Poesie di Luigi Panzardi


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Viaggio in carrozza letto
Il treno mi strappava le luci dei lampioni
radi dispersi nel buio
le facciate molli di case spente
gli alberi inerti in fuga nel vuoto
campagne già sfuggenti nella notte.
Mi strappava gli odori del tuo corpo ormai lontano
mi lasciava solo frattaglie di ricordi,
umide di due lacrime di dolore.
Pensose disarmonie nello stanco dormiveglia.

"Lavori in corso"
- Procedere nel rispetto dei limiti imposti -
Sciogliere l'ansia, guardare sereni avanti.
Stretti nella carrozzeria nera
i pensieri si girano, si riavvolgono,
inondano l'abitacolo,
giocano a suonare le trombe
ammorbando di suoni alieni
l'aria stallatica della campagna.

- Procedere a senso unico alternato -
- a passo d'uomo -
Mentre flussi grigi di parole escono
sembra dalla radio o forse da un intimo ignoto
sbattendo ali di farfalla contro orecchie sorde.
Scorre tra i sedili la canzone d'un angelico rock
echi vaganti tra le note dei Genesis
invocano ricordi d'amori rimossi.
Fuse passioni zampillano sul nero del cruscotto
che ricordavo precipitate infine lungo la scarpata.

Cadono uno ad uno i segnali, gli avvisi, le minacce
i trapezi i triangoli le losanghe.
Stop!
Un suono prolungato assordante di tromba
imbratta la scura molle galleria in cui s'infila la memoria.
Ma è tardi per salvare la figura che mi guarda e sorride.

Paesi
Avido lo sguardo inonda e aspira
frumenti papaveri campi estivi
assemblati gorgheggi di cicale
scroscia rapido sui rossi rupestri
s'inceppa ferito da dolorosi anfratti
glabre dimore d'impavidi falchi.

Albe esangui o tristi velate
antiche vedove tornano
come adusti ritornelli nella memoria.
Insieme ai tramonti e alle atone sere.
Paesi di terra e pietre a spiare tra le colline
la minaccia di redivivi morbi antichi.

Quante note di tanti concerti
suonati su tetti dalle tegole rosse
o dietro bifore di grigi campanili
le cime dalle qual l'anima scruta
mi cancella estinguendosi la vita?

E sobbalza la puntina sulla polvere del disco.

 Ombre
Tornano a volte inattese ombre brune
impastate di vecchi pensieri.
Tornano in irta onda informe
che l'animo ingroppa
smarriti i sensi delle stagioni.
Il gioco maligno dei cattivi ricordi,
ignei gastrici riflussi ricorrenti,
sobilla il cuscino sul quale s'agita il capo.
Appaiono croste d'argilla d'una calanca
e nella notte di plenilunio
l'aquilone quadricromo
che vola senza filo
innalzandosi sicuro di sé.
A esso non ha nulla da dire il mare scuro
che sbatte ancora contro l'anziana sponda
esausta scarnificata dal monotono canto.
Lontano sembra d'un faro fittizio
il guizzo spavaldo di luce improvvisa.
L'approdo è la strada fino alla collina
che ha la cima appesa al vuoto della notte
per andare a veder morire una stella
e a inseguire i nostri spiccioli di giorni
risucchiati da una immensa ombra nera.
 

 

Il virus
La speranza illumina ora cromati fantasmi

In una comune livrea d'empiriche certezze
oracoli viventi incasellano sentenze.

Solo il vento libero soffia amori nell'aria notturna.

Al sorgere dell'alba le maschere
sono già in fila a far la spesa
mute pallide paventano il contagio.

Letale ineffabile violento,
subdolo s'invischia nell'umido
di respiri, di saluti, di baci
sgretola membrane, insidia la vita.

E l'astinenza a pena lo contrasta.

Attoniti disarmati volontari
corali propizi auspici dai balconi poetiamo
mentre sotto di noi le strade immobili
palesano una vaga nudità infinita.

La mano inguantata della madre
cala sul volto del figlio bambino
la maschera protettiva
il bianco sipario che nasconde lo spettacolo vivo
a una smorta platea.

Trepidi voli di anziani tra le ultime luci dell'occaso
che sfinisce dietro un corteo di carri
grigioverdi

 

Inconsistenze
Sorgeva dal fondo la processione
decorata di croce e gonfalone.
Svaniva nel nulla passato il santo.
Finiva anche della festa il rimpianto.
Sospeso rovente l’anticiclone
sulle vie quiescenti all’invasione
di sorci i cui squittii eran canto
che Tifone spense con uno schianto.
Gli invitati eleganti e il tuo vestito
bianco. E i corvi davanti al funerale
di tua madre, dietro: scuri parenti.
Volar di cicogne a Calendimaggio.
Dissolvenze, fugacità d’essenti
qual volante inconsistente piumaggio.

Inverno
Dimora dentro di me l'assenza
che nero alitare percorre le strade
del sangue ed arriva per gangli e rovi
alle cellule stanche.

Tradimento le tue parole nell'aria chiara,
verbi dissonanti, affilati suoni
emergenti da alabastri di ghiaccio.

Il tuo volto sagoma di bianche luci
in un mio sogno ho rivissuto
col remoto sentore dei baci.

E' inverno disteso in lunghi giorni,
vasto di pallore immoto, su coltri
di neve senza soste, annegante
infelice nell'orizzonte
di disperata lontananza.

Inverno quest'anno la tua assenza
adorno ricamo di gelide spine
laceranti il fragile tessuto del tempo.

Tra le dune di pallida neve
al freddo si sfiocca
l'amore stremato
e dalle gocce di ghiaccio tremanti
nasce il ricordo di sguardi
che piano la neve fragrante sommerge.

Opprime l'inverno forte della tua assenza.

Telefono con fotocamera
Prioritario bisogno d'amore!
caldo animale millepiedi il cuore
scorre sull'immagine fissa del suo volto.

Lo sguardo è magnetico,
palpita messaggi, pulsa immagini.
I led sulla scala cromatica vivaci.

Una grandine sonora improvvisa
invade lo spazio dove oggi staziona il sole.
Lei immersa, ferma, dice: Si!?

Sguscia dalla conchiglia
un metallico gorgoglio d'amore.

DELETE

Un tasto premuto improvviso
lancia sul pannello il nero del nulla.

Riflessi d'autunno
Scorre il sanguigno dorato sul palmo esteso
delle foglie che la vite ora sfoggia al breve sole,
innervature grigie vi intrecciano strade
come l'intrusa ciocca bianca solca la chioma
nera margine folto del tuo volto stanco.

Verrà la neve, tu ritta al balcone
conterai le sue farfalle, come da bambina.

