Racconti di Maurizio Mazzotti


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Leggi le poesie di Maurizio

Il cuore danza con i ricordi.

Dedico questo racconto alla mia adorata moglie Isabella, compagna della mia vita.

Prima parte
Ci sono luoghi, come quel pezzo di strada dimenticata, che sembrano non siano mai esistiti: due lunghe fila di case abbattute nei primi anni settanta che accompagnava via dell'Idroscalo fino alla foce del fiume Tevere. La gente che ci viveva fu dispersa negli alloggi popolari della periferia di Ostia e con essa le loro storie e il loro passato. All'interno di questa comunità vi erano famiglie migrate dalla Sardegna e dalle Marche, altre discendevano dai romagnoli che avevano bonificato l'area alla fine dell'ottocento. In ogni famiglia c'è una storia di successo o di grande disperazione che può rimanere nascosta tra le mura della casa per anni.
In ogni vicenda, anche se immaginaria, c'è sempre un fondo di realtà ed è su quest'ultima che per lunghi tratti questo racconto, posa l'ispirazione. È reale il viaggio verso Santiago e noi che lo raccontiamo: Isabella e Maurizio. I luoghi sono reali, le vicende narrate sono un misto di realtà e finzione, i nomi dei personaggi sono immaginari. In alcuni casi, dove mi è sembrato necessario, ho drammatizzato liberamente i fatti; in altri ho immaginato che potessero finire nel miglior modo possibile. Ogni volta che incontro un senzatetto penso che dietro di lui ci sia una storia simile, e quanto è poco quello che vedo in quell'attimo, prima di riprendere la mia strada.

***
Fermata non richiesta
Quando la vita sembra scorrere nella sua semplice quotidianità: famiglia, lavoro, figli, nipoti, mutuo della casa, feste … ecco che il destino, la fatalità o in qualsiasi altra cosa chiunque di voi creda ci mettono la gamba.
Quello era il mattino di una domenica come tante altre. Rientravo da una nottata passata su uno scoglio a pescare. Nonostante il cestino delle prede fosse vuoto ero soddisfatto e come sempre avevo apprezzato la pace, il silenzio, la solitudine che solo una notte in riva al mare ti può regalare. Ancora pochi chilometri e sarei giunto a casa, quando a un incrocio un'auto sfreccia senza rispettare il segnale stop; un'altra auto guidata da una donna con due bambini a bordo evita la collisione con una stridente frenata. Dopo qualche secondo di confusione l'auto con i bambini riparte e la donna dal finestrino inveiva verso il potenziale pirata della strada. Voi vi domanderete cosa c'entra questo con il destino? Adesso tenterò di raccontarvelo.
Raggiunsi l'auto del pirata che si era fermata poco più avanti, abbassai il finestrino e chiesi all'autista: ? ti rendi conto che cosa hai fatto? C'è mancato poco che facevi una strage! Il pirata mi guardò per pochi secondi e si avventò contro di me. Mentre tentavo di uscire dall'auto, ebbi giusto il tempo di mettere un piede a terra e quell'uomo mi sferrò un calcio colpendomi poco sotto l'altezza del cuore. Quando riuscii a scendere dall'auto, respiravo con difficoltà e un velo nero mi calò sugli occhi. Tutto davanti a me era confuso. Riuscii a intravedere l'ombra che mi colpiva con calci e pugni. Abbozzai una difesa ma riuscii solo a coprirmi il più possibile cercando d'evitare il peggio. Sentii alcune voci che urlando cercarono di convincere quell'uomo a desistere. Quando tutto sembrava terminato, mi trovai a terra e respiravo con difficoltà. Qualcuno mi rimise in auto e restai lì fino a quando la respirazione e la vista più nitida, mi consentirono di avviarmi verso casa.
Frastornato, giunsi a casa e quasi a voler togliere dal mio corpo quella brutta esperienza, per prima cosa m'infilai sotto la doccia e mentre ero sotto l'acqua, iniziai a tossire sputando sangue. Pensai che qualche colpo mi avesse ferito all'interno della bocca. I colpi di tosse diventarono frequenti e capii che il sangue proveniva da qualche ferita più profonda. Mi tornò in mente il primo calcio che mi aveva colpito al petto.
Dopo circa due ore poiché la situazione non migliorava, mi recai all'ospedale. All'accettazione del pronto soccorso tentai di spiegare l'accaduto ma non feci in tempo. Ebbi un malore e mi risvegliai disteso su una barella con una grave crisi respiratoria. I medici e gli infermieri si alternarono velocemente intorno a me. Mi soccorsero e dopo poco mi ripresi. Decisero di sottopormi a una TAC. La diagnosi? Fu come se avessi pestato una mina: lacerazione del polmone e quello me lo aspettavo ma il tumore al rene no, ecco la "gamba tesa" del destino. In un attimo le certezze, la routine, furono spazzate via. Pensavo e mi domandavo: perché proprio a me? La risposta era sempre la stessa, perché a qualcun altro? Fino a quel momento avevo solo sfiorato il problema durante la mia vita, quasi come se certe faccende non riguardassero la mia persona. Ogni tanto mi arrivava la notizia che qualcuno se ne era andato via con quel brutto male. Devo dire con tutta sincerità che non avevo mai pensato, fino a quel preciso momento, di trovarmi dalla parte di chi avrebbe dovuto impegnarsi in una gara cui risultato più incerto non si potesse immaginare. Fui trasferito al San Camillo di Roma e dopo una serie infinita di esami fui operato il 4 gennaio 2013. Il tumore fu tolto insieme al rene. Adesso voglio risparmiarvi le mie ansie preoperatorie, che sono del tutto comprensibili e immaginabili. Dopo l'intervento fui integrato in un programma di controlli periodici che sarebbero durati almeno cinque anni.
Tornai a casa dopo un mese, per fortuna non fui sottoposto a terapia chemioterapica. La convalescenza andò liscia come l'olio. Se non ci fossero stati i dolori postoperatori e una cicatrice che mi attraversava verticalmente dal centro del petto fino alla zona pelvica, si poteva asserire che tutto andava per il meglio.


La convalescenza
Che cosa può fare una persona in convalescenza chiusa in casa? Leggere? Guardare la televisione? Dormire? Mangiare? Tutto è buono per ammazzare il tempo, anche se questa è una contraddizione perché tutti noi vorremmo che il tempo non finisse mai e che ce ne sia il più possibile a disposizione. Spesso, ripensando al giorno dell'aggressione, non vi nascondo che nei momenti più cupi la vendetta fu il mio pensiero ricorrente. Poi c'è il rovescio della medaglia: e se non mi avessero aggredito? Non avrei scoperto il tumore al rene. Forse la fatalità, il destino, mi aveva assegnato un calcio di rigore pareggiando i conti salvandomi la vita. Passò poco più di un anno e un giorno mentre guardavo distrattamente un film in televisione, fui attratto dalla trama: un uomo ricevette la notizia che aveva perso l'unico figlio in un incidente mentre percorreva il Cammino di Santiago. L'uomo, un medico che esercitava in una città statunitense, partì per la Francia per riportare la salma del figlio a casa. Quando arrivò nel luogo dove era custodito il corpo del figlio, pensò all'ultima volta che si erano visti: all'addio burrascoso e pieno d'incomprensione che l'aveva visto protagonista. Un gendarme, lo convinse a continuare il cammino che il figlio aveva iniziato e bruscamente interrotto a causa del mortale incidente. L'uomo decise di esaudire il desiderio del figlio e percorse il Cammino con le ceneri del giovane cremato a Saint Jean Pied de Port, (punto di partenza del cammino francese) spargendo le ceneri del figlio in ogni tappa, pensando di esaudire le sue ultime volontà. Durante il viaggio verso Santiago, il padre cercò quel dialogo, "spesso anche per noi così difficile con i nostri figli" e le risposte alle mille e più domande che non aveva potuto fare al figlio, durante il viaggio verso Santiago.
Ora non vi voglio raccontare tutto il film perché forse qualcuno potrebbe essere interessato a vederlo. La trama mi rapi e s'insinuò la voglia di fare quel Cammino. Dopo l'intervento non avevo camminato più di qualche metro, giusto il necessario per raggiungere l'auto. La sera misi a conoscenza mia moglie Isabella della mia intenzione, gli racconto il film e della necessità che io torni a vivere una vita normale, pormi degli obiettivi, raggiungere delle mete. La sorpresa fu che senza pensarci molto Isabella rimase entusiasta della mia proposta. A Febbraio iniziammo l'allenamento. Tenendo conto della durezza del percorso decidemmo di aumentare gradualmente sia il tempo e la distanza, fino a percorrere circa trenta chilometri al giorno, lunghezza media delle tappe del cammino. Spesso durante le faticose camminate mi sono chiesto, se mai mi fosse venuto in mente di andare a Santiago de Compostela a piedi se non mi fossi operato di tumore? Non ho la prova del contrario, ma i fatti dicono di no. Da quel fatto traumatico avevo ereditato una nuova vitalità e forte curiosità per tutto quello che c'era intorno a me. La prova di questo? Prima di allora non avevo mai sentito parlare del Cammino de Santiago e ne ignoravo totalmente l'esistenza e perché esistesse. Quando non mi allenavo, m'informavo nella rete sulle motivazioni che spingevano uomini e donne di ogni nazionalità, di tutte le età, verso Compostela. C'era chi lo percorreva per il motivo cui era nato, cioè un percorso di fede, altri semplicemente come un impegnativo sentiero di trekking da percorrere nel più breve tempo possibile, altri delusi dalla vita sentimentale speravano diluire le pene d'amore nella fatica, dare il significato all'esistenza nei lunghi ottocento chilometri che dividevano, San Jean, da Santiago. Chiedendo in giro mi resi conto che ero uno dei pochi a non conoscere il Cammino verso Compostela e che vi erano più itinerari che partivano da ogni parte d'Europa. I più conosciuti il Cammino del nord, (percorso da San Francesco ottocento anni fa, nel milleduecentoquattordici) questo attraversa le quattro provincie a nord della Spagna: Euskadi, (Pais Vasco) Cantabria, Asturia e Galicia, il cammino portoghese, che sostanzialmente collega Lisbona a Santiago. Il cammino Aragonese, come ne enuncia il nome, attraversava la regione aragonese fino ad arrivare in Navarra, in passato percorso dai pellegrini italiani che provenivano da Arles o da Ventimiglia diretti a Santiago risalendo la valle dell'Aspe e valicare i Pirenei al passo di Somport, infine il Cammino francese. Premesso che ce ne sono altri, ma già questi nominati mi avevano mandato in confusione e poi la trama del film che mi aveva ispirato si svolgeva in quest'ultimo cammino.


La partenza
Isabella ed io ci allenammo fino al venticinque luglio del 2014. Tre giorni dopo ci imbarcammo all'aeroporto di Ciampino su un volo diretto a Bordeaux. All'arrivo salimmo su un bus per Bayonne e giunti alla stazione dei treni iniziammo a intravedere qualche zaino. Persone di ogni età e di ogni nazionalità erano in attesa del treno diretto verso San Jean. Lungo il tragitto, il treno si fermò a una stazione intermedia e capimmo che il treno non sarebbe andato più avanti perché quella tratta era stata soppressa. Fuori dalla stazione c'era una coincidenza che avrebbe completato il tragitto fino ai Pirenei. Sul bus c'erano molti italiani e uno di questi attirò la mia attenzione. L'uomo che viaggiava solo, poteva avere quattro o cinque anni più di noi. Osservandolo bene la sua fisionomia non mi era del tutto sconosciuta. Quando il bus partì alla volta di San Jean, la stanchezza prese il sopravvento e mi addormentai, mi svegliai quando fummo giunti a destinazione. Nonostante fosse la fine di luglio, la temperatura non superava gli otto gradi centigradi e sulla cittadina cadeva una pioggerellina insistente rendendo le strade lucide e insidiose. Girammo senza una meta precisa cercando un posto dove dormire e dopo vari tentativi andati a vuoto, pensammo di organizzarci con il sacco a pelo al riparo di una tettoia. Mentre eravamo già rassegnati e decisi ad aprire gli zaini, pronti a trascorrere la notte all'aperto, si avvicinò un giovane che stava con un gruppo di pellegrini. Per nostra fortuna era italiano e parlare con uno che ci capiva ci sollevò il morale e proveniva anche lui da Roma. Ci chiese: cosa fate ancora in strada? ? Purtroppo gli albergue sono tutti al completo e abbiamo deciso di arrangiarci qui. ?Venite con me ve lo trovo io un posto, dove dormire! Ci alzammo e lo seguimmo fino a un locale, dove numerosi pellegrini erano in fila per il nostro stesso motivo. In quella specie di centro di smistamento c'era un lungo tavolo, dove operavano una decina di volontari di nazionalità diverse e indirizzando i pellegrini verso un alloggio per la notte. Il giovane romano parlava facilmente più lingue e districandosi fra un operatore e l'altro trovò una sistemazione per lui e per noi. La pensione era una casa privata attrezzata con letti a castello: quattro per ogni stanza e un bagno in comune. Finalmente all'asciutto ci siamo tolti i vestiti bagnati e dopo la doccia in breve ci addormentammo. Il mattino seguente riorganizzato gli zaini, usciti dall'albergue ci mettemmo alla ricerca del fornaio, che secondo alcuni pellegrini ben informati avrebbe aperto molto presto. Acquistate due baghette e due succhi di frutta, uscimmo e iniziammo il cammino.


Prima tappa: Roncisvalle
San Jean, partenza del cammino francese, è una località situata sui monti Pirenei a 250 metri sul livello del mare. Per raggiungere Roncisvalle (la nostra prima meta) quel giorno avremmo dovuto superare il confine tra la Francia e la Spagna e dopo circa due chilometri valicare il passo (1400 metri sul livello del mare). Ancora non era giorno e la nebbia avvolgeva il paese quando iniziammo a camminare e nonostante consultassimo la cartina, non riuscivamo a trovare la direzione giusta. Alcuni pellegrini ci superarono con passo deciso e decidemmo di seguirli perché ci sembrarono più svegli di noi. Giunti sul ponte che attraversava un fiume quei pellegrini si fermarono e noi due, approfittammo per informarci se quella era la direzione giusta. Il rumoroso drappello era composto d'italiani, francesi e tedeschi e durante la conversazione capimmo che quei pellegrini si erano conosciuti la sera prima. Tra loro c'era anche il giovane romano che ci trovò l'alloggio e quando ci riconobbe, ci salutò con entusiasmo, poi ci disse che la strada era quella giusta bisognava salire e salire verso il passo, scendere nel versante opposto per altri sei chilometri e comunque seguire la freccia gialla o la concia (il guscio della capasanta) il simbolo del Camino de Santiago. I pellegrini ripresero il cammino e noi due nonostante tentassimo di tenere il loro passo in breve li vedemmo sparire lungo la strada.

                                                                             * * *
La nostra lunga preparazione fisica sembrava non sortire nessun effetto, la salita verso il passo si rivelò più dura del previsto. La pioggia non accennava a diminuire e la temperatura quel giorno non salì sopra i dieci gradi. I k-way ci proteggevano dal temporale tuttavia non consentivano al sudore di uscire e dopo circa cinque chilometri eravamo completamente bagnati dalla condensa che si era formata all'interno dell'anti-pioggia. Gli zaini iniziarono a pesare come se dentro ci fossero mattoni. Eppure prima di partire, avevamo selezionato il minimo indispensabile da portare con noi: una tuta leggera, due magliette termiche, tre paia di calze tecniche, due slip, un pantalone corto, un maglioncino di pile, ciabatte per la doccia, un paio di scarpe aperte tipo sandali, più il sacco a pelo leggerissimo. Inoltre il necessario per l'igiene personale poche cose:(un pezzo di sapone Marsiglia, dentifricio, spazzolino e un asciugamano di pile, il tutto diligentemente pesato prima, d'infilarlo nello zaino perché il carico sulle spalle non doveva superare gli otto chili. Un capitolo a parte lo meriterebbero i medicinali che portavamo per tenere a bada i nostri malanni. La nebbia ci avvolgeva e non si capiva bene, se a bagnarci fosse quest'ultima o la pioggia. Le scarpe che avevamo scelto con tanta cura, ben presto si rivelarono non adatte a quel tipo di sforzo. Qualche doloretto iniziò ad affacciarsi, a ogni passo si presentava una nuova fitta, guardai Isabella e gli dissi: ?a circa otto chilometri da Saint Jean dovrebbe esserci un posto per riposare che ne pensi ci fermiamo? Lei rispose: ? Si credo sia meglio; non pensavo di faticare in questo modo, sarà a causa della pioggia, o forse stiamo andando troppo veloci? Subito a smentire questa domanda sono un gruppo di pellegrini giapponesi sbucati dalla nebbia, ci superarono silenziosi come fossero fantasmi, per sparire pochi metri più avanti a noi. Ci scambiammo una rapida occhiata e non potemmo fare a meno di ridere: ?forse siamo un po' più anziani dobbiamo trovare il nostro ritmo e vedrai che dopo andrà meglio. Questa frase ironica ci accompagnò per tutto l'itinerario e nonostante lo avessimo cercato con zelo questo famigerato passo adatto a noi, non lo trovammo mai.
Mentre ironizzavamo sulla nostra condizione fisica, come d'incanto vedemmo sbucare tra la foschia una scritta in francese: Refuge Auberge Orisson. I giapponesi erano già seduti, intorno a delle botti che fungevano da tavoli sistemati fuori dal rifugio, con le tazze di the caldo tra le mani. Sembrò che qualcuno ci avesse catapultato, in una località turistica delle Alpi. Entrammo e il locale era pieno di pellegrini che si affollavano davanti alla toilette. Isabella ed io tolti gli zaini e l'antipioggia, dopo ordinammo due cappuccini caldi e ci mettemmo seduti intorno a un piccolo tavolo, anche quello ricavato da una botte. Rapidamente demmo un'occhiata intorno a noi e quasi tutti quelli che stavano seduti, avevano tolto le scarpe. Dopo un breve sguardo ci togliemmo le scarpe e i piedi iniziarono a pompare e a gonfiarsi. Alzammo le gambe sopra a una sedia ci togliemmo i calzini e per la prima volta notammo qualcosa che ci accompagnò per tutto il cammino: vesciche belle grosse e doloranti. Nel corso della preparazione al cammino avevamo letto in una guida che bisognava forarle con ago sterilizzato e filo lasciando quest'ultimo all'interno consentendo al liquido di drenare. Ci spostammo in un angolo appartato e praticammo per la prima volta quell'operazione. Con nostro grande sollievo la cosa funzionò. Disinfettammo i piedi proteggendoli con del cerotto e rincalzammo le scarpe. Nel frattempo la fila alla toilette si era sfoltita e noi ne approfittammo prima che giungesse un altro gruppo. Uscimmo dal locale e i giapponesi erano ancora lì che scattavano fotografie. Con nostro grande piacere la pioggia era terminata e un timido sole apparve da dietro le nuvole. Mentre anche noi scattavamo qualche foto ricordo, vidi arrivare l'uomo che notai la sera prima sulla coincidenza per San Jean. Per un attimo i nostri sguardi s'incrociarono e abbozzai un sorriso, allungai verso lui la mano, dove tenevo la macchina fotografica e gli chiesi se poteva scattarci una foto. Senza dire una parola, l'uomo si avvicinò facendosi consegnare la compatta, Isabella ed io ci mettemmo in posa sotto l'insegna del rifugio, scattata la foto, gli chiesi se potevo offrirgli qualcosa al bar. Lui accettò ed entrammo di nuovo nel rifugio. La curiosità fu tanta, la voglia di sapere chi fosse mi spinse a dire: ?da quando ti ho visto sul bus non ho fatto altro che pensare che tu fossi un viso conosciuto. L'uomo mentre mi fissava rimase in silenzio. Guardandolo bene pensai che avesse oltre i sessanta, forse più vicino ai sessantacinque. Aveva il fisico asciutto e il viso scavato, gli occhi tendenti all'azzurro, i capelli bianchi e abbastanza folti, la barba rada gli copriva parzialmente il viso. Lui dopo averci squadrato a lungo ci disse: ?da dove provenite? ? Roma, risposi aggiungendo subito dopo Ostia per la precisione. ?Anche io provengo da quella zona. Dentro di me pensai,"lo sapevo che era un viso a me noto". Comunque non ricordavo, dove l'avessi conosciuto. Isabella domandò all'uomo: ?come mai sei in cammino? Con un sorriso lui rispose: ?cercherò di capirlo mentre vado verso Santiago e voi invece perché? Io gli dissi: per colpa di un film e scoppiammo a ridere tutti e tre attirando l'attenzione dei presenti. A quel punto perfezionammo la nostra conoscenza con le presentazioni e una stretta di mano: ?lei è Isabella, dissi indicando mia moglie, ed io sono Maurizio. Quando lui pronunciò il suo nome: ? Rocco. Un'immagine si affacciò nella mia mente. Prima sfocata poi sempre più nitida: Una lunga strada che portava alla foce del Tevere e tante case basse senza soluzione di continuità sui due lati della via.
Mentre cercavo di riesumare i ricordi dell'infanzia vissuta su quella strada, si affacciò nella mia mente un fatto che per molti versi cambiò la mia vita e il mio modo di pensare.


Roma, (Ostia Lido, via dell'Idroscalo)
In quel periodo spesso giungeva sul lungomare di Ostia, Pier Paolo Pasolini, noi, un poco come facevano gli scugnizzi di Napoli che si vedevano sui film di De Sica, lo accerchiavamo per rimediare qualche lira. Un giorno uno di quelli caldi, in piena estate, il poeta scese dall'auto, cosa che faceva di rado, e con la sua voce teneramente stridula ci invitò a salire, promettendoci un premio se lo avessimo seguito. A gruppi di quattro ci stipammo sulla sua auto e lui fece la spola più volte, dal mare all'argine del Tevere, in un luogo, dove un tempo cresceva un boschetto di pioppi e pini, oggi non c'è più, sacrificato per fare posto al depuratore di Ostia. Quando ormai nel boschetto eravamo circa una ventina, ci chiese di sederci in terra e formare un circolo. Dal bagagliaio dell'auto tirò fuori delle tuniche bianche che noi indossammo. Dopo averne indossata una anche lui, si collocò al centro del circolo e iniziò a declamare versi a noi incomprensibili. Solo oggi ripensandoci posso dire che fossero versi in latino. Se pur non capendo niente di quello che declamava, rimasi incantato dalla musicalità della sua voce, prima soave, poi dura, in un'altalena di toni che mi stregarono. Da quel giorno andai spesso, dove lo avevo incontrato la prima volta, con la speranza che tornasse per ripetere quell'esperienza. Gli anni trascorsero e in più occasioni ebbi l'opportunità di parlare con lui, più che altro ogni volta sembrava che m'intervistasse. La sua curiosità era infinita, volle sapere, dove abitavo, indagò sulla mia storia personale, e si appuntava tutto, anche le frasi dialettali che gli propinavo. Lo faceva divertire il mio modo di parlare sguaiato. Poi quello che previde sulla mia sorte futura se non avessi cambiato stile di vita, accadde, e qui mi riservo un poco di privacy. Lo persi di vista ma ricordandolo sempre come un vanto personale l'aver conosciuto un uomo come lui. Alcuni anni dopo, nel millenovecentosettantacinque, nel mese di novembre, spenti gli echi della stagione balneare, le strade del quartiere erano umide e silenziose ed io trascorrevo parte della giornata al bar della piazza, con la speranza che a qualcuno gli servisse un operaio. Quando all'improvviso il suono lamentoso delle sirene, squarciò il silenzio sonnacchioso che mi circondava, mentre numerose auto della polizia a folle velocità si dirigevano verso via dell'Idroscalo. Pensai a chissà quale guaio fosse accaduto da quelle parti, (Nuova Ostia) in quel tempo non era raro che scoppiassero tumulti tra residenti e quindi non me ne preoccupai molto. Poi come un fiume in piena la terribile notizia si diffuse rapidamente per il quartiere: il poeta Pasolini era stato assassinato. Isabella ed io ci dirigemmo sul luogo, dove era stato trovato il corpo. La folla si era assembrata sulla via e i poliziotti a fatica tenevano lontana la gente. Lì ascoltai molte persone dire oscenità di tutti tipi e non sto qui a ripeterle quelle parole ingenerose. Restai a lungo nei pressi della tragedia, così la definii, con un pensiero che mi torturava la mente: la voce delle borgate non avrebbe più raccontato al mondo quei luoghi emarginati e forse da quel giorno in poi sarebbe stato l'oblio per molti di noi. La storia di quel brutto fatto di cronaca è di dominio pubblico, anche se ancora non si è fatta luce del tutto sui fatti realmente accaduti quella notte, per mio conto ho sempre pensato che fu un'esecuzione.
Con la mente sono tornato lì tra il fiume e il mare, dove il gentile poeta ha smesso di cantare.
Sono tornato tra i fiori d'aglio selvatico che decorano il monumento eretto tra il fiume e il mare.


Isabella mi scosse dai pensieri scuotendomi leggermente e rivolgendosi a Rocco gli disse: ?non farci caso ogni tanto si perde in uno spazio che conosce solo lui. Sorridendo mi scusai e non potei fare a meno di chiedergli:?forse viveva in via dell'Idroscalo? Lui mi guardò meravigliato sentendomi nominare quella strada, non sapendo che io ci abitai durante l'infanzia e fino il giorno che mi sposai. Lui mi fissò per un momento in silenzio, poi mi disse: ?più o meno in quella zona. A quel punto il dubbio diventò una certezza, mi vennero in mente tutte le storie che i miei genitori raccontavano su lui e la sua famiglia. Vittoria, la madre era in confidenza con la mia. Aldo, suo padre, qualche volta la sera giungeva a casa per accordarsi con il mio per costruire case abusive durante la notte. La loro storia tenne banco per molti anni nella nostra casa ed io seppi, di molti particolari essendo stato ad ascoltarli; a volte facendo finta di dormire mentre loro bisbigliando cercavano di non farsi sentire. In seguito da adulto interagivo nella discussione e spesso andavo in contrasto con i miei perché secondo il mio parere facevano del pettegolezzo. Ero lì assorto a pensare a quell'uomo e alla fatalità che ci aveva fatto incontrare in quel momento così particolare della mia vita, quando fui richiamato alla realtà da Isabella: ?andiamo? Ci sono molti chilometri da macinare prima d'arrivare a Roncisvalle e più della metà è in salita. Riprendemmo gli zaini chiedendo a Rocco se gli avrebbe fatto piacere camminare con noi precisando: al nostro passo s'intende! Lui accettò con piacere e ci avviammo. Mentre salivamo verso il valico, rimasi leggermente indietro e mi vennero in mente i racconti che mio padre fece su di lui e i suoi genitori, Vittoria e Aldo. Per certi versi potevano essere uguali a storie di tante altre persone della zona, dove vivevamo ... a parte alcuni fatti accaduti alla loro famiglia. Non so se quei ricordi sono del tutto nitidi. La realtà è che io nelle lunghe tappe percorse li ho elaborati e ricuciti insieme e li riporto così come li rammento in questo racconto. Tutto ebbe inizio tra Lido di Ostia e Ostia Antica, in particolare nella periferia della prima.

                                                                             ***

Aldo
Andiamo per ordine: chi era Aldo il padre di Rocco? Aldo era il nipote di contadini romagnoli, giunti alla fine dell'ottocento per realizzare la bonifica del litorale romano. Egli alternava il lavoro come muratore con il duro mestiere del contadino e aveva una grande passione per la boxe. La sera si allenava come pugile nella palestra del borgo una grande sala, una volta adibita allo stoccaggio delle granaglie. L'odore del sudore si mischiava con quello del talco e il tamburellare del pungi ball, faceva danzare l'atleta sulle punte dei piedi, mentre si accaniva contro quello strano oggetto a forma di pera. Aldo indugiava davanti agli specchi, con finte, avanzate, cambi di direzione simulando figure di boxe, poi esercitandosi sbuffando in lunghe serie di colpi al sacco. Il pugile a ogni colpo faceva rimbombare nella sala i cupi suoni gutturali che gli uscivano dalla bocca, mentre i pori della pelle spruzzavano sbruffi di sudore. Sembrava non si stancasse mai, colpiva forte mettendo a dura prova ogni attrezzo, come se fosse una questione di vita, o di morte.

Pietro il padre di Aldo giunse dalla Romagna, richiamato dai suoi conterranei immigrati nel periodo della bonifica. In quel tempo servivano braccia buone per lavorare nella campagna sottratta alla palude vicino l'argine del Tevere. Lavorò nei campi e mieté il grano delle fattorie che nacquero dopo la bonifica passando da un padrone a un altro. Dopo qualche anno divenne un esperto staccatore d'angurie e ovunque se ne coltivassero la sua esperienza era molto richiesta. Perlopiù la zona dove operò era nella campagna a ridosso della sponda destra del Tevere.
Ada la moglie, lo seguì in quell'avventura, nonostante la sua famiglia, fosse contraria al trasferimento. Instancabile la donna accudì alla casa e si occupò della piccola fattoria dall'alba al tramonto
.

                                                                     ***

Vittoria
La famiglia di Vittoria si trasferì a Roma qualche anno prima della seconda guerra mondiale in pieno ventennio fascista e lei raggiunse i suoi genitori a Roma alla fine del conflitto. Fino allora visse in Puglia con le sorelle della madre. La giovane continuò gli studi nelle scuole del litorale romano conseguendo il diploma della scuola superiore. Tuttavia per necessità famigliare ben presto fu costretta ad andare a servizio presso famiglie facoltose. Vittoria era una giovane piena di vita, amava la libertà e questo le creò qualche difficoltà nei rapporti con i propri famigliari, era autonoma nelle scelte e prendeva la vita per quello che è: una meravigliosa opportunità.
Il padre (Santino) non intervenne mai sulle questioni di casa essendo un uomo di poche parole. Svolse sempre il mestiere del pesciaiolo vendendo pesce sottosale nelle numerose feste rionali della capitale e nei pressi della stazione del Lido.
Lucia la madre di Vittoria aveva fama di essere una maga, (per qualcuno una strega) ma anche una donna molto devota alla Madonna. Tra una preghiera e l'altra toglieva il malocchio e fatture maligne oltre ad aggiustare ossa. Nella sua casa non mancavano mai l'aglio per scacciare gli spiriti male intenzionati, olio da utilizzare per i massaggi e il rito della congiunzione della goccia, mazzetti di peperoncino e trecce d'aglio attaccati davanti alla porta della casa per cacciare la malasorte. Nella piccola casa, l'acqua benedetta, proveniente dai santuari di mezza Europa, era divisa in piccole boccettine sistemate accanto alle immagini sacre del santuario a loro dedicato. In particolare in un angolo, della casa la maga custodiva l'acqua proveniente da Lourdes tra santini, statuette luminescenti e candele votive.


                                                                         ***

Il pugile
Quel giorno cadeva leggera la pioggia e la terra sembrava liberasse un respiro a ogni goccia, la soffice nebbia come un mantello di tessuto pregiato proteggeva la piana alluvionale da occhi indiscreti. Il fiume danzava dal centro alla riva e andava verso il mare con il suo bagaglio di storia, Il vento suonava una melodia tra le foglie tremolanti dei pioppi, mentre il tempo giocava con il destino.
I pugili correvano sulla lunga carrareccia che attraversava la campagna. La strada brecciosa sembrava un nastro candito depositato sul terreno, messo lì per decoro tra i campi divisi in grandi rettangoli. Fin dove si potessero guardare le spighe dal colore dell'oro, ondeggiavano sotto l'azione del vento come i fini capelli di una Dea. Lontano dove il cielo sposa la terra maestose formazioni di nuvole lievitavano disegnando candite figure mitologiche e brontolando s'innalzavano sopra la pianura cambiando forma continuamente e nella spianata i filari di pini segnalavano l'accesso alla fattoria. Il gruppo giunse vicino al fiume e presso la staccionata che limitava la proprietà, c'era Giuseppe. Il vecchio contadino allertato dal latrare dei cani li aspettava con l'ascia accanto ad una catasta di legna da spaccare e rivolgendosi agli atleti disse: ?adesso che siete caldi spacchereste un poco di ciocchi per il camino? Il gruppetto dopo un breve consulto decise che quel lavoretto capitava al momento giusto per completare il loro allenamento. Con una lunga sega che doveva essere usata da due persone, iniziarono a sezionare i tronchi e per dividere i ciocchi più grandi utilizzarono la mazza e le zeppe d'acciaio, poi l'ascia per farne pezzi più piccoli. Proseguirono per almeno due ore a tagliare, spaccare e raccogliere fino a quando la scorta portata dentro la legnaia fu stimata sufficiente a scaldare la casa per tutto l'inverno. Terminato il lavoro, Giuseppe si fece seguire dai ragazzi fino alla fontana, dove lavandosi, si tolsero la polvere e il sudore. Poi li fece accomodare sotto la pensilina intorno a un tavolo traballante. Il fattore entrò in casa e tornò dopo qualche minuto con una bottiglia di vino, una pagnotta di pane e del formaggio. ?Questa è roba genuina! La faccio io! Ci tenne a precisare Giuseppe mentre con un coltello tagliava il pane a fette. Gli atleti stanchi e affamati accettarono volentieri il cibo. Qualcuno si sedette intorno al tavolo, altri su un vecchio tronco e mangiarono il pasto improvvisato. Il fattore dopo un paio di bicchieri volle raccontare la sua storia e come fosse giunto in quei luoghi migrando dalla Romagna. I suoi genitori bonificarono tutta quell'area, una volta sommersa dalle acque stagnanti che producevano malattie infettive come la malaria. In realtà furono circa cinquecento chi giunse in queste terre dalla Romagna: "Gli Scariolanti", costruirono canali, chiuse, idrovore per prosciugare il terreno. La bonifica non terminò con quelle opere continuò negli anni successivi con l'operosa e costante manutenzione dei canali. Il vecchio fattore sapeva che molti di quei ragazzi erano loro discendenti, ed era consapevole del fatto che molti di loro erano a conoscenza della storia, poiché in occasione delle feste le loro famiglie si riunivano e conversavano in dialetto romagnolo tramandando quell'epopea che li vide protagonisti. Questa storia il fattore la raccontava a chiunque che per qualsiasi motivo transitava nella sua fattoria, come se fosse sempre la prima volta e la sciorinava sapendo che quel particolare momento storico, non doveva essere dimenticato. I ragazzi ascoltarono il racconto con interesse, quando lui smise di parlare, gli chiesero se avesse altre storie da raccontare. L'uomo alzandosi dal tronco salutò i ragazzi e li invitò ad andare perché ci sarebbe stata un'altra occasione per parlarne. Poi disse: ?Adesso devo governare le bestie per la notte e tra qualche giorno, dopo San Giovanni inizierà la mietitura dovrò affilare falci e falcetti; se volete qui, c'è sempre bisogno di buone braccia anche per i meno esperti come voi. Qualcuno nel gruppo disse: ?mio padre ci sarà e forse verrò anch'io. ?Bene! Esclamò il fattore e allora preparatevi che in quei giorni sarà veramente un lavoro duro.

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Mentre ero perso nei ricordi, le gambe svolgevano bene il loro compito. Eravamo giunti in un pianoro e fummo attratti da un gruppo di persone che si erano affollate sul lato sinistro e alcuni si arrampicavano su un rilievo. Osservandoli bene vedemmo che la loro meta era raggiungere la statua della Vergine Maria. Seppi in seguito che si trattava della Virgen de Biakorri posta sulla cima dell'altura e ornata dalle offerte dei pellegrini. Isabella che forse era l'unica tra noi che aveva intrapreso il cammino con convinzione religiosa, si portò verso il rilievo e iniziò a scalarlo, Rocco ed io, la seguimmo fino alla statua e insieme a lei recitammo un'Ave Maria. Riprendemmo il cammino e dopo poco valicammo il confine entrando in Spagna nella regione della Navarra.
Il passo di Rolando
Il passo Lepoeder era a poche centinaia di metri e dopo un piccolo strappo fummo sulla cima. Io da un'altura misi le mani sulla bocca simulando il suono dell'Olifante: il corno del mitico Rolando che avvisava Re Carlo del pericolo imminente. Poi prima di cadere a terra morto colpito dalle armi dei nemici, gettai lontano il bastone del cammino che in quel momento secondo la mia intenzione, rappresentava la Durlindana, la fedele spada dell'eroe Rolando. Dopo quella mia giocosa rappresentazione teatrale, riprendemmo il cammino. La discesa verso Roncisvalle fu terribile tanto da rimpiangere la salita precedente. Ci dovemmo fermare più volte per stringere i lacci e avvolgere il cerotto a nastro alle caviglie, per non consentire ai piedi di fuggire in avanti all'interno delle scarpe. Infine giungemmo a Roncisvalle allo stremo delle forze e quando ci togliemmo le scarpe per depositarle nella scarpiera dell'albergue, notammo che le dita dei piedi si erano gonfiate e altre numerose vesciche si erano formate. Mentre eravamo in attesa che ci assegnassero i letti, guardandoci intorno realizzammo, che quella era la normalità sui piedi dei pellegrini. Presentammo le credenziali ai responsabili della Collegiata di Roncisvalle, e dopo il timbro che attestava la fine di ogni tappa, ci recammo al letto assegnato. Isabella ed io fummo collocati nello stesso box composto di quattro letti a castello. In uno di questi letti c'era un ragazzo di Brescia che per alleggerire il peso dello zaino, non si era portato il sacco a pelo e si copriva con un asciugamano di pile, appena sufficiente a scaldare la parte superiore del corpo, lasciando al freddo le gambe, il mattino seguente mi resi conto che non solo era corto l'asciugamano, ma lui era alto almeno due metri.
A quel punto percorsi circa trenta chilometri archiviammo la prima tappa del cammino. Cercammo la chiesa situata all'interno della collegiata antica. Partecipammo alla funzione e ricevemmo la benedizione del pellegrino che fu tradotta in varie lingue dai pellegrini di ogni nazionalità presenti alla funzione. Vista l'ora tarda, mangiammo una cena frugale a base di zuppa d'aglio e l'anatra al sugo. Andammo a dormire alle nove e trenta di sera, perché alle dieci il portone dell'Albergue chiudeva i battenti e chi è dentro bene, chi è fuori resta fuori. Quella sera ebbi poco tempo per pensare alla tappa percorsa, fui rapito immediatamente dal sonno.


Il mattino seguente, la sveglia suonò all'alba come consuetudine negli albergue lungo il cammino. Alle sei e trenta i pellegrini erano già pronti ad affrontare la prossima tappa, Isabella ed io un poco meno i muscoli gridavano vendetta. Ogni parte del corpo era dolorante e i piedi non riuscivano a calzare le scarpe, per i cerotti applicati sulle vesciche forate e cucite la sera prima.

Seconda tappa: Larrosoaña
Salutammo la Collegiata di Roncisvalle alle ore sette. La giornata era fredda ma il cielo terso ci mise subito di buon umore. Dopo i primi passi incerti e doloranti prendemmo un buon ritmo e attraversammo un bel bosco di querce. Dopo circa un'ora uscimmo dal bosco e sbagliando iniziamo a percorrere una strada provinciale. Fortunatamente alcuni pellegrini ci videro e rendendosi conto del nostro errore ci raggiunsero riportandoci sulla rotta giusta. Mentre percorrevamo il tratto che ci riportava sul cammino, i pellegrini ci fecero notare la freccia gialla che ci avrebbe accompagnato fino a Santiago. Da quell'episodio a ogni cambio di direzione ci assicurammo che fosse presente il segnale. C'inoltrammo in un sentiero che s'inerpicava su un'altura boscosa, riscendendo vedemmo un ruscello che scorreva lungo il sentiero che da lì a poco avremmo percorso. Quel giorno Rocco era silenzioso ed io pensai di non disturbarlo e rimasi al fianco d'Isabella. Mentre lui aveva preso una trentina di metri di vantaggio rispetto a noi, rivolgendomi a mia moglie dissi: ?conosco la storia del nostro compagno di viaggio. Lei mi guardò e rispose: ?lo immaginavo, ieri durante la salita quando sei rimasto indietro, ci ho pensato perché da ragazzo tu abitavi nella stessa zona. ?Si spesso la sera, mio padre raccontava come i genitori di Rocco si erano conosciuti e lo fece così tante volte che quella storia mi è rimasta impressa nella mente. Durante il viaggio anch'io presi quell'abitudine e iniziai a raccontare a mia moglie quello che avevo intenzione di scrivere. Fu allora che quei ricordi iniziarono a riemergere e a prendere forma nel raccontarli a Isabella, e lo feci mentre superavamo un cartello che indicava quanti chilometri, mancava per giungere a Santiago. Così la raccontò mio padre alla nostra famiglia tra un bicchiere di vino e l'altro.


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Aldo e Vittoria
Quell'anno il partito organizzò la festa dell'Unità nel parco dietro la chiesa. L'evento era gestito da volontari; tutte persone comuni che dopo il lavoro si mettevano a disposizione gratuitamente per la buona riuscita della festa per loro più importante dell'anno. Ognuno si occupava di rendere il più possibile efficiente lo spazio affidato. Le donne allestirono l'area per cucinare le piadine (focacce tradizionali romagnole) e gli uomini, le griglie per arrostire salsicce e costolette di maiale. In grossi pentoloni che fumavano sopra i bruciatori da campo, cuocevano la pasta e fagioli. Le botti del vino erano sistemate all'ombra dei grossi pini del parco al confine con la vecchia chiesa. Santino e la figlia Vittoria si sistemarono con i contenitori di sardine sotto sale accanto ai banchi di frutta e verdura. Donna Lucia, la madre di Vittoria, era accanto a loro e aveva allestito un banchetto ricoperto di trecce d'aglio e peperoncini.
Nello spazio sotto i pini era collocato il palco per il dibattito pubblico, dove durante la serata si sarebbero alternati politici e iscritti al partito. All'ingresso della festa c'era il banchetto della lotteria. In palio quell'anno vi erano prosciutti, salumi e anche un maiale. Al margine del parco era stato allestito il ring per gli incontri di boxe che erano tra le attività più attese della giornata. Aldo era uno dei pugili iscritto nella categoria welter e attendeva il suo turno nella casetta di legno costruita dai volontari per gli atleti. Si trovava seduto sulla brandina mentre l'allenatore gli bendava le mani e gli dava gli ultimi consigli prima dell'incontro: ?Aldo inizia con prudenza, il tuo avversario è di buon livello e ha vinto molti incontri. La prima ripresa sarà di studio è nel corso della seconda che si deciderà l'incontro. Lui attaccherà e tu schiverai e poi rientrerai con il destro. Forza ragazzo tu sei forte vedrai che vincerai. Aldo ascoltava il vecchio maestro ma con la mente era già sul ring. Il giovane atleta udiva la folla incitare i propri beniamini, gli sembrava sentire una muta di cani, che aizzavano per aver scovato la lepre e si accanivano in attesa che il loro padrone infierisse il colpo mortale al povero animale.
Gli incontri si susseguirono tra le incitazioni dei festaioli euforici. Quando giunse il suo turno Aldo accompagnato dall'allenatore, attraversò lo spazio che lo divideva dal ring passando tra la folla eccitata. I due salirono sul quadrato e dopo la presentazione dei pugili, il suono del gong diede inizio all'incontro. Nel primo momento i pugili si studiarono pochi istanti per capire quale fosse il rispettivo punto debole. L'avversario del giovane pugile di casa era dotato di buona classe e con un agile gioco di gambe, indietreggiò durante tutta la prima ripresa mulinando una gragnola di colpi. Aldo lo attaccò tentando di chiuderlo nell'angolo del ring per colpirlo, ma l'avversario gli sfuggiva agilmente in ogni parte del quadrato. Il pugile ospite aveva a disposizione un allungo superiore e con lo jab lo colpì più volte. Aldo nonostante avanzava a piccoli passi cercando di accorciare la distanza che lo separava dall'avversario, riusciva solo a sfiorarlo prima che questo si divincolasse saltellando. Al suono del gong andò all'angolo furioso perché le cose non giravano come aveva pensato lui e inoltre un rivolo rosso iniziò a scorrergli sotto l'arcata sopraccigliare dell'occhio sinistro. Il vecchio allenatore gli passò l'asciugamano umido sul viso mentre gli parlava con voce tranquilla ma decisa: ?Devi stare calmo e tenere alte le braccia. Poi gli passò nuovamente l'asciugamano sul viso e si soffermò sul taglio. Premendo con forza cercò di rallentare la fuoriuscita del sangue mentre gli ripeteva con voce decisa la stessa frase: ?stai calmo! Gira sempre a destra e fallo con piccoli movimenti del tronco e mai frontalmente. Vedrai si stancherà di saltellare. L'allenatore gli passò della vasellina sul taglio, cercando di bloccare l'emorragia, e gli disse: ?se lo colpisci non ti fermare, mettilo al tappeto. Con questa ferita il dottore potrebbe fermare l'incontro. Gli diede una pacca sulla spalla mentre Aldo si alzava dallo sgabello al suono del gong e lo incitò: ?forza Aldo! Finisci l'incontro in questa ripresa e lo urlò nuovamente mentre incrociava i guantoni con l'avversario: ?finiscila con questa danza! Aldo mettilo al tappeto! I due pugili si studiarono attentamente e si mossero come se ognuno di loro fosse davanti alla propria immagine riflessa allo specchio. Si aggirarono sul quadrato come grossi felini pronti a scattare verso la preda. Anche in quella ripresa l'avversario danzò leggero sul ring. Lanciò spesso il braccio sinistro per creare uno sbarramento difensivo agli attacchi di Aldo. Il pugile di casa aveva preso alla lettera i consigli del maestro e avanzò con piccoli passi, muovendo il tronco a destra e a sinistra, cercando di non offrire un punto di riferimento all'avversario. Al termine di una scaramuccia il velocissimo jab dell'avversario lo colpì di nuovo, uno spruzzo rosso colorò il tappeto del ring. Aldo si passò il guantone sulla ferita che si era riaperta, mentre il sangue iniziò a colargli lungo il viso e a impastarsi con la saliva. Assaporò il liquido caldo che gli scorreva tra i denti, udì la folla urlare e tra quelle urla riconobbe la voce dell'allenatore che gridava: ?gira a destra! Gira a destra! Poi all'improvviso la visione d'insieme gli scomparve. I rumori e le urla si attenuarono. Poteva soltanto udire le suole delle sue scarpette strusciare sul tappeto e percepire il ritmo dei saltelli dell'avversario. Schivò i colpi come un automa e quelli che giunsero sul suo corpo gli sembrarono più deboli. Ebbe la sensazione che il ring si fosse elevato dal terreno e che intorno a lui non ci fosse più nessuno. L'allenatore, il pubblico, la festa, tutto sembrò svanire. Aldo era solo con il suo avversario, poteva vedere sotto la pelle lucida dell'altro i muscoli pronti a scattare e nei suoi occhi la determinazione di un assassino. Aldo cambiò spesso direzione mentre l'altro gli lanciò l'ennesimo sinistro e capì che era giunto il momento di farla finita. Scartò verso sinistra e con un piccolo movimento del tronco schivò il colpo poi fece un passo avanti e lo colpì con un potente gancio. Lo vide barcollare mentre il paradenti volava verso il pubblico. Tra spruzzi di sangue e saliva lo colpì di nuovo con il sinistro e poi con il destro. L'avversario crollò come se fosse un sacco vuoto. L'arbitro gli indicò l'angolo mettendosi tra lui e il corpo immobile del pugile atterrato. Le urla dei tifosi gli giunsero all'improvviso, arretrò senza mai perdere di vista quel corpo steso sul tappeto. Si fermò quando sentì le corde del quadrato dietro di lui. Con i guantoni ancora a protezione del volto, si fermò per un attimo a guardare il corpo del pugile. Un pensiero terribile gli passò nella mente: "Sarà morto?" Fece cadere le braccia lungo il corpo e osservando l'arbitro contare con gesti teatrali alzando la mano e riabbassandola. Scandiva " otto, nove, dieci, " Con un gesto eloquente delle braccia determinò la fine dell'incontro. Incrociò le braccia e rivolgendosi ai giudici e alla platea, dichiarò finito il match: ?out, out.
Vittoria nel frattempo fu attratta dalla confusione che proveniva da quell'angolo della festa e incuriosita si fece largo tra la folla, giunse al bordo del ring giusto in tempo per assistere a una parte del match. Lo fece senza mai perdere di vista Aldo, coprendo gli occhi ogni volta che lui fu colpito. Quando l'avversario crollò al tappeto, provò per Aldo ammirazione e paura. Tremò per l'emozione e un brivido le attraversò il corpo ed ebbe una forte attrazione per quel giovane gladiatore. Quando l'arbitro chiamò al centro del quadrato i due pugili per decretare ufficialmente il vincitore alzò il braccio di Aldo. Il pugile mentre guardò la folla al bordo del ring che lo osannava vide Vittoria tra i tifosi in delirio aggrappata al bordo del quadrato. Aveva gli occhi che le brillavano di passione, e lo seguivano con lo sguardo a ogni suo movimento. Lui rimase colpito da quella ragazza che lo fissava intensamente. Lei era una bella donna dai capelli neri che le uscivano dal foulard, gli occhi vivacissimi del colore del mare e la carnagione scura e tra tanti diavoli lei sembrava un angelo. Aldo trascurando la premiazione si avvicinò al bordo e appoggiandosi alle corde, con un gesto le fece cenno di avvicinarsi. Quando Vittoria fu abbastanza vicina le chiese:?come ti chiami? Lei tra la folla a stento riuscì a restare in piedi, lui la sorresse prendendole la mano e passando sotto le corde Aldo scese dal ring. Quando fu davanti a lei proteggendola dalla calca la strinse a se e lei rispose: ?Vittoria, mi chiamo Vittoria. Passata la sorpresa, la giovane cercò di liberarsi. Aldo incurante della gente tentò di baciarla, lei si ritrasse ed entrambi sorrisero e poi si baciarono. Vittoria si abbandonò tra le sue braccia sentendo il desiderio correrle lungo la schiena, l'odore del corpo del pugile invaderle le narici, il sapore del sangue rimasto nella sua bocca durante il combattimento si mischiò con la saliva. Provò una sensazione che non aveva mai conosciuto prima di allora, qualcosa che non pensava le appartenesse. Un istinto primitivo, un folle desiderio di fare all'amore e mentre era lì, stordita da quelle sensazioni udì Aldo che le sussurrava: ?andiamo via da questa confusione. Riuscirono a superare la folla che al loro passaggio urlò e rise, vedendolo lui in pantaloncini e a petto nudo correre stringendo la mano di Vittoria. Giunsero nei pressi della chiesa e si nascosero dietro il muro che ne segnava il confine. ?Sei forse matto? Le chiese lei, mentre gli mollò uno schiaffo. Parandole il colpo lui prese le sue mani e la fece sedere accanto a se: ?zitta che qualcuno ci potrebbe sentire! Due ubriachi nel frattempo si avvicinarono e canticchiando orinarono sul muro di cinta della chiesa. Finito di annaffiare il sacro terreno, i due malfermi sulle gambe tornarono verso la festa. ?Dai, lasciami andare! Lui la guardò mentre la calda notte estiva non era abbastanza buia da nasconderle gli occhi che le brillavano, come quelli di una gatta riflettendo la poca luce proveniente dalle finestrelle della sacrestia. Ci fu un lungo momento di silenzio e i due si guardarono intensamente. A lei sembrò che le stelle si fossero posate sul corpo del giovane, catturate dalle gocce del suo sudore che come perle gli rotolavano lungo il corpo lanciando lampi di luce. All'improvviso Vittoria ruppe il silenzio e quell'incantesimo con una sonora risata. Lui cercò in tutti i modi di farla smettere, ma lei rise ancora più forte in modo irrefrenabile. Aldo le chiese: ?perché ridi? Sono così buffo? ?Sì, anche quello, però sai quello che mi fa ridere di più? Lui la guardò incuriosito in attesa che lei si spiegasse. ?Pensa se ci scoprisse il prete, lui sarà già nervoso con tutti questi comunisti al confine, figurati se trovasse una ragazza sdraiata con un uomo mezzo nudo cosi vicino alla chiesa. ?Il prete? Il prete ha altro da fare piuttosto che pensare a noi due, avrà fatto un muro di Ave Maria intorno alla chiesa e sarà occupato a fare gli scongiuri contro l'invasione rossa. Mentre dalla festa giungevano la musica e le canzoni popolari, i due si stesero sull'erba pancia all'insù e fecero a gara chi contasse più stelle. ?Questa serata la ricorderò per sempre: ho vinto l'incontro, ti ho conosciuto, il tuo nome oggi ci sta proprio bene, "Vittoria". Aldo ripeteva quel nome lentamente quasi a bassa voce. Lei si avvicinò per ascoltare meglio e lo fece sfiorandogli la bocca. Poi disse: "Che cosa stai farfugliando?" ?Vittoria! Vittoria! Il tuo nome e glielo ripeté mentre la stringeva tra le braccia e sentì fremere il suo corpo colmo di desiderio fino quando baciandola, quel nome lo fece morire tra le labbra. Mentre la prendeva, desiderò che quella notte non finisse mai. All'alba il prete li trovò abbracciati tra l'erba e non ebbe il coraggio di svegliarli.
Il sole era alto quando Vittoria si svegliò e pensò: " È stato solo un sogno". Fissò il giovane accanto a lei e la realtà era lì che dormiva. ?Porca miseria allora è proprio vero! Aldo! Lui non accennò a risponderle. Iniziò a scrollarlo e a chiamarlo prima timidamente poi con più convinzione. Aldo! Aldo! Alzati! Devo andare a casa! Dallo stradino che attraversava il parco, si avvicinarono due addetti alle pulizie con dei grossi sacchi di tela grezza. Quando videro Vittoria che strattonava Aldo, uno degli inservienti gli chiese: ?vi serve aiuto? Vittoria senza girarsi a guardare chi fossero rispose indispettita: ? non serve niente! Adesso si sveglia e ce ne andiamo. Riprese a scrollare Aldo fino a quando il ragazzo si girò verso di lei e la baciò. L'inserviente riconobbe il pugile ed esclamò: ?Ehi Campione, ti hanno cercato tutta la sera. Aldo senza ascoltarlo notò come l'altro spazzino guardasse intensamente Vittoria, si alzò e con aria di sfida disse: ?che ha da guardare? Si faccia i fatti suoi, lei è la mia ragazza! Portò i pugni stretti all'altezza del volto e si mise in guardia scimmiottando il gesto di colpirlo. Ridendo afferrò le mani a Vittoria e la aiutò ad alzarsi. La guardò e cercò la conferma di quello che aveva appena detto. Lei con un sorriso si accostò al petto del giovane come se cercasse protezione e gli fece segno di sì. I due inservienti trattennero a stento un sorriso dopo aver squadrato la ragazza, si rivolsero al giovane: ?Aldo il trofeo l'ha preso l'allenatore e dopo che ti ha cercato in lungo e in largo, l'ha portato in palestra. Lui come se non gli importasse niente di dove fosse il trofeo, rispose: ?Va bene, va bene, adesso accompagno lei poi alla coppa ci penserò. Raccolse il fazzoletto di Vittoria e se lo mise intorno al collo. Lei quando vide Aldo che si annodava il suo foulard, con un gesto repentino glielo strappò e sorridendo replicò:?Oh! Questo è mio. La ragazza si riprese il fazzoletto e se lo sistemò sulla testa mentre i due si avviarono stretti l'uno all'altra lungo la strada principale del borgo. Al loro passaggio si scatenò la curiosità dei mietitori che a quell'ora affollavano la strada per raggiungere i campi. Alcuni braccianti portavano in spalla grosse falci, altre piccole e ricurve. I falciatori intorno alla vita portavano una parannanza di juta con capienti tasche contenenti gli attrezzi per affilare le lame, alcuni sul loro braccio migliore, mostravano una spiga matura, trattenuta da una fascetta di stoffa, "la leggenda dice che questo espediente li preservasse dalla fatica." A piccoli gruppi si fermavano all'osteria per rifornirsi di bevande, alcuni riconobbero il pugile avendo assistito al combattimento della sera prima. ?Ehi Aldo! Vieni con noi a mietere! Giunse un grido da un gruppetto che sostava davanti al vinaio. Il giovane con un sorriso respinse l'invito, poi si rivolgendosi a Vittoria:?dove abiti? Alla fine della strada, rispose lei, e non c'è bisogno che mi accompagni, vado da sola. Se ti vedesse mia madre, così mezzo nudo le prenderebbe un colpo! Lei fece pochi passi per allontanarsi, si fermò e fissandolo gli chiese: ? ti vedo questa sera? ?Non sono sicuro devo lavorare. ?E lo fai di notte! Allora sei un ladro. ?Quale ladro! Faccio il muratore. Lei incredula lo guardò e dopo una lunga pausa ridendo ribatté: ? che fanno i muratori di notte? ?Smettila! Costruiscono case abusive e si fa la notte, non lo sai? ?E ti vengono dritte al buio? Lei chiese dubbiosa mentre fuggiva verso casa.?Oh! Vittoria! A domani? Lei rallentò e gli fece cenno di sì mentre sistemava il fazzoletto sulla testa. Lui rimase a guardarla e le sembrò bellissima mentre cercava di sistemare i lunghi capelli neri, con le braccia alzate il suo corpo diventò ancora più sinuoso e muovendosi come una danzatrice orientale, si allontanò accentuando il movimento sensuale e prima di sparire dietro l'angolo della strada, si girò per essere sicura che lui la guardasse.

                                                                        ***

Rapiti dal racconto che stavo recitando, Isabella ed io non ci rendemmo conto che Rocco era scomparso. Davanti a noi vedevamo il sentiero snodarsi, restringersi e salire leggermente con una serie di curve tra la vegetazione. Allungammo il passo e giungemmo sulla cima dell'altura, dove vedemmo il nostro compagno di viaggio seduto e intento a bere dalla borraccia. Quando ci vide, disse: ? ve la siete presa comoda! Mentre scaricavamo gli zaini, risposi:?forse qualche chilo di troppo in salita ci frena, però un passo alla volta arriveremo dappertutto. Dall'altura si vedeva un paesaggio meraviglioso. Ci trovavamo a circa ottocento metri d'altitudine e poco più in basso s'intravedeva il fiume Arga che scorreva tra la folta vegetazione. Lungo il corso d'acqua c'era il luogo, dove avremmo fatto la seconda tappa. Dopo il breve riposo riprendemmo gli zaini in spalla e iniziammo la discesa. Da ottocento metri d'altitudine, scendemmo fino a seicento, giunti al ponte che attraversava il fiume, ci fermammo nel bar adiacente all'argine. Nel giardino del locale vi era un'opera d'arte costruita in ferro che rappresentava un pellegrino in cammino. Scattate alcune foto ricordo decidemmo prima dell'ultimo strappo di mangiare un panino a Zubiri. Ci trovavamo a circa cinque chilometri dalla fine della tappa, riprendemmo il cammino e dopo circa un'ora giungemmo a Larrosoaña. Faticammo un poco a trovare l'alloggio perché il nostro obiettivo era dormire nell'ostello municipale per risparmiare qualcosa, ma era al completo, quel giorno capimmo che c'era un dato di fatto: i giovani pellegrini avevano un passo più veloce del nostro, quindi per tutto il resto del cammino ci saremmo dovuti confrontare con quella realtà, gli ostelli li avrebbero occupati sempre loro. Visitando il paese trovammo un hostal (locanda,) il proprietario ci offrì per dieci euro a persona una stanza pulita, con quattro letti a castello e il bagno in comune. Dopo la doccia e la medicazione dell'ampollas, così chiamano le vesciche, gli spagnoli, andammo a mangiare in una trattoria poco distante dall'hostal. La lunga tratta percorsa, circa ventisette chilometri tra salite e discese, ci aveva messo un grande appetito. Mangiammo pasta e lenticchie, carne al sugo, insalata e pane in abbondanza e quella sera facemmo la conoscenza del vino tinto. In una parete del modesto locale c'era scritta una bella frase che ora riporto in lingua originale:

Que el viento te sea favorable y te sople de espanda
Que la lluvia caiga suave sobre tus cabellos y arrostre tus males.
Que el sol brille en tus mejillas y ilumine tu sorrisa.
Que el Dios en tus creas te tenga a ti y a los tujos
en la palma de la mano hasta que volammo a encontrarnos.
Buen camino Perigronos.
Anonimo

Forse sarà stato per effetto del vino, o forse a causa della stanchezza e nonostante non sia incline alla commozione, devo confessare che quelle righe d'augurio scritte per i pellegrini che erano in cammino verso Santiago di Compostela, mi colpirono ed emozionarono. Per non dimenticare quel particolare momento, strappai un pezzo della tovaglia di carta che ricopriva il tavolo e quelle parole in bella mostra sulla parete, gliele scrissi sopra e le portai via con me. Ancora oggi mi seguono e quando la vita non va proprio bene, per cercare conforto le leggo riportandomi indietro nel tempo, in viaggio verso Santiago.

Usciti dalla trattoria, poiché era presto per rientrare all'hostal e come già scritto, il coprifuoco lungo il cammino era alle ore dieci di sera. Isabella, Rocco ed io, ci sedemmo sulla scalinata d'accesso all'ostello Municipal. La serata era fresca, ma il vino ci teneva alta la temperatura corporea. Provai a chiedere qualcosa della sua vita a Rocco. Prima iniziai a dirgli qualcosa di me, gli parlai dell'intervento che avevo subito e gli raccontai dei miei due figli, poi gli domandai: ? Rocco, per qualche tempo a Ostia ho sentito parlare di te e in seguito non se n'è più parlato. Dove eri andato a finire? Lui rimase in silenzio con lo sguardo fisso all'altro lato della strada, notai che seguiva con lo sguardo un cane randagio che passava sul marciapiede opposto al nostro, o forse prendeva tempo per trovare le parole giuste. Feci trascorrere qualche secondo poi incalzandolo gli chiesi:? ne vuoi parlare? Lui si girò verso di me e dopo una breve pausa mi disse: ?Il cammino è lungo e forse da qui a Santiago ci sarà il tempo per parlarne, oggi è stata una giornata faticosa ma anche allegra, lasciamo le cose come stanno. Poi alzandosi ci disse che era stanco e ci salutò avviandosi verso l'hostal. Isabella per la prima volta dalla partenza si alterò nei miei confronti e disse: ?sei sempre il solito, con la tua curiosità rischi di rovinare tutto, Rocco è un buon compagno di viaggio e se avrà voglia di parlare della sua vita lo farà. La guardai e gli dissi: ? scusa è più forte di me, poi conosco molte cose che lo riguardano, però ho dei vuoti temporali e vorrei riempirli. Restammo in silenzio sulle scale del Municipal per qualche minuto, elaborando la situazione che si era creata. Saranno stati lo stress e le emozioni di quella giornata, ma la voglia di andare a dormire non arrivava e per superare il piccolo screzio che c'era stato tra noi due, ripresi il racconto dove l'avevo lasciato quando raggiungemmo Rocco sulla cima dell'altura.

Rivolgendomi a Isabella le dissi: ?io non so come facevano mio padre e mia madre a conoscere tutti i dettagli della storia, ma la snocciolarono con dovizia di particolari, tutte le volte che ne avevano il tempo per raccontarla. Qualche volta pensai che Aldo, il padre di Rocco, si confidasse con lui e Vittoria con lei. Mentre eravamo seduti sulle scale, alcuni giovani pellegrini sortirono dalla porta del Municipal e ci salutammo con il saluto in voga lungo il cammino di Santiago: "Ola buen camino pellegrini". Quando quei giovani chiassosamente si allontanarono, Isabella che si era appoggiata alla mia spalla mi disse:? vai avanti con il racconto. Feci fatica a riprendere il filo e quindi presi il quaderno dove avevo iniziato a prendere appunti sul viaggio e sulla storia di Rocco. Sfogliai rapidamente le pagine fino a che non trovai la parte della storia che m'interessava. La mia tecnica era di ripetere a Isabella quello che avevo scritto per capire se il racconto funzionasse e su questo avemmo molte cose su cui discutere, in quei momenti di acceso confronto, lei faceva un'infinità di domande e dopo serrati scambi di vedute, spesso dovetti rivedere pagine intere.

Comunque proseguendo nel racconto …

Quella sera mio padre era un fiume in piena e raccontò che Aldo dopo che aveva visto sparire dietro all'angolo Vittoria, rimase lì, con la testa tra le nuvole, perso nel ricordo della notte di passione trascorsa tra le sue braccia. Mentre sognava ad occhi aperti la sua immagine che lo baciava, una voce lo scosse: ?Aldo! Che fai mezzo nudo nella strada? Il giovane riconobbe la voce del vecchio allenatore e solo allora si rese conto della condizione cui si trovava. Indossava ancora i pantaloncini da pugile ed era scalzo. ?Ho festeggiato la vittoria! ?Non sei andato a casa? Aldo farfugliò qualcosa a mezza bocca poi disse: ?Vado adesso e non ti preoccupare, domani ci si vedrà in palestra come sempre. Il vecchio allenatore scuotendo il capo gli si avvicinò e dandogli un colpetto sul viso gli sussurrò: ?testa matta, si girò e andò via. Aldo si avviò correndo verso casa mimando di colpire qualcosa nel vuoto e quando gli capitò d'incrociare qualcuno lungo la strada, gli saltellò davanti fino a che l'altro spazientito non cercò di colpirlo. Lui con un movimento del tronco, schivava e poi fuggiva, Aldo si sentiva felice come non lo era mai stato. Isabella a questo punto disse: ?ma tua madre in tutto questo non sapeva proprio niente? ?Certo, mia madre conosceva la storia molto bene, spesso s'incontrava con Vittoria che le confidava cosa le stava succedendo. Però preferiva far parlare mio padre e ogni tanto lo interrompeva aggiungendo qualcosa. Infatti, Vittoria le confidò che la sera dopo la festa, sdraiata sul letto, ripensò a cosa l'era capitato e nonostante provasse a darsi una spiegazione logica al suo comportamento, tutto era precipitato così in fretta che ancora non riusciva a elaborare i fatti. Percorse gli eventi della sera prima con la mente e immaginando Aldo sul ring riprovò la stessa emozione: l'attrazione fisica e l'eccitazione incontenibile che gli aveva fatto perdere la ragione. Confidò a mia madre che cosa pensò in quel momento: "Sì sono una pazza quest'uomo non lo amo, però dentro di me c'è qualcosa cui non posso resistere e conto i minuti che mi separano da lui".


Avrei voluto continuare ma mi resi conto che Isabella dormiva appoggiata alla mia spalla, chiusi il quaderno e delicatamente la svegliai dicendole che era quasi ora che rientrassimo, restavano pochi minuti alla chiusura del portone, lentamente ci dirigemmo verso l'hostal e giunti nella stanza trovammo un altro pellegrino che dormiva nel letto a castello accanto al nostro. Facendo attenzione a non svegliarlo, c'infilammo nei nostri letti. L'ospite in un primo momento russava leggermente poi man mano iniziò a ronfare sempre più forte, fino a raggiungere un tono insopportabile accompagnato da un lungo sibilo. Non riuscendo a prendere sonno,facendo luce con la lampada frontale, mi misi a scrivere ancora qualcosa, mentre Isabella per niente disturbata dal concerto del pellegrino dormiva profondamente. Dopo circa un'ora, provai a prendere sonno, ma il russamento, accompagnato dalla respirazione ritmata dell'uomo, non me lo consentì. Quando oramai si era fatta la mezzanotte, guardai mia moglie che dormiva profondamente, per un attimo la invidiai e mi rassegnai a restare sveglio. A quel punto ricordai che mia madre, quando facevo finta di non sentire le sue raccomandazioni, mi diceva: "che sei sordo?" "Oppure se avessi per caso le orecchie foderate con la mollica del pane." Presi dallo zaino un pezzo di pane che avevo di riserva, gli tolsi la mollica e facendone due palline me le infilai nelle orecchie. Devo dire che funzionò e mi svegliai alle sette, pronto per la prossima tappa. Direzione Pamplona dove ci saremmo fermati per il pranzo, per poi proseguire verso la meta di quella giornata: Zariquiequi.

Terza tappa: Zariquiequi

Il mattino seguente uscimmo dall'hostal verso le otto e consultando la cartina, capimmo che la tappa per la prima parte si snodava quasi tutta in leggera pendenza scendendo a circa quattrocentocinquanta metri altitudine nei pressi di Pamplona. Tranne qualche saliscendi il percorso sarebbe stato gradevole. Nell'ultima parte avremmo dovuto risalire a circa settecento metri in poco meno di quattro chilometri. Raggiungemmo Pamplona facilmente e se Isabella non fosse stata protagonista di uno spettacolare incidente mentre percorrevamo una pista ciclabile, sarebbe andato tutto liscio. Lei inciampò su uno dei quadroni di cemento che lastricavano la pista, cadde in avanti e avendo le mani sui ganci dello zaino in posizione di riposo, non fece in tempo a proteggersi e batté violentemente con il viso a terra. Dopo il primo momento di spavento Rocco ed io la rialzammo, notammo che riportò delle ferite all'interno della bocca, causate dall'impatto con i denti, delle escoriazioni sul palmo delle mani che era in parte riuscita a estrarre dai ganci dello zaino e cosa più importante nessuna frattura. Non lo dissi, ma pensai che quel Dio cui lei teneva molto l'avesse protetta. Non so se fosse andata proprio così, però è vero che non avendo la prova contraria mi fece piacere pensarla in quel modo. Mentre attraversammo la città, mi resi conto che lo facevamo troppo in fretta. Pamplona è una bella città e merita almeno una giornata per visitarla, in quell'occasione tralasciammo di vedere i posti più importanti e mi è rimasta nel cuore. Sfiorammo la storia importante della città e le numerose chiese, in primis la Cattedrale di Pamplona e la chiesa di San Cernin del tredicesimo secolo sita nell'antico quartiere di San Saturnino, dove si venera la Vergine del Cammino patrona della città. Uscendo dalla città passammo accanto alla cittadella fortificata attrezzata a parco verde, al suo interno in spazi dedicati ci sono daini allo stato libero, poi numerosi altri animali da cortile abitano nell'antico fossato. Attraversammo numerosi spazi verdi e ci colpì l'ordine e la pulizia in ogni parte della città. Ci dirigemmo verso la periferia e giungemmo dopo circa cinque chilometri a Cizur Minor. La salita anche se leggera ci tagliò le gambe e decidemmo di fermarci all'ombra della siepe di una villa. Mentre seduti in terra riposavamo, giunse un uomo in bicicletta e ci chiese in spagnolo se avessimo bisogno di aiuto. Lo ringraziammo e gli spiegammo (mentendo che andava tutto bene). Dopo aver capito che eravamo italiani lui iniziò a raccontarci nella nostra lingua la storia della città di Pamplona e che fu fondata in epoca romana prima della nascita di Cristo, poi si perse in numerose storie di pellegrini e antichi romani che ascoltammo educatamente, fino a quando ci alzammo da terra e dopo averlo salutato riprendemmo il cammino verso la fine della tappa. Il caldo, l'attraversamento della città, la distanza coperta fino allora ci aveva fiaccato e l'ultimo ripido strappo esaurì le nostre energie. Giunti a Zariquiequi crollammo nel piccolo parco all'entrata del paese, quando ci riprendemmo dalla stanchezza, girammo per le strade del paese in cerca dell'alloggio e finalmente dopo circa un'ora trovammo da dormire e mangiare. Come sempre, dopo cena ci rilassavamo un paio d'ore parlando del più e del meno fino al "coprifuoco", come consuetudine Rocco rimaneva poco fuori dall'hostal e preferiva andare a riposare. Isabella ed io rimanemmo seduti fuori su una panchina di marmo a bere una birra locale, ormai era diventato un appuntamento fisso, a me piaceva raccontare e a lei ascoltare, quasi fosse un serial televisivo a ogni fine tappa gli leggevo gli appunti e molte volte approfittando per arricchirli con nuovi particolari.

                                                                           ***

Avevamo lasciato Aldo e Vittoria nell'elaborazione della loro prima volta, per lui la sensazione d'aver trovato l'amore della sua vita, per lei solo una forte attrazione fisica. Due sentimenti a volte incontrollabili e come vedremo in seguito, forieri di complicate situazioni da districare.

