuava a contare.

Il libro si legge veramente con grande piacere, grazie alla struttura snella e alla capacità dell’autore di non far mai calare il ritmo, sempre molto elevato.

L’interesse dell’argomento è notevole, sia per quelli che all’epoca non c’erano, o se c’erano erano troppo piccoli per capire, sia per gli altri, per quelli ormai pochi che vissero consapevolmente quelle giornate, il cui ricordo viene così a loro opportunamente rinfrescato, perche gli italiani devono sapere quanto mostruoso sia stato il fascismo  e come sia finito ufficialmente nell’aprile del 1945, pur continuando a covare sotto la cenere.

Edgarda Ferri è nata a Mantova e vive e lavora a Milano. Scrittrice, saggista, giornalista ha esordito nel 1982 con Dov’era il padre, un romanzo che rimane tuttora un ritratto fondamentale e un punto di riferimento per un’intera generazione. Ha pubblicato inoltre, Contro il padre (1983), La tentazione di credere (1985), Il perdono e la memoria (1988), Luigi Gonzaga (1991), Quello che resta di Cristo dopo 2000 anni (1996) e, per Mondadori, Maria Teresa (1994), Giovanna la Pazza (1996), Io, Caterina (1997), Per amore (1998), L'ebrea errante (2000), Piero della Francesca (2001), La grancontessa (Le Scie, 2002), Letizia Bonaparte (2003), L'alba che aspettavamo (2005), Il sogno del principe (2006), Rodolfo II (2007), Uno dei tanti (2009).
Renzo Montagnoli 

 


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