Insegue il flusso aereo del mosto
minuetti di raggi per l'aria fredda,
dà sapore al verde dell'erba, s'alza lieve
alle fronde scarne con l'andante adagio
d'una musica immanente.

In cucina seduto mi tentano l'odore dei cavoli
e il lontano suono di un violino.

La brezza incerta vaga tra i germogli
del prossimo inverno, s'allontana
sorvolando lieve la pianura
va a giocare con l'altalena
delle onde tra la riva e il mare.

Rido ad un gatto sui tetti che timido fiuta
il nido abbandonato sotto la grondaia.

Si scioglie il sole, giallo tra giallo di foglie
cadenti solitarie come versi di poeta
della terra sul tiepido grembo.
Così la dissoluzione tra inni e rimpianti
corrode carne e pensieri.

All'ora programmata la televisione accende volti
e fatti di parenti sconosciuti.

Un grido amaro come il sapore verde scuro delle olive
dalla mia coscienza erompe, precede la bufera
ottobrina, mi chiede degli inverni caldi familiari,
trasale al freddo scorrere
di questo pomeriggio autunnale.

Così scende la notte infine.
Rincalza la terra sul capo la coltre e dorme.

In una notte estiva

Crepuscolo di immagini e pensieri.
Suoni brulicanti nella tiepida nebbia,
composizioni grigie di volti incontrati per strada,
ignoti.
Nella stanchezza della sera ritornano alcuni,
altri son morti.

Lenta si adagia con residui pensieri la notte
sul corpo spossato alita la luna,
che spia guardinga tra le tende agitate.

Sorgono a frotte nell'aria cadente i fantasmi,
con lembi di bianchi ricami portano carezze
alla tua mente invasa da ignote paure.

E' una notte estiva,
tenera di ariosi profumi,
viatrice di sfumati ricordi,
radi armenti vaganti
per le verdi coste della memoria
che percorre le vie del tempo
senza la scansione delle note.

Gli orchestrali in nero aspettano
che il buio diriga la sinfonia delle ore,
pellegrini lungo i sentieri del sonno.
Incubi emergono dagli abissi della mente.

<<Non voltarti indietro>> dice la voce.
La paura scalpita nel cuore di fanciullo regresso
che ancora, ancora invoca nel buio: <<Mamma!>>

Una tomba.
Un cero.
Un fiore.

Cadi nel sonno stanco fiocco di carne.
Nel silenzio finalmente carpisci un'ora di pace.

Pellegrinaggio
Ricordi?
La strada bianca ci vide pellegrini oranti,
le anime incordellate da salmi d'amore.

Tra la folla genuflessa
ho preso la tua mano per assorbire
tutta la tua essenza.

Slargava il canto nell'aria
d'oro cruento.

Tramontava il sole sul pomeriggio
di quella nostra intesa.

Vieni dai vertici della mente
Vieni Musa dai vertici della mente
come ruscello mormorante tra le gole,
portami ciottoli vertigini di luci e colori
di musiche e parole che abbiano il sapore
di miele e l'odore di verbena.

Le Amadriadi giocano leggere nei boschi,
danzano su tessuti di note
fili d'erba, prati scrigni di tremule gocce di rugiada.

Versi d'amore scanditi dai suoni che le fronde
degli alberi carezzate con sensi opimi dal tiepido vento
hanno scritto su un rigo di raggi delicati
esordienti tra le foglie rinate.

Corre sulla sabbia un soffio vitale
e lascia indietro i granelli dei giorni
che si adagiano sulla storia della vita trascorsa
per costruire una spiaggia di defunti reperti.

Le onde del mare s'inseguono, si cercano
come fervidi amanti, ma il breve fervore
presto si spegne nel lento andare della risacca.

Portami o Musa col greve fardello dei sogni
nel fuoco ad occaso dove l'ultimo sospiro
possa lentamente morire
e il giuramento sciogliersi nel canto d'addio.

Direzione obbligata
Sul marciapiede tra sorrisi riflessi
dagli specchi addobbati delle vetrine
l'ho vista alzare gli occhi al cielo.

Ha piegato la testa guardandosi le scarpe,
ha proseguito con gli altri passanti
fissando sguardi ansiosi senza domande

il futile cammino verso il cappio della vita.

Come un animale smarrito
Non c'è più un tanghero per le strade
all'una di notte:
Son solo, freddato da un esile raggio,
icona burla della notte.

Hai dismesso anche le parole,
o mio pensiero,
nudo lombrico volvendosi gobbuto,
vai mendico speculando,
vai cercando tra le crepe del buio
il mio io:
- Atona microparticella -.
Mi spingi in mezzo alla strada, barcollante,
mentre una macchina veloce mi sorpassa,
drogato dal puzzo di bitume;
mi rianimi mostrandomi lontano un bagliore,
forse un faro che fende la nera paratìa della notte,
una luce-idea guida..

Una sconnessa carriola
su cui farmi depositare la zavorra dei miei sogni.

Più non mi lusinghi,
pensiero, con stami e antere d'odorosi fiori:
il polline più non raccolgo,
animale,
non etereo
metafisico
alito eterno,
sono,
smarrito tra strada e cielo, neri.

Il carambolista
Occhi socchiusi fissi e ferma mano,
con una palla ne vuol due colpire,
sta piegato inarcando il deretano.

Va dritto al pallino il lancio che sferra.
Egli lo insegue con lordo vagire
e inopinati consigli disserra.

Parole roventi alle palle dice,
liberando la rabbia che lo rode,
infine allo scontro ride felice
e agli astanti, per la caduca lode.

Quando si può dare un consiglio?
Quando a sera telefoni e chiedi come fare
per strangolare le ore della notte oscena,
dopo quelle diurne trascorse alla catena
della produttività integrata,
e vuoi sapere se è possibile conciliare
la libertà con l'autocrazia,
o giovine rampollo della comunità globale,
io so darti solo una spina verbale:
tu sei l'artefice della civiltà futura,
quella di ogni nuova generazione,
il nuovo prato coi rosolacci e lo sterco dei cani.
Non tieni in conto la vermiglia cornucopia
pregna di consigli elencati a scalare degli anni,
di cui sei il pronosticato erede,
né freni il tuo orgoglio di tecnologo informatico,
la tua mente ha adottato il sistema a scansione
e clicchi nel programma la soluzione:
quando vien la sera, smarrito nella paranoia,
ti attacchi ai sogni che ti fa passare avanti
quella punta di polverina bianca.