                                                                            ***

Aldo e Vittoria dopo di quella prima volta si videro spesso. La sera lui dopo gli allenamenti usciva con lei e dopo aver fatto l'amore, restavano a lungo a parlare, ognuno dei propri sogni. In particolare Aldo, intravedeva nella boxe il proprio futuro, immaginava davanti a se una lunga carriera piena di successi. Sognava le grandi platee pugilistiche come Roma, Milano, Parigi, New York. Prima di ogni altra cosa sognava Roma e i Giochi: ?diventerò campione Olimpico! Vincerò la medaglia alle Olimpiadi e da professionista guadagnerò così tanti soldi, che non dovrò più spaccarmi la schiena nei cantieri e nei campi. Lei lo ascoltava in silenzio incantata da quel fiume di sogni, senza capire bene da cosa fosse attratta, se da lui o dalle sue speranze.

Erano trascorsi circa due mesi da quando lui l'aveva incontrata alla festa, venne il giorno che Vittoria presentò Aldo alla sua famiglia e suoi genitori spesso lo invitarono a cena che in quelle occasioni si dimostrarono socievoli e le cose sembrarono filare liscio. Quella sera a differenza delle volte precedenti, il pugile notò che c'era qualcosa di strano. Aldo si fermò per qualche minuto in cima allo stradino, dove di solito Vittoria lo aspettava, al suo posto trovò Lucia che si affacciava alla porta, facendo capolino, lo guardava e poi rientrava nervosamente. Si notava che c'era qualcosa di diverso, non era la solita Lucia socievole e sorridente. La donna sembrava un animale che annusava un pericolo imminente davanti alla propria tana e la sorvegliava in difesa del potenziale predatore.
Vittoria non si era mai fatta attendere molto quando lui arrivava e quel punto, Aldo iniziò a chiamarla: ?Vittoria! Vittoria! Lei nonostante i forti richiami non accennò ad affacciarsi. Ormai era più di mezzora che lui urlava. Spazientito prese una decisione, scese dalla bicicletta e si avviò sulla leggera discesa che portava fino alla casa. Percorse il viottolo di mattoni e giunse davanti alla porta, bussò per due volte e prima che bussasse la terza, la porta si aprì, e ne uscì Lucia. Il viso della donna non era per nulla amichevole e bruscamente gli chiese: ?Che cosa vuoi? E senza attendere la risposta continuò irritata, Vittoria è malata e non può uscire!?Malata? Che cosa le è successo? Ieri stava così bene! Lucia quasi urlando ripeté: ?È malata e questo basta. E lo fece mentre tentò di serrare la porta. Aldo mise prontamente il piede in modo di ostacolarne la chiusura.?Voglio vederla! Se sta male, voglio vederla! Disse il giovane. Sfidando la donna che cocciutamente spingeva forte, tant'è che la porta iniziò a scricchiolare pericolosamente. ?Signora mi ci faccia parlare e vado via, quasi implorò Aldo. Nel frattempo Santino, il padre della ragazza, che ritornava dal mercato,giunse in prossimità della casa e nonostante il cigolio stridente che la sua vecchia bicicletta produceva a ogni pedalata, non attirò l'attenzione dei due concentrati a spingere la porta. ?Signora Lucia mi faccia entrare! Insistette Aldo. Mentre lei lo contrastava con forza riuscendo a tenerlo fuori. Santino, vedendo il giovane in lotta con la moglie pensò fosse un ladro. Lasciò la bicicletta prima della discesa e afferrò un tubo di ferro, che lui stesso aveva nascosto in una siepe pensando che fosse stato utile, casomai se ne fosse presentata l'occasione. Scese il pendio e giunse dietro ad Aldo mentre questo urlava alla moglie, lo colpì così forte alle spalle che il giovane stramazzò pesantemente in terra, strozzando un grido in gola. Mentre stava per colpirlo di nuovo Lucia uscì frapponendosi tra lui e il ragazzo e gridò: ?fermo disgraziato è Aldo! L'uomo gettò il tubo si chinò sul giovane e meravigliato esclamò: ?per la miseria, è proprio Aldo! Sembrava un ladro che voleva entrare in casa. Non l'ho proprio riconosciuto. Poi resosi conto che il ragazzo era ancora in terra e non si muoveva: ?Madonna mia, l'ho ammazzato! ?Non ancora, vedi che respira. Sentenziò Lucia. La donna e Santino lo presero e lo trascinarono in casa mentre Vittoria che si era affacciata per capire cosa fosse successo e vide Aldo sdraiato in terra nel piccolo ingresso. ? Che cosa gli avete fatto? ?Siete matti entrambi? È solo svenuto disse la madre, poi ordinò alla figlia di portarle uno straccio e un po' d'acqua. Nel frattempo Santino, pregava e a tratti, imprecava andando avanti e indietro lungo la stanza, battendosi le mani sulla testa.
Isabella a quel punto della storia esclamò: ?questi non erano normali! La madre perché non lo voleva fare entrare? Qualunque cosa fosse accaduta non era più giusto che ne parlassero? Invece di aggredirlo? ?Questa è anche la mia opinione ma quelli erano tempi complicati. Bisognava tener conto anche del vicinato e delle comari, sempre pronti a metterti in croce per ogni cosa, figuriamoci se c'era di mezzo una figlia. Lo scandalo era sempre dietro l'angolo e i fatti andarono così.

                                                                         ***

Il ragazzo era robusto e dovettero lasciarlo in terra, Lucia gli inumidì la fronte e ogni tanto gli diede qualche buffetto sul viso chiamandolo a gran voce. Vittoria nervosamente andava avanti e indietro chiedendo alla madre: ?si sveglia? Il padre non sapendo dove guardare si mise seduto in un angolo con il viso rivolto al muro. Dopo qualche minuto diede cenno di riprendersi dal colpo e farfugliando disse:?Mamma mia che botta! Portandosi la mano dietro la nuca vide Vittoria che sentendolo parlare gli si gettava addosso piangendo. ?Cosa è accaduto? Le chiese lui. La giovane le rispose:?mio padre ti ha colpito pensando che tu fossi un ladro. Lo aiutarono ad alzarsi e Lucia gli porse un bicchiere d'acqua. ?Bevi disgraziato che adesso parliamo. Aldo si preoccupò e rivolgendosi alla ragazza le chiese: ?Vittoria sei Malata? Mentre lei aveva ripreso a piangere. Aldo incalzandola proseguì: ?Perché non uscivi? La ragazza per tutta risposta si girò e andò a rifugiarsi nella stanza da letto dei genitori. ?Oh fatemi capire cos'è le è successo? ?Voglio capire! E lo chiese con voce irritata dirigendo la sua domanda a Donna Lucia. Signora Lucia l'ho con lei! La donna lo ignorò continuando a girare per la cucina, come se non fosse accaduto nulla. Aldo spazientito nuovamente alzò la voce:?arrivo qui come tutte le altre sere chiedo di Vittoria, lei si comporta come una pazza e non mi vuol fare entrare, poi l'altro che sicuramente è pazzo quanto lei mi spranga con il tubo di ferro, ditemi che cosa ho fatto per meritare questo trattamento! Lucia come se fosse una serata delle tante nel frattempo aveva messo sulla stufa il bricco del caffè, mentre Santino rimase lì con il viso rivolto verso il muro. Il profumo del caffè riempì la stanza mentre Aldo si massaggiava il capo. Quando la donna finì di sistemare le tazzine sul tavolo, portò le mani sui fianchi e iniziò a fissarlo. Lui continuò a non capire cosa avesse da guardare. Lei con tono falsamente materno gli chiese: ?sai cosa significa avere una famiglia? Tirare su un bambino? Sai cosa avete combinato voi due? ?Perché mi fa queste domande? Io non ho una famiglia e neanche un bambino. Per il momento sono fidanzato e un domani si vedrà. ?Sei forse tonto? Vittoria aspetta un bambino! Tu sei sicuramente il padre. Aldo a quelle parole si alzò in piedi e spostando Lucia da una parte, si avviò nella stanza, dove si trovava la ragazza. La trovò sdraiata sul letto che si disperava. ?È vero quello che dice tua madre? Oh forza Vittoria! Smettila di piangere! È vero quello che mi ha detto? Lei lo fissò per un attimo poi portò le mani sulla pancia e gli disse che era incinta. Aldo fece un passo indietro come se fosse stato colpito da un pugno. Nella stanza calò il silenzio e nella testa del giovane vorticosamente mille pensieri presero il posto del dolore causato dalla botta ricevuta da Santino. Dopo un'interminabile pausa interrotta a tratti dai singhiozzi della giovane, Aldo esclamò: ?cazzo! Questa volta è una cosa seria! Poi prese Vittoria e la fece alzare dal letto. Nel frattempo dalla cucina da quando Aldo era entrato nella stanza dove era Vittoria, non arrivava nessun rumore. Santino e Lucia erano attenti a cercare di captare ogni movimento, ogni parola detta dai due. Aldo ruppe il silenzio e rivolgendosi a Vittoria: ?vieni parliamone con tua madre. Con decisione trascinò la ragazza verso la cucina che improvvisamente riprese vita. Si udirono rumore di piatti e stoviglie, qualche sedia spostata ad arte rumorosamente. I due uscirono dalla stanza e Aldo affrontò Lucia mentre Santino era sparito e non era più nell'angolo. ?Signora io mi assumo ogni responsabilità di quello che è accaduto. Sono pronto a sposare Vittoria e questo bambino nascerà, io non so cosa ne pensa lei, noi ci sposeremo. Lucia rimase impassibile a quelle parole e dopo aver sistemato qualcosa vicino all'altarino, fissò Aldo e gli disse: vorrei vedere che non la sposi! E lo disse alzando la scopa minacciosa poi prese la moka e servì il caffè. Aldo guardò Vittoria e le disse: ?Ora che aspetti un figlio mio sarebbe giusto che tu ti trasferisca da me. Lei guardò la madre per avere un cenno di consenso Lucia le disse: ? se a te va bene, non ho niente in contrario.

                                                                            ***

Nel frattempo mentre si parlava, a Zariquiequi si era fatto notte e la temperatura era frizzante. Il racconto ci aveva coinvolto molto che pur tremando, rimanemmo seduti sulla panchina di marmo a parlare per ore, poi l'albergatore ci chiamò: ?Ola peregrinos voy a cerrar la puerta, son las diez! ?bien vamos señor. Riposammo bene con sonno continuo fino il mattino, anche se al risveglio i dolori non accennarono a diminuire. Posso affermare che in quel periodo conoscemmo muscoli che non pensavamo di avere.

Quarta tappa: Lorca

Il mattino seguente dopo la colazione, ci avviammo verso l'Alto del Perdon. Superata l'irta salita, giungemmo sulla cima, dove tra le numerose pale eoliche vi è una scultura moderna che rappresenta uomini e animali in cammino verso Santiago e una scritta che traduco per le mie conoscenze dello Spagnolo nel miglior modo possibile: Alto del Perdon dove s'incrociano il cammino dei venti con il cammino delle stelle sul cammino di Santiago. Siamo gente di pianura e ben presto ce ne rendemmo conto. Come se non l'avessimo già capito durante la tappa di Roncisvalle. Dopo aver ammirato la valle che si apriva ai piedi dell'Alto del Perdon, iniziammo a scendere la ripidissima discesa. Il sentiero che a prima vista poteva sembrare una sterrata si rivelò ben presto molto insidioso. Rocco pur avendo qualche anno più di noi, sembrò molto più a suo agio e ben presto scomparve dietro le numerose curve nascoste dalla fitta vegetazione. Isabella ed io dopo qualche centinaio di metri ci dovemmo fermare a sistemare le scarpe. Eravamo alle solite, le dita dei piedi ci battevano ad ogni passo, il ripido sentiero ci stava mettendo in crisi e durante una delle numerose pause pensammo a una tecnica che in seguito usammo anche in salita, si trattava di zigzagare sul sentiero scendendo qualche metro mentre facevamo la diagonale. Faticammo molto meno, anche se il tempo di percorrenza aumentò in modo esponenziale. Più era lunga la diagonale, più aumentavano i chilometri percorsi e le ore di cammino.
Giungemmo a Uterga e sulla piazza centrale davanti alla chiesa, trovammo un gruppo di bambini che si allenavamo a diventare toreadores, utilizzando un attrezzo ricavato dalla forcella di una bicicletta con annessa la ruota. Sul manubrio avevano applicato vere corna di toro e si rincorrevano per il paese e qualche volta incornandosi sul serio. Superato il piccolo centro abitato, la discesa divenne agevole. Rocco sembrava fosse sparito e noi pensammo che avesse deciso di continuare da solo. Lo cercammo a Uterga senza risultato, poi velocizzammo il passo tentando di raggiungerlo. Mentre avanzavamo abbastanza velocemente lungo il sentiero, incontrammo un pellegrino che zoppicava, ci fermammo e gli chiesi:? ti serve aiuto? Lui si fermò e si sedette su una roccia al lato del sentiero e sbuffando rispose: ?Ho preso una storta scendendo dall'Alto del Perdon. ?Alla caviglia? Gli chiesi. Lui mostrandomi il ginocchio gonfio mi disse: ?no alla caviglia guarda che ginocchio che ho! Isabella ed io avevamo con noi delle bende elastiche e gli chiedemmo se volesse bloccare l'arto, almeno per giungere a Puente la Reina. Lui rifiutò e dopo aver sorseggiato un poco d'acqua, si sollevo dalla roccia e ci disse: ? basta un poco di compagnia e camminare lentamente poi al paese andrò da un medico e mi farò curare. Percorremmo la distanza che mancava a Puente La Reina in compagnia dell'infortunato. Lui ci disse di essere un sacerdote della Diocesi di Torino e che non sopportava i francesi ma non ci spiegò perché. Poi incontrammo un pellegrino francese e capimmo che in particolare l'avesse con quel francese. Isabella ed io in seguito ne parlammo e pensammo che dovesse essere successo qualcosa prima che arrivassimo noi. Il sacerdote ci confidò che a Puente la Reina, sarebbe andato all'ostello dei Padres Reparadores, dove aveva qualche conoscenza. Giunti al paese, dopo qualche foto ricordo davanti al monumento del cammino eretto nel punto dove confluiscono tutti i cammini diretti a Compostela, lasciammo il sacerdote al proprio destino davanti al complesso religioso e iniziammo a cercare Rocco. Lo cercammo per circa un'ora e perso le speranze di trovarlo decidemmo di avviarci verso Lorca. Uscendo dalla cittadina ci rifornimmo d'acqua a una fontana sita all'imbocco del ponte dell'undicesimo secolo stile romanico fatto costruire dalla Regina Munia per agevolare all'attraversamento del fiume ai pellegrini diretti a Santiago.
Prima di attraversarlo ammirammo il bel ponte e i giardini che sono lungo l'argine del fiume. La nostra attenzione fu attirata da un pellegrino che era intento a dar da mangiare a un pastore tedesco con un cucchiaio, incuriositi dalla scena, scendemmo sull'argine e notammo che il cane viaggiava su una carrozzina attaccata a una bicicletta. Salutammo il pellegrino e gli chiedemmo come mai quella scelta di far viaggiare il cane sul trasporto. La motivazione era tenera e nello stesso tempo triste per il cane sarebbe stato l'ultimo viaggio perché era molto malato. Lo salutammo con il nodo alla gola e mentre stavamo salendo la scalinata per tornare sul piano stradale vedemmo Rocco che ci aspettava vicino alla fontana. ?Pensavamo di averti perso per sempre! Dove eri? Lui con un bel sorriso ci disse: ?fermo lungo la via centrale, pensando che passaste da lì. Quando non vi ho visto ho ripreso il cammino, poi vi notato sotto il ponte che parlavate con il pellegrino con il cane ed eccomi qui. Gli raccontammo del prete e del francese che gli era antipatico mentre ci avviammo verso Lorca. Come il solito lui allungò il passo e se ne va promettendo che ci saremmo trovati alla fine della tappa. La distanza che restava da percorrere era di circa dodici chilometri. La prima parte una salita molto faticosa, poi un saliscendi accettabile fino a Cirauqui, e per raggiungere Lorca restava da percorrere una leggera discesa. Approfittai del tempo che avevamo (circa tre ore di cammino) per continuare il racconto dove l'avevo lasciato.


Vittoria va a vivere nella casa di Aldo
Vittoria si trasferì da Aldo, la casa della sua famiglia era a metà fra la campagna il mare e il fiume. Quasi una fattoria perché non c'erano animali di grosse dimensioni come mucche, cavalli o pecore, a parte un maiale "ogni anno sempre diverso" rinchiuso in un piccolo locale. Gli altri animali erano per lo più galline, polli, conigli e un cane sempre legato con una catena all'angolo della casa.
Quel trasferimento sollevò un certo clamore intorno ai due giovani, perché in quel tempo non era consueto che una donna lasciasse la propria casa prima che si fosse sposata. La gravidanza poi accentuò le chiacchiere e le poche amicizie "in particolare quelle di Vittoria" si diluirono tra risolini e pregiudizio, limitandosi a qualche saluto frettoloso. Lei non lasciò il lavoro, ogni mattino percorreva a piedi il lungo tragitto che la portava al capolinea dei bus. Nel tempo notò che le persone conosciute la evitavano, al contrario di quelle sconosciute che vedendo la sua condizione di futura mamma, erano gentili e premurose. Questo la invogliò a stare più tempo possibile fuori dal quartiere.
Aldo era impegnato come muratore nei numerosi cantieri sorti in più parti della cittadina e spesso durante la notte tra il sabato e la Domenica con i suoi amici tirava su case abusive. Poi c'era il pugilato, la sua grande passione, passava ore nella palestra ad allenarsi. Il tempo che restava ai due giovani era poco e lo sfruttavano per parlare dei loro progetti. Aldo non aveva smesso di sognare la platea pugilistica e all'Olimpiadi che si avvicinavano mentre il sogno di Vittoria rimaneva la casa che Aldo le aveva promesso.
Una sera mentre i quattro erano pronti per la cena, fu Ada la madre di Aldo ad affrontare la questione. ?Oggi è passato il prete! Pietro gli chiese un poco stizzito: ?che cosa è venuto a fare? ?Solo a trovarmi lui spesso fa un giro per le case dei fedeli. A Pietro come se gli fosse venuta l'orticaria, si alzò e rivolgendosi alla moglie:?quali fedeli? Io non vado mai in chiesa! ?Parla per te io vado alla funzione quasi tutti i giorni. Ada fece una pausa, poi, riprese a parlare senza guardare il marito: ?abbiamo anche parlato del matrimonio. ?Quale matrimonio? Chiese Pietro. Vittoria e Aldo in silenzio ascoltarono i due senza intromettersi, lui sapeva, dove la madre sarebbe andata a parare. Ada incalzò Pietro: ?ha detto che si può fare una cerimonia semplice e che questa coppia non potrà certo vivere nel peccato per sempre. Poi rivolgendosi ai due ragazzi: ?Volete ancora della minestra voi due? Cercando di alleggerire il discorso che lei stessa aveva innescato. Pietro guardò Aldo e gli disse: ?tu non hai niente da dire in proposito? Non sei interessato alla cosa? Quando pensi di sposarla? Il ragazzo non aveva molta voglia di parlarne ma incalzato dal padre: ?Ho qualche soldo che ho messo via e se non facciamo un matrimonio sfarzoso, anche alla fine di novembre o i primi di Dicembre. Vittoria a quella dichiarazione fa un sobbalzo e a fatica trattenne il piatto della minestra che Ada le aveva appena passato. Un poco di liquido sbordò dal piatto e cadde sul tavolo, la madre di Aldo senza battere ciglio con il bordo della parannanza mentre asciugò il brodo versato, le chiese se avesse un poco di corredo. Vittoria smise di mangiare e disse: ?poche cose che mia madre ha messo da parte. Le conserva in un baule: lenzuola, federe, asciugamani e qualche camicia da notte. Intanto Pietro si era fermato accanto alla stufa e con un coltellino tolse la corteccia a un rametto di pioppo poi, gli fece una punta acuminata, prese due fettine di pancetta e le infilò sul ramo. Aprì lo sportello della caldaia, quando queste furono abbrustolite, le mise tra due fette di pane e ritornò a sedersi al tavolo, riempì un bicchiere con il vino e dopo averne bevuto qualche sorso, si rivolse ad Aldo: ?quindi avevi già deciso? Quando pensavi di dirmelo? Il giovane si alzò e con fare impacciato di chi non sa bene cosa dire, iniziò a girare nella piccola cucina e quando s'incrociò con la madre intenta a sparecchiare con voce bassa le disse: ?certo che tu un altro discorso non lo potevi prendere? Lei per niente intimorita dall'accusa: ?una volta o l'altra se ne doveva parlare, non credi? Poi rivolgendosi al padre: ?te lo avrei detto in questi giorni, se io non fossi stato impegnato con il lavoro e la palestra poi … c'è il problema della casa. Pietro senza guardare Aldo rimase in silenzio, tutti i presenti fecero altrettanto quasi fossero i personaggi di una vecchia foto, rimasero immobili. Ada con uno straccio in mano accanto al lavabo, Vittoria seduta nell'angolo opposto, Aldo in piedi accanto alla porta quasi volesse fuggire, tutti con lo sguardo rivolto verso l'uomo intento a mordere le due fette di pane e la pancetta arrostita. Lentamente Pietro alzò la testa mollando per un attimo il panino e si rivolse ad Aldo: ?Se non vi va stretto, potete rimanere qui da noi quanto volete, non è la casa, il problema. La scena riprese vita come se un pericolo fosse stato appena scampato. Poi rivolgendosi alla ragazza: ?i tuoi genitori cosa ne pensano di tutto questo? ?Magari possiamo vederci così ci mettiamo d'accordo e dividiamo le spese! Vittoria sapeva che i suoi non navigavano nell'oro e che il discorso dei soldi sarebbe stato un problema ostico da risolvere. Con voce bassa rispose all'uomo: ?potrei dirgli che domenica li vorreste incontrare e dopo una piccola pausa continuò se a voi sta bene? ?Certo digli che sono invitati al pranzo. Ada sistemò la carne e le verdure sul tavolo visibilmente soddisfatta del risultato raggiunto. Durante la cena non parlarono più del matrimonio e lei si fece il segno della croce.

                                                                           ***

Mentre parlavamo Isabella ed io non ci rendemmo conto che da sud giungevano nubi nere piene d'acqua. Quando stavamo superando un ponte romano seminascosto dai rovi, il temporale esplose con tutta la violenza possibile, il vento fortissimo ci fece sbandare e decidemmo di accucciarsi dietro un grande cespuglio e attendere che il peggio passasse. Dopo i primi dieci minuti violentissimi la pioggia iniziò a essere regolare ma intensa, la temperatura scese repentinamente, sembrava fosse quasi inverno e non i primi giorni d'agosto. La pioggia ci martellò fino a Lorca. L'acqua alle caviglie ci rallentò e giungemmo a destinazione circa alle venti, anziché alla diciassette, l'ora che avevamo previsto per la fine della tappa. Non perdemmo tempo il primo Albergue che incontrammo, ci infilammo dentro mentre stava chiudendo la cucina, il proprietario gentilmente ci fece cenare e ci procurò due letti per dormire e dopo la doccia a nanna in tutta fretta e per questa tappa non c'è altro da dire a parte il fatto che alle ventuno già eravamo nelle braccia di Orfeo.

Quinta tappa: Los Arcos
Il mattino seguente al risveglio, memori del temporale del giorno prima pensammo che ci aspettasse una lunga camminata sotto l'acqua. Confermandoci l'informazione che avevamo sulla variabilità climatica di quella parte della Spagna, all'uscita dall'alberge fummo piacevolmente sorpresi poiché trovammo il cielo ovunque si potesse osservare sgombro dalle nuvole. La temperatura come il solito era frizzantina adatta alla lunga camminata che ci attendeva. Quel giorno dovevamo salire fino a circa settecento cinquanta metri sul livello del mare fino a raggiungere la località Villamayor Monjardin per poi ridiscendere a quattrocentocinquanta metri. Da lì fino a Los Arcos la strada sarebbe stata più agevole e a parte qualche leggero saliscendi sostanzialmente in pianura. Tutto questo percorrendo circa trentasette chilometri.
Sostammo seduti davanti all'alberge per qualche minuto indugiando nel dare il via alla tappa. Sorseggiammo acqua e the facendo preventivamente il pieno di liquidi. Osservammo i gruppi di pellegrini che sfilavano rumorosi sulla strada e tra i passanti cercammo Rocco. Non vedendolo tra loro pensai che si fosse stancato di camminare insieme a due con il passo lento come noi. Come narravo all'inizio di questo racconto ognuno ha il suo passo. Il nostro era un viaggiare lento e con il senno di poi questo modo di andare ebbe la sua valenza e fissò per sempre nella nostra mente quel viaggio.
Iniziammo a camminare alla volta di Los Arcos. La strada da coprire era molta e qui entrò in gioco un'altra tecnica che apprendemmo lungo il viaggio. Si trattava di svagare la mente con ogni mezzo per esorcizzare la fatica: pensare alla famiglia lasciata a casa, curiosare del paesaggio che ci circondava, apprezzare la lentezza come un vantaggio e non come un ostacolo al nostro cammino, lunghi silenzi meditativi, alternati a proficue discussione sulla nostra vita e quella del nostro ormai scomparso compagno di viaggio Rocco. Tutto fu buono per non pensare alla lunghezza delle tappe. Le nostre gambe giravano bene e mettendo in pratica quello che ho descritto sopra tirai fuori il quaderno degli appunti. Facciamo un passo indietro, torniamo a quando i quattro, archiviata la discussione sul matrimonio, erano intenti a cenare e Ada si faceva il segno della croce avendo capito che non avrebbe dovuto sborsare molti soldi per la cerimonia di Vittoria e Aldo. Io avevo preso un po' di vantaggio lungo il sentiero quando Isabella mi affianco mentre sfogliavo i miei appunti e mi chiese: "Se lei non lo amava perché acconsentì a sposarlo?" Risposi che i tempi erano quelli che erano e per la maggioranza delle persone era meglio un matrimonio riparatore piuttosto che lo scandalo e, poi lui era sinceramente innamorato.
Cercando di sbrogliare il bandolo della matassa le rammentai i nomi dei protagonisti di quella cena: Ada, Vittoria, Pietro e Aldo. In seguito le cose andarono così: terminata la cena Pietro e Aldo, si sedettero sotto la pergola. L'aria giungeva tiepida dal mare, l'umidità incollava i vestiti alla pelle e gli alberi intorno alla casa flettevano colpiti dalle raffiche del vento. Pietro osservava il cielo e annusando l'aria scuoteva la testa dicendo: ? sa di salmastro è lo Scirocco e porterà il brutto tempo.

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Mentre era intento a tranciare le rimanenze di sigaro toscano conservato in una scatola di biscotti, prese la pipa, la riempì e chiese ad Aldo di prendergli un bicchiere di vino. Il figlio entrò in cucina e ne uscì poco dopo con il bicchiere colmo. Il vecchio aspirò dalla pipa ampie boccate, Aldo accanto a lui lo guardava meravigliato come quando era bambino, pensando sempre alla stessa cosa: " Come farà a non soffocare con tutto quel fumo dentro la bocca?" I due rimasero a lungo in silenzio poi Pietro continuando a guardare il cielo gli disse: ?Aldo per te adesso inizia una nuova vita. Un figlio e una moglie non sono una cosa da poco e non sarà sempre facile. Aldo non riuscì a comprendere la preoccupazione del padre e pensò: "Che cosa potrà cambiare?" E senza guardare il padre gli rispose che la vita sarà come sempre, si qualcosa cambierà, avrò un figlio e una moglie ma andrà tutto bene sono sicuro. Poi alzando il viso guardò il vecchio e rassicurandolo continuò: ?vedrai papà ce la farò. Lavoro e poi c'è la boxe, farò soldi e andrò alle Olimpiadi. Pietro mise una mano sulla spalla del figlio e scuotendolo lievemente gli disse:? non sarà così facile anche gli altri vogliono andarci e la pensano come te. L'importante è pensare che da adesso in poi ci sarà Vittoria e tra non molto anche vostro figlio.
Rimasero in silenzio per un po' poi Aldo si alzò e salutò il padre: ?vado a dormire, domani sarà una giornata dura buonanotte. ?Buonanotte, rispose Pietro, mentre il figlio si sfilò dalla mano del padre che era avvolto dai pensieri e da una nuvola di fumo.

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Parlare mentre si camminava, era salutare, sembrava faticassimo molto meno e avanzavamo senza renderci conto della distanza che si copriva. Poi per quanto ci riguardava, aveva una doppia valenza, avanzavamo e mettevamo insieme il racconto che avremmo voluto scrivere al ritorno dal viaggio. La storia sembrò prendere forma agevolmente, intrecciando i ricordi famigliari, con le cose che avevo appreso dalle chiacchiere nel luogo dove vissi la mia infanzia. Detto questo, lasciamo per un attimo Rocco e la sua famiglia e torniamo al cammino di Santiago.


Nel frattempo giungemmo a Villatuerta e la superammo velocemente, perché i chilometri che restavano da percorrere erano molti. Il fatto che non potemmo visitare tutti i luoghi che incontrammo lungo il cammino fu una delle cose che ci contrariò molto, e ci lasciò l'amaro in bocca e noi due ci ripromettemmo di ritornare in quei luoghi, "chissà". La preoccupazione di trovare gli Albergue al completo a volte ci spinse a fare in fretta, contravvenendo alla nostra indole di viaggiatori lenti. Nonostante quegli eroici sforzi profusi i pellegrini, ci superarono a gruppi, singolarmente, in bicicletta e con ogni mezzo trasporto possibile e mentre loro andavano, noi i posti per dormire li vedevamo sparire man mano che questi ci salutavano così:?Ola Buen camino! Facemmo buon viso a cattiva sorte e contraccambiammo calorosamente ogni saluto. Affrontammo un dislivello di circa cento metri e dopo che scollinammo, scendendo a Estella. Giunti in città la trovammo affollata. Quello doveva essere un giorno di festa, perché tutte le persone che incontrammo, erano vestite con calzoni e blusa di colore bianco, ed esibivano orgogliosamente un fazzoletto rosso che gli fasciava il collo. Pensammo che in tutta quella frenesia ci dovessero entrare i tori, qualcosa come la festa di San Firmino a Pamplona. Nonostante la fretta ci opprimesse, non potemmo fare a meno di visitare lo splendido chiostro della chiesa romanica dedicata a San Pedro. Avremmo voluto visitare anche la parte antica della città e altri luoghi religiosi come: la chiesa del Santo Sepolcro, approfondire la storia della città, che fu fondata nel 1090 per dare ristoro ai pellegrini in viaggio verso Compostela, ma per i motivi già detti in precedenza fummo costretti dal poco tempo a disposizione a riprendere il viaggio. Subito dopo Estella, nei sette chilometri di salita per raggiungere Villa Major di Monjardin sapevamo che la strada si sarebbe impennata di circa trecento cinquanta metri sul livello del mare. All'uscita dalla città, trovammo Rocco che era seduto su una staccionata e beatamente mangiava un panino. ?Pellegrino! Conosci la strada per Santiago? Gli chiesi mentre mi avvicinai. Lui ci guardò sorridendo e mentre indicava un drappello di pellegrini che faticosamente arrancavano sulla salita, ci disse:?sicuro cari amici, ma se seguirete quegli uomini, vi condurranno dove sgorga del buon vino. Ci abbracciammo e dopo le varie spiegazioni sul perché fosse sparito, riprendemmo insieme il viaggio. Giungemmo dopo aver superato il tratto di strada in salita nel luogo che Rocco aveva nominato: la Bodegas Irache. Sulla destra della strada in un piccolo largo vedemmo due rubinetti, messi lì a disposizione dei pellegrini. In uno sgorgava l'acqua, nell'altro il vino rosso prodotto dai frati. Il loro monastero si trova alla nostra sinistra. Al lato della fonte c'è una targa che invita a servirsi di un buon sorso: "Pellegrino, se vuoi arrivare a Santiago con forza e vitalità, di questo vino butta giù un sorso e brinda per la felicità." Scaricammo gli zaini e riempimmo le nostre tazze d'acciaio e brindammo insieme a una coppia di pellegrini tedeschi che nel frattempo si erano aggiunti a noi. Riempimmo le borracce questa volta con l'acqua e riprendemmo a camminare. Percorsi un centinaio di metri ci fermammo in un piccolo parco sito davanti all'entrata del monastero. In onor del vero, devo dire che non capimmo bene se era il museo del vino o il monastero vero e proprio. Dopo aver tentato di visitare il complesso che era chiuso, buttammo gli zaini a terra e ci addormentammo sdraiati sull'erba, il sorso di vino fu fatale. Quando ci svegliammo, era trascorsa circa un'ora e intorno a noi si era formato una specie d'accampamento. Molti pellegrini, che probabilmente come noi si erano fermati a sorseggiare il vino della Bodegas de Irache, avevano scelto quel luogo per sostare. Facemmo conoscenza con due ragazzi italiani e una ragazza in particolare attirò la mia attenzione. Lei era seduta su una panchina, intenta a medicare i piedi. Guardai bene la sua condizione e non avevo mai visto qualcosa del genere, ogni dito e la pianta dei piedi erano una sola vescica. La giovane, bucava, cuciva e disinfettava. La prima cosa che mi venne in mente era che lei non avrebbe potuto continuare. Invece sovvertendo ogni mio pensiero la incontrai più volte lungo il tragitto e sempre con gli stessi problemi ai piedi ma sempre in viaggio verso la meta. Riprendemmo il cammino verso Monjardin e l'ultima parte della salita (circa quattro chilometri) fu faticosissima. A fasi alterne, demmo la responsabilità al vino e alla scarsa idratazione e insieme nominammo quel tratto del cammino: la Via Crucis. Furono molte le volte che ci fermammo, (crollammo sarebbe il termine esatto). Una volta scollinato, il primo tratto in discesa, non ci fu d'aiuto. Il sentiero era molto ripido seguito da una serie di saliscendi mortali e quando la strada spianò, ci trovammo a camminare in completa solitudine tra vigneti alternati a distese di campi di grano tagliato e fin dove si potesse vedere il paesaggio, non cambiava. Ai lati della sterrata vi erano balle di paglia accumulate in altezza come fossero palazzi, la strada si snodava strisciante come un serpente fino all'orizzonte e ci dava la sensazione che non saremmo giunti mai a Los Arcos. Cercai d'estraniarmi dall'ambiente che mi circondava, pensando alla storia dell'ignaro Rocco. Egli mi precedeva e sapevo che prima o dopo l'avrei dovuto informare di quello che stavo "tramando" nei suoi confronti.

                                                                     ***
Riunione famigliare
Non conoscendo bene i particolari ho immaginato che fosse andata così.
La Domenica successiva alla cena dove si era parlato del matrimonio tra Vittoria e Aldo, avvenuta a casa dei genitori di quest'ultimo. I Genitori di Vittoria, Lucia e Santino, percorrevano la strada che portava alla casa di Pietro.
?Potevamo inforcare la bicicletta lamentava Santino e Lucia ribatté prontamente: ?Dove mi sarei seduta? Sopra la canna? ?Perché no! Da ragazzi lo facevamo spesso: ?appunto da giovani! Ora è passato qualche anno d'allora e non lo siamo più! Aggiunse ironicamente lei. ?Piuttosto allunga il passo invece di lamentarti. Qualche gocciolina iniziò a cadere e restava ancora molta strada per arrivare a destinazione. Lucia aprì l'ombrello non tanto per coprirsi, ma per proteggere il dolce che durante la notte aveva preparato. Lucia ci teneva molto che arrivasse a casa dei futuri consuoceri in buone condizioni.
Giunti a destinazione la pioggerellina diventò un temporale. Davanti al cancelletto di legno c'era Pietro che li attendeva con un grande ombrello colorato. Lo stradello che portava all'uscio, era invaso dalle pozzanghere. ?Tempo da lupi! Disse Pietro ai due mentre cercava di proteggerli con un grande ombrello. ?Mi dispiace che vi siete bagnati: ?non si preoccupi non è colpa sua. Disse Lucia mentre cercava di proteggere il dolce. Il tempo non si comanda e fa sempre di testa sua. I tre evitando le pozzanghere giunsero sotto la pergola che proteggeva l'entrata. Dall'interno giunse la voce di Ada: ?falli entrare! Non li tenere al freddo. Lucia e Santino varcarono la porta che immetteva direttamente nella cucina. La stufa era accesa e mandava il giusto tepore per chi si era bagnato sotto la pioggia. ?Buongiorno! Datemi i cappotti li metto ad asciugare vicino alla stufa, disse Ada. Lucia mentre le consegnava il cappotto, diede una rapida occhiata nella stanza e pensò: " non è poi più grande della mia questa cucina". Sulla sinistra c'era una credenza celeste pastello e a destra un tavolo sufficiente almeno per otto persone, sopra di esso una finestra, in fondo alla stanza il piano di marmo che terminava con il lavandino incastrato all'angolo. Nella parte opposta al lavandino, c'era una cucina a gas e al suo fianco la stufa a legna. Subito dopo la stufa c'era l'ingresso che dava sul corridoio che conduceva alle altre due stanze. Sistemati i cappotti ad asciugare, Ada riprese a cucinare. Pietro dopo averli fatti accomodare, si recò verso la credenza e prese una bottiglia di vino e ne offrì un bicchiere a Santino, poi rivolgendosi a Lucia: ?ne prenda anche lei, le farà bene dopo tutta l'acqua che ha preso venendo da noi. ?Grazie lo accetto volentieri, mi scalderà le ossa e attenua i malanni. Lucia dopo aver sorseggiato il vino, si rivolse ad Ada e chiese dove fossero i ragazzi. ?Nella stanza, loro dormono fino a tardi. Le rispose la donna senza togliere gli occhi dai fornelli. Il caldo della stufa e il vino, abbatterono ogni altra formalità e tra i quattro si stabilì un rapporto confidenziale sopra ogni attesa.
Il temporale si faceva sentire con lunghi brontolii, con improvvise saette illuminava le parti in ombra della casa. Pietro si affacciò spesso dalla finestra e guardava preoccupato dalla parte dove scorreva il fiume, anche se il Tevere era sufficientemente lontano dalla casa, con quel temporale una piena era sempre un evento temuto e ogni volta che si affacciava, ripeteva: ?speriamo che smetta presto e che i canali reggano o ci ritroviamo con l'acqua in casa. Il primo dei due ragazzi che si fece vivo in cucina fu Aldo e dopo pochi minuti, Vittoria si unì a loro. La ragazza salutò i presenti:?Buongiorno! Lei abbracciò la madre e poi salutò il padre. La gravidanza iniziava a vedersi e il vestito della ragazza restava leggermente alto sul davanti scoprendo parte delle gambe. ?Dovresti indossare un vestito più largo, le consigliò la madre. ?Lo so, devo andare con Aldo a comprarlo. Poi rivolgendosi al ragazzo: ?tu come stai? Aldo con un riflesso incondizionato si toccò la testa, e con un sorriso le rispose: ?bene il mal di testa mi è passato. Nella stanza risero tutti sapendo a cosa si riferiva il giovane. Il pranzo filò liscio fino a quando parlarono del matrimonio. Fino a quel momento tutti abilmente avevano evitato il discorso, fu Ada rompere gli indugi e lo fece in modo diretto: ?per il matrimonio serve il denaro! E noi non ne abbiamo molto! Anche se Aldo ha qualcosa da parte e Vittoria ha risparmiato dei soldi adesso lei, con l'avanzare della gravidanza, dovrà lasciare il lavoro. Mandare avanti la famiglia costa e noi possiamo aiutarli fino a un certo punto. E dopo? Ad Aldo l'intervento di sua madre sembrò più un'aggressione piuttosto che una domanda e decise di sedare sul nascere ogni polemica. ?I soldi che abbiamo risparmiato saranno sufficienti per il matrimonio. I genitori dei giovani rimasero in silenzio e non si capiva se meravigliati dall'uscita di Aldo o se sollevati da un problema insormontabile per loro. Pietro si alzò dalla sedia e iniziò a camminare avanti e indietro percorrendo la cucina dal muro alla porta. Rompendo quel silenzio, pesante come un macigno disse: ?Possiamo organizzare il pranzo qui da noi, lo spazio c'è. Ada si alzò e controbatté: ? è quasi inverno piove spesso e le giornate sono più corte. Dove lo organizzi questo benedetto pranzo? Senza scomporsi Pietro allargò le braccia come volesse abbracciare tutti e disse alla moglie: ?che problema ci sarà? Lo faremo a primavera! Lucia ebbe un sussulto a quella proposta e gli altri rimasero a bocca aperta senza parlare. Vittoria si guardò intorno e con un sorriso appena accennato all'angolo della bocca, guardò Aldo e i due come se fossero già d'accordo dissero: ?per noi è una buona idea così avremmo il tempo di mettere via qualche altro soldo. Lucia non ancora convinta provò a ribattere per farle cambiare idea: ?in primavera nascerà! Come farete? Aldo tagliò corto e disse: ?avremo un invitato in più! Stringendoci nella chiesa ci staremo tutti e non sarà mica la fine del mondo. Lucia poco convinta brontolando servì il dolce che aveva preparato per l'occasione. Pietro prese dalla credenza il liquore delle feste e brindarono ai futuri sposi e al prossimo nascituro.

La coscienza bussa alla porta del rimorso
Mentre macinavamo chilometri sul cammino, ero così preso a immaginare come fosse andata quel giorno la riunione tra le famiglie di Aldo e di Vittoria, che quasi non vedevo la strada. Solo quando sbandai sopra un dosso e ci strusciammo con Rocco, mi resi conto che il futuro protagonista della storia che stava prendendo forma nella mia mente camminava accanto a me. Scusandomi per la distrazione lo guardai e per un attimo mi sembrò che lui leggesse nei miei pensieri, tanto intensamente mi fissò. Sentii avvamparmi il viso e mi girai dall'altra parte per nascondere il rossore che sicuramente m'illumino il viso. ?Tutto bene? Chiese Rocco. Feci trascorrere un attimo, dove velocemente cercai le parole adatte:?tutto bene, risposi, poi, aggiunsi mentendo, sarà la stanchezza, questo paese non arriva mai. Sono ore che camminiamo nel nulla e non si vede una casa all'orizzonte. Lui mi guardò e mi disse: ?ti sei pentito a percorrere il Cammino di Santiago? Pensai per qualche secondo alla risposta e dissi: ?no! Guardare il film è stato meno faticoso, tuttavia il cammino è quello che mi sarei aspettato e non sono pentito, inoltre ho il tempo per pensare molto. Rocco rimase per qualche secondo in silenzio poi si avvicinò e mi sussurrò:?Ho visto, poco fa sembrava che fossi in trance. Nel frattempo Isabella notando che ci eravamo attardati, rallentò il passo e si fece raggiungere. ?Chi vuole fermarsi per un poco? Ci chiese. ?Si, ci vuole una sosta, giusto il tempo per riprendermi. Risposi io. Scaricammo gli zaini sul ciglio della strada, bevemmo un poco d'acqua, mentre un gruppo di pellegrini ciclisti passò a tutta velocità. ?Ecco almeno dieci posti letto che vanno in fumo! Esclamai e mi buttai giù supino, rassegnato a rimanere senza branda. Mi rivolsi a Rocco e dissi: ?per riprendere il discorso sulla motivazione del cammino, tu perché sei in viaggio? ?Te l'ho già detto non lo so, forse lo capirò a Santiago, o prima, chissà potreste essere voi il mio motivo? Fece una pausa e poi aggiunse:? in questo momento va bene così, non ci voglio pensare. Isabella interessata al discorso disse: ?per quanto mi riguarda ho l'idea chiara sulla motivazione, la mia meta è la tomba dell'Apostolo. Spero che il lungo cammino percorso prima d'arrivare davanti a Lui mi renda pronta e con l'anima pulita. ?Tu sei avvantaggiata, vai a consolidare una cosa che già ti appartiene: la fede. Disse Rocco. Ed io non potei che confermare quanto Rocco aveva appena detto. Intanto pensavo che io non fossi pulito per niente. Era da quando avevamo incontrato Rocco che scavavo nella sua vita, prendevo appunti e riesumavo ricordi che lo riguardavano e a sua insaputa, memorizzavo quanto più possibile sulla sua vicenda famigliare senza confidargli la mia intenzione di scriverci un libro. In quel momento mi sentii sporco. Quasi a voler alleggerire il peso di quella mancata sincerità, mi consolò il fatto, che anche Isabella fosse a conoscenza del mio comportamento nei confronti di Rocco come dire: "Mal comune mezzo gaudio" magra consolazione per me. Non potevo arrivare a Santiago senza dire niente al diretto interessato e dopo un lunghissimo momento di silenzio presi la decisione di confessargli tutto. ?Rocco ascoltami non so se sto comportandomi bene nei tuoi confronti. Lui mi fissò stupito e chiese: ? perché? Che cosa stai combinando? ?Conosco la storia dei tuoi, a casa mia se ne parlava spesso e quando ti ho riconosciuto, ho pensato che sarebbe stato interessante raccontarla in un libro. Rocco mi fissò in silenzio, e quello fu un momento che sarei voluto sparire. Isabella che era a conoscenza delle cose credo altrettanto. Seguì una lunga pausa carica di tensione, poi Rocco prese lo zaino e lo aprì. Dopo aver cercato tra gli indumenti, tirò fuori un vecchio quaderno voluminoso, unito insieme con un elastico che teneva compatte le pagine. Guardandomi fisso negli occhi stese il braccio e mi consegnò il manoscritto dicendo: ?quindi lo farai tu per me? Qui ci sono appunti che ti potrebbero servire, sono anni che lo porto con me senza sapere cosa farne. Ho pensato spesso a un libro e non ho mai trovato qualcuno che fosse interessato a scriverlo, adesso sei capitato tu e quindi a me va bene. Meravigliato da come si stavano mettendo le cose, gli chiesi: ?ti fidi di me??Di un principiante? Non sono scrittore! ?Però sei un pellegrino e questo basta. Sbottammo a ridere e ci caricammo gli zaini sulle spalle riprendendo la marcia verso Los Arcos senza dire una parola. Giungemmo nella cittadina molto tardi, manco a dirlo, l'ostello municipale lo trovammo al completo.

 

Dopo circa mezzora di ricerca, Isabella ed io ci contendemmo l'unica camera d'albergo disponibile con un certo Simone. Questo pellegrino era in viaggio per conto di un'emittente televisiva italiana. Dopo avergli strappato la camera, lui c'intervistò e in seguito tra una tappa e l'altra, fu quasi un appuntamento lo vedevamo girare con la telecamera mentre riprendeva i pellegrini in arrivo e in partenza. Rocco nel frattempo non avendo trovato posto per dormire nel nostro stesso albergo, si recò appena fuori dal paese e trovò una sistemazione in un piccolo albergue.
Quella sera nel tempo che ci rimase dopo la cena, visitammo la chiesa di Santa Maria tra la confusione delle celebrazioni alla Vergine. Il paese era in festa e colmo di eventi che susseguirono fino a notte tarda. Tra la folla stimolò la nostra curiosità, un pellegrino che viaggiava con il violino e un asino al seguito, noi avremmo voluto fargli qualche fotografia, ma il pellegrino non volle, spiegandoci che né lui né l'asino erano dei fenomeni da circo equestre. Rispettammo la sua volontà e ci avviammo verso l'albergo.

                                                                           ***
Sesta tappa: Viana
Giunti in albergo per qualche minuto pensai a quel prezioso quaderno che Rocco mi aveva ceduto, alla responsabilità che mi aveva dato nel dover scrivere il libro della sua vita e nonostante la voglia di sfogliarne qualche pagina, mi appisolai quasi subito. Il mattino seguente ci svegliò il camion che raccoglieva i rifiuti, guardai l'ora ed erano le sei. Notai che anche Isabella era sveglia e gli chiesi di approfittare del fatto che fosse così presto per mettersi in viaggio. Appena uscimmo dall'albergo, trovammo Rocco che si organizzava per la partenza. Gli chiedemmo come avesse riposato e lui ci rispose così, così:?meglio che in terra e peggio che su un letto. Caricò lo zaino e senza dire altro, prese a camminare davanti a noi. Avanzammo con un buon passo, anche se io tra i tre ero il più lento e quasi subito, Isabella mi lasciò indietro affiancando Rocco. I due presero un bel vantaggio, quasi cinquecento metri. Rimasi solo con i miei pensieri e tornai a ricostruire i frammenti di quella parte di storia che conoscevo.
La vicenda l'avevamo lasciata mentre le due famiglie brindavano all'accordo raggiunto. Vittoria e Aldo si sarebbero sposati in primavera e questa fu una delle parti che Vittoria confidò a mia madre.


Il Matrimonio
Per la giovane coppia i mesi passarono in fretta e giunse la primavera e alla fine d'aprile nacque Rocco. Vittoria e Aldo si sposarono a Maggio nella chiesa del quartiere, gli invitati alla cerimonia furono per lo più conoscenti e amici dei due ragazzi e tolti i rispettivi genitori nessun altro parente vi prese parte essendo loro originari di regioni lontane. Le difficoltà economiche di quel periodo e la distanza, avevano fatto respingere ogni invito inoltrato alla parentela. Il pranzo preparato da Ada e Lucia si svolse nell'ampio spiazzo che era davanti alla casa dei genitori di Aldo. Tutto andò bene e il vino fu abbondante e la festa andò avanti fino a tarda notte tra canti e balli. Il mattino dopo molti invitati erano sparsi un po' dappertutto, persino accanto alla casetta del maiale. Alcuni di questi che erano negli orti ancora addormentati furono recuperati da Ada e cacciati fuori a colpi di scopa. I due sposi dormirono fino a tardi e del bambino se ne occupò Lucia, che rimase per dare un aiuto alla consuocera a sistemare la confusione che avevano lasciato sul campo gli invitati. Dopo il matrimonio, i due ripresero la vita di sempre. Vittoria andava a servizio e Aldo a lavorare nei cantieri. Lui diminuì le sedute d'allenamento nonostante avesse sempre in mente il suo obiettivo: "La partecipazione alle Olimpiadi". Per il giovane le cose in seguito non andarono come aveva sperato, molti degli incontri svolti nella rappresentativa regionale li perse e non riuscì a fare il miglioramento necessario per entrare a far parte della rappresentativa nazionale e inesorabilmente ci fu il declino. Pian, piano gli addetti del settore persero interesse e lo lasciarono al proprio destino dicendo di lui: "È bravo ma non costante, non è affidabile per la Nazionale". Aldo perse numerosi altri incontri e con loro la speranza di vedere realizzato il suo sogno. Per qualche tempo continuò a combattere come dilettante nella squadra del quartiere, nelle feste dell'Unità e in qualche sagra di paese nei dintorni di Roma. La delusione per Rocco fu cocente e lo fece cadere in profonda depressione, da cui sembrava trovare sollievo ogni volta che si ubriacava. Così iniziò a frequentare assiduamente le osterie e i bar della zona, consumando regolarmente quasi tutti i soldi della paga. Il sabato Vittoria lo aspettava con ansia, facendo la spola dalla cucina, alla finestra della stanza che dava sulla strada. A notte inoltrata la donna usciva per andarlo a cercare nelle osterie e nei bar della borgata. Lo trovava ancora sporco di calce e ubriaco e dopo averlo convinto ad alzarsi lo portava a casa. Le prime volte nel tragitto verso il casale erano state quasi buffe. Rocco nella sua condizione insicura e traballante sostenendosi a lei canticchiava: ?sono fortunato ad avere te Vittoria, l'unica della mia vita. Poi infilava una mano nella tasca tirandone fuori quello che restava della paga: ?prendili, prendili tu prima che beva pure questi. Vittoria dopo aver preso i pochi spiccioli lo riportava a casa e lo metteva nel letto che puzzava di vino. Restando sola mentre si avviava fuori dalla casa la donna, si ripeteva quasi cantilenando "Non doveva andare in questo modo, non così". Poi si sedeva sulla vecchia sedia di paglia a ripensare ai sogni che vedeva svanire giorno dopo l'altro, all'amore che non era arrivato, al fatto che la gravidanza e la nascita del figlio avessero complicato tutto e non riuscendo a prendere sonno, restava lì, a piangere fino il mattino. Una di quelle volte Pietro la trovò con la testa ripiegata sulla spalla con quei pochi soldi stretti tra le mani che gli aveva dato Aldo. ?Vittoria! Vittoria! Svegliati! Che cosa fai ancora qui seduta? Stai male? ?No mi sono solo appisolata e non mi sono resa conto del tempo che passava. Adesso vado a lavorare. Scattò dalla sedia con aria confusa. ?Dove vai? Dove vai? Sono le sette del mattino! Vai a riposare almeno un'ora. Le disse Pietro sostenendola per un braccio. ?Si ha ragione, almeno un'ora, dovrò riposare, sussurrò Vittoria mentre si avviò verso la stanza da letto. Quando aprì la porta della stanza, trovò Aldo che dormiva e ronfava rumorosamente, lei si sdraiò accanto a lui e riprese a singhiozzare fino a che si lasciò andare a un sonno liberatorio.


Mentre io viaggiavo nei ricordi e prendevo appunti, i due pellegrini che mi precedevano, Isabella e Rocco, non accennarono a rallentare e così andammo avanti fino a Sansol, una volta superato il paese proseguimmo fino a giungere a Torres del Rio e a quel punto, restavano circa una decina di chilometri alla fine della tappa e saremmo giunti a Viana. In quei lunghi tratti percorsi in solitudine, sembrò che i due non mi volessero disturbare e darmi il modo d'elaborare quello che in seguito avrei scritto. Devo confessare, che anche se mi avrebbe fatto piacere un poco di conversazione per dare tregua alla mente, spesso in quei momenti preferii restare solo e non chiedergli di rallentare, mentre io continuavo a frammentare, scovare e riesumare vecchi ricordi ricucendoli insieme nel miglior modo possibile.

Un Matrimonio riparatore non aggiusta proprio niente.
In seguito la situazione tra i due divenne insostenibile e con il passare del tempo, Aldo quando beveva diventò sempre più violento e Vittoria iniziò a portare i segni di quella brutalità. Le liti tra i due divennero frequenti e lei spesso per sfuggire alle percosse, si rifugiava nella casa della madre. Il figlio (Rocco) spesso era lasciato in custodia dai nonni paterni. Così la coppia tra alti e bassi passò i sei anni successivi al matrimonio. La casa che Aldo aveva promesso a Vittoria non arrivò e lei perse ogni speranza di possederne una tutta sua. Continuarono a vivere nella stanza che Ada e Pietro gli avevano messo a disposizione e che doveva servire per i primi tempi. Aldo perse un lavoro dopo l'altro, ed era più il tempo che passava all'osteria che in casa e a ogni pretesto, picchiava Vittoria e Rocco. I soldi per vivere ormai restavano solo quelli che lei guadagnava andando a servizio, la donna tentò ogni strategia per far rinsavire il marito, non disdegnò neanche le pratiche magiche di Lucia, ma non ottenne nessun risultato. Un giorno dopo l'ennesima violenta lite con Aldo, Vittoria si recò dalla madre e quando giunse da lei, aveva il volto tumefatto dai pugni ricevuti e il sangue uscito dalle ferite le incrostava il viso, disegnandole una lunga e scura mappa screpolata che le scendeva fino sul collo, per sparire in quel che rimaneva del vestito. Lucia vedendola varcare la porta in quelle condizioni, si portò le mani sul viso e sorreggendola la fece sdraiare sul letto. La spogliò terminando di strappare quello che l'era rimasto del vestito, poi la madre si allontanò e ritornò con un recipiente colmo d'acqua e un panno umido. Lucia pregando iniziò a lavare via il sangue dal corpo della figlia e quando la giovane fu completamente pulita, delicatamente la asciugò, mentre Vittoria le sussurrava: ?è stato lui, Aldo è come impazzito. Lucia attese che la figlia si addormentasse profondamente poi lasciò la stanza e si diresse verso la cucina, aprì il cassetto, dove custodiva le posate e ne tirò fuori un lungo coltello del tipo usato per tagliare la carne, lo avvolse in un canovaccio e dopo avere controllato che la figlia dormisse ancora, uscì e s'incammino verso l'osteria. A quell'ora del mattino non c'era molta gente in giro per la strada e le poche persone che la videro camminare con un passo deciso, ebbero quasi timore a salutarla e quelli che lo fecero, non ebbero nessuna risposta. Lucia giunse davanti all'osteria e dopo un attimo d'indecisione varcò la soglia. Aldo era quasi accasciato sulla sedia, con una mano stringeva il bicchiere colmo di vino e con l'altra sosteneva la testa con il gomito appoggiato sul tavolo. Gli arrivò alle spalle mentre gli altri clienti la osservavano meravigliati. "in quel tempo non capitava spesso che una donna entrasse nell'osteria". Lei svolse il canovaccio e tirò fuori il coltello. Prese Aldo per i capelli e gli tirò su la testa poggiandogli l'arma sul collo, lui rimase fermo senza capire chi c'era dietro quella mano. Lucia mentre gli passava delicatamente la lama sul collo incidendogli la pelle, sussurrò: ?fai in modo che non accada più niente a mia figlia, perché la prossima volta, ti scanno come si fa con un maiale, che poi, è quello che sei. La donna lo lasciò e girandosi minacciosa verso i presenti mulinando il coltello in aria, si avviò verso l'uscita senza che nessuno ebbe il coraggio di fermarla. Per un periodo Vittoria rimase a casa di Lucia a curare il fisico e l'anima restando lontano da Aldo. La notizia del fatto accaduto nell'osteria era sulla bocca di tutti e in qualche modo giunse anche a Vittoria. Un giorno ne parlò con la madre e le chiese se fosse vero quello che si diceva nel quartiere. Avuta la conferma dei fatti, non rimase scossa, anzi un sorriso soddisfatto le deformò leggermente il viso, pensando ad Aldo sottomesso a sua madre. Per intercessione di Pietro lei tornò a casa e le cose per un breve periodo filarono per il verso giusto. Aldo non le parlò mai di quel giorno ma a lei bastava osservare quella lunga cicatrice che gli attraversava il collo per provare un sottile piacere. Verso la fine dell'estate, dal mare venne un terribile tornado che spazzò via gran parte delle case della zona. Il fortunale non risparmiò neanche la casa di Pietro e Ada. Tutto durò pochi minuti il vento divelse gran parte dei tetti e trasportò le suppellettili per centinaia di metri. Fu solo un caso che non ci furono vittime, ma dove quel mostro passò, quasi niente rimase intatto. Quando la calma tornò molte famiglie, si aggiravano tra i resti delle loro case cercando di recuperare qualcosa di utile. Ben poco però si salvò da quella furia e le forze dell'ordine dovettero sgombrare la zona pericolosa. Quelli con la casa danneggiata per un breve periodo furono ospitati negli alberghi del litorale romano. Poi il comune costruì nei pressi di Acilia piccole case a ridosso della ferrovia e le assegnò a chiunque volesse andare via dal luogo del disastro. I Genitori di Aldo, come molti altri, preferirono restare e ricostruire la propria casa e rimasero lì per molti anni ancora. Diversamente fecero Aldo e Vittoria accettarono, anche se piccola, la casa assegnata dal comune essendo più grande della stanzetta che occuparono per sei anni nella casa di Pietro e Ada.

                                                                              ***

Nel frattempo che mi ero perso nei ricordi, giungemmo a Viana e alloggiammo nell'ostello parrocchiale, quella fu un'esperienza coinvolgente. Preparammo la cena insieme agli altri pellegrini, prima di mangiare, ognuno parlò di se, poi ci fu un momento di preghiera e in seguito fatta la donazione, dormimmo sopra i materassi appoggiati in terra uno a fianco dell'altro. La notte passò in fretta e a parte Isabella che era accanto a un giovane pellegrino che soffriva la nostalgia e ogni tanto la abbracciava, per il resto tutto bene. Lasciammo Viana, l'ultima città della Navarra sul nostro cammino senza aver visitato nulla. Avevamo troppa fretta, l'ansia che le ferie a nostra disposizione non sarebbero state sufficienti per terminare il percorso, ci opprimeva e inoltre la chiesa Santa Maria, che era annessa all'Albergue Parroquial, quindi comoda da visitare Isabella la trovò chiusa, per la prima volta da quando eravamo partiti, dovette rinunciare alla funzione religiosa.


 

Settima tappa: Ventosa
Subito dopo Viana si entra nella regione della Rioja, terra di vini famosi. La prima città che incontrammo dopo circa nove chilometri fu Logroño e in questa città ci saremmo dovuti fermare secondo la mappa del cammino. Noi avevamo deciso di rosicchiare alcuni chilometri per tappa così da diminuire le soste per rientrare nei tempi. Il venticinque Agosto è il compleanno di Gabriele, nostro figlio, e noi volevamo festeggiarlo con lui. Per rispettare il ruolino di marcia che c'eravamo dati, alcune città importanti sul cammino le sfiorammo con il bocadillos (panino) tra le mani e sostando solo brevi attimi davanti ai monumenti che incontrammo lungo la strada. Nel tragitto verso Logroño, nei momenti di sosta intermedia iniziai a leggere gli appunti di Rocco e notai che erano stati scritti come se parlasse di qualcun altro.
Nominava suo padre Aldo e sua madre Vittoria come se fossero i genitori di un altro e nei suoi appunti descriveva i protagonisti della storia così ...

Che festa c'è nel profondo silenzio
della stradina!
Un silenzio fatto a pezzi da risa
d'argento nuovo.
Federico García Lorca

Infanzia negata.
Trascorsero circa cinque anni da quando la famiglia di Rocco si trasferì nella nuova casa.
Quel giorno con le scarpe grandi e i piedi piccoli Rocco correva lungo il sentierino del campo che divideva il piccolo agglomerato di case bianche dal paese. Gli alti tetti rossi si vedevano in lontananza sulla collina e intorno a lui i vasti campi che le grandi macchine agricole attraversavano velocemente avanti e indietro sminuzzando la terra rossa che il vento a folate portava via creando una nuvola che nascondeva la ferrovia al margine del campo.
Lo seguivano due cani randagi e un gatto con la coda mozza, nella tasca aveva il pulcino di verdone implume trovato accanto alla siepe che limitava l'area della fattoria. A Rocco il vento gli s'intrufolava nei pantaloni troppo grandi e aveva stretto nella mano, le tre monetine sottratte a quell'ubriacone di suo padre. Giunto alla fine del campo i due cani, Fulmine e Briciola, com'erano soliti fare si accucciarono dietro la cabina elettrica che era ai bordi della strada. Coda Mozza, il gatto, dopo aver fatto qualche giro in punta di zampe alla ricerca di qualche lucertola, si sdraiò accanto ai due randagi, perché a loro non era consentito girare nel paese, c'era il rischio che qualcuno degli abitanti, chiamassero gli accalappiacani, quindi i tre animali avrebbero atteso pazienti come sempre il ritorno del giovane. Nella parte opposta della strada c'era la scuola, il cortile era zeppo di studenti che durante la pausa della ricreazione, si rincorrevano giocando. Era passato un anno da quando Rocco non frequentava l'istituto. Nonostante lui cercò di passare inosservato, uno studente lo riconobbe e iniziò a seguirlo lungo la recinzione chiamandolo per nome. Altri ragazzi gli si aggiunsero fino a formare un gruppetto chiassoso nel cortile dell'edificio scolastico. Un tale baccano attirò l'attenzione di alcuni professori che si avvicinarono alla ringhiera. Uno di loro gli domandò: ?Rocco quando torni a scuola? Non lo so, adesso devo lavorare. Il professore proseguì lungo la recinzione cercando di fermare il ragazzo che a sua volta a testa bassa allungava il passo. ?Puoi mandare i tuoi a parlare con noi? Rocco senza badargli troppo gli urlò: ?mia madre lavora ed è fuori! Mio padre è malato e non può venire! Poi corse via nella parte opposta della strada mentre qualcuno gli gridava: ?Fermati! Rocco! Fermati! Il giovane rallentò appena girò l'angolo e quando non sentì più nulla, pensò, impiccioni! Non riescono proprio a farsi gli affari loro. Arrivò nella piazza e quando imboccò la stradina dove c'erano il fornaio e il vino e olio, vide seduta su uno sgabello la "nonnetta" del castagnaccio. Sembrava lo aspettasse per riempirgli le tasche con stringhe di liquirizia, pescetti neri, mosciarelle, caramelle gommose e cioccolata. Rigirando le monete nella tasca, la tentazione che gli venne fu tanta, ma reprimendola, tirò dritto verso il vinaio pensando che con quei soldi doveva comprare l'olio per la madre.
Entrò nell'osteria e una nuvola di fumo di sigaro e il forte odore del vino che impregnavano l'aria lo avvolsero. Questa combinazione di elementi gli tolse il respiro e gli fecero lacrimare gli occhi, a fatica passò tra i tavoli, dove gli uomini erano intenti a giocare a carte e a discutere di cose molto "serie" considerando con quale accanimento si confrontassero. Finalmente giunse nei pressi del bancone e si parò davanti al vinaio. Mario, sempre sudato, con le mani che perennemente stringevano e si rigiravano nella parannanza. Al ragazzo appariva un gigante, con una grande pancia e il viso disegnato da una miriade di capillari che correvano sulla carnagione rosata. L'uomo dopo averlo guardato per qualche secondo, si abbassò arrivandogli all'altezza del viso. Mentre gli chiedeva cosa volesse, Rocco si scostò quasi rabbrividendo per il tanfo che usciva dalla bocca del vinaio e gli rispose:?Cinquanta lire di olio e lo fece mentre posava le monete sull'enorme mano sudaticcia dell'uomo. ?La bottiglia, non l'hai? ?Mia madre ha detto, se me la puoi dare tu? Poi la prossima volta te la riporto. Mario sbuffando si girò verso il bancone e prese una bottiglia e facendola roteare tra le mani disse: ?Digli a tua madre che questa non faccia la stessa fine delle altre. Riempì la bottiglia fino alla metà e porgendola al ragazzo, gli raccomandò: ?attenzione a non farla cadere. Con la bottiglia ben stretta tra le mani fece lo slalom tra i tavoli e guadagnò l'uscita, una volta fuori, si fermò qualche minuto e respirò avidamente l'aria pulita. Prima di tornare a casa sostò davanti al banchetto dei dolcetti fino a che la vecchia stufa di vederlo li fermo come un palo, con un sorriso gli donò una bustina di castagnaccio. Rocco ne vuotò il contenuto nella bocca e corse giù per la strada quasi soffocando con la farina incollata nel palato. I tre animali vedendolo arrivare si rizzarono sulle zampe, Fulmine e Briciola abbaiarono e si rincorsero, Coda mozza (il gatto) stava in disparte e faceva avanti e indietro al bordo del campo con la mezza coda dritta e quando lui si avvicinò, iniziò a ingobbirsi e a strusciarsi sulle sue gambe, facendo le fusa e dopo un piccolo saltello prese a camminare a passettini brevi e veloci davanti a Rocco.

                                                                         ***

Torniamo per un attimo alle nostre vicende sul cammino. L'ultima sosta prima di giungere a Logroño, la facemmo lungo il fiume Ebro. Ero intento a leggere gli appunti del quaderno che mi aveva dato Rocco, quando Isabella e lui m'invitarono ad alzarmi per continuare il cammino. Gli dissi di andare avanti e che ci saremmo rivisti in città lungo la Calle Mayor e che preferivo restare ancora un po' perché volevo continuare a mettere insieme i miei appunti con quelli che mi aveva consegnato Rocco. Presero gli zaini e mentre loro si avviarono, io mi gettai a capofitto sul quaderno memorizzando un altro capitolo nella mia mente.


Espulso dalla scuola
Mentre Rocco tornava verso casa, il pensiero gli andò alle vicende accadute circa un anno prima che furono la causa del suo allontanamento dall'istituto scolastico. Quell'anno era il primo dei tre della scuola media. L'ambiente era molto diverso da quello delle elementari ma lui era felice di essere in quella scuola. Da casa sua si poteva raggiungere a piedi in cinque minuti. In classe tutto sembrava filare liscio poi le cose si complicarono. Un gruppo di ragazzi più grandi vessava gli studenti del primo anno. Uno in particolare lo aveva preso di mira e regolarmente all'uscita di scuola lo strattonava, mentre gli altri ridevano, poi lo colpiva, senza un motivo, solo per il gusto di farlo. Quasi tutti i giorni era costretto a fuggire verso il campo oltre la strada dove Briciola e Fulmine correvano in suo aiuto facendo fuggire il picchiatore. Un giorno durante la pausa tra una lezione e l'altra in aula fu aggredito dal solito prepotente e stanco di prenderle reagì con violenza all'aggressione. Durante la colluttazione lo spinse cosi forte, che l'altro cadde dalla finestra. Fortunatamente l'aula si trovava al mezzanino, il ragazzo fece un volo di circa due metri e atterrò nel giardino fratturandosi un braccio. Il professore giunse accanto a Rocco mentre era affacciato e guardava il ragazzo che si torceva nell'erba del giardino pensando: sembra una lucertola. Il professore vedendo lo studente lamentarsi tra l'erba, tenendosi il braccio infortunato gli chiese a Rocco cosa avesse combinato: ? lo hai fatto cadere? Rocco non batté ciglio alla domanda del professore, dopo qualche secondo si girò lentamente e rivolgendosi al professore gli disse: ?si così la smetterà di fare il prepotente. Il professore lo afferrò per un braccio e scuotendolo gli urlò:? sei impazzito? Adesso vieni con me dal Preside! Mentre i due uscirono dall'aula gli altri studenti, si alzarono in piedi e applaudirono. Lui pensò molte volte a quell'applauso e non capì mai se era diretto al professore o verso di lui. Uscì dall'aula mentre gli altri studenti ridevano e urlavano. Quel giorno ci fu una piccola rivolta subito sedata dai bidelli e dai professori. Anche se alcuni compagni gli diedero ragione per il Preside, il fatto accaduto era meritevole di una severa punizione. Convocò la madre di Rocco e le comunicò che sarebbe stato sospeso per un mese. Nulla valsero le giustificazioni delle prepotenze subite dal figlio in quei primi mesi di scuola e il Preside fu irremovibile. La sera quando Aldo tornò a casa, Vittoria gli raccontò che Rocco era stato sospeso dalla scuola. L'uomo come sempre aveva bevuto e rimase impassibile alla notizia che con tanta preoccupazione Vittoria gli stava comunicando. Dopo una lunga pausa dove sembrò elaborare i fatti, Aldo si alzò dalla sedia e rivolgendosi al figlio gli disse che era venuto il tempo che lui lavorasse, ripetendo più volte la frase: ?se non studi, vai a lavorare! Aggiungendo per quelli come noi, la scuola è una perdita di tempo.


Mentre Rocco era intento a riesumare quel ricordo alla fine del campo vide la madre. Vittoria era al bordo della stradina bianca e lo aspettava impaziente con le mani sul viso e aveva i capelli raccolti sul capo stretti nel fazzoletto colorato. Lui allungò il passo e quando giunse a pochi metri, lei lo incitò a fare in fretta. ?Svelto Rocco! Poi lei quasi battendo i piedi a modo di marcetta: ?quanto tempo c'è voluto per prendere questo benedetto olio? Il ragazzo quasi scusandosi le disse: ?sono andato piano per paura che mi cadesse la bottiglia. Poi aggiunse che se l'avesse rotta il vinaio non gliene avrebbe dato un'altra. ?Il vinaio! Pure lui ci si mette adesso? ?Se tuo padre si sveglia e ti vede rientrare con l'olio capisce che i soldi li abbiamo presi noi. Rocco le consegnò la bottiglia e si avviarono verso casa. La loro abitazione era l'ultima del lungo caseggiato e prima che arrivassero a destinazione, dovettero superare gli sguardi dei vicini. Questi sostavano ognuno davanti alla loro porta d'entrata stando seduti sopra lo scalino, li osservavano e al loro passaggio salutavano "a" mezza bocca. I due rispondevano con la testa leggermente chinata, cercando di nascondere i lividi che avevano sul viso. Appena entrati in casa, videro Aldo seduto che beveva vino.
L'uomo alzò la testa e guardò i due che entrarono in cucina. Rocco avrebbe voluto chiedergli se era guarito, ma evitò quella domanda al padre fuggendo nella stanza da letto, preoccupato delle ripercussioni che avrebbero potuto esserci alla scoperta del furto. La casa era piccola e composta con due ambienti: la stanza da letto, la cucina, che era utilizzata anche da stanza da pranzo e il bagno. Rocco appoggiando l'orecchio alla parete, fece attenzione a cosa dicesse il padre. Non lo sentì parlare delle monetine, ma lo udì scusarsi quasi piangendo con Vittoria. La madre rimase in silenzio per molto tempo poi la sentì dire con un filo di voce: ?devi andare a lavorare, poi aggiungere che lei non aveva i soldi per fare la spesa e che non avevano nulla da mangiare. Lui con voce sommessa disse che aveva trovato lavoro e il giorno dopo sarebbe andato al cantiere che era sorto per la costruzione della nuova scuola. A questo punto mentre leggevo gli appunti, mi venne da pensare al quel paradosso: " Aldo il padre di Rocco non permetteva al figlio la frequentazione della scuola, però sarebbe stato impegnato nella costruzione di un edificio scolastico". Dovetti prendere fiato, lasciai il quaderno tra le gambe e chiudendo gli occhi immaginai come in un film le vicende che avevo appena letto. Quando li riaprii, mi resi conto che nel leggere gli appunti si era fatto tardi, ero stato trasportato nel mondo di Rocco. Ci misi un po' a realizzare, che mi trovavo sul cammino di Santiago. Raccolsi il tutto lo infilai nello zaino e con passo veloce raggiunsi il ponte di pietra che attraversa il fiume Ebro. Superato il ponte, imboccai una via a destra e raggiunsi in breve la Calle Mayor. Trovai seduti in un bar mia moglie e Rocco che sorseggiavano una birra. Ola! Peregrinos, todo bien? I due divertiti risposero allegramente che andava tutto bene e che erano alla seconda birra. ?Pensavamo che tu volessi dormire lungo il RÍo Ebro! ?Sono stato preso dalla lettura. ? L'hai trovata interessante? Chiese Rocco. ?Molto, credo che ci sia del buon materiale per il libro. ?Adesso è ora che andiamo, disse Isabella mentre si caricava lo zaino sulle spalle. ?Perché non c'è niente da vedere? Già fatto, risposero Isabella e Rocco. ?Sono due ore che siamo in città. A quel punto mi elencò le chiese e i monumenti e fece un piccolo elenco di luoghi: la chiesa di Santa Maria del Palacio, Santa Maria La Redonda, poi prese una guida che aveva in tasca e si mise a ridere. Capii che i due mi prendevano in giro. Avevano solo bevuto birra seduti al bar. Riprendemmo il cammino percorrendo la via Vieja. Attraversando la città, alcune vie mi ricordarono la bella città sarda di Alghero: strade strette brulicanti e affollate. Faticammo un poco a lasciarci la città alle nostre spalle mentre attraversavamo un bellissimo parco con molti piccoli laghi, vedemmo molti scoiattoli che si arrampicavano sugli alberi fuggendo al nostro passaggio. Dopo circa tredici chilometri di cammino, giungemmo a Navarrete e giusto il tempo per rifornirci, fare una telefonata ai nostri cari figlioli, Silvia e Gabriele, e poi avanti verso Ventosa. Quando giungemmo all'Albergue, scaricai lo zaino e mi tolsi le scarpe iniziando a camminare velocemente lungo la via principale, fino a quando Isabella mi raggiunse e mi chiese: ?cosa ti succede? ?Basta, queste scarpe non le metto più! Avevo i piedi in fiamme e sulle punte delle dita tante piccole vesciche. Da quel giorno quegli strumenti di tortura li portai attaccati allo zaino e usai i sandali per camminare. Rocco già si era sistemato nella stanza, Isabella ed io giungemmo poco dopo con le scarpe in mano. Eseguimmo tutte le formalità del caso, compreso il timbro sulla credenziale che una volta giunti a Santiago ci avrebbe dato diritto a ricevere la Compostela. Mangiammo in fretta, poi senza dire niente a Isabella e a Rocco mi recai in camera e mi distesi sulla branda pensando di rilassarmi qualche minuto. Senza rendermene conto mi addormentai e mi svegliai il mattino seguente. Venni a sapere in seguito che i due, insieme all'ospitalera mi cercarono preoccupati in ogni luogo del piccolo paese, convinti che fossi uscito e non facessi in tempo a rientrare prima delle ventidue, mentre io era già da un pezzo che dormivo. Il mattino seguente, mi svegliai molto presto e scendendo le scale capii che non ero il solo "essere" mattiniero, molti pellegrini erano già pronti a partire. Approfittai del latte e del pane che avevano lasciato sul tavolo, dopo un'abbondante colazione, restai all'ingresso dell'Albergue ad aspettare mia moglie e Rocco. Approfittai per continuare a leggere gli appunti. Ripresi da quando Aldo promise che non avrebbe più bevuto e che aveva trovato un buon lavoro.

                                                                               ***
Non era il caso di fidarsi
Come se non fosse mai successo niente, Vittoria mentre cucinava, iniziò a scherzare con Aldo e mise in tavola la pasta. Rocco capì che il padre era guarito sentendo dalla stanza da letto che le cose si erano calmate. Scostò l'orecchio dalla parete scese dal letto e s'intrufolò in quel momento di allegria e il pranzo si svolse tranquillo. Il padre di Rocco mentre snocciolava buoni propositi fece progetti, giurando che non avrebbe più bevuto vino. Da quel momento promise che le cose sarebbero state diverse, poiché aveva trovato il lavoro, tutto sarebbe andato per il meglio.
Poi dopo aver mangiato, Rocco mostrò il verdone che aveva raccolto vicino alla fattoria. Passati i primi attimi di curiosità, chiese ai genitori se lo potesse tenere. Il padre gli disse: ? non vivrà molto fuori dal nido, ma se lo vuoi tenere, puoi farlo. Anche la madre acconsentì e così da quel giorno ebbe: un gatto, due cani e un verdone.
Il verdone crebbe in fretta, il ragazzo lo nutriva con piccole molliche di pane e pezzettini di vermi raccolti dietro la casa. Il piccolo animale iniziò a volare all'interno della piccola abitazione e quando Rocco usciva, lo seguiva posato sopra la sua spalla e di tanto in tanto si levava in volo per poi ritornare da lui. Coda mozza era pur sempre un gatto e sembrò molto interessato al nuovo arrivato, lo seguiva con l'intenzione di catturarlo. Ogni volta che il verdone si staccava dal ragazzo, il gatto tentava in ogni modo di prenderlo con agili salti e ampie capriole. Ogni volta dopo quegli inutili tentativi ed essere atterrato sulle quattro zampe, girava intorno a Rocco miagolando come se volesse convincerlo a dargli il volatile.
Da quando il padre andò a lavorare alla costruzione della scuola, il ragazzo fu addetto a portargli il pranzo. La madre preparava il pasto e lo consegnava al figlio con le raccomandazioni del caso, prima su tutte di fare in fretta. Percorreva la stradina bianca che conduceva al cantiere senza guardarla perché lo stancava, tanto era dritta e lunga, questa si perdeva in una striscia all'orizzonte e congiungendosi al cielo gli sembrava che non finisse mai. Con i piatti avvolti dentro il canovaccio, camminava veloce facendo attenzione ai due cani che lo seguivano con il naso sempre vicino al cibo. Quando era abbastanza vicino al cantiere, guardava quegli uomini arrampicati come ragni sulla ragnatela. I ponteggi sembravano sfidassero la gravità e le grida dei carpentieri riecheggiavano nella campagna circostante. Mentre la gru, svettava su tutto e a Rocco, sembrò un drago giallo con la preda penzoloni che dondolava cercando di liberarsi dalla morsa mortale. Rimaneva incantato con lo sguardo verso l'alto cercando di riconoscere il padre tra gli uomini arrampicati, ma era sempre il padre a vederlo per primo e lo chiamava così: ?Rocco vieni fai in fretta, la pausa finisce. Velocemente andava a consegnargli il pranzo, poi attendeva che finisse di mangiare per recuperare i piatti da riportare a casa. Il padre come ogni volta mentre lui si avviava verso casa gli ripeteva la stessa frase: ?vai dritto a casa, non ti fermare a giocare nei campi. Rocco come in un ritornello, gli rispondeva così mentre lo salutava: ?si, sì, farò così.
Un sabato in casa di Rocco erano in attesa che tornasse Aldo con i soldi per fare la spesa. Era giunta la notte e lui non si fece vivo fino al mattino della domenica. Quando ubriaco, rientrò in casa, Vittoria lo affrontò: ?Guarda come ti sei ridotto! Avevi promesso che non avresti più bevuto! Lei urlava sul viso del marito mentre gli batteva i pugni sul petto. Aldo la scostò violentemente mentre le ripeteva: ?smettila Vittoria è successo questa volta e non accadrà più. Lei gli girava intorno urlandogli: ?bugiardo, bugiardo, non ti credo, ubriacone schifoso. Lui improvvisamente scattò in avanti e la afferrò per i capelli trascinandola per la stanza, poi la picchiò violentemente, fino a quando Vittoria non si mosse da terra a quel punto, se la prese con il ragazzo che cercò di sollevarla, continuò sfogando tutta la rabbia che aveva, distruggendo quello che gli capitò tra le mani, poi uscì sbattendo la porta lasciando dietro di se un disastro. Vittoria rimase seduta in terra appoggiata al muro della cucina e si teneva la testa tra le mani piangendo silenziosamente. Il figlio la strinse e consolandola le ripeté a bassa voce che era andato via, rimasero lì circondati dai resti dei piatti e dei bicchieri. Quello che restava delle sedie era sparso nella stanza e l'unico specchio della casa era in pezzi, fissando i frammenti luccicanti lei sussurrò: ?sette anni di disgrazia! Sette anni di disgrazia! Vittoria a fatica si alzò, prese il barattolo del sale, lo aprì e prendendone un poco tra le dita se lo gettò dietro di se girando le spalle di volta in volta ai quattro punti cardinali, ripetendo a ogni lancio di sale un'Ave Maria, poi crollò a terra e lo maledì. Rocco a ogni singhiozzo della madre la stringeva più forte assicurandole che era lì per difenderla. I due attesero che Aldo ritornasse terrorizzati, ma lui non si fece vivo né quella sera né nei giorni successivi. Dopo una settimana le poche provviste che si erano salvate il giorno della lite terminarono. Vittoria da qualche giorno che non cucinava e la sera Rocco si lamentava per la fame. Lei escogitò una tecnica per fargliela dimenticare: lo metteva a letto e gli intonava sussurrandogli una nenia "dormi che il bel sogno arriverà, dormi, dormi e la notte se ne andrà, dormi, dormi e la fame passerà, dormi Rocco".
                                                                   ***
Rimasi turbato da quello che avevo appena letto e mi tornarono in mente i racconti dei miei genitori ed erano coerenti con le vicende descritte nel quaderno. Mentre ero ancora lì che cercavo una ragione che giustificasse quella violenza "se mai ce ne fosse una per giustificarla", vidi quel bambino materializzarsi davanti a me, Rocco usciva dalla cucina comune dell'albergue con un panino tra le mani e Isabella che scendeva le scale con tutte e due i nostri zaini. Buongiorno! Siete pronti per la tappa? Rocco sorrise e disse: ?prima la colazione, poi il cammino. Isabella venne vicino a me che ero davanti alla scarpiera comune e osservò le scarpe degli altri pellegrini, confrontandole con le sue disse: ?penso che prima della fine del cammino le mie scarpe le lascerò lungo la strada. Riluttante prese le calzature e dopo averle calzate, si diresse zoppicando verso la cucina a fare colazione. Dopo circa mezzora eravamo in cammino verso Santiago de Compostela.


Ottava tappa: Santo Domingo de la Calzada
Usciti da Ventosa, superammo due piccole località restando affiancati per tutto il tragitto. Sarà stata la stanchezza o il bisogno di meditare o forse perché erano sette giorni che camminavamo e il peso dei chilometri cominciava a farsi sentire. Resta il fatto, che quel giorno parlammo poco tra noi. Sostammo in un piccolo bar sperduto nella campagna, dopo esserci seduti, togliemmo le scarpe appoggiando i piedi sopra le sedie. Ripresi il quaderno e continuai a leggere. Mentre ero preso nella lettura, udii Isabella dire a Rocco: Maurizio si è perso nuovamente nei tuoi appunti. Mi girai verso loro e gli dissi:? datemi una mezzoretta poi riprendiamo il cammino. Restano da percorrere solo dodici chilometri per giungere a Santo Domingo, facciamo questa e un'altra sosta tra sei chilometri.

                                                                          ***

Seconda parte
Come ho detto prima, ero rimasto turbato dalla violenza descritta nel quaderno degli appunti di Rocco, Vittoria e lui erano rimasti soli e senza sostentamento.
 
La felicità in un pezzo di pane
Per i due sembrava che non ci fosse nell'immediato una soluzione, quando un giorno Vittoria udì il rumore di un motociclo fuori dalla casa. I due intimoriti restarono in silenzio pensando che fosse Aldo, dopo qualche secondo di terrore, udirono una voce conosciuta chiamarli. Rocco corse verso la porta e gridò: ?mamma è il nonno! Vittoria si affacciò e trovò Pietro il padre di Aldo davanti alla porta con borse e pacchi. ?Ciao Vittoria si può entrare? Disse Pietro mentre scaricava la moto. ?Certo sei il benvenuto! Rocco eccitato da quell'inaspettata visita, aiutò il nonno a scaricare e una volta entrati in casa, riversarono sul tavolo ogni ben di Dio. Il profumo del pane fresco invase ogni angolo della stanza, gli insaccati che s'intravedevano dalle buste mandavano un profumo che a Rocco quasi fecero girare la testa, costringendolo a sedersi per un attimo. Vittoria pensò: "Sono giorni che non facciamo un pasto completo". Poi, mentre sistemava le cose che il suocero aveva portato, dimenticando per un attimo la fame si rivolse a lui: ?tuo figlio è impazzito nuovamente, ha ripreso a bere anche più di prima. ?Ci ha massacrato ed è sparito da più di una settimana. Ha rotto tutto quello che c'era da rompere compreso la mia testa. Singhiozzando gli fece vedere le ferite tra i capelli e segnandosi il viso gli disse: ?guarda, guarda cosa ha fatto? ?Adesso calmati, pensiamo a mangiare qualcosa poi ne parliamo, gli disse con voce rassicurante Pietro. ?Si, si adesso mangiamo, poi ne parliamo. A Vittoria sbocciò sul volto un bel sorriso e mentre si asciugava le lacrime, mise su la pentola e cucinò la pasta. In quel momento mi distolsi dalla lettura e feci una riflessione sul fatto che nei momenti di estrema difficoltà, tutti lasciamo il superfluo e ci accontentiamo di quel poco che serve per vivere. Associai forse impropriamente (la nostra fu una scelta) le poche cose cercate che ci rendevano felici lungo il cammino: mangiare, dormire, camminare, alla piccola felicità di Vittoria alla vista del cibo. Tornando a Pietro, Rocco e Vittoria: i tre mangiarono usando le padelle che nonostante fossero abbozzate non si erano rotte alla furia di Aldo. Terminato di mangiare il vecchio disse a Rocco: ?vai a giocare, lasciaci soli, ho bisogno di parlare con tua madre. Pietro infilò una mano nella tasca dei calzoni e ne tirò fuori delle caramelle: ?prendi e vai. Il ragazzo uscì dalla casa. Vittoria e Pietro rimasero soli e si fissarono per un lungo momento carico di tensione.
Fu lui che per primo ruppe il silenzio: ?so quello che è successo. Aldo è venuto a casa mia in condizioni pietose e mi ha raccontato tutto. ?Adesso dove sta? Chiese lei. ?È restato da me una notte, poi è andato via e non si è fatto più vedere. ?Io lo spero … anzi voglio che non torni più! Urlò Vittoria. ?Stai calma, vedrai che si aggiusterà tutto. Provò a dire Pietro. Lei lo interruppe e alzandosi dalla sedia fece un gesto indicandogli la stanza: ?questo si potrà aggiustare non quello che mi ha fatto in questi anni. Preferisco andare sulla strada e fare la puttana che vivere così! Vai al diavolo tu e tuo figlio. Vittoria fece per uscire e Pietro con delicatezza la afferrò per un braccio e quasi implorandola le chiese di rimanere. Lei si sedette e attese che lui parlasse. Il vecchio restò in silenzio cercando le parole adatte per non ferire nell'orgoglio Vittoria e poi iniziò col dire:?Non voglio sapere cosa farai della tua vita, comunque devi pensare anche a tuo figlio! ?Pensare a mio figlio? Lei scattò in piedi e prese a girare per la stanza come una belva ferita ripetendosi quella domanda a voce alta mentre si batteva le mani sui fianchi. Vittoria fissandolo con rabbia gli chiese: ?Perché cosa ho fatto in questi anni? ?Oppure non ti sei accorto che ho vissuto con un mostro tutto questo tempo? ?Tutte le sue sconfitte le ho pagate io e con me Rocco. I primi tempi avevo pensato che dopo il sesso, sarebbe arrivato anche l'amore ma mi ero sbagliata e … lui ha fatto tutto per metterci una pietra su quella speranza. Vittoria si ammutolì all'improvviso pensando a quella notte, tutto questo per qualche ora di sesso! Poi, urlò: ? Maledetto Aldo, il vino, me stessa e maledetta anche la boxe. ?Ti capisco, non dico che sia stato facile per te, però qualunque sarà la tua scelta non puoi lasciare solo Rocco mentre sistemi la tua vita. Vittoria guardò Pietro, pensò che avesse ragione. Lei cercò di calmarsi, si alzò e prese un frammento dello specchio rotto, si guardò il viso indugiando sui lividi, e gli chiese: ?cosa mi consigli di fare? ?Non ci sono consigli da darti se devi cercare un lavoro, hai bisogno di essere libera.
Le mura della casa erano sottili e le loro parole si udirono all'esterno, alcuni vicini incuriositi dall'accesa discussione si erano accalcati nei pressi della porta d'entrata. In poco tempo si creò una piccola assemblea. Una delle donne più anziane decise di rompere gli indugi e bussò alla porta: ?Vittoria! Tutto bene? Serve qualcosa? Lei ebbe un sussulto come se fosse stata tirata fuori da un incubo e infilata in un altro. Rivolgendosi alla donna in modo stizzito urlò: ?non mi serve niente! E per una volta, fatevi gli affari vostri e andatevene. Poi rivolgendosi a Pietro: ?Queste case, hanno i muri di cartone, i vicini in questi anni, li ho avuti anche dentro il letto. A volte bussavano sul muro quando facevo l'amore con Aldo, figuriamoci quando ci litigavo. La piccola folla lentamente si diradò, riformandosi qualche metro più in là. Il gruppetto continuò a parlare fitto, fitto e a bassa voce, ogni tanto, qualcuno si girava per fissare la porta della casa di Vittoria.
Rocco nel frattempo, come se tutto quello che gli accadesse intorno non fosse affare suo, si era seduto qualche metro dietro la casa e giocherellava con dei bastoncini. Ogni tanto annoiato ne, lanciava uno ai due cani che dopo averlo trovato, se lo contendevano prima di riportarglielo. Lo posavano davanti a lui e si sedevano in attesa che lui lo rilanciasse. In quel momento a Rocco gli sembrò che tutto il suo mondo fosse quello e che vivere come i cani fosse meno complicato, bastava trovare qualcuno che ti tirasse un bastoncino per essere felice.
Vittoria e Pietro che erano stati interrotti dall'intrusione dei curiosi ripresero il discorso: ?dunque cosa mi volevi dire prima? Gli chiese Vittoria. ?Rocco ha bisogno di vivere una vita normale. Se tu vuoi, può venire a stare con me per qualche tempo. Stai tranquilla solo fino a quando le cose si saranno sistemate a quel punto, ritornerà a stare con te. Vittoria rimase in silenzio valutando tutte le possibilità fissava Pietro e pensava: "Potrei cercare un lavoro, rifarmi una vita, affittare una casa migliore di questa dove poter vivere con Rocco". Alzandosi dalla sedia con fermezza disse: ?Pietro, hai ragione tu, credo che in questo momento sia la soluzione migliore per Rocco e per me.
Uscirono e cercarono il ragazzo dietro alla casa quando lo trovarono, gli parlarono della decisione presa, gli dissero che si sarebbe trasferito nella casa dei nonni per il tempo necessario, affinché le cose si aggiustassero. Rocco li ascoltò in silenzio. Guardò intensamente il nonno e la madre e gli sembrò che le loro parole giungessero da molto lontano. ?Rocco! Hai capito quello che stiamo dicendo? ?Si sono sveglio, ho capito, devo andare dal nonno per un po'. Rocco mentre si avviò verso casa, si fermò di colpo e rivolgendosi alla madre: ?Briciola, Fulmine e Coda mozza! Chi ci pensa a loro? ?Non ti preoccupare ci sarò io che baderò a loro. Dopo pochi passi si fermò di nuovo: ?Il verdone lo lascerai volare via? Può andare e venire quando vuole, lui ha le ali, poi Vittoria sussurrò: "Le avessi io!" Prepararono una borsa con le sue poche cose. Salutò la madre con un lungo abbraccio e uscì senza smettere per un attimo di guardarla tenendo la mano del nonno. Pietro lo fece accomodare seduto sopra il portapacchi posteriore del motociclo e in quello anteriore, sistemò la borsa. Durante il viaggio passarono davanti alla scuola in costruzione. Rocco guardò verso il cantiere e gli venne in mente il padre arrampicato sui ponteggi dove tante volte lo aveva cercato mentre lo attendeva all'ora del pranzo. Gli sembrò di udire le voci dei carpentieri impegnati nel lavoro e cercò invano di intravederlo fino a quando Pietro gli disse: ?è inutile che cerchi, credo non sia più in questo cantiere. ?Dove è andato a lavorare? Non lo so, non lo vedo da qualche giorno. Adesso non ci pensare, vedrai che tutto si sistemerà. Rocco si strinse a Pietro e appoggiò la testa sulla schiena del vecchio mentre superava il ponticello che attraversava il canale adiacente al cantiere. Proseguirono lungo la ferrovia e dopo circa un'ora giunsero a destinazione. Trovarono la moglie di Pietro ferma davanti al cancelletto che immetteva nell'aia. Quando li vide giungere rimase per qualche secondo a osservarli. Sembrò sorpresa del fatto che con il marito c'era anche Rocco. Ada non disse niente, ma un'occhiataccia fu sufficiente a farsi capire quanto fosse contrariata. Il ragazzo scese dal portapacchi e si diresse verso lei: ?Ciao nonna, starò qualche tempo con voi, poi, si allontanò e i due vecchi rimasero al centro del piazzale a discutere animatamente. Lo fecero con circospezione in modo che il ragazzo non capisse di cosa parlassero e ogni volta che Rocco si avvicinò, loro interruppero il discorso. Il ragazzo capita l'antifona, lasciò che gesticolassero al centro del piazzale, entrò in casa, si mise seduto sul letto e attese che i nonni finissero la discussione.

                                                                            ***
La pausa era terminata alzai gli occhi verso Isabella e Rocco che già si preparavano per ripartire. Presi il quaderno lo infilai nello zaino e in fretta lo caricai sulle spalle. Mi avvicinai ai due e dissi: ?sono pronto! E riprendemmo il cammino. La strada era un continuo saliscendi e mi era venuta la voglia di parlare. Un po' per rallentare la tensione che mi aveva messo la lettura del quaderno, un po' per capire cosa ne pensavano a quel punto del cammino Isabella e Rocco. Rivolgendomi a Isabella le chiesi: ? che senso ha per te questo cammino? E non mi dire la religione che quella la so! Lei mi fissò un po' sorpresa dal tono e rispose:?Cosa si può dire? Ogni giorno che passa la motivazione, è sempre la stessa, sicuro qualcosa è cambiato da quando siamo partiti. Solo il fatto che durante questa esperienza viviamo per delle cose fondamentali è già un segnale. Niente è superfluo, ogni mattina mi sveglio con pochi desideri: raggiungere un luogo, mangiare, dormire, camminare. ? E tu invece come lo stai vivendo? ?Non riesco a capire la sensazione che provo, forse è solo la voglia di mettermi alla prova che mi ha portato qui. Sai dopo l'intervento ho pensato che per me fosse finita e ho vissuto un periodo difficile, non che ne sia fuori del tutto e l'anno appena passato è stato duro. I controlli fatti e quelli che dovrò fare, mi hanno reso come dire … precario forse è la parola giusta. Vivo nell'incertezza, però questo cammino mi sta rendendo tutto questo meno stressante. Non perché camminare sia la cura giusta per ogni male, al contrario, ogni giorno che passa, ho un dolore nuovo: le ginocchia indolenzite, la schiena a pezzi come se trasportassi una sacchetta di cemento e non un piccolo zaino di circa dieci chili. Come hai detto tu anch'io vivo per le cose fondamentali, in più faccio un formidabile esercizio mentale. Quando arriveremo a Santiago nonostante la soddisfazione per avercela fatta, già so che vorrei subito dopo ritrovarmi in cammino per non perdere queste semplici sensazioni. Rocco era rimasto in silenzio ad ascoltare mi guardò e anticipò la mia domanda. ?Sai io sono partito per questo cammino senza un motivo valido, quando vi ho incontrato, volevo solo camminare e pregare, magari non in chiesa, dove capitava, per la strada, in campagna, ogni luogo sarebbe stato buono per farlo, per esempio qui, o nel paese che incontreremo, da solo o con voi e questo sto facendo e non so se alla fine sarà sufficiente. Sono sicuro che quando arriveremo a Santiago saremo diversi da com'eravamo quando siamo partiti. ? cosa vuol dire diversi? Rocco non mi rispose e mi rivolsi a Isabella. ?Come diversi? Non lo so forse lo capiremo alla fine del viaggio, ma forse già siamo cambiati, solo il fatto che vorremmo sapere perché siamo in viaggio verso Compostela e non in un'escursione trekking. Questo è già un buon segnale. Mentre discutevamo, raggiungemmo una pellegrina che avanzava faticosamente. Era una giovane di Roma, con problemi alle ginocchia. Rallentammo il passo e rimanemmo con lei e la sostenemmo fino ad Azofra. La accompagnammo fino al Municipal, restammo con lei fino a quando fummo sicuri che fosse in buone mani. Ci salutammo con l'augurio di rivederci a Santiago. Isabella mi guardò e disse: ?Siamo cambiati, hai visto? Entriamo in sintonia con le cose che ci circondano, con i problemi delle persone, nulla ci lascia insensibili, tutto fa parte di noi in questo viaggio e noi facciamo parte degli altri, forse questo è il vero senso del cammino e questa sensazione vorrei riportarmela casa una volta conclusa questa esperienza. Riprendemmo il cammino verso Santo Domingo de la Calzada, dove giungemmo dopo circa un'ora e trenta, preso possesso delle brande e fatta la doccia ci recammo a visitare la cattedrale di Santo Domingo famosa oltre per la bellezza dello stile romanico anche per la gallinera, dove sono custoditi un gallo e gallina in ricordo del miracolo dei polli che cantarono nonostante furono stati arrostiti. La cattedrale era chiusa ma i galli li sentimmo cantare, non solo lì, ma anche in ogni dove, quasi tutti in quella città possedevano un gallo. L'Albergue dove abbiamo dormito ne aveva più di uno e si sono fatti sentire. Quella notte dormii poco, alle tre e trenta ero già sveglio.
Presi il quaderno di Rocco e mi recai in una sala, dove c'erano dei comodi divani. Ripresi la lettura dove l'avevo sospesa, da quando Rocco lasciò i nonni a discutere sul piazzale del suo arrivo inaspettato.

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L'attacco al pollaio e il ritorno di Arturo
La casa del nonno paterno era quella in cui era nato. Rocco aveva dei ricordi vaghi di quel periodo. Ricordava perfettamente quando fu distrutta dalla tromba d'aria e il giorno che andò via per recarsi nella nuova casa. Ricordava il maiale, qualche volta gli aveva versato con il nonno la sbobba e il vecchio cane (Romeo) sempre legato con una catena all'angolo della casa. Il ragazzo passò molte ore accanto all'animale pensando ai suoi randagi lasciati a casa.
Nei giorni che seguirono, Ada si adeguò alla scelta del marito di ospitare il nipote per un breve periodo fino a quando Vittoria non avesse trovato lavoro. Dal canto suo il ragazzo si ambientò perfettamente alla vita di campagna e il rapporto con Ada migliorò un giorno dopo l'altro.
Rocco da quando era ospite dei nonni si alzava presto e quel mattino mentre era sotto la pergola a fare colazione, vide Pietro che cercava di sistemare Romeo sul motociclo e dopo vari tentativi andati a vuoto, riuscì a incastrarlo in una grossa cassetta che aveva assicurato sul portapacchi. Il ragazzo incuriosito gli domandò: ?dove lo stai portando? ?Lo porto in una fattoria nella campagna di Latina. ?Dove sta Latina? Molto lontano? ?Più di cento chilometri da casa nostra. ?Perché lo porti così lontano? Non lo vuoi più? La nonna poiché il ragazzo iniziò a piangere s'intromise nella discussione: ?Lo porta via per qualche giorno, deve fare la guardia per colpa delle volpi che la notte mangiano le galline. ?Anche tu hai le galline! E qui non ci sono le volpi? ?Potrebbe fare la guardia a casa tua! Mentre i due discutevano, Pietro aveva messo in moto il ciclomotore avviandosi lungo la strada con Romeo nella cassetta.
Mentre Pietro spariva con Romeo stipato nella cassetta del motociclo a Rocco, gli vennero in mente, Briciola, Fulmine, Coda Mozza e sua madre. Il verdone per fortuna prima di andare via lo aveva liberato e quel giorno, lo vide volare verso i campi, al sicuro da Coda Mozza. Rocco aveva capito che il vecchio cane, Romeo, non sarebbe più ritornato. La sera durante la cena lui intavolò con la nonna, una lunga discussione. Accusò Ada di avergli mentito dicendogli che il cane sarebbe ritornato, poi facendo dell'erba tutto un fascio, le disse anche del maiale. A quel punto lei gli chiese: ?cosa c'entra il maiale con il cane? ?Non lo so, però mi sembra che anche lui non sta comodo la dentro. Gli rispose Rocco. ?Non ti preoccupare per lui ci starà fino a prima di Natale e dopo lo metteremo comodo, stai tranquillo. Il ragazzo notò che la nonna nel dire quella frase, abbozzò un lieve sorriso di soddisfazione, quindi la incalzò: ?dove lo metterai? E lei: ?vedrai, non ti preoccupare, si troverà un posto adatto a lui. Non molto convinto delle risposte, stava per ribattere quando sentì la porta aprirsi. Pietro entrò e si mise seduto e senza salutare, chiese da mangiare. ?Romeo lo hai lasciato alla fattoria? Chiese Rocco. Il nonno non aveva molta voglia di rispondere e con un movimento della testa fece cenno, sì. Il ragazzo non contento: ?il tuo amico l'ha legato con la catena? ?Si l'ha legato con la catena e adesso vai a dormire. Dopo una breve pausa: ?Romeo non tornerà più, non ci pensare. Rocco si alzò dalla sedia e corse via piangendo verso la stanza da letto. Quella notte fece fatica a prendere sonno, sentiva i due nonni che discutevano animatamente del cane, inoltre Rocco ebbe la strana sensazione che nella stanza ci fosse qualcuno. Dall'angolo più lontano udì provenire la voce di Arturo:?ciao! Il suo amico immaginario era lì seduto sul pavimento che giocherellava con delle biglie colorate. Dai tempi delle elementari che era sparito. Per la verità non ne sentì per niente la sua mancanza. Rocco non aveva voglia di parlare, tanto meno con lui e gli diede la buonanotte. Si girò dalla parte con il viso verso la parete e cercò di prendere sonno mentre l'immagine del cane vorticosamente gli occupava la mente. Tra Pietro e Ada la discussione proseguì per molto tempo. ?Potevi perlomeno farlo quando non c'era il ragazzo! Quella fu l'ultima frase che udì, prima di addormentarsi. ? Ada, non ti preoccupare vedrai gli passerà presto ora vai a dormire anche tu. Erano trascorsi circa due mesi dalla violenta lite dei genitori e da allora Rocco dei due non seppe più nulla. L'ultima immagine di quel momento era del padre mentre lo colpiva quando cercò di sollevare la madre da terra. Che i suoi avessero litigato era già successo, ma che la cosa fosse durata per un periodo così lungo non lo ricordava. Il momento più duro per Rocco, era quando la sera prima di addormentarsi il pensiero andava ai suoi genitori. Finiva sempre che lui piangesse e il mattino seguente non ricordava se si era addormentato mentre piangeva o subito dopo che avesse smesso di farlo. Fortunatamente durante il giorno aveva molte cose da fare e tutti i brutti pensieri della sera svanivano. Aiutava la nonna a sistemare gli animali, dava il granturco alle galline e le foglie d'insalata alle papere, preparava la sbobba per il maiale e mentre glie la dava, gli spiegava che prima di Natale i nonni gli avrebbero trovato un posto migliore dove stare e il grosso suino grugniva e a lui sembrava molto soddisfatto.
Quella notte il caldo e le zanzare si fecero sentire, per riuscire a dormire, Rocco lasciò la finestra aperta per fare entrare qualche refolo d'aria e poi si coprì completamente con il lenzuolo per proteggersi dai fastidiosi insetti particolarmente aggressivi. A una notte fonda, Rocco udì un gran baccano provenire dal pollaio, sembrava che il diavolo vi fosse entrato e spaventasse le galline. Si alzò dal letto e svegliò la nonna che dormiva profondamente. ?Nonna! Lo sentì il rumore che viene dal pollaio? La vecchia si alzò dal letto, mentre il nonno si rigirò dall'altro lato e continuò a russare. I due uscirono per vedere cosa accadesse e arrivati davanti al recinto del pollaio, trovarono il silenzio assoluto. Tutto quel fracasso che Rocco aveva udito poco prima era scomparso. Entrarono all'interno del recinto e in terra vi erano disseminate le piume delle galline e i loro cadaveri tappezzavano il pollaio. Solo una gallina era sopravvissuta all'attacco delle volpi e se ne stava con le penne arruffate, appollaiata sopra a una casetta di legno. L'animale sembrò osservasse con indifferenza la mattanza appena avvenuta con la soddisfazione di chi è appena scampato a un serio pericolo. Ada alla vista del massacro iniziò a emettere un lamento straziante andando avanti e indietro per il pollaio, si strappava i capelli ripetendo: ?tutte morte, tutte morte, le hanno ammazzate tutte. Rocco cercando di rincuorarla esclamò: ?una si è salvata! Ada non riuscì a calmarsi, allora il giovane andò a svegliare Pietro e gli raccontò quello che era appena avvenuto. Lui si alzò in fretta dopo aver capito la gravità della situazione, raggiunse la donna che si disperava all'interno del pollaio. Lei quando vide il marito iniziò a strattonarlo e mentre lo fece, indicò i resti delle galline: ?Pietro guarda che strage! Sono tutte morte. Lui la prese con sé e la portò a casa, gli diede un bicchiere d'acqua e tenendola stretta, gli sussurrò: "Calmati, ormai è successo e non ci possiamo fare nulla". Vedrai le galline le ricompreremo, adesso calmati. Rocco avrebbe voluto dire, "se c'era Romeo forse non sarebbe accaduto", ma lo pensò solamente e non disse una parola, per paura della reazione dei nonni. Il giorno dopo ci fu la raccolta dei cadaveri. Trenta galline furono uccise quella notte dalle volpi. Pietro mentre contava le galline disse: ?non è stata la volpe, è stata la faina. Mentre preparavano una grande buca nello spiazzo inutilizzato dietro la casa, Rocco sussurrò: " faina o volpe se ci fosse stato Romeo non sarebbe successo" nel frattempo radunava i rami secchi che poi gettò nella fossa dove i resti delle galline furono bruciati. L'odore della carne bruciata e il fumo invase la fattoria. Qualche vicino vedendo la colonna di fumo che s'innalzava, si precipitò pensando che servisse aiuto. Dopo aver tranquillizzato quelli che erano accorsi spiegandogli che non c'era nessun incendio da domare, i nonni raccontarono l'accaduto della notte appena trascorsa. Le galline morte purtroppo non si poterono consumare, Pietro disse che c'era il rischio che gli animali fossero stati infettati da qualche malattia trasmessa dalle faine, ed era anche questo il motivo del grande falò. Alcuni dei vicini dispiaciuti della disgrazia accaduta andarono via e dopo circa un'ora, ritornarono ognuno con una gallina. Furono in sette quelli che donarono le galline e uno invece giunse con un gallo. Ada e Pietro furono sorpresi da tanta solidarietà e orgogliosamente in un primo momento, non vollero accettarle, in seguito dopo tante insistenze si arresero e commossi presero le galline e il gallo a patto che con il tempo le avrebbero restituite. Qualche abbraccio e tante strette di mano suggellarono l'accordo. Dopo quel fatto terribile, comprarono altre galline, quindici per l'esattezza, così con quelle donate e quella superstite furono ventidue più un gallo. Pietro e Ada le lasciarono chiuse dentro una casetta, al sicuro da eventuali altri predatori fino a che ebbero finito di coprire il pollaio con una rete metallica. Controllarono se ci fossero buchi nella recinzione, ispezionandola accuratamente, a quel punto certi che le galline fossero più al sicuro, le liberarono nel recinto.

                                                                                                           ***

Mentre leggevo, mi ero appisolato, sognando d'essere in una cattedrale dove un coro di frati intonava canti Gregoriani. Tra le voci melodiose dei frati si udiva uno scampanellio sempre più intenso che si avvicinava. Più i canti salivano di tono, più cresceva il trambusto e lo scampanellio diventava sempre più fastidioso. Svegliandomi mi resi conto che i canti provenivano dall'impianto stereo che era all'interno dell'Albergue, e la campanella la suonava un frate per dare la sveglia ai pellegrini. Mi alzai dal divano e mi recai alla branda d'Isabella. Lei era seduta sul letto che rideva per l'originale trovata dei frati, per sfollare l'ostello dai viandanti. Dopo aver mangiato la colazione, riprendemmo il cammino ancora con in testa i canti gregoriani.

 

Nona tappa: Espinoza del cammino
Da circa seicentocinquanta metri d'altitudine, salimmo gradualmente, percorrendo faticosi saliscendi fino a giungere a Grañon, passammo velocemente dentro la cittadina e la strada che restava da percorrere era ancora molta, la distanza che divideva Santo Domingo de la Calzada a Espinoza del Cammino era di circa trentadue chilometri e a noi ne restavano da coprirne circa venticinque. Come spesso accadeva, dopo qualche tempo che camminavamo, ci chiudevamo dentro i nostri pensieri, (anche quella era una delle buone tecniche per esorcizzare la fatica e approfittarne per meditare) ognuno con sé, ed io con le vicende della famiglia di Rocco che s'intersecavano con il cammino di Santiago. Scenari che prendevano forma nella mia mente in un viaggio parallelo che spesso mi fece perdere la cognizione del tempo. Inoltre tra una pausa e l'altra avevo modo di guardare il quaderno che rendeva possibile la presenza di Rocco al mio fianco, anche quando lui non era presente fisicamente.

Tra le altre cose lette, si era inserito nel racconto, Arturo l'amico immaginario di Rocco.
Riprendiamo dal momento in cui Pietro e Ada terminano la costruzione del gallinaio.

Romeo torna a casa
Dopo la scorreria della faina, per alcune notti a ogni piccolo rumore sospetto proveniente dal gallinaio, Pietro e Ada uscirono a controllare che tutto filasse liscio. Andò avanti così per un po' di tempo, poi la vita nella fattoria si normalizzò e riprese il suo corso normale. I giorni per Rocco passavano tranquilli senza particolari novità, l'orto da curare, piccoli lavoretti e tanto tempo per annoiarsi. Un giorno mentre si trovava sullo stradino adiacente alla casa, intento a giocare con un ragazzo della sua età, i due videro arrivare uno strano animale. Rocco e l'altro fecero fatica a capire che si trattava di un cane e il suo amico Paolo, alla vista di quella strana creatura, fuggì verso casa urlando terrorizzato. L'animale aveva la testa penzolante e strusciava il muso nella polvere avanzando lentamente verso di lui. Rocco rimase fermo e quando fu così vicino da poterlo toccare, ebbe la tentazione di farlo, ma l'odore che emanava era disgustoso, ricordava il lezzo di una carogna. La povera bestia, aveva il pelo completamente intrecciato in tanti piccoli nodi e tra questi vi erano incastrati tutti i rifiuti immaginabili e si poteva solo pensare che fosse di colore bianco. Il cane iniziò a scodinzolare a testa bassa e non volle saperne di continuare la strada. Si fermò davanti a Rocco e dimenandosi s'infilò tra le sue gambe.
Il ragazzo finalmente riconobbe Romeo e correndo verso casa chiamò Ada a gran voce:?Nonna! Nonna! È tornato Romeo! Dal cancelletto di legno che portava nel giardino, il cane entrò e si diresse verso il luogo, dove per tanto tempo era stato legato con la catena. Fece un giro su se stesso e poi si acciambellò addormentandosi. La nonna quando vide l'animale, rimase stupita, ed esternò la sua incredulità ripetendo più volte: ?come avrà fatto a ritrovare la strada? Povera bestia, chissà quante ne avrà passate. Ada prese un contenitore ci mise l'acqua fresca e la posò accanto al cane. In un altro ne mise altra calda e ci spezzettò del pane duro aggiungendo i resti del pranzo. Il cane stremato dal lungo viaggio alzò leggermente il capo e seguì i movimenti che avvennero intorno a lui, poi si addormentò di nuovo. Il ragazzo, chiese ad Ada: ?sta morendo? La donna non gli rispose e si diresse verso la casa. Lui la seguì e incalzò: ?allora, sta morendo? No, è solo stanco, si riprenderà. Rocco si mise accanto al cane e rimase con lui fino a sera. Era quasi notte quando il cane alzò la testa e dopo avere fissato il ragazzo, iniziò a bere, poi prese a mangiare con foga spazzolando tutto il cibo nella ciotola, si girò, due o tre volte su stesso e si addormentò di nuovo.
Quella sera durante la cena, l'argomento principale fu il ritorno del cane. Il nonno ascoltava in silenzio la discussione tra sua moglie e il ragazzo: ?il cane deve stare legato, disse Ada senza mezzi termini e non volle ascoltare le ragioni di Rocco. Il ragazzo non si perse d'animo e la seguì in ogni parte della cucina. ?Romeo non deve stare legato alla catena! Continuava a dire Rocco: ?se era un cane che bisognava tenere a catena non sarebbe più tornato. ?Me ne occuperò io e dopo aggiunse: ?farà la guardia alle galline, caccerà le volpi e le faine. A quella frase il silenzio calò nella stanza. I due vecchi si guardarono per qualche secondo e toccò a Pietro prendere la decisione definitiva. Rocco sapeva che il nonno non poteva essere contrariato e quando lo sentì esprimersi sulla questione: ?il cane rimarrà sciolto e Rocco sarà responsabile di ogni danno che procurerà nella fattoria. Il giovane dopo qualche secondo di silenzio emise un urlo di soddisfazione, poi, si alzò dalla sedia e uscì dirigendosi verso il cane e festeggiò la vittoria abbracciandolo.
Il giorno dopo, alle prime ore del mattino, Pietro prese una corda e legò l'animale a un palo della recinzione poi si diresse verso la cassetta degli attrezzi. Rocco quando vide il cane legato, corse verso lui con l'intenzione di liberarlo. Vide il nonno arrivare con il secchio, una spazzola e un paio di forbici enormi e quando fu più vicino, il vecchio gli disse: ?stai tranquillo è legato perché deve essere lavato e tosato poi lo libero. I due si divisero i compiti. Pietro iniziò a tagliare meglio che si potesse fare, il pelo intrecciato dell'animale, il ragazzo mise il sapone nel secchio e mescolandolo all'acqua fece una saponata che sbordava dal recipiente. Il cane rimase tranquillo per tutto il tempo e sembrava avere un immenso piacere per tutte quelle attenzioni. A Romeo era la prima volta che gli capitava che fosse lavato così a fondo. Quando il lavaggio e la tosatura furono terminati, l'animale fu sciolto. All'animale con il pelo tosato gli si contavano le ossa, tanto era magro che non sembrava più un cane pastore, ma un levriero con la testa enorme. Romeo iniziò a correre girando intorno alla casa fermandosi a ogni giro per fare le feste ai due, poi si fermò all'ombra della siepe e ansimante rimase lì per ore e quello fu il suo posto per sempre, libero e senza catena.

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Torniamo in cammino
Senza quasi rendendosene conto passammo Redicilla del Cammino e Vilorja de Rioja due piccoli paesi al confine tra la regione della Rioja e quella di Castilla y Leon. Superati i due piccoli centri abitati, ci fermammo a riposare una mezzora. Mentre ero assorto nei miei pensieri e ripercorrevo mentalmente tratti degli appunti, dove Rocco, riportava sprazzi di vita normale vissuti nel periodo trascorso con i nonni, inconsciamente, provai una leggera soddisfazione e mi feci sfuggire qualche parola "a" mezza bocca alternandola di tanto a qualche sorriso. Isabella mentre ero lì che mi beavo in quei pensieri, preoccupata, mi distolse e mi disse: ?vuoi metterti all'ombra? ?Sono già all'ombra! Le risposi. Lei incalzò:?Un poco più all'ombra. ?Perché? Insisto io. ?Parli da solo, sorridi mentre fissi un punto lontano all'orizzonte e sono preoccupata. ?È che sono divertito da alcune cose lette nel quaderno di Rocco e incazzato su altre. Rocco sentendo la nostra discussione ci disse: ?arriveranno cose peggiori e poi migliori, quindi attrezzati bene mentalmente prima di proseguire nella lettura. Poi aggiunse mentre caricava lo zaino sulle spalle:?nel frattempo che ci pensi alzati e camminiamo che di strada ce n'è molta da fare. Dopo tre chilometri superammo un piccolo paese e non ci fermammo perché era molto tardi e decidemmo di sostare a Belorado. Giungemmo nella piccola città molto stanchi e (cinque ore di marcia dalla partenza da Santo Domingo) nonostante ci trovassimo a circa ottocento metri d'altitudine, la giornata molta calda ci costrinse a rifugiarsi nella chiesa di Santa Maria, a quel punto accasciati sulle panche, in silenzio riposammo e pregammo, ognuno per la propria fede, davanti alla statua romanica della Vergine. Pregai per i miei figli, Silvia e Gabriele e per Isabella e per il giovane Rocco (anche se oggi era adulto e camminava al nostro fianco). Lasciammo Belorado percorrendo quello che rimaneva per giungere a Espinosa del Cammino, tutto di un fiato e senza mai sostare. Giunti nella località restammo interdetti perché non riuscimmo a capire quale fosse il paese. "Chissà per quale strano motivo noi ci aspettavamo una cittadina più grande". Poche case di campagna, una piccola piazza e un bar furono tutto quello che offriva Espinosa ai passanti. Chiedemmo in giro per un alloggio e com'era prevedibile, erano tutti al completo. Ci mettemmo seduti al bar e mentre eravamo intenti a bere una birra, giunse il proprietario del locale e ci indicò una casa poco lontano da noi, dicendoci che lì c'era posto. All'Albergue "la Campana", ci accolse un uomo molto anziano e ci informò che il prezzo dell'ospitalità era donativo compresa la colazione e la cena, quindi, tutto bene, penserete voi? Sì la cena a base di paella fu fantastica, però c'era un piccolo particolare e non fu da poco. La notte questo personaggio ci ha in sostanza sequestrato, dormendo davanti alla porta d'entrata e quando verso le quattro del mattino provai a uscire, si eresse davanti alla porta e mi obbligò a ritornare in camera.

Quella fu una notte terribile. Ebbi un attacco di panico e durante la crisi non riuscii a liberarmi dal sacco letto fino a quando lo strappai completamente. Iniziai a vagare per l'edificio fino a quando trovai una stanza che in passato doveva essere la cucina. Lo sporco nel locale imperava e la prima cosa che mi venne in mente fu che il proprietario era troppo anziano per dedicarsi alla cura dell'Albergue. Mentre osservavo dalla finestra le poche luci che brillavano tra le case del paese, mi vennero in mente i racconti del vecchio ospitalero. Durante la cena ci aveva raccontato dei suoi numerosi pellegrinaggi lungo quel cammino e del fatto che ormai questo era diventato un business e che non aveva più il fascino del passato. L'anziano pellegrino mentre ci raccontava le sue avventure, fu preso dalla commozione e con voce rotta ci disse di avere nostalgia di quel periodo ormai andato. Pensai ai paesi poverissimi che avevamo incontrato lungo il cammino e questo business mi è sembrato che non li avesse nemmeno sfiorati. Forse una mappa del Cammino con le tappe distribuite diversamente che preveda soste anche fuori dai luoghi più conosciuti avrebbe portato qualche vantaggio ai luoghi più poveri. Detto questo, però nessuno vieta ai pellegrini di fermarsi in quei paesi piuttosto che in altri. Ciò creerebbe un piccolo commercio che potrebbe aiutare l'economia anche nei luoghi più sperduti. Acquistare frutta o pane, anche se molte volte sulle merci c'è scritto: donativo, lasciando qualcosa in più del valore effettivo della merce è già un inizio. Quello che vorrei dire è che il Camino de Santiago lascia orfani molti paesi su cui si snoda, perché i pellegrini seguono una mappa prestabilita, toccando i luoghi storici e religiosi più rilevanti disinteressandosi di posti più veri e altrettanto genuini.

Decima tappa: Atapuerca
Lasciammo la donazione all'ospitalero in pratica fuggiamo dalla Campana. Dopo appena tre chilometri e mezzo, fatti in graduale salita giungemmo a Villafranca Montes de Oca a circa novecentocinquanta sul livello del mare. Il paesino si estende ai piedi dei Montes de Oca da cui prende il nome. Facciamo rifornimento di pane e acqua e iniziammo una salita piuttosto dura fino a raggiungere il punto più alto a quasi milleduecento metri d'altitudine. Proseguimmo sull'altopiano per circa un'ora e ci fermammo presso il monumento dedicato ai Deparecidos della guerra civile spagnola. In quel luogo furono trovati i resti di trenta persone e in seguito a successivi scavi sembra che siano più di cento. Dopo qualche minuto di riflessione sull'atrocità della guerra riprendemmo il cammino su una larga sterrata di montagna che si snoda tra i boschi a quota mille per circa quattordici chilometri direzione San Juan de Ortega e su quel tratto piuttosto agevole, mi fermai più volte a leggere gli appunti di Rocco.

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Sappiamo, dove è andato a finire in quel periodo Rocco, (dai genitori di Aldo), sappiamo che Vittoria scelse di restare libera per cercare un lavoro, quello che non sappiamo ancora è che fine fece Aldo dopo il furibondo pestaggio di Vittoria.


Sistemiamo anche questa faccenda
Nel frattempo, Aldo dopo aver sfogato la sua rabbia su Vittoria e Rocco uscì dalla casa e vagò da un'osteria all'altra. Giunta la sera si recò presso l'abitazione dei suoi genitori e si presentò al padre ubriaco e fuori di senno. Pietro lo ascoltò, cercando di capire qualcosa tra le parole che biascicava. Dopo vari tentativi, comprese che lui aveva litigato con Vittoria e l'aveva picchiata. Cercò di calmarlo facendolo sdraiare sul letto. Aldo continuò nel dormiveglia a brontolare, poi cadde in un sonno profondo. Pietro rimase a fissare il figlio mentre dormiva, a tratti scuotendo la testa, avrebbe voluto comprendere quale demone invasasse Aldo. Uscì dalla porta, mentre nella mente si ripeteva: "Non vedo soluzione, il destino è nelle sue mani." Pietro il mattino seguente, si recò nella stanza, dove dormiva il figlio e la trovò vuota. Aldo era uscito lasciandola come se non ci fosse mai stato. Lui vagò senza meta e continuò a bere in ogni osteria o bar che incontrò nel suo cammino, fino a quando si ritrovò addormentato con la testa su un tavolo. Quando l'oste provò a svegliarlo, lui reagì violentemente sferrandogli un pugno. In breve si scatenò una rissa, dove Aldo ebbe la peggio. Fu scaraventato fuori dal locale e lui tentò più volte di rientrare, fino a che giunsero le forze dell'ordine, lo prelevarono e lo trattennero fino al mattino seguente per ubriachezza molesta. Uscito dal posto di polizia, si diresse verso la campagna e senza rendersene conto si trovò nei pressi della fattoria vicino al fiume. Giuseppe, (il fattore dove si fermava spesso a spaccare la legna, quando si allenava da pugile) lo vide arrivare e mentre si avvicinò, lo riconobbe, gli andò incontro e quando fu a pochi metri, gli disse: ?Aldo! Come hai fatto a ridurti in questa condizione? Lui non aveva molta voglia di parlare, si mise seduto all'ombra della pergola in silenzio. Il vecchio tentò ancora cercando una risposta, ma lui sembrava perso nel buio dei suoi pensieri. Giuseppe gli chiese, ?vuoi qualcosa da mangiare? Senza attendere la sua risposta si avviò verso la casa e tornò poco dopo con un piatto di carne avanzata della cena e un bicchiere di vino. Aldo senza parlare iniziò a mangiare, mentre il vecchio lo osservava cercando d'intravedere quello che restava del giovane pugile che in passato correva nella campagna intorno alla fattoria. Lui era sporco, aveva la barba incolta, il volto segnato dai lividi, notò le sue mani gonfie e piene di sangue incrostato, ed emanava un forte odore di alcool. Questo non gli lasciò dubbi sul declino che quel giovane pugile avesse avuto in quegli anni. Aldo terminato di consumare la carne bevve il vino poi, si alzò e fece per andare via. Il fattore lo trattenne per un braccio e gli disse: ?non c'è nessuna fretta! Dove vai? Aldo lo guardò come per dire "non so' dove vado". Giuseppe gli si mise davanti, e gli sbarrò il passo: ?puoi restare! Ho saputo che ti sei sposato, hai avuto un figlio e ti sei fatto una famiglia. ?Ora non più! Sono andato via di casa. L'uomo lo guardò poi gli disse: ?forse una moglie non l'hai più, però un figlio non svanisce nel nulla quello ti rimane per sempre! Aldo irritato dalle parole del vecchio fece per riprendere il cammino dicendogli: ?lasciami andare! Non vorrei parlarne. ?Dove? Così combinato! Vieni con me lavati e se vuoi, ho ancora qualche vestito buono, a vederti sembri circa della mia misura. Aldo si accasciò sulla panca, poi stremato acconsentì. Giuseppe lo portò con sé verso la fontana, lui si spogliò dei vestiti sporchi e iniziò a lavarsi. Aldo vide il sangue incrostato sciogliersi dalle mani e colargli via lungo il corpo, per un attimo gli sembrò che la rabbia andasse via con esso, lo vide infiltrarsi tra le crepe del terreno che circondavano la fontana. Quando fu asciutto, indossò gli abiti che il fattore gli aveva donato e senza dire una parola "si" diresse verso i filari dei pini che portavano all'uscita della proprietà. Il vecchio lo seguì per qualche metro, poi: ?se non hai un lavoro, qui c'è sempre da fare, puoi restare quanto vuoi. Aldo lo fissò e pensò, che oltre a quello che gli proponeva l'uomo non avesse altre scelte. Sarebbe potuto rimanere per un poco fino quando le cose con Vittoria non si sarebbero sistemate e accettò. Da quando la moglie di Giuseppe era morta, lui viveva da solo e la fattoria era stata in gran parte abbandonata. I campi furono lasciati incolti, la campagna della mietitura era oramai un ricordo lontano. Gli unici pezzi di terra coltivati, erano alcuni rettangoli situati intorno alla casa, dove Giuseppe coltivava ortaggi. Aldo si occupò degli orti, liberandoli dalle erbe infestanti, riparò il tetto, tirò su la staccionata, oramai in terra da anni, così passarono alcune settimane. I due uomini la sera dopo cena, restavano a riposare sotto la pergola e le parole che si scambiavano erano poche, faticavano a uscire dalle loro bocche preferendo restare soli con i propri pensieri. Il vecchio pensava ai fasti passati della fattoria e lui a come uscire da quel brutto momento.
Un giorno, Giuseppe, vide in lontananza un grosso automezzo avanzare avvolto dalla polvere, lasciò quello che stava svolgendo e si diresse verso la strada. Si piazzò al centro di questa e attese che il camion gli si fermasse a pochi metri. Quirino, l'autista, quando era di consegna in quella zona, faceva visita al vecchio fattore portandogli del pesce fresco. Scese con una capiente borsa, Giuseppe si avvicinò sorridendo e disse: ?le hai portate? Sono belle grandi? ?Guarda tu stesso! Gli disse il giovane. Giuseppe aprì la borsa e rovistò all'interno e ne tirò fuori una grossa trota. Si rivolse ad Aldo e mostrandogliela gli disse: ?oggi si mangia pesce! I tre si avviarono verso la casa, si sedettero sotto la pergola. Giuseppe fatte le presentazioni, si allontanò e ritornò con del vino fresco e dopo un poco mentre erano intenti a sorseggiarlo si rivolse ad Aldo: ?andresti a lavorare al mercato del pesce? Lui a giorni lascia questo lavoro perché ha vinto il concorso al comune. Aldo rivolgendosi ai due:?Non ho mai fatto il pesciaiolo! Non saprei da che parte iniziare. ?L'autista! Gli rispose Giuseppe e guidare il camion su e giù per l'Italia! Ecco cosa devi fare! Non sarà mica così difficile? Quirino intervenne dicendogli: ?vieni con me a Roma e ti renderai conto da solo del lavoro che dovrai svolgere. Giuseppe posò una mano sulla spalla di Aldo e affettuosamente proseguì:? vai, questa per te è una buona occasione, dammi retta. L'autista e Aldo si alzarono dalla panca, Giuseppe strinse la mano ad Aldo e gli disse:?cambia registro e le cose andranno meglio vedrai. I due salutarono il vecchio fattore e si avviarono verso la Capitale. Il mercato del pesce a quell'ora era quasi vuoto, il pavimento umido brillava per effetto delle grandi plafoniere accese e i proprietari dei banchi si erano ritirati intenti a tirare le somme della nottata appena conclusa. Gli uffici erano collocati rialzati rispetto alle postazioni di vendita. Aldo e il giovane autista bussarono e allo stesso tempo aprirono la porta del piccolo locale. L'uomo che era seduto dietro a una scrivania, gli disse: ?avanti è aperto, mentre loro chiudevano la porta. L'autista rivolgendosi al principale:?lui è Aldo e vorrebbe sostituirmi quando andrò via. ?È un tuo amico? Ci si può fidare? ?Garantisco io per lui, è una brava persona. ?D'accordo, spiegagli come funziona. Poi si rivolse ad Aldo: ?qui si dorme poco e si viaggia di notte, più viaggi, più guadagni, per i soldi avrai quello che prendeva lui, ti va bene? Aldo che non aveva ancora detto una parola, accettò il lavoro e da quel giorno, viaggiò, senza sosta cinque notti la settimana.
Aldo, sembrò essere sulla strada della redenzione, trovò un buon amico in Giuseppe il fattore e anche un lavoro, quindi non era tutto da buttare, forse qualcosa c'era da ricostruire, nulla sembrava perduto.
Nel frattempo che le vicende del racconto mi vorticavano nella mente, si camminava faticosamente e in quel momento la priorità era il cammino. Le gambe iniziarono a cedere e avevamo bisogno di una sosta vera accompagnata da un'aranciata e da un panino. Giungemmo a San Juan de Ortega. Il monastero costruito in stile romanico e alcune influenze architettoniche gotiche, non la potemmo visitare, perché era in ristrutturazione, quindi ci accontentammo a osservarne l'esterno. Attraverso la guida leggemmo che la particolarità per cui è famoso l'edificio religioso è il miracolo della luce. Durante l'equinozio di primavera e autunno, alle 17.00, ora solare, un raggio di luce illumina il capitello dell'Annunciazione, dove Maria rivolge le mani non all'Arcangelo Gabriele, ma alla luce che la illumina. Nei suoi pressi c'è il bar, affollato dai pellegrini, facemmo un po' di fila e dopo esserci riforniti di bibite e panini crollammo sulle sedie e restammo accasciati per almeno un'ora. Ascoltando i discorsi dei nostri vicini di tavolo, apprendemmo che quello è un luogo fantastico per osservare le stelle, in particolare la Via Lattea, (non è un caso che questa che stiamo percorrendo è nominata la via delle stelle). Proposi a Isabella di fare base in quel luogo per osservarle. Rocco e lei senza rispondermi, caricarono gli zaini sulle spalle e fecero per andare via. Dopo pochi metri si fermarono e Isabella ritorno verso di me, si avvicinò e dopo avermi baciato, mi disse:?iniziavo ad avere qualche sospetto, che stavi diventando matto, ma ora purtroppo ne ho la certezza. Per niente scoraggiato dell'affermazione ironica fatta da Isabella, insistei:?Se si resta questo è un luogo fantastico per ammirare la Via Lattea! Rocco sorridendo replicò che già si era informato presso gli albergue della zona ma erano tutti al completo. Quasi in coro Isabella e lui dissero: ?Non si può dormire all'aperto perché la nostra attrezzatura è troppo leggera, i nostri sacchi a pelo sono poco più che degli spolverini e non sono adatti ai mille metri d'altitudine dove ora ci troviamo e durante la notte la temperatura scende di molti gradi. A malincuore dovetti accettare di riprendere il viaggio e sperare di trovare un altro luogo simile a quello per osservare le stelle. Isabella quasi avesse letto nei miei pensieri mi si accostò e sussurrò: ?Arriviamo ad Atapuerca e dalla Sierra è sicuro che si vedranno tutte le stelle dell'Universo. A malincuore presi lo zaino e li seguii. Scendemmo gradualmente per circa due chilometri superando un tratto in falso piano e dopo una leggera salita dall'alto vedemmo la cittadina di Atapuerca adagiata su un pianoro. Dopo un altro piccolo sforzo giungemmo nella località. Il rifugio del pellegrino era già al completo fortunatamente la responsabile dell'ostello per trenta euro trovò un appartamentino per me e mia moglie nel residence situato al lato opposto della strada e a Rocco offrì per dieci euro un colciòn ( materasso) nell'ultimo spazio rimasto all'interno dell'ostello. Mangiammo in un ristorante situato a ridosso dell'edificio e dopo la cena, avremmo voluto visitare la rinomata zona archeologica, ma nonostante che in quella parte della Spagna il sole sembra non tramontare mai, trovammo i cancelli chiusi. Ci accontentammo di leggere nella guida la storia del sito. Apprendemmo che in questo luogo furono ritrovati i resti dell'uomo preistorico più antico d'Europa e ci trovavamo sulla Sierra de Atapuerca. Restammo seduti con le gambe ciondolanti nel vuoto ai bordi di un piccolo dirupo rivolto a ovest e come dei bambini che dal balcone guardano sotto di loro con nostalgia il giardino di casa, noi in silenzio ammirammo il tramonto. Per la prima volta vedemmo sotto di noi e fino all'orizzonte il profilo della Meseta. Immensi altopiani semi desertici che caratterizzano il territorio della Castiglia e pensai che nei giorni che seguiranno ne avremmo avuto un assaggio, prima bisognava giungere a Burgos la nostra prossima meta.
Quando il giorno si arrese alla notte, assistemmo a quella magia che tanto avrei voluto vedere a San Juan de Ortega. Quasi con timidezza la Via Lattea apparve sopra di noi. Man mano che la notte si fece più scura la striscia lattiginosa, si presentò con tutto il suo fascino attraversando il cielo da est ovest. Era notte inoltrata quando tornammo in paese e dopo esserci salutati, ci avviammo ognuno nelle proprie dimore. La stanchezza prese il sopravvento e non lessi niente del quaderno gentilmente concessomi da Rocco. Mi addormentai con l'immagine della Via Lattea nella mia mente.
E il paesaggio e la terra si perdettero,

solo il cielo restava,
e udii il rumore debole degli astri
e il respiro delle montagne.
Federico Garcia Lorca

Il mattino seguente, lasciate le brande cercammo invano un bar, il paese dormiva pigro e non girava anima viva. Negozi e bar erano tutti serrati e quindi niente colazione, ci facemmo bastare le caramelle che Isabella aveva sempre di scorta e un poco d'acqua presa a una fontana che trovammo all'uscita del paese.


 

Undicesima tappa: Burgos
Dopo un primo tratto in salita, iniziammo la discesa verso l'altopiano, giungemmo nei pressi dell'aeroporto di Burgos, seguimmo la recinzione fino ad arrivare alla provinciale che porta alla città. Ci inoltrammo nella periferia e nell'attraversarla notammo che era quasi del tutto dedicata a zona industriale, in cuor mio sperai che Burgos non fosse tutta così. Giungemmo in città e la situazione iniziò a migliorare. Isabella che fino allora, non aveva dato segni di cedimento, all'improvviso si bloccò e si mise seduta sul bordo di una fontana. Rocco ed io preoccupati gli chiedemmo cosa avesse e lei senza rispondere iniziò a togliersi le scarpe, poi i calzini e ci mostrò i piedi pieni di vesciche. ?Io resto qui! Non posso andare avanti in queste condizioni. Gli presi i piedi e con l'acqua della fontana glie li rinfrescai. Poi le dissi:?devi fare un piccolo sforzo per attraversare la piazza ci fermiamo al bar tu resti seduta e noi andiamo a cercare una farmacia, disinfettiamo e bendiamo i piedi. Lei mi guardò dubbiosa e indicando le vesciche disse:?E poi? Queste non spariscono con le bende! Intervenne Rocco dicendo: ?Restiamo a Burgos un giorno in più, riposi, a quel punto valuti la tua condizione e deciderai se fermarti o continuare. Isabella si convinse Rocco ed io la aiutammo ad attraversare la piazza e la lasciammo seduta in un bar. Siamo andati alla ricerca della farmacia, una volta trovata, prima d'entrare mi fermai e dissi al mio compagno che questa volta dovevamo cercare un albergo vero, niente ostelli e letti a castello uno di quelli lussuosi. Mentre acquistavo l'occorrente per medicare Isabella pensai ai dodici giorni di viaggio che fino a lì avevamo percorso e alla distanza coperta "poco meno di trecento chilometri da Saint Jean" era giunto il momento per tutti e tre ma in particolare per mia moglie di prenderci una vera pausa. Al ritorno dalla farmacia trovammo Isabella con i piedi immersi in un contenitore colmo d'acqua fresca donata dal proprietario del bar. Medicammo Isabella poi il barista ci consigliò di alloggiare in uno splendido albergo (cui ometto il nome per non fare pubblicità) che si trova lungo alla calle Vittoria, parallela al rio Arlanzon. Rocco a sua volta preferì andare all'albergue municipale. Dopo il giusto riposo uscimmo dall'albergo e ci recammo in un centro commerciale. Isabella acquistò un paio di scarpe leggere, (non le ha più tolte fino a Roma e ancora le conserva come reliquie). Visitammo la città, in particolare la stupenda cattedrale gotica dedicata a Santa Maria. Ammirandola quell'opera d'arte ci lasciò senza fiato sia la parte esterna sia quella interna. Quel giorno ci capitò la fortuna di assistere dall'inizio alla funzione serale e ci trovammo tra la folla dei fedeli, abbracciati dai numerosi pellegrini in viaggio verso Santiago. Insieme abbiamo lodato cantando la tradizionale benedizione del pellegrino. Uscimmo commossi e se non con le forze ristabilite, ma lo fummo nello spirito e pronti per continuare il viaggio. Quella sera Isabella ed io cenammo in un ristorante che si trova sulla piazza della cattedrale. Quello fu l'unico neo della serata piazza bellissima, ma il ristorante, pessima scelta, saldato il conto del locale, per farci passare la fame ci recammo in un'affollata panineria, dove mangiammo un enorme panino. Rientrammo in albergo e giunti nella stanza, mentre Isabella si addormentò in un lampo, io ripresi il mio viaggio personale nella vita della famiglia Rocco.


Una vita normale
Come già avevo detto poche righe sopra, ero felice che il giovane Rocco passasse periodi di vita normale. Il primo approcciò con gli appunti del quaderno mi avevano scosso. Nelle pagine successive, la vita scorreva tranquilla, aveva fatto nuove amicizie con le quali passavano il tempo spensierati.

La passata di pomodoro
Nella fattoria dei genitori di Aldo, i caldi giorni estivi si susseguirono tranquilli per Rocco e Romeo. Quel giorno tutti si erano alzati molto presto. Nello spiazzo adiacente alla casa, un piccolo camion faceva un fracasso infernale e impestava con il fumo di scarico l'aria del piazzale. Pietro e Ada scaricavano cassette piene di grossi pomodori, Rocco tratteneva Romeo che avrebbe voluto mordere l'autista del camion, l'uomo a sua volta per sfuggire al cane si era chiuso nella cabina di guida. Rocco e Romeo si erano seduti a distanza di sicurezza sotto la pensilina e osservavano le operazioni di scarico. Quando il camion andò via, il grosso cane pastore lo rincorse a lungo, abbaiando e cercando di mordere le ruote dell'automezzo. Al centro del giardino dopo che il camion andò via, vi erano, una catasta di cassette. Il nonno e la nonna presero dei fusti e dopo averli riempiti d'acqua, v'immersero i pomodori e iniziarono a lavarli. In seguito li lasciarono ad asciugare sopra dei teli bianchi che avevano steso sull'erba. In attesa che i pomodori si asciugassero, allestirono due grandi tavoli, dove fissarono due macinini con dei grossi imbuti e sotto di loro misero dei recipienti in metallo. Ada chiamò Rocco e gli consegnò un grande mazzo di basilico. Nella distribuzione dei compiti al ragazzo toccò quello di lavare l'erba aromatica e infilarne alcune foglie in ogni bottiglia. I tre trascorsero tutto il giorno a macinare pomodori nelle macchinette tirandone fuori una densa salsa rossa. Il ragazzo si alternava a infilare foglie di basilico e a girare la manovella dei macinini, la nonna riempiva le bottiglie e il nonno le chiudeva con i tappi metallici. Una volta pronte disposero nei fusti le bottiglie piene di salsa, alternandone la posizione. Per evitare che queste si rompessero. tra uno strato e l'altro le protessero con sacchi di juta, stracci, fogli di giornali e qualsiasi altra cosa ne evitassero il contatto durante la bollitura. Quando i fusti, furono colmi di bottiglie e riempiti d'acqua, sotto di loro fu acceso un fuoco che fu alimentato fino alla bollitura. Seppure a Rocco tutto quel da fare sembrasse divertente verso sera, crollò seduto accanto al cane che era rimasto a osservare le frenetiche operazioni dei tre. La nonna andò in cucina e dopo un po' torno con la pasta e utilizzando un appoggio di fortuna, cenarono tenendo sotto controllo al fuoco. La cosa andò avanti così fino a tarda notte: Pietro infilzava la pancetta di maiale su un rametto di pioppo e l'arrostiva nel fuoco. Una volta cotta la stringeva tra due fette di pane per sfilarla dal rametto. Ada instancabile sistemava e lavava l'attrezzatura usata per fare la salsa, Rocco e Romeo immobili guardavano ipnotizzati le fiammelle danzare sotto i fusti. Tra i tre calò quella normale e consapevole rilassatezza, che a volte ci avvolge quando il grosso dell'opera è fatto, e dopo aver tanto faticato per raggiungere il nostro obiettivo, osserviamo il risultato ottenuto, un insieme di pacatezza, soddisfazione e orgoglio per il lavoro appena svolto. A turno ognuno aggiunse qualche pezzetto di legno per ravvivare il fuoco e Pietro di tanto in tanto inseriva una canna di metallo tra i ciocchi e mentre soffiava, le scintille volavano in tutte le direzioni come se fossero tante piccole stelle. Ada dopo aver messo in ordine tutto quello che c'era da mettere in ordine si era appisolata sulla sedia e Rocco altrettanto lo fece abbracciato al grosso cane pastore. L'unico superstite era Pietro che alternava qualche aspirata alla pipa a un bicchiere di vino. L'acqua nei fusti bolliva da un pezzo e il fuoco si stava esaurendo, il vecchio svegliò Ada e gli disse: ?prendi Rocco e portalo a letto e vai a dormire anche tu, io resto governo il fuoco affinché non causi danni. Pietro restò solo a guardia dei fusti tutta la notte e il mattino seguente Ada lo trovò abbracciato con Romeo sotto la pensilina.