A che rammentarti i valori di un tempo
per impedirti di camuffare i pensieri,
a nulla servono lezioni in gergo.
Meglio sarebbe stato l'esempio!
Ma, per dio, anche noi abbiamo
sciupato gli anni in giochi di guerra, pazzi,
con le favole abbiamo rallentato il passo del tempo
per rifare le gesta con la moviola;
ci siamo divertiti a sbranarci,
ci è piaciuto, ma tanto, divellere cuori,
per avere una casa più comoda,
il granaio pieno,
la centrale elettrica a pieno regime,
la doccia con l'idromassaggio,
il deposito arrotondato con furti in banca.

Ora, figliolo, goditi il pingue retaggio
e se proprio insisti per un consiglio,
ascolta: quando ti capita, nelle sere paranoiche,
invece di respirar la polverina bianca,
leggi delle epopee antiche. non per emularle, no!
ma per trovare il modo di evitare
futuri spargimenti del tuo stesso sangue.
Questo sarebbe sì un bel passo avanti.

Sospetti
Una nuvola molle è stesa sulle
nostre stremate certezze e sospetti
gialli e lenti sparge sopra le brulle
parole che ora accerchiano dispetti.

Presagi d'incomprensione silente
corrodono quel tenero linguaggio
che non si parla più concordemente:
oggi la cesura sta al nostro ingaggio.
Un'ampia distanza gelida e nera

frapposta come terra di confine
ci offre ostili nel bacio che dispera.
L'ombra ci immerge in crepe senza fine,

ti cerco in quell'altra, tenera amante,
ti scopro amara, ma ancor più eccitante.

Al mercato
Dalle bancarelle del mercato
inviano brani alterni di luce
le biglie colorate.

La folla lenta
di pallide casalinghe infagottate
è sorda al canto di subsoniche frequenze.

Bisogna riportare l'alterato linguaggio
ai primitivi echi delle caverne
ai monosillabi urlati dalla fame.

Il trapianto del giglio
Il trapianto del giglio,
parole e pensieri radenti,
fiumi di sogni, libellule,
ali bianche distese su silenzi fluenti,
è avvenuto in un nero deserto.

Ferma, in estasi, davanti al portone,
ha bussato.
Ora aspetta che apra l'ignoto
il ventre vuoto senza confini,
senza orizzonti sfumati
tra brezze e amori.

Polveri di clessidra,
frantumati i giorni,
caduti ormai nella pienezza del niente,
l'altro materno grembo transitato,
inerte argilla è divenuta.

Più soli di una cometa
Un sentiero contorto e stretto
insinua i suoi sassi tra le spine, taglia i cespugli.
Scava una grotta
nel fianco glabro della montagna,
mi porta nel ventre.
Il mormorio bavoso del vento
canta la filastrocca degli anni impilati.
Larvate falde trasparenti,
i sogni girano intorno al cuneo del buio
che piroetta nell'abisso
le guglie spinose di vaghe speranze.
Ingabbiate nel dizionario della storia
le parole, immote biche nere,
non scrivono più storie sulla roccia.
I fossili dei millenni trascorsi
sono inni silenti al tempo vincitore.
Siamo soli, più soli d'una cometa nell'universo.

Davanti allo specchio di una vetrina
Paralizzata guarda la vetrina,
gode per la lussuria dei colori esposta.
Un fragore di luci bianche
avvolge il nero vestito di seta
imperlato come un cielo gremito di stelle.

Rovista con le mani il vuoto della borsetta,
ha l'animo agghiacciato dalla fame,
ha il cuore dentro che urla stupito,
chiede di sapere perché non può
correre sull'azzurro del mare.

Alle spalle il fiume gonfio e lento sta,
della folla di uomini e macchine,
scorre sullo schermo a due dimensioni:
una è ricchezza, l'altra è povertà.

Illusione
Dal greppo della mente scende il fiume
tra ciottoli azzurri ed argini scuri.
Si stacca un'idea dall'acque agitate,
piroetta nell'aria ferma del tramonto,

pare farfalla su pozza di sangue
E' lei, la confidente, l'illusione.

Ancora in lei smarrito tra la luce
Gramigna cresce nell'animo stanco,
baco tra i pensieri disegna tele,
luci squillano nell'arsa penombra,
smarrito cerco l'approdo marino.
Un faro illumina: è solo illusione.

Meditazione
Raccolgo la ruvida pietra nera,
la filosofale con l'acre faccia,
l'adagio piano vicino al cuscino,

dall'ombroso comodino del tempo
sparge sulle ore pigre della vita
un pur sempre dolce, arcano chiarore.

Insonnia
La mistura del tempo lenta oscilla
con finestre di luce apre la storia,
delle tue parole il ricordo instilla,
giuramenti d'una fede aleatoria.

Infondo alla carne come in un magma
di cielo senza femminili stelle
la memoria grigia fonda il sintagma
dell'amore con steli di mortelle.

"Sarò sempre tua!" Furono parole
d'un gran circuito di sensi sonori
e tremuli, felici fumarole

presto smarrite in abissi insonori.
Ora richiamo insonne il tuo fantasma
Che vuoto emerge in vesti d’ectoplasma.

La corsa
Mai avranno i nostri corpi la fenice
la bestia nata insieme alla fortuna
a cui già la scimmia progenitrice
si volgeva senza fiducia alcuna?

E' la speranza un bosco di betulle
che ondeggia con la vanità del vento
sul ciglio degli anni e delle ere nulle
dentro una cronosfera di cemento.

Sui viali a doppia corsia solo il rosso
alto scandisce il tempo che si perde
al semaforo dello strano corso.

Col giallo la tua immagine si svende
per la corsia lunga, vuota, distesa
da dove inizia sempre ogni contesa.

La lite
Sopra picchi d'umore insano cerco
di capire il tuo linguaggio d'icone.
Cuneiforme pensiero nell'alterco
evapori e al ridere poi s'impone.

Il silenzio è nera bolla ch'esplode
con un soffio, esige fra noi la pace,
un attimo che già la rabbia rode
anche se ha in sé il senso che dispiace.

Nel nero asfaltato l'amore trova
per decollare la pista felice,
e sorvolare le case incantate.

Nella sera ti prendo foglia nuova
e bacio la bocca che più non dice
fruste calunnie di vuote scenate.

Solitudine
Emerge dal mare un liquido dolore,
con sapore salmastro inonda il corpo assopito.

Percorrendo a ritroso le onde tremanti
lo sguardo stanco giunge all'orizzonte.

Un intrigo di nuvole grigie disegna un volto:
canuto rugoso e triste, il volto di madre!

Affoga nel mare il ricordo, mi riscopro
solitario frammento in languida angoscia.

Notti senza fine
Raggia sul velluto rosso della pedana il Guru
saghe oniriche suoi tatuaggi sparsi
spot-light riflette il lucido cranio.