Quel maiale puzzava andava lavato.
Il sole già era alto quando l'acqua si freddò a sufficienza per prelevare le bottiglie di salsa dai fusti. Pietro con l'aiuto di Rocco le stipò nella casetta vicino al maiale. All'interno della casetta vi erano conservati i salumi e altri viveri di scorta per l'inverno. Durante le operazioni di sistemazione delle bottiglie, il maiale grugniva infastidito da quel trambusto e di tanto in tanto tirava fuori il muso dallo spioncino e quasi roteandolo annusava l'aria, a destra e a sinistra. Il grosso suino, era così cresciuto che nell'angusto spazio che aveva a disposizione, ormai poteva muovere solo la testa. Rocco mentre fece la spola dai fusti alla casetta, si fermò a parlare con il maiale e ogni volta pensò che l'odore che emanava la povera bestia fosse nauseante. ?Vedrai a Natale le cose cambieranno, Pietro e Ada, hanno pensato a una buona sistemazione per te. Tra un viaggio e l'altro, mentre sistemava le bottiglie di pomodoro, l'odore pungente del maiale gli fece balenare l'idea di lavarlo. Pensò: "Almeno la puzza te la togli di dosso!" Finita la sistemazione dei pomodori nella casetta, Pietro andò verso la casa e il ragazzo rimase solo con il maiale. Rocco per lavare la bestia ebbe l'idea di utilizzare il tubo per annaffiare l'orto. Prese la scala e dopo averla appoggiata alla parete del porcile, da una finestrella, lo annaffiò per bene. Con una scopa prese a strofinarlo su e giù, sotto e sopra, poco dopo il maiale cambiò colore, da nero divenne rosa. Nonostante la vigoria che ci mise nello spazzolarlo la puzza non accennò a diminuire. Rocco continuò nella pulizia e grattò ancora più energicamente la pelle dell'animale. Romeo osservava quell'operazione eccitato e ogni tanto abbaiava verso il ragazzo arrampicato sulla scala. Da quando Rocco grattava con la scopa il maiale era passata già una mezzora e a quel punto la bestia stanca di quel trattamento iniziò a grugnire e a dimenarsi avanti e indietro fino a quando ruppe rumorosamente la porta che dopo un forte schianto si spalancò e lui annusò la libertà. Il maiale uscì dalla casetta e mentre lo fece a Rocco, sembrò non finisse mai, tanto era lungo. La bestia si trovò libera nel piazzale, il ragazzo salì sopra il tetto del porcile e da lì chiamò aiuto. Ada udì le urla e poco dopo giunse con un badile e brandendolo cercò di fermare il maiale. Giunse anche Pietro e dopo un primo tentativo di bloccarlo, fuggì con quella specie di carro armato rosa che lo inseguiva. Romeo abbaiava e girando intorno alla bestia cercò di mordergli le zampe. Il suino per nulla intimorito s'introdusse nell'orto e quando ne uscì, era come se avessero arato da poco il campo, nel disastro non si salvò neanche una piantina. La caccia durò fino a quando il maiale verso sera, spontaneamente si rintanò nel porcile. Rocco che era rimasto appollaiato sopra il tetto scese e chiuse la porta, Pietro con un palo di castagno la rinforzò sbarrandola. Quando la bestia fu al sicuro, Pietro si rese conto che l'animale si trovava al contrario di come doveva stare, cioè con la testa al posto del sedere e nello stretto porcile non c'era nessuna possibilità di manovra per ristabilire la posizione originale. Dopo una breve consultazione, Ada e Pietro non vollero rischiare una nuova caccia al maiale, decisero che di creare una nuova apertura sul retro del porcile per consentirgli di sfamarlo.

Rocco, quella sera fu punito da Pietro per aver fatto fuggire il suino, per l'orto distrutto e per altre cose lasciate in sospeso.

A quel tempo in quella casa per lavarsi si utilizzava una grande tinozza, questa alla bisogna era posta al centro della cucina. Pietro attese che il ragazzo fosse nudo all'interno del recipiente e con un frustino ricavato da un ramo di pioppo, lo colpì più volte. Rocco mentre subiva le frustate tentò la fuga, ma fu prontamente trattenuto dalle forti mani del vecchio. Terminata, la severa punizione Pietro gli disse: ?nei prossimi giorni sistemare l'orto sarà il tuo compito primario. Quella sera Rocco andò a letto senza cenare e mentre malediva il nonno per le frustate ricevute, ebbe modo di pensare e discutere con Arturo, "il suo amico immaginario", di quello che era successo durante la giornata e si addormentò sorridendo pensando al maiale in fuga.
Per tutta la settimana fu svegliato all'alba e fornito di vanga, zappa e rastrello. Rocco lavorò nell'orto fino a che il terreno, non sembrò un biliardo, tanto fu spianato.

                                                                                                               ***

Dodicesima tappa: Hontanas
Era quasi l'una, quando alzai la testa dal quaderno e le cose che aveva descritto Rocco mi ricordavano alcuni momenti della mia infanzia. Una vita normale, niente scossoni, l'istinto però mi fece pensare che questa era la calma prima della tempesta.
Come il solito ero stato il primo a svegliarmi, lasciai Isabella nella stanza che dormiva, scesi e approfittai per chiedere informazioni alla portineria. La ragazza parlava un poco d'italiano ed io ancora meno lo spagnolo, comunque riuscii a comprendere, dove fosse situata la posta. Quando Isabella si svegliò e mi raggiunse con gli zaini, le dissi della mia intenzione di spedire il peso superfluo a Roma. Lei concordò con me e ci avviammo lungo la strada che costeggia il Rio Arlanzon giunti in una piazza dove la statua equestre di El Cid "l'eroe nazionale"domina il largo, attraversammo il ponte sul fiume e raggiungemmo la posta. Spedimmo le nostre scarpe, (le mie oramai viaggiavano appese allo zaino, da quando a Ventosa le tolsi dai piedi) i libri, due borracce di riserva, due tute, le mantelle per la pioggia e l'ombrello, (pensammo che i K-way fossero più che sufficiente) poi altre cose che c'eravamo portati e rimasti inutilizzate. Mentre rientravamo lungo la Calle Vittoria, incontrammo Rocco proveniente dall'albergue municipale. Avendo noi già regolato il conto dell'albergo, insieme riprendemmo il cammino. Le vesciche di Isabella non si fecero sentire, il nuovo paio di scarpe, molto leggere e traspiranti sembrava che le avessero dato un nuovo impulso e marciava spedita. Usciti da Burgos, ci inoltrammo nell'altopiano. Viaggiammo costantemente a circa ottocentocinquanta metri d'altitudine e il caldo nonostante la quota si fece sentire. Attraversammo terreni lavorati a grano a perdita d'occhio, alternati da campi di girasoli. La prima sosta dopo circa dieci chilometri la facemmo a Tardajos. Avevamo poca voglia di parlare e il tratto appena coperto senza soste intermedie era stato faticoso. Sfiniti, ci sdraiammo nell'unico posto all'ombra, un'enorme covone di paglia. Rocco dopo aver bevuto un poco d'acqua si appisolò. Isabella rimase immobile accanto a me per circa mezzora. Io presi il quaderno degli appunti e ripresi la lettura dove l'avevo lasciata.

                                                                            ***

Riordinando i fatti, Aldo trovò lavoro come trasportatore al mercato del pesce. Rocco trascorse il tempo nella fattoria dei nonni tra una marachella e l'altra. Rientrò nella sua vita nei momenti di stress, Arturo "l'amico immaginario". A questo punto della storia, rimane da capire che fine aveva fatto Vittoria dopo che lasciò Rocco andare via con Pietro. Rocco, (oggi nostro compagno di viaggio nel cammino) nel suo quaderno l'ha descritto così:

Oh, che tranquillità la pioggia nel giardino!
Il mio cuore trasforma tutto il paesaggio casto
nel rumore di idee umili ed accorate,
qui dentro le mie viscere, un frullo di colombe.
Federico Garcia Lorca

Durante quel periodo Vittoria tentò in ogni modo di trovare quel lavoro che le avrebbe consentito di cambiare vita. Aldo era scomparso dal giorno che l'aveva picchiata, d'altro canto a lei stava bene così e non pensò mai di cercarlo, al contrario sperò che lui sparisse per sempre dalla sua vita, se solo si potesse, anche il nome avrebbe voluto dimenticare. A Vittoria sembrò che l'aria che la circondava fosse tornata più candita e nonostante le difficoltà che giornalmente era costretta a superare si sentiva libera e pulita.

 

Quel giorno Vittoria aveva scandagliato in lungo e in largo il centro della città alla ricerca di un lavoro chiedendo a decine di negozi se gli servisse una commessa. Dopo aver ricevuto altrettanti rifiuti, giunta nei pressi della stazione dei treni si sedette con i piedi doloranti sulla sedia di un bar.
I piedi le facevano un gran male e senza rendersene conto tolse le scarpe e iniziò a massaggiarli. Sentì il sangue che le fluiva velocemente nelle vene, pulsare e ritmicamente premerle le tempie.
Le venne in mente Aldo e la avvolse una gran rabbia e iniziò a sussurrare: "Maledetto, bastardo". E ripetendolo più volte aggiunse: "Mi hai rovinato la vita ". Poi i lineamenti del viso come d'incanto si addolcirono e sperò che almeno il figlio a casa di Pietro corresse spensierato nei campi e giocasse con gli animali della fattoria. Rimase lì raggomitolata in un'altalena di sentimenti tra la rabbia che le suscitava Aldo e la nostalgia di Rocco. Vedeva il figlio che la sera prima di addormentarsi pregava per lei e anche per quel disgraziato del padre. Si rannicchiò sulla sedia, tirò su i piedi e calò la testa tra le ginocchia. Vittoria restò lì immobile sopraffatta dai propri pensieri mentre il suo corpo sembrava gridare al mondo il suo dolore. La gente che entrava e usciva dal bar rallentava incuriosita da quella donna senza scarpe e seduta in quel modo strano.
Il barista, un uomo sulla quarantina preoccupandosi per la sua condizione le chiese:?Signora si sente bene? Ha bisogno di aiuto? Lei restando accovacciata sulla sedia: ?no, non mi serve niente, forse una nuova vita sarebbe gradita. Poi alzando gli occhi chiese al cameriere: ?ne ha forse una a disposizione? Una con pochi errori se è possibile. Tirò giù le gambe, guardò l'uomo e sorridendo gli disse: ?Stavo solo riposando, sa quando una persona percorre chilometri in città per cercare un lavoro a un certo punto, ha bisogno di riposo. ?Non ha trovato niente? Le chiese il barista. ?Nulla sembra che qualcuno arrivi sempre un minuto prima di me. Poi lei con tono ironico, prese a scimmiottare i dialoghi avuti con i proprietari dei negozi: ?Ah mi dispiace se fosse venuta ieri … ma come vede oramai, siamo al completo … provi più avanti, ho sentito che cercano una commessa … e così per decine di volte, sono sfinita. ?Le porto da bere? No, grazie. ?Non si butti giù, domani andrà meglio. Vittoria pensò che qualcosa avrebbe bevuto volentieri, magari qualcosa di forte, poi le venne in mente che le ultime monete le aveva spese per acquistare il biglietto del bus. ?È tardi, vado a casa a riposare, domani sarà un'altra giornata pesante per me. Vittoria si alzò dalla sedia, infilò una scarpa, prese l'altra e in equilibrio su una gamba tentò di infilarla, nel farlo sbandò visibilmente e mentre già si vedeva in terra, sentì una mano sorreggerla con forza. L'uomo, le prese anche l'altra mano e la tenne piedi. Calzata la scarpa, lo fissò per un attimo e gli disse: ?grazie, se non c'era lei, sai che bel tonfo! ? Non si preoccupi, fa parte dei miei compiti curare il benessere dei clienti. L'uomo la fissò e dopo una piccola pausa le disse: ?termino il turno tra non molto, se mi aspetta, si va a mangiare qualcosa insieme. "Adesso ci mancava pure quello che ci prova". ?No! Che ha capito, sono una brava persona e lei è una bella donna, non per questo deve giungere a queste conclusioni e pensare certe cose. ?Che fa? Legge pure il pensiero? ?Forse è lei che ha pensato a voce alta! E scoppiarono a ridere entrambi. Vittoria pensò: "Sono giorni che mangio panini, forse non sarebbe sbagliato accettare, in fondo sono una donna libera." Per essere sicura che lo avesse solo pensato, scrutò il viso del barista, per vederne l'espressione, poi quando fu certa che il suo pensiero era rimasto nella sua mente, gli disse: ?ti attendo seduta qui, accetto l'invito volentieri.
Era quasi mezzanotte quando il bar chiuse. La città aveva rallentato la sua corsa frenetica, le auto passavano di rado, alla stazione, alcuni pendolari attendevano l'ultimo treno che li avrebbe portati alle loro case. Vittoria vide il bus che avrebbe dovuto prendere, chiudere le porte e andare via. Lo seguì con lo sguardo fino a che il mezzo sbuffando, non sparì alla prima curva. Le venne in mente che non ce ne sarebbero stati altri fino alle sei del mattino seguente. "Speriamo che lui abbia l'auto, oppure sarò costretta a dormire su una di queste sedie". Mentre era persa nei pensieri, lo sentì salutare qualcuno all'interno del bar, si girò e lo vide arrivare facendosi largo tra le sedie e i tavoli che erano stati ammassati all'interno del locale. ?Vuoi anche questa sedia? Le disse Vittoria mentre si alzava. ?Non ti preoccupare la toglierà il ragazzo appena saremo andati via. ?Dove mi porti? Ho una fame da lupa. Lui la guardò, poi, stese il braccio e porgendole la mano le disse: ?io mi chiamo Gianni e tu? Vittoria. Lei lo fissò e mentre gli strinse la mano, lo squadrò attentamente: "È un bell'uomo, elegante, alto, capelli scuri tenuti cortissimi, occhi neri e un bel sorriso e mi vuole portare a cena". Poi lui come se non volesse disperderle i pensieri, con un filo di voce le sussurrò: ? Vittoria si va? Ho l'auto parcheggiata dall'altra parte della strada. Niente di speciale, ho una piccola utilitaria. I due attraversarono il largo viale prestando attenzione a non farsi investire dalle auto che sfrecciavano come se fossero in una pista. Giunti nel lato opposto, Gianni si accostò a un'auto lussuosa. ?Questa non è un'utilitaria! Esclamò Vittoria. ?Appunto, troppo lusso e non è la mia auto, quella è la mia. Gianni lo disse mentre le indicava una piccola FIAT parcheggiata subito dopo la fuoriserie.
Salirono sull'auto, si diressero verso Piazza dei Cinquecento la attraversarono, poi imboccarono, Via Cavour. Vittoria con il viso incollato al finestrino, guardava le luci della città e le venne in mente, Aldo, Rocco e che era una donna sposata poi, scacciando ogni remora pensò: "Non c'è niente di male se per una volta vado a cena con uno sconosciuto". Si girò verso Gianni e le chiese: ?dove mi porti? ?Un poco di pazienza, a quest'ora sono pochi i locali aperti, però ce n'è uno che fa al caso nostro. ?Dove si trova? ?Alla fine di questa strada, all'incrocio con via dei Fori Imperiali c'è un bel ristorantino. Giunti davanti al ristorante, Gianni scese dall'auto e gentilmente aprì la portiera facendo scendere Vittoria. La prese sotto braccio e la invitò a seguirlo: ?prego signora, siamo arrivati a destinazione, questa sera lasci tutti i guai sotto al sedile e si diverta. Lei dopo tanto tempo si sentì apprezzata e forse anche desiderata e questo le fece piacere e non lo nascose. Si strinse al braccio di Gianni e per un attimo spazzò via tutti i problemi che l'avevano assillata in quel periodo.

Il locale era semivuoto, vi era una coppia di turisti e nell'angolo più lontano un tavolo con quattro donne piuttosto allegre. Il cameriere si avvicinò ai due e salutò Gianni in modo amichevole. Li fece accomodare e mentre prendeva le ordinazioni, Vittoria chiese a Gianni: ?Ti conosce? È un tuo amico? ?Si ha lavorato con me qualche volta. Sai noi che facciamo questo mestiere chi più, chi meno, ci conosciamo tutti. Il cameriere prese le comande e si allontanò dirigendosi verso la cucina. ?Vieni spesso in questo ristorante? ?Quasi tutte le sere. ?Ah! E quindi, non ceni mai a casa tua. Lui rimase in silenzio e per qualche secondo sembrò assentarsi mentalmente. ?Sai anch'io ho le mie storie segrete, le disse con un sorriso. Gianni dopo una breve pausa aggiunse: ?sono stato sposato e, per circa due anni filò tutto liscio, fino a quando una sera tornai a casa e sul tavolo della cucina, trovai un biglietto. Mia moglie lasciò scritto in mezzo a un mare di altre scuse che mi lasciava perché non ne poteva più dei miei orari sballati e per questo se ne era tornata dalla madre. ? non l'hai più vista? Sì, e qualche volta siamo anche usciti insieme. Devo confessarti che per un momento in cuor mio ho sperato che le cose si sistemassero. Con il passare del tempo ho preferito lasciar stare perché forse è così che doveva andare. ? Hai figli? Gli chiese Vittoria. ? No per fortuna, vivo solo e oltretutto non sono bravo a cucinare, per questo preferisco mangiare fuori di casa. Nel frattempo che Gianni e Vittoria attendevano che giungessero le ordinazioni, le quattro donne che stavano in fondo al locale chiesero il conto. Quando gli passarono traballanti accanto, sembrarono piuttosto brille. Una delle donne rivolgendosi a Gianni: ?se non ti ci scappa niente e ti va di combinare qualcosa, noi siamo vicino al Colosseo. Le quattro gli sfilarono accanto al tavolo come se fossero modelle su una passerella di alta moda. Vittoria non sapeva più, dove guardare, tanto rimase imbarazzata ed evitò d'incrociare lo sguardo con Gianni. Finalmente giunse il cameriere con i piatti e per lei fu un sollievo. Per tutta la serata lei non disse una parola. Si limitò a fare dei cenni con il capo alle domande di Gianni alternandoli a qualche timido sorriso. Mangiò con avidità tutte le portate e bevve vino come mai le fosse capitato prima di quella volta. I due quando terminarono di mangiare e bere restarono in silenzio per qualche minuto. Vittoria aveva il gomito poggiato sul tavolo e con una mano, sosteneva la testa e sembrava che fissasse un punto sulla parete del ristorante. Gianni la guardava come se volesse comprendere fino in fondo i pensieri che la attanagliavano. Dopo una lunga pausa Gianni la chiamò distogliendola dai pensieri. ?Vittoria!Adesso per andare a casa tua c'è solo il notturno! Lei lo guardò come se non capisse bene cosa dicesse, poi, si alzò e senza una parola "si" diresse quasi barcollando verso l'uscita del locale. Gianni, dopo aver lasciato sul tavolo, i soldi del conto la seguì afferrandola per un braccio e le disse: ?dove vai? Ho fatto qualcosa di sbagliato? Lei si divincolò dalla presa, lo fissò per un attimo e poi uscì. Vittoria si sentiva inadeguata come una ragazzina al suo primo appuntamento. Dentro il petto, il cuore le batteva come se da un momento all'altro volesse fuggire per le vie di Roma. Si chiedeva cosa facesse lì con un uomo che aveva appena conosciuto. La testa le pulsava e sentiva che se lui le avesse chiesto di andare a casa sua non avrebbe rifiutato. Gianni era fermo vicino all'auto che fumava una sigaretta, lei si avvicinò: ?scusami, non so cosa mi sia preso ma se non ti dispiace, vorrei tornare a casa. ?Ti accompagno alla stazione? ?No, faccio due passi così smaltisco un po' di vino che ne ho bevuto troppo. ?Ci si vedrà ancora Vittoria? ?Non lo so, capiterà che torni in cerca di lavoro e verrò a trovarti. Lui la vide allontanarsi su per via Cavour con un andatura incerta e la seguì con lo sguardo fino a quando lei non si confuse tra le luci dei lampioni e le ombre della notte.

Il viaggio sul bus notturno a Vittoria sembrò non finisse mai. Giunse all'ultima fermata che l'alba iniziava a schiarire il negativo dei palazzi. Vide alcuni pendolari sbucare dalle vie che circondavano la stazione dei treni che alla spicciolata e a passo svelto si recavano verso la biglietteria. Quando giunse a casa, oramai era giorno. Vittoria cadde esausta sul letto disfatto e pensò che a conti fatti ora avrebbe desiderato che quel barista fosse lì. Nei giorni che seguirono, cercò ancora per le vie di Roma e finalmente trovò un impiego con un'azienda che distribuiva prodotti per la casa a porta a porta.

                                                                                                                 ***

Mentre ero lì che cercavo di metabolizzare quello che avevo appena letto, Isabella mi riportò alla realtà dandomi un calcetto e disse: ?Rocco è già partito! Riprendiamo il cammino? Alzandomi gli risposi ironicamente, che era ora che mi chiamasse! Perché la strada da percorrere era molto lunga. Lei per tutta risposta mi gettò lo zaino sui piedi, poi ridendo mi abbracciò e mi chiese:? c'è quello che avevi sperato di trovare negli appunti di Rocco? ?Si, un'alternanza di situazioni normali e forti emozioni. Presi lo zaino, alzai gli occhi e il nostro compagno era già all'orizzonte. La strada era una riga bianca che si snodava tra i campi dorati. Dopo aver camminato per un lungo tratto in piano, superammo una piccola altura e dopo un leggero avvallamento, in lontananza s'intravide qualche casa. Giunti in prossimità dell'agglomerato di case, leggemmo che quella località era Rabé. Lo superammo senza fermarci e iniziammo a salire gradualmente e fin, dove riuscimmo a vedere per molti chilometri a destra, a sinistra, davanti, non c'era anima viva e intorno a noi sembrava che il tempo avesse deciso di fare una pausa. Dopo aver camminato, per circa due ore in solitario seguendo in lontananza la sagoma del nostro compagno, dietro di noi si affacciò un gruppo piuttosto folto di pellegrini che ben presto ci superò, seguiti dopo poco da ciclisti, anche loro pellegrini. Il mio pensiero andò alle brande che sparivano a ogni pellegrino che ci superava. La nostra meta era Sanbol. Sapevamo per averlo letto nella guida, che il rifugio metteva a disposizione dei pellegrini dodici posti letto e la nostra speranza era che quelli che ci superavano tirassero avanti ancora per cinque chilometri, verso Hontanas, dove i posti letto nel Municipal erano cinquanta. Raggiungemmo Rocco in cima a un'altura, stava seduto su una roccia ad aspettarci. Dall'alto il paesaggio anche se meraviglioso, ci scoraggiò perché a parte una piccola oasi posta a circa un chilometro sulla sinistra a perdita d'occhio c'era il nulla. Rocco dopo un po' che eravamo giunti ci disse:?Quel gruppo di alberi laggiù è Sambol, dove c'è il Refuge Félix, ma non facciamoci la bocca ho visto molti pellegrini che vi si dirigevano. Isabella dopo una piccola pausa, valutò la distanza da percorrere e le poche energie rimaste disse:?vale la pena tentare d'altronde se non c'è posto non rimane altro che andare avanti. Riprendemmo a camminare e giunti al rifugio e come previsto dal nostro compagno di viaggio lo trovammo al completo. A malincuore ci dirigemmo verso Hontanas. Il nostro desiderio di fermarci a Sambol era stato motivato dal fatto che girasse voce tra i pellegrini, che una volta immersi i piedi nella fonte che lì si trova, questa lenisse come per incanto tutti i dolori provocati dal lungo ed estenuante cammino verso Santiago. Forse era una leggenda, comunque noi non lo potemmo sfatare, perché i piedi non ce li abbiamo immersi in quell'acqua miracolosa. La strada saliva leggermente, ed io mi sforzavo di intravedere le prime case del paese. La visuale era perfetta, eppure per chilometri non si vedeva una casa. Rimasi un poco staccato dai due che mi precedevano, poi, feci cenno a loro di proseguire dicendogli che in seguito li avrei raggiunti. Scaricai lo zaino, presi la bottiglia dell'acqua e bevvi qualche sorso, rovistai tra gli indumenti, trovai il quaderno e ripresi la lettura.

                                                                                                                       ***

Intorno a me il silenzio assoluto, gli unici rumori che sentivo erano il leggero ronzio nelle orecchie, che da un po' di tempo mi affliggeva e la pulsazione del cuore, che pian piano si regolava mentre riposavo.


Un lavoro per Vittoria
Rocco scrive a un certo punto che lei trova questo benedetto lavoro e spiega come accadde. La donna nonostante le numerose difficoltà, non si era arresa e aveva proseguito nella ricerca dell'impiego. Bussò a ogni negozio e in ogni locale, si propose per ogni tipo di attività. Anche quel giorno le ore passarono senza che lei trovasse un lavoro. Verso le tre del pomeriggio, stanca, affamata e rassegnata, pensò che ormai potesse dire basta. Dopo aver girato per ore le strade di Roma, si trovò nella zona di Piazza Vittorio. Passò attraverso i banchi del mercato, dirigendosi verso Via Mamiani, proseguì fino a incrociare Via Principe Amedeo, si fermò in attesa che passasse il bus. All'altro lato della strada vide un gruppo di ragazze scendere da un pulmino e attirarono la sua attenzione. Erano giovani e allegre, tutte avevano a tracolla un capiente borsone. Le vide infilarsi e sparire in una grande serranda. Incuriosita, si diresse verso loro, le seguì fino all'interno del locale. Vittoria ci mise un poco ad abituarsi alla scarsa illuminazione, seguendo le voci del gruppo e con la mano appoggiandosi alla parete per non rischiare di cadere, s'inoltrò nel lungo corridoio e dopo qualche metro, percorso in leggera discesa, si ritrovò in quello che le sembrò un grande magazzino. Proseguì tra merci accatastate al bene e meglio facendosi guidare dal vociare delle ragazze che a quel punto le sembrarono più vicine. Quando le vide nuovamente, le trovò sedute su delle pedane vuote davanti a un ufficio. Quando il gruppetto di donne la notarono sorprese da quella sconosciuta, ammutolirono. Vittoria si avvicinò e dopo una piccola pausa chiese a loro: ?sapete se serve un'impiegata? Le ragazze si guardarono tra loro e poi, qualcuna sorrise e altre alzarono le spalle ridendo più forte. Lei vedendo quella reazione alla sua richiesta, irritata si avvicinò e: ?cosa c'è da ridere? Ho fatto una semplice domanda! Vi è sembrata divertente? Quella che gli sembrò la più anziana delle ragazze, si alzò e gli andò incontro. ?Ci deve scusare, non era nostra intenzione offenderla, tutte noi avremmo voluto essere delle impiegate, ma ci ritroviamo a svolgere un lavoro duro, che non ha niente a che vedere con impiego di ufficio. Vede quelle borse? Ora sono vuote e non sono molto pesanti, ma prima lo erano, vi erano contenuti saponi di ogni tipo, quelli per la casa e quelli per la persona, li scarrozziamo da porta in porta, cercando di piazzarli. Mentre la donna parlava, lei si mise seduta sulla catasta di pedane. Nel frattempo le altre si erano avvicinate creando un circolo intorno a lei. Vittoria udì rimbombare le loro voci sulle pareti, avvertì un fastidio e un brontolio provenire dalla pancia, tutto iniziò a girarle intorno e all'improvviso il silenzio la avvolse. Lei si risvegliò che una di loro le passava un panno umido sulla fronte e le dava qualche buffetto sul viso. La donna cui parlava prima, le chiese se avesse bisogno di un medico, poi, vide che alle ragazze si era aggiunto un uomo che la guardava piuttosto ansioso. Chiedeva prima a una poi all'altra chi fosse lei. L'uomo si fece largo e le chiese: ?come sta? Va meglio? Vittoria lo guardò per un attimo, cercando di capire chi fosse quell'uomo che si preoccupava per lei. ?Meglio grazie, non so cosa mi sia accaduto, forse la stanchezza o la fame, adesso vado scusatemi tutti, si alzò e sistemandosi il vestito si diresse verso l'uscita. Mentre andava via, si sentì osservata, udì il vociare delle ragazze e a ogni passo il disagio che la assaliva. Cercando un'andatura più sicura possibile pensò: "Cavolo non mi reggo in piedi, appena esco da qui, devo trovare un posto per sedermi, mangiare qualcosa, bere, poi quando sarò a casa dormire per una settimana." Delusa di com'era andata, guardò il lungo corridoio e le sembrò un'impresa giungere fino all'uscita in quelle condizioni. Stava riprendendo fiato prima di affrontare la salita, quando udì un ticchettio di passi rapido giungerle da dietro. Si girò per capire cosa lo provocasse e vide la donna con cui aveva parlato prima arrivare correndo verso lei. ?Aspetti non se ne vada! Il signor Mario le vuole parlare. Vittoria attese che lei fosse più vicina poi: ?gli dica che ora mi sento bene e non si deve preoccupare. ?Venga mi dia retta, gli ho parlato e sembra interessato a darle il lavoro. La donna prendendole la mano, delicatamente la tirò, mentre con l'altra la invitò a seguirla. ?Posso darle del tu? ?Si rispose Vittoria mentre cercava di tenere il passo.?Io mi chiamo Marcella e tu? ?Nonostante tutto … Vittoria. ?Perché nonostante tutto? ?Da qualche tempo non me ne va bene una e il mio nome non calza a pennello, rispose sorridendo. Giunsero davanti all'ufficio e bussarono. Il signor Mario le fece cenno di entrare: ?grazie Marcella ora lasciaci soli così facciamo conoscenza. Vittoria guardò per un attimo negli occhi Marcella, cercando di farle capire che avrebbe desiderato che lei non uscisse dall'ufficio, lei sorridendo le lasciò la mano si girò e uscì. Mario era un uomo piuttosto avanti con l'età, con qualche chilo di troppo che si concentrava perlopiù sull'enorme pancia, non molto alto e per poggiare i gomiti sulla scrivania, era costretto a distendersi in avanti, lasciando la sedia piuttosto lontana da questa. I pochi capelli superstiti, erano bianchi e gli cingevano la nuca da un orecchio all'altro, in compenso gli occhi, piccoli e tondi, sembravano avere la vitalità di un ragazzo. Il volto senza barba era liscio e lucido come se avesse appena messo una crema di bellezza. I due si osservarono attentamente cercando di capire ognuno cosa passasse nella mente dell'altro. Poi stanca di quel silenzio Vittoria si girò mentre diceva:?Ho capito ci ha ripensato arrivederci! ?No, si metta seduta! Stavo cercando il modo come dirle se accetta questo lavoro. Sarà duro, prima lei è svenuta e sono preoccupato, non sarà incinta? Aspetta un bambino? Vittoria si alzò dalla sedia e portandosi le mani sul ventre gli disse: ?sembro incinta? Peserò sì e no quaranta chili! Ho avuto un malore, punto e basta! È più di un mese che giro dieci ore il giorno alla ricerca di un lavoro e, questa maledetta città sembra rifiutarmelo un giorno dopo l'altro. Mangio poco e riposo ancora meno, anch'io infine potrò avere un crollo! Le ripeto tutto qui, un piccolo cedimento! A lei mentre parlava con il vecchio, sembrò veder diminuire la possibilità di avere quel sospirato lavoro. Pensò che forse avesse parlato troppo e si azzittì. Mario l'aveva fatta sfogare, mentre nel frattempo armeggiava con le cose che erano sulla scrivania, poi le disse:?non voglio sapere altro! Il lavoro è suo. Deve sapere comunque che noi operiamo in alcune città d'Italia, quindi restiamo fuori dalla domenica sera, fino il venerdì pomeriggio seguente. Lei è disposta a restare fuori di casa per tutta la settimana? Vittoria pensò: "Non c'è nessuno che mi aspetta a casa, ai randagi qualcuno provvederà." ?Si, non avrei nessun problema. Mario le stipulò il contratto, poi le disse di parlare con Marcella e le altre che le avrebbero spiegato come si sarebbe svolto il lavoro. Uscì dall'ufficio con la copia del contratto tra le mani e le ragazze, si avvicinarono, chiedendole come fosse andata. Poi si presentarono: Marcella, Mirella, Gloria, Cristina, Gioia e Maria, e tutte insieme la informarono che l'unico maschio del gruppo era l'autista e che il suo nome è Ascanio. L'autista non è niente di speciale ma se ti venisse qualche idea su lui, t'informiamo che è già impegnato. Tutte scoppiarono in una fragorosa risata mentre si girarono verso la collega Cristina che timidamente cercò di nascondere il rossore che le avvampò il viso. Vittoria comprendendo il disagio della ragazza disse:?Tranquilla Cristina, ne ho avuto uno e non penso che per i prossimi cento anni ne cercherò un altro. Avute tutte le spiegazioni sul compito che avrebbe dovuto svolgere, si salutarono fissandosi l'appuntamento per la partenza della domenica sera.

                                                                                                                 ***

Mi ero attardato molto nella lettura ed era il tardo pomeriggio quando misi il quaderno dentro lo zaino. Alzai gli occhi e vidi davanti a me una terra desolata. Non so se l'ho già scritto, però lo voglio ripetere; questa parte della Castiglia è la Tierra de Campos e secondo la mia opinione nessun nome fu più appropriato. Ovunque volgessi lo sguardo, avanti, a sinistra, a destra, vedevo una terra solitaria e nulla faceva presagire la vicinanza di Hontanas. Chissà se a voi è mai capitato di fare paragoni strani, ma durante il viaggio verso Santiago a me è successo spesso. Per esempio quel giorno mi trovai a pensare a quegli antichi navigatori che dopo un'estenuante traversata per capire se l'approdo fosse vicino, osservavano il cielo e la superficie del mare alla ricerca di un segnale: un gabbiano, un'alga strappata dagli scogli di una terra sconosciuta. Io allo stesso modo scandagliavo quel luogo desolato alla ricerca di una qualsiasi forma di vita: una casa, un animale domestico o qualsiasi altra cosa che mi facesse supporre che il paese fosse nelle vicinanze. Oltre a tutto questo mentre io nel frattempo mi perdevo in queste fantasie, anche Isabella e Rocco, erano spariti all'orizzonte.
A quel punto pensai: " e se avessi sbagliato direzione?" Rivisitai mentalmente a ritroso la strada fino a quel momento percorsa e rividi in ogni bivio la freccia gialla e la concia che indicavano la direzione del cammino verso Santiago. Mentre meditavo sul percorso, a un tratto vidi in lontananza spuntare la guglia di un campanile, feci rapidamente la connessione chiesa - uguale paese, ero sulla strada giusta. Mentre avanzavo, la figura del campanile s'innalzava come se una forza sovrumana lo spingesse verso l'alto e dal nulla apparvero alcuni tetti di Hontanas. A me quel paese sembrò un'astronave in fase di decollo e man mano che mi avvicinai, questa continuò ad alzarsi dal terreno. Lo spettacolare effetto ottico si presentò ai miei occhi più volte, durante l'attraversamento dei vasti altopiani. Le molte località raggiunte sono nate per qualche ragione a me non nota, all'interno di avvallamenti del terreno e si rivelano dal nulla al forestiero che vi giunge, mentre guarda un apparente orizzonte e la terra che lo circonda sembra essere solo un'immensa e deserta pianura. Finalmente giunsi a Hontanas. Riconobbi il campanile che mi aveva fatto da guida e dopo aver superato una fonte d'acqua potabile, entrai nel paese percorrendo una piccola discesa.


 

Trovai Isabella e Rocco, seduti al bar di un Albergue privato, situato davanti alla chiesa del sedicesimo secolo, dedicata all’Immacolata. Il Municipal, com’era prevedibile, Isabella lo trovò al completo, ma il luogo che in alternativa scelse si rivelò accogliente e fece la sua funzione di sosta tonificante, rimettendoci in piedi pronti per il cammino del giorno seguente. Quella sera dopo la cena socializzammo con due pellegrini italiani e per giunta anche romagnoli come i nonni di Rocco, che percorrevano il viaggio fino a Santiago in bicicletta. Nonostante un po' l’avessi con loro, perché più veloci e secondo il mio assillante pensiero ci sottraevano i posti per dormire, quando ci raccontarono il loro cammino, li invidiai per il fatto, che fossero padre e figlio e che a un certo punto della loro vita decisero di condividere quell’esperienza. Mentre li ascoltavo, mi assalì la nostalgia. Avrei voluto avere con me Silvia e Gabriele, i nostri figli, e mi trovai a pensare quanto la lontananza ci fa sentire vicino ai nostri cari e che se fossero stati con noi in viaggio forse nei momenti d'abbandono, ci avrebbero afferrato la mano e amorevolmente sostenuto verso Santiago, come noi avevamo fatto durante i loro primi passi quando si affacciarono alla vita. Quando i due ciclisti ci lasciarono per andare a dormire, ci affrettammo a chiamare i nostri figli per sentirne la loro voce e a quel punto: Se è vero, quel che credi sia vero io li immaginai seduti accanto a noi. Rocco andò a dormire prima di noi mentre Isabella ed io restammo fuori a bere una birra. Parlammo del libro e del cammino poi mi confidò che iniziava ad accusare la stanchezza e la nostalgia di casa: ─chiediamo troppo al nostro fisico e se vogliamo andare avanti dobbiamo diminuire i chilometri tra una tappa e l’altra. ─Capisco, certo siamo quasi sessantenni! Ogni sera progettiamo la tappa del giorno dopo più corta, poi, il mattino seguente lastrichiamo le strade del cammino di buone intenzioni e di tappe sempre più lunghe. C'è sempre un imprevisto d'affrontare. Ad esempio che mi sembra calzi bene, oggi a Sanbol! Isabella dopo avermi ascoltato, aggiunse: ─Siamo troppo lenti e paradossalmente pensiamo pure a rallentare. Si mise a ridere e ironizzò sulla nostra condizione fisica: le ossa scricchiolano, i muscoli gridano vendetta e la mente va a spasso per conto suo, siamo ridotti male. A quel punto le dissi:─Domani si partirà presto! Va bene all’alba? Facciamo una ventina di chilometri e ci fermiamo per la notte, sei d’accordo? Lei mi fissò e mi rispose: ─Forse è meglio non fare progetti, arriviamoci a domani! E vediamo come va. Poi mi tolse lo zibaldone di Rocco che avevo tra le mani e mi chiese se poteva dargli uno sguardo. Io acconsentii a patto che lo leggesse ad alta voce e da dove lo avevo lasciato. Lei mi guardò sorridendo e iniziò a leggere.

***

Avevamo lasciato la lettura quando Vittoria prese l’appuntamento per il primo giorno di lavoro. A questo, Rocco aggiunse una presentazione sommaria delle colleghe della madre.

Quando lei salì sull'automezzo che l’avrebbe portata nella città dove quella settimana avrebbe venduto saponi porta a porta, diede una rapida occhiata e durante il viaggio, ebbe l’impressione, che quasi tutti in quel pulmino avevano avuto storie difficili nella loro vita. Marcella le confidò qualche pezzo di storia sugli elementi della squadra: Ascanio era un uomo che parlava poco e qualche guaio con la legge, lo aveva avuto. Ogni settimana al rientro a Roma deve presentarsi in questura e se tarda all’appuntamento, i poliziotti vengono al magazzino a cercarlo. Ora, però riga dritto, è innamorato di Cristina e loro due progettano di mettere su famiglia. A sua volta Cristina è fuggita da casa da quando aveva sedici anni e non ne ha fatto più ritorno. Lei non vuole assolutamente che si parli di quel burrascoso periodo. Gloria e Maria sono sorelle giunte da un paese fuori Roma per andare a servizio. Poi qualche padrone di casa troppo esigente che pretendeva il servizio completo, compreso il sesso, le convinse a cercare fortuna altrove e capitarono da noi. I genitori di Mirella l’hanno cacciata dalla loro casa, perché preferisce le donne agli uomini. Infatti, ha una storia con Gioia e si amano teneramente. Gioia a sua volta se né andò di sua volontà dalla famiglia e non ha niente di particolare da nascondere e non lo fa mai, ama la musica e Mirella. Marcella le confidò che anche lei aveva avuto un matrimonio fallito alle spalle. Una brutta storia di abusi e violenze alle quali aveva detto fine già da qualche anno. Da allora, non era più uscita con uomo e preferì l'amicizia tra donne ritenendola meno complicata. Questa parte Isabella la lesse più volte, per memorizzare gli intrecci di nomi e le storie legate a loro.

Superata questa parte degli appunti, intricatissima e zeppa di nomi, la parte della storia che in seguito mi lesse Isabella ci riportò a quando il giovane Rocco scorrazzava nella fattoria dei nonni paterni.

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Le stelle custodiscono i desideri che non si avverano.

Un furioso temporale di fine Agosto imperversava e la pioggia veniva giù così forte che le foglie dei pioppi strappate dal vento, avevano tappezzato di verde tutto lo spiazzo rinsecchito dall’afa estiva. Alcuni rigagnoli iniziarono velocemente a riempire gli avvallamenti che c’erano intorno alla casa. Quando sembrò che tutto si dovesse allagare, la pioggia smise di cadere e il caldo sole estivo fece evaporare l’acqua in poco tempo. Rocco e i suoi nuovi amici, Sara e Paolo, che già nei giorni precedenti al temporale si erano attrezzati con canne di bambù, approfittarono della schiarita per andare a pescare nel canale vicino alla casa. I tre raggiunsero il corso d'acqua, uno dei tanti canali che tagliavano in lungo e in largo la campagna circostante strappata alla palude dalla bonifica e che oltre a raccogliere l'acqua in eccesso in caso di pioggia, erano utilizzati per l'irrigazione. Raggiunto l'argine, si misero in posizione a circa quattro metri l'uno dall'altro sul terreno scosceso e scivoloso. I ragazzi innescati i lombrichi gettarono le lenze in acqua. Sara fu la prima ad agganciare una delle grosse carpe che popolavano il canale. La preda si dibatteva tenacemente e scuotendola piegò ad arco la canna di bambù, la ragazza mentre tentò di salpare il grosso pesce, perse l’equilibrio e cadde in acqua. Paolo e Rocco prontamente si gettarono per recuperarla, ma lei per niente preoccupata, invece di tentare di risalire iniziò a nuotare nell’acqua fresca del canale. I tre rimasero mollo per tutto il pomeriggio, tra rane e bisce. Poi tolti i vestiti bagnati, si sdraiarono sull’erba, uno a fianco all’altro, passato qualche minuto, Paolo chiese a Rocco: ―quando finisce l’estate vai a casa con i tuoi genitori? ―No, credo che resterò con i nonni. Sara incalzò Rocco: ― quindi si andrà a scuola insieme? Rocco non aveva molta voglia di rispondere e com’era solito fare quando era a disagio, si chiuse in se stesso. Poi, come se qualcuno avesse ascoltato i suoi pensieri, gli venne in aiuto e lo tolse d'impaccio. Improvvisamente si udì un rumore di canne spezzate provenire dall’altra sponda. Dalle folte cannucce sbucò la madre di Paolo, con un falcetto e tra le braccia una fascina di canne. Quando la donna vide il figlio con gli altri due completamente nudi, iniziò a urlare: ―Paolo! Che cosa fai tutto nudo? E voi disgraziati! Paolo accennò una spiegazione: ―siamo caduti in acqua, anzi ci siamo buttati per salvare Sara. La ragazza prontamente smentì Paolo: ―non è vero io sono capace a nuotare, la verità è che abbiamo fatto il bagno! Cosa c’è di male? E ora stiamo aspettando che si asciugano i vestiti. Riconoscendo la ragazza, la donna più infuriata che mai s'infilò di nuovo tra il canneto promettendo sfaceli. Tra la famiglia di Paolo e quella di Sara, non correva buon sangue, per alcune storie che coinvolgevano i figli più grandi.

I ragazzi dalla loro posizione videro i pennacchi delle canne ondeggiare e indicargli la direzione che la donna avevo preso. Quando la videro attraversare il ponticello di legno e dirigersi verso loro ancora nudi, questa brandiva una canna raccolta sul bordo del canale e fuori di se; chiamava il figlio. I ragazzi, raccolti i vestiti, iniziarono a correre lungo l’argine con la donna che li inseguì urlando: ―fermati Paolo! Tanto questa sera dovrai tornare a casa! I tre fuggirono e quando giunsero alla chiusa vicino al fiume, controllarono che la donna avesse desistito. Misero ad asciugare i vestiti sul cemento dell’idrovora e si sdraiarono al sole. Dopo qualche minuto di silenzio Paolo riprese il discorso che Sara aveva interrotto prima della fuga: ―se rimarrai, dove andrai a scuola? Rocco rimase in silenzio per qualche secondo poi: ―non lo so, a casa mia non ne parlano mai della scuola. ─Forse è meglio andare a lavorare! Mio padre una volta mi ha detto che per quelli come noi la scuola è una perdita di tempo. Sara che era rimasta in silenzio ad ascoltare s’intromise nel discorso: ―io voglio diventare parrucchiera e la scuola non la sopporto, sono d’accordo con tuo padre. ―Il mio invece dice, che oggi se non hai un pezzo di carta, non trovi lavoro neanche come facchino. Sara e Rocco, guardarono Paolo e gli dissero in coro: ―andiamo è tardi tua madre ti starà ancora cercando. I tre si rivestirono e si avviarono verso casa. Era quasi sera e la madre di Paolo si trovava ancora nel boschetto a tagliare canne. Rocco e Sara salutarono Paolo e lo lasciarono nelle mani della donna che udirono urlare come una pazza, mentre videro Paolo fuggire davanti a lei. Quella sera durante la cena, Rocco chiese ai nonni se lui sarebbe andato alla scuola. Pietro lo ascoltava e ogni tanto guardava Ada, poi rivolgendosi a lui disse:―sono i tuoi genitori che devono prendere questa decisione ed è un pezzo che non si fanno vedere. Il ragazzo dopo qualche secondo di silenzio fissando i nonni, domandò: ―ma se non tornano più! Potreste prenderla voi una decisione al posto loro? ―Ancora c’è tempo per l’inizio della scuola, vediamo se si fanno vivi tua madre o tuo padre, ribatté Pietro e troncò la discussione. Il nonno si alzò da tavola, si diresse verso la scatola di metallo che usava per contenere il tabacco trinciato, caricò la pipa e si mise fuori sotto la pensilina a fumare. Il vecchio rimase assorto con la pipa in bocca e ogni tanto si girava a guardare attraverso la porta della cucina, borbottava: “Se quei due non torneranno, quale decisione dovrò prendere?” “ Certo lui ha il diritto alla frequentazione della scuola, però sono il padre e la madre che se ne deve occupare”. Rocco terminò di mangiare e raggiunse Pietro. La serata era calda e il cielo senza una nuvola metteva in mostra luminose le stelle. Si mise accanto al nonno, lui gli diede una rapida occhiata e riprese la pipa. Mentre fumava, si sentivano dei piccoli schiocchi provenire dalla sua bocca ogni volta che aspirava. Rocco lo vide armeggiare con un ferretto all’interno della caldaia, poi, colpire delicatamente con la pipa sul muro. Prendere altro tabacco nella scatola, e pressarlo all’interno del piccolo braciere e iniziò ad aspirare fino a che sembrò avesse un tizzone dentro la pipa. Il vecchio tornò a mettersi seduto, fissò Rocco e gli disse: ―non vai a dormire? ─No, resto ancora per un poco, si sta bene qui fuori. Il ragazzo dentro di se fremeva, avrebbe voluto continuare il discorso interrotto bruscamente dal nonno durante la cena, ma avendo avuto modo di conoscerlo in altre occasioni, frenò la voglia di parlarne e preferì non dire niente. Rimase vicino a lui senza parlare, con gli occhi che scrutavano il cielo, cercando una stella cadente e se fosse stato fortunato, avrebbe espresso un desiderio. Pensò ai suoi genitori e alla scuola, tra i due desideri possibili, la scelta cadde sui genitori, pensando che se si avverasse quel desiderio, la scuola poteva essere cosa fatta, oppure no, ma era meglio di niente, nella situazione attuale non aveva nessuna delle due possibilità. Le stelle caddero, anche se la notte di San Lorenzo era passata da qualche giorno, in quella notte d’agosto, le vide sfrecciare velocissime, quindi pensò che qualche desiderio in più ci potesse entrare nella lista. Romeo gli si accucciò accanto e i due si addormentarono. Il mattino seguente, si svegliò dentro il letto senza ricordare come ci fosse arrivato.

***

Ero lì seduto, in attesa che Isabella continuasse la lettura, quando mi resi conto che la sua pausa diventava troppo lunga, mi girai verso lei e notai che si era addormentata con il quaderno appoggiato sul petto e la testa leggermente reclinata sulla spalla. Le tolsi delicatamente il quaderno dalle mani, mentre pensavo alla parte di storia che mi aveva letto. In fin dei conti tutto normale e sembrava che le cose si mettessero bene per Rocco, le amicizie, i giochi, l’unico problema al momento era la lontananza dei suoi genitori.

Svegliai Isabella e salimmo nella stanza, fortunatamente privata, senza letti a castello, ci addormentammo quasi immediatamente con già nella testa la tappa del giorno dopo.


 

Tredicesima tappa: Boadilla del Cammino

Il mattino seguente, uscimmo da Hontanas mentre il sole, come sempre da quando eravamo partiti, sorgeva alle nostre spalle. L’aria era frizzante, circa otto gradi, al contrario della temperatura avuta il giorno prima e che aveva raggiunto quasi i trenta, il cielo si presentò fino all'orizzonte, limpido e sgombro da ogni nuvola.

Le case del paese avevano le ombre allungate dalle prime luci dell'alba e come silenziose entità pietrificate, sembravano scorrere ai nostri fianchi mentre ci accingemmo a lasciare il piccolo villaggio. Quel magico silenzio si ruppe al ticchettio ritmato dei bastoni metallici degli altri pellegrini, numerosi come una truppa che si spostava da un fronte all'altro. Alcuni di questi avevano un passo lento come il nostro altri sembravano indemoniati, avanzavano velocemente, quasi fossero atleti alla ricerca della migliore prestazione giornaliera. Per quanto ci riguardava il nostro obiettivo, era giungere non troppo tardi al prossimo paese. Nonostante tutti i buoni propositi snocciolati con Isabella la sera prima, (pochi chilometri, camminare lentamente), quella fu una delle tappe più dure percorse fino allora. La solita pianura e i lunghi saliscendi ci portarono a San Anton, antico monastero in rovina costruito nello stile gotico, ammirammo quello che restava del magnifico edificio, il notevole portale, e proseguimmo. Circa tre chilometri dopo, giungemmo a Castrojeriz, dove non ci fermammo pensando alla ripida salita che ci attendeva subito dopo lasciata la città. Mentre uscimmo, notammo un castello in rovina situato sopra un’altura, studiando la mappa capimmo che lo strappo era violento e nel grafico della mappa era rappresentato come un cono rovesciato, avremmo voluto visitarlo ma la ripida salita ci rigettò indietro e ci accontentammo solo di un rapido sguardo dato da lontano e riprendemmo il cammino. Costeggiammo un campo di girasoli, e dopo un bel tratto in pianura iniziammo a salire, una pendenza del dodici per cento, giunti sulla cima sotto di noi si estendevano le solitarie Meseta. Mentre provati dalla salita, guardavamo la pianura sottostante, udimmo alcuni pellegrini che per ripartire avrebbero atteso la sera, percorrendo quel tratto in notturna per ammirare la Via Lattea che in quel luogo non illuminato dalle luci artificiali, si rivelava in tutta la sua bellezza.

Sostammo sotto una pensilina di legno per circa mezzora. Isabella mentre faceva dei movimenti di rilassamento, mi disse: ─giusto perché avevamo deciso di non stancarci! Rocco ci prendeva in giro: ─vi fate promesse che non potete mantenere! Dovevate venire in vespa, poi scoppiò a ridere. ─Qui si cammina, si marcia, si sale, si scende, è una gran fatica andare verso Santiago. Guardai i due e dissi:─Da dodici giorni non si fa altro che marciare e nonostante la stanchezza non mi sono pentito, l’avevo pensato così. Certo pensare una difficoltà e provarla fisicamente è tutta un’altra faccenda, mentre stavo per prendere il quaderno per continuare a leggerlo, Isabella si alzò e anticipando la mia intenzione mi disse: ─questo all’altra sosta. Poi spronandomi mi disse: “Maurizio alzati e cammina”! Prima di affrontare la discesa con una pendenza del diciotto per cento, per sicurezza, attendemmo, che i ciclisti che nel frattempo si erano ammassati sull’altura, ci superassero, anche se poi valutando la pericolosità del pendio, scesero con le mani al manubrio e piedi a terra. Saremmo scesi di circa duecentocinquanta metri, in un brevissimo tempo e da lì in poi, avremmo dovuto camminare sugli ottocento metri d’altitudine, fino alla fonte che si trova al confine con la provincia di Palencia.

Terminata la ripida discesa, in seguito fu alienante attraversare la piana per giungere alla fonte, senza il conforto dell'ombra di qualche albero o di un piccolo cespuglio. La sensazione dell’immensità come quel luogo, me l’aveva data solo il mare, quella pianura sembrava non avere mai fine.

Sembrava non ci fosse vita intorno a noi, a parte qualche pellegrino che ci superava in bicicletta, ma anche a piedi. Fortunatamente eravamo ben forniti d’acqua e ogni tanto ci bagnavamo il cappello, il caldo quel giorno si fece sentire e anche se ci trovavamo a ottocento metri di altitudine, la temperatura raggiunse circa trenta gradi, subendo un’escursione termica di ventidue gradi da quando eravamo partiti da Hontanas.

Giunti alla fonte i posti all’ombra erano tutti occupati dai ciclisti e pensai: “Sono la nostra dannazione”. Togliemmo le scarpe e tenemmo i piedi a mollo nell’acqua per quasi un’ora, io finalmente riuscii a prendere il quaderno degli appunti e mi persi nella lettura.

***

Avevamo lasciato Rocco che si era addormentato sotto la pensilina mentre pensava ai suoi genitori, sognando le stelle cadenti ed esprimeva desideri.

Rocco e suoi amici, il mattino seguente, camminavano sullo stradello che portava al canale. ─Dove si va? Chiese Rocco. ─Al canale! Dove pensi che porti questo stradello? Gli rispose Sara. Poi Rocco notò che Paolo, aveva qualche segno rosso sul viso e su un braccio. ―Ti ha picchiato tua madre? Paolo alzò leggermente le spalle, gli mostrò fiero le ferite e rispose: ―ci ha provato, ed io per sfuggirle, sono andato a sbattere su una sedia e quello che vedi è il risultato. Mentre raccontava com’era andata, continuò a mostrare i segni sul braccio e sul viso, quasi fossero medaglie acquisite in una coraggiosa azione di guerra, aggiungendo: ―quando sono caduto, ho fatto un po’ di scena, lei si è messa paura e mi ha perdonato.

Sei sicuro che tua madre se ci veda ancora insieme, non se la prenda nuovamente con te? ―No si è tranquillizzata. Poi oggi va al mercato con mio padre. I tre giunti in prossimità del canale, si diressero verso l’idrovora, si spogliarono lasciandosi solo gli slip, si sdraiarono al sole sul cemento caldo. Nel silenzio della campagna che li circondava, si udiva il leggero ma continuo frinire degli insetti e le rane, che al loro arrivo, avevano smesso di gracidare, ripresero timidamente il loro concerto. Un falco sospeso sopra di loro, con un impercettibile e rapido battito d’ali restava immobile quasi fosse trattenuto da un filo come un aquilone. Rimasero in silenzio rapiti da quella magia, Rocco, pensò che solo la natura potesse creare un momento come quello. Fu Sara a rompere l’incantesimo rivolgendosi a Paolo: ―tu cosa ne pensi? Il motivo dell’arrabbiatura che si è presa tua madre, era perché ci ha visto nudi? O per la storia che riguarda mio fratello e tua sorella? Lui ci pensò un attimo poi: ―credo sia per colpa di quei due cretini, forse pensa che anche noi due un giorno, potremmo fidanzarci. L’esperienza fatta con i nostri fratelli non è stata buona. ─ E tu gli l’hai detto, che io non ci penso nemmeno per sogno a mettermi con te? ─Perché ti farebbe cosi schifo? ─Come è permaloso il ragazzo! Disse Sara ridendo. Poi Paolo in difesa della madre continuò: ─non gli si può dare torto, tuo fratello corre dietro alle donne a destra e a sinistra, poi quando non c’è più niente da prendere torna da mia sorella. Sara con tono ironico ribatté ―Però lei non mi sembra che lo cacci via quando torna, si vede che gli va bene così e buonanotte. Paolo rintuzzò a Sara:―Vorrei vedere se fosse mia sorella a correre dietro agli uomini, se lui la riprenderebbe con tutta quella facilità. Rocco mezzo appisolato, ascoltava i discorsi di Paolo e Sara, però nei suoi pensieri c’erano i suoi genitori: Quei due sono spariti e non torneranno più, sono sicuro!” È inutile che la nonna tutte le sere prima che mi addormento mi faccia la tiritera. Stai tranquillo, quando meno te lo aspetti, torneranno a prenderti. Poi, quando sto per piangere; tira in ballo l’angelo custode, quello che si trova accanto a ognuno di noi per proteggerci. E già! Così ho Arturo che mi rompe le scatole, l’angelo custode che mi protegge, Ada che mi rassicura, ma quello che vorrei, non c’è a riempire la stanza. Mentre pensava alla nonna, Arturo e all’angelo, una leggera smorfia gli disegnò il viso e questo non sfuggì a Paolo e Sara: ―guarda! Sta sognando! Paolo si avvicinò a Rocco e con un filo d’erba iniziò a stuzzicarlo, passandoglielo sui lati della bocca. Lui con la mano iniziò a scacciare quella che credeva fosse una mosca, fino a quando si colpì forte sul viso, svegliandosi bruscamente trovando Sara e Paolo che ridevano su di lui. Dopo aver riso e giocato un poco sul sogno di Rocco, i tre si appisolarono al caldo sole d’agosto. Rimasero immobili per un paio d’ore, fino a quando udirono un sordo brontolio provenire da lontano. Il cielo si era oscurato e quando aprirono gli occhi svegliati dal potente tuono, grosse gocce caddero rumorosamente nel canale e la campagna intorno a loro era oscurata dal violento scroscio d’acqua. Il cemento dell’idrovora iniziò a fumare venendo a contatto con la pioggia. I tre cercarono riparo sotto la costruzione e da lì guardarono ipnotizzati lo spettacolo che gli si parava davanti: spaventoso e allo stesso tempo meraviglioso e non videro l’uomo che arrancava a pochi metri da loro. Era Tommaso, il vecchio guardiano delle idrovore, spingeva la sua bicicletta nell’acqua alta e allo stremo delle forze imprecava: ─maledetto tempo! Maledette idrovore! Questo lavoro non fa più per me, questa è l’ultima volta, domani andrò a dare le dimissioni. A Tommaso nonostante che con tutte le sue forze cercasse d’avanzare, l’impianto sembrava che gli si allontanasse. Mentre tentava tenacemente di andare avanti, il respiro gli si fece sempre più affannoso e nel punto, dove un fosso confluiva nel canale, sprofondò nell'acqua limacciosa senza lasciare traccia. Le nuvole si gonfiarono, avanzarono, oscurando il paesaggio intorno ai ragazzi. In lontananza il sole aveva squarciato le nuvole e illuminava una parte di cielo cosi azzurro, che sembrava impossibile che solo lì piovesse con tale intensità. Dalla parte del mare si vedevano dei pennacchi avanzare turbinando sulla campagna, sollevare foglie, erba, rami e ogni cosa incontrassero sul loro cammino per poi dissolversi ritirandosi verso il cielo. In poco tempo il livello dell’acqua del canale crebbe e raggiunse il riparo dei giovani, i tre decisero di uscire allo scoperto e avviarsi verso la casa più vicina, quella di Paolo. Mentre correvano sull’argine, il canale tracimò sul sentierino e in breve la campagna diventò un grande lago e l'acqua ben presto gli giunse all’altezza della vita. Sara, che era leggermente più bassa dei due ragazzi, faticava ad avanzare, Paolo e Rocco le presero ognuno una mano e lei sorridente si fece trainare galleggiando sul pelo dell’acqua. Quando il temporale smise d’imperversare, il paesaggio che li circondava, era completamente cambiato. Nel boschetto di canne sembrava ci fossero passati con un trattore e i rami caduti dai pioppi che costeggiavano il canale, spuntavano dall’acqua e in alcuni casi galleggiavano andando con la corrente verso l’idrovora, che aveva iniziato a pompare l’acqua del canale. Si sentivano in lontananza i motori girare, regolari, continui, rassicuranti, come grossi gatti che facevano le fusa. Sara e gli altri due erano oramai giunti in prossimità del ponticello che portava alla casa di Paolo, quando alla fine dello stradino videro un gruppo di persone che guardavano stupiti verso loro. Rocco riconobbe il nonno che agitava le mani come per dirgli di fare in fretta. Nel gruppo Paolo vide sua madre e il padre di Sara con altre persone che discutevano animatamente. Quando giunsero al ponte, i primi ad andargli incontro, furono la sorella di Paolo e il fratello di Sara, seguiti da Pietro. I ragazzi non riuscivano a comprendere il perché di tanta agitazione. Poi in seguito lo capirono; le idrovore non erano partite in tempo, qualcosa nel sistema di controllo non aveva funzionato, si discuteva del fatto che il guardiano addetto all’impianto non le aveva messe in moto. Pietro afferrò Rocco, che s’irrigidì pensando a una punizione, ma il nonno lo abbracciò e lo tenne così stretto che quasi lo soffocò:―siamo stati in pensiero, pensavamo che l’acqua vi avesse portato nel fiume. ―Quando è arrivato il temporale noi eravamo al riparo e quando è cresciuto il livello dell’acqua, siamo corsi subito via. Rocco notò che Paolo e Sara, si avviavano con i rispettivi fratelli tenendoli per mano, verso casa di Teresa ( la madre di Paolo) e pensò che il temporale almeno fosse servito, a spianare le divergenze fra i due amanti. Il sole e le idrovore fecero bene e presto il loro lavoro e la campagna riprese le sue sembianze originali, a parte qualche piccola pozza, restò poco nei giorni che seguirono di quell’evento eccezionale.

I rumorosi ciclisti, ripresero il viaggio distogliendomi dalla lettura, alzai gli occhi e vidi Isabella e Rocco che caricavano lo zaino sulle spalle, presi il tutto e mi preparai alla partenza e qualche minuto dopo, eravamo in viaggio. Ci aspettavano poco meno di dodici chilometri di marcia per giungere a Boadilla del Cammino. Attraversammo un fiume, la vista dell’acqua un poco ci fa sperare che il paesaggio cambiasse e diventasse più rigoglioso. Le speranze cessarono quasi subito, le Mesetas continuarono implacabili, affrontammo un lungo tratto di leggeri saliscendi, che si perdevano all’orizzonte, Rocco che aveva un passo più spedito ben presto ci distanziò. Nonostante la stanchezza, tutto sembrava che andasse tutto bene: Isabella ed io avanzavamo con il nostro passo regolare e riuscendo a comunicare con facilità, nulla faceva presagire quello che sarebbe accaduto da lì a poco. Senza nessun segnale premonitore, sentii le gambe cedere, rallentai e chiesi una caramella a Isabella, nelle precedenti tappe bastava quella piccola dose di zuccheri a ridarmi energia sufficiente a continuare. Dopo qualche minuto la situazione non cambiò, avevo le gambe molli e avrei voluto fermarmi, ma intorno a me c’era solo campagna, nessun punto d’ombra. Percorsa a fatica una piccola salita, in cima all'altura vidi non molto lontano da noi, un boschetto ai lati della sterrata, guardando oltre quegli alberi, mi resi conto che per chilometri non c'erano case. In fretta pensai che qualsiasi centro abitato fosse per me irraggiungibile nella condizione in cui mi trovavo. Raggiunto il boschetto, decisi senza avvisare la mia compagna di salire il ciglio della strada e mi diressi al riparo sotto gli alberi. Isabella mi seguì chiedendomi cosa avessi, io non riuscii a spiegargli e mi sdraiai a terra. Non so se svenni o mi addormentai, ma al mio risveglio Isabella era lì sopra di me e con un asciugamano umido, mi bagnava il viso. Mi resi subito conto, che qualcosa non andava, lei aveva il viso coperto dal sangue. Mi alzai per vedere se era ferita e cercai di capire da dove provenisse quel sangue, gli tolsi dalle mani l’asciugamano che stava usando su me e iniziai a pulirle il viso. Capii che sanguinava dal naso e con le mani senza rendersene conto se l’era sparso dappertutto. La sdraiai a terra e facendo pressione sulle narici le fermai l’emorragia. Passato il primo momento di panico, usammo l’acqua di riserva per lavare via tutto il sangue. Eravamo entrambi sfiniti e mancavano circa quattro chilometri a Boadilla del Cammino, una distanza che ci sembrò insormontabile in quelle condizioni: senza acqua e forza per continuare. Valutammo ogni scelta possibile, compresa quella di passare la notte nel bosco. Dopo quasi una vita vissuta insieme, nessuna menzogna tra noi due la fa liscia e, non ci nascondemmo le paure che ci assalirono in quel momento. Stavamo lì intimiditi dagli eventi, quando passarono due giovani pellegrini italiani, vedendoci a terra ci vennero accanto e si presero cura di noi per circa una mezzora, comunque fino a quando non furono sicuri che ci fossimo ripresi. Prima di andare via ci donarono un po’ della loro acqua e ci spronarono a continuare, gridando il motto che spesso si udiva lungo il cammino e nei tratti più duri: “Ultreya et suseya”(avanti e più in alto). Mentre si allontanarono, ci dissero:─ se non vi vediamo entro un’ora alle porte del paese, mandiamo qualcuno a prendervi. Passo dopo passo, a tratti anche ironizzando sulla loro cortezza (passi da formica come nei giochi della nostra lontana infanzia) finalmente giungemmo nei pressi del paese. Rocco ci venne incontro, avvisato dai pellegrini e per l’ultimo tratto, ci portò gli zaini. Lui si era sistemato nell’ultimo posto rimasto a disposizione nell’Albergue. Il proprietario di quest’ultimo ci sistemò in un albergo ancora da inaugurare, per noi fu una gradita sorpresa: aria condizionata, enorme stanza doccia e letto matrimoniale grandioso. Siamo scesi per cena e dopo aver mangiato, sembrava che non avessimo camminato per trenta chilometri, ma solo pochi metri. Quella sera fummo l’argomento principale tra i pellegrini mentre preparavano la tappa successiva e forse entrammo in una delle tante storie che si raccontano lungo il cammino.


 

Quando dopo cena salimmo nella camera, Isabella crollò dalla stanchezza, io non riuscii a prendere sonno. Mi giravo e rigiravo nel letto, ogni volta che provavo a chiudere gli occhi, la vedevo con lo zaino sulle spalle e il viso insanguinato camminare al mio fianco. Dopo inutili tentativi di addormentarmi: “Contare le pecore, le tappe, i chilometri, i pellegrini e tutto quel che si potevano contare”. A quel punto decisi che leggere era la soluzione migliore, presi gli appunti di Rocco e m’immersi nuovamente nella sua vita.

  ***

Per Rocco dopo l'alluvione e il pericolo scampato, la vita nella fattoria trascorse tra alti e bassi con il desiderio che i suoi genitori, Aldo e Vittoria, magicamente si materializzasse davanti a lui, così da risolvere almeno la questione della scuola.

Rocco già da un po’ di tempo quando era solo, parlava con il suo amico Arturo, questo gli faceva compagnia durante i lavoretti che svolgeva alla fattoria, nessuno lo poteva vedere, tra i due c’era un patto e andava rispettato, se non voleva che l’amico andasse via per sempre. Rocco fu spesso sorpreso dai nonni a parlare con Arturo, lui inventava scuse del tipo: ―no, non parlavo ma cantavo. La scusa che gli veniva meglio, era: ― quando le cose che devo fare non mi riescono, mi lamento ad alta voce.

Quella sera dopo la cena, il ragazzo in silenzio si avviò verso la sua stanza da letto, una volta all’interno, chiuse bene la porta, cosa che da quando era ospite dei nonni non aveva mai fatto. La nonna, Ada, osservò Rocco mentre la chiudeva, preoccupata da quello strano atteggiamento, senza farsi sentire si avvicinò e rimase in ascolto. Sentì il ragazzo che parlava a bassa voce: ―Arturo tu mi avevi assicurato che i miei sarebbero tornati a prendermi! Invece i giorni passano e loro non si vedono. La nonna incuriosita dal dialogo che udiva provenire dalla stanza, decise di aprire la porta e trovò Rocco seduto sul letto con la luce spenta ma ancora vestito: ―che cosa fai, non dormi? ―No prego! ―Parlavi con qualcuno? A quel punto, Ada non convinta dalla spiegazione del giovane, iniziò a ispezionare la stanza. ─Eppure mi era sembrato che parlassi con qualcuno. ─Lo hai nascosto a mia insaputa? Il ragazzo mentre lei ispezionava la camera la seguiva con lo sguardo, poi iniziò a spogliarsi e rivolgendosi alla donna: ―che cerchi? Non c’è nessuno qui. Ada si mise seduta sul letto e accarezzò il capo del ragazzo:―forse sei in ansia per i tuoi genitori? Non ti preoccupare, vedrai che torneranno. Ada poi, con voce adirata:─per quelli come loro, arriva il momento in cui hanno bisogno e si ripresentano sempre. ─Adesso cerca di riposare, se ti serve qualcosa, sono in cucina, chiamami! Dalla cucina si sentiva Pietro che canticchiava e brontolava. Ada udì gli sportelli della credenza aprirsi e sbattere, poi la voce stizzita di Pietro: ─dove avrà messo la pipa e il tabacco? Lei si alzò e mentre lasciò la stanza, diede un’ultima occhiata al ragazzo e scuotendo la testa brontolò qualcosa riferendosi al marito.

Giunta nella cucina, trovò Pietro che apriva e chiudeva cassetti e sportelli: ─Che ti urli? Ada aprì un cassetto e tirò fuori la scatola del trinciato con la pipa, Pietro la prese e uscì a fumare borbottando: ─se gli cambi posto continuamente come faccio a trovare le cose!

 Quella notte il sonno di Rocco fu disturbato da Arturo che non lo fece riposare, gli sembrò che per tutto il tempo, l’amico rimase seduto ai piedi del letto con la voglia di conversare, mentre lui avrebbe voluto dormire. Quando Arturo era in silenzio, l’angelo custode interveniva e lo ammoniva: ―lui deve andare via, ci sono io a proteggerti! ―Sì! Tu mi tuteli e basta, io vorrei che mi risolvessi alcune cose, per esempio quella della scuola. ―Arturo a quel punto s’infilò nel dialogo:― lascialo stare, lui è il frutto dell’immaginazione di tua nonna, la povera Ada … è una vita che prega e parla con il suo angelo custode, è diventata vecchia e cosa gli ha risolto? Lavora e si spezza la schiena con polli, galline, adesso anche il maiale. Rocco, preso in mezzo al fuoco incrociato dei due, riusciva a malapena a dire parole spezzettate: ―ma, io, forse, chissà, do … domani. ─Smettila Rocco! Gli ordinò Arturo, sei solo buono a pisciare nel letto. ―Non piscio nel letto, ho undici anni ormai so …sono, gra … grande, non sono un piscia a letto … ripeteva mozzicando le parole. Rocco, balbettava, non riusciva a dire una parola “senza” che lui s’impuntasse, quasi le parole gli restassero bloccate dentro la gola e non volessero uscire. Rimase in silenzio mentre i due litigavano ai piedi del letto senza interessarsi della sua presenza. Quando lui provò a chiamarli per farli smettere, dalla sua bocca non uscì una parola, ma un lungo suono strozzato … poi un urlo rimbombò sulle pareti della stanza. Si ritrovò seduto sul letto, con la nonna che lo tranquillizzava dicendogli: ―calmati, è stato solo un brutto sogno, calmati. Rocco aggrappato alla donna, singhiozzante le ripeteva: ―erano qui in due! Ada cercò di rassicurarlo, guardò nella stanza e gli disse: ─ vedi! Ci siamo solo tu ed io, è stato solo un brutto sogno, non c’è nessuno. Il ragazzo si calmò realizzando, che la stanza era vuota e mentre si metteva giù, si rese conto che le lenzuola erano bagnate, portò la mano agli slip e con grande sorpresa anche lui era bagnato. Il suo corpo sembrava andasse a fuoco per quanto era caldo, la differenza di temperatura tra le lenzuola bagnate e la sua pelle era notevole, gli venne in mente Arturo e disse:―sono un piscia a letto … poi la stanza iniziò a girargli intorno e l’ultima cosa che vide fu la nonna che lo teneva tra le braccia che lo rassicurava. Quando si svegliò, Ada e Pietro erano accanto al letto, la nonna con un fazzoletto bagnato lo rinfrescava passandoglielo, prima sulla fronte, poi sulle braccia, mentre gli sussurrava: ―stai calmo, ora arriva il medico hai la febbre alta. L’acqua che hai preso durante il temporale, non ti ha fatto certo bene. Rocco la prima cosa che notò, fu, che le lenzuola erano asciutte, glie le avevano cambiate. Il medico giunse poco dopo e lo visitò, diagnosticando che aveva contratto una forte bronchite e un’infezione alla gola, quest’ultima era la causa della febbre alta. ─Signora Ada, il ragazzo dovrà fare delle iniezioni di penicillina. Mentre il dottore parlava con la donna, il ragazzo iniziò a sussurrare parole senza senso e a gesticolare con le mani davanti al proprio viso, il medico rivolgendosi alla signora Ada le disse: ―La febbre può causare queste reazioni, bisogna cercare di tenerla bassa, continui a fargli dei bagnoli e non lo copra troppo. Lei ha l’occorrente per fare delle punture? Ora la prima la inietterò io al ragazzo, ma ne dovrà fare almeno sei, una il giorno. Mentre il medico praticava l’iniezione, Rocco, continuò a parlottare e gesticolare ancora per qualche minuto poi si calmò e dormì fino alle dodici. La febbre calò in fretta, al terzo giorno di punture si sentì molto meglio, la gola non gli faceva più male e riprese a mangiare regolarmente.