Il top-dj annuncia lo show
col dito anellato accarezza il disco
che gira un brano hip-hop.

La folla dei corpi ondeggia tra lampi,
con profumi firmati e jeans a pelle,
ammiccano tra i glutei perizomi trinati.

Sui seni protesi saettano note
fragili perle di luci sonore
i bassi comandano ai piercing vibrazioni segrete.

la Band imbottisce l'aria d'insolita musica,
una valanga di suoni percorre la sala
fende la nebbia il grido del Guru.

Output - L'alba cortocircuita la scena
scialba la luce mitiga l'ardire dei motori.

I volti son maschere studiate dai chip
sull'asfalto striato di tutta la tua vita
non rimane che lo spezzone di un clip.

Per il tempo che passa
Sono morto
per trecentosessantacinque volte
lungo la polpa di ogni anno.
E per trecentosessantacinque volte
sono rinato meno nuovo.
Le mie anime in fila
come chierici mormoranti
mi guardano a mani tese
imploranti di vivere oggi
ogni giorno fuggente.
Ma l'ingordo scorrere del tempo
ha creato l'abisso che mi separa
senza impedirmi di voltarmi indietro.

Mi preme ghermire il respiro del vento
nell'attimo che passa.
Le foglie gialle dei pensieri
cadono
lasciando di me tra la folla dei defunti
un altro vano ricordo.

Quartieri subliminali
Foglie di calcestruzzo su prati bianchi di coca
E chiazze d’escrementi spremono lacrime alla luna
tagliata da muri sovrapposti.
A piccole zolle annerite di cielo invano
S’alza il lamento del messia disoccupato
Già da domenica pentito della prole generata.
Luci di supermercato bianche affilano sapori
Che sogna il passante in divisa di dieta alimentare
Prono a redigere la lista di voluttà senza compenso.
Lampi di violenza fulgono per bianchi corridoi
Abbattono porte blindate di solitarie ville,
brillano tra grida corali di diavoli smarriti.
La notte è un vagare di musiche ondine,
alitate da clandestini che immobili da lontano
fissano gli irti agglomerati fermi in un’alcova di paura.

S’accaparri la dote il più forte in armi
Racconti in villa, la sera annoiata, con la luna sprezzante.
Il mare nero alterna sospiri falsi di pace
a silenzi feriti da algide scaglie sonore.

La panchina ascolta:

Il legnaiolo segava ogni giorno
mai stanco anche di festa:
crollavano i tronchi tra ruvidi gridi.

La terra s’apriva oscena, nuda e piagata;
ansimante il picchio di ritorno bussava al vuoto chiedendo del suo tronco;
il lombrico senza foglie s’essiccava contorto al sole;
al vento che libero scorreva lo scricciolo smarrito inveiva

<<A me, il tuo!>> Gridava il legnaiolo ridendo:
s’innalzava levigata la sua capanna,
mangiava legno di bosco e cresceva in finestre.
<<A me, il tuo!>>

Dopo anni di tronchi carpiti
in un’alba ottusa giunse un turbine ululante:
<<A me…Il tuo!>>

Il sibilo maligno del vento raggiunse la foresta ritratta, umiliata, mugugnante;
girò la notizia tra le foglie offese, tra i cirri d’erba,
uscirono da ruvidi buchi gli animali strisciando, volando,
tutti ridenti, aspirarono ebbri il profumo del legno affilato, tornito,
fecero ala al sentiero arido e tacquero.

Veniva di lontano il carro trionfale sgargiante di discordi colori,
agghindata a festa la bagascia con la falce rideva e rideva:
<<A me il tuo!>> gridava sguaiata
e lanciava sulla casa infoscata un turbine di morte.

<<A me, il tuo!>> Lo sentite il grido dei guerrieri
in Iraq? in Afghanistan?
<<A me il tuo!>> grida anche l’HIV nello Zimbabwe, nel Darfur.

La ferocia ingorda griderà sempre:
"S’accaparri la dote il più forte in armi"?

La vita scorre su di una retta
Con leggera mano la mente percorre lustri lontani
sfiora trepida storie vissute e chiuse con sigilli di marmo
nei brevi sorsi gelidi del tempo trova anime ferme in malli di terra
sembianze di sguardi e sorrisi ridotte al silenzio;

quanta sabbia stillata da secoli di vita s’arena sopra un umido limo
quanti amori vasti come pianori percorsi da allegre cascate
quante guerre infilzate negli anni come spiedi rossi di morte
magma di eventi a segnare punti d’una retta infinita;

e si scopre l'inganno, ché non gira la vita
ché dalla linda sorgente sonora scorre la linfa
che fa schiudere crisalidi sempre nuove
in un fragore d’ali repentino;

ferma poi lo smarrito cammino e davanti allo specchio
si mostra a sé stessa razionale fantasma di polvere nera.

Illusioni brevi
Sparse per vie bianche con intorno un collare di foglie
sono stanche parole bucate che perdono acqua.
Piano mi sono disperso come nuvola di polline dorato.

Ho invaso coscienze di stranieri terreni
e all’unisono abbiamo riso ai cirri rossi dei sogni.
Note di eguale dolcezza abbiamo respirato
travasando nel cuore vini di pace.

Deposte le armi con mani pulite
abbiamo stretto lunghe felci verdi rigenerando la foresta
dei pensieri, ci siamo rivisti ballerini sugli spalti della storia,
dove issammo la bianca bandiera.

Castelli in aria che il vento sconvolge, torri e quartieri
dove la lingua che si parla nessuno capisce.
Subito siamo scesi nell'arena a sollevare nuvole di bombe
per soddisfare il vezzo di sangue e di guerra.

Come se noi qui fossimo esuli
Siamo seduti tutti sul lungo muro di confine
come formiche immobili tra la tana e il pane
ad ascoltare intenti il frullar del sole
tra le pieghe ruvide delle rughe.

Una battuta oscena fa aprire bocche
senza più labbra da baciare
ed ode - chi ancora ha udito -
il macabro scricchiolìo dell'ossa.

Urlano le rondini schizzando di nero il cielo
- cripta iridescente di atomiche bolle -
sopra le margherite stolte sopra fragili papaveri
che accendono ricordi di rossi amori.

Fuochi di larve fiammelle evanescenti
che si spengono nel sarcasmo sdentato.
Si sta tutti in attesa dimenticata
in fila grossa coriandoli buttati sulla vita.

Col viscidore d'un lombrico lento un pensiero ride
delle nostre carcasse e oltre questo muro di confine
ci fa guizzar davanti la patria di giovinezza eterna
come se noi qui fossimo soltanto brevissimi esuli.