***

Avevo terminato di leggere del malanno avuto dal ragazzo e ancora non riuscivo a prendere sonno e decisi d’andare avanti con la lettura, pensando che prima o dopo, il sonno sarebbe giunto. Sfogliando le altre pagine capii che nuovi eventi si preparavano a scombinare le carte nella vita della madre di Rocco, Vittoria. Vi ricordate l’ultima volta che ne abbiamo parlato? Ci trovavamo a Hontanas, ma qualcosa nella vita di Vittoria stava nuovamente cambiando, vediamo come.

Era passato un mese dal nuovo lavoro, Vittoria, una sera rientrando a casa, notò che la luce della cucina era accesa, aprì la porta e vide Aldo con la testa china sul tavolo che dormiva. Chiuse la porta dietro se accompagnandola delicatamente per non fare rumore, si avvicinò, si sedette e lo osservò attentamente, guardò verso il cassetto delle stoviglie, si alzò, lo aprì e tra le poche cose che erano rimaste, impugnò un lungo coltello. Tornò a sedersi davanti a lui e mille pensieri le passarono nella mente, sarebbe stato semplice alzare l’arma e trafiggerlo mentre lui era inerme proprio davanti a lei. Il collo di Aldo era robusto e lei non poteva sbagliare il colpo, la cicatrice che gli aveva fatto Lucia quel giorno all’osteria si notava bene, glielo attraversava quasi tutto. Vittoria pensò che un solo colpo sarebbe stato sufficiente a spazzare via tutto il suo dolore, non avrebbe potuto mancarlo. Ogni cosa accaduta in quel periodo, gli tornò alla mente; le violenze, la fame, Rocco dai nonni, la puzza del vino, i conati di vomito mentre facevano sesso, i vicini che la fissavano come un’appestata, come se lei avesse chissà quali colpe. Stette lì come un fantasma per lungo tempo a fissarlo mentre dormiva, poi si alzò ripose il coltello nel cassetto e nel chiuderlo lo sbatté così forte che Aldo ebbe un sussulto e si svegliò.

―Buongiorno e bentornato a casa, disse mentre prendeva il bricco per il the.

―Ciao, Vittoria come stai?

―Adesso che sei tornato? Male! Prima che non c’eri bene.

―Lo so, mi sono comportato male, è questo maledetto vizio del vino che mi fa essere quello che non sono.

―Oh si sei quello che sei! Non sei quello che ho conosciuto, sei cambiato, tu sei violento, perdi un lavoro dopo l’altro e mi fai paura.

―Adesso sono qui in ginocchio e ti chiedo scusa, ti prometto che non berrò più. Ho saputo che hai trovato un lavoro.

―Si, vendo saponi nelle case, parto la sera della domenica e ritorno il venerdì sera.

―E dove vai a venderli?

―Firenze, Bologna, Milano, quando capita che rimaniamo a Roma, vado via la mattina e ritorno a casa la sera tardi.

―Lo vuoi il the? Certo non è vino, ma è quello che ho.

―Smettila! È una settimana che non bevo.

―È un record per te, calcolando che oggi è sabato e sei senza lavoro! Non hai i soldi per comprarlo?

―Lavoro al mercato del pesce da due settimane e guadagno bene, ti ho detto che non bevo da un pezzo, mi devi credere Vittoria! Rocco dove lo hai portato?

―Dopo che ci hai picchiato? Guarda! Portò ancora i segni! Sono rimasta senza soldi e il bambino ha sofferto la fame, nessuno si è preoccupato di noi, se non fosse stato per tuo padre che ci ha portato qualcosa da mangiare, saremmo potuti morire, tanta è stata l’indifferenza dei nostri vicini, buoni solo a chiacchierare.

Aldo iniziò a piangere come un bambino, riconoscendo le proprie colpe, si scusò mettendosi in ginocchio, giurando che non sarebbe più accaduta una cosa del genere.

―Smettila con questa scena! Rocco l’ha portato Pietro a casa sua, ora è lì! Con il lavoro che mi tiene fuori di casa tutta la settimana, è meglio che stia con loro. Aldo la ascoltò in silenzio poi gli disse:―Il mio lavoro è sicuro e guadagno bene, tu lavori, è possibile iniziare una nuova vita. Lei rimase in silenzio evitando di incrociare gli occhi con lui, le paure non erano sopite, quante volte negli ultimi anni lo aveva sentito dire quelle stesse parole? Gli ultimi otto vissuti insieme, sono stati solo sofferenza, bugie, promesse che naufragavano in un mare di violenza e alcool. Vittoria beveva il the a sorsetti persa nei suoi pensieri, quasi dimenticandosi della presenza di Aldo. Poi si alzò e dirigendosi verso la stanza da letto senza voltarsi gli disse: ─Aldo, sistemati sul lettino di Rocco, domani sarà domenica, anzi, già lo è perché è passata la mezzanotte, ne parliamo con calma dopo una bella dormita e chiuse la porta dietro di se.

Da quando Aldo era tornato, i due raramente s’incontravano, lei andava via restando fuori tutta la settimana, lui qualche volta era impegnato anche la domenica per andare a caricare il pesce in qualche porto fuori regione. Passò circa un mese e una domenica mentre pranzavano, Aldo propose a Vittoria di cambiare casa e ritornare a Ostia.

―Un mio amico sarebbe disposto a darci dei soldi se gli lasciamo la casa.

―Sei impazzito? E noi dove andiamo? Poi la casa non è la nostra è del comune.

―Ho trovato una casa in affitto vicino al mare, lavoriamo in due ce la possiamo fare.

Lei rimase in silenzio, valutando i pro e i contro e pensò: “Si sarebbe liberata di quei vicini così odiosi e impiccioni, c’era, però il fatto che l’amore per Aldo non era tornato, quella convivenza era solo una questione di comodo, ormai le cose rotte erano rotte.”

―Ti torno a ripetere, la casa è del comune, non la possiamo vendere.

―Non la vendiamo, sarà come fossero nostri ospiti, poi con il tempo le cose si aggiusteranno, lo fanno in molti.

Vittoria pensò che tornare a Ostia, sarebbe stata una buona soluzione anche per vedere Rocco. Ormai erano passati quasi tre mesi dalla volta che lo vide andare via sul motociclo di Pietro e pensò a quante lacrime aveva versato mentre si allontanavano fino a quando divennero un puntino alla fine della strada bianca.

―E i cani di Rocco? Il gatto?

―Non ci pensare, quelli sono randagi, sono di tutti, vedrai, qualcuno se ne occuperà.

Durante quella settimana, si presentarono i nuovi inquilini, per i soldi fecero l’accordo: la metà subito, il saldo quando sarebbero entrati in casa. Con una parte dell’acconto, Aldo e Vittoria comprarono una vespa, poi diedero l’anticipo per un appartamento al mare e la settimana seguente vi si trasferirono, con il saldo acquistarono mobili nuovi, l’arredo della cucina lo fecero a rate, firmando un buon numero di cambiali.


 

Tra Vittoria e Aldo da quando si erano trasferiti nella nuova casa sembrava esserci un tacito accordo, regnava l’armonia, lui non beveva più, i due lavoravano guadagnando bene, qualche volta facevano sesso, il sabato sera uscivano per una pizza, frequentavano i vicini e i momenti difficili sembrarono solo ricordi lontani.

***

Dopo aver letto questa parte, finalmente giunse il sonno tanto desiderato, posai il quaderno e mi addormentai pensando alla prossima tappa.

Il mattino seguente mi svegliai prima dell’alba, avevo dormito solo tre ore, mi rammaricai del fatto che avessi riposato così poco, pensando ai chilometri che avrei dovuto percorrere e al crollo avuto il giorno prima. Presi il succo d’arancia che la sera prima a cena avevo messo da parte per la notte in caso mi fosse venuta sete, lo bevvi tutto di un fiato, poi cercai un pezzo di pane nello zaino, (ne avevo sempre un po' di scorta) lo mangiai. Presi il quaderno che avevo lasciato sul comodino, con l’intenzione di sistemarlo nello zaino, diedi uno sguardo fuori della finestra, ed era ancora buio pesto, quindi decisi di continuare a leggere ancora qualche pagina.

***

Aldo e Vittoria, avevano raggiunto un compromesso e la vicenda di Rocco sembrava a una svolta positiva, ignorando che i genitori stavano per tornare nella sua vita.

Rocco stava nell’orto con Pietro a estirpare le erbacce, quando udì qualcuno che parlava con Ada, s'incuriosì e si affacciò dal recinto di cannucce, che proteggeva il piccolo appezzamento di terreno. Vide davanti alla pergola, Aldo e Vittoria. Rocco corse fuori dall’orto e si diresse verso di loro, la madre quando lo vide gli andò incontro e lo tenne così stretto che quasi lo soffocò. Lui si sentì avvolgere da quel profumo che per tante notti aveva cercato, desiderato accanto a lui. ―Quanto mi sei mancato, ora rimarrò sempre con te, poi gli prese il viso tra le mani: ─fatti guardare, ti trovo veramente bene. Mi ha detto la nonna che sei stato molto male:─ ora sono … guarito, ho, ho fa … fatto sei pu … punture. Il padre restò seduto a osservare la scena, fino a quando il ragazzo lo fissò e si diresse verso lui. Lo strinse a se senza parlare, passò qualche minuto prima che i due si divisero. Lo afferrò per la mano e iniziò a passeggiare nello spiazzo davanti alla casa, senza dire una parola. Vittoria, aveva notato che il ragazzo aveva difficoltà a parlare correttamente, la leggera balbuzie non le era sfuggita, chiese ad Ada:―da quando balbetta? ―Dal giorno che ha avuto la febbre. Secondo il medico non è niente di grave e lo fa di rado. ―Come non è niente di grave! Non aveva mai balbettato prima d’ora! Disse Vittoria. Irritata Ada le rispose a tono: ―E che ne so io! Mica sono un medico! Ci potevi stare tu, adesso ti preoccupi? Sono tre mesi che ti cerca, non si è mai rassegnato, tutti i giorni mi ha chiesto di voi ed io non sapevo più cosa inventarmi in proposito. ―Rocco! Il ragazzo si sentì chiamare da dietro la siepe. Lui si girò e vide il viso di Sara e Paolo che sporgevano tra le tamarici. ― Sei guarito? Urlò Sara:―vieni con noi a fare un giro! Il ragazzo guardò il padre, Rocco allentò la presa sulla sua mano e si staccò dirigendosi verso i due amici. ―Sono tornati! Quelli sono i miei genitori gli sussurrò. Sara vide la felicità stampata sul viso di Rocco e non ci penso un attimo e gli disse:─resta con loro se potrai ci si vedrà domani al ponticello. Rocco non le disse una parola, tutto quello che le avrebbe voluto dire, gli rimase dentro, fece un cenno con la testa e ritornò dal padre. Vittoria e Ada continuavano a discutere delle balbuzie del ragazzo, mentre Aldo orgoglioso mostrava al figlio la vespa con cui Vittoria e lui erano giunti. ─Vuoi fare un giro? Rocco, guardò il padre poi fece un bel sorriso, mostrando la splendida dentatura, poi, gli chiese: ―è pee…ricoloso? ―No, sali, Aldo mise in moto la vespa e i due imboccarono il lungo rettilineo che portava al mare. Rocco non aveva mai visto il mare nonostante fosse lontano dalla casa dei nonni poco più di un chilometro. Affascinato da quella distesa d’acqua immensa, restò immobile quasi ipnotizzato a guardare l’acqua che a ritmi regolari lambiva il bagnasciuga. A un certo punto fu distolto dalla voce del padre: ―torniamo a casa si è fatto tardi. ―Devi a …anda …re via? ―Si, poi torno e si deciderà cosa devi fare quest’anno. ―Mi se..segnate a sc…scuola? ―Domani se ne parlerà, adesso andiamo. Aldo troncò il discorso e cavalcioni sulla vespa si diressero verso casa. Trovarono Ada e Pietro che discutevano animatamente, mentre Vittoria era seduta sotto la pensilina.

―Il ragazzo deve frequentare la scuola! Insisteva Pietro rivolgendosi ad Ada e lei rispondeva:

― la devono risolvere tra loro la questione, non è figlio nostro!

―Poi c’è questa cosa della balbuzie, lo prenderanno in giro. Rocco si era avvicinato ai due e ascoltò parte del discorso, il padre inserendosi nel battibecco mise fino alla discussione dicendo:― andrà a lavorare, ho già parlato con un mio amico che ha un’officina, imparerà un mestiere.

Il ragazzo si allontanò come se la cosa non gli interessasse, lo videro in lontananza che parlava e gesticolava come se accanto a lui ci fosse qualcuno.

―Che fa parla da solo? Chiese Aldo, i quattro si guardarono, poi Ada: ―è un po’ che lo fa, secondo il medico, i ragazzi spesso si creano una loro realtà, come se nei momenti di solitudine prolungassero il gioco con un compagno che in realtà non c'è.

―Quindi, ha un amico che vede solo lui? Chiese Vittoria.

―Così ha detto il medico, poi la verità è che io non ci capisco niente, ho anche parlato con Rocco e lui dice che è tutta una mia fissazione e che canta o si lamenta ad alta voce quando le cose non gli riescono bene.

Vittoria rivolgendosi al marito disse: ― domani lo porteremo da un dottore e lo faremo visitare.

―Da un dottore dei matti? Non serve, vedrai è solo una cosa passeggera. Lasciarono cadere la discussione e dopo aver cenato, Aldo e Vittoria, salutarono il figlio e andarono via impegnandosi a tornare il giorno dopo.

Il rumore di un’auto che passava sulla piazza, mi distolse dalla lettura e dalla finestra della stanza iniziava a intravedersi una timida luce. Il sole iniziava a nascere, guardai verso Isabella e ancora era tra le braccia di Morfeo. Alzandomi silenziosamente per non svegliarla, mi affacciai alla finestra, vidi il cielo colorato di rosa che assumeva più a est un tono più rossastro e qualche sottile nuvola tra il grigio e il bianco vi si sfrangiava, allungandosi come se volesse fuggire all'alba. Pensando al giorno prima e all’incidente che ci era accaduto, lasciai che Isabella riposasse ancora, e ripresi a sfogliare le pagine degli appunti.

 

Il ritrovamento di Tommaso

Quella sera Rocco prima di addormentarsi, attese che Arturo, o almeno l’angelo custode si facesse vedere, per comunicargli la buona notizia. Attese invano perché, quella notte nessuno andò a trovarlo nella stanza da letto. Lui pensò che ci sarebbe stata un’altra occasione per farlo e si addormentò. Il mattino seguente, si svegliò molto presto, si vestì in fretta e mentre calzava le scarpe, udì Ada che dalla cucina gli domandava: ―dove vai così presto?

―Esco con gli amici.

―Prima di uscire fai colazione! Poi gli chiese se andasse con Paolo e Sara.

─Loro due, sono qui fuori da un bel po’.

─Prendi un pezzo di torta! Il ragazzo ne prese una fetta, baciò Ada e uscì, mentre lei gli raccomandava di non rientrare tardi per il pranzo.

―Starò poco fuori di casa, tornerò presto. Ada aveva notato che lui non sempre balbettasse e si convinse che quel piccolo problema lo avrebbe superato in fretta. I tre ragazzi si avviarono lungo lo stradino. ―Il giorno dell’alluvione, l’abbiamo rischiata grossa! Disse Paolo rompendo il silenzio, mentre si dirigevano in prossimità del ponte.

―Sara, tu hai avuto paura?

―No, mi è sembrata una bella avventura, chi ha avuto la peggio è Rocco, con quel febbrone … tua nonna ci ha detto che ti hanno fatto sei punture, rivolgendosi al ragazzo mentre gli dava una pacca sul sedere. Lui cercando di evitare una seconda pacca della ragazza, fece qualche passo più velocemente allontanandosi dai due. ―Le punture, non mi hanno fatto molto male. Giunti al ponte si addentrarono lungo lo stradino che costeggiava l’argine, percorrendo la strada spostando l’erba alta con un bastone. Paolo che camminava più in basso rispetto a loro, mentre strappava qualche giunco sulla riva del canale, notò qualche metro più in là, una ruota di bicicletta che spuntava dalla vegetazione.

―Qualcuno ha perduto una ruota! Si avvicinarono per vedere meglio … Ehi! Alla ruota è attaccata tutta la bicicletta. Accanto ad essa, videro un uomo che sembrava dormisse. La posizione dello sconosciuto però era troppa strana, per uno che dormiva e Sara fu la prima a capire che a quell’uomo era accaduto qualcosa di grave e urlò: ─È Tommaso! Quello addetto alle pompe del canale!

È morto?

Domandò Paolo, mentre indietreggiava. Rocco rimase fermo sul bordo dell’argine senza dire una parola, poi iniziò a fuggire verso il ponte e i due amici senza pensarci molto lo seguirono. Giunti sulla strada principale, fermarono l’auto dei genitori di Paolo, che in quel momento giungeva ad alta velocità, sollevando una nuvola di polvere. Teresa aprì lo sportello e scendendo gli chiese: ―dove andate così di corsa? È pericoloso stare in mezzo alla strada!

― C’è un uomo morto lì, sotto all’argine! Gridò Paolo. Il padre del ragazzo corse nella direzione indicata e ritornando indietro si rivolse alla moglie dicendole: ―Tommaso questa volta non la può raccontare. In breve giunsero tutti quelli che vivevano lungo il canale. Per la prima volta Rocco vide i genitori di Sara; il padre era il poliziotto che li interrogò, la madre, non conosceva bene l’italiano ed era una donna alta e bionda, i vicini quando parlavano di lei, la chiamava “la russa”. Si diceva che lei fosse giunta con il padre di Sara dopo la guerra e che lui fu uno dei pochi a farcela. In seguito il medico legale stabilì che: il povero Tommaso era morto d’infarto, prima di riuscire a mettere in moto le pompe dell’idrovora e quella volta non era ubriaco. Ci fu un gran parlare della disgrazia, tra la comunità che viveva lungo il canale. Anche Pietro quella sera durante la cena ne parlò con Ada e Rocco e, scuotendo più volte la testa disse: ―Vedi Ada, e ascoltami anche tu Rocco a parlar male della gente è sempre una brutta cosa! Il ragazzo fece cenno di aver capito con la testa mentre pensava: “ anche tu nonno quel giorno parlavi male di Tommaso”. Poi gli venne in mente che la maggior parte delle persone, il giorno dell’alluvione incolpò il poveraccio e oggi quasi si disperasse della fine che gli era capitata. Dal canto suo Ada si limitò a prolungare l’orazione prima della cena aggiungendo: ―Pace all’anima sua, che Dio abbia pietà di lui.

Rocco quella sera faticò a prendere sonno restando a lungo nel dormiveglia, tra sogno e realtà pensò alla madre che non aveva mantenuto la promessa di ritornare da lui. Poi, vide Arturo ai bordi del letto e iniziò a discutere con lui, sui fatti accaduti al canale e di Tommaso:

―Arturo cosa pensi tu di Tommaso? È morto da solo o con l’angelo custode all’argine?

―Non lo so se stava con lui, certo che se c’era, non ha fatto niente per salvarlo. Anche voi però che eravate così vicini!

― Noi cosa potevamo fare?

―Avvisare Teresa che abita a poche centinaia di metri dal punto dove è accaduta la disgrazia.

―Forse l’angelo era vecchio e non ha fatto in tempo ad avvisarci ed è morto con lui. Gli rispose indispettito Rocco, poi contrariato per quella che a lui sembrava un’accusa.

―Sai cosa penso caro Arturo?

―Che cosa?

―Doveva succedere ed è accaduto, Tommaso è morto e basta, ora devo dormire, buona notte Arturo.

Il ragazzo si addormentò pensando che forse il giorno seguente i genitori sarebbero tornati come avevano promesso.

***

Nel frattempo che la lettura del quaderno di Rocco scorreva, Isabella si svegliò, la prima cosa che mi chiese fu:─ hai letto tutta la notte? ─No, mi sono alzato presto e ho approfittato per andare avanti e sono arrivato a un buon punto. ─Accennami qualcosa. ─Questa parte parla del ricongiungimento di Aldo e Vittoria, in più sono tornati dal figlio e sembra che lo vogliono riportare a casa, nei prossimi capitoli vedremo come andrà a finire.

***

Terza parte

Quattordicesima tappa: Carrion de los Condes

Il sole era già alto a Boadilla del Cammino quando mi affacciai nuovamente alla finestra e vidi Rocco, il nostro compagno di viaggio che passava sulla piazza antistante all’albergo. Zaino in spalla e con passo spedito, superava il Rollo Jurisdiccional, (colonna gotica che nel passato rappresentava il potere giuridico clericale) posto vicino alla chiesa Nuestra Señora de la Asuncion, (chiusa come molte delle chiese incontrate lungo il cammino) che dominava il paese. A guardarlo Rocco sembrava avere molta fretta, aprii la finestra e lo chiamai a gran voce, mentre altri pellegrini attraversavano il largo, picchiettando rumorosamente con i loro bastoncini da trekking sul suolo cementizio della piazza. Lui si girò verso di me e salutandomi urlò: ─ci si vedrà più avanti e riprese a marciare insieme al folto gruppo che lo aveva raggiunto. Isabella si trovava sotto la doccia quando le comunicai che Rocco era già partito, lei senza scomporsi, mi disse che il viaggio era ancora lungo e prima di Santiago lo avremmo rincontrato. Mi venne in mente che qualcuno ci aveva detto: Il cammino ognuno lo percorre come vuole a volte fuggendo dalle proprie paure, oppure rincorrendo i propri fantasmi, ma quello che ti rimarrà dentro, sarà il viaggio, l’unica realtà che non ti lascerà mai solo. Preparai lo zaino, un po' contrariato dal fatto che Rocco avesse deciso di continuare da solo, ed egoisticamente pensai, che comunque buona parte della sua vita l'avessi catturata e continuasse a viaggiare con me. Un sorriso soddisfatto apparve sulla mia bocca mentre stringevo il laccio dello zaino dove custodivo il prezioso quaderno. Quel giorno marciammo per molto tempo in solitario, probabilmente gran parte dei pellegrini era già passato. Dopo circa sei chilometri di cammino iniziammo a costeggiare il canale di Castiglia e dopo tutto quel deserto, la vista del naviglio artificiale ci mise di buon umore. Chiedemmo informazioni sul corso d’acqua e alcuni abitanti del luogo ci spiegarono che questo raggiungeva l’oceano e venisse utilizzato per l’irrigazione. Qualcuno ci disse che era anche navigabile ma, noi nel tratto che percorremmo lungo le sue sponde non vedemmo neanche una barca navigarlo. Riprendemmo il viaggio, senza dimenticare che ci trovavamo ancora nelle Meseta. Giungemmo a Fromista, Isabella ed io, non potemmo fare a meno di visitare la chiesa in stile romanico, dedicata a San Martin. All’ombra della chiesa ci fermammo a riposare, mangiammo un panino ( bocadillos) ed io approfittai per riprendere il quaderno perché prima d’arrivare a Santiago mi ero ripromesso di completarne la lettura.
 

Apprendista meccanico

Il giorno seguente nella toilette, Vittoria mentre si preparava per andare da Rocco pensava: La nuova realtà a me sta bene e non chiedo l’amore, non c'è mai stato! Difficilmente arriverà, ma la normalità si in fondo era quella che volevo. Il sesso sarà compreso nel pacchetto viaggio, il lavoro scivolerà via senza ostacoli, lui non si ubriacherà e sarà gentile con me. Il fatto più importante è che finalmente Rocco ritornerà tra le mie braccia.

Svelto Aldo oggi Rocco ci aspetta! Ieri non siamo andati come avevi promesso, disse ad alta voce Vittoria, mentre era davanti allo specchio, intenta a truccarsi.

―Va bene finisco di sistemare questa cosa e andiamo, poi oggi lo devo portare a conoscere quel mio amico meccanico.

―Pensi che non sia il caso invece di fargli riprendere la scuola?

―L’altra l’ha cacciato, credi che in questa farebbe meglio? Imparerà un mestiere.

― Ci sarebbe anche il fatto di farlo vedere da un medico specialista, non sei preoccupato che parla da solo?

Terminato di armeggiare con il mobile della cucina, Aldo si diresse verso la moglie, ancora nel bagno che si truccava.

―Ne ho parlato con alcuni miei conoscenti che hanno studiato, dicono che sia normale che un bambino abbia un amico immaginario, con il tempo gli passerà, vedrai, quando sarà impegnato con l’officina avrà altro a cui pensare.

I due uscirono ed era una bella giornata, presero la vespa e si avviarono verso la casa di Pietro e Ada. Durante il tragitto passarono davanti alla casa della madre di Vittoria, videro Santino occupato a mettere sotto sale le sardine, mentre Lucia prendeva il sole seduta su una sedia sgangherata. Vittoria vedendo i genitori pensò: “Un giorno dovrò passare a trovarli è da tanto tempo che non gli faccio una visita”. La vespa era veloce e li vide solo per una frazione di tempo, un fotogramma.

―Aldo! Vai piano ho paura! Disse Vittoria mentre la vespa sembrava mangiasse la strada, sul lungo rettilineo un metro dopo l’altro, chilometro dopo chilometro e a Vittoria, gli alberi che la costeggiavano, sembrarono un’unica palizzata di tronchi, tanto passarono in fretta, chiuse gli occhi stringendo forte i fianchi di Aldo, si appoggiò sulle sue spalle e pensò di volare, quando li riaprì, erano giunti a destinazione. Scese leggermente stordita dal vento e dal rumore della vespa, mentre Aldo dopo aver fatto rombare il motore, un paio di volte, lo spense e guardando il mezzo soddisfatto disse: ―giungere fin qui è stato un lampo!

Rocco li vide arrivare mentre era occupato con Pietro a fare manutenzione alla pompa dell’orto, in terra vi erano affiancati i lunghi tubi d’acciaio, alle loro estremità, i due stavano sostituendo le retine dei filtri che si erano ostruite, il ragazzo lasciò il nonno armeggiare da solo sui tubi e corse  dai genitori.

―Vi aspettavo ieri dopo pranzo! Come mai non siete venuti? Chiese Rocco ai due.

―Eravamo impegnati nella nuova casa, adesso siamo qui e questo è quello che conta. Disse Aldo anticipando la risposta di Vittoria.

―Venite con me, devo dare una mano al nonno a rinfilare la punta abissina, la pompa non funzionava più e abbiamo sostituito i filtri. I tre si avviarono verso l’orto. Rocco aveva preparato il tubo proveniente da un serbatoio d'acqua situato sopra il tetto, Pietro, lo affiancò dov'era montata la punta e lo mise in posizione. Quando fu pronto, chiese al ragazzo di aprire l’acqua che fece strada alla punta facendola scendere nel terreno sabbioso, quando il primo pezzo fu quasi completamente scomparso nel terreno, gli avvitarono sopra un altro tubo e continuarono a farlo scendere ancora. Raggiunta la profondità desiderata, Pietro collegò la pompa al tubo e la riempì d’acqua utilizzando un pertugio che si trovava nella parte superiore del motore, fino a farla traboccare, a quel punto, accese il motore della pompa e dopo qualche secondo, l’acqua iniziò a zampillare, prima del colore della sabbia, poi, limpida e fresca.

Soddisfatti del buon lavoro svolto, Pietro e Rocco, si avviarono verso la cucina seguiti da Aldo e Vittoria. Erano passate da poco le tredici e Ada aveva già preparato il pranzo, seduti intorno al tavolo, la nonna come sempre recitò la preghiera di ringraziamento, il ragazzo la seguì nell’orazione, anche la madre timidamente lo fece, e dopo il segno della croce, iniziò il pranzo. Nessuno parlava, sembrava che nell'aria ci fosse tensione, a Rocco sembrò quasi fosse la calma prima della tempesta e qualcosa gli fece pensare che lui ne era la causa e quasi a confermare i suoi timori a quel punto Aldo ruppe il silenzio.

―Oggi vieni con noi, nella casa nuova e hai una cameretta tutta per te. A quella notizia, lui rimase in silenzio, Vittoria gli domandò; se era felice. Rocco aveva atteso quel momento da più di tre mesi, ciò nonostante, qualcosa gli impediva di essere completamente felice, pensò velocemente ai suoi amici, a Romeo, ai suoi nonni poi, rispose alla madre che lo era. Lo fece senza esultare come avrebbero sperato i suoi genitori. Finito il pranzo, mentre la madre aiutava la nonna a sistemare la cucina, Aldo chiamò Rocco fuori dalla casa: ─vieni che dobbiamo parlare.

***

Isabella m’interruppe e mi chiese se era il caso di riprendere a camminare, mancavano circa quattordici chilometri alla fine della tappa e almeno tre ore di marcia. Le chiesi di pazientare ancora un po' perché mi trovavo in un punto della lettura importante per il futuro del ragazzo. Lei mi disse: ─va bene io rientrò in chiesa, tra una ventina di minuti andiamo. La ringraziai e ripresi a leggere.

Avevo lasciato Aldo che chiamava fuori di casa, Rocco per parlare.

―Oggi si va dal mio amico meccanico. Rocco lo guardò per qualche secondo poi si allontanò da lui. ―Non ti preoccupare è una brava persona, t’insegnerà il mestiere, avrai anche una piccola paga, sarà come andare alla scuola.

―Devo salutare i miei amici, quando lo posso fare?

―Anche subito, se vuoi, vai a cercarli e torna presto l’officina chiude alle venti.

Rocco chiamò Romeo che corse verso di lui, aprì il cancelletto di legno e si avviò verso la casa di Paolo. Trovò i suoi amici nel campo di sabbia che era dietro la casa dell'amico, quando li vide, gli andò incontro, mentre loro si nascosero dietro le dune.

―Vi ho visto! Gridò Rocco. I due uscirono allo scoperto mentre Romeo scodinzolava facendogli le feste. Il ragazzo si sedette tra loro e rimase in silenzio. Sara preoccupata gli domandò:─ cosa hai? Come mai sei così silenzioso?

―Oggi torno a casa con i miei.

― Non sei felice? Prima rompevi quando non venivano a prenderti, ora fai storie?

―Il motivo è che mi mancherete poi vado a lavorare in un’officina, io avrei voluto studiare.

―E io vorrei fare la parrucchiera! Invece devo andare a scuola! La soluzione esiste, cambiamoci i genitori. I tre scoppiarono a ridere alle parole di Sara e iniziarono a correre per il campo con il cane che gli abbaiava dietro. Giocarono spensierati e alla fine del pomeriggio, stanchi si fermarono e tenendosi per mano, fecero un cerchio, Paolo li fissò negli occhi e disse: ―Facciamo un patto, rimarremo amici per sempre, qualunque cosa accada, ovunque andremo, lo giuriamo?

I tre fecero quel giuramento.

―Ora suggellare il patto, sputate nel cerchio.

―Sputare nel cerchio? Che schifo! Disse Sara. Rocco sputò, Paolo pure, alla fine lo fece anche la ragazza.

―Adesso siamo legati per sempre, più che fossimo fratelli, si abbracciarono lungamente, si lasciarono quando udirono la voce di Aldo chiamare Rocco: ―vieni che facciamo tardi! Te lo avevo detto che l’officina chiude alle venti. Il ragazzo attraversò il ponticello del canale, salì sulla vespa, senza mai guardare i suoi compagni che lo avevano seguito con lo sguardo fino a quando la vespa non si avviò. Romeo gli corse dietro fino alla strada principale, poi, si fermò e tornò lentamente verso casa.

L’officina di Nicola era situata alla parte opposta della città, con la vespa i due non ci misero molto ad arrivare, l’amico di Aldo li stava aspettando.

―Pensavo che non sareste più arrivati.

―Questo è Rocco, quando vuoi che inizi a lavorare?

―Anche domani se è disponibile. ─Sei libero? Disse  Nicola rivolgendosi al ragazzo.

Rocco guardò il padre, attendendo un cenno, che giunse con un movimento del capo in segno di assenso. Il ragazzo si voltò verso Nicola: ―Sono libero.

―Passerò sotto casa tua alle sette e trenta, fatti trovare pronto, per la tuta ci penserò io, la mia andrà bene.

***

A quel punto, Isabella uscì dalla chiesa e mi esortò a caricare lo zaino e a riprendere il cammino. Lasciai Rocco catapultato nel mondo degli adulti e al suo primo lavoro. Ci addentrammo nuovamente nella Meseta. Superammo piccoli centri rurali: Poblacion de Campos, Villarmentero de Campos, e in uno di questi (non ricordo quale dei due, la memoria in questo momento, mi difetta) riposammo all’ombra del cimitero. Quello che ricordo bene è che pensai: questi luoghi di estremo riposo si trovano spesso annessi alla chiesa e sono quasi  parte integrante del centro abitato. Restavano pochi chilometri a Villacalzar de Sirga, allungammo il passo e ci arrivammo molto presto. Nel frattempo Rocco il pellegrino, sembrava svanito nel nulla, a volte nelle lunghe tratte nelle Meseta, pensavo se quell'uomo fosse stato reale, o solo uno scherzo della stanchezza e della suggestione e chiedevo a Isabella:─ dai uno sguardo nello zaino? Guarda se ho messo dentro il quaderno. Mi tranquillizzavo solo vedendo il manoscritto. In quella cittadina visitammo la chiesa di Santa Maria la Blanca. Ci fermammo a pregare, dedicando le nostre orazioni ai nostri figli. La nostra intenzione era di sostare per la notte, guardammo la mappa e decidemmo che valeva la pena avanzare fino Carrion de los Condes. Nei sei chilometri percorsi per raggiungere la cittadina, sostammo due volte, non volendo rischiare la situazione cui ci eravamo trovati nella tappa precedente.


 

Era trascorso circa un anno da quando Rocco era occupato nell’officina. Nicola, (il principale) si dimostrò un buon maestro e gli insegnò molto in fretta il mestiere. Lui apprendeva facilmente e se non fosse per il lungo orario cui era sottoposto e la misera paga di cinquecento lire a settimana, non poteva lamentarsi. Il principale simpatico e con poca voglia di lavorare, si affrettò a insegnargli il più possibile in modo di scaricarsi del lavoro. Ormai in officina il ragazzo svolgeva la maggior parte dell’attività, mentre Nicola si vedeva raramente perché restava nel negozio circa un’ora la mattina dopo l’apertura poi, andava via per tornare la sera prima della chiusura, il resto della giornata la passava nel bar biliardo all’angolo della strada. Rocco in quell’anno conobbe molti ragazzi che frequentavano la strada dove era situata l’officina, alcuni di loro possedevano dei motorini, quelli più in voga erano la Vespa o la Lambretta e lui approfittando dell’assenza di Nicola, qualche volta gli riparò alcuni guasti, in cambio di qualche spicciolo. Una sera il principale non venne per la chiusura dell’officina, quando oramai era buio Rocco, decise di chiudere la serranda. La strada per andare a casa era lunga ma per fortuna, davanti al negozio dopo la scuola, si formava un gruppo di ragazzi motorizzati che restavano fermi lì per ore a parlare dei propri mezzi di trasporto. Mentre i giovani si dibattevano la questione se era migliore, la Lambretta o la Vespa, domandò a uno di loro il passaggio fino a casa. Senza discutere il ragazzo lo fece salire sulla sella e in breve lo portò a destinazione. Quando scese, pensò che avere una vespa sarebbe stato bello, quella sera durante la cena ne parlò con il padre che lo fece rientrare subito nella realtà. ─Ci vuole quattordici anni per guidare una moto, e tu ne hai dodici, non la puoi guidare. Rocco deluso andò a letto pensando che presto li avrà quegli anni per guidare la moto. Arturo era qualche tempo che non si faceva vedere e quella sera ritornò più bellicoso che mai.

― Che fai dormi?

―Si, domani dovrò lavorare, Nicola mi viene a prendere alle sette e trenta.

― Potresti anche non andare, e giocare con me, per una volta il tuo principale non avrà niente da dire. Aldo nel frattempo si preparava a uscire per andare al mercato, udì Rocco che parlava e si fermò ad ascoltare in silenzio dietro la porta della stanza.

―Paolo e Sara li hai più visti? Domandò Arturo.

―È quasi un anno che non li vedo, loro vanno alla scuola, io sono occupato dalla mattina alla sera.

―Non lo sai, dove abitano?

―Si!

―Vai a trovarli!

Rocco rimase in silenzio pensando che il problema non erano i suoi amici.

― Ci devo pensare.

―A cosa devi pensare? Ci vai e basta! Così saluti anche Pietro e Lucia.

―Il problema sono proprio loro!

―Perché? Sono brave persone. Rocco mentre giocherellava con un portachiavi seduto sul letto, sembrò non avere più voglia di parlare poi, si girò come per mettersi a dormire, Arturo lo stuzzicò ancora un po' e lui: ― va bene Arturo ora ti spiego com’è andata …

― Quando per Natale andai dai nonni, rimasi molto male con Pietro e Ada.

― Come mai? Che cosa è accaduto?

―Te lo ricordi il maiale? Quell’enorme bestia che era fuggita mentre la lavavo? Bene, dopo aver salutato i nonni, sono andato a cercare Romeo, poi a vedere il maiale. Il porcile era vuoto, sono corso da Pietro e gli domandai, dove fosse? Lui mi chiese di seguirlo. Giunti alla casetta delle provviste, mi fece vedere lunghe file di salsicce attaccate sul soffitto, i prosciutti, le lonze, il lardo, insomma, il maiale era a pezzi attaccato lassù, in alto. E finalmente capii ” quindi questo era il posto comodo che diceva la nonna”. Se permetti, mi sono sentito preso in giro e non gli ho parlato per tutta la sera e da allora non ho avuto più l’occasione di andarci.

―Però erano buone le fettuccine con il sugo di salsiccia? Rocco fece seguire qualche secondo di silenzio a quella domanda di Arturo, poi scocciato gli disse.

―Buonanotte Arturo, dormi anche tu.

Nel frattempo, Aldo, era dietro la porta e senza farsi sentire, aveva ascoltato tutto il discorso e preoccupato uscì dalla casa. ―Arturo? Adesso chi è questo? Certo che ci ha parlato molto, meglio non pensarci, passerà.

Vittoria era fuori tutta la settimana per lavoro, Aldo mancava da casa anche tre giorni consecutivi, Rocco a volte restava solo per molti giorni. Quella mattina, proprio non riusciva ad alzarsi dal letto, sognava di essere sveglio. Arturo girava per la casa lamentandosi perché lui non gli dava ascolto. ―Mi ascolti? Adesso ti metti a fare il sostenuto? Fai finta di non vedermi?

―Si, ti vedo e ti sento. Sono impegnato, devo andare all’officina, Nicola mi aspetta.

―Nicola, sempre questo Nicola. L’officina può andare avanti anche senza di te.

―Sara e Paolo, sarebbero contenti se vai a trovarli.

―Ci andrò, quando avrò tempo, ora lasciami stare …

Poi, due, tre colpi sulla porta … Rocco si svegliò sentendo bussare in modo insistente si alzò e aprendo la porta si trovò davanti Nicola.

―Sono quasi le otto e non sei ancora in piedi! Sei forse malato?

―No, adesso mi sbrigo e arrivo. Il meccanico si accomodò sulla sedia della cucina e mentre il ragazzo era in bagno, gli domandò:

―i tuoi non ci sono?

―Sono fuori per lavoro, a volte succede che lo siano per giorni.

―Come fai per mangiare?

―Sono bravo a cucinare e a volte risolvo tutto con un panino al fornaio qui all’angolo.

― Sono pronto, andiamo.

Prima di uscire, Nicola, notò una grande confusione nella casa, la cucina aveva il lavello pieno di stoviglie, nel corridoio indumenti sparsi in terra, un cuscino non si sa come, era incastrato tra la porta della stanza di Rocco e l’odore non era dei migliori.

―Sembra che ci sia stata una battaglia in casa! Esclamò il meccanico mentre uscivano.

―Sarà tutto in ordine prima che i miei saranno tornati. Domani sarà sabato e loro sono di riposo.

Durante il tragitto Nicola passò davanti alla scuola, Rocco, tra la folla di studenti cercò d’intravedere i suoi amici, ma i ragazzi erano troppi e non riconobbe nessuno. Giunti al negozio, il principale gli diede dei lavori da svolgere e come sempre lo lasciò solo, per andare al biliardo.

***

Giunti a Carrion de los Condes, avevo ancora nella testa le cose lette durante le soste, in compenso la tappa era stata fluida e senza grandi intoppi. La cittadina dove si trovavamo era piena di chiese e monumenti religiosi che richiamavano al cammino e dopo aver fatto un giro per le sue affollate stradine, la stanchezza prese il sopravvento. Per risparmiare qualche euro cercammo un Albergue e come il solito li trovammo tutti al completo. D'altronde noi ci ostinavamo a rivolgersi alle strutture che in genere occupavano i giovani pellegrini, “albergue juvenil”. Come ho già detto molte volte, i ragazzi andavano per i sentieri del cammino, veloci, brillanti, allegri, in folti gruppi o solitari, e alla fine di ogni tappa, erano sempre un passo avanti a noi, partivano il mattino seguente quando l'alba ancora non era spuntata e noi anziani stanchi e arrugginiti, eravamo lì a contare le vesciche che erano comparse nella tappa del giorno prima. Dopo aver tentato inutilmente presso gli albergue e ricevuto altrettante risposte del tipo: “Lo siento mucho, todo completo”Trovammo alloggio in un hostal e  dopo la tanto desiderata doccia, curammo le ferite del corpo e della mente restando immobili per circa un’ora sul letto. Come ogni sera dopo la cena, eravamo lì a fare il punto della situazione, restammo a parlarne fuori dall’hostal. ─Il nostro compagno è sparito, pensavo di trovarlo qui e invece di lui neanche l’ombra. Isabella mentre massaggiava i piedi, disse: ―È un tipo strano, da quando lo abbiamo incontrato, non ha parlato molto di se, però in compenso, sembra una brava persona e non è cosa da poco averti messo a disposizione il quaderno, è come se ti avesse consegnato tra le mani il suo passato. ─Si è vero, però avrei voluto anche parlarne con lui, scrutargli il viso e attraverso i suoi occhi vivere con lui, quasi fisicamente, l'altalena d'emozioni che sarebbero emerse rivivendo quei momenti e non solo cercarle tra queste pagine, come uno sconosciuto lettore che ha trovato un libro lungo la strada. ─Vedrai il viaggio è ancora lungo, lo rincontreremo prima di arrivare a Santiago, mi assicurò affettuosamente Isabella, manco fossi un bambino che aveva perso qualcosa cui teneva molto. Le feci un cenno di assenso poi, mi accertai della sua condizione fisica, lei mi disse che si sentiva bene, un poco stanca, però bene, considerando che dalla partenza a quel punto avevamo percorso circa trecenovantasette chilometri, ed erano quasi la metà del cammino. Studiammo il percorso del giorno dopo e la tappa ci sembrò ancora più impegnativa di quella appena archiviata. Avremmo marciato ancora nelle Meseta e nonostante i pellegrini su quella strada erano numerosi, la solitudine come sempre sarebbe stata la nostra compagna più fedele e non ci avrebbe abbandonato. I viaggiatori che si trovavano su quella rotta, a parte a qualche momento fugace d’intensa convivialità, preferivano avanzare in silenzio e molto velocemente. Col senno di poi oggi pensando a quel viaggio posso asserire che la differenza la fa il desiderio di capire perché si affronta il viaggio e che la meta sta tutta nei numerosi passi posati su quella parte della Spagna, dove, la totalità delle persone vive per il cammino, ognuno che vi passa non ha altro nome che: il pellegrino. Mentre era lì che pensavo e valutavo la forza d'animo che mi stava imprimendo quel faticoso viaggio, Isabella mi strappò dai pensieri e mi chiese di andare a riposare, dicendomi che la tappa del giorno seguente sarebbe stata particolarmente dura. Prima di addormentarmi svolsi quello che ormai era diventato un rito; sfogliai il quaderno che mi aveva lasciato il nostro compagno svanito nella Meseta.

***

Il venditore di libri

Rocco nonostante la giovane età, in quel periodo, era già alle prese con una cosa che in genere incombe sugli adulti e per una serie di coincidenze dopo circa un anno diventò un buon meccanico.

Mentre il giovane era occupato a lavare un motore che il giorno prima aveva smontato da un’Alfa Romeo Giulietta, un tizio sostava all’ingresso dell’officina e lo guardava in silenzio. Rocco senza dargli eccessiva importanza, ogni tanto gli lanciava un’occhiata, poi riprendeva il lavoro. Erano quasi trenta minuti che quell’uomo sostava al centro dell’entrata dell'officina, elegantemente vestito, con giacca, cravatta, con sé aveva una borsa, che aveva posato in terra e la tratteneva con i piedi quando a un certo punto si rivolse al ragazzo: ―quanti anni hai? Rocco ignorò la domanda e continuò nella sua occupazione non perdendolo mai di vista lo sconosciuto. Rompendo gli indugi, l’uomo entrò all’interno del locale e mentre lo fece, gli rivolse di nuovo la domanda. Rocco si girò e gli domandò:―Chi sei? Perché lo vuoi sapere?

―A guardarti, sembra che tu abbia un’età che in genere hanno i ragazzi che frequentano la scuola.

Lui mentendo gli disse:―ho quindici anni, ora sarà contento? La risposta brusca del ragazzo, non fece demordere l’uomo che rimase fermo a osservare le operazioni che Rocco svolgeva nell'officina. Il giovane completò il lavaggio del motore e dopo con un paranco lo sollevò e con abilità lo sistemò sopra il bancone. Nel frattempo nei pressi dell'officina erano giunti alcuni ragazzi con delle biciclette, com’era loro solito, si raggrupparono al lato opposto del marciapiede. Rocco con quell'uomo dentro l'officina si sentiva a disagio e vedendo i ragazzi che ormai avevano formato un capannello chiassoso fuori dal locale, lui uscì dall'officina e s'infilò tra loro. L’uomo senza scomporsi lo seguì fermandosi a qualche metro dai ragazzi, poi lentamente si avvicinò al gruppo.

Non c’era dubbio, che quella presenza a Rocco l’avesse messo in agitazione e si fece forte della presenza degli altri per affrontarlo a viso aperto: ─si può sapere cosa vuoi da me? Lo sconosciuto senza rispondergli aprì la borsa e tirò fuori dei libri. I ragazzi lo osservarono, mentre cercava un appoggio, poi lui chiese al proprietario dell'unico motociclo presente, se potesse utilizzare la sella, il ragazzo si fece da parte, mentre gli altri osservavano la scena, soffocando malcelati risolini. Rocco cogliendo quell’occasione al volo si sfilò dal gruppo e se ne ritornò nell’officina. Da quel punto d'osservazione, vide lo sconosciuto che parlava con i ragazzi, mostrandogli dei libri, e come se la borsa non avesse fondo, ne prese altri cui aggiunse in seguito numerosi opuscoli. Nonostante l’impegno profuso dall’uomo, ai ragazzi si capì che non interessava molto la merce che proponeva e Rocco lo percepì da quante volte loro scuotessero la testa da sinistra a destra, facendogli assumere, una specie di dondolamento stanco e annoiato. Uno per volta, gli interlocutori si sfilarono e sfoltirono il gruppo, lasciando solo il proprietario del motociclo che avendo la sella occupata dai libri, fu costretto a restare. A quel punto capita l'antifona, il venditore prese il tutto rinfilandolo dentro la borsa e anche l’ultimo ragazzo quando vide la sella libera dai libri, mise in moto e se ne andò via. Tra il motore da lavare, lo sconosciuto che voleva vendere libri, era giunto l’ora del pranzo. Rocco tirò giù la serranda e ignorando il venditore che seguiva le operazioni, si avviò verso la vicina pizzeria. L’uomo si accodò dietro di lui, Rocco sveltì il passo e percepì che anche l’altro lo aumentò, a quel punto lui si arrestò e girandosi di scatto portandosi le mani ai fianchi in segno di sfida gli domandò: ―cosa vuole da me? L’uomo fece un sorriso e lo scruto dal capo ai piedi, il giovane dovette sembrargli proprio buffo con indosso la tuta di Nicola. Rocco le maniche le teneva tirate su fino ai gomiti e i pantaloni, pur avendoli rivoltati, almeno due o tre volte, gli strusciavano sull’asfalto del marciapiede, tutte le parti che rimanevano scoperte, compreso il viso, erano tinte dal grasso nero e suoi i denti bianchissimi risaltavano sul viso scuro, così gli occhi, che vivacissimi non smettevano di muoversi, come se lui fosse un animale abituato a difendersi.

―Non preoccuparti, io vorrei farti vedere solo alcuni libri.

Dall’altro lato della strada, alcuni passanti vedendoli discutere rallentarono e rimasero a osservare la scena, Rocco si guardò intorno e tra loro cercò qualche suo conoscente pensando: “come sempre, quando serve, non c’è mai nessuno che ti può aiutare”.

―Non mi serve avere dei libri! Gli rispose seccamente Rocco e si girò riprendendo a camminare verso la pizzeria.

― Se tu ti fermassi un momento! Gli disse il venditore quasi implorandolo, mentre gli poggiò la mano sulla spalla. Il ragazzo rallentò il passo e l’uomo non perse tempo, velocemente aprì la capiente borsa e quasi per magia ne tirò fuori qualcosa: ―guarda è solo un libro per ragazzi, per fare male a qualcuno gli lo devi tirare! Questo si legge. Ripresero a camminare verso la pizzeria. Il venditore con la borsa aperta e il libro in mano, Rocco che non scappava più gli si affiancò e gli lo tolse dalle mani e iniziò a sfogliarlo. Giunti nel locale mentre l’uomo iniziò a consumare un trancio di pizza, lui iniziò a sfogliare il libro “L’ultimo dei mohicani, di J. Fenimore Cooper” e non smise di leggere fino a quando il venditore non lo distolse chiedendogli:―Ti piace? Se t’interessa? Te lo lascio poi ripasso la settimana prossima. Se vuoi? Ne ho altri, tutti adatti alla tua età. Rocco, rimase per qualche secondo a fissarlo pensando: ”Che ne sai tu della mia età”. Poi chiese all'uomo quanto costava quel libro.

―Adesso leggilo, in seguito se sei interessato, ti dirò in che modo me li potrai pagare.

Il ragazzo rimase in silenzio mentre pensava: ”Non ci sarà nulla di male se lo prendo questo libro, oltretutto non mi costa niente”. Guardò il venditore di libri e gli disse:―Va bene, torna la prossima settimana e poi ti dirò se lo prendo. Rocco tornò all’officina con il libro e passò il resto della giornata a leggere, sdraiato sul carrellino che normalmente utilizzava per scivolare sotto le auto.


 

Posai il quaderno sopra lo zaino che avevo accanto al letto e mi girai e rigirai sulla branda, fino a quando riuscii a prendere sonno sognando un’infinità di gente: Isabella, San Giacomo, Rocco, che mi accompagnava attraverso le Meseta mentre io accusavo di avere un gran dolore alle gambe e ai piedi. Quando ancora era notte, fui svegliato da un crampo alla coscia, urlando dal dolore svegliai i pellegrini che condividevano la stanza con noi, mi scusai e spiegai che era stato un crampo a farmi urlare. Mi alzai e uscii dall’hostal per non disturbare il sonno degli altri e rimasi lì fino all’alba. Mentre ero seduto su una panchina, vidi passare Simone il pellegrino con la telecamera incontrato a Los Arcos. Camminava spedito insieme a un altro ragazzo che a stento riusciva a tenerne il passo. Ricordo che pensai: “Ancora non sono le cinque e questi già camminano!” Attirai la loro attenzione e quando mi riconobbero, si fermarono, gli chiesi, dove andassero così di fretta e per giunta a quell’ora del mattino. Simone, (il pellegrino con la telecamera), mi disse che stavano stretti con i tempi e volevano recuperare una tappa prima d’arrivare a Leon. Poi come il solito m’intervistò e mentre lo faceva, notai che l’altro portava un’appariscente fasciatura al ginocchio, “cosa piuttosto comune tra pellegrini che andavano troppo in fretta”. Riconoscendolo (era il ragazzone di due metri  che aveva dormito con noi a Roncisvalle) mi rivolsi a lui chiedendo come andasse il cammino, il ragazzo mi rispose che avrebbe abbandonato a Leon, perché non era in grado di continuare con quel ginocchio fuori uso. Nel frattempo Simone, riprendeva il nostro dialogo per il suo documentario sul Cammino. Ci salutammo e loro ripresero a camminare, li seguii con lo sguardo e mentre andarono via, notai l’andatura incerta del ragazzo con la fasciatura al ginocchio. Ricordo che pensai: ”Che non contassero quanti anni hai o il fisico di cui disponi, l’arma vincente è la volontà di giungere a Compostela dosando le forze durante il giorno un passo dopo l’altro, questo è un viaggio che mette a dura prova il fisico, ma forse di più la mente”. Fortunatamente io tra le tante strategie escogitate per esorcizzare la fatica, mi ero aggrappato anche al quaderno degli appunti, che ogni volta mi faceva viaggiare senza muovere un passo, portandomi lontano con la mente facendomi dimenticare quel milione di passi che avevo percorso e che dovevo ancora fare fino a Santiago. Lo presi e consumai quell’ora che mancava alla partenza per la successiva tappa, sfogliandolo e andare avanti nella lettura.

***

La cultura fa paura ai folli

Il tempo era trascorso in fretta nell’officina e Rocco ancora leggeva quando giunse Nicola. Il principale dopo un rapido sguardo notò che a parte il motore dell'Alfa lavato, degli altri lavori che dovevano essere svolti in quella giornata, niente era stato fatto.

Rivolgendosi a Rocco gli disse:― Oggi hai battuto la fiacca? Il giovane abbozzò qualche scusa mentre il suo principale tirava giù la serranda dell’officina. Nicola lo azzittii dicendogli:─non ti preoccupare, capita a tutti una giornata no, ti rifarai domani ora è tardi andiamo a casa.

La settimana successiva come promesso il venditore di libri, tornò all’officina. I due si salutarono come dei veri amici e Rocco gli disse che era interessato all’acquisto di altri libri. I due dopo una serrata trattativa si accordarono per una piccola somma che il ragazzo avrebbe consegnato una volta al mese all’uomo. Rocco lasciò nel locale la maggior parte dei libri ricevuti dal venditore, portando con sé quello che di volta in volta stava leggendo. I giorni per il giovane trascorsero velocemente e sempre uguali nell’officina, i libri, i genitori che si vedevano di rado e Nicola, il principale sfaticato, perlopiù assente durante la giornata di lavoro. Una mattina Rocco si trovava coricato sul carrellino con la metà del corpo sotto un’auto da riparare, il principale come il solito era andato al bar e lui aveva appena iniziato a leggere un nuovo libro, (David Copperfield di Charles Dickens) mentre qualcuno entrò nel negozio e si fermò accanto ai suoi piedi. Una mano lo afferrò alla caviglia e lo tirò fuori da sotto l’auto, sorpreso, si trovò davanti al padre. Il viso di Aldo lasciò trasparire una smorfia di disappunto quando vide il figlio con un libro e con forza e glielo tolse dalle mani mentre urlava: ─tu sei qui per lavorare e non per leggere! Poi iniziò a stracciare le pagine del libro una dopo l’altra. Aldo notò che sopra il bancone c’erano degli altri libri e come impazzito gli riservò lo stesso trattamento. Rocco capì che il padre si era ammalato nuovamente, dall’odore dell’alcool che gli usciva dalla bocca ogni volta che gli urlava a pochi centimetri dal suo viso tutta la sua rabbia. Il giovane provò a giustificare perche avesse dei libri, ma non servì a nulla. Aldo non volle sentire ragioni, per lui era inconcepibile che Rocco leggesse e strappò tutto quello che c’era da strappare. Infine lo picchiò e colpendolo con un calcio lo scaraventò al muro, dove erano sistemate le chiavi utilizzate per smontare i motori, una di queste cadde colpendo Rocco sul capo e una riga di sangue segnò il viso del ragazzo. Comprendendo che non ci fosse nulla da fare per calmare il padre, Rocco passò sotto il bancone e raggiunse la porta del bagno, dove trovò rifugio dalla furia di Aldo. Udì il padre bussare più volte, mentre gli urlava di aprire la porta, Rocco terrorizzato prese una sedia con cui la bloccò incastrandola sotto la maniglia. Dopo qualche minuto di silenzio dal suo rifugio, il ragazzo udì che Aldo discuteva con Nicola, che nel frattempo era stato avvisato da qualcuno, poi udì altri rumori di cose che cadevano, fino a che il silenzio tornò nell’officina a quel punto, capì che il padre era andato via.

Rocco rimase chiuso nel bagno cercando di capire l’ira del padre, provò in tutte le maniere a cercare di comprendere quella reazione alla vista del libro, non trovandone nessuna. Quando ormai furono circa dieci minuti che non si sentiva nulla dall’officina, tolse la sedia sotto la maniglia, con cautela aprì la porta e trovò davanti a lui un disastro. Le pagine dei libri sparse da tutte le parti, pezzi di motore pronti per essere rimontati, seminati in tutta l’officina e Nicola che lo fissava in silenzio, poi l'uomo sbottò e gli disse: ―Tuo padre è un pazzo, guarda cosa ha combinato, non so cosa gli abbia preso, ma tu non puoi restare qui perché non voglio avere a che fare con gente come voi, lascia la tuta e vattene! Rocco si spogliò e consegnandola ebbe solo la forza di dirgli: ―scusa, ma non è colpa mia. ─Capisco ma se tu non eri qui, tutto questo non sarebbe accaduto, vai via e non ti far più vedere da queste parti. Nicola chiuse la serranda dell’officina e si diresse verso il bar senza mai girarsi a guardare il ragazzo che era rimasto fermo sul marciapiede.

Rocco vagò per l’intero giorno senza sapere cosa fare, dove andare, iniziò a discuterne con Arturo: ─adesso cosa farò? Dove andrò? Sicuro non a casa, quello mi ammazza, sarà ancora ubriaco.

―Dove dormirà Rocco?

― Non lo so! Non lo so, fai silenzio! Fammi pensare. Camminava sotto i portici, parlava e gesticolava, malediva il venditore e la malattia del padre.

― È il vino che gli fa male, quando non beve, non è così, poi si fermò rivolgendosi all’amico.

―Andiamo dai nonni, aspettiamo che si addormentano, entriamo nella stanzetta e domani penseremo cosa fare. I portici erano abbastanza frequentati e mentre lui li percorreva avanti e indietro, i passanti lo guardavano incuriositi dal fatto che discutesse così animatamente e con qualcuno che loro non vedevano. Oramai era quasi sera, quando Rocco si avviò verso la casa dei nonni, giunto in vista della fattoria guardò se i due fossero fuori della casa, assicuratosi che non ci fosse nessuno, aprì il cancelletto e Romeo gli corse incontro festeggiandolo.

―Buono, mi fai scoprire, il cane si calmò e lui andò verso la finestra della stanzetta e provò ad aprirla ma la trovò chiusa dall’interno.

― Siamo in un bel guaio Arturo, questa è chiusa.

― Certo che lo è! Pensavi fosse aperta per te?

― E si tu sai sempre tutto! Esclamò Rocco, poi rimase un poco a pensare seduto sotto la finestra e gli venne l’idea della casetta delle provviste.

―La casetta dove c’è il maiale appeso! Posso dormire lì! Si avviò verso il piccolo locale, provò ad aprire la porta, anche quella la trovò chiusa, si sedette sul gradino, con le mani che gli sorreggevano il capo, quando ormai aveva perso la speranza, sentì un leggero strusciare provenire da dietro la siepe che divideva il porcile dalla casa, si girò e vide Pietro farsi largo tra le fitte frasche e dirigersi verso lui, giunto al porcile lo fissò per qualche secondo, poi gli chiese: ―Rocco! Che cosa fai qui? Il giovane meravigliato dal fatto che il nonno l’avesse sorpreso mentre tentava di entrare nella casetta, biascicò alcune parole senza senso, poi lo guardò e implorandolo gli disse:―Fammi dormire qui da te.

Pietro non gli chiese il perché, afferrandolo per la mano lo fece alzare da terra e lo portò in casa. Aprì la porta della stanza e gli disse: ─Il letto è già pronto. Rocco la stanza la trovò come quando la lasciò il giorno che andò via con i genitori. Pietro con una mano sulla spalla del ragazzo prima di andare gli disse: ―Questa casa è anche la tua e non devi tornarci come un ladro, dormi tranquillo ci vedremo domani mattina, buonanotte.

Quando lessi questa parte degli appunti, restai sconvolto, la situazione era precipitata all’improvviso, della follia del padre fu il giovane Rocco a farne le spese. Chiusi il quaderno e rientrando nell’hostal vidi Isabella che scendeva le scale, lei vedendomi rientrare, mi chiese dove fossi stato, le spiegai il fatto del crampo e che ero rimasto fuori dall’hostal a leggere per non disturbare gli altri pellegrini. Le raccontai freneticamente, le cose che avevo letto davanti a un’abbondante colazione, lei cercò di calmarmi dicendomi che dovevo essere più freddo e che quella era una cronaca del passato e fin dei conti, sembra che Rocco in seguito se la sia cavato bene, oggi è in viaggio verso Santiago. Quando mi calmai, finimmo di preparare gli zaini e lentamente partimmo salutando Carrion de los Condes. Mentre uscivamo dalla cittadina, ci rendemmo conto, che questa meritava una visita più approfondita, vi erano numerosi luoghi di culto risalenti quasi tutti al dodicesimo secolo: la chiesa dedicata a Santiago, Nuestra Señora de Belen e la chiesa dedicata a San Francesco a testimoniare il passaggio del Santo lungo il cammino nel milleduecentoquattordici. Tra le molte altre testimonianze della devozione di questa città a Santiago, la chiesa Santa Maria del Cammino, che fu l’unica che il giorno precedente visitammo. Peraltro in quest’ultima, partecipammo alla funzione ricevendo la benedizione al pellegrino e come sempre quello fu un momento di suggestione collettiva. Come dicevo qualche riga fa, durante la marcia, si è concentrati nell’avanzare e spesso, forse troppo, si cerca di risparmiare energie per la tappa successiva a scapito di qualche dovuto approfondimento della storia e dei monumenti. Il primo pensiero era riposare, mangiare, dormire, dunque al termine di ogni tappa queste, erano le priorità. Lasciammo come diversivo, la funzione serale, (quando c’era) nella prima chiesa che incontrammo, senza badare troppo a quando era stata costruita o in quale stile, gotico, barocco o romanico. Spesso ci facemmo avvolgere dal silenzio nella penombra della chiesa e in solitudine ci facemmo accarezzare dalla storia e dalla fede. Sfilare lungo il fiume di Carrion de los Condes, superare il bel ponte tra la vegetazione rigogliosa, ci fece venire in mente il lungo tratto in solitudine studiato sulla mappa che ci aspettava (diciassette chilometri) fino al prossimo centro abitato. Controllammo le riserve d’acqua e ci avviammo verso la tappa intermedia: Calzadilla de la Cueza.

***

Quindicesima tappa: Terradillos de Los templaros

 

Onestamente se devo dire che ricordo esattamente cosa c’era lungo la via, mentirei, gli unici ricordi che si affacciano nella mente, sono un punto di sosta per pellegrini, lungo la strada bianca, dove Isabella si sdraiò sopra un tavolo di pietra, ed io che nel frattempo ripresi a sfogliare il mio prezioso quaderno.

***

Rinfreschiamoci la memoria: la lettura precedente mi aveva lasciato l’amaro in bocca. Dopo un periodo relativamente normale vissuto da Rocco, (oltre il fatto che, invece di mandarlo a scuola, i genitori preferirono che lui andasse a lavorare) Aldo il padre del ragazzo, lo picchiò violentemente, per averlo trovato in officina a leggere un libro. Il giovane dopo il fatto accaduto nell’officina, non rientrò a casa e finì a dormire da Pietro, il nonno.

***

C’è un sottile confine nella mente, una volta varcato, la ragione potrebbe non fare più ritorno.

Pietro lasciò Rocco nella stanza e lui rimase sul letto a pensare alle cose accadute quel giorno, quando finalmente si addormentò, fu tormentato dagli incubi e si svegliò in preda al terrore che il padre lo tirasse giù dal letto mentre lo picchiava con i libri che aveva lasciato in officina. Verso le tre del mattino, si alzò dal letto fradicio di sudore, iniziò a parlare ad alta voce, poi in preda a un’ira incontenibile, colpì ogni cosa che si trovava nella stanza. Fracassò una sedia e tirò giù l’armadio facendolo crollare sopra il letto e ruppe il vetro della finestra. Quando i nonni aprirono la porta, lo trovarono al centro della stanza con pezzo della sedia tra le mani, come se si volesse difendere da qualcuno. Pietro tentò più volte di farlo calmare senza ottenere nessun risultato, il ragazzo mulinava quel pezzo di legno come un’arma tenendolo lontano.

―Rocco calmati! Gi disse Pietro mentre cercò di afferrarlo, ma lui si contorceva come un ossesso. Dopo numerosi tentativi riuscì ad afferrarlo e lo trattenne così forte fino che lui perse conoscenza. La nonna, Ada andò a chiamare il medico.

Quando finalmente il dottore giunse a casa, trovò Rocco che cercava di liberarsi dalla stretta del nonno. Il giovane si lamentava del lavoro che non aveva potuto terminare nell’officina per colpa del venditore di libri. Rocco sembrava non capire dove si trovasse e biascicava parole senza senso e senza un’apparente affinità: libri, officina, motorini, botte, pagine strappate. Poi iniziò a singhiozzare e urlare: è malato, è malato, malato … non ha nessuna colpa. Comprendendo la gravità della situazione, il medico preparò un calmante e lo iniettò al ragazzo che dopo qualche minuto si tranquillizzò e lo misero nell’altra stanza a riposare.

Quando la calma tornò nella casa, il medico spiegò ad Ada e Pietro cosa poteva essere accaduto al giovane:uando la calma ─Il ragazzo deve essere crollato emotivamente, non so cosa gli sia successo, credo però che sia necessario, farlo vedere da uno specialista, parrebbe sia caduto in una forma dissociativa, non so quanto grave, ma vedendo cosa ha combinato nella stanza, io non ci dormirei sopra, bisogna indagare a fondo e cercare la causa scatenante dell’episodio accaduto.

Pietro rivolgendosi al medico domandò se il ragazzo doveva essere ricoverato.

―Per ora no, sentiamo lo specialista, poi si vedrà, adesso dormirà almeno fino alle dieci, al risveglio non lo assillate, fatevi raccontare cosa gli è accaduto ieri, senza insistere troppo e non perdetelo di vista. Il medico salutò i due vecchi, con l’impegno che il giorno dopo sarebbe tornato. Ada e Pietro restarono nella cucina e vegliarono il sonno del ragazzo.

Il sole era già alto quando Rocco si svegliò, trovò i nonni che vinti dalla stanchezza si erano addormentati sulle sedie della cucina con la testa china sul tavolo. Il ragazzo gli si avvicinò e svegliò per prima Ada. La prima cosa che gli domandò fu:─ come mai non sono nel mio letto? Rocco sembrò non ricordasse nulla della notte appena trascorsa, a parte qualche dolore alle braccia, per lui la notte appena passata era stata una delle tante, che aveva trascorso in casa dei nonni. Ada lo accompagnò nella sua stanza e quando aprì la porta, il ragazzo non riuscì a dire una parola, fissò i mobili fracassati, la finestra rotta, poi rivolgendosi alla nonna le chiese: ─cosa è successo nella stanza?

―C’è qualcosa che non va in te, non è colpa tua, ma dobbiamo vedere da cosa dipende. ─Ho fatto io tutto questo? Domandò incredulo Rocco e aggiunse: ―non ricordo niente.

Pietro intanto si era svegliato e li aveva raggiunti. Prese il ragazzo con delicatezza per un braccio e gli disse:―Forza Rocco andiamo fuori da questa confusione, vediamo se c’è qualcosa da fare nell’orto. Uscirono all’aperto e si diressero verso l'appezzamento di terreno mentre Romeo li corteggiava scodinzolando.

― Sarà stato un brutto sogno non ti preoccupare, aggiunse Pietro mentre si avviarono verso l’orto. Passarono buona parte del mattino a zappettare e piantare gli ortaggi. Rocco parlò poco mentre lavorò la terra con Pietro, cercando un significato al disagio che gli attraversava l’animo e spesso si catapultò lontano con la mente attraversata da mille pensieri sconnessi tra loro. Pietro lo osservò zappare con violenza poi fermarsi e sussurrare frasi senza senso e quindi riprendere il lavoro, quasi accarezzando il terreno appena dissodato.


 

Pietro e Rocco trascorsero il mattino nell’orto in silenzio e lavorando sodo fino all’ora del pranzo.

Poi nel pomeriggio li raggiunse il medico.

―Rocco come va oggi?

― Bene, gli rispose il ragazzo.

―Ho portato con me un mio amico, è un medico specialista, ti vuole parlare, ti va? Il ragazzo guardò il nonno per qualche secondo poi si rivolse al medico.

―Arrivo subito, si diresse verso lui lentamente come se pensasse già cosa dirgli. Il medico della nonna presentò al ragazzo la persona che era con lui.

―È una brava persona, ti puoi fidare, vuole che gli racconti come ti senti e se ricordi cosa è avvenuto questa notte. Il ragazzo e il nuovo medico, si allontanarono e giunti alla pensilina si sedettero. Alle domande del medico Rocco in un primo momento non rispose, poi si rilassò e iniziò a raccontare il fatto accaduto il giorno precedente nell’officina. Parlò del venditore, dei libri, del padre e della sua reazione quando lo aveva sorpreso a leggere.

―Ha detto tua nonna, che hai un amico particolare e che spesso ti ci trovi in disaccordo. Domandò il medico.

―Non è vero ci vado molto d’accordo, a parte qualche volta che è un po’ strano.

─Comunque, l’hai un amico?

―Non solo Arturo, ma anche Sara e Paolo sono miei amici.

― Sara e Paolo, lo conoscono il tuo amico?

―Non ancora, glie lo dovrò presentare, ma Arturo non vuole, ha detto che se lo presento a qualcuno va via e non torna più.

Arturo adesso è qui? Disse il medico facendo un ampio gesto a semicerchio con la mano.

― No, lui viene la sera e quando sono solo, per esempio stanotte mi è sembrato che c’era e urlava, poi non ricordo cosa ha fatto, forse è stato lui a rompere i mobili nella stanza, era arrabbiato con mio padre per le botte che mi ha dato. Lo specialista rimase qualche secondo in silenzio poi:

― Capisco ti vuole difendere.

―Si, ma si mette sempre in mezzo quando non deve, è un impiccione e complica sempre le cose.

Il medico si alzò e domandò a Rocco se avesse dei giramenti di testa, poi gli fece chiudere gli occhi, allargare le braccia tenendole all’altezza delle spalle, poi gli chiese da quella posizione di toccarsi il naso, prima con un dito poi con l’altro, poi ancora, di seguire il dito che gli passò davanti agli occhi da sinistra a destra, e rivolgendosi al ragazzo: ―ti va qualche volta di venirmi a trovare nel mio studio? Non faremo niente di speciale, parleremo un poco, poi se sarà necessario, dovrai seguire una cura.

―Va bene noi verremo con Pietro. ─Verrete? ─Si, Arturo ed io confermò Rocco. Il medico lo guardò in silenzio per qualche secondo e gli disse: ─va bene saranno benvenuti. Il ragazzo e il medico, raggiunsero gli altri, che si erano seduti in disparte in attesa che loro terminassero. Pietro e Ada ascoltarono la diagnosi emessa, dai due medici e della necessità che Rocco si sottoponesse a delle sedute psichiatriche.