Attesa alla stazione
Un silenzio di sole sparso sul volto d’edifici
che difendono nei lati nascosti penombre smarrite
dove si raccoglie la malinconia d'arbusti ricordi
rinsecchiti dall'arido tempo trascorso

pare muta preghiera nel pomeriggio senza parole.

Il pendolare della memoria non fa soste
al bar della stazione per un sorso d’oblio
il tempo ladro gli ha rubato il fermo immagine
umano pendolo ondeggia tra presente e passato

pare il va e vieni delle formiche sul passo della porta.

Ora attoniti aspettiamo lo sviluppo dell'embrione
sostanze pronte per un viaggio d’avventure
tutti trasportano su questo treno giorni di vita
in pacchetti trasparenti

anime viventi di molecole col volto dolce di parenti.

E' ferma l'ansia del pomeriggio sui balconi degli edifici
finestre cieche gelose di scene private
pende sul nero dell'asfalto l'angoscia dell'attesa
quando un lampo improvviso rompe un vetro che s' apre

e mostra il mistero d'un grande vuoto imbuto nero.

Dentro quel vuoto ti cali ridendo, guardando il mio pianto
io cerco ancora nell’aria l’impronta del tuo corpo
che già vola sul filo dell’alta tensione
nella nuvola immersa di molecole esplose

mentre il sibilo del treno che parte mi rinvia all’attesa.

Il respiro di ogni giorno
Dalle vessate penombre tradite improvvisa
la luce fora lo spazio che ampio sveglio respira.

Ha inizio la gara dei pendolari appesi ai tubi
lucidi acciai intorno a cui son contratte le dita.

Dintorno fragranze e cerchi di risa e parole
a incoronare il sole assorto in altri programmi.

Si rincorrono le ore che scorrono sempre avanti
lungo la corsia del tempo che precorre la follia.

Il ritmo scandito dagli affari impregna l'aria
e fa consumare nei bar più veloci ristori.

S'allarga, si contrae il respiro del giorno
nel contare i geni prodotti da esportare.

Rami folti di generi nuovi forre d'immondizia
gli scarti della produzione. Ed è già stanca la sera.

Prima di addormentarsi
Tremante la mano s'avvicina al volto d'un fiore
che lo stelo esitante appena sostiene
oracolo d'un sogno tra sentieri d'asfalto
osservati dallo sguardo freddo di finestre chiuse.
L'angoscia sopita è già pronta sul ciglio della paura
a sgusciare indifesa se improvvisi fantasmi
sorgono a minacciare la domestica quiete.
Ma ora si ritira timida e riservata nella notte
e si chiude nella scatola di cartone
prima che arrivi lo stuolo di lucciole
a seminarle intorno bagliori di temuti pensieri.
Frullano come passeri neri
seduti sul filo dello spazio astratto
e ciarlano di eventi come telegiornali
i ricordi del giorno trascorso
fette di vita tagliate in un evo infinito:
la memoria liquida nel riposo e libera
dilaga in vissuti e oltre
mescola fatti e finzioni, irrompe nell’inconscio
devasta le certezze fino a quando il sonno non l’annienti
nell’attimo che sfugge al sapore della morte.

Identità rigenerata
I nomi vedrò su cime innevate
infondo alle valli anime imbiancate
i fantasmi dei giorni a doppia faccia
che il tempo ironico lento sfilaccia.

Irato, triste, allegro o sfortunato,
quando dalla coscienza avrò spellato
la sacca membranosa della storia
senza orpelli starò nella memoria.

E il nome sfoggerò per il vestito,
poi l'anima con stanca filosofia
in un argomentare noto e trito

e in monocromatica fotografia
riprodurrà la sagoma dell'essere
dando la spiegazione del mio esistere.

La buganvillea
Una rossigna spuma senza odore
freme al soffio dell'aria che la sfiora
e s'impone chiusa all'osservatore,
la frustazione amplia che mi divora.

Grondano i pensieri liquidi viola
di te che rotta dalla siepe leggi
parole contenta d'essere sola
che più la mia felicità non reggi.

Sul disperso rosso sciama l'attesa
s'allunga nel tempo contando i fiori
ostinata la mia presenza appesa.

Ghirlande di foglie ondeggiano fuori
evase dalle mie vuote speranze:
piangono sulle nostre amate usanze.

La cisterna
Come neve nel sarcofago i fiori
stanno, sparse le corolle sgualcite;
seri fantasmi accorrono agli odori,
effluvi tenui di giovani vite.

Stan le bianche corolle addormentate,
ferme nelle ore che rubano il sangue;
di sopra altri fiori alle balconate
risate inviano al giorno che langue.

E pure il cielo è felice lontano,
in sorda selva la città rappresa.
Invano aspettano l'amica mano.

Dal buio bianchi escono due steli
gridono i vivi all'amara sorpresa:
suono di trombe, poi calano i veli.

Un mistero
Dalla fresca penombra del pensiero
timida emerge una strana certezza
ed avvolge di luce opaca il sentiero
tangente l’alto dogma che sbattezza.

La sintesi è la sfera di speranze
che come baccanti ballano sull’aia
mentre dalla terra larvate istanze
s’alzano come fumi alla focaia.

La scena è una molecola fremente
che come un cuore si contrae e dilata
erompe dai confini della mente

entra nel ventre e vi fissa la data
di quando il segmento dovrà finire
con il mistero ancora da chiarire.

Macchine
Cerco per le strade liberi volti
amici, mi scuotono lamentosi
veicoli doloranti nei folti
meccanismi lubrici ed arteriosi.

Non esiste lo spirito foriero
Del valore umano, siamo reperti
col cuore a camme e petrolio per siero,
i pensieri da bitume coperti.

Moscardini persi nel plasma muto
elettroni folli in silente giro.
Strani folli fermi in nero velluto:

tutto scatta veloce al capogiro.
Poi masse d’aggrovigliate lamiere
buttano sangue nelle pattumiere.

Nebbia
L'orologio scuote il tempo in silenzio
e rampollano luci da uno schermo
verticale tra profumi d'assenzio,
mentre si emerge da un sogno raffermo.

Aggregato condenso e viscerale
al ritmo del CD scorre nel vento
nascondendo alle finestre il frontale
di un palazzo turbato e macilento.

Un timore leggero e scuro emerge
invade lo scenario cupo e denso
e i costrutti d'ogni giorno sommerge.

Nel pensiero si dipana un nonsenso
mirando al lavoro ch’altrove aspetta
fatica in attesa, umana disdetta.

Potere
Tu che precludi ai miei sogni
la strada per trasformarsi
realtà, o mia carne, potessi
io ridurti cielo in cui bere
lungamente il filtro
dell'amore!