Quella sera udirono la vespa del padre, fermarsi nel giardino, Aldo chiamò a gran voce Rocco, Pietro uscì e intavolò una lunga discussione con il figlio. Nonostante le insistenze del padre del ragazzo, Pietro non gli permise di entrare in casa. Ada e il ragazzo rimasero ad ascoltare dietro alla persiana in cucina. Tremarono all’idea che il padre potesse varcare la porta. La discussione si protrasse per alcuni minuti, Pietro alzò la voce e loro udirono, chiaramente mentre gli ripeteva che non gli avrebbe permesso di entrare perché ubriaco. Rocco non aveva mai udito il nonno così alterato: ― In queste condizioni sei un animale impazzito! Torna quando sarai sobrio e ti farò vedere tuo figlio! Le grida si placarono, si udirono ancora poche parole dette a bassa voce e poi il motore della vespa rombare.  Aldo inserì rumorosamente la marcia e andò via. Rocco ne seguì il rumore mentre si allontanava nella notte, fino a che non fu sparito del tutto.

Da quella sera, Rocco, prima di andare a letto, controllò che le persiane fossero ben chiuse, pensando che il padre sarebbe potuto entrare di notte all’insaputa di Pietro e portarlo via.

 

***

Tornando sul cammino

Mentre io leggevo, numerosi pellegrini passarono salutandoci, altri con la testa bassa provati dal vasto e lungo paesaggio, continuarono per la loro strada senza degnarci uno sguardo. Ovunque si guardasse intorno a noi, si vedevano distese di campi coltivati a grano, interrotti ogni tanto, da alcune aree, coltivate a girasoli. La Meseta era vasta e noiosa, mettiamoci pure stancante. Riprendemmo la strada e con grande fatica raggiungemmo Calzadilla de la Cueza. Il centro rurale, un poco ci delude, poco però, perché dopo una camminata di diciassette chilometri nel nulla, era come trovare un’oasi nel deserto. Sostammo al bar del Municipal, ci dissetammo e dopo aver mangiato un panino, ci appisolammo una mezzora. Quando riprendemmo il cammino, notammo che il paesaggio intorno era sempre uguale a se stesso: campi, grano tagliato, qualche raro albero, che non si sa perché si trovasse lì, quasi fosse un alieno in quel deserto. Superato Ledigos, dopo circa tre chilometri giungemmo a Terradillos de Templaros, a dire il vero ci fermammo almeno un chilometro dal paese, in un Albergue privato, molto attrezzato. Affittammo una stanza con due letti, dopo la doccia Isabella che accusava un forte dolore ai piedi, si fece dare una busta con del ghiaccio e si sdraiò sulla branda. Io mi dedicai al bucato e gli stesi, i vestiti lavati nel giardino dell’albergue, tornai in camera e trovai Isabella addormentata, con la busta del ghiaccio rotta che le aveva allagato il letto. Restammo tutta la sera a cercare d’asciugare i lenzuoli senza riuscirci. Alla fine lei dormì sulla branda con il sacco a pelo. La notte passò in fretta nel silenzio e la solitudine. Il mattino seguente, uscii per fare qualche fotografia al paese che a malapena che in lontananza s’intravedeva con i tetti leggermente infossati in una depressione del terreno. Velato da una leggera foschia, il campanile svettava sopra le case del paese appena visibili tra la nebbia. Quella vista mi diede la sensazione di trovarmi in un luogo magico e chiudendo gli occhi per qualche minuto immaginai il periodo storico cui i templari difendevano questi luoghi. Alcuni pellegrini troppo mattinieri, che sfilavano lungo la strada, picchiettando rumorosamente i bastoncini sull'asfalto, mi distolsero da quella magia riportandomi alla realtà.

***

Sedicesima tappa: El Borgo Ranero

Dopo un’abbondante colazione ci avviammo sul cammino, snocciolando una quantità esagerata di buoni propositi:─oggi faremo più soste, dissi io. Isabella ci tenne a precisare: ─visiteremo più luoghi storici e religiosi. ─porteremo un passo più lento per risparmiare le forze, continuai io. Dialogando e prendendoci in giro, superammo il paese e ci inoltrammo nei campi infiniti. Lungo la strada notammo delle case fatte con il fango e la paglia, (in seguito, un poco leggendo, altro raccontato da qualche pellegrino più informato, comprendemmo che erano costruzioni caratteristiche della zona). Superammo, Moratinos, San Nicolas de Real Cammino, (qui lasciammo la provincia della Palencia ed entrammo in quella di Leon) per quanto caratteristici e pittoreschi, questi paesi li ignorammo e superammo velocemente, fino a raggiungere Sahagun, altra città importante situata lungo il cammino. Sarà perché fino ad allora, eravamo stati tanto in solitudine, ma la modernità e la confusione ci spiazzarono. Scendemmo lungo una strada in discesa e affollata, tra palazzi e testimonianze antiche dei fasti religiosi della città. Vedemmo un arco e una torre resti di un monastero, in seguito ci dissero alcuni pellegrini, come sempre meglio informati di noi, che erano i resti del monastero Di San Benito, in precedenza Abbazia dei Santi Facundo e Primitivo. Prendemmo per buona l’informazione rilasciata in un misto di: Spagnolo, italiano e inglese, salutammo quel gruppo così gentile e passammo in fretta sul Puente Canto. Uscimmo dalla città, troppo caotica per nostra attuale dimensione, non avevamo nessuna fretta di tornare alla frenetica vita di città e in qualche modo ci spaventava la “normalità “. Percorremmo un tratto di strada con un pellegrino spagnolo e lui ci raccontò la leggenda del bosco di pioppi che costeggiava il fiume: questo si dice che si sia formato durante una delle tante battaglie consumate su questa terra, tra cattolici e mussulmani. L’esercito cristiano una sera si accampò in quel luogo, per prepararsi alla battaglia del giorno dopo. Piantarono le loro lance sul terreno, il mattino seguente andando a prelevare le lance per accingersi alla battaglia, trovò le aste di legno interrate il giorno prima che avevano germogliato e ovviamente pensarono a un miracolo. I soldati tagliarono le aste delle lance raso al terreno e da quelle talee, nacque il folto bosco, che noi quel giorno ammiravamo mentre ci dirigevamo verso la prossima meta giornaliera, El Borgo Ranero. Camminammo ancora per un lungo tratto nella campagna solitaria poi, la rotta ci portò a costeggiare la provinciale e in alcuni tratti l’autostrada. Nel punto dove attraversammo un ponte sull’autostrada, alcuni segnali ci confusero e ci portarono fuori la rotta prestabilita. Quando capimmo l’errore, tornammo indietro pensando che alcuni furbi albergatori, ci avessero deviato con segnali ad arte, per condurci verso le loro attività e fuori dal percorso per Santiago. In seguito ci dissero che quella era una strada alternativa al percorso tradizionale, assolvemmo gli albergatori e ci rammaricammo per aver pensato male. Tornando alla tappa, dopo aver ripreso il percorso conosciuto, camminammo su una pista costruita per i pellegrini, e dove gli alberi piantati ai suoi lati erano troppo piccoli perché facessero ombra a sufficienza. Sostammo a Bercianos del Cammino e nell’area d’ombra, Isabella si addormentò ed io approfittai per continuare a leggere lì dove avevo interrotto. Lasciai il giovane Rocco dopo la crisi di nervi, che aveva portato i nonni Pietro e Ada a rivolgersi a uno specialista.

Mani gonfie e calamari

Rocco seguì la cura consigliata dal medico, per molte settimane si recò nel suo studio e in quel periodo (che durò circa un anno) rimase a casa dai nonni. La madre una volta la settimana lo andò a trovare, seppe da lei che il padre aveva iniziato a bere anche più di prima. Ritrovò i suoi amici e la serenità. Un giorno quando tutto sembrava fosse stato dimenticato, il padre di Rocco si presentò a casa di Pietro. Venne con uno strano e grosso camion, non era uno di quelli normali con il cassone per il carico, ma aveva delle cisterne dotate di ossigenatori per mantenere vivo il pesce, in particolare si trattava di trote e anguille.

Dopo quella volta, Aldo venne spesso a casa dei suoi genitori e una sera propose a Rocco di andare con lui a lavorare. Oramai era guarito e un ragazzo di tredici anni doveva guadagnarsi per vivere. Rocco si lasciò alle spalle l’accaduto dell’officina e perdonò il padre inoltre pensò che la responsabilità dell’incidente fosse del vino e non del genitore. Nonostante l’opposizione del nonno, tornò a casa con i genitori e in seguito si trovò a fare il commesso al mercato del pesce. La sveglia trillava alle undici della sera, il rumore del motore che si scaldava parcheggiato sotto la finestra, ricordava al ragazzo che doveva fare in fretta. La settimana iniziava il lunedì sera, sarebbe durata fino il sabato mattina.

La piazza antistante all’antico mercato già era zeppa di camion in attesa di scaricare e caricare la merce. All’apertura dei cancelli un nugolo di uomini si riversava tra i banchi per assicurarsi la merce migliore. In breve le vie interne erano percorse da carrettini strapieni tirati a mano da facchini che urlavano per farsi notare, così la folla si apriva creando un corridoio libero, per poi richiudersi immediatamente dopo il loro passaggio. All’interno le enormi luci al neon facevano brillare il pesce come oggetti d’argento appena lucidati. Rocco con il padre svuotava nelle vasche tra spruzzi e scodate, le trote guizzanti e le viscide anguille, i venditori chiamavano a gran voce gli acquirenti, la frenesia sembrava accelerare a ogni operazione che si svolgeva sotto l’attento controllo degli addetti alla vendita e tonnellate di pesce erano caricate sopra i mezzi dei compratori. Quando finalmente giungeva la mattina e il mercato si svuotava, Rocco rimaneva a scongelare e pulire calamari, facendone quintali di rotelline. Terminato il lavoretto, le mani erano rosse e gonfie come panini. Mentre le autobotti del comune con potenti getti d’acqua laterali, entravano in funzione lavando la strada, lui si avviava verso il camion del padre e non gli restava altro che dormirci dentro attendendo che lui superasse la sbornia.

Quel periodo fu intenso per Rocco, si abituò in fretta alla vita notturna, il giorno oramai era solo un ricordo, le rare volte cui era sveglio, puliva calamari in un magazzino seminterrato a pochi metri dal mercato. Il sole passava attraverso i quadratini della rete messa a protezione delle finestre situate alte vicino al soffitto e quando usciva da quella specie di grotta, saliva sul camion del padre. Durante il viaggio, Rocco resisteva sveglio pochi minuti, giunti a casa, altrettanto velocemente entrava nel letto rimanendoci fino a quando il padre lo chiamava per un'altra notte di lavoro.

Il capo di Aldo, aveva stretto accordi con flotte di pescatori che operavano in due porti della regione, Anzio e Civitavecchia. Una notte ancora prima che finisse il mercato, incaricò Aldo di recarsi presso il porto di Anzio a caricare il pescato. Mentre percorreva la Strada Regionale quarantotto, per restare vigile, provò a intavolare un dialogo con Rocco, ma il ragazzo, dormiva profondamente, fece qualche tentativo per svegliarlo ma ricevette solo mugugni. Nel tratto tra Campo di Carne e Sandalo, (due piccole località lungo la Strada Pontina) Aldo si trovò all’improvviso due mucche che attraversavano la strada. Fece in tempo a frenare per evitarle, ma uscì dalla carreggiata. Il ragazzo sbalzò dal sedile e si fermò sul cruscotto. A parte un grande spavento per fortuna i due non riportarono ferite. Mentre erano lì che fissavano il grosso mezzo inclinato nella cunetta, un uomo uscì dal nulla: ―serve aiuto? Aldo guardò stupito l’uomo, pensando “ma questo da dove è uscito”. Poi con voce mesta:―Si, dovrei tirare fuori il camion, sono atteso al porto di Anzio. L’uomo andò via inghiottito dal buio e tornò poco dopo con trattore e una lampada a petrolio. Scese dal mezzo agricolo, mise tra le mani di Rocco la luce, poi facendosi aiutare da Aldo, assicurò una fune al camion, poi gli chiese di mettere in moto e accelerare quando lui avesse iniziato a tirare con il trattore. Dopo qualche tentativo andato a vuoto, il camion fu rimesso sulla carreggiata. L’uomo riprese la fune e la lampada e stava per andare via. Aldo lo chiamò:―Dove va? Volevo ringraziarla per l’aiuto che ci ha dato! Non si preoccupi, le mucche sono mie, sono dispiaciuto che vi hanno causato l’incidente, è stato più un dovere che un piacere. Aldo rimase per qualche secondo in silenzio, poi salì sul camion e mentre riprese la strada, disse a Rocco: ―questo è proprio matto a lasciare quelle bestie libere, c’è mancato poco che ci ammazzassero. Giunsero al porto in leggero ritardo. Le cassette del pescato erano già impilate sul molo, i pescatori erano impazienti di liberarsi della merce. Non ebbe neanche il tempo di parcheggiare, senza tanti complimenti gli caricarono il camion in fretta e furia lamentandosi del ritardo. Mentre gli uomini armeggiavano con il pescato, Rocco si sfilò dall’attenzione del padre. Affascinato dalle paranze, ormeggiate lungo il molo, iniziò a osservarle una dopo l’altra. Lo attrassero le scritte sulle fiancate, in particolare, ce ne erano due che portavano il nome di sua madre e sua nonna: “Vittoria madre” e “Ada Prima”. Alcuni gabbiani semiaddormentati nell’acqua calma del porto tra un’imbarcazione e l’altra, galleggiavano illuminati dalla fioca luce dei lampioni, che si trovavano lungo la banchina. Iniziò a fantasticare, sognando un lungo viaggio su una nave da pesca, tra spruzzi d’acqua salata, in uno spazio immenso, lontano dal mercato e da quei maledetti calamari, poi il sole e il vento che gli accarezzavano il corpo. Percorse il molo e si allontanò dagli uomini che discutevano con il padre. Le loro voci mentre si allontanò divennero sempre più fievoli, finì con non udirle più. Camminò, tra ammassi di reti, ed enormi nasse per le aragoste. Si arrampicò sull’antimurale e lì seduto, fu avvolto dal silenzioso buio della notte senza luna. Per quanto provasse, non riuscì a distinguere, dove il mare baciasse il cielo, un leggero friggere d’acqua, lambiva gli scogli a un ritmo sempre regolare, in sintonia con il battito del suo cuore. Gli sembrò di sollevarsi da terra tanto si sentì leggero e perse il contatto con il mondo che lo circondava. Aldo lo trovò supino su uno scoglio mentre nel sogno parlava. Per qualche minuto lo ascoltò dire parole per lui senza senso. In particolare parlava con il maiale e con Arturo, con il primo perché se ne stava appeso sul soffitto della stanza a non fare niente, con il secondo si lamentava poiché era un pezzo che non si faceva vedere. Aldo lo fece tornare alla realtà con un leggero calcetto sul gluteo.

―Andiamo svegliati! Dobbiamo rientrare al mercato. I due si avviarono al camion che li attendeva con già il motore acceso e ripresero la strada verso Roma.


 

Per esorcizzare la fatica e devo dire anche la noia di quel tratto che percorremmo, iniziai a “intonare” Azzurro, la canzone scritta da Paolo Conte, portata al successo da Adriano Celentano, dopo un poco che cantavo, Isabella forse per salvare le proprie orecchie, mi chiese: ─come va con il cammino? Hai capito perché lo stai percorrendo? ─Non proprio, a volte mi coinvolge piacevolmente, altre giungo a odiarlo, altre ancora, mi faccio rapire dall’atmosfera e mi sento parte di una colorata tribù, dove si parlano più lingue e tutti si capiscono. Donne e uomini provenienti da ogni parte del mondo che perseguono lo stesso obiettivo, anche se ognuno di loro con uno scopo diverso. Si mi ci trovo bene con loro in questa parte della terra. ─Tu come stai andando? Chiesi io. ─Non molto bene, inizio a vacillare, la fede che mi porta avanti, non sembra essere più sufficiente, non perché sia diminuita! Ci tenne a precisare, poi aggiunse: ─Ma il fisico, inizia a cedere e non so per quanto io riesca a continuare. Ogni giorno è sempre più difficile recuperare lo sforzo della tappa precedente. Mentre mi parlava, pensai ai circa otto chilometri che mancavano alla fine della tappa. Poi, le chiesi: ─programmiamo più soste tra una tappa e l’altra. ─Proviamo, ma le energie che ho lasciato lungo la strada, difficilmente le potrò recuperare. Dopo ogni sosta quando riprendo a camminare sembra che abbia poco più di mezzora d’autonomia. Per distrarla dalla fatica decisi di provare a raccontare un pezzo della storia di Rocco che fece scalpore nel quartiere dove vivevo. ─Ti va di ascoltarmi, magari non ci pensi alla fatica e giunti a El Borgo Ranero, tireremo le somme e decideremo se continuare o abbandonare. ─Proviamo rispose lei.

***

In quel periodo il tempo sfuggiva a Rocco. Il giorno dormiva e la notte lavorava, passò circa un anno e giunse l’estate. In quell’anno non si parlava altro che di Sandro Mazzinghi, il campione del mondo e Nino Benvenuti, la medaglia d’oro alle Olimpiadi del 1960, due dei più grandi campioni del panorama pugilistico italiano. La gente era divisa tra il coraggio e l’aggressività di Mazzinghi e la classe e le buone maniere di Nino Benvenuti. La tristissima vicenda umana, accaduta a Mazzinghi: ” L’anno prima, perse la giovanissima moglie in un incidente d’auto pochi giorni dopo il matrimonio” fece spostare l’ago della bilancia e il consenso degli appassionati di pugilato verso lui. Mazzinghi dimostrò una grande forza d’animo e dopo l’incidente, malgrado non fosse in condizione ottimale, nei diciassette mesi successivi, mise in palio il titolo tre volte, superando prima Tommy Montano a Genova, poi Fortunato Manca a Roma e quel giorno a Milano si scontrò con Nino Benvenuti. I tifosi dei due pugili si erano raggruppati in fazioni e lo scontro iniziò già fuori dal ring, nei bar e per la strada. Mazzinghi, il diciotto Giugno del 1965 allo stadio San Siro perse la corona mondiale andando al tappeto alla sesta ripresa.

Nel bar della piazza quel venerdì, le radioline trasmettevano l’incontro del secolo, il coraggio e la forza, contro la ragione e la tecnica. Gli animi si scaldarono, le tifoserie si fomentarono a tal punto che al minimo contatto vennero alle mani. Tra gli ascoltatori interessati vi era Aldo, mentre Rocco rimasto seduto sul sedile del camion osservava dal finestrino la folla. Alcuni di loro mimavano i colpi raccontati dal cronista e altri si fronteggiavano come se fossero sul ring, altri erano piegati con le mani poggiate sulle ginocchia, fissavano la radiolina collocata in terra. Da sopra il camion a Rocco sembrava di vedere due squadre di rugby che si cimentassero nella mischia. Poi, come se si fossero dati un segnale, parte della mischia alzò le braccia al cielo e si aprì come una margherita che sboccia all’alba, “Sandro Mazzinghi, crollò al tappeto”. Le discussioni presero una brutta piega, alcuni iniziarono a colpirsi, tra loro c’era Aldo. In breve la rissa divenne fuori controllo, i vigili urbani intervennero e provarono a sedarla e ne ebbero la peggio, giunse la macchina della polizia e quando la folla fu diradata, in terra rimasero alcune persone anche il padre di Rocco giaceva sul marciapiede sanguinante. Il figlio saltò dal camion dirigendosi verso lui. Aldo respirava affannosamente, ma di più puzzava d’alcool e biascicava parole incomprensibili. Un poliziotto si avvicinò e gli domandò:─ lo conosci?― È mio padre. Rocco gli disse mentre girò la testa e fissò l’uomo in divisa e aggiunse: ―non sta male è solamente ubriaco.

Il poliziotto fu richiamato dai suoi colleghi, salì sull’auto e mentre questa andò via a tutta velocità, l’agente seguì con lo sguardo Rocco chino sul padre. Quando la piazza si vuotò, il ragazzo si fece dare uno straccio e dell’acqua dal garzone del bar. Pulì il viso di Aldo dal sangue e notò che la ferita al sopraciglio non era profonda, quasi un graffio. Il padre, mentre lui era intento a curarlo, si svegliò, gli tolse lo straccio dalle mani e sollevandosi da terra, lo gettò lontano avviandosi verso il camion senza dire una parola, salì accese il motore e partì lasciando Rocco nella piazza. Il ragazzo tentò di fermarlo, Aldo lo guardò dal finestrino mentre il figlio batteva disperatamente i pugni sullo sportello, accelerò e andò via. Rocco quella sera non tornò a casa, vagò per la città fino a tarda notte, poi si addormentò sulla spiaggia.

***

Dopo numerose soste giungemmo a El Borgo Ranero. La situazione non era delle migliori: Isabella si trascinava piegata dal peso dello zaino e sembrava dare fondo alle ultime forze che le rimanevano. Il paese è circondato da campi non coltivati e in vista delle prime case facciamo un’altra sosta. Poco dopo entrammo nel centro abitato mentre il tramonto iniziava a colorare il cielo di rosso, quell’immagine affascinante e poetica che in altre occasioni ci avrebbe riempito il cuore, non ci fece passare la stanchezza. Nei giardini intorno all’Albergue municipale e nei pressi della chiesa notammo le numerose tende di pellegrini, capimmo che gli ultimi letti a buon mercato disponibili del paese erano già stati occupati. Non perdemmo la speranza e trovammo una camera (molto cara) in una pensione con annesso ristorante. Dopo la doccia, fatto il punto della situazione e valutata la nostra condizione fisica, decidemmo che il mattino dopo, avremmo preso il treno per Leon, (circa trentasette chilometri risparmiati) così avremmo avuto l’occasione di riposare una giornata, prima di riprendere il cammino. Il giorno dopo alla stazione, pensai che Santiago ci avrebbe assolto per questo piccolo cedimento e che non gli servissero altre croci a ricordare la Santità del cammino. Quando giunse il treno, scoprimmo che non eravamo i soli ad aver avuto quell’idea. Questo non ci assolve da quell’innocente peccato anche se motivato dalle nostre difficili condizioni fisiche, però devo riconoscere che un poco mi ha alleggerito l’anima (mal comune mezzo gaudio). Dimenticavo, il motivo del nome del paese che quel giorno si lasciò, Borgo Ranero, paese delle rane: infatti, per tutta la notte il gracidare delle rane, non ci aveva mai abbandonato.

Diciassettesima tappa: Leon(trentasette chilometri in treno)

In poco più di un’ora giungemmo a Leon, a piedi ci avremmo messo, se tutto fosse andato bene, al nostro passo, circa dieci ore. La temperatura non superava i sei gradi, l’abbigliamento non era quello giusto: indossavamo pantaloncini, maglietta termica e un antivento leggerissimo, troppo poco. Sembrava dicembre e non agosto. Come già detto in precedenza, gli spagnoli se la prendono comoda il mattino, i negozi erano ancora chiusi, cercammo un bar come fosse la nostra salvezza.

Attraversammo il ponte sul fiume Bernesga e giungemmo su una piazza la superammo e ci infilammo in un bar, dove i dipendenti erano ancora intenti a fare le pulizie. Uno di loro vedendoci entrare ci disse: ─ peregrinos cerrados! All’incirca ci diceva che era ancora chiuso perché presto, “ erano le nove del mattino”. Chiedemmo se potessimo restare dentro il locale, fino a che i negozi aprissero. Gentilmente ci fecero accomodare e ci portarono un the caldo. La temperatura saliva lentamente, dal bar tenevamo d’occhio una colonnina con il termometro che era al centro della piazza, alle undici quando la città iniziò a prendere vita, segnava quindici gradi. Salutammo i baristi dopo aver fatto un’abbondante colazione e ci mettiamo alla ricerca di un negozio di articoli sportivi, (a Burgos quando spedimmo la roba in eccesso, forse avevamo esagerato, ed eravamo rimasti quasi nudi). Acquistammo una tuta leggera e un maglioncino di pile a testa, pensando che tra non molti chilometri dovevamo affrontare i Montes de Leon. Visitammo la città e i suoi numerosi monumenti, scattando molte foto ricordo. Restammo incantati dalla cattedrale dedicata a Santa Maria de Regia. Partecipammo alla funzione in sostanza sempre con gli occhi rivolti verso l’alto ad ammirare le stupende vetrate, (nell’opuscolo c’è scritto che occupano milleottocento metri quadrati), che in ogni ora del giorno illuminano la chiesa con colori diversi, in un'unica parola: magnifiche! Dopo la funzione uscendo incontrammo Simone il pellegrino con la telecamera e il ragazzo con il ginocchio fuori uso. Quest’ultimo era disfatto e come ci aveva anticipato l’ultima volta che ci vedemmo, avrebbe preso l’aereo per l’Italia il giorno stesso. Come tanti altri che avevamo incontrato sul cammino, anche lui abbandonò per problemi fisici, le ginocchia non gli reggevano più. Simone ci fece l’ennesima intervista per la sua sconosciuta emittente italiana, poi Isabella ed io ci facemmo scattare una bella foto lungo il muro della cattedrale, che pubblico nelle pagine precedenti. Ci sarebbe molto da raccontare di questa bella città, piena di storia e chiese, ma tanto è già stato scritto e descritto da persone più qualificate di me, umilmente lascio a loro la responsabilità, io mi fermo alla sensazione di bellezza che provai nel visitarla. Oltre a tutto quello che ho già scritto, altro c’è da dire che c’eravamo fermati a Leon per riposare e alla fine macinammo chilometri per la città, con il doloroso risultato, che Isabella, avendo messo ai piedi le ciabatte da mare, si ritrovò nuovamente afflitta dalle vesciche e la sera in albergo praticammo il solito rituale, bucare, fare uscire il liquido e lasciare il filo disinfettato per il drenaggio. Dopo la cena, Isabella volle leggere gli appunti del quaderno che ci aveva lasciato Rocco, che ormai da Boadilla del Cammino aveva scelto il cammino solitario, pensai brevemente al nostro ex compagno di viaggio, poi ascoltai la lettura di mia moglie.

***

Rocco da quello che avevamo letto nel capitolo precedente, dopo la rissa in piazza che aveva coinvolto il padre scoppiata alla fine del match tra Mazzinghi e Benvenuti, si trovò nuovamente fuori di casa e si era addormentato sulla spiaggia.

 La fuga di Vittoria

Il sole di giugno bruciava e Rocco fu svegliato da un ragazzo che puliva la sabbia, passandola con una specie di badile con la rete al posto della pala.

―Devi andare via da qui, tra poco arrivano i clienti.  

―Vado, vado, disse, mentre con le mani si proteggeva, gli occhi dal sole. Tutta quella luce lo infastidiva, da molto tempo che non era sveglio durante il giorno. Il mercato, il sotterraneo dove puliva i calamari lo aveva trasformato in un animale notturno. Camminò per ore senza meta sul bagnasciuga, poi si rese conto di essere giunto nei pressi di casa. Stava per attraversare la via litoranea, quando vide il camion del padre, parcheggiare, si nascose dietro il muretto che limitava la spiaggia per non farsi vedere. Aldo ne scese barcollante e poco dopo che era entrato in casa, Rocco vide un gruppetto di persone che ostruiva il portone del palazzo e tra loro la madre farsi largo a colpi di borsa, correre e salire su un’auto, che partì a tutta velocità. La folla si diradò quando Aldo affacciandosi gridò:―andate via! Minacciando con un bastone i presenti. Rocco non ebbe il coraggio di salire in casa, camminò per qualche metro accucciato sotto il muretto e andò via.

Secondo il racconto che fa Rocco su i suoi appunti, quel giorno in casa dei genitori doveva essere andata così.

Aldo aveva ripreso a bere. Quando era in casa, sfogava la sua rabbia su Vittoria e Rocco. Lei trovò rifugio in una relazione con un altro uomo, un certo Sandro, (mai nominato prima negli appunti) con lui si vedeva raramente, per lo più si trattava di frettolosi rapporti sessuali consumati in auto prima di rientrare a casa. Sandro aveva più volte chiesto a Vittoria di lasciare Aldo e andare a vivere insieme. Lei avrebbe voluto mettere fine in modo definitivo alla storia con il marito, ma il pensiero del figlio l’aveva sempre trattenuta da compiere quel passo. Nei suoi pensieri, era già molto tradirlo e quando lo faceva, era una rivincita che si prendeva come acconto per le prepotenze subite. Poi questo non fu più sufficiente, la sera prima del match lui sfogò la sua frustrazione su di lei, per non essere diventato un pugile famoso. Aldo, dopo una lite furibonda, la lasciò sanguinante sul pavimento della cucina. Quando lui uscì con Rocco per andare a lavorare, preoccupata che al suo ritorno la situazione sarebbe peggiorata, chiamò il suo amante e si mise d’accordo per lasciare la casa il mattino presto. Questo coincideva con il giorno successivo all’incontro avvenuto tra Mazzinghi e Benvenuti. L’amante la aspettava sotto casa con l’auto in moto, lei si era attardata per prendere le ultime cose, quando udì la porta d’entrata aprirsi e vide Aldo che barcollava all’ingresso. Lui avanzò sorreggendosi alla parete, l’odore dell’alcool che emanava era pungente, Aldo irriconoscibile e con i vestiti strappati nella rissa, sporco di sangue avanzava nel corridoio gettando in terra tutto quello che lo ostacolasse, poi rovinò sul portariviste e rimase sul pavimento. Vittoria che fino allora era rimasta terrorizzata appiattita alla parete, approfittò del momento e scattò verso l’uscita scavalcandolo agilmente. Aldo tentò di afferrarla, poi prese con una mano un bastone da passeggio, messo lì per bellezza e tentò di colpirla. Lei fece le due rampe di scale in un lampo, mentre Aldo faticosamente la rincorreva. Giunto al portone, la vide andare via a tutta velocità con l’auto dell’amante.

 

Quel giorno quando Vittoria si presentò al lavoro, era ricoperta di lividi, Marcella e le altre colleghe, le chiesero cosa le fosse successo. Lei sedendosi fece un gran respiro e disse: ─finalmente è finita! Questa è stata l’ultima volta che quel bastardo mi ha messo le mani addosso! Poi iniziò silenziosamente a piangere, mentre le altre decisero di lasciarla sfogare e si allontanarono. Marcella rimase accanto a lei, la abbracciò chiedendole se volesse parlarne. ─C’è poco da dire, conosci la mia situazione. Vittoria le disse di Sandro e che era andata a vivere con lui. ─Tu sai come la penso in fatto di uomini, spero che tu abbia fatto la scelta giusta. ─Cosa altro avrei potuto fare? Non lo sopportavo più e per adesso va bene così! In futuro si vedrà. ─Tuo figlio? Le domandò Marcella. ─Questa mattina quando sono fuggita, non era ancora tornato, l’ho atteso fino a tardi, per questo motivo Aldo mi ha trovato ancora in casa quando è rientrato. Dovevi vederlo, un mostro assetato di sangue, con i vestiti strappati, puzzava di vino, sono riuscita a sfuggirgli per miracolo.

A questo punto Isabella smise di leggere e facendo un lungo sospiro, posò il quaderno sulle gambe e rimase in silenzio. Preso dalla sua lettura, gli chiesi di continuare, lei mi consegnò gli appunti di Rocco molto provata e disse: ─continua tu. Presi il quaderno e proseguii a leggere mentre lei si “rilassò” ascoltandomi.

Sfrattato per non aver commesso il fatto

Rocco aveva assistito all’insaputa dei genitori, all’epilogo di quella notte violenta e alla fine della storia tra la madre e il padre. L’accaduto non lo sconvolse più del necessario, iniziò a pensare alla parte positiva che lo interessava: si sentiva libero, avrebbe potuto da allora fare ciò che volesse, in primis si era sdoganato dal mercato e dai calamari, non sentiva il bisogno, né del padre, tanto più della madre. Trovò da dormire presso una signora molto gentile, in cambio di qualche piccolo servizio giornaliero. Lei gli aveva messo a disposizione una cantina, arredata con un lettino e una cassetta di frutta vuota che usava come comodino, per illuminare la stanzetta c’era il lampione del giardino più vicino alla finestrella. La mattina usciva prestissimo avendo cura di non fare rumore per non svegliare gli inquilini, la sera rientrava quando non c’era più nessuno in giro. La signora si era raccomandata di non farsi vedere, non prevedendo quale potesse essere la reazione degli altri condomini, venendo a sapere che lui dormisse nella cantina. Finì l’estate e quell’anno l’inverno fu molto freddo. Rocco si arrangiò con qualche lavoretto e quando non era occupato, iniziò a frequentare i ragazzi sbandati della zona. Ogni tanto gruppi di genitori battevano la zona alla ricerca dei propri figli a volte proseguivano per tutta la notte. Questi sbandati avevano formato una banda e commettevano piccoli reati, rivendendo la merce rubata a persone senza scrupoli. Durante una scorribanda due di questi mariuoli per sfuggire alla polizia s’infilò nel corridoio delle cantine, dove dormiva Rocco. Nella retata che portò alla cattura dei ladruncoli, gli agenti presero anche lui. Portati al commissariato, furono tradotti tutti nel Carcere minorile di Roma.

Consegnarono Rocco gli altri alle cure degli agenti di custodia, furono tenuti in isolamento per un giorno e una notte. La cella dove era costretto il giovane era piccola: una finestrella con le sbarre e per arredamento un letto. Il mattino seguente Rocco fu interrogato dal giudice di sorveglianza, e il giovane riuscì a dimostrare la sua innocenza. Dopo la perquisizione nella cantina e appurata l’estraneità ai fatti, fu rilasciato. Il giorno del rilascio essendo lui minorenne, fu consegnato a Pietro. Il nonno non gli chiese niente dell’accaduto, si avviarono verso la stazione e una volta sul treno rimasero in silenzio uno accanto all’altro. Giunti alla stazione del lido, quando le porte si aprirono, Rocco fuggì. Pietro in un primo momento pensò di corrergli dietro, desistette vedendolo sparire tra la gente che affollava la stazione. Rocco vagò un po’ nei pressi della stazione, poi si diresse verso il luogo, dove era la cantina. Trovò la signora che lo ospitava seduta su una sedia, davanti al portone d’entrata.

―Buongiorno signora, dovrei prendere delle cose in cantina. Lei non si mosse dalla sedia e gli disse:

―Mi dispiace tu non puoi più entrare, dopo quel che è successo, non posso più farti dormire qui. Rocco un poco se lo aspettava, ma aveva sperato che la signora avesse compreso che lui era innocente.

―Le mie cose le posso prendere? Lei portò la mano dietro la sedia e ne colse due buste.

―Questo è tutto quello che è tuo, prendilo e … buona fortuna. Il ragazzo non disse una parola afferrò le buste, si girò e andò via.

***

Dopo aver letto questa parte del quaderno Isabella ed io, stentavamo a prendere sonno. Ci vestimmo e uscimmo dall’albergo che era adiacente alla cattedrale. La strada era affollata a differenza del mattino quando eravamo giunti a Leon. Gli spagnoli i turisti e i pellegrini, gremivano i bar e passeggiavano per la città. Restammo seduti ai piedi della magnifica chiesa, a osservare la vita notturna che era in piena attività per circa un’ora. Poi, decidemmo che era meglio andare a riposare perché il giorno seguente la tappa programmata sarebbe stata dura: circa trentadue chilometri. Mentre rientravamo in albergo, gli domandai se mai avremmo rivisto Rocco prima di Santiago. Dopo qualche secondo di silenzio lei disse: ─se lo rivedremo non lo so, in compenso rimarrà per molto tempo nei nostri pensieri. Pensai a quello che aveva detto Isabella, facendo mio quel pensiero, poi le dissi:─ il quaderno degli appunti che ha lasciato, l’ha fatto entrare nella nostra vita e ormai non è solo un occasionale compagno di viaggio scomparso improvvisamente, lo penso con nostalgia, quasi fosse un parente che vive lontano. In silenzio rientrammo in albergo e ci addormentammo quasi subito.

Diciottesima tappa: Hospital de Orbigo

Il mattino seguente per uscire da Leon fu quasi un’impresa, attraversammo il ponte sul fiume e dopo esserci persi più volte nella periferia, finalmente verso le sette, trovammo la conchiglia (pensai che fossimo proprio degli incapaci, la città di segnali ne era piena) che segnava il cammino. La seguimmo fino a addentrarci in un paesaggio simile a quello delle meseta: il Paramo. Salimmo gradualmente a circa novecento metri e giungemmo dopo circa due ore a Virgen del Cammino, Santuario dedicato a Maria, dove Isabella volle fermarsi per recitare una preghiera. Proseguimmo in solitario, sempre contornati dalla campagna, gli immancabili saliscendi (nonostante la mappa ci segnasse solo una leggerissima salita). Ricordo poco del paesaggio, pagavo il fatto, che la sera prima, rimasi sveglio fino a tardi. Camminavo con la testa penzoloni, guardavo i piedi andare avanti e dietro, senza pensare alla distanza che rimaneva da percorrere, quasi ipnotizzandomi a quel dondolamento. Giungemmo e superammo, Valverde de la Virgen, sostammo nel paese successivo; Villadangos del Paramo. Nel tratto che percorremmo e anche in quello successivo, vedemmo per la prima volta le cicogne e i loro grandi nidi, costruiti tra le aperture di campanili, probabilmente fuori uso e pochi pellegrini. Dopo sei ore di cammino dalla partenza, uno dei rari pellegrini, ci spiegò che la scarsa presenza dei camminatori sul quel tratto, era che avevamo scelto la variante più solitaria della tappa, attraverso le campagne del Paramo per raggiungere Hospital de Orbigo, la nostra prossima meta. 


 

Passarono circa dieci mesi da quando Rocco fuggì da casa. Dopo il periodo ospitato dalla signora che gli aveva messo a disposizione la cantina e dopo il fattaccio: arresto e conseguente sfratto, Rocco aveva dormito ovunque gli capitasse, accompagnandosi spesso con dei senzatetto, che già avvezzi alla vita di strada, sbarcavano il lunario chiedendo l’elemosina nei pressi della stazione e la sera si accampava nei giardini adiacenti a questa. Quel giorno gironzolava per la cittadina, riflettendo sul fatto che nessuno lo avesse cercato per tutto quel tempo e che all’uscita del carcere, ci fosse stato solo Pietro ad aspettarlo. Se pur in un primo momento dopo il giorno della fuga da casa il fatto che nessuno lo cercasse gli fece piacere, ora sentiva il bisogno che qualcuno si occupasse di lui. Senza rendersene conto e quasi inconsciamente, si recò verso casa, giunto sulla piazza rimase lì a osservare se vedesse la madre o il padre. Il primo lo ricordava barcollante entrare nel portone, la seconda correre con una borsa in mano e fuggire in auto a tutta velocità. Da allora non ebbe più notizie di loro, a dire il vero lui aveva cercato di non saperne più. Giunta la sera si avvicinò alla finestra che dava sulla strada, si agganciò alla soglia di marmo che sporgeva per pochi centimetri, si tirò su e sbirciò attraverso i forellini della serranda. Le persone che Rocco vide dentro casa non erano i suoi genitori. Il giovane rimase per qualche minuto a spiare la giovane coppia, condividendone per un po’ la loro intimità, poi silenziosamente si calò sul marciapiede e restò accovacciato sotto la finestra pensando che ormai lì non c’era più niente da cercare. Girovagò per circa un’ora in zona, poi si fermò su una panchina della piazza. Erano i primi giorni di maggio, la sera ancora rinfrescava, era lì rannicchiato con le buste che gli servivano da cuscino sotto il capo, quando un uomo si sedette accanto a lui. Pur essendosi osservati con cura per almeno mezzora, i due non si rivolsero la parola. Fu lo sconosciuto a rompere il silenzio:―Che cosa fai qui a quest’ora? Non possiedi una casa? Rocco quasi non sentì quello che disse quell’uomo. Seguiva con curiosità un gruppo di giovani, probabilmente reduci da una festa che facevano un gran baccano all’altro lato della piazza. Il gruppo guardò dalla parte, dove erano seduti i due, uno si staccò dagli altri e barcollando si avvicinò. Quando gli fu abbastanza vicino, iniziò a offenderli chiamandoli: “Sporchi barboni”, l’uomo accanto a Rocco si alzò e lo fermò mentre il giovane ubriaco sembrava volesse colpirli. Gli amici del giovane aggressore intervennero bloccandolo e mentre lo allontanava si scusò del suo comportamento e subito dopo ripresero a fare baccano e andarono via. L’uomo li seguì con lo sguardo fino a che sparirono alla fine della strada. L’uomo rimase ancora qualche secondo poi senza salutarlo fece per andarsene e mentre si allontanava Rocco gli gridò:

―Ehi! Comunque se proprio lo vuoi sapere? Sono un senza tetto, un barbone, avevano ragione quei ragazzi! Una volta i miei abitavano al primo piano di quel palazzo e ora ci abita una coppia che non conosco.

Lo sconosciuto si girò e disse: ―Tu sei il figlio di Aldo? Tua madre si chiama Vittoria?

―Si, li conosci? Gli chiese Rocco mentre sistemava le buste sotto la testa.

―Tuo padre è da qualche tempo che non si vede in piazza, tua madre lo sai che vive a Roma con un altro? Lo sapevi che ha lasciato tuo padre?

―Quante domande! Non so’ niente, rispose stizzito Rocco.

―Scusami io pensavo che volessi qualche notizia sui tuoi genitori! Non prendertela.

―Non ti preoccupare sono abituato, è un po’ che le cose non vanno bene, quindi mi altero facilmente. Poi Rocco si girò e aggiustando le buste sulla panchina si preparò per la notte.

―Dormi qui? Gli chiese lo sconosciuto. ―Vedi un’altra soluzione? Dormo sulla panchina oppure cammino per il lungomare … meglio dormire.

―Ogni modo se vuoi, per questa notte puoi venire a casa mia.

―Non ti preoccupare, mi sta bene qui, buonanotte e grazie per l’offerta. L’uomo preferì non insistere e se ne andò perplesso pensando al suo carattere scontroso. Rocco la mattina si alzò completamente bagnato, durante la notte l’umidità si poté tagliare con il coltello. Nonostante il sole fosse già alto, ancora c’era in lontananza un poco di foschia che stentava a dissolversi. Vagò per le vie del quartiere senza meta, poi si diresse verso la casa della nonna materna Lucia, “la maga”.

***

La sosta era finita, insieme a un gruppo di pellegrini, lasciammo Villadangos del Paramo. Giungemmo a San Martin del Campo e dopo una piccola sosta, percorremmo un tratto di circa otto chilometri e finalmente vedemmo il ponte che immetteva a Hospital de Orbigo. Ogni luogo toccato dal cammino ha la sua leggenda, solitamente verte su questioni religiose. I protagonisti ricorrenti sono in primis l’Apostolo Giacomo (Santiago) da cui prende nome il lungo pellegrinaggio, poi in sequenza sul tragitto, Santo Domingo de La Calzada, San Juan de Ortega, San Nicolas e poi su tutti La Vergine Maria, confermando che questo innanzitutto è un pellegrinaggio Mariano. Hospital de Orbigo a parte il nome, che testimonia la sua antica propensione ad accogliere i pellegrini che si ammalavano lungo il cammino, la leggenda che lo rende famoso, riguarda una questione d’onore. Andiamo per ordine; il ponte è di origine romana, andato distrutto e poi ricostruito in epoca medievale. Il Puente de Orbigo è lungo circa trecento metri, con le sue venti navate è il ponte più esteso che si trova sul cammino. Veniamo alla questione d’onore: il cavaliere Suero de Quinosa per difendere il suo onore infangato, per una vicenda amorosa, decise insieme a un drappello di uomini, di sfidare per un mese ogni cavaliere che passasse per il ponte. Si racconta che furono circa trecento. Per la riuscita dell’impresa invocò la protezione dell’Apostolo Giacomo. Superata con successo la sfida, in seguito per ringraziare l’Apostolo, si recò in pellegrinaggio a Santiago de Compostela. Secondo le cronache del paese, questo accadde nell’anno 1434 e da allora questo ponte è chiamato: Paso honroso.

A Hospital de Orbigo alloggiamo in un Albergue privato, quella volta per scelta e non per necessità. Quando entrammo nel paese, avevamo notato una grande piscina. Fatta la doccia, ci recammo nel centro sportivo adiacente all’Albergue, ci sdraiammo bordo vasca con l’intenzione in seguito di fare una nuotata. Quando decidemmo d’entrare in acqua, la sorpresa fu glaciale tanto era fredda. Ci accontentammo di lasciare i piedi a mollo fino a sera. Dopo cena, ormai era un rito, con una birra in mano ci sedevamo fuori a leggere gli appunti del quaderno di Rocco.

Pratiche pagane e fede religiosa

Avevamo lasciato Rocco che girovagando si trovò davanti alla casa della nonna materna Lucia la maga. Vi giunse nell’ora che lei di solito riposava sulla sedia sgangherata all’ingresso della baracca. Santino (il nonno materno) aveva il suo da fare con le sarde da salare. Quando i due videro Rocco giungere con il suo bagaglio di buste sulle spalle. Lucia sorpresa da quella visita gli andò incontro mentre Santino gli rivolse una rapida occhiata salutandolo con un lieve cenno del capo e continuò a salare le acciughe. L’odore del pesce era fortissimo, si mischiava con quello delle trecce d’aglio che pendevano fuori dalla porta a seccare, queste ricordavano quelle lunghissime di Lucia. Rocco entrò in casa accompagnato dalla nonna, i due passarono accanto alle Madonne luminescenti, dove Lucia come sempre s’inchinava. Lo fece accomodare dentro la cucina strettissima e intasata dal pentolame. ―Come mai questa visita? Non sei mai venuto a trovarmi, ti ho subito riconosciuto perché assomigli tanto a tua madre, con questi capelli lunghi e neri, sembri una femmina. Rocco raccontò gli avvenimenti che lo avevano coinvolto, la nonna lo ascoltò con molta attenzione e mentre teneramente lo abbracciò, gli disse: ─so io cosa bisogna fare per te! Lucia andò via per qualche minuto, tornando poco dopo con un piatto e una bottiglietta di olio, posò il tutto sul tavolo. Prese delle candele e le sistemò accese davanti a Rocco. Il giovane frastornato da tutto quell’armeggiare della maga tentò di alzarsi dalla sedia e andare via. ─Fermo! Non ti alzare! Gli ordinò la maga e sparì di nuovo, al suo ritorno aveva tra le mani un’ampolla con l’acqua santa e rivolgendosi al giovane gli disse: ─ora prega con me. Rocco confuso iniziò a recitare un’Ave Maria, mentre gli spruzzò gocce di acqua su tutto il corpo, recitò con lui l’orazione. Finita la preghiera, la nonna prese il piatto lo riempì di acqua benedetta, aggiunse due gocce di olio e passandolo sopra le candele riprese a pregare, fino a che le gocce attraendosi si unirono tra loro. A quel punto tirò fuori una medaglia con raffigurata l’immagine della Madonna, la immerse nel liquido e la portò sopra la testa del ragazzo e continuò a pregare e cantilenare in dialetto pugliese. Lucia toccò più volte con l’immagine sacra Rocco e quando terminò, l’orazione gliela infilò al collo e gli raccomandò:─non toglierla mai.

Rocco non fece resistenza a quella pratica, metà tra la superstizione e la fede cristiana, lui non credeva molto nella sua efficacia, pensò che certamente non sarebbe stato sufficiente un poco d’acqua e dell’olio a sistemare le cose. In ogni modo la convinzione e la tenerezza cui la vecchia se ne occupò lo commosse e la lasciò fare.

― Grazie nonna, io però ho bisogno di un letto per dormire. ―Puoi dormire qui da me fino a quando non trovi meglio, vieni ti faccio vedere dove. Lo portò nella stanza che era stata ricavata da una parte del corridoio dividendolo con una tenda. Rocco si stese sul lettino e si addormentò. Si svegliò il pomeriggio inoltrato, circondato da trecce d’aglio, mazzetti di peperoncino e barattoli d’acciughe sotto sale con il nonno che gli passava accanto al letto, essendo quello un posto utilizzato da magazzino e di passaggio per andare in cucina. Ci mise un po’ a realizzare dove si trovasse, poi gli tornarono alla mente gli scongiuri fatti la mattina dalla nonna e strinse tra le mani la medaglietta che gli aveva dato. Giorno dopo giorno da quando arrivò a casa di Lucia, Rocco divenne sempre più silenzioso, erano rare le volte che interagisse con i nonni, e quelle poche furono quando Lucia gli chiedeva di pregare con lei. Spesso i due vecchi lo udivano parlare dietro la tenda stando seduto sul letto. ―Questo benedetto ragazzo parla continuamente con i fantasmi. Poi le cose con il passare del tempo si complicarono. Quando i nonni erano in casa, rimaneva a letto, durante la notte si alzava per mangiare mentre loro dormivano, poi usciva per rientrare prima dell’alba. Non si sa bene cosa facesse durante le uscite notturne, ma andò così per alcune settimane. Il due giugno Festa della Repubblica, la maggior parte della gente, era in fermento per recarsi a Roma ad assistere alla sfilata. Alcuni aerei decollarono da Pratica di Mare e sorvolando la casa, produssero un rumore così forte da far tremare le mura, le statuine sacre e le ampolline con l’acqua santa. Da dietro la tenda, Rocco apparve ai nonni terrorizzato scalzo e seminudo. Percorse il corridoio dirigendosi verso l’uscita, passò davanti a Lucia mormorando:─vieni Arturo, vieni con me, corri! Lucia tentò di fermarlo ma lui si divincolò dandole uno spintone e guadagnò l’aria aperta. Le persone che percorrevano la strada verso la stazione degli autobus, videro il ragazzo correre in mutande facendo lo slalom tra i passanti. Alcuni intimoriti si fecero da parte dandogli spazio, altri lo colpirono con quello che avevano tra le mani, giornali, bastoni da passeggio, borsette, fino a quando lui crollò a terra, assumendo la posizione fetale sull’asfalto. Lucia e Santino finalmente lo raggiunsero, allontanando gli aggressori lo protessero con una coperta.

―Portatelo al manicomio! Questo è tutto matto! Si udì gridare dalla folla che si era adunata intorno a loro.

―Lasciatelo perdere sarà malato! Qualcuno ribatté. Alcuni ragazzi gli urlarono contro:―scemo, scemo, scemo.

Da qualche tempo ormai i tre erano al centro della strada, quando finalmente giunse un’autoambulanza, ne scesero due infermieri, parlarono con Lucia e Santino, mentre un altro diradò la folla.

―Via, non c’è niente da vedere, spingendoli in malo modo, poi arrivò un’auto della polizia e gli agenti fecero un cordone di sicurezza intorno al ragazzo. Rocco in seguito a quell’episodio, fu ricoverato nel reparto psichiatrico dell'ospedale san Camillo e rimase lì per circa quattro mesi: la diagnosi fu attacco di panico. Durante la permanenza in ospedale lui dichiarò di sentirsi bene e di non ricordare nulla dell’accaduto. Quando fu dimesso e tornò a casa di Lucia, la vita riprese come se niente fosse accaduto, fino a quando iniziò a frequentare alcuni ragazzi che si riunivano nel parco. Nella parte più isolata di questo, si ritrovavano per usare stupefacenti. Per procurarsene giunsero a commettere piccoli furti nella zona, alcuni si prostituivano, altri rubacchiavano nelle proprie case oggetti di valore per pagarsi le anfetamine. Rocco dopo un breve periodo iniziò a drogarsi. Questo gli procurò la sensazione di poter affrontare qualunque cosa, quel disagio che da anni lo assillava, spariva nel momento che s’iniettava la sostanza, “nulla lo poteva più fermare”. Dalle anfetamine all’eroina il passo fu breve. Fu così che visse allo sbando per due anni. Un giorno durante una crisi d’astinenza, per procurarsi i soldi per l’eroina s’introdusse in un appartamento, dove fu sorpreso dai proprietari mentre ne usciva dalla finestra. Lo catturarono senza che lui facesse resistenza. All’arrivo delle forze dell’ordine riuscì a dire poche parole: ―Finalmente, non ne potevo più. Passò un mese nell’infermeria del carcere, dove lo imbottirono di calmanti, poi lo trasferirono al reparto, in una cella con quattro ragazzi della sua età. I giorni passarono tutti uguali, la mattina la colazione la consumava nel refettorio, dove i detenuti si radunavano anche per il pranzo e la cena. Molti dei giovani avevano appena compiuto i quattordici anni, i più grandi non avevano ancora il diciottesimo anno di età. Chi avesse superato questa soglia d’età, sarebbe stato trasferito a Regina Coeli. Rocco era già stato al San Michele, fu quando lo prelevarono nella cantina il giorno della retata e vi passò una notte, poi fu prosciolto e rilasciato, per non aver commesso il fatto.

Il cortile adibito all’ora d’aria era circondato da un alto muro e alcuni detenuti passeggiavano avanti e indietro parlottando tra loro, altri formavano dei gruppetti distribuiti nei vari angoli, tenendosi a distanza da quelli che sembravano essere i capi. Questi ultimi vessavano a turno quelli apparivano più indifesi. Gli agenti di custodia non intervenivano quasi mai, se non per sequestrare oggetti che a loro sembrassero pericolosi. Quel primo giorno in carcere Rocco si scontrò con la violenza di uno dei capi. Il malandrino apostrofò Rocco in malo modo, chiedendogli di scambiare le scarpe con lui, al suo rifiuto questo lo colpì mandandolo a terra. Immediatamente come se la cosa fosse già stata prestabilita, si formò un circolo intorno ai due, Rocco nel rialzarsi mulinò un colpo alla cieca e il prepotente cadde come fulminato e poi fuggì nell’altro lato del cortile e osservò intimorito il ragazzo atterrato da lontano. Vide alcuni ragazzi sorreggere il prepotente che barcollava, quando fu in grado di stare dritto con le sue gambe si diresse verso Rocco e quando giunse abbastanza vicino, gli sussurrò: ― non è finita qui.

Quella sera, dopo la cena, parlava con i compagni di cella del fatto accaduto nel cortile, quando udirono la chiave girare nella serratura della porta. Due agenti spalancarono la porta e fecero uscire i compagni di Rocco introducendo due ragazzi, uno di questi era quello del cortile. Quando le guardie carcerarie lasciarono i due soli con Rocco, questi senza dirgli una parola iniziarono a colpirlo. Lui si rannicchiò sulla branda, dopo i primi dolorosi colpi ricevuti non sentì più niente e rimanendo fermo pensò: “alla fine si stancheranno”.  Ci vollero almeno quindici minuti perché questo accadesse. Quando smisero di colpirlo, uno dei due bussò alla porta e gli agenti vennero ad aprire. Mentre i due uscirono, Rocco si alzò dalla branda, allargò le braccia e come se lo avessero crocefisso, si mostrò impavido agli aggressori in segno di sfida e gli disse:―sono ancora qui, avete già finito? I due fecero per tornare indietro a terminare la punizione. Furono fermati dagli agenti, mentre Rocco fece due passi avanti fissandoli dritti negli occhi. Il giorno seguente Rocco cercò l’aggressore nei vari luoghi dell’istituto e domandò, dove fosse a ognuno che incontrò. Poi gli dissero che era stato trasferito con il suo complice a Regina Coeli, perché ormai diciottenni. Passarono molti mesi prima che il giudice valutò la sua condizione e agli inizi di aprile dell'anno successivo, gli concesse la libertà provvisoria. La liberazione arrivò appena in tempo, “avrebbe compiuto diciotto anni dopo qualche giorno”. All’uscita dall’istituto, trovò ad attenderlo Lucia e Vittoria. Rocco rimase stupito dalla presenza della madre e per qualche secondo gli passarono nella mente come in un film, quegli anni passati sulla strada. Vorticosamente gli si accavallarono i brevi momenti spensierati dell’infanzia e la brutale follia del padre. L’ultimo ricordo che aveva della madre era quando la vide fuggire con l’amante, lasciandolo solo a scegliere se convivere con la pazzia di Aldo o la solitudine della strada. Ormai Rocco spogliato dell’innocenza si era vestito con la scorza dura di chi utilizza ogni mezzo per sopravvivere, aveva rimosso l’amore, quello era una faccenda che non gli apparteneva più. Si avvicinò alla nonna, la abbracciò, poi si allontanò senza guardare la madre, stringendo tra le mani la medaglietta con l’effige della Madonna e pensando al rito propiziatorio di Lucia quando gliela donò. Le due donne lo videro scuotere la testa e lo udirono sussurrare: ―non è stata colpa della maga, magari lei ci ha provato, ma con me non ha funzionato. Vittoria non ebbe il coraggio di fermarlo, lo accompagnò con lo sguardo, fino a vedergli attraversare il Tevere sul Ponte Sublicio.


 

Per esorcizzare la fatica e devo dire anche la noia di quel tratto che percorremmo, iniziai a “intonare” Azzurro, la canzone scritta da Paolo Conte, portata al successo da Adriano Celentano, dopo un poco che cantavo, Isabella forse per salvare le proprie orecchie, mi chiese: ─come va con il cammino? Hai capito perché lo stai percorrendo? ─Non proprio, a volte mi coinvolge piacevolmente, altre giungo a odiarlo, altre ancora, mi faccio rapire dall’atmosfera e mi sento parte di una colorata tribù, dove si parlano più lingue e tutti si capiscono. Donne e uomini provenienti da ogni parte del mondo che perseguono lo stesso obiettivo, anche se ognuno di loro con uno scopo diverso. Si mi ci trovo bene con loro in questa parte della terra. ─Tu come stai andando? Chiesi io. ─Non molto bene, inizio a vacillare, la fede che mi porta avanti, non sembra essere più sufficiente, non perché sia diminuita! Ci tenne a precisare, poi aggiunse: ─Ma il fisico, inizia a cedere e non so per quanto io riesca a continuare. Ogni giorno è sempre più difficile recuperare lo sforzo della tappa precedente. Mentre mi parlava, pensai ai circa otto chilometri che mancavano alla fine della tappa. Poi, le chiesi: ─programmiamo più soste tra una tappa e l’altra. ─Proviamo, ma le energie che ho lasciato lungo la strada, difficilmente le potrò recuperare. Dopo ogni sosta quando riprendo a camminare sembra che abbia poco più di mezzora d’autonomia. Per distrarla dalla fatica decisi di provare a raccontare un pezzo della storia di Rocco che fece scalpore nel quartiere dove vivevo. ─Ti va di ascoltarmi, magari non ci pensi alla fatica e giunti a El Borgo Ranero, tireremo le somme e decideremo se continuare o abbandonare. ─Proviamo rispose lei.

***

In quel periodo il tempo sfuggiva a Rocco. Il giorno dormiva e la notte lavorava, passò circa un anno e giunse l’estate. In quell’anno non si parlava altro che di Sandro Mazzinghi, il campione del mondo e Nino Benvenuti, la medaglia d’oro alle Olimpiadi del 1960, due dei più grandi campioni del panorama pugilistico italiano. La gente era divisa tra il coraggio e l’aggressività di Mazzinghi e la classe e le buone maniere di Nino Benvenuti. La tristissima vicenda umana, accaduta a Mazzinghi: ” L’anno prima, perse la giovanissima moglie in un incidente d’auto pochi giorni dopo il matrimonio” fece spostare l’ago della bilancia e il consenso degli appassionati di pugilato verso lui. Mazzinghi dimostrò una grande forza d’animo e dopo l’incidente, malgrado non fosse in condizione ottimale, nei diciassette mesi successivi, mise in palio il titolo tre volte, superando prima Tommy Montano a Genova, poi Fortunato Manca a Roma e quel giorno a Milano si scontrò con Nino Benvenuti. I tifosi dei due pugili si erano raggruppati in fazioni e lo scontro iniziò già fuori dal ring, nei bar e per la strada. Mazzinghi, il diciotto Giugno del 1965 allo stadio San Siro perse la corona mondiale andando al tappeto alla sesta ripresa.

Nel bar della piazza quel venerdì, le radioline trasmettevano l’incontro del secolo, il coraggio e la forza, contro la ragione e la tecnica. Gli animi si scaldarono, le tifoserie si fomentarono a tal punto che al minimo contatto vennero alle mani. Tra gli ascoltatori interessati vi era Aldo, mentre Rocco rimasto seduto sul sedile del camion osservava dal finestrino la folla. Alcuni di loro mimavano i colpi raccontati dal cronista e altri si fronteggiavano come se fossero sul ring, altri erano piegati con le mani poggiate sulle ginocchia, fissavano la radiolina collocata in terra. Da sopra il camion a Rocco sembrava di vedere due squadre di rugby che si cimentassero nella mischia. Poi, come se si fossero dati un segnale, parte della mischia alzò le braccia al cielo e si aprì come una margherita che sboccia all’alba, “Sandro Mazzinghi, crollò al tappeto”. Le discussioni presero una brutta piega, alcuni iniziarono a colpirsi, tra loro c’era Aldo. In breve la rissa divenne fuori controllo, i vigili urbani intervennero e provarono a sedarla e ne ebbero la peggio, giunse la macchina della polizia e quando la folla fu diradata, in terra rimasero alcune persone anche il padre di Rocco giaceva sul marciapiede sanguinante. Il figlio saltò dal camion dirigendosi verso lui. Aldo respirava affannosamente, ma di più puzzava d’alcool e biascicava parole incomprensibili. Un poliziotto si avvicinò e gli domandò:─ lo conosci?― È mio padre. Rocco gli disse mentre girò la testa e fissò l’uomo in divisa e aggiunse: ―non sta male è solamente ubriaco.

Il poliziotto fu richiamato dai suoi colleghi, salì sull’auto e mentre questa andò via a tutta velocità, l’agente seguì con lo sguardo Rocco chino sul padre. Quando la piazza si vuotò, il ragazzo si fece dare uno straccio e dell’acqua dal garzone del bar. Pulì il viso di Aldo dal sangue e notò che la ferita al sopraciglio non era profonda, quasi un graffio. Il padre, mentre lui era intento a curarlo, si svegliò, gli tolse lo straccio dalle mani e sollevandosi da terra, lo gettò lontano avviandosi verso il camion senza dire una parola, salì accese il motore e partì lasciando Rocco nella piazza. Il ragazzo tentò di fermarlo, Aldo lo guardò dal finestrino mentre il figlio batteva disperatamente i pugni sullo sportello, accelerò e andò via. Rocco quella sera non tornò a casa, vagò per la città fino a tarda notte, poi si addormentò sulla spiaggia.

***

Dopo numerose soste giungemmo a El Borgo Ranero. La situazione non era delle migliori: Isabella si trascinava piegata dal peso dello zaino e sembrava dare fondo alle ultime forze che le rimanevano. Il paese è circondato da campi non coltivati e in vista delle prime case facciamo un’altra sosta. Poco dopo entrammo nel centro abitato mentre il tramonto iniziava a colorare il cielo di rosso, quell’immagine affascinante e poetica che in altre occasioni ci avrebbe riempito il cuore, non ci fece passare la stanchezza. Nei giardini intorno all’Albergue municipale e nei pressi della chiesa notammo le numerose tende di pellegrini, capimmo che gli ultimi letti a buon mercato disponibili del paese erano già stati occupati. Non perdemmo la speranza e trovammo una camera (molto cara) in una pensione con annesso ristorante. Dopo la doccia, fatto il punto della situazione e valutata la nostra condizione fisica, decidemmo che il mattino dopo, avremmo preso il treno per Leon, (circa trentasette chilometri risparmiati) così avremmo avuto l’occasione di riposare una giornata, prima di riprendere il cammino. Il giorno dopo alla stazione, pensai che Santiago ci avrebbe assolto per questo piccolo cedimento e che non gli servissero altre croci a ricordare la Santità del cammino. Quando giunse il treno, scoprimmo che non eravamo i soli ad aver avuto quell’idea. Questo non ci assolve da quell’innocente peccato anche se motivato dalle nostre difficili condizioni fisiche, però devo riconoscere che un poco mi ha alleggerito l’anima (mal comune mezzo gaudio). Dimenticavo, il motivo del nome del paese che quel giorno si lasciò, Borgo Ranero, paese delle rane: infatti, per tutta la notte il gracidare delle rane, non ci aveva mai abbandonato.

Diciassettesima tappa: Leon(trentasette chilometri in treno)

In poco più di un’ora giungemmo a Leon, a piedi ci avremmo messo, se tutto fosse andato bene, al nostro passo, circa dieci ore. La temperatura non superava i sei gradi, l’abbigliamento non era quello giusto: indossavamo pantaloncini, maglietta termica e un antivento leggerissimo, troppo poco. Sembrava dicembre e non agosto. Come già detto in precedenza, gli spagnoli se la prendono comoda il mattino, i negozi erano ancora chiusi, cercammo un bar come fosse la nostra salvezza.

Attraversammo il ponte sul fiume Bernesga e giungemmo su una piazza la superammo e ci infilammo in un bar, dove i dipendenti erano ancora intenti a fare le pulizie. Uno di loro vedendoci entrare ci disse: ─ peregrinos cerrados! All’incirca ci diceva che era ancora chiuso perché presto, “ erano le nove del mattino”. Chiedemmo se potessimo restare dentro il locale, fino a che i negozi aprissero. Gentilmente ci fecero accomodare e ci portarono un the caldo. La temperatura saliva lentamente, dal bar tenevamo d’occhio una colonnina con il termometro che era al centro della piazza, alle undici quando la città iniziò a prendere vita, segnava quindici gradi. Salutammo i baristi dopo aver fatto un’abbondante colazione e ci mettiamo alla ricerca di un negozio di articoli sportivi, (a Burgos quando spedimmo la roba in eccesso, forse avevamo esagerato, ed eravamo rimasti quasi nudi). Acquistammo una tuta leggera e un maglioncino di pile a testa, pensando che tra non molti chilometri dovevamo affrontare i Montes de Leon. Visitammo la città e i suoi numerosi monumenti, scattando molte foto ricordo. Restammo incantati dalla cattedrale dedicata a Santa Maria de Regia. Partecipammo alla funzione in sostanza sempre con gli occhi rivolti verso l’alto ad ammirare le stupende vetrate, (nell’opuscolo c’è scritto che occupano milleottocento metri quadrati), che in ogni ora del giorno illuminano la chiesa con colori diversi, in un'unica parola: magnifiche! Dopo la funzione uscendo incontrammo Simone il pellegrino con la telecamera e il ragazzo con il ginocchio fuori uso. Quest’ultimo era disfatto e come ci aveva anticipato l’ultima volta che ci vedemmo, avrebbe preso l’aereo per l’Italia il giorno stesso. Come tanti altri che avevamo incontrato sul cammino, anche lui abbandonò per problemi fisici, le ginocchia non gli reggevano più. Simone ci fece l’ennesima intervista per la sua sconosciuta emittente italiana, poi Isabella ed io ci facemmo scattare una bella foto lungo il muro della cattedrale, che pubblico nelle pagine precedenti. Ci sarebbe molto da raccontare di questa bella città, piena di storia e chiese, ma tanto è già stato scritto e descritto da persone più qualificate di me, umilmente lascio a loro la responsabilità, io mi fermo alla sensazione di bellezza che provai nel visitarla. Oltre a tutto quello che ho già scritto, altro c’è da dire che c’eravamo fermati a Leon per riposare e alla fine macinammo chilometri per la città, con il doloroso risultato, che Isabella, avendo messo ai piedi le ciabatte da mare, si ritrovò nuovamente afflitta dalle vesciche e la sera in albergo praticammo il solito rituale, bucare, fare uscire il liquido e lasciare il filo disinfettato per il drenaggio. Dopo la cena, Isabella volle leggere gli appunti del quaderno che ci aveva lasciato Rocco, che ormai da Boadilla del Cammino aveva scelto il cammino solitario, pensai brevemente al nostro ex compagno di viaggio, poi ascoltai la lettura di mia moglie.

***

Rocco da quello che avevamo letto nel capitolo precedente, dopo la rissa in piazza che aveva coinvolto il padre scoppiata alla fine del match tra Mazzinghi e Benvenuti, si trovò nuovamente fuori di casa e si era addormentato sulla spiaggia.

 La fuga di Vittoria

Il sole di giugno bruciava e Rocco fu svegliato da un ragazzo che puliva la sabbia, passandola con una specie di badile con la rete al posto della pala.

―Devi andare via da qui, tra poco arrivano i clienti.  

―Vado, vado, disse, mentre con le mani si proteggeva, gli occhi dal sole. Tutta quella luce lo infastidiva, da molto tempo che non era sveglio durante il giorno. Il mercato, il sotterraneo dove puliva i calamari lo aveva trasformato in un animale notturno. Camminò per ore senza meta sul bagnasciuga, poi si rese conto di essere giunto nei pressi di casa. Stava per attraversare la via litoranea, quando vide il camion del padre, parcheggiare, si nascose dietro il muretto che limitava la spiaggia per non farsi vedere. Aldo ne scese barcollante e poco dopo che era entrato in casa, Rocco vide un gruppetto di persone che ostruiva il portone del palazzo e tra loro la madre farsi largo a colpi di borsa, correre e salire su un’auto, che partì a tutta velocità. La folla si diradò quando Aldo affacciandosi gridò:―andate via! Minacciando con un bastone i presenti. Rocco non ebbe il coraggio di salire in casa, camminò per qualche metro accucciato sotto il muretto e andò via.

Secondo il racconto che fa Rocco su i suoi appunti, quel giorno in casa dei genitori doveva essere andata così.

Aldo aveva ripreso a bere. Quando era in casa, sfogava la sua rabbia su Vittoria e Rocco. Lei trovò rifugio in una relazione con un altro uomo, un certo Sandro, (mai nominato prima negli appunti) con lui si vedeva raramente, per lo più si trattava di frettolosi rapporti sessuali consumati in auto prima di rientrare a casa. Sandro aveva più volte chiesto a Vittoria di lasciare Aldo e andare a vivere insieme. Lei avrebbe voluto mettere fine in modo definitivo alla storia con il marito, ma il pensiero del figlio l’aveva sempre trattenuta da compiere quel passo. Nei suoi pensieri, era già molto tradirlo e quando lo faceva, era una rivincita che si prendeva come acconto per le prepotenze subite. Poi questo non fu più sufficiente, la sera prima del match lui sfogò la sua frustrazione su di lei, per non essere diventato un pugile famoso. Aldo, dopo una lite furibonda, la lasciò sanguinante sul pavimento della cucina. Quando lui uscì con Rocco per andare a lavorare, preoccupata che al suo ritorno la situazione sarebbe peggiorata, chiamò il suo amante e si mise d’accordo per lasciare la casa il mattino presto. Questo coincideva con il giorno successivo all’incontro avvenuto tra Mazzinghi e Benvenuti. L’amante la aspettava sotto casa con l’auto in moto, lei si era attardata per prendere le ultime cose, quando udì la porta d’entrata aprirsi e vide Aldo che barcollava all’ingresso. Lui avanzò sorreggendosi alla parete, l’odore dell’alcool che emanava era pungente, Aldo irriconoscibile e con i vestiti strappati nella rissa, sporco di sangue avanzava nel corridoio gettando in terra tutto quello che lo ostacolasse, poi rovinò sul portariviste e rimase sul pavimento. Vittoria che fino allora era rimasta terrorizzata appiattita alla parete, approfittò del momento e scattò verso l’uscita scavalcandolo agilmente. Aldo tentò di afferrarla, poi prese con una mano un bastone da passeggio, messo lì per bellezza e tentò di colpirla. Lei fece le due rampe di scale in un lampo, mentre Aldo faticosamente la rincorreva. Giunto al portone, la vide andare via a tutta velocità con l’auto dell’amante.

 

Quel giorno quando Vittoria si presentò al lavoro, era ricoperta di lividi, Marcella e le altre colleghe, le chiesero cosa le fosse successo. Lei sedendosi fece un gran respiro e disse: ─finalmente è finita! Questa è stata l’ultima volta che quel bastardo mi ha messo le mani addosso! Poi iniziò silenziosamente a piangere, mentre le altre decisero di lasciarla sfogare e si allontanarono. Marcella rimase accanto a lei, la abbracciò chiedendole se volesse parlarne. ─C’è poco da dire, conosci la mia situazione. Vittoria le disse di Sandro e che era andata a vivere con lui. ─Tu sai come la penso in fatto di uomini, spero che tu abbia fatto la scelta giusta. ─Cosa altro avrei potuto fare? Non lo sopportavo più e per adesso va bene così! In futuro si vedrà. ─Tuo figlio? Le domandò Marcella. ─Questa mattina quando sono fuggita, non era ancora tornato, l’ho atteso fino a tardi, per questo motivo Aldo mi ha trovato ancora in casa quando è rientrato. Dovevi vederlo, un mostro assetato di sangue, con i vestiti strappati, puzzava di vino, sono riuscita a sfuggirgli per miracolo.