E tu, luce opaca e falsa,
che trafiggi i miei sogni
col serto orrendo del mondo,
di cui ti fregi, potessi
renderti dolcissimo alito
che sospinga la mia fantasia
nei meandri dell'eternità felice

Da "Parole bianche", 1968

Metempsicosi
Va là! Anima fedifraga e inquieta,
forse che ti contenga questa gabbia?
T'effondi nel tepore della creta
da dove poi migri in conca di sabbia.

Spasmi t'avvinghiano per il confine
che non travalichi: l'oscuro prato
cosmico che t'ha atomizzato il fine.
Pallida vibri nel fisso passato,

recriminando bieca la foresta
donde sei evasa d'atomi miscuglio
per dare vita a questo amaro intruglio.

Quando arriverà la tua nuova festa
allora d'un impalpabile strazio
inonderai altri siti dello spazio.

Nostalgiche albe (Nuova gioventù)
Cuori spogliati sotto la variabile
volta del cielo, pieni di recondita
tristezza, come limo di fiume
che lentamente scorre pei sentieri
della terra.

Sui lunghi capelli non i posa la mano
tremante d'amore, la tenera mano
gravida di dolci pensieri.

Si è dissolto sulle corolle
il sogno, come frementi ali di farfalla,
come luci d'alba sorridente di rossori.

Nell'alcova notturna fiorirono
le speranze ed i gigli della notte
illuminarono il cuore,
ma gli anni già gravidi partorirono
le delusioni.

Siamo usciti al sole
ed abbiamo trovato macerie, i prati
distrutti dalle bombe, i fiori
calpestati da piedi di belve.

Perchè gli altri col pesante grumo
d'antichi pregiudizi ci hanno ingannati?

Ed ora vaghiamo come piume
sospinte dai venti
e cerchiamo invano nella nostra libertà
la dolcezza della vita.

I fiori stanchi hanno reclinato il capo
e si sono chiusi in eterno silenzio
sotto la luce stanca della luna.

Al di là della vita
non vediamo che la morte
e tutto lasceremo alla terra che niente
ci ha dato.

Siam pazzi tesi sull'orlo della follia.
Andiamo tenendoci per mano
verso il nostro altro domani.

I fiori si rialzeranno dietro i nostri passi
e volgendoci indietro
vedremo le nostalgiche albe:
giorni felici buttati al vento.

(Da “Parole bianche”, 1968)

Debussy
Veli chiari, eterei sogni, onde brevi,
venti accesi e spenti, sospesi bianchi,
aliti di donna ora caldi e lievi,
ora suoni su vene d'aria, tesi.

Polle sgorganti da ruvide pietre
mi bagnano i pensieri nella sera,
rincorro anime in fantasie tetre,
moltitudine estatica in preghiera.

Pur se ora non spara la Grande Bertha
cupa la guerra del diciotto vibra,
ancora semina morti sull'erta

della moderna Africa in armi esperta.
S'erge statica nel canto che sfibra
la cattedrale gotica deserta.

Tra viali e cipressi
Eccolo! silente, furtivo, sfumato
tra le ombre dei cipressi
ai margini inedificati del suburbio
effimero simulacro di città eterna.

Col microscopio della mente
cerco tra i suoi grumi profondi dentro la terra
le orme per gli evi lasciate dai morti.

Vedo sonnolente larve
andare per malli teneri
e, più dentro, molecole sospese
nel magma abbracciarsi a molecole,
rompersi di membrane,
un appiccicarsi caleidoscopico di acidi
nel germogliante tripudio della vita.

Vedo la feroce energia dei nuclei
vagare per l'universo in libertà insolute.

Carne di carne torno sui viali
tra tombe terragne e cespugli di viole.
Le date sui marmi mi rendono i tempi delle vite,
colpi di timpano d'un rock salmodiato.

Dietro agli occhi delle foto coscienze svanite.

Mi sento polpa di cipresso. Le radici avvizzite
immerse nella notte cercano la linfa.
Tra tumulo e tumulo.

Tenue vagare nello spazio del tempo
A lato la pira composta
e sulla pira il mio corpo.

Si ergono le fiamme impetuose,
avvolgono la luna obbligata.

I ricordi incalzanti delle feste gioite
sono fatue stelle di fuoco
che trepidante e svelta
la cenere copre, stillata dal tempo.

Esala vagante amorfa sembianza,
fragile vela di nuvola tra molecole di luce
abbagliante.

Asceta, per anni remoti canuto,
viandante ritorno all'oggi
e mi odoro terra lenta franante
nella plumbea nebbia
dello spazio futuro.

Si scioglie il mio esserci felice
sul bianco di una piccola storia,
si scioglie sulla pira che arde.
La fiamma ricama nel buio
merletti e speranze
di altra eterna presenza felice.

Dopo la pioggia l'incomprensione
Le notti
e poi i giorni
le sere
e poi notti diverse
mai in fotocopia.

L'acqua fresca
di frigorifero,
non di sorgente
ormai dimenticata,
preme la lingua.

I baci freschi e fragranti,
allora,
premevano sul cuore
sapevano di carne.
Ormai dimenticati.

Città del cuore rosa dal fuoco
diluvio di fiamme, amori bruciati.
Così il nostro.
Disperso tra cenere e lapilli
di sorde parole.

Circolo di babele
per noi due
tu sopra
io sotto
divisi dal frastuono:

Anni di discorsi
giuramenti
promesse
ora suoni
senza il sapore del sangue.

Euridice
Euridice, da Evi eretti in pianure di luci
dove arriva la memoria attraversando il sogno
contaminato da note di musiche reali
diffuse tra i vibranti gangli della materia
come numeri astratti danzanti su infinite nere lavagne
nella sera ritorni con l'effigie impalpabile
di chi non è
sulla soglia dell'essere.

Sulla pianura antistante le porte della notte
dove la pioggia cade con fili di fotoni,
dove il suono pellegrino s'accompagna al Tempo
che diluisce in parole scarne l'infinità dello Spazio
a te mi arrendo e varco il confine di soffice tepore
per cercarti fanciulla nel mio sogno
tra cose e non cose, tra parole di carne
nel silenzio del nulla.
Euridice!

Solo nella sera incipiente
Il vecchio sulla panchina di duro verde
numerando le rade formiche
racconta ad esse
come pastore nel pomeriggio al gregge
di quanto era forte quando il tempo
ancora non l'aveva punito.

Le parole in fila, grigie tremanti,
cadono nel sospiro della ventata erbosa.
Vede scurirsi il giorno,
incastonarsi negli scaffali del tempo,
altro incunabolo smarrito nel buio del museo
custode inerte.