A questo punto Isabella smise di leggere e facendo un lungo sospiro, posò il quaderno sulle gambe e rimase in silenzio. Preso dalla sua lettura, gli chiesi di continuare, lei mi consegnò gli appunti di Rocco molto provata e disse: ─continua tu. Presi il quaderno e proseguii a leggere mentre lei si “rilassò” ascoltandomi.

Sfrattato per non aver commesso il fatto

Rocco aveva assistito all’insaputa dei genitori, all’epilogo di quella notte violenta e alla fine della storia tra la madre e il padre. L’accaduto non lo sconvolse più del necessario, iniziò a pensare alla parte positiva che lo interessava: si sentiva libero, avrebbe potuto da allora fare ciò che volesse, in primis si era sdoganato dal mercato e dai calamari, non sentiva il bisogno, né del padre, tanto più della madre. Trovò da dormire presso una signora molto gentile, in cambio di qualche piccolo servizio giornaliero. Lei gli aveva messo a disposizione una cantina, arredata con un lettino e una cassetta di frutta vuota che usava come comodino, per illuminare la stanzetta c’era il lampione del giardino più vicino alla finestrella. La mattina usciva prestissimo avendo cura di non fare rumore per non svegliare gli inquilini, la sera rientrava quando non c’era più nessuno in giro. La signora si era raccomandata di non farsi vedere, non prevedendo quale potesse essere la reazione degli altri condomini, venendo a sapere che lui dormisse nella cantina. Finì l’estate e quell’anno l’inverno fu molto freddo. Rocco si arrangiò con qualche lavoretto e quando non era occupato, iniziò a frequentare i ragazzi sbandati della zona. Ogni tanto gruppi di genitori battevano la zona alla ricerca dei propri figli a volte proseguivano per tutta la notte. Questi sbandati avevano formato una banda e commettevano piccoli reati, rivendendo la merce rubata a persone senza scrupoli. Durante una scorribanda due di questi mariuoli per sfuggire alla polizia s’infilò nel corridoio delle cantine, dove dormiva Rocco. Nella retata che portò alla cattura dei ladruncoli, gli agenti presero anche lui. Portati al commissariato, furono tradotti tutti nel Carcere minorile di Roma.

Consegnarono Rocco gli altri alle cure degli agenti di custodia, furono tenuti in isolamento per un giorno e una notte. La cella dove era costretto il giovane era piccola: una finestrella con le sbarre e per arredamento un letto. Il mattino seguente Rocco fu interrogato dal giudice di sorveglianza, e il giovane riuscì a dimostrare la sua innocenza. Dopo la perquisizione nella cantina e appurata l’estraneità ai fatti, fu rilasciato. Il giorno del rilascio essendo lui minorenne, fu consegnato a Pietro. Il nonno non gli chiese niente dell’accaduto, si avviarono verso la stazione e una volta sul treno rimasero in silenzio uno accanto all’altro. Giunti alla stazione del lido, quando le porte si aprirono, Rocco fuggì. Pietro in un primo momento pensò di corrergli dietro, desistette vedendolo sparire tra la gente che affollava la stazione. Rocco vagò un po’ nei pressi della stazione, poi si diresse verso il luogo, dove era la cantina. Trovò la signora che lo ospitava seduta su una sedia, davanti al portone d’entrata.

―Buongiorno signora, dovrei prendere delle cose in cantina. Lei non si mosse dalla sedia e gli disse:

―Mi dispiace tu non puoi più entrare, dopo quel che è successo, non posso più farti dormire qui. Rocco un poco se lo aspettava, ma aveva sperato che la signora avesse compreso che lui era innocente.

―Le mie cose le posso prendere? Lei portò la mano dietro la sedia e ne colse due buste.

―Questo è tutto quello che è tuo, prendilo e … buona fortuna. Il ragazzo non disse una parola afferrò le buste, si girò e andò via.

***

Dopo aver letto questa parte del quaderno Isabella ed io, stentavamo a prendere sonno. Ci vestimmo e uscimmo dall’albergo che era adiacente alla cattedrale. La strada era affollata a differenza del mattino quando eravamo giunti a Leon. Gli spagnoli i turisti e i pellegrini, gremivano i bar e passeggiavano per la città. Restammo seduti ai piedi della magnifica chiesa, a osservare la vita notturna che era in piena attività per circa un’ora. Poi, decidemmo che era meglio andare a riposare perché il giorno seguente la tappa programmata sarebbe stata dura: circa trentadue chilometri. Mentre rientravamo in albergo, gli domandai se mai avremmo rivisto Rocco prima di Santiago. Dopo qualche secondo di silenzio lei disse: ─se lo rivedremo non lo so, in compenso rimarrà per molto tempo nei nostri pensieri. Pensai a quello che aveva detto Isabella, facendo mio quel pensiero, poi le dissi:─ il quaderno degli appunti che ha lasciato, l’ha fatto entrare nella nostra vita e ormai non è solo un occasionale compagno di viaggio scomparso improvvisamente, lo penso con nostalgia, quasi fosse un parente che vive lontano. In silenzio rientrammo in albergo e ci addormentammo quasi subito.

Diciottesima tappa: Hospital de Orbigo

Il mattino seguente per uscire da Leon fu quasi un’impresa, attraversammo il ponte sul fiume e dopo esserci persi più volte nella periferia, finalmente verso le sette, trovammo la conchiglia (pensai che fossimo proprio degli incapaci, la città di segnali ne era piena) che segnava il cammino. La seguimmo fino a addentrarci in un paesaggio simile a quello delle meseta: il Paramo. Salimmo gradualmente a circa novecento metri e giungemmo dopo circa due ore a Virgen del Cammino, Santuario dedicato a Maria, dove Isabella volle fermarsi per recitare una preghiera. Proseguimmo in solitario, sempre contornati dalla campagna, gli immancabili saliscendi (nonostante la mappa ci segnasse solo una leggerissima salita). Ricordo poco del paesaggio, pagavo il fatto, che la sera prima, rimasi sveglio fino a tardi. Camminavo con la testa penzoloni, guardavo i piedi andare avanti e dietro, senza pensare alla distanza che rimaneva da percorrere, quasi ipnotizzandomi a quel dondolamento. Giungemmo e superammo, Valverde de la Virgen, sostammo nel paese successivo; Villadangos del Paramo. Nel tratto che percorremmo e anche in quello successivo, vedemmo per la prima volta le cicogne e i loro grandi nidi, costruiti tra le aperture di campanili, probabilmente fuori uso e pochi pellegrini. Dopo sei ore di cammino dalla partenza, uno dei rari pellegrini, ci spiegò che la scarsa presenza dei camminatori sul quel tratto, era che avevamo scelto la variante più solitaria della tappa, attraverso le campagne del Paramo per raggiungere Hospital de Orbigo, la nostra prossima meta. 
 

Passarono circa dieci mesi da quando Rocco fuggì da casa. Dopo il periodo ospitato dalla signora che gli aveva messo a disposizione la cantina e dopo il fattaccio: arresto e conseguente sfratto, Rocco aveva dormito ovunque gli capitasse, accompagnandosi spesso con dei senzatetto, che già avvezzi alla vita di strada, sbarcavano il lunario chiedendo l’elemosina nei pressi della stazione e la sera si accampava nei giardini adiacenti a questa. Quel giorno gironzolava per la cittadina, riflettendo sul fatto che nessuno lo avesse cercato per tutto quel tempo e che all’uscita del carcere, ci fosse stato solo Pietro ad aspettarlo. Se pur in un primo momento dopo il giorno della fuga da casa il fatto che nessuno lo cercasse gli fece piacere, ora sentiva il bisogno che qualcuno si occupasse di lui. Senza rendersene conto e quasi inconsciamente, si recò verso casa, giunto sulla piazza rimase lì a osservare se vedesse la madre o il padre. Il primo lo ricordava barcollante entrare nel portone, la seconda correre con una borsa in mano e fuggire in auto a tutta velocità. Da allora non ebbe più notizie di loro, a dire il vero lui aveva cercato di non saperne più. Giunta la sera si avvicinò alla finestra che dava sulla strada, si agganciò alla soglia di marmo che sporgeva per pochi centimetri, si tirò su e sbirciò attraverso i forellini della serranda. Le persone che Rocco vide dentro casa non erano i suoi genitori. Il giovane rimase per qualche minuto a spiare la giovane coppia, condividendone per un po’ la loro intimità, poi silenziosamente si calò sul marciapiede e restò accovacciato sotto la finestra pensando che ormai lì non c’era più niente da cercare. Girovagò per circa un’ora in zona, poi si fermò su una panchina della piazza. Erano i primi giorni di maggio, la sera ancora rinfrescava, era lì rannicchiato con le buste che gli servivano da cuscino sotto il capo, quando un uomo si sedette accanto a lui. Pur essendosi osservati con cura per almeno mezzora, i due non si rivolsero la parola. Fu lo sconosciuto a rompere il silenzio:―Che cosa fai qui a quest’ora? Non possiedi una casa? Rocco quasi non sentì quello che disse quell’uomo. Seguiva con curiosità un gruppo di giovani, probabilmente reduci da una festa che facevano un gran baccano all’altro lato della piazza. Il gruppo guardò dalla parte, dove erano seduti i due, uno si staccò dagli altri e barcollando si avvicinò. Quando gli fu abbastanza vicino, iniziò a offenderli chiamandoli: “Sporchi barboni”, l’uomo accanto a Rocco si alzò e lo fermò mentre il giovane ubriaco sembrava volesse colpirli. Gli amici del giovane aggressore intervennero bloccandolo e mentre lo allontanava si scusò del suo comportamento e subito dopo ripresero a fare baccano e andarono via. L’uomo li seguì con lo sguardo fino a che sparirono alla fine della strada. L’uomo rimase ancora qualche secondo poi senza salutarlo fece per andarsene e mentre si allontanava Rocco gli gridò:

―Ehi! Comunque se proprio lo vuoi sapere? Sono un senza tetto, un barbone, avevano ragione quei ragazzi! Una volta i miei abitavano al primo piano di quel palazzo e ora ci abita una coppia che non conosco.

Lo sconosciuto si girò e disse: ―Tu sei il figlio di Aldo? Tua madre si chiama Vittoria?

―Si, li conosci? Gli chiese Rocco mentre sistemava le buste sotto la testa.

―Tuo padre è da qualche tempo che non si vede in piazza, tua madre lo sai che vive a Roma con un altro? Lo sapevi che ha lasciato tuo padre?

―Quante domande! Non so’ niente, rispose stizzito Rocco.

―Scusami io pensavo che volessi qualche notizia sui tuoi genitori! Non prendertela.

―Non ti preoccupare sono abituato, è un po’ che le cose non vanno bene, quindi mi altero facilmente. Poi Rocco si girò e aggiustando le buste sulla panchina si preparò per la notte.

―Dormi qui? Gli chiese lo sconosciuto. ―Vedi un’altra soluzione? Dormo sulla panchina oppure cammino per il lungomare … meglio dormire.

―Ogni modo se vuoi, per questa notte puoi venire a casa mia.

―Non ti preoccupare, mi sta bene qui, buonanotte e grazie per l’offerta. L’uomo preferì non insistere e se ne andò perplesso pensando al suo carattere scontroso. Rocco la mattina si alzò completamente bagnato, durante la notte l’umidità si poté tagliare con il coltello. Nonostante il sole fosse già alto, ancora c’era in lontananza un poco di foschia che stentava a dissolversi. Vagò per le vie del quartiere senza meta, poi si diresse verso la casa della nonna materna Lucia, “la maga”.

***

La sosta era finita, insieme a un gruppo di pellegrini, lasciammo Villadangos del Paramo. Giungemmo a San Martin del Campo e dopo una piccola sosta, percorremmo un tratto di circa otto chilometri e finalmente vedemmo il ponte che immetteva a Hospital de Orbigo. Ogni luogo toccato dal cammino ha la sua leggenda, solitamente verte su questioni religiose. I protagonisti ricorrenti sono in primis l’Apostolo Giacomo (Santiago) da cui prende nome il lungo pellegrinaggio, poi in sequenza sul tragitto, Santo Domingo de La Calzada, San Juan de Ortega, San Nicolas e poi su tutti La Vergine Maria, confermando che questo innanzitutto è un pellegrinaggio Mariano. Hospital de Orbigo a parte il nome, che testimonia la sua antica propensione ad accogliere i pellegrini che si ammalavano lungo il cammino, la leggenda che lo rende famoso, riguarda una questione d’onore. Andiamo per ordine; il ponte è di origine romana, andato distrutto e poi ricostruito in epoca medievale. Il Puente de Orbigo è lungo circa trecento metri, con le sue venti navate è il ponte più esteso che si trova sul cammino. Veniamo alla questione d’onore: il cavaliere Suero de Quinosa per difendere il suo onore infangato, per una vicenda amorosa, decise insieme a un drappello di uomini, di sfidare per un mese ogni cavaliere che passasse per il ponte. Si racconta che furono circa trecento. Per la riuscita dell’impresa invocò la protezione dell’Apostolo Giacomo. Superata con successo la sfida, in seguito per ringraziare l’Apostolo, si recò in pellegrinaggio a Santiago de Compostela. Secondo le cronache del paese, questo accadde nell’anno 1434 e da allora questo ponte è chiamato: Paso honroso.

A Hospital de Orbigo alloggiamo in un Albergue privato, quella volta per scelta e non per necessità. Quando entrammo nel paese, avevamo notato una grande piscina. Fatta la doccia, ci recammo nel centro sportivo adiacente all’Albergue, ci sdraiammo bordo vasca con l’intenzione in seguito di fare una nuotata. Quando decidemmo d’entrare in acqua, la sorpresa fu glaciale tanto era fredda. Ci accontentammo di lasciare i piedi a mollo fino a sera. Dopo cena, ormai era un rito, con una birra in mano ci sedevamo fuori a leggere gli appunti del quaderno di Rocco.

Pratiche pagane e fede religiosa

Avevamo lasciato Rocco che girovagando si trovò davanti alla casa della nonna materna Lucia la maga. Vi giunse nell’ora che lei di solito riposava sulla sedia sgangherata all’ingresso della baracca. Santino (il nonno materno) aveva il suo da fare con le sarde da salare. Quando i due videro Rocco giungere con il suo bagaglio di buste sulle spalle. Lucia sorpresa da quella visita gli andò incontro mentre Santino gli rivolse una rapida occhiata salutandolo con un lieve cenno del capo e continuò a salare le acciughe. L’odore del pesce era fortissimo, si mischiava con quello delle trecce d’aglio che pendevano fuori dalla porta a seccare, queste ricordavano quelle lunghissime di Lucia. Rocco entrò in casa accompagnato dalla nonna, i due passarono accanto alle Madonne luminescenti, dove Lucia come sempre s’inchinava. Lo fece accomodare dentro la cucina strettissima e intasata dal pentolame. ―Come mai questa visita? Non sei mai venuto a trovarmi, ti ho subito riconosciuto perché assomigli tanto a tua madre, con questi capelli lunghi e neri, sembri una femmina. Rocco raccontò gli avvenimenti che lo avevano coinvolto, la nonna lo ascoltò con molta attenzione e mentre teneramente lo abbracciò, gli disse: ─so io cosa bisogna fare per te! Lucia andò via per qualche minuto, tornando poco dopo con un piatto e una bottiglietta di olio, posò il tutto sul tavolo. Prese delle candele e le sistemò accese davanti a Rocco. Il giovane frastornato da tutto quell’armeggiare della maga tentò di alzarsi dalla sedia e andare via. ─Fermo! Non ti alzare! Gli ordinò la maga e sparì di nuovo, al suo ritorno aveva tra le mani un’ampolla con l’acqua santa e rivolgendosi al giovane gli disse: ─ora prega con me. Rocco confuso iniziò a recitare un’Ave Maria, mentre gli spruzzò gocce di acqua su tutto il corpo, recitò con lui l’orazione. Finita la preghiera, la nonna prese il piatto lo riempì di acqua benedetta, aggiunse due gocce di olio e passandolo sopra le candele riprese a pregare, fino a che le gocce attraendosi si unirono tra loro. A quel punto tirò fuori una medaglia con raffigurata l’immagine della Madonna, la immerse nel liquido e la portò sopra la testa del ragazzo e continuò a pregare e cantilenare in dialetto pugliese. Lucia toccò più volte con l’immagine sacra Rocco e quando terminò, l’orazione gliela infilò al collo e gli raccomandò:─non toglierla mai.

Rocco non fece resistenza a quella pratica, metà tra la superstizione e la fede cristiana, lui non credeva molto nella sua efficacia, pensò che certamente non sarebbe stato sufficiente un poco d’acqua e dell’olio a sistemare le cose. In ogni modo la convinzione e la tenerezza cui la vecchia se ne occupò lo commosse e la lasciò fare.

― Grazie nonna, io però ho bisogno di un letto per dormire. ―Puoi dormire qui da me fino a quando non trovi meglio, vieni ti faccio vedere dove. Lo portò nella stanza che era stata ricavata da una parte del corridoio dividendolo con una tenda. Rocco si stese sul lettino e si addormentò. Si svegliò il pomeriggio inoltrato, circondato da trecce d’aglio, mazzetti di peperoncino e barattoli d’acciughe sotto sale con il nonno che gli passava accanto al letto, essendo quello un posto utilizzato da magazzino e di passaggio per andare in cucina. Ci mise un po’ a realizzare dove si trovasse, poi gli tornarono alla mente gli scongiuri fatti la mattina dalla nonna e strinse tra le mani la medaglietta che gli aveva dato. Giorno dopo giorno da quando arrivò a casa di Lucia, Rocco divenne sempre più silenzioso, erano rare le volte che interagisse con i nonni, e quelle poche furono quando Lucia gli chiedeva di pregare con lei. Spesso i due vecchi lo udivano parlare dietro la tenda stando seduto sul letto. ―Questo benedetto ragazzo parla continuamente con i fantasmi. Poi le cose con il passare del tempo si complicarono. Quando i nonni erano in casa, rimaneva a letto, durante la notte si alzava per mangiare mentre loro dormivano, poi usciva per rientrare prima dell’alba. Non si sa bene cosa facesse durante le uscite notturne, ma andò così per alcune settimane. Il due giugno Festa della Repubblica, la maggior parte della gente, era in fermento per recarsi a Roma ad assistere alla sfilata. Alcuni aerei decollarono da Pratica di Mare e sorvolando la casa, produssero un rumore così forte da far tremare le mura, le statuine sacre e le ampolline con l’acqua santa. Da dietro la tenda, Rocco apparve ai nonni terrorizzato scalzo e seminudo. Percorse il corridoio dirigendosi verso l’uscita, passò davanti a Lucia mormorando:─vieni Arturo, vieni con me, corri! Lucia tentò di fermarlo ma lui si divincolò dandole uno spintone e guadagnò l’aria aperta. Le persone che percorrevano la strada verso la stazione degli autobus, videro il ragazzo correre in mutande facendo lo slalom tra i passanti. Alcuni intimoriti si fecero da parte dandogli spazio, altri lo colpirono con quello che avevano tra le mani, giornali, bastoni da passeggio, borsette, fino a quando lui crollò a terra, assumendo la posizione fetale sull’asfalto. Lucia e Santino finalmente lo raggiunsero, allontanando gli aggressori lo protessero con una coperta.

―Portatelo al manicomio! Questo è tutto matto! Si udì gridare dalla folla che si era adunata intorno a loro.

―Lasciatelo perdere sarà malato! Qualcuno ribatté. Alcuni ragazzi gli urlarono contro:―scemo, scemo, scemo.

Da qualche tempo ormai i tre erano al centro della strada, quando finalmente giunse un’autoambulanza, ne scesero due infermieri, parlarono con Lucia e Santino, mentre un altro diradò la folla.

―Via, non c’è niente da vedere, spingendoli in malo modo, poi arrivò un’auto della polizia e gli agenti fecero un cordone di sicurezza intorno al ragazzo. Rocco in seguito a quell’episodio, fu ricoverato nel reparto psichiatrico dell'ospedale san Camillo e rimase lì per circa quattro mesi: la diagnosi fu attacco di panico. Durante la permanenza in ospedale lui dichiarò di sentirsi bene e di non ricordare nulla dell’accaduto. Quando fu dimesso e tornò a casa di Lucia, la vita riprese come se niente fosse accaduto, fino a quando iniziò a frequentare alcuni ragazzi che si riunivano nel parco. Nella parte più isolata di questo, si ritrovavano per usare stupefacenti. Per procurarsene giunsero a commettere piccoli furti nella zona, alcuni si prostituivano, altri rubacchiavano nelle proprie case oggetti di valore per pagarsi le anfetamine. Rocco dopo un breve periodo iniziò a drogarsi. Questo gli procurò la sensazione di poter affrontare qualunque cosa, quel disagio che da anni lo assillava, spariva nel momento che s’iniettava la sostanza, “nulla lo poteva più fermare”. Dalle anfetamine all’eroina il passo fu breve. Fu così che visse allo sbando per due anni. Un giorno durante una crisi d’astinenza, per procurarsi i soldi per l’eroina s’introdusse in un appartamento, dove fu sorpreso dai proprietari mentre ne usciva dalla finestra. Lo catturarono senza che lui facesse resistenza. All’arrivo delle forze dell’ordine riuscì a dire poche parole: ―Finalmente, non ne potevo più. Passò un mese nell’infermeria del carcere, dove lo imbottirono di calmanti, poi lo trasferirono al reparto, in una cella con quattro ragazzi della sua età. I giorni passarono tutti uguali, la mattina la colazione la consumava nel refettorio, dove i detenuti si radunavano anche per il pranzo e la cena. Molti dei giovani avevano appena compiuto i quattordici anni, i più grandi non avevano ancora il diciottesimo anno di età. Chi avesse superato questa soglia d’età, sarebbe stato trasferito a Regina Coeli. Rocco era già stato al San Michele, fu quando lo prelevarono nella cantina il giorno della retata e vi passò una notte, poi fu prosciolto e rilasciato, per non aver commesso il fatto.

Il cortile adibito all’ora d’aria era circondato da un alto muro e alcuni detenuti passeggiavano avanti e indietro parlottando tra loro, altri formavano dei gruppetti distribuiti nei vari angoli, tenendosi a distanza da quelli che sembravano essere i capi. Questi ultimi vessavano a turno quelli apparivano più indifesi. Gli agenti di custodia non intervenivano quasi mai, se non per sequestrare oggetti che a loro sembrassero pericolosi. Quel primo giorno in carcere Rocco si scontrò con la violenza di uno dei capi. Il malandrino apostrofò Rocco in malo modo, chiedendogli di scambiare le scarpe con lui, al suo rifiuto questo lo colpì mandandolo a terra. Immediatamente come se la cosa fosse già stata prestabilita, si formò un circolo intorno ai due, Rocco nel rialzarsi mulinò un colpo alla cieca e il prepotente cadde come fulminato e poi fuggì nell’altro lato del cortile e osservò intimorito il ragazzo atterrato da lontano. Vide alcuni ragazzi sorreggere il prepotente che barcollava, quando fu in grado di stare dritto con le sue gambe si diresse verso Rocco e quando giunse abbastanza vicino, gli sussurrò: ― non è finita qui.

Quella sera, dopo la cena, parlava con i compagni di cella del fatto accaduto nel cortile, quando udirono la chiave girare nella serratura della porta. Due agenti spalancarono la porta e fecero uscire i compagni di Rocco introducendo due ragazzi, uno di questi era quello del cortile. Quando le guardie carcerarie lasciarono i due soli con Rocco, questi senza dirgli una parola iniziarono a colpirlo. Lui si rannicchiò sulla branda, dopo i primi dolorosi colpi ricevuti non sentì più niente e rimanendo fermo pensò: “alla fine si stancheranno”.  Ci vollero almeno quindici minuti perché questo accadesse. Quando smisero di colpirlo, uno dei due bussò alla porta e gli agenti vennero ad aprire. Mentre i due uscirono, Rocco si alzò dalla branda, allargò le braccia e come se lo avessero crocefisso, si mostrò impavido agli aggressori in segno di sfida e gli disse:―sono ancora qui, avete già finito? I due fecero per tornare indietro a terminare la punizione. Furono fermati dagli agenti, mentre Rocco fece due passi avanti fissandoli dritti negli occhi. Il giorno seguente Rocco cercò l’aggressore nei vari luoghi dell’istituto e domandò, dove fosse a ognuno che incontrò. Poi gli dissero che era stato trasferito con il suo complice a Regina Coeli, perché ormai diciottenni. Passarono molti mesi prima che il giudice valutò la sua condizione e agli inizi di aprile dell'anno successivo, gli concesse la libertà provvisoria. La liberazione arrivò appena in tempo, “avrebbe compiuto diciotto anni dopo qualche giorno”. All’uscita dall’istituto, trovò ad attenderlo Lucia e Vittoria. Rocco rimase stupito dalla presenza della madre e per qualche secondo gli passarono nella mente come in un film, quegli anni passati sulla strada. Vorticosamente gli si accavallarono i brevi momenti spensierati dell’infanzia e la brutale follia del padre. L’ultimo ricordo che aveva della madre era quando la vide fuggire con l’amante, lasciandolo solo a scegliere se convivere con la pazzia di Aldo o la solitudine della strada. Ormai Rocco spogliato dell’innocenza si era vestito con la scorza dura di chi utilizza ogni mezzo per sopravvivere, aveva rimosso l’amore, quello era una faccenda che non gli apparteneva più. Si avvicinò alla nonna, la abbracciò, poi si allontanò senza guardare la madre, stringendo tra le mani la medaglietta con l’effige della Madonna e pensando al rito propiziatorio di Lucia quando gliela donò. Le due donne lo videro scuotere la testa e lo udirono sussurrare: ―non è stata colpa della maga, magari lei ci ha provato, ma con me non ha funzionato. Vittoria non ebbe il coraggio di fermarlo, lo accompagnò con lo sguardo, fino a vedergli attraversare il Tevere sul Ponte Sublicio.

 

Diciannovesima tappa: Santa Catalina de Somoza

Il mattino seguente mentre camminavamo verso il primo paese che ci indicava la mappa, Isabella ed io parlammo poco degli sviluppi che aveva preso la storia di Rocco. Avevamo una sensazione di disagio e ci sembrava che leggendo i suoi appunti, noi entrassimo impropriamente nella sua vita riesumando i momenti più dolorosi che lui aveva immortalato nel diario.  Decidemmo di rimandare la discussione sull’opportunità di continuare o no a introdurci in quella vicenda così personale. Ci concentrammo sulla marcia e coprimmo i primi chilometri in fretta. Percorremmo un sentiero che si snodò in parte su campi immensi e deserti e che per lunghi tratti seguì la direzione di una strada statale. Il paesaggio desertico era interrotto da qualche alieno boschetto, in cinque chilometri attraversammo due paesi, facendo la prima sosta a un piccolo centro con un nome lunghissimo: Santibanez de Valdeiglesias. Riposammo per circa un’ora, in quell’intervallo, furono molti i pellegrini che passarono spediti, a gruppi, in coppia, ma la maggior parte viaggiava in solitudine verso Santiago. Durante la sosta a Santibanez de Valdeiglesias, dopo una serrata discussione ci convincemmo che Rocco ci donò il diario perché voleva che lo condividessimo con lui e quasi volesse mettere la parola fine su quel periodo della sua vita. Isabella leggeva il quaderno mentre io le massaggiavo le gambe doloranti, dopo circa dieci minuti, silenziosamente intorno a noi si creò una piccola folla di pellegrini italiani, forse attratti dalla lingua o pensando che stavamo recitando le orazioni. Quando capirono che si trattava di altro, molti di loro si appartarono un poco più distante e iniziarono a sgranare la corona del Rosario. In seguito, quando ci presentammo, capimmo che erano appartenenti a una congregazione religiosa, per lo più novizi in pellegrinaggio. Tornando agli appunti quello che Isabella riuscì a leggermi durante la sosta fu questo: Rocco quando uscì dal carcere non andò casa con la madre e la nonna. Le due lo videro andare via senza mai girarsi. Nel treno che le portava verso casa, le due per tutto il tempo del viaggio non incrociarono mai gli occhi e non si parlarono. Agli altri viaggiatori sarebbero sembrate due estranee se Vittoria a un dato punto non avesse la testa poggiata sulla spalla di Lucia. Lei avrebbe voluto dire, sapere, ma l’anziana donna non glie ne dette l’occasione, ipnotizzata dal paesaggio che fuggiva veloce oltre il finestrino portando con sé i suoi pensieri, insieme ma solitarie in silenzio giunsero alla vecchia stazione del Lido.

Scesero dal treno, tra le numerose persone che si avviarono verso l’uscita. Lucia impegnata a salire le numerose scale faticosamente, senza girarsi chiese alla figlia:

―Vieni a casa mia? Vittoria non l’ha udì perché si era attardata rimanendo incastrata tra la folla di pendolari più in basso, quando finalmente giunse all’uscita del sottopasso, trovò la madre seduta sull’ultimo scalino.

―Sei stanca? Ci vogliamo fermare nel parco?

―No, aspettavo te.

―Poco fa ti ho chiesto se volessi venire a casa mia, ma non hai potuto sentirmi perché eri troppo lontana, questa sera se vuoi, puoi dormire da me.

―Si mi farebbe molto piacere.

Le due donne si avviarono verso casa mentre il cielo si scuriva coperto da nuvole minacciose. Lungo lo stradello grosse gocce iniziarono a cadere. Fecero in tempo a varcare la porta che il temporale si manifestò con tutta la sua potenza. Durò poco più del tempo di posare le borse sul tavolo della cucina poi le goccioline divennero fitte e leggere. Continuarono a cadere sul mattonato davanti alla piccola baracca per tutta la sera. Vittoria si sedette sulla sgangherata sedia a dondolo della madre, al riparo sotto la pergola, Lucia era poggiata con la spalla sull’infisso della porta d’entrata.

―Che fine aveva fatto mia figlia? La piccola Vittoria. Sono anni che non ti fai vedere. Rocco durante questo periodo aveva bisogno che qualcuno si curasse di lui, è stato male e ancora non sta bene con la testa, ora ci si è messa anche la droga a complicare le cose.

―Non ci sono solo io, Aldo non se ne cura?

―Quindi sei proprio scema? Tuo marito è sparito nel nulla e nessuno l’ha più visto dal giorno che andasti via. Lo sai almeno che non ha più pagato l’affitto e l’hanno sfrattato? Vittoria accasciata sulla sedia subì le accuse della madre in silenzio, mentre la pioggerellina le bagnò i piedi come quando era bambina tenendoli fuori dalla piccola pensilina. Udì la madre che parlava pur non comprendendo fino in fondo le sue parole, troppi pensieri le occupavano la mente. “Un tempo sono stata felice, ho immaginato che l’amore arrivasse, ho sognato che gli angeli avessero provveduto alla mia vita e che Dio mi avesse premiato facendomi conoscere Aldo.” “Ogni cosa era un dono di Dio, sia ci fosse il sole, piovesse forte o piano come ora, ma i sogni sono svaniti e la realtà è rimasta, più dura della pietra e terribile come un incubo.” Vittoria si addormentò nella sedia e il ticchettio della pioggia  accompagnò il suo leggero respiro, mentre sognò che fosse ancora bambina.

Quando lei si svegliò, era quasi notte, la pioggia aveva smesso di cadere, l’odore aspro della terra le salì su per le narici, si sentì protetta come un tempo nella piccola baracca, questa le sembrò una reggia. Con naturalezza la madre rassettava la casa, spolverava le immagini sacre, accendeva candele, soffermandosi a pregare davanti ad esse, come se Vittoria non fosse mai andata via. Santino il padre continuò indaffarato a sistemare i barattoli con il pesce sottosale mentre lei si godeva quel momento di normalità. Pensò quante volte l’aveva desiderata quella normalità, quando per lavoro era costretta a fare l’equilibrista tra tanta gente che non poteva sapere.

Chiuse gli occhi e ascoltò i rumori che provenivano dalla cucina mentre la madre preparava la cena. Lei dopo tanto tempo si sentì a casa. La portò alla realtà la voce del padre: ―Vieni la cena è pronta. Vittoria non aveva fame e a malincuore lasciò la nostalgia su quella sedia. Fu lei la prima a parlare mentre erano a tavola: ―Questi anni sono stati duri, ho vissuto per un breve periodo a Roma nella zona del Trullo. Quel bastardo con cui sono stata in quel periodo, si è rivelato peggio dell’uomo che avevo abbandonato. Era violento e una mattina è venuta la polizia e se lo è portato via. In una rissa al bar aveva accoltellato un uomo, ho atteso una settimana che tornasse poi, ho fatto le valige e sono andata a vivere in una pensione vicino a Piazza Vittorio. Il posto è comodo, in Via Principe Amedeo c’è il magazzino da dove parto la domenica a sera per lavoro.

―Ora lavori sempre in giro per l’Italia?

―Si, ma voglio dirti tutto quello ho fatto in questi anni, ascoltami! Implorò Vittoria rivolgendosi alla madre. Lucia la guardò in silenzio, si alzò per prendere la carne in umido la mise al centro della tavola, Santino se ne servì poi prese il piatto della figlia e fece per metterne alcuni pezzi, lei declinò. ―Non ho più fame, preferisco parlare. Lucia mise il coperchio sul tegame e attese che Vittoria continuasse il racconto. ―Ho venduto saponi a Firenze, Bologna, Milano, Napoli, qualche volta  a Roma, però solo quando il tempo inclemente rendeva pericoloso spostarsi con il pulmino senza correre il rischio di rimanere bloccati in qualche sperduto paese lontano dalla città. Ho avuto altri uomini, non importanti, solo perché mi sentivo sola e ho pensato che dimenticare il passato fosse per me la cosa più importante. Lucia la interruppe:―Hai dimenticato un figlio! E noi! Ecco cosa hai dimenticato. Lucia gli urlò sul viso mentre si alzava dalla tavola. Santino era uno spettatore silenzioso come suo solito nelle discussioni tra la madre e la figlia. Ogni tanto per farsi vedere interessato al discorso, mugugnava qualcosa muovendo la testa mentre masticava lo spezzatino. ―Qualche volta, quando eri a Roma, potevi venire a vedere come andavano le cose, le disse Lucia

―I primi tempi avevo pensato che sarei passata, poi ho fatto fuggire il tempo e tutto è diventato più difficile, la verità è che mi vergognavo del giudizio delle persone … del tuo. ―Io sono tua madre, per quanto severa rimarrò sempre tua madre, avrei provato a mitigare i danni, poi avrei accettato la tua scelta. Anche la mia vita non è stata mai facile e posso capire, sai quante volte sarei fuggita? Oggi mi ritrovo vecchia, assediata da cose decrepite e prego che qualcuno protegga voi e la mia casa, anche se è solo una baracca. Vittoria aiutò la madre a sistemare la cucina e passò la scopa nella stanza poi si misero fuori e rimasero in silenzio, ognuna con i propri fantasmi sperando che Rocco rientrasse.

Rocco quella sera non rientrò e le due donne prolungarono l’attesa fino a tarda notte sperando fino all’ultimo minuto che tornasse a casa. Quando l’alba iniziò a schiarire la notte, deluse desistettero e andarono a letto, mentre Santino caricò il pesce sotto sale sulla bicicletta e andò via. Udirono lo stridente cigolio dei pedali che si allontanò fino a mischiarsi tra i loro incubi.

***

Riposto il quaderno, riprendemmo il cammino insieme ai religiosi. La strada era un saliscendi continuo e faticoso. Giungemmo sulla cima di un’altura dopo circa undici chilometri, dove era eretta una croce. Da quel punto vedemmo la città di Astorga, scattammo qualche foto insieme a dei pellegrini italiani che incontrammo a Santo Domingo de la Calzada, dopo Iniziammo a scendere verso la città. Astorga dava il benvenuto ai pellegrini con un’enorme scultura posta al centro di una piazza rappresentante la concia (conchiglia) simbolo del Cammino di Santiago. Subito dopo essere entrati nel centro abitato, davanti alla cattedrale di Santa Maria, fummo accolti da giovani volontari cattolici che ci offrirono acqua fresca e ci dettero il benvenuto. Visitammo la città e in particolare ammirammo il Palazzo episcopale di Astorga che ci sembrò un castello fiabesco e la sopra citata Cattedrale. Da un pellegrino italiano apprendemmo un poco di storia. La città al tempo dei romani era attraversata da due importanti arterie, una proveniente dalla Francia, (Bourdeux) la via Traiana, una proveniente dall’Andalusia, via della Plata, quest’ultima, aggiungo io, ancora percorsa dai pellegrini provenienti da quella regione. Dopo aver mangiato un panino, riprendemmo il cammino verso El Ganso. Sapevamo che quella località non ci avrebbe offerto molto e più avanti vi era Rabanal del Cammino, posto più conosciuto dai pellegrini. La nostra decisione era di fare la sosta per la notte in luoghi meno decantati dalle guide, in modo che fosse più facile trovare la branda per dormire. La salita si fece sempre più ripida, i Montes de Leon iniziarono a farsi sentire. Percorremmo una strada sterrata che ci portò intorno ai mille metri. A Santa Catalina de Somoza entrammmo nel paese da una strada stretta e sterrata, il campanile ci sovrastò mentre ci immettemmo nel centro abitato. Qui decidemmo di sostare per la notte, avevamo abbandonato l’idea di arrivare a El Ganso, trovammo ospitalità nell’Hospederia San Blas. Come sempre la sera dopo la cena studiammo la tappa del giorno seguente e ci rendemmo subito conto che sarebbe stata una tappa molto impegnativa. Si snodava su lunghi saliscendi e ripide salite fino a giungere alla Cruz di Ferro, sosta molto simbolica ed emozionante oltre a essere il punto più alto del cammino.  Pensando alla tappa e volendo affrontarla nel pieno delle nostre forze, ci infilammo a letto presto.  Alcuni pellegrini probabilmente più in forma non la pensarono come noi. Per quasi tutta la notte fecero baldoria nel ristorante che era proprio sotto la nostra camera. Impossibilitati a dormire, ripiegammo sulla lettura che più ci aveva preso fino allora.

***

Da quando uscì dal carcere Rocco sembrò essere diventato invisibile e nessuno lo vide più in giro per il quartiere. Vittoria lo cercò ogni volta che si trovava a Roma, Lucia la maga, girò in lungo e in largo, per i bar, nei giardini pubblici e non ebbe nessun timore a infilarsi in ogni gruppetto di giovani che incontrò per chiedere sue notizie e la risposta era sempre la stessa: ―non lo conosciamo. Seppure lei continuasse a descriverlo in tutti i particolari, la maggior parte delle volte, i ragazzi si diradavano ignorandola mentre le domande gli morivano in gola.

Pietro e Ada seppero della scomparsa di Rocco, attraverso il passaparola molto in voga tra la gente del quartiere e una sera si recarono a casa di Lucia. Trovando la porta aperta, Pietro fece capolino e trovò la maga che armeggiava con candele e piattini accanto all’immagine della Madonna.

―Buonasera signora Lucia! Lei senza scomporsi continuò a sistemare le candele, quando terminò, si girò verso i due. ―Buonasera entrate. Avevo la sensazione che oggi qualcuno sarebbe venuto a trovarmi. ―Accomodatevi disse indicando le sedie.

―Signora Ada è un piacere rivedervi, “disse mentendo” non ci incontriamo, dal matrimonio dei nostri figli, mettetevi seduta. Ada si sedette, senza dire una parola, ipnotizzata dalle numerose immagini sacre illuminate dalle candele. Mentre Lucia preparò la moka, Ada come se fosse in trance, non perse mai di vista gli altarini, fu Lucia che la distolse con il caffè che posò sul tavolo.

Le tazzine erano fumanti e i tre le tenevano tra le mani in attesa che il caffè si freddasse, poi Lucia disse:

―Rocco non si trova da nessuna parte non so più, dove cercarlo, sono stata anche al commissariato e non né sanno niente da quando è uscito dal carcere. Lucia non riuscì a smettere di parlare, come se quel fiume di parole le fosse rimasto prigioniero nel petto e quella sera tracimò, poi la donna iniziò a piangere, Pietro cercò di consolarla dandogli qualche colpetto sulle spalle mentre le diceva:―Siamo tutti preoccupati, da noi non viene da tanto tempo e non si capisce il perché, lo abbiamo trattato sempre bene eppure non si è fatto più vedere. Ada ascoltò i due senza intervenire tenendo le mani giunte come se pregasse.

Pietro con la voce rotta dalla commozione proseguì:―Rocco non si trova, Aldo è in carcere da due anni e per la vergogna lo abbiamo tenuto nascosto, anche se poi certe cose si vengono sempre a sapere. Oltre a questo che altro ci potrà succedere? Un nipote scomparso e un figlio in carcere. Dove abbiamo sbagliato? Quasi urlò Pietro sfogando la sua rabbia battendo il pugno sul tavolo.

Lucia lo fissò per un attimo e gli disse: ─non se ne faccia una colpa, non ci possiamo scegliere il destino, neppure i genitori farlo per i figli. ─Vittoria torna una volta la settimana. Il sabato e la domenica lo passiamo in giro per la città a cercare Rocco e fino a oggi senza nessun risultato. Nel frattempo Santino nella stanza da letto dormiva così profondamente che non udì i tre che discussero ad alta voce fino a tarda notte. Quando Ada e Pietro si alzarono dalle sedie, era quasi la mezzanotte.

Prima di uscire Pietro si rivolse a Lucia: ―Non è questo il momento di perdere la testa, cerchiamo di mantenere la calma da domani diffonderò la voce della scomparsa di Rocco tra i miei conoscenti. Forse qualcuno l’ha visto e non sa che lo cerchiamo, ho un amico infermiere, forse si trova ricoverato in qualche ospedale. Dobbiamo avere fiducia che lo ritroveremo. Pietro salutò la maga e fece per uscire quando Ada si soffermò a chiedere a Lucia di pregare anche per loro.

 Rocco si era dissolto e con il trascorrere del tempo la sua famiglia iniziò a pensare che giacesse morto in chissà quale posto sperduto, oppure nella migliore delle ipotesi, ricoverato in qualche ospedale psichiatrico. Quando sparì, non aveva con sé documenti, d’altronde non ne aveva mai avuti, l’unico pezzo di carta che ne accertasse l’identità, era il foglio di scarcerazione rimasto alla madre il giorno della sua liberazione.

Il ventinove giugno, giorno della festa dei Patroni San Pietro e Paolo, Santino si trovava nei pressi della Basilica, intento ad allestire il banchetto delle acciughe. Le vie intorno alla chiesa erano in fermento, gli ambulanti avevano occupato gli spazi disponibili attrezzando i banchi già dal mattino per la fiera locale. La gente proveniente da ogni quartiere di Roma affollava le vie per partecipare alla festa cattolica più importante della città dopo aver ammirato la tradizionale infiorata allestita su via della Conciliazione e i più osservanti per seguire la processione della catena (simbolo della limitazione della libertà umana) di San Paolo, reliquia conservata nella Basilica.  I più giovani in preda a un’incontenibile frenesia, giocando e correndo tra i banchi a volte travolgevano gli adulti intenti a trattare il prezzo della merce esposta dagli ambulanti. A Santino gli affari andavano bene, le persone si affollavano davanti al banchetto per acquistare le acciughe e appartarsi nei tavoli approntati per quell’occasione dal chiosco situato davanti alla chiesa. I festeggiamenti erano al culmine, le persone si accalcavano allegre e festaiole coinvolte da quella frenesia collettiva e vivacemente riempivano i giardini intorno alla Basilica. Ogni tanto si accendeva qualche parapiglia tra i residenti dei quartieri limitrofi: Garbatella, Testaccio, Montagnola ed Eur, più per motivi tradizionalmente campanilistici che per questioni serie.  Il vecchio aveva quasi terminato la merce e con la testa bassa raccoglieva le ultime acciughe rimaste sul fondo dei barattoli. Da quella posizione china vide i piedi nudi di un uomo davanti al banchetto, Santino senza alzare la testa, continuò ad armeggiare con il pesce mentre quei piedi rimasero immobili nella stessa posizione, pensando che appartenessero a una persona bisognosa, prese un foglio di carta pane e senza guardare a chi appartenessero quelle estremità così sporche, fece un pacchetto con le acciughe e alzando lo sguardo gliele porse. A quel punto vide nella sua interezza il proprietario di quei piedi. L’uomo aveva i capelli lunghi e intrecciati e notò che anche se era il ventinove di giugno che indossava un lungo cappotto di lana e con una mano lo stringeva al corpo, come se fosse infreddolito. I denti bianchissimi gli risaltavano dalla folta e incolta barba che sembrava un tutt’uno con i capelli, quando i suoi occhi incrociarono quelli del vecchio pesciaiolo per un attimo il viso gli s’illuminò scacciando via la malinconia.

― Rocco! Tu sei Rocco? È un anno che ti cerchiamo, dove eri finito per tutto questo tempo? Santino si alzò e nel farlo i barattoli con le acciughe caddero rotolando tra la gente che attraversava il marciapiede. Il nipote si ritrasse spaventato e senza dire una parola fuggì tra la folla e in breve sparì. Santino lo cercò per tutta la piazza fino a tarda notte, così come apparve, Rocco svanì nel nulla.

 

Capitò a Santino (il nonno materno) di rivederlo, proprio a lui che non si era mai interessato di quello che gli accadeva intorno. Tornò a casa e raccontò il fatto a Lucia. Lei non si scompose e lo ascoltò mentre pregava, poi si rivolse verso Santino e disse rassegnata: ―avrà il suo motivo per non tornare, lo farà quando gli passerà.

***

A Santa Catalina de Somoza mentre finivo di leggere questa parte degli appunti, i pellegrini spagnoli in festa, smisero di cantare e riuscimmo a prendere sonno. Il mattino seguente, uscimmo molto presto dall’hospederia San Blas. Il paese già risuonava del picchiettio dei pellegrini mattinieri. La temperatura era molto bassa, attraversammo il paese e proseguimmo lungo lo sterrato che portava fuori dal centro abitato. Dopo una ripida salita superammo El Ganso, per circa due chilometri, il sentiero divenne più agevole per impennarsi nuovamente fino a quando giungemmo a Rabanal del Cammino, un piccolo paese di montagna con le caratteristiche case costruite in pietra a vista ci fermammo in un bar e prendemmo un caffè poi ci avviammo fuori dal paese. Prima d’affrontare la salita, sostammo su alcune panchine poste lungo il sentiero, quando un esercito di pellegrini ci superò, ci accodammo e riprendemmo il cammino. Dopo cinque chilometri arrivammo a Foncebadon, in una specie di spaccio, ostello, ristorante, bar, un poco di tutto questo insieme, gestito da ragazzi italiani e spagnoli, sostammo per fare la spesa, frutta secca, mandorle sgusciate, pesche e mangiammo un’insalata mista. Ci servì una ragazza pugliese che si trovava in quel posto da circa quattro mesi per meditare e con lei ci fu una piacevole rimpatriata tra connazionali.

Proseguendo verso l’uscita di Focebadon, quel luogo ci sembrò un paese fantasma, alcune famiglie occupavano qualche casa, (tra l’altro quasi fuori uso) secondo la nostra opinione solo per qualche periodo dell’anno e pensammo che dovesse il puntino sulla mappa del cammino, per il suo trovarsi nella direzione della Croce di ferro, il punto più alto del cammino. Scollinammo e dopo una piccola discesa, ci impegnammo in un lungo tratto in salita fino a giungere nel luogo che più di tutti volevamo visitare, davanti alla croce di ferro. Ci inchinammo davanti alla croce in segno di rispetto e con altri pellegrini recitammo il Padre Nostro. Nel giungere fino lì, lungo la strada avevamo notato numerose antiche lapidi dedicate ai pellegrini morti lungo il Cammino di Santiago. Dedicammo un pensiero a loro e a chi sarebbe passato dopo di noi. Avevamo portato da Roma una pietra che simbolicamente rappresentava i pesi dell’anima, le angosce, che ognuno noi porta nella vita di tutti i giorni. La depositammo ai piedi della croce chiedendo che le nostre ansie fossero alleviate da quell’umile gesto. Personalmente lasciai anche una supplica, dove chiedevo al Signore di guardare alla mia famiglia con occhi benevoli. Il mucchio di pietre lasciate negli anni dai pellegrini è notevole facendo nascere una piccola collina intorno alla croce. Lasciammo la Croce di Ferro visibilmente emozionati, guardandoci intorno capimmo che non eravamo soli a esserlo ma in buona compagnia, notammo che la maggior parte dei pellegrini aveva gli occhi lucidi. Riprendemmo il viaggio percorrendo un tratto di strada in discesa fino a giungere in un luogo a dir poco pittoresco, Manjarin. All’esterno si presentava con numerosi cartelli che indicavano le distanze che dividevano quel luogo a numerose località nel mondo, lasciammo quello che secondo l’intenzione del gestore di Manjarin doveva essere un albergue, ma a noi sembrò un posto piuttosto disastrato e molto new age. Ci inoltrammo in un sentiero tra il bosco fino a giungere dopo una ripidissima salita a una stazione radio militare e lì crollammo a terra. Riposammo circa mezzora. Riprendemmo il cammino affrontando una discesa difficile e pietrosa fino a giungere El Acebo dopo una massacrante marcia. Tutto normale? Andiamo con ordine: prendemmo una camera nell’Albergue privato posto al centro del paesino montano che porta lo stesso nome del paese. Dopo la doccia scendemmo per la cena. Isabella si era appena seduta davanti a me e mentre stava parlando, piegò la testa in avanti e gli cadde pesantemente sul tavolo. Dopo qualche secondo di stupore la presi e la adagiai in terra. Intorno a noi si creò un capannello di persone, chiesi se c’era un dottore in sala. Un anziano signore dopo averla sommariamente visitata chiese l’intervento dell’ambulanza, nel frattempo lei si riprese per qualche minuto e dopo aver rimesso una sostanza giallognola, perse nuovamente i sensi. Un milione di cose mi passò nella testa in quei terribili momenti. Mentre ero lì impotente davanti a mia moglie svenuta cercando di mettere in pratica le nozioni di primo soccorso apprese in gioventù nei corsi di salvamento in mare, lei si riprese nuovamente e con l’aiuto di alcuni pellegrini la portammo fuori dal locale a prendere un poco d’aria. Quando lei sembrò riprendersi completamente, io mi accasciai sul marciapiede. Mi raccontarono in seguito che rimasi incosciente per molti minuti. All’arrivo dell’ambulanza gli operatori sanitari dopo avermi stabilizzato volevano portare solo a me in ospedale. Nel frattempo ripresi conoscenza e con la poca voce che riuscii a far uscire dalla bocca, li supplicai di caricare pure mia moglie. Giunti nell’ospedale di Ponferrada El Bierzo, dopo una visita generale fummo sottoposti a esami diagnostici di routine, in seguito fummo trattenuti per la notte, idratati e monitorati e ossigenati continuamente. Il mattino seguente, parlammo con una dottoressa che conosceva bene l’italiano. Questa ci spiegò che il motivo del crollo era stato causato dallo stress fisico e dalla scarsa idratazione, in più per Isabella la frutta secca che acquistammo a Foncebadon,  peggiorò la situazione assorbendo tutti i liquidi residui. Lei mangiò più di trecento grammi di mandorle sgusciate. Morale della favola? Considerate l’età, la pessima condizione fisica e il malore  che ci colpì ci consigliò d’abbandonare il cammino o in alternativa di riposare almeno un paio di giorni, non pensare a mangiare, ma bere, bere e bere, per ristabilire il livello normale d’idratazione corporea. Fummo dimessi e recammo con il taxi all’Albergue, dove avevamo avuto il malore. Recuperammo gli zaini e l’ospitalero ci procurò una camera a Ponferrada. Di quella sosta forzata non voglio ricordare niente, mi sentivo sconfitto e demoralizzato. Ci misi un poco a elaborare il fatto, poi finii di accettare che chiedemmo troppo al nostro fisico, senza dargli il giusto apporto sotto forma di liquidi e la giusta alimentazione, una buona lezione da ricordare, restammo due giorni senza uscire dalla camera. Quando lo facemmo, fu solo per mangiare e in un’occasione di queste, visitammo la fortezza dei templari. Nei due giorni di sosta a Ponferrada non presi mai il quaderno di Rocco, lasciai indietro la lettura che fino allora mi aveva accompagnato nel viaggio. La sera prima della partenza verso la tappa seguente, valutammo seriamente le parole che la dottoressa ci disse. Le possibilità potevano essere due: abbandonare e tornare a Roma, oppure rischiare una tappa per saggiare la nostra condizione fisica poi decidere il da farsi. Come spesso accade, quando le possibilità sono due, caparbiamente ne esce sempre una terza. Proposi a Isabella di avvicinarci a Santiago saltando circa cinquanta chilometri del cammino utilizzando i mezzi pubblici, superare Trabadelo e giungere a Pedrafida, cittadina situata al confine tra le provincie di Leon e Galizia. Questa possibilità si ritenne la più coerente con la nostra condizione fisica e la voglia di giungere a Compostela. Il mattino seguente ci recammo alla stazione degli autobus. Coprimmo quei tratti comodamente adagiati sulle poltrone del bus, prendendo l’impegno che in un’altra occasione l’avremmo percorso a piedi. Giungemmo a cinque chilometri da O Cebreiro e alloggiammo nell’Albergue a Pedrafida. La notte riposai bene e il mattino seguente mi svegliai che era ancora buio. Da troppo tempo non prendevo in mano gli appunti di Rocco e mi sembrò che qualcosa mancasse, rovistai nello zaino e pensai che con la ripresa del cammino, potessi continuare questo coinvolgente viaggio parallelo. Mi misi comodo e iniziai a sfogliare le pagine.

 

Rocco in quel periodo visse in strada arrangiandosi come poteva, il luogo dove trascorse la maggior parte di quel tempo fu lungo il fiume, tra Roma e il suo litorale, nei pressi di Ostia. Quel giorno il fiume scorreva danzando tra mille mulinelli e l’acqua perlustrando le rocce affioranti al centro dopo uno spruzzo sempre diverso virava velocemente verso la sponda, dove rallentava la corsa per qualche secondo e poi riprendeva il viaggio verso il mare.

Sull’argine un uomo faceva la spola dai mucchi dell’immondizia situati alla fine del sentierino che costeggiava il fiume, trascinando dei sacchi di plastica nera fino a un fitto boschetto di canne e tamarici. Rocco si era seduto su una vecchia sedia sgangherata abbandonata sul greto del fiume e osservava la scena da almeno un’ora, non perché la cosa gli interessasse in modo particolare, ma la seduta della sedia era rivolta verso quella parte e non poteva non vedere. L’uomo ogni tanto durante il tragitto con il bottino gettava un’occhiata dalla parte di Rocco. I due s’incrociarono più volte con lo sguardo e ogni volta che accadde Rocco, accennava un timido sorriso. L’altro ricambiava infastidito dalla presenza di Rocco con una smorfia e un piccolo grugnito, a lui sembrava che quell’uomo avesse la mente in bilico sulla follia.

Quell’uomo sgambettava tra i mucchi della spazzatura per lui, una parte paradiso, l’altro inferno, sguazzando nella sozzura, ballava agile con le gambe all’aria e con una lenza di metallo, abilmente uncinava sospirando riemergeva lesto da quella bolla ogni qualvolta agganciava qualcosa che gli dovesse sembrare buono da infilare nel sacco di plastica.

Iniziò a cadere una timida e leggera pioggia, Rocco si alzò dalla sedia e scese l’argine in cerca di un riparo, l’uomo con i sacchi pieni si diresse verso il boschetto, i due s’incrociarono sull’unico sentiero che tagliava in due il tratto in piano tra il dosso dell’argine e il fiume.

Da quando aveva deciso di vivere in strada, lontano dalla civiltà e da ogni cosa che lo legasse all’infanzia, Rocco non si era mai trovato in una situazione come quella. L’uomo lo guardò fisso non mollando mai i sacchi, poi tentò di superarlo lateralmente, l’altro gli sbarrò la strada, lui fece un passo indietro e disse:― devo passare, sta piovendo e voglio ripararmi tra gli alberi. L’uomo senza rispondere allargò le braccia e cercò di occupare più spazio possibile, impedendogli il passaggio. Rocco era deciso a ripararsi sotto qualche albero, fece finta di andare verso destra e poi velocemente si diresse a sinistra superando l’uomo. Fece qualche passo verso il boschetto, quando oramai era vicino agli alberi, sentì le braccia dell’uomo avvinghiargli la vita, cercò di scrollarsi dalla presa mentre l’altro grugnì affannato: ―lasciami andare! Gridò Rocco, ma l’uomo non mollò, anzi lo strinse più forte e puntando i piedi cercò di trattenerlo lontano dal boschetto. Nel tirare e mollare i due caddero in terra e abbracciati si rotolarono nel fango, avvicinandosi pericolosamente all’argine. Rocco nel cercare di liberarsi allontanò l’uomo con forza. Ci fu un tonfo e l’altro cadde nell’acqua fredda del fiume. Dopo un attimo di sorpresa Rocco prese a inseguire quell’uomo che la corrente trascinava via, ogni tanto lo vide sparire e poi riemergere tra i rami che pendevano strusciando l’acqua. Lo raggiunse in un’ansa, lo afferrò per la giacca e puntando i piedi riuscì a tirarlo in secco. L’uomo rimase a lungo disteso sull’argine mentre Rocco lo vide respirare profondamente. All’improvviso l’uomo scattò in piedi e dopo averlo guardato qualche secondo, iniziò a camminare verso il suo rifugio posto tra le canne. Rocco si avviò al senso contrario a quello dell’uomo e scomparve in breve tra la folta vegetazione.

***

La luce dell’alba fece capolino dalla finestra della stanza, alzai gli occhi dal quaderno e mi sentii di nuovo in viaggio. La voglia di camminare salì prepotente dentro di me, guardai Isabella e pensai che la tappa odierna potesse segnare il confine, tra l’abbandono e la continuazione del pellegrinaggio verso Santiago. Lei si svegliò mentre io la fissavo e mi chiese se stavo bene, le ricambiai la domanda e insieme rispondemmo che eravamo pronti per continuare. Fatta un’abbondante colazione, caricammo gli zaini in spalla e ci avviamo verso l’inizio della tappa.

Ventesima tappa: Triacastela

Usciti dall’albergue, iniziammo a salire quei cinque chilometri che ci separavano da O Cebreiro circondati da un paesaggio stupendo. Dopo le lunghe camminate, prima nelle piatte e sterminate Meseta, dopo nella Tierra de Campos della provincia di Leon, il Paramo, le rigogliose montagne ci diedero nuova linfa e salimmo senza quasi accusare la fatica. Tenendo in mente le parole della dottoressa di Ponferrada, bevemmo a intervalli regolari una bevanda a base di Sali e finalmente giungemmo O Cebreiro. Lo spettacolare villaggio è composto di costruzioni che ricalcano le antiche capanne celtiche. Da visitare c’è la chiesa preromanica, Santa Maria la Real, testimone del miracolo dell’Ostia. La leggenda racconta che durante la celebrazione dell’Eucarestia, l’Ostia divenne carne e il vino sangue tra le mani di un sacerdote di poca fede. Poi, ci fu l’episodio del tentativo da parte d’Isabella la Cattolica, di portare via la Patena e il Calice del miracolo, pensando che le due miracolose reliquie, potessero aiutarla a diventare madre. I cavalli del carro dove caricarono le reliquie non ne vollero sapere d’avanzare e quell’episodio dagli abitanti del paese fu interpretato come il volere divino e le preziose testimonianze sacre furono riportate nella chiesa, dove ancora si possono ammirare. Lasciammo a malincuore O Cebreiro e iniziammo a scendere. La Galizia è caratterizzata da venti atlantici e brevi temporali che ci accompagnarono spesso nei numerosi saliscendi e sulle alture che spesso superano i milletrecento metri. Percorremmo un lungo sentiero attraversando boschi e superando fattorie, fino a giungere all’Alto de San Roche. Dallo stradino in salita sbucammo direttamente nella terrazza di un bar, lì sostammo per un breve riposo mentre numerose galline razzolavano tra i tavoli. Dall’altro lato della strada si trova un monumento al pellegrino, dove Isabella lasciò i sandali che acquistai per lei a Cassino, (quei sandali le mordevano i piedi). Scattammo qualche foto e riprendemmo il viaggio superando molte cime montuose fino a giungere a Pasantes, dove vedemmo il castagno più vecchio della Galizia che ha otto metri e mezzo di circonferenza.

Dopo poco giungemmo a Triacastela e la meta si fece più vicina, mancavano un centinaio di chilometri a Santiago. Ormai neanche tentammo di chiedere l’alloggio negli ostelli, tirammo dritti verso un Albergue privato, dove cenammo e andammo subito in camera. Dopo l’incidente avuto a El Acebo, non volemmo rischiare di rovinare tutto per vedere qualcosa in più, ci bastò quello che vedemmo durante la marcia tra una tappa e l’altra. C’era sempre da leggere le vicende descritte sul quaderno di Rocco e quella sera lo feci io per Isabella.

***

Dopo l’incidente con l’uomo dell’argine, Rocco girovagò per mesi lungo il fiume evitando il luogo dove questo viveva. A volte lo sentiva aggirarsi nei dintorni della tana che aveva strappato a qualche animale selvatico, per riposare durante il giorno. Poi dopo aver cambiato più volte posto, decise che non fosse più al sicuro e si avviò verso la spiaggia, sistemandosi all’interno di una casamatta di cemento quasi completamente coperta dalla sabbia portata dal vento e dalle potenti mareggiate invernali. Il residuato bellico era uno dei tanti sorti a difesa del litorale nel periodo cui si pensava che lo sbarco degli alleati sarebbe avvenuto alla foce del Tevere poi, com’è noto, avvenne ad Anzio. Il manufatto di cemento era diviso in tre piccole stanze arieggiate dalle feritoie poste ad altezza uomo. Una di quelle stanze, due cani randagi l’aveva eletta propria dimora, alla vista dell’intruso dopo un attimo di prevedibile diffidenza iniziarono a scodinzolargli intorno e da quel giorno fino a che rimasero insieme, condivisero cibo e giaciglio. Per Rocco in quel periodo gli unici rapporti umani furono quelli avuti con i pescatori che la notte si recavano a gettare le lenze in quel tratto di mare davanti alla casamatta. Lui restava ore a osservare gli uomini pescare e come se ci fosse un patto stabilito a priori, nessuno gli chiese chi fosse e cosa facesse in quel posto. Con il tempo tra lui e i pescatori si avviò un piccolo commercio. Rocco durante il giorno con un passino filtrava la sabbia recuperando i lunghi vermi molto ricercati dai pescatori,”l’Arenicola Marina”, in cambio ne riceveva qualche sigaretta, cibo e indumenti usati, qualcuno gli portò una sedia e una branda militare. Nella nuova sistemazione passò qualche mese, tutto sembrava andasse per il verso giusto, il cibo non gli mancava aveva la compagnia dei cani e il commercio con i pescatori gli procurava in parte quello gli serviva per vivere. Rocco una notte si sedette sulla sedia ad ammirare il mare e il cielo stellato, quando vide giungere un’auto della polizia. Due agenti si diressero verso i pescatori e parlarono a lungo con uno di questi. Rocco notò che il pescatore indicò verso la casamatta con insistenza e a un certo punto i due agenti si diressero verso di lui. Rocco prese in fretta le poche cose che gli capitarono tra le mani e fuggì facendo perdere le sue tracce tra la fitta vegetazione di canne che cresceva dietro la casamatta. Attraversò il fiume utilizzando un pontone collegato all’altra riva con cavo d’acciaio, sbarcò nell’isolotto di Torre Boacciana e lì per due giorni rimase nascosto nella folta vegetazione. Quando gli sembrò che fosse tutto calmo, iniziò a perlustrare l’isola e trovò una piccola imbarcazione, con questa attraversò il Tevere e una volta sbarcato sull’altra sponda “ Isola Sacra”e dopo aver guadato nuovamente il Tevere, si diresse verso nord.

***

A quel punto della lettura, Isabella mi tolse il quaderno dalle mani e disse: ─riposa se non vuoi crollare prima di Santiago. Lei rispettava alla lettera le raccomandazioni della dottoressa di Ponferrada: mangiare, bere, dormire regolarmente. A malincuore pensai che avesse ragione, bisognava essere previdenti. Il giorno seguente ci aspettava una tappa piena d’insidie e saliscendi continui. Spensi la luce e sognai di essere in viaggio e tutto mi sembrò semplice: salire e scendere i Pirenei, attraversare la Meseta, la Tierra de Campos, i monti della Cordigliera Cantabrica e dall’alto sentire l’odore dell’oceano portato dal vento. Il mattino seguente al risveglio, ebbi la sensazione di aver viaggiato tutta la notte e che conoscessi ogni metro del sentiero fino a Santiago. Svegliai Isabella, preparammo lo zaino e poco dopo eravamo in cammino verso Barbadelo.

Ventunesima tappa: Barbadelo

Come previsto dalla mappa ci addentrammo in un bosco, costeggiammo un corso d’acqua, attraversammo un numero infinito di ponticelli, fino a salire su un tratto di strada asfaltata, poi di nuovo ci infilammo nella campagna della Galizia. Superammo fattorie e piccoli centri, così per tredici chilometri fino a giungere a Calvor. Qui compiemmo una sosta poi ci dirigemmo alla volta di Sarria. Giunti nella cittadina, dove restammo il tempo necessario a visitare qualche chiesa, riprendemmo il cammino uscendo dalla città seguendo dei murales che rappresentavano numerosi pellegrini in cammino. Usciti dal centro abitato, percorremmo un sentiero di montagna che si snodava all’interno del bosco, dopo circa due ore di cammino avevamo perso le speranze di trovare Barbadelo. Convinti di esserci persi uscimmo all’aperto e su un altopiano vedemmo un piccolo centro rurale e un cimitero, finalmente quel paese era Barbadelo. All’entrata del paesino ci fermammo in un Albergue splendido con annessa piscina. Quando ci consegnarono la stanza, la eleggemmo la più bella del cammino da quando partimmo dai Pirenei. Il proprietario era un convinto antiquario ed esponeva le antichità in ogni parte del ristorante. Qui la sera si poteva fare tardi liberamente seduti al bar senza l’obbligo di rientrare nelle camere alle ventidue. Più che un Albergue ci sembrò un centro vacanze. Durante la sosta rincontrammo la maggior parte dei pellegrini che ci avevano superato nel tratto da Sarria a Barbadelo, tra cui un ragazzo romano in cammino verso Santiago, senza soldi e fidando sulla benevolenza degli ospitalero e vivendo con quello che i pellegrini gli potevano dare. Quella sera socializzammo con alcuni pellegrini tedeschi abbastanza allegri, parlammo con loro per più di un’ora senza capire una parola “potenza del cammino” poi ci rifugiammo nelle nostre camere, soddisfatti della lunga chiacchierata. Quando Isabella ed io restammo soli, ripresi la lettura da quando Rocco sfuggì alla polizia e si diresse verso nord.


 

Rocco dopo la fuga da Ostia, attraversò la campagna di Fiumicino e costeggiò l’aeroporto dirigendosi verso le alture che si vedevano in lontananza. Superò Maccarese, Torrimpietra facendo attenzione a non incontrare nessuno, viaggiò la notte e il giorno riposò nelle vicinanze di qualche fattoria, dove si rifornì rubacchiando qualche frutta dagli alberi e qualche uovo dai pollai. Nei luoghi che gli sembrarono più tranquilli, sostò qualche giorno riprendendo poi il cammino quando qualche curioso gli iniziava a gironzolare intorno. Superò Ceri e Ladispoli, poi si diresse verso il Lago di Bracciano, compiendo un largo giro, dopo circa un mese giunse ai piedi dei Monti della Tolfa. Ormai allo stremo, le forze lo abbandonarono nei pressi di un fienile rimase incosciente per una notte, il mattino il fattore lo trovò immobile tra la paglia. L’uomo lo scrollò fino che Rocco aperse gli occhi e con un filo di voce gli disse:─ ho fame. Il fattore aveva con sé una borsa con il pranzo. Glielo offrì e Rocco senza pensarci molto con avidità lo divorò. L’uomo si allontanò per governare le bestie che si trovavano in un recinto poco lontano dal fienile. Rocco finito di mangiare si alzò e si diresse il fattore, lo trovò mentre liberava gli animali per mandarli al pascolo. L’uomo lo fissò per un attimo poi gli chiese:─cosa fa da queste parti? ─Cammino, sono giorni che lo faccio. ─Dove è diretto?─Dove capita, non ho una meta precisa. ─Pensa di rimanere in zona? Rocco rimase in silenzio, nei suoi pensieri c’era la stanchezza che tutto il corpo gli reclamava. ─Potrei darle una mano per qualche tempo fino a che non mi riprendo fisicamente, accennò con voce flebile. ─Può rimanere quanto vuole, però non la posso pagare, gli rispose il fattore. Posso darle qualcosa da mangiare e qualche vestito usato. ─Se a lei va bene? ─ Dormirei nella capanna degli attrezzi, ribatté Rocco. L’uomo acconsentì e i due con una stretta di mano suggellarono l’accordo. Il fattore gli spiegò che non erano molti i compiti da svolgere: prima del tramonto avrebbe dovuto radunare le bestie nel recinto, la mattina prima che si alzasse il sole aprire il cancello affinché queste raggiungessero il pascolo e poi pulire l’area del recinto. ─Se vuole lavarsi c’è il fontanile disse l’uomo, indicando una vasca rettangolare in cemento al margine della recinzione usata come abbeveratoio per i bovini. Il fattore lo salutò dicendogli che sarebbe passato il giorno successivo. Lui sistemò le poche cose che aveva nella capanna, poi si diresse alla vasca di cemento. Questa era continuamente rifornita tramite una bocchetta di ferro che convogliava l’acqua da una piccola sorgente che sgorgava nel bosco. Si denudò e s’immerse nell’acqua fresca provando un piacere che aveva dimenticato. Rimase più di un’ora a bagno, poi dopo aver lavato gli indumenti, si addormentò scaldandosi al sole in attesa che gli abiti si asciugassero. Fu svegliato da una folata di vento più fresca delle altre. Mentre si vestì, ricordò che uno dei compiti affidatogli dal fattore era di radunare le bestie nel recinto per la notte. Raccattò un lungo bastone e si avviò verso le prime vacche che pascolavano a circa cento metri da lui. Solo quando fu abbastanza vicino, realizzò quanto fossero grandi i bovini di razza maremmana. Lo fissavano con occhi inespressivi, nei suoi ricordi da bambino c’era la vacca di Paolo, pezzata bianca e nera, con piccole corna appena accennate sulla testa, cui si vedevano le ossa sotto la pelle. Quelle che si preparò a radunare, erano completamente bianche e di una stazza che non aveva mai visto, avevano lunghe corna appuntite e gli incutevano timore. Iniziò con timidi comandi che non sortirono nessun effetto sui bovini, poi con un tono più alto e mulinando il bastone in aria. Andò così per almeno un’ora, poi mentre Rocco si era seduto sfiduciato sulla possibilità di radunarle e il sole calava dietro la collina, una vacca gli passò vicino dirigendosi verso il recinto, una dopo l’altra, come se le bestie avessero avuto un segnale dalla prima, la seguirono e a lui bastò chiudere il cancello quando l’ultima lo varcò. Le cose andarono bene per qualche settimana fino a che una sera il fattore organizzò una grigliata con gli amici. Accese un grande fuoco davanti alla capanna degli attrezzi, quando il fuoco si estinse lasciando al suo posto una brillante brace era già sera. L’uomo con i suoi amici attrezzò una grande griglia, dove arrostirono pezzi di carne appena macellati. Rocco rimase presso il recinto delle vacche e guardò la festa da lontano dopo aver terminato di governare le bestie. Si avvicinò per entrare nella capanna e vide che gli uomini intorno al fuoco erano ubriachi. Riconobbe in loro la stessa pazzia del padre quando beveva. Lui esitò qualche istante poi cercò di entrare nella capanna senza farsi notare. Al fattore non sfuggì la manovra di Rocco e vedendolo sgattaiolare lo invitò a sedersi a mangiare e bere con loro. Lui senza rispondere entrò nella capanna e si sdraiò sulla tavola che gli faceva da letto. La festa andò avanti fino a tarda notte. Udì gli uomini parlare e capì che l’argomento della serata era lui. Poi ci fu un lungo silenzio rotto a tratti da un parlottare astioso. Rocco sentì la porta aprirsi e vide il fattore immobile all’entrata della capanna che lo fissava, l’uomo dopo qualche secondo di silenzio gli disse:─perché non ha accettato di mangiare con noi? Udì la voce dell’uomo impastata e farfugliante, dietro di lui vide altri uomini che lo esortavano a entrare nella baracca. Rocco si mise seduto sul letto e rispose: ─ non avevo fame. Poi l’uomo afferrò il bastone per governare le bestie e senza che lui ne capisse il motivo, iniziò a colpirlo. Nella stretta casetta Rocco cercò d’evitare i colpi del fattore e cadde più volte. Quando gli altri si unirono al pestaggio, si coprì il più possibile si fece largo e spingendo riuscì a fuggire. Sentiva il fattore che gli urlò dietro mentre affannosamente raggiunse il bosco. Vagò nella fitta boscaglia fino a trovare una piccola capanna usata per la caccia. Quando fu sicuro che non lo avessero seguito si rilassò e dormì fino il mattino. All’alba riprese a camminare senza sosta fino a raggiungere Allumiere. Girò per la cittadina per qualche ora poi riprese a camminare dirigendosi verso ovest. Riuscì a mangiare presso un ristorante nella zona La Bianca. Poi uscendo dal paese vide dall’alto il mare e quello che gli sembrò un porto. Iniziò a percorrere la lunga discesa che portava al mare e mentre scendeva Rocco decise: per non avere più problemi con il prossimo non avrebbe più parlato.