Il vento bianco di ottobre
gli porta ricordi in un cesto di foglie
sentori d'affetti troncati
scale, camere, tavoli con stoviglie pulite
bicchieri rossi di vini fragranti
applausi vivaci.

Ali di farfalle, nomi e verbi
ora sembrano alieni vaganti
cortei di formiche frementi
alla scoperta di un granello di pane.
Rapito deluso dall'indesiderata sera
franata improvvisa.

Terre natie
Perfora veloce gli agrumeti
l'autostrada bivalve,
taglia con i lampi
dei veicoli fluenti
il verde smalto delle foglie,
si chiude all'orizzonte
tra le chiome dei pini
immerse in un cielo
di nuvole setose.

Come una folla
di tremolanti nere farfalle
dalla foschia traspare
la città lontana
finalmente tacitata
dallo spazio di immoto silenzio.

La pianura d'autunno
incanto di malinconica esistenza
vestita di nuove verdure
con sapori di familiari affetti
distende le braccia
volgendosi folta di cespugli al mare.

L'acqua la indora di sabbia
e già la prepara all'estate
dimora di morbidi glutei
e seni bianchi e neri
che le lingue dei bichini
lambiscono in fragili abbracci.

Pianura visitata dai turisti viandanti
aperta col cuore delle primizie
a me chiusa per gli anni ivi sepolti.

Fuga di luci nella notte
Ansimante m'appari dietro la finestra
anima luminosa nel buio freddo della notte.
Narri di intime storie, di carezze,
di incubi che la veglia diurna ha creato.
Fuori le stelle indifferenti
vagano per gli spazi siderali.

Dietro le cortine percepisci
sentimenti d'angoscia.

I lunghi percorsi di luci per le vie
segnano le misteriose penombre
tra i muri e le case.
Al bivio senti alitare la morte
al lieve agitarsi delle ruvide palme.

Ombre si addensano mutevoli, fugaci,
vanno sul filo dei pensieri neri,
quiete e solitarie contro le luci
che splendono in alto immerse nel buio,
intreccianti muti dialoghi
con le cime degli alberi in fila nella notte.

La fuga dei lampioni si perde lontano
a brani illuminando le vie e i tetti
fino all'ultimo cenno di strada
e si spegne improvvisa all'annuncio
della vuota campagna assopita.

Notte sulla riva di un fiume
Ai bordi della riva suicida
mollemente calata
nell'acqua sonnolenta
la ghiaia traccia filamenti opachi
tra cespugli che il fiume esangue
non disseta.

Smarrito nella notte
seduto sul masso
ascoltando i germoglianti sussurri del buio
frammisti - mormorii da chiese -
all'uguale acciottolare dell'acqua
scorgo
attraverso furtive trasparenze
il corpo nudo steso sull'erba.

E' un sogno pagano
non c'è traccia
di un dio sovradimensionato.
E' un sogno senza titoli
non in testa, nè in coda.
E' senza sonoro.

Il mio corpo nudo
lieve
come il profumo d'erba
che esce da latebre del fiume
si posa sul tuo.
Foglio su foglio senza parole.

L'amplesso è intenso
di sole
in mattini d'agosto,
poi di ghiaccio,
muore tra flussi di vuoto
come la memoria di un vecchio.

La rugiada piove
sulle due larve,
scioglie l'amore e la carne.
Il sonoro di una rana
improvviso
frantuma il sogno
in scaglie di corallo.

Notturno
Impietrito dal dolore
ho gli occhi fissi nel cielo
dove la rosa bianca
sta attonita senza profumo.

Ti cerco fra le stelle.
E' là che sei volata?

Cerco tra le Pleiadi ed Orione
i tuoi eterni no.
Ti negavi anche al vento.

Ora sei tu il vento e invano
mi mandi con le erbe tremanti
verdi messaggi.

Per una strada di campagna
Sta reclinata una rosa
su un muro arso di sete.

La pioggia è un sogno
che dura un mese,
ma il profumo è più intenso
che porta il vento
insieme alla polvere
a brandelli di giornali
a frammenti di plastica grigia.

Il muro sta immobile
nella fissità dell'aria afosa,
limita l'asfalto,
chiude lo sguardo all'al di là.

Sulla strada abbandonato, straziato
giace il cane.
Un rivolo di sangue
serpeggia, cammina fino al muro
che brandisce in cima
cullata dal vento
una rosa.

Viaggio verso mete ignote
Cinque alberi neri pellegrini
si ergono esili sul filo lontano della collina.
Hanno le fronde fissate all'alto dei cieli
tese nel fremito d'una preghiera.

Tarde mandrie le ombre del meriggio
declinano pei fianchi ossuti dei calanchi,
scendono fino a valle,
accarezzano la ghiaia del fiume spento.

La traballante mia quattroruote
col moto sconnesso
mi droga pensiero e cuore,
con curve repentine
mi cambia la vista di luci ed ombre.

Per la strada fluiscono acri ricordi.
Proseguo per dove par che rinasca l'uomo,
ma io son sempre lo stesso
solo con più scempio
d'anni e di cuore.

Ricordi da un cortile
Sto cercando ancora nel cortile della memoria
l'uscio per salire le scale che girano intorno al tuo
nome.
Nell'androne vuoto del ricordo giunge nebbiosa l'eco
di una tua parola, sale chiusa nel silenzio
meccanico dell'ascensore col tuo profumo amato di verbena,
s'immerge e svanisce nell'opaco azzurro di un finito
amore.
Cade sui gradini dei pensieri, sembra, una lacrima,
forse è illusione tiepida che aleggia sotto la volta
marrone.
E' il rassegnato cercare tra fiori appassiti la piccola
formica
che amavi accompagnare sulla punta del dito.

Caducità
Incastonate nell'ordito del tempo le ore
vanno deserti cortei verso simulacri di marmo.

Concerti di ceri e di fiori.

Ed appassiti i fiori
anche l'orma di me è sabbia dissolta.

Neppure il ricordo, mai più,
è del mio vivere fremito lungo la schiena
di provvisorio vivente
tu su questa mia terra.

Un quieto temporale
Oggi, prigioniero nella stanza dei sogni,
la musica avvolgente i pensieri
come un bozzolo che rifiuta la luce,
ascolto il narrarmi della pioggia
battente sui vetri con frammenti di plettri
ed evocante furtiva un amore lontano.

Viscido e stanco ondeggia il pensiero
tiepido rosso gambero su ruvido scoglio.
Le nuvole, anime nere percorse da lampi,
aprono spazi a paure sorgenti da inconsci recessi.
Immerso nel recinto dei sogni ti ricordo
anima e carne perdute col fragore dei giorni.

Le campane del vespro
A sera solo voi che abitate intorno al sagrato
sentite le campane del vespro
modulare frammenti d'una stanca fede.

Noi persistenti lungo i viali
sui quali si spegne scialbo il sole
sentiamo l'aria dilatarsi nel silenzio.

E ci distilla in cuore
la malinconia delle ore dimesse
dei quadranti vuoti

la nevrosi del tempo senza colori
del deserto dei minuti senza impegni
dei letti alcove d'infelici sogni.

Lo psichiatra ci consiglia un po' di valeriana
per addolcire il calar della tensione
ed eventualmente la pratica del sesso.

Un tempo si chiamava amore
un mitilo un fossile d'aragosta
un putto senza frecce

nell'anticamera fredda d' una palestra

L’ultimo salto
Larghe frasi dorate scrive il sole
sulla scena d'alberi mare e cose
s'insinua nei dialoghi d'ombre e aiuole
accende fronde di memorie ansiose.

Ruvida roccia taglia la coscienza
nei cui antri galleggiano ricordi
fantasmi cullati dall'esperienza
sciolta nel magma acquoso dei primordi.

La strada è sempre arata dal mistero
insieme timidi la percorriamo
nello spazio d’un breve tempo nero.

A sera la striscia d’oro invidiamo
che svanisce felice nel cobalto:
sempre pronti a negar l’ultimo salto.

Al piano bar
Un'ora nel bar a bruciar la mente
intrisa d'alcol ruffiano alla fine
lenta d'un giorno gretto: strana gente
vellica sogni aggrappati a magline.

L'abbraccio si scioglie nel fumo viola:
io parto per sempre, giro la ruota.
Dal piano bar rintocchi alla moviola
lenti evadono sulla strada vuota.

L'ultimo fuoco del giorno l'alone
sparge sul molle saio della pelle:
il colore giallo dell'aria riarsa.

E' autocoscienza d'una consunzione
nel turbinio cosmico di stelle
per me smarrito come nube sparsa.

Dopo
Saranno orizzonti infiniti e bianchi
l'altre scoperte che ancora faremo
quando spento il fiume ciottoli ai banchi
eterni nuovi alunni siederemo.

Ora razzie spietate nei vuoti
sogni che sbiadiscono sul finire
della riva dove crescono voti
ch'eterni crediamo di costruire.

Le tese ragnatele ricamate
di parole infinite in versi e in prosa
che rutilano con ali iridate,

Dopo, stracciate vesti d'una sposa
si slaccia col divorzio il matrimonio:
s'estingue il Pan nel nero del demonio.

Memorie
Salmastra e azzurra la memoria evolve
sull'erta degli anni e assetata beve
refoli di eventi. Né si risolve
di lasciar la storia futile e breve.

Impiantito di sentimenti lievi
percorso d' avventure senza senso
miasmi di fiori disperati e grevi
nelle grotte entrano del mio dissenso.

Malli verdi mi pungono con spine
i rimorsi per quello che avrei fatto
e per quel che non ho portato a fine.

Il sole ha chiuso lo scambio e lo sfratto
m'ha imposto dal passato. Nel presente
ora slarga la memoria invadente

Vita e morte
Chi ha bagnato di pianto
le tombe delle madri?
Hanno fatto cadere gocce di sangue
sulle tombe dei figli.
Quanti cimiteri,
come greggi di crisantemi senza odore.
Il sole ha squarciato le nubi
e, dirompendo la malinconica nebbia
dispersa nell'aria, come eterei veli
dimenticati dal vento,
ha brillato sui marmi,
mostrando ai vivi il viso dei morti.

Immense pianure alitate senza respiri,
voci di vento piangenti per oscuri sentieri
del cielo.
Plaghe sconfinate rovesciate sul dorso
che rivela i lugubri segni del tempo.
Nel grascio vortice delle cose
si aggira stupita l'anima del vivo.
Nel grascio seno della terra
giace l'anima del morto.
I rivi dei fiumi piangono
sulle tombe dei rospi.
Ed una mano scarna si tende
nel solido buio della morte
per ghermire la calda pelle dei vivi.

Da “Parole bianche”, 1968.

Debussy
Veli chiari, eterei sogni, onde brevi,
venti accesi e spenti, sospesi bianchi,
aliti di donna ora caldi e lievi,
ora suoni su vene d'aria, tesi.

Polle sgorganti da ruvide pietre
mi bagnano i pensieri nella sera,
rincorro anime in fantasie tetre,
moltitudine estatica in preghiera.

Pur se ora non spara la Grande Bertha
cupa la guerra del diciotto vibra,
ancora semina morti sull'erta

della moderna Africa in armi esperta.
S'erge statica nel canto che sfibra
la cattedrale gotica deserta.

Sospetti
Una nuvola molle è stesa sulle
nostre stremate certezze e sospetti
gialli e lenti sparge sopra le brulle
parole che ora accerchiano dispetti.

Presagi d'incomprensione silente
corrodono quel tenero linguaggio
che non si parla più concordemente:
oggi la cesura sta al nostro ingaggio.
Un'ampia distanza gelida e nera

frapposta come terra di confine
ci offre ostili nel bacio che dispera.
L'ombra ci immerge in crepe senza fine,

ti cerco in quell'altra, tenera amante,
ti scopro amara, ma ancor più eccitante.

Fantasmi
Il bianco scabro dei lampioni imprime
su finestre spente l'indefinito
vuoto di legami attorno-comprime
fiori grevi d'un destino finito.

Sono cerchi d'angoscia le penombre
della strada lenta-spenta nei bui
angoli gremiti di viscid' ombre.
Affanni senti di presenze altrui.

Suoni rochi di perduti fantasmi
che ti sobillano il corpo e nei miasmi
d'incesti temuti indifesa anneghi.

Agli occhi stupiti la vista neghi
le ciglia scure chiudendo-tremanti
del nero andare d'ignoti viandanti.

Le campane del vespro
A sera solo voi che abitate intorno al sagrato
sentite le campane del vespro
modulare frammenti d'una stanca fede.

Noi persistenti lungo i viali
sui quali si spegne scialbo il sole
sentiamo l'aria dilatarsi nel silenzio.

E ci distilla in cuore
la malinconia delle ore dimesse
dei quadranti vuoti

la nevrosi del tempo senza colori
del deserto dei minuti senza impegni
dei letti alcove d'infelici sogni.

Lo psichiatra ci consiglia un po' di valeriana
per addolcire il calar della tensione
ed eventualmente la pratica del sesso.

Un tempo si chiamava amore
un mitilo un fossile d'aragosta
un putto senza frecce

nell'anticamera fredda d' una palestra.


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