***

Lasciai la lettura e andai a dormire con l’amaro nella bocca. Avrei voluto che il mio ex compagno di viaggio fosse con me in quel momento per confortarlo e abbracciarlo e inoltre i suoi appunti necessitavano d’approfondimento. Ci doveva essere qualcosa in più da sapere. I suoi racconti diventavano sempre più complicati e avevo bisogno di conferme per andare avanti, giunto a Santiago volevo tutti i tasselli al loro posto. Chissà se lui era già giunto a Compostela? Mi addormentai con quel pensiero e mi ci svegliai il mattino seguente. Quando salutammo Barbadelo passammo vicino alla chiesa in stile romanico gallego, (così diceva la targa turistica) era qualche giorno che non pregavamo. Ci fermammo davanti all’edificio sacro (era chiuso) a recitare un’Ave Maria. Mentre pregavamo, vedemmo i pellegrini sfilare silenziosi e tra quelli io provai a vedere se c’era il nostro Rocco sperando di riconoscerlo in mezzo alla fila di zaini colorati che passava accanto a noi. Qualche volta ci sembrò di vedere qualcuno che somigliasse a Rocco tra i pellegrini che ci camminavano davanti, allungavamo il passo fino a raggiungerlo, poi quando eravamo abbastanza vicini, capivamo che quel pellegrino era uno dei tanti che viaggiava verso Santiago e non Rocco, rallentavamo delusi mentre questo sorridente ci salutava (Buon Cammino).

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Ventiduesima tappa: Gonzar

Accantonata la speranza di ritrovare il compagno di viaggio, riprendemmo a camminare in mezzo alla campagna su una stradina di pietra e dopo una salita abbastanza ripida iniziamo a percorrere stretti sterrati in mezzo ai boschi, un saliscendi infinito. Attraversammo piccoli corsi d’acqua, uscendo qualche volta su strade asfaltate che attraversavano campi montani con numerosi animali al pascolo. Superammo piccoli centri che sembravano più fattorie che paesini. Dopo un tratto percorso su grandi quadroni di pietra, giungemmo in un bar attrezzato con tavoli all’esterno. Sembrava essere a via del Corso a Roma in un bar frequentato da locali e turisti. Tra questi facciamo conoscenza con tre ragazzi di Genova. Uno di loro ci sembrò mal messo, ci disse che cercava di raggiungere il primo centro di una certa importanza e trovare il modo per rientrare in Italia. Parlando con il giovane gli raccontai quello che ci era successo durante la tappa alla Croce di Ferro e come in seguito avevamo scelto di continuare poi gli dissi: ─puoi provare con i miei bastoncini e vedere se riesci a camminare meglio. Lui dopo un momento di silenzio mi chiese: ─ come farai senza i bastoni. ─Non ti preoccupare per me! Impugnali e continua a camminare Santiago è vicina. In un primo momento era scettico che i bastoncini gli sarebbero stati d’aiuto, il giovane provò per un centinaio di metri ed entusiasta accettò poi disse: ─grazie romano ci si vede davanti alla cattedrale. Lasciammo i genovesi e riprendemmo a camminare con un gruppetto di pellegrini, inglesi, tedeschi, brasiliani e gli immancabili, italiani. Gli spagnoli ci raccontavano come agosto fosse il mese dei nostri connazionali e che il cammino si riempisse d’italiani. Questo era il nostro mese. Superato Ferreiros, iniziamo a scendere di quota fino ad arrivare a Porto Marin.

Porto Marin dall’altura al pellegrino si presenta con bel lago artificiale. Nel bacino vi è sommersa parte dell’antica città. Quella attuale venne in parte ricostruita con i resti della vecchia sull’altura che domina il lago (Monte del Cristo). Accedemmo alla cittadina attraversando un lungo ponte che collega le due rive del lago, salimmo dalla scala in pietra che porta alla parte superiore, percorremmo i portici fino ad arrivare alla chiesa fortezza di san Nicolas e sotto i portici ci fermammo a riposare. Ripresi la vita di Rocco tra le mani, “mi riferisco agli appunti” che secondo le mie aspirazioni e la volontà di Rocco dovrebbero diventare un libro. Dimenticavo: le pagine degli appunti a volte sono confuse e perdo un poco di tempo a rimettere in fila le vicende e non sempre ci riesco e quindi a volte cucio, un po’ taglio, cercando di dare una sequenza logica alle cose che ha scritto Rocco.

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Come si diceva poco fa Rocco si avvicinò al porto di Civitavecchia e dopo l’aggressione, impaurito e deluso dagli uomini, non aveva più voglia di parlare.

Rocco viaggiò la notte e il giorno dormì, dove gli capitò facendo attenzione a non essere notato. Non volle avere contatti con nessuno che lo potesse riconoscere. Quando giunse al porto, i traghetti per le isole e le grandi navi da crociera lo affascinarono. Passò ore a pensare come salire sopra una di quelle città galleggianti fino a che riuscì in qualche modo a imbarcarsi.

Il traghetto che portava all’isola sembrava non avanzasse un metro mentre affrontava le grandi onde provenienti da sudovest. Il vento di Libeccio urlava tutta la sua rabbia sulla superficie marina nebulizzando l’acqua sulla fiancata della nave. La navigazione durava oramai da circa sei ore e i passeggeri che sostavano nel bar, giacevano riversi sulle poltroncine provati dal forte sballottamento. Alcuni seguivano l’andamento del beccheggio trattenendo il respiro, ogni volta che la nave saliva tremolante sull’onda pregavano che questa fosse in grado di superarla. Una volta in cima quando la nave iniziava la fase discendente con le mani, si trattenevano forte all’altezza dello stomaco come se le viscere volessero uscire dalla bocca. Le onde battevano forte sulle murate annaffiando i ponti nonostante questi fossero molti metri sul livello del mare. I marinai in previsione della tempesta avevano allestito dei grandi teli per proteggere le parti scoperte della nave. Alcuni si erano strappati e sventolavano come stracci impazziti a ogni raffica di vento, a nulla valse ogni tentativo per ammainarli e uno dopo l’altro, volarono via come gabbiani strapazzati dal vento e sparirono tra le onde.

Secondo il capitano una tempesta come quella erano almeno trenta anni che non avveniva e per una traversata che avrebbe dovuto durare al massimo otto ore, ne stimò almeno dodici di navigazione. Nella sala delle poltrone alcuni passeggeri dormivano come se la tempesta non li riguardasse. Tra loro Rocco sonnecchiava. Intrufolatosi insieme a un gruppo, era riuscito a salire sulla nave senza il biglietto. Tutto sembrò andare bene fino a che qualcuno dei passeggeri si lamentò per il cattivo odore che emanava. Pressato dalle ripetute richieste ricevute dai passeggeri, il capitano della nave incaricò gli uomini della sicurezza di verificarne l’identità. Si avvicinarono con cautela e scossero Rocco delicatamente:─signore si svegli. Lui fece finta di non sentire cosa dicessero e continuò a serrare gli occhi. Uno degli uomini lo scrollò con forza e disse: ─si svegli e ci dia i documenti! Rocco aprì gli occhi e si mise seduto ritirando le gambe verso il petto e ci nascose la testa. ─Non deve aver paura è solo un controllo! Lui continuò a non parlare stringendosi sempre più su se stesso fino a sembrare una specie di sacco gettato sul pavimento. Fu chiamato il medico di bordo che dopo vari tentativi riuscì a stabilire un contatto con Rocco. Lo convinse ad alzarsi e a farsi seguire fino all’infermeria. Gli diedero un panino e dell’acqua e quando fu a suo agio, il medico gli diede un calmante e Rocco dormì fino all’arrivo senza creare nessun problema. Fu allertata la polizia del luogo e dopo vari tentativi andati a vuoto per conoscerne l’identità, Rocco fu affidato ai sanitari dell’ospedale psichiatrico della città. Rimase ricoverato in attesa che qualche parente si facesse vivo per poterlo dimettere. Nessuno venne quel giorno né in quelli successivi.

Adesso non mi chiedete come fu che nessuno lo cercò oppure perché l’autorità non fece chiarezza sull’identità di quell’uomo perché me lo chiesi anch’io più volte. Resta che lui la racconta così. A supporto di quanto sopra, personalmente conosco un uomo che è stato sbattuto da un istituto di pena all’altro per circa dieci anni, solo perché senza fissa dimora e ancora oggi vive in una R.S.A (meglio che in carcere) e mi fermo qui.

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Torniamo a Porto Marin e sul cammino. Isabella ed io restammo seduti sotto i portici che si trovano sulla piazza, quasi mezzora a riposare. I pellegrini giungevano con ogni mezzo oltre che a piedi. Il largo si riempì di biciclette, pullman e in particolare notai che molti pellegrini scesero dai taxi. Tra loro riconobbi alcuni che alloggiarono nel municipale a Triacastela dove la precedenza dell’alloggio “dovrebbe” essere per i pellegrini a piedi. Seduto a un bar di Porto Marin capii dopo circa settecento chilometri perché non trovavamo mai un letto nei posti meno cari. Questi ci precedevano con il taxi! Altri usavano tra una tappa e l’altra farsi trasportare gli zaini da un’auto presa in affitto, (se la capivo prima quest’ultima, l’avrei fatta anch’io). Inutile recriminare quel che è fatto è fatto. Eravamo a poco più di ottanta chilometri dalla meta. Ci sentimmo speciali e orgogliosi e nonostante tutte le difficoltà ancora in viaggio. Lungo il cammino ho spesso pensato che qualche santo ci ha protetto, sarà stata la suggestione, la stanchezza ma qualche volta nelle salite più difficili e nelle desertiche Mesetas, lungo la Tierra de Campos, ho creduto che Qualcuno camminasse accanto a me. Dopo El Acebo ho immaginato che il destino o chi altro non so’ ci portò fin a quell’albergue dove ci prese il malore per consentire a qualcuno di soccorrerci. Sono tutti pensieri che girano nella mente mentre si cammina e questo viaggio li fa andare a ruota libera.

Uscimmo da Porto Marin e dopo una piccola discesa, superammo una ripida salita, salimmo in un chilometro fino a circa seicento metri d’altitudine. Poi percorremmo un lungo tratto in piano fino a giungere a Gonzar. Dopo aver chiesto a più Albergue, finalmente trovammo alloggio in una fattoria. La signora che ci ospitò ci indicò un ristorante che aprì solo per noi. Cenammo in solitudine e trascorremmo il resto della serata in compagnia di un grosso cane pastore. Secondo la proprietaria della fattoria doveva essere un “perro muy perigroso”, a noi ci sembrò poco più di un cucciolo. La sera dopo cena restammo seduti davanti alla fattoria in compagnia del cane, a noi si aggiunse un pellegrino spagnolo proveniente dal cammino Primitivo. Come il solito ci sembrò che la lingua non fosse una barriera insormontabile. Riuscimmo a capire non tutto ma abbastanza di quello che ci raccontò perché lo spagnolo del pellegrino era molto complicato, però capimmo che proveniva da Oviedo passando per Lugo e si dirigeva verso Melide. Poi ci parlò di una pulperia famosa cui il proprietario è un certo Ezechiele noto a tutti i pellegrini che negli anni sono passati da quella città. Il pellegrino andò a dormire mentre noi restammo ancora un poco a goderci la bella notte piena di stelle, poi alla luce delle lampade frontali che c’eravamo portati in caso d’emergenza, leggemmo qualche pagina.

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Rocco fu ricoverato in un centro psichiatrico sottoposto da quello che si capisce nelle pagine lette in precedenza al fermo sanitario. Lasciamo Rocco allo TSO (trattamento sanitario obbligatorio), e andiamo a vedere il resto della famiglia (se così si può chiamare) che fine fece.

Vittoria, la madre, da quando la relazione con Sandro fu bruscamente interrotta dal suo arresto, non aveva avuto più legami duraturi. Ricapitolando: Sandro non era mai stato l’uomo cui lei pensasse per una duratura relazione. L’amante fu per Vittoria una pedina necessaria a fuggire da suo marito Aldo. In seguito (come già raccontato nelle pagine precedenti) quest’uomo si rivelò un poco di buono e fu arrestato per aver accoltellato una persona durante una rissa a un locale e lei non ne fece un dramma. Detto, questo c’era un altro uomo conosciuto da Vittoria prima di Sandro cui lei pensava spesso, ed era Gianni. Dentro di lei era rimasto il ricordo della sua gentilezza e fu conquistata dai modi del barista conosciuto mentre cercava lavoro. Ricordava la delusione nel suo viso la sera della cena. Vittoria lo lasciò fuori dal ristorante e fuggì verso la stazione presa dai rimorsi per quel possibile tradimento nei confronti del marito. Nonostante si rimise per un periodo con Aldo poi, con Sandro, anche se evitò di rincontrarlo, da quella sera non lo dimenticò mai.


 

Il bar dove lavorava Gianni si trovava poco lontano dal magazzino di Piazza Vittorio. Quel pomeriggio Vittoria finì presto al lavoro e mentre riposava su una sedia davanti al magazzino, come spesso le accadeva, lui gli venne in mente. Se lo rammentava gentile e divertente, in lei aveva lasciato uno di quei ricordi belli che ogni tanto valeva la pena tirare fuori dal cuore, magari nei momenti più difficili. Il desiderio di vederlo si fece forte si alzò dalla sedia e diresse verso il bar mentre  il cuore nel petto correva all’impazzata. Percorse Via Giolitti tutta di un fiato, giungendo all’ingresso del bar, sbirciò all’interno e non lo vide, guardò meglio e lo cercò tra i clienti che affollavano il locale poi, entrò e chiese alla cassiera: ─Cerco Gianni e non lo vedo, lavora ancora qui? La ragazza le disse che per lui quello era il giorno di riposo. Vittoria rimase un attimo in silenzio e non fece niente per nascondere la sua delusione. ─Può dirle che sono passata? Le dica Vittoria, lui capirà. Si voltò e uscì in strada raggiunse in fretta la pensione, dove era alloggiata, entrò in camera e si distese sul letto pensando che forse non averlo incontrato doveva essere un segno del destino. “Altro che destino”! Borbottò cercando di addormentarsi. Aveva voglia d’incontrarlo e quella sera non riuscì a toglierselo dalla mente.

Il mattino seguente si svegliò ancora con quel pensiero. Era tardi e doveva raggiungere le altre ragazze perché il pulmino sarebbe dovuto partire per Firenze alle nove. Si vestì in fretta e le trovò tutte pronte per la partenza davanti al magazzino.

─Fai in fretta Vittoria! Le gridò l’autista.

─Maledetta sveglia! Scusatemi tutti. Salì sul pulmino e disse all’autista:─ Ascanio potrebbe passare al bar della stazione devo fare una commissione? Mi sbrigo in un attimo e poi partiamo. Vittoria entrò nel bar e Gianni era lì intento a servire la clientela. Lei si mise davanti al banco e disse: ─fammi un caffè Gianni. Era passato tanto tempo ma bastò uno sguardo e lui la riconobbe. Gianni si girò verso la macchina come se non avesse sentito e senza guardarla le disse: ─subito signora ecco a lei il miglior caffè di Roma. Quando lui alzò la testa e gli sguardi s’incrociarono, rimase qualche secondo con la tazzina tra le mani per prolungare quel momento poi:─Vittoria, da dove arrivi? Forse dal libro dei sogni? Disse mentre posava il caffè sul banco. ─Non posso spiegarti perché sono in partenza e mi stanno aspettando qua fuori, torno venerdì e ci tengo a vederti ancora … naturalmente se lo vuoi anche tu? ─E me lo chiedi? Da quella notte non faccio che pensarti, sarò qui ad aspettarti. Lei si girò e uscì con il cuore in tumulto, salì sul pulmino e si rannicchiò sul sedile. Per tutto il viaggio non disse una parola pensando al giorno del ritorno. Quella settimana a Vittoria sembrò non passasse mai, finalmente giunse il venerdì e la prima cosa che fece quando tornò a Roma fu andare da lui.

Rimase ferma all’entrata del locale indecisa sul da farsi. I clienti uscivano ed entravano frettolosi, le chiamate delle partenze e degli arrivi echeggiavano sui muri della stazione. A lei sembrò aver perduto quella sicurezza che la portò a cercare Gianni dopo tutto quel tempo, sarebbe voluta sparire, tra le centinaia di persone o prendere il primo treno senza conoscerne la destinazione, si sentiva come una bambina in preda al panico e avrebbe voluto fare la cosa che meglio di tutte in quegli anni l’era venuta bene … fuggire. Si girò e lentamente si avviò lungo via Giolitti. Mille pensieri vorticosamente le occuparono la testa: Aldo, Rocco, i suoi genitori, i momenti di sesso frettoloso con amanti occasionali, ogni cosa le passò in ordine sparso nella mente ma lei tra quei visi non apparve mai, in quella raccolta non c’era, in quello che doveva essere l’inventario della sua vita, tutti passavano meno che lei. Il respiro si fece affannoso e si fermò davanti alla vetrata del negozio di dischi che si trova all’angolo con via Mamiani, si specchiò cercando di fissare la sua immagine nella mente. Passò le mani tra i capelli scoprendo la fronte e un leggero sorriso le illuminò il volto. Chiuse gli occhi e ascoltò per qualche secondo la musica che il negozio diffondeva. Senza rendersene conto iniziò a danzare lentamente tra la gente che passava sul marciapiede, uno di questi la intruppò e poi le disse:─a matta! Vai a ballare all’Ambra Jovinelli ( un teatro di Roma)! Aprì gli occhi e vide che molti curiosi si erano affollati intorno a lei, senza scomporsi si fece largo tra la gente si avviò verso il bar, dove lavorava Gianni. Mentre camminava con passo svelto, pensava: “Si sono matta voglio rifarmi una vita vera, una normale dove c’è spazio per tutto quello che non ho avuto, si voglio essere matta.”

Giunse davanti al locale e senza pensarci due volte entrando si diresse verso lui, si appoggiò con le braccia sul banco e ordinò un caffè. ─Come lo vuole signora Vittoria? Le chiese Gianni. ─Normale, né macchiato, ne corretto, normale. Le rispose lei sorridendo.

Lui fece il giro del banco gli andò incontro e le disse: ─non so perche tu sia qui, quello di cui sono sicuro è che sono molto felice qualsiasi fosse il motivo che ti ha portato da me.

─Ho finito il turno mi cambio e andiamo. ─Dove? Le chiese lei. Ovunque dove tu vorrai.

Passeggiarono a lungo per le vie della città, le cose da dirsi erano molte e Gianni volle sapere che fine avesse fatto dopo quella notte, le disse che l’aveva attesa a lungo nei giorni successivi alla cena, sperando che all’improvviso apparisse nel bar.

─Non mi sono mai rassegnato alla tua scomparsa e ho atteso, sperato che tornassi a prendere almeno un caffè.

─ Nei miei pensieri ti ho dato un soprannome: Cenerentola, ti vedevo con la scarpa in mano che fuggivi verso la stazione degli autobus quando svanisti nella notte.

─Cosa hai fatto in tutto questo tempo? Mentre io aspettavo. Poi, l’hai trovato un lavoro? Lei lo fissò per un attimo e sorridendo fece un cenno d’assenso e non disse una parola per non interrompere quella magia.

Vittoria lo ascoltò senza dire niente, aveva voglia di sentirlo parlare e godersi quel momento fino in fondo, assaporando la normalità con lentezza e senza rendere conto al tempo che passava.

Camminarono a lungo fino a giungere al Tevere. Al riparo dei platani lei si fermò e lo trattenne per un braccio. In quel momento un folto gruppo di turisti attraversò il lungotevere e invase il marciapiede. In un attimo si trovarono accerchiati da quella folla, lo spazio era poco e nel passargli accanto furono costretti a dividersi. Gianni tentò di resistere alla foga dei turisti poi, rassegnato attese che si diradassero, mentre Vittoria lo guardava divertita. Passata la bufera, si ritrovarono abbracciati e lei sussurrando le disse: ─portami a mangiare a casa tua.

─Puoi scegliere tra pasta, pollo e melanzane alla parmigiana. Sono bravo a cucinare … per la verità mi viene meglio rifornirmi alla rosticceria sotto casa.

La cucina era piccola e vi regnava la confusione lei si avvicinò al lavandino e iniziò a lavare le stoviglie, Gianni tentò di fermarla ma lei non ne volle sapere. Lo allontanò in modo delicato ma deciso, poi si rivolse a lui: ─ vai alla rosticceria e prendi le lasagne e il pollo arrosto, poiché ci sei anche delle patate al forno, l’insalata e il vino. Gianni rimase per un attimo a fissarla mentre lavava i piatti, poi aprì la porta e scese le scale saltellando come un bambino. Quando fece ritorno trovò la tavola apparecchiata e Vittoria seduta che lo aspettava sorridendo. ─Quanto tempo c’è voluto? Qui è tutto pronto, mangiamo?

Durante il pranzo lei raccontò delle peripezie avute in quegli anni. Le disse di Aldo e gli confidò della preoccupazione per Rocco e del fatto che fosse svanito nel nulla. Lui la ascoltò in silenzio e la fece sfogare, le asciugò le lacrime, la fece sorridere con delle battute stupide e si trovarono stretti al centro della stanza che si baciavano. A lei sembrò così normale sentire di amarlo mentre lui le sommergeva di baci il viso accarezzandole lentamente il corpo. Quando le mani di Gianni indugiarono sul seno, delicatamente Vittoria lo scostò, si tolse la camicetta, lo afferrò per la mano e lo tirò verso la stanza da letto. Gianni che aveva iniziato a spogliarsi e avendo i calzoni incastrati tra i piedi la seguì quasi saltellando, risero come due bambini e fecero l’amore. Le ore passarono senza che i due si rendessero conto che era già la sera del sabato, Gianni si alzò dal letto e in fretta si vestì mentre le disse:─ho il turno di notte devo andare ma tu resta e fa come se fossi a casa tua, quando torno, cuciniamo qualcosa e stiamo ancora insieme. Vittoria con voce dispiaciuta le disse: ─Rimarrei volentieri, ma devo partire per Milano e ritorno a Roma venerdì. ─Non sparire, promettilo! Oppure questa volta ti verrò a cercare in capo al mondo, quasi le urlò Gianni. Lei sorrise poi lo afferrò portandolo a se e gli disse ridendo: ─Ti amo e questa volta non fuggirò.

Vittoria tornò alla pensione e preparò le cose che le sarebbero servite durante quella settimana e dall’armadio scelse i vestiti più colorati che aveva per gridare a tutto il mondo che le cose stavano cambiando e la vita da lì in poi sarebbe stata più colorata.

***

Si era fatto molto tardi, la lettura questa volta andò più avanti del solito, era passata la mezzanotte, il vincolo degli ostelli di rientrare alle dieci, nella fattoria non valeva, la porta d’entrata rimase aperta tutta la notte con il cane accucciato davanti a questa.

Ventitreesima tappa: Melide

Il mattino seguente dopo aver consumato la colazione, nel ristorante della sera prima si riprese il cammino. Pochi chilometri ci dividevano da Santiago e l’umore era al massimo ed io iniziai a cantare Azzurro. Mentre marciavamo dietro di noi, camminava un giovane pellegrino, lo avevamo già visto all’uscita da Barbadelo, (non lo cercate nelle pagine che precedono questa, perché non l’ho mai menzionato) il giovane ci affiancò e cantò con noi negli stretti sentieri boscosi. In seguito ci raccontò che aveva iniziato a camminare a Genova e da più di un mese che era in viaggio dormendo di solito in tenda e solo qualche volta negli ostelli. Il giovane ci disse di essere un atleta di buon livello nazionale quindi ne ometto il nome. Dopo qualche chilometro passato in compagnia, allungò il passo e in breve tempo diventò un puntino davanti a noi fino a sparire. In seguito lo ritrovammo più volte lungo la via e quando ci vedeva arrivare silenziosi e provati dalla stanchezza per rallegrarci iniziava a intonare Azzurro. Dopo molti tratti percorsi tra i boschi, percorremmo molto asfalto. Superammo alcuni piccoli centri rurali e molte costruzioni adibite a stalle e giungemmo a Palas del Rei. Molte ipotesi si fanno sulla nascita di questa città, una tra le tante formulate è di essere stata dimora di un re visigoto nel quinto secolo, (così nella guida è citato). Visitammo velocemente la cittadina e mentre stavamo per uscire dal centro abitato, vedemmo una Pulperia e non potemmo resistere lì sostammo per mangiare. Posso dire con certezza che da quel giorno non abbiamo più mangiato il polpo con le patate alla gallega così buono. Dopo pranzo ci avviammo verso Melide e con un bel passo allegro, coprimmo circa cinque chilometri abbracciati dalla verde Galizia. Camminando su stretti sentieri attraversammo boschi e campagna, trovando l’asfalto della strada solo nei pressi di piccole località. Attraversammo un ponte romano, (uno dei tanti fino a qui superati). Poi dopo un ultimo strappo lungo circa dieci chilometri si giunse a Melide il pomeriggio inoltrato. Alloggiammo in una camera prenotata tramite un noto sito Internet. Vorrei dimenticare in fretta quella specie d’albergo tanto era sporco. La lezione in seguito ci servì nelle tappe successive. Isabella ed io dopo quell’esperienza decidemmo che fosse meglio giungere a fine tappa e cercare al momento. Terminate tutte le operazioni di fine tappa, doccia, medicazioni e indumenti puliti, ci recammo di corsa alla tanto nominata pulperia di Ezechiele con il terrore di trovarlo chiusa. Il ristorante lo trovammo affollato dai numerosi pellegrini conosciuti durante le soste del giorno e organizzammo una tavolata numerosa e soprattutto rumorosa. La fama che precedeva Ezechiele è ben posta e meritata, mangiammo polpo con le patate, peperoni verdi in padella e gamberetti e forse bevuto troppo vino. Tornammo in albergo con le gambe piegate e crollammo quasi subito. Il mattino seguente come il solito mi svegliai prima dell’alba e mi misi a leggere ancora qualcosa riguardo a Vittoria in attesa che Isabella si svegliasse.

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Vittoria dopo aver ritrovato Gianni sentì di nuovo la vita scorrerle nelle vene e intorno a lei tutto sembrò assumere il colore dell’allegria. Quando salì sul pulmino, l’autista e le colleghe intuirono subito che qualcosa in lei era cambiato. Parlò per tutto il viaggio e non si addormentò come di solito le accadeva nei lunghi trasferimenti verso le città dove avrebbero lavorato. Lavorò in coppia con Marcella e quando tra una vendita e l’altra restava un po’ di tempo, le parlò di Gianni. Marcella la ascoltò senza interromperla, Vittoria le sembrò un fiume in piena e sarebbe stata un’impresa impossibile. Poi Marcella le ricordò l’esperienza avuta con Sandro: ─anche in lui sembrava che tu avessi trovato l’amore, poi ci hanno pensato i carabinieri a toglierti i grilli dalla testa. ─Non lo amavo, però gli ero grata per avermi portato via da Aldo e con me non era violento, non posso dire che con gli altri non lo fosse e poi è andata a finire come sai e ho capito che non era il mio uomo. ─E Gianni credi che lo sia? Chiese Marcella. ─Per lui sento qualcosa che non ho mai provato, niente mi fa tremare la pancia come quando lo vedo o solamente lo penso. ─Sono felice che tu viva questo momento disse Marcella e dopo un lungo sospiro proseguì: per quanto mi riguarda, ho chiuso con i maschi. A volte invidio Mirella e Gloria che hanno trovato l’amore senza bisogno di avere degli uomini intorno. Quella settimana passò in fretta e quando tornarono a Roma in loro attesa davanti all’ingresso del magazzino, c’era Mario il vecchio principale. Era insolito che lui ci fosse, normalmente incontrava le dipendenti il giorno dopo per fare il conteggio delle entrate e delle spese. Il vecchio chiamò l’autista e chiese alle ragazze di avere pazienza e non andare via. Ascanio e il principale rimasero a lungo dentro l’ufficio, dai vetri s’intuiva che quello che si dicevano non era niente di buono. Quando smisero di discutere, Ascanio uscì e chiuse la porta del piccolo ufficio dietro di se con forza quasi mandando in frantumi i vetri dell’ufficio. Passò accanto al gruppo di ragazze brontolando e imprecando contro Mario e a tutti quelli come lui.


 

Il vecchio uscì dall’ufficio visibilmente provato dalla discussione avuta con Ascanio e informò le ragazze della sua decisione: ─Dovete capire sono anziano e ho deciso di andare in pensione e alla fine del mese sospenderò l’attività. Non preoccupatevi vi darò tutto quello che vi aspetta e vi prego non mi odiate. Le ragazze rimasero in silenzio come se non avessero capito bene quello che disse il datore di lavoro. Mario proseguì quasi scusandosi del disagio che stava creando alle dipendenti:─perdonatemi ma cercate di capire, alla mia età tutto si fa difficile. Marcella prese la parola e gli chiese: ─Così all’improvviso lei ci mette in mezzo alla strada! Il lavoro c’è e si guadagna bene. Dalle trasferte torniamo sempre con le borse vuote e tutta la merce venduta. Mario dopo averla ascoltata con voce sommessa rispose: ─sono consapevole che per alcune sarà un momento difficile, ma siete giovani e troverete un altro lavoro e forse sarà migliore di questo. ─Rimane il fatto che io sono stanco e voglio lasciare. Vittoria ascoltò senza dire una parola quella notizia le tolse il fiato portando via l’allegria della settimana appena trascorsa. Le colleghe si raggrupparono e parlottarono tra loro mentre alcune di loro piansero, altre imprecarono verso l’uomo. Mario si girò e si diresse verso il piccolo ufficio, chiuse la porta e lasciò le lacrime e la disperazione fuori di essa. Vittoria pensò che la sfortuna non volesse proprio mollarla: “Adesso che le cose stavano per cambiare, mi va a capitare che perda il lavoro”. Iniziò a camminare nell’ampio magazzino mentre le altre piagnucolavano sparse tra le pedane colme di merci. Si guardò intorno e vide la rassegnazione nelle colleghe poi con decisione si avviò verso loro e lanciò un urlo: ─Basta! Basta piangere! Non sarà la prima volta che perdete un lavoro! È sicuramente non sarà l’ultima, quindi basta piangere. Le lasciò lì sorprese e ammutolite dirigendosi verso l’ufficio. Mario era intento a tirare fuori dai cassetti cartelle fogli e libri contabili, quando vide Vittoria che giunse verso la porta, le osservò il viso e notò che i suoi lineamenti erano duri e riconobbe una fermezza nel suo atteggiamento che non aveva visto mai. Lei aprì la porta e lui rimase immobile a fissarla e quando Vittoria chiudendola la sbatté, saltò sulla sedia mentre i vetri dell’ufficio vibrarono. ─Mi deve ascoltare! Esordì lei. Mario sobbalzò di nuovamente sulla sedia e le disse con la voce che a malapena sembrò un sussurro: ─calmati, ti ascolto, mettiti seduta. ─In queste situazioni quelle come me preferiscono restare in piedi. ─Lei lascia l’attività? Perche? ─Ve l’ho appena detto sono vecchio e voglio riposare. ─Non ha mai pensato a vendere? Forse poteva salvare il nostro lavoro. Nel frattempo le altre si avvicinarono e cercarono di capire cosa si dicessero i due.

Rimasero incollate con il viso sul vetro e videro Vittoria che gesticolava con una mano mentre con l'altra si poggiava sulla scrivania. Lei era in una posizione che ricordava un centometrista pronto a scattare ai nastri di partenza. Il suo viso si avvicinò a quello del capo ogni volta volesse rafforzare un concetto. Il vecchio impaurito si alzò e fece per uscire, Vittoria lo afferrò e con decisione lo bloccò alla scrivania poi prese le cartelle che vi si trovavano e le sparse per l’ufficio sotto gli occhi strabuzzati del proprietario. Lui raccattò fogli, penne, qualunque cosa gli capitasse a tiro. Lei all'improvviso come se avesse esaurito la carica nervosa si staccò dalla scrivania e arretrò un passo. Alcune delle carte che erano ancora in aria volteggiando si posarono su Vittoria, lei si sedette e mentre guardava la confusione che aveva creato non poté trattenere le lacrime. Il vecchio rimase seduto con le poche cose che aveva salvato dalla furia di Vittoria e le teneva strette tra le mani. ─Ehi! Non fare così, magari ragionando si potrà trovare una soluzione! Esclamò il capo. ─Magari ci presta il pulmino e si potrebbe andare tutte a fare le puttane sull’Olimpica! Ribatté lei. ─Calmati Vittoria! Un’idea mi è balenata mentre tu facevi tutto questo trambusto e se vuoi, potremmo lavorarci sopra che ne pensi? Vittoria alzò la testa, si asciugò il viso e fissò l’uomo. ─Non ci prenda in giro! Mentre lui continuò a sistemare le carte, proseguì il discorso: ─Potresti occuparti tu dell’amministrazione ed io ti passerei i fornitori. Sia chiaro però che io qui non ci torno più e che in futuro non voglio rotture e se va male, la responsabilità sarà solo vostra e in particolare la tua. Pensaci dillo alle altre e fammi sapere. Vai adesso devo sistemare il disastro che hai combinato e preparare il contratto che dovrete firmare. Lei si alzò dalla sedia e lo abbracciò così forte che quasi lo soffocò. Quando uscì dall’ufficio, le colleghe la circondarono incuriosite. ─Cosa ti ha detto? ─Niente, abbiamo ancora un lavoro, disse Vittoria. Domenica il nostro appuntamento è anticipato e si dovrà parlare del nostro futuro. Le ragazze insistettero per sapere cosa volesse dire lei con quel niente e quando parlava del futuro. Vittoria cercò di calmarsi e le disse: ─Non è il momento per le spiegazioni devo elaborare fino in fondo quello che ci aspetta. Ne parleremo durante la trasferta della prossima settimana. Le lasciò a parlottare tra loro e si diresse lentamente verso l’uscita. Una volta in strada si avviò esausta verso il bar, dove lavorava Gianni. Quello che accade nell’ufficio l’aveva stremata, ma pensò che la nuova Vittoria fosse una donna che le piaceva. Era sicura che avesse ottenuto qualcosa di cui sarebbe andata fiera in futuro. Giunse quasi senza rendersene conto davanti al locale, sbirciò attraverso il vetro e salutò Gianni. Lui quando la vide lasciò il banco e si diresse verso lei. ─Dieci minuti e sono da te. La sfiorò con un bacio e con un sussurro le disse: ─dieci minuti, non andare via mi sei mancata come l’aria a un moribondo. Lei stordita dagli eventi si fece cadere su una sedia e attese che lui tornasse.

Quella sera parlarono delle cose che avrebbero potuto rivoluzionare la sua vita. Gli parlò dell’opportunità che le stava dando il datore di lavoro. Lo fece con tanto entusiasmo che lui non ebbe il coraggio di interromperla. Vittoria raccontò la disperazione delle sue colleghe e com’era riuscita a ribaltare quella che poco prima sembrasse la fine in una nuova speranza per lei e le altre. Poi s’incupì pensando alla responsabilità che si era caricata sulle spalle accettando quell’incarico. Rivolse lo sguardo verso Gianni: ─e se non ce la faccio? Sarò in grado di portare avanti questo impegno? Gianni la strinse tra le braccia e le sussurrò:─riuscirai con questa determinazione ce la farai. Le accarezzò il viso e lei si tranquillizzò si appoggiò sul suo petto e lui iniziò a spogliarla mentre lei gli sussurrava: ─aspetta, aspetta, ascoltami! Domani vorrei andare dai miei è po’ che non mi vedono … verresti anche tu? ─Sei sicura che loro siano felici di sapere che hai un altro uomo? ─Non lo so, sicuro sei meglio dell’ultimo che gli ho portato in casa. Scoppiarono a ridere e finalmente si lasciarono andare. Il giorno seguente Lucia vide l’utilitaria di Gianni parcheggiare in cima alla strada. Osservò per qualche secondo l’auto e vide Vittoria e un uomo uscire dall’auto a quel punto riprese a spazzare il patio. Quando i due furono a pochi metri da lei. ─Ciao Vittoria! Poi guardò Gianni per qualche secondo e senza salutarlo riprese a spazzare. Santino si affacciò dalla porta e salutò la figlia e con un cenno della testa Gianni, poi sparì così come si era affacciato. Lucia aveva smesso di spazzare ed era entrata in casa lasciandoli soli. Lui chiese a Vittoria: ─credi che sia il caso di restare? Lei lo afferrò per un braccio chiedendogli di avere pazienza poi gli disse: ─sta zitto sono anziani ci mettono un po’ a digerire le novità. La madre tornò con due sedie gliele mise accanto e lei si accomodò sulla vecchia sedia di vimini. Rivolgendosi alla figlia disse: ─in casa è troppo caldo meglio stare fuori. I due si sedettero e il silenzio calò nel patio. Fu Lucia a rompere quel momento di tensione e lo fece mentre giocherellava con la Corona del Rosario tra le dita rivolgendosi alla figlia: ─io e tuo padre ci siamo trasferiti qui prima della guerra, tu eri piccola e ti lasciammo in Puglia dalle mie sorelle. Eravamo consapevoli che sarebbe stata dura ma il nostro sogno era la Capitale. Lucia fece una pausa mentre sistemava il rosario nella tasca del grembiule poi, riprese a parlare:─ Io e tuo padre in quel tempo pensammo che qui a Roma avessimo più opportunità e per i primi tempi dormimmo, dove ci capitò. Un poco alla volta, raccattando le cose che gli altri buttarono  con il tempo riuscimmo a costruire la nostra casa, per molti era una baracca, per noi una reggia. Lucia fece una lunga pausa dondolandosi sulla sedia. Vittoria non riuscì a capire, dove volesse arrivare la madre con quella storia e in silenzio pensò che fossero nostalgie che venivano a galla come spesso accade alle persone anziane. Dopo un lungo sospiro Lucia riprese il racconto: ─terminata la guerra, come tutti i giorni girammo per la campagna in cerca di qualcosa di utile da portare a casa. Trovammo un cucciolo e anche se non c’era molto da mangiare, decidemmo di portarlo con noi. ─Volete del caffè? Chiese Lucia ai due. A Vittoria e Gianni sembrò che quello del caffè fosse un diversivo messo in atto dalla donna per riordinare le idee. Lui ringraziò Lucia e disse: ─non adesso, dopo lo prenderò volentieri. E lei riprese a parlare: ─il cucciolo diventò un bell’animale lo chiamammo Tobia. Mi seguiva ovunque andassi, guai a chi si avvicinava troppo alla casa. Una notte durante un forte temporale fuggì e il mattino seguente non tornò. Io e tuo padre lo cercammo per giorni nella campagna e lungo il fiume, ogni mattina ci svegliavamo con il pensiero del cane scomparso. Dopo circa due settimane trovammo la carcassa di Tobia incastrata tra i rami di un grosso salice cresciuto sull’argine del canale. Riconoscemmo la povera bestia dal collare, la districammo e le demmo degna sepoltura. Dopo due mesi da quel fatto, tornammo in Puglia e ti portammo con noi a Roma. Te lo ricordi quando giungemmo dalle zie? Non ci riconoscesti eri diventata già grande e per te eravamo degli stranieri troppo piagnucolosi. Sotto il patio di Lucia si poté sentire volare anche una mosca tanto fu il silenzio che calò quando lei smise di parlare. Vittoria si alzò dalla sedia e iniziò a camminare avanti e indietro passando più volte davanti alla madre e fissandola le disse:─cosa significa questa storiella? Non la conoscevo!Te la sei inventata? ─Anche se fosse? Disse Lucia, rende bene l’idea. Si cerca un cane come fosse un figlio! E tu cosa fai? Lasci che il tuo ragazzo svanisca nel nulla? Lucia si voltò e dirigendosi verso la cucina disse: ─Adesso preparò il caffè per tutti! Chi non lo gradisce peggio per lui … lo lascia. Le parole della madre furono frustate per Vittoria, rimase ferma con le lacrime che le gonfiarono gli occhi a fissare il vuoto. Quando Gianni provò a distoglierla, lei lo scostò bruscamente e andò verso la strada, lui la raggiunse la afferrò e la riportò indietro mentre la madre usciva con le tazzine. ─Lui chi è? Un tuo amico? Sembra una brava persona. ─Si chiama Gianni ed è un buon amico. ─Fa il pugile? ─No il barista. ─Quindi ora criticherà il mio caffè? ─È uno di quelli che si fanno gli affari propri! Esclamò Vittoria. Non lo dirà a nessuno che il tuo caffè fa schifo. Poi lei si avvicinò alla madre e la abbracciò e a bassa voce le disse: ─lo troverò, stai sicura che lo farò. Gianni e Vittoria durante il viaggio verso Roma, restarono in silenzio e giunti a casa per la prima volta da quando si erano ritrovati non sentirono il desiderio di fare l’amore e si misero a letto ognuno con i propri pensieri.

La Domenica successiva alla burrascosa discussione con il datore di lavoro, durante i preparativi che normalmente precedevano la partenza, Vittoria raggruppò le colleghe, chiese all’autista di avvicinarsi e gli comunicò l’accordo stretto con il vecchio proprietario. Cioè: lei sarebbe stata da quel giorno la responsabile delle vendite.

***

Ventiquattresima tappa: Arca - Pedrouzo

Isabella si svegliò quando il sole era già alto e ancora insonnolita mi disse: ─oggi è la penultima tappa, prendiamocela comoda. La guardai perplesso e le risposi:─Non possiamo, sono circa trentatré i chilometri da percorrere, dobbiamo fare un ultimo sforzo e ridurre la distanza che domani ci dividerà da Santiago. Quando saremo a Compostela, ci prenderemo un buon albergo poi festeggeremo davanti alla cattedrale. ─Sei bello carico! Esclamò lei. ─Sono soddisfatto il libro è quasi pronto e Santiago è così vicina che mi sembra sentire le campane della sua cattedrale che ci chiamano. ─Quella che si faceva chiamare dalle campane prima della messa ero io! Disse lei prendendomi in giro. ─È un modo di dire il mio! Quando giungeremo alla cattedrale, mi confesserò per la prima volta dopo circa dieci anni, o forse è da quando ci siamo sposati che non lo faccio? Le domandai. ─La seconda mi sembra più veritiera, disse Isabella mentre si alzava dal letto. Ci preparammo e uscimmo dall’albergo, giurammo che se mai ripercorreremo il cammino su questo albergue ci metteremo una croce. Uscimmo dalla città percorrendo un lieve pendio, poi marciammo in piano per circa cinque chilometri e sostammo poco prima di affrontare una breve ma ripida discesa. Dopo la sosta scendemmo e salimmo di nuovo, giungendo dopo un faticoso saliscendi nel comune di Arzua nei pressi del ponte romano nei pressi di Ribadiso. Prima di continuare leggo la targa e mi viene in mente mio figlio Gabriele che è nato nell’anno cui è stato ristrutturato il ponte nel 1993. Poi la mia attenzione fu attirata da un ragazzo che si lavava nel fiume, guardando bene, era il giovane atleta genovese. Scesi sulla riva e ci salutammo allegramente cantando Azzurro. Poco dopo Il giovane riprese la strada e noi ci fermammo per circa un’ora in quel luogo da fiaba. Mentre Isabella sfruttò bene la pausa riposando all’ombra degli alberi che erano lungo l’argine, io ripresi, dove avevo lasciato il quaderno degli appunti di Rocco. Il mattino a Melide leggendolo avevo trovato alcuni punti di riscontro con i racconti che ascoltavo da mia madre e mio padre, quindi mi ero incuriosito e avevo fretta di conoscere il seguito.

Da quello che aveva descritto negli appunti Rocco, si capì che Vittoria in quel periodo si gettò a capofitto nel lavoro. Gli incontri con Gianni si limitarono alle poche ore che le restavano tra un arrivo e la prossima trasferta. Con il tempo lei e le ragazze acquisirono tutta l’attività e ingrandirono la sede a Roma, acquistarono altri furgoni e aprirono nuove sedi a Firenze, Milano, Bologna e Napoli, Marcella e le altre si trasferirono a dirigere le nuove sedi. Fecero nuove assunzioni e gli affari girarono a mille. Vittoria aveva messo in piedi una società in continua espansione e ramificata su tutto il territorio nazionale. Lei lasciò la camera della piccola pensione, dove aveva alloggiato in quel periodo e acquistò un appartamento al mare e vi si trasferì con Gianni. Riuscì a convincere la madre a lasciare la vecchia baracca per trasferirsi nella nuova casa situata poco distante da lei. Si rivolse a un’agenzia d’investigazione e la incaricò d’indagare sulla scomparsa del figlio.

Lucia si trasferì nella nuova casa controvoglia, le comodità non attenuarono quel senso di vuoto che la opprimeva. Non riuscì ad abituarsi a quelle mura per lei senza storia e senza passato. Ogni volta che varcava la soglia del nuovo appartamento, le sembrava di entrare in un luogo che non le apparteneva. Dalla vecchia casa aveva portato con sé tutte le immagini sacre e tentò di appendere le trecce d’aglio e i mazzetti di peperoncino fuori dalla porta. Le proteste degli altri inquilini la costrinsero a rinunciare (li appese all’interno). I condomini non potettero fare niente per convincere Santino a smettere di salare le sarde, lui come se le proteste di questi per il forte odore di pesce proveniente dalla casa non lo riguardassero, continuò la sua attività sul balcone. Lucia sistemò la vecchia poltrona di vimini sul piccolo terrazzo. La usò raramente e quelle volte che lo fece le sembrò di essere osservata dagli inquilini curiosi appostati sui balconi che la circondavano. Lei dopo cena era solita uscire a passeggiare e spesso senza rendersene conto assorta nei pensieri si recava nei pressi della vecchia casa. Quella sera era ferma in cima al viottolo che portava alla baracca e indugiava pensando a quante storie in quel luogo aveva vissuto. Le venne in mente il giorno che finalmente portò con lei Vittoria dalla Puglia. La ritrovò grande senza averla quasi mai potuto cullare. Un sorriso le affiorò al ricordo di quelle persone (donne e uomini) che negli anni si rivolsero a lei per risolvere i loro problemi d’amore, convinti che lei fosse una maga. Ingannandoli glielo lasciò credere. Poi pensò: “Una maga che non ha potuto evitare che Vittoria conoscesse un uomo come Aldo o protetto Rocco, altro che maga.” Riprese a camminare lungo l’argine e si diresse verso il grande salice, dove trovò Tobia. Le venne in mente la reazione che ebbe Vittoria quando le raccontò la storia: ”Altro che la fantasia di una vecchia, quella storia era reale e lei non glielo fece mai capire, preferì lasciarla nel dubbio.” Quando fu in vista dell’albero, udì un lamento, sembrò provenisse proprio dai piedi del salice. La notte era illuminata dalla luna e disteso sull’erba vide un uomo che si contorceva. Lucia con prudenza si avvicinò e riconobbe Aldo. La maga rimase immobile a fissarlo mentre lui riconoscendola tese il braccio e le chiese aiuto: Lucia! Sono ferito aiutami. A lei sembrò passarle davanti agli occhi tutta la sofferenza che Aldo portò nella sua famiglia e rimase a guardarlo agonizzare senza sentirsi coinvolgere da nessun sentimento, né pietà, ne odio e tra se pensò: ”Doveva finire così.” Si girò e riprese lentamente a camminare dirigendosi senza mai girarsi, verso la nuova casa mentre il lamento di Aldo, divenne sempre più debole. Quando giunse a casa, si accasciò sulla vecchia sedia a dondolo e si addormentò.


 

Vittoria nonostante i cambiamenti avvenuti nella sua vita, non perse l’abitudine di alzarsi presto. La veduta dalla sua terrazza era magnifica. Dall’angolo esposto a est, la vista, si perdeva nel verde della pineta, all’alba poteva ammirare il sole sorgere lentamente e farsi largo nella soffice foschia che ricopriva come un mantello, la chioma dei pini. A ovest lo sguardo non aveva confini e correva sul mare fino all’orizzonte. Mentre era persa nel paesaggio e nei propri pensieri, suonò il campanello e contrariata si alzò dalla sedia sdraio e dopo aver dato un ultimo sguardo al mare, lentamente si diresse verso la porta d’entrata quando aprì, si trovò davanti alla madre: ─Vittoria! Hanno trovato … per un attimo a lei venne in mente il figlio. ─Vieni entra e mettiti seduta. Dimmi chi hanno trovato.  Lucia con freddezza le disse: ─ Aldo! L’hanno trovato morto. Lei si mise seduta accanto alla madre e le chiese:─Come è accaduto? Dove? ─Nei pressi del salice che è vicino all’argine, non si sa chi sia stato ma sembra che l’abbiano accoltellato. La polizia sospetta che ci sia stata una violenta lite tra ubriachi. Vittoria fece un lungo sospiro e lasciò cadere le braccia lungo il corpo. In quel momento le sembrò che in quel sospiro ci fosse tutto quello che aveva represso dentro se in quegli anni. Chiuse gli occhi e in pochi secondi immaginò la prima volta con Aldo e lo vide così forte, giovane, allegro. Ricordò la passione e il desiderio che travolse loro due nel parco della chiesa e che quei sentimenti non divennero mai amore. Non aveva dimenticato la violenza, i pestaggi subiti … le sembrò assaporare il sangue che le colava nella bocca dopo le liti, ne sentì il gusto dolciastro e l’odore disgustoso salirle nel naso. Vittoria fissò la madre e sussurrando disse: ─non riesco a essere triste mi dispiace mamma, si alzò e mise su la moka. L’odore del caffè si diffuse nella casa mentre Lucia rimase seduta tenendo per se il suo segreto, pensando alla notte appena passata e ai lamenti di Aldo agonizzante.

Al funerale celebrato nella chiesa del quartiere, non parteciparono molte persone. Pietro e Ada erano fermi davanti al Sagrato in attesa che l’agenzia funebre portasse la salma del figlio. Vittoria era da molto tempo che non s’incontrava con i suoceri. Li guardò a lungo in silenzio stretti nella loro sofferenza, poi si avvicinò ai due e gli porse le condoglianze. Pietro la strinse a se ringraziandola, per essere presente e le chiese: ─tua madre non c’è? Lei si guardò intorno cercando tra i pochi presenti e disse a Pietro: ─mi aveva assicurato che ci saremmo visti davanti alla chiesa, deve esserle accaduto qualche inconveniente perché non la vedo. Pietro le sussurrò: ─non ti preoccupare avrà i suoi motivi. Vittoria lasciò Pietro e si diresse verso Ada che era rimasta in disparte. ─Signora Ada mi dispiace condoglianze. Ada rimase in silenzio chiusa nel suo dolore. Poi mentre Vittoria stava per allontanarsi, la chiamò e le disse: ─so che mio figlio ti ha fatto soffrire ma ora è finita. Solo Dio sa quanto soffro per la sua morte, ma adesso non farà del male a nessun altro. Ti prego Vittoria perdonalo. I due vecchi entrarono in chiesa seguendo la bara che nel frattempo era giunta. Lei rimase fuori a fissare la porta della chiesa per qualche minuto poi piangendo si diresse verso il mare e attese il tramonto seduta sulla spiaggia pensando a com’era cambiata la sua vita da quel giorno alla festa dell’Unità.

***

Durante la sosta avevo letto molto e si era fatto tardi, caricai lo zaino e scossi Isabella delicatamente perché si era appisolata:─andiamo? Lei senza rispondere prese il suo zaino e lo carico sulle spalle. Mentre salivamo l’argine, le chiesi se fosse contrariata. ─Affatto, sono tranquilla, solo che penso al momento che giungeremo a Santiago. ─Era quello che volevamo, le dissi poi aggiunsi, ─sei pensierosa, ci deve essere qualcosa che non va. Lei rimase per qualche secondo in silenzio e disse: ─Non so se per te è la stessa cosa, avverto la sensazione che stia per finire qualcosa cui tengo molto. È da ieri che ci penso, sai dopo aver valutato una serie di cose sono giunta a una conclusione: arriveremo a Santiago e quindi quella era la nostra meta e la raggiungeremo e a quel punto sento che è il viaggio che ci ha portato davanti alla cattedrale, sarà la cosa che mi mancherà di più. Come se lo avessimo consumato e digerito una tappa dopo l’altra, lasciandoci solo la destinazione finale. Non glielo dissi ma pensavo la stessa cosa, il viaggio rimarrà il momento più importante del pellegrinaggio. Era quello che ci aveva messo davanti alle nostre debolezze, alle nostre paure ma anche quello che ci ha risollevato e dato nuova speranza, sbattuti giù, tirato su il morale e dato la forza per continuare. Riprendemmo a camminare ognuno con i suoi pensieri. Superammo Arzua e percorremmo un interminabile e faticosissimo saliscendi, quasi tutto costeggiando la statale. Lungo la strada ogni tanto c’erano degli ostelli con i cartelli in bella mostra con la scritta: al completo. A parte una piccola sosta in qualche bar e un tentativo fatto verso un ostello per chiedere l’alloggio proseguimmo dritti fino a Santa Irene. Trovammo da dormire in un Motel. Stanza matrimoniale con il bagno e la doccia, una manna dopo tutti quei chilometri. Il posto dove alloggiammo si trovava fuori dal paese ed era fornito di ristorante, bar, tabaccheria e tanto altro. Cenammo nel ristorante dell’albergo e gentilmente la proprietaria ci consegnò le chiavi della porta principale, anche se lì vigeva l’orario del cammino e alle ventidue avrebbe dovuto chiudere, per noi fece uno strappo alla regola e restammo fino a tardi seduti sulle sedie del bar.

***

Ripensammo a quello che c’eravamo detti lungo la tappa, poi le chiesi cosa ne pensasse della vicenda di Rocco. ─Cosa si può dire? Rocco cammina con noi da Saint Jean e dovunque lui sia in questo momento, rimarrà nella nostra vita per sempre come fosse parte della nostra famiglia. Io rimasi un poco in silenzio dicendole: ─Il quaderno degli appunti è quasi terminato, ne vorrei leggere una parte e lasciarmi il finale per leggerlo davanti alla cattedrale, cosa ne pensi? ─Credo che sia la cosa giusta. Finiremo i due viaggi contemporaneamente e sarà una bella cosa, mi tolse il quaderno dalle mani e iniziò a leggere.

***

Nel frattempo che la vita scorreva fluida intorno a Vittoria, nell’ospedale psichiatrico, Rocco non avendo dato mai problemi, era lasciato libero di girare per il complesso. Perlopiù passava le giornate seduto in giardino e osservava i parenti in visita ai pazienti ricoverati. La commissione ogni sei mesi si riuniva per decidere sulla sua dimissione e ogni volta finiva per posticiparla per i sei mesi successivi. Le motivazioni erano: parenti sconosciuti, soggetto senza fissa dimora, il paziente potrebbe, essere pericoloso per se e per gli altri. Così il tempo scorreva senza che Rocco avesse mai comunicato all’istituto il suo nome e la sua provenienza. I medici, viste le buone condizioni generali di Rocco, per lui scelsero una terapia blanda che li riservasse da ogni sorpresa.

Rocco fingeva bene la sua condizione di tranquillo malato mentale e non sempre assumeva i farmaci prescritti. Quest’abilità gli consentiva lucidamente di girare con ampia libertà di movimento in tutto il complesso. Passava ore nella biblioteca a leggere e scrivere e quando il tempo era clemente, passeggiava nel parco. Essendo lui uno dei pochi pazienti cui era consentito di uscire ed entrare dalla residenza, a volte si spingeva fuori dal complesso e s’inoltrava per le vie della città. Camminava fino a giungere al porto, dove restava per ore a fissare il mare.

***

Ai lati della via che correva fino alla residenza, una volta la settimana i banchi degli ambulanti ingombrava i marciapiedi. Rocco camminava al centro della strada al ritorno dal porto, incurante della frenetica attività che si svolgeva intorno a lui. La leggera salita si snodava per i vicoli colmi di gente giunta dai paesi vicini per il mercato. Mentre a fatica si faceva largo tra la folla, la sua attenzione fu attirata da una giovane donna intenta a scegliere un vestito tra i tanti ammassati sul banco dell’abbigliamento. Incuriosito, si fermò a guardare la ragazza che trattava il prezzo con il venditore e la riconobbe, era Sara. Erano passati molti anni da quando nel campo dietro la fattoria di Teresa, la madre di Paolo, i tre giovani fecero quel giuramento e lei era molto cambiata. Non era più la bambina che voleva fare la parrucchiera. I suoi capelli colore del grano maturo, lo riportò indietro nel tempo e a quella breve permanenza nella casa di Pietro. Negli anni che erano seguiti lui, nonostante gli eventi che in seguito lo avevano catapultato in quell’isola, non aveva dimenticato Paolo e Sara. Li aveva spesso immaginati: lei in un negozio di parrucchiere ad acconciare teste tra bigodini e phon. Paolo forse medico o avvocato, come avrebbe voluto la madre, oppure al mercato a vendere i prodotti della fattoria dei genitori. Rocco si mise seduto in angolo del marciapiede e la fissò mentre lei discusse con il commerciante sul prezzo e quando alle battute dell’uomo Sara rise, quella risata squillante gli entrò nella testa procurandogli una felicità che da anni non provava.

Quando Sara terminò l’acquisto, si girò e vide quel ragazzo che la guardava, rimase per un attimo a fissarlo poi, s’incamminò e si confuse tra la folla. Lui restò seduto e la vide andare via. Quando stava per alzarsi e riprendere il cammino verso la residenza sentì una voce che lo chiamò:─Rocco! Rocco! Si girò e la vide giungere correndo verso lui, Sara si faceva largo tra la gente, mentre un fremito a Rocco scosse il corpo e ricadde seduto. Lei indugiò un attimo poi gli tese la mano mentre gli ripeteva: Sara, sono Sara non ti ricordi? Lui si alzò e le disse: ─ Sara, come potevo dimenticarti! Rocco avrebbe voluto raccontargli tutto quello che era accaduto in quegli anni, lei con la mano gli tappo la bocca: ─ci sarà il tempo per questo, dove vivi? Lo sai, che i tuoi ti cercano da anni? ─Ho trovato una sistemazione nella residenza che è alla fine di questa strada. ─L’ospedale psichiatrico? Chiese lei: ─si ma non ho grossi problemi, non ti preoccupare, di giorno non uccido nessuno, disse Rocco sorridendo. ─E la notte? Gli chiese lei, abbracciandolo mentre sbottò in una risata fragorosa poi, si fece seria e gli disse: ─Rocco! Devi far sapere che sei vivo! Non puoi rimanere nascosto qui per tutta la vita. Rocco si fermò e la guardò negli occhi e sviando il discorso, le chiese come mai si trovava sull’isola. ─Dopo un anno che tu sei andato via mio padre è stato trasferito qui, io ho continuato gli studi, lui la interruppe: ─da parrucchiera? ─Te lo ricordi ancora? No! Non da parrucchiera! Mi sono laureata e da poco faccio pratica in uno studio in città, sono avvocato. ─E Paolo cosa fa? ─Lui è entrato in polizia e l’ultima volta che l’ho sentito era a Pordenone. Giunti in vista del complesso ospedaliero Rocco si fermò e le disse: ─salutiamoci qui. ─No! Ti accompagno voglio parlare con i medici! Senza rendersene conto i due erano usciti dalla zona del mercato e avevano continuato a camminare al centro della strada. Li riportò alla realtà il clacson di un’auto che gli strombazzò dietro, dopo essersi scusati con l’autista, si spostarono nel marciapiede che era ancora affollato di persone provenienti dal mercato con le borse piene. ─Non fare il furbo con me! Hai capito quello che ti ho detto? Devi far sapere chi sei e tornare a casa. Devi dire ai medici che non sei malato! Lui la ascoltò e sorrise, poi incupendosi le disse: ─casa, quale casa? Io non possiedo una casa e sto bene qui. Lo hai saputo che sono stato in carcere? ─E allora! Non sei mica il primo che ci capita. Adesso ti metti a fare la vittima? Qualcosa avevi combinato se sei andato a finire lì! Lo so che è stato difficile per te ma è passato tanto tempo e sono successe altre cose che tu devi sapere. ─Cosa? Se non quello che già so! Nel frattempo erano giunti davanti all’ingresso e lei senza pensarci due volte entrando si qualificò come l’avvocato di Rocco. L’addetto alla portineria stupito le chiese: ─chi è Rocco? Lei si girò verso lui e lo indicò. ─Attenda che le chiamo il medico di turno, forse è meglio che di questa cosa ne parli con lui.

Attesero per circa mezzora poi, un uomo sulla cinquantina si diresse verso loro, dopo le presentazioni si fece seguire in uno studio al primo piano. ─Quindi lei dice di conoscere quest’uomo? E come lo conosce? È una parente? ─Ho già detto al signore qua sotto che sono un avvocato e un’amica d’infanzia di Rocco. ─Finalmente si conosce il nome del paziente venuto dal mare! Disse il medico mentre si gettò all’indietro appoggiandosi allo schienale della sedia. ─E tu Rocco, cosa dici di questa signora, la conosci? Rocco da quando era stato ricoverato nell’istituto, non aveva mai parlato, lasciando credere ai medici che fosse affetto da  afasia da stress. Vide Sara a disagio mentre il medico si rivolse a lei: ─vede? Non parla! Anche se la notte eccome se parla! Poi il giorno è muto come un pesce. È così da quando è arrivato. Sara prese il viso di Rocco tra le mani e lo implorò di dire qualcosa. ─Si la conosco è mia amica e mi chiamo Rocco. Il medico rimase seduto e immobile poi rivolgendosi ai due: ─il paziente è guarito? O ci ha preso in giro tutto questo tempo? Poi rivolgendosi a Sara:─senta avvocato produca i documenti necessari e noi convocheremo la commissione e vedremo il da farsi. E porti i parenti! O non se ne fa niente! Rocco e Sara rimasero seduti mentre il medico si alzò indicandogli la porta: ─prego accomodatevi ci si vedrà quando avrete le carte in regola. Nel frattempo Rocco ci farà la cortesia di non combinare guai per non complicare le cose. I due uscirono e si diressero verso il giardino si sedettero sulla panchina, dove Rocco aveva passato gran parte delle giornate da quando era stato ricoverato. Lei lo informò della morte del padre. Rocco sembrò non avere nessuna reazione a quella notizia, poi, lentamente le lacrime iniziarono a rigargli il viso, lei lo strinse a se e rimasero in silenzio facendo scorrere ognuno nella propria mente il passato. I due restarono insieme tutto il pomeriggio e parlarono di cosa avessero fatto in quegli anni. La positività di Sara contagiò Rocco che ironizzò sui ricordi d’infanzia e sulle vicende accadutegli prima di giungere all’ospedale, solo a tratti si chiuse in se stesso in lunghe e silenziose pause. Lei prontamente lo riportava al presente con battute del tipo: “Eccolo, il lupo che si rintana”, “l’uomo che venne dal passato”. Lui rideva come quando lei e Paolo da bambini lo sfottevano per il suo umore altalenante. Giunse il momento per Sara di lasciare l’amico ritrovato:─tornerò presto con buone notizie e avviserò tua madre che sei qui, farò del tutto perché tu ritorni da lei al più presto.


 

Quella notte Rocco non riuscì a dormire. Pensò a come sarebbe stato ritornare alla “normalità”, nei rari momenti cui si appisolò, sognò l’immagine di suo padre senza volto. Lo sognò andare via dalla casa e camminare per la strada, arrampicato sui ponteggi mentre lo chiamava e lo incitava a fare presto e poi mentre lo picchiava. Lo vide poi di spalle andare via, attraversare i campi vicino alla ferrovia mentre sua madre a terra sporca di sangue lo malediva. Quando il sonno finalmente lo rapì, era già giorno. Lo svegliò il carrello della colazione che percorreva come ogni mattina rumorosamente il lungo corridoio. La notizia si era diffusa nel reparto e tutti quelli che quel giorno passarono davanti alla sua camera, lo salutarono chiamandolo per nome. Sara tornò in seguito almeno due volte il giorno portando notizie fresche. La commissione si riunì il mercoledì dell’ultima settimana del mese e diede finalmente parere positivo alla dimissione di Rocco. Questa doveva essere perfezionata alla presenza dei genitori. Sara, riuscì a mettersi in contatto con Vittoria e le spiegò a grandi linee i fatti e che era urgente la sua presenza per il rilascio.

***

La storia stava prendendo una svolta che ci piaceva e andammo a letto pensando alla tappa del giorno seguente con un altro spirito.

Ultima tappa: Santiago de Compostela

La sveglia era alle otto del mattino, ci alzammo, preparammo lo zaino timbrammo la Compostela, “il documento che certifica il pellegrinaggio e che va timbrato in ogni posto dove si dorme per essere presentato all’ufficio del pellegrino a Santiago, per ricevere la pergamena personale che attesta il completamento del pellegrinaggio”. Riprendemmo a camminare e in breve superammo Pedrouzo e ci addentrammo in un bosco di eucalipto. Mentre camminavamo, raramente il sole riuscì a superare il fogliame. Scendemmo di quota abbastanza velocemente poi risalimmo leggermente, percorrendo in piano circa tre chilometri e uscendo all’aperto ci dirigemmo verso Lavacolla, (anticamente qui i pellegrini sostavano per lavarsi prima di entrare a Santiago). Superato il piccolo corso d’acqua e percorrendo la strada asfaltata, salimmo verso il Monte do Gozo. Giungemmo in cima e per la prima volta dopo circa ottocento chilometri vedemmo le guglie della cattedrale di Compostela. Un pizzico d’emozione ci assalì e restammo ad ammirare la città che tanto avevamo pensato lungo il cammino. Frotte di pellegrini avanzavano verso Santiago noi prolungammo quel momento ai piedi del monumento che ricorda la visita di Giovanni Paolo II e poi via verso la città. Ci inoltrammo nel centro abitato mentre iniziò a piovere e quando fummo sulla piazza che si apre davanti alla cattedrale, lentamente ci sedemmo al centro per ammirarla. S’intravedeva la sua imponenza ma purtroppo era in fase di restauro, coperta quasi completamente dai ponteggi. Restammo in terra per almeno mezzora stretti uno all’altra, intorno a noi continuarono ad affluire i pellegrini, la piazza si gremì di persone che ridevano, piangevano, pregavano sotto la pioggia davanti alla loro meta. Arrivarono i ragazzi genovesi, (a uno di loro avevo donato i bastoncini per continuare il pellegrinaggio), giunse anche il giovane atleta e poi con la telecamera si avvicinarono Simone e tanti altri che conoscemmo lungo il cammino. Troppi e di tutte le nazionalità per essere nominati. Idealmente ci abbracciammo in un gruppo che diventò sempre più folto. Poi, silenziosamente mi allontanai dalla folla e pensai a Rocco, cercandolo tra quella moltitudine di gente. Dopo poco mi raggiunse Isabella e mi disse che aveva guardato anche lei e non lo aveva visto, mi prese la mano e mi portò davanti all’entrata della cattedrale. Provammo a entrare e ci bloccarono perché avevamo gli zaini. La sicurezza c’indicò un posto per depositarli, la casa del pellegrino. Assolto quel compito, entrammo passando sotto il Portico della Gloria, raggiungemmo e pregammo davanti al sepolcro dell’Apostolo Giacomo, dopo uscimmo lentamente e appena fuori restammo ancora a fissare la piazza gremita. Recuperammo gli zaini e ci dirigemmo all’albergo. Raggiunta la stanza dormimmo profondamente, il mattino seguente volevamo partecipare alla funzione e ci dovevamo alzare presto.

Il giorno seguente il sole non fece mai capolino, la pioggia cadde insistentemente per tutta la giornata (me lo aveva detto la dottoressa a Ponferrada che il cielo a Santiago piange spesso), partecipammo alla messa e come promesso mi confessai, presi l’Eucarestia per la prima volta dopo trentasette anni. Assistemmo al rito del Botafumero, che diffonde l’incenso penzolando fino a un’altezza vertiginosa. Dopo la messa uscimmo e ci recammo al centro della piazza e accanto a una scultura di Piero Manzoni (La base del Mondo) come avevo detto a Isabella, lessi l’ultima parte del quaderno.

***

Sara l’amica d’infanzia, come si diceva nel precedente capitolo, riuscì a mettersi in contatto con Vittoria e lei si apprestava a raggiungere Rocco.

Vittoria era appena rientrata dal lavoro e trovò Gianni che armeggiava sul terrazzo, gli arrivò alle spalle senza che lui notò la sua presenza, lo afferrò per le braccia e lo girò verso se. Lo baciò intensamente mentre pensava: “Lo amo, l’amo quest’uomo, desidero che questo non finisca mai”. I brutti ricordi con la morte di Aldo erano svaniti e con il passare del tempo le paure sopite. Lui la prese in braccio e si diresse verso la stanza da letto e fecero l’amore come se fosse stata la prima volta. Restarono abbracciati in silenzio fino a quando lei si alzò e gli chiese:─lo vuoi il caffè? Vittoria camminava per la stanza e lui la guardava rapito dalla sua bellezza e rimase per un attimo in silenzio poi: ─si lo prendo volentieri e fai presto che ho già nostalgia di te. Mentre lei usciva ridendo dalla stanza lui pensò quanta forza d’animo celasse, quanta voglia di vivere avesse Vittoria.

Da quando aveva ricevuto la telefonata di Sara, lei non faceva altro che contare le ore che la dividevano da Rocco. Quella sera avrebbe preso il traghetto per l’isola, aveva chiesto a Gianni di mandarla da sola. Lui la accompagnò al porto e prima che salisse sulla nave, la abbracciò e le disse: ─torna presto amore mio, manca solo tuo figlio per completare la nostra felicità.

Sulla nave cercò di non pensare al momento che avrebbe rivisto Rocco. La stanchezza prese il sopravvento, si addormentò sulla poltrona e sognò quando lui era bambino e giocava intorno alla casa con i randagi che rincorrevano il verdone che volava. Lo vedeva con gli occhi sbarrati mentre guardava il treno passare e sferragliare verso il mare.

Alle prime luci dell’alba la nave attraccò. Una strana sensazione la assalì, un bagaglio di dubbi s’insinuarono nella sua testa: “Mi avrà perdonato?” “ Come sarà adesso?” “Un uomo, sarà diventato un uomo”, “ l’ultima volta che l’ho visto, era poco più che un adolescente”, lo ricordava di spalle, mentre andava via senza salutarla, lo vedeva con la testa china attraversare il ponte appena uscito dal carcere.

Scese la ripida rampa di scale lentamente ingombrando il passaggio guardando se riconoscesse qualcuno sul molo. Un uomo che scendeva dietro di lei, impaziente di sbarcare si offerse di aiutarla: ─le serve aiuto signora? Lei si girò a guardarlo e per un attimo avrebbe voluto dirle di no, poi con un sorriso gli porse la valigia e gli disse: ─grazie è molto gentile, la scala è ripida e temo di cadere. Senza il peso della valigia poté cercare meglio nella folla che era in attesa. Quando fu a terra recuperata la valigia dal passeggero frettoloso, rimase ferma, poi si sedette sulla valigia. Sara era a pochi metri da lei, le due non si conoscevano, fu Vittoria ad azzardare: ─tu sei Sara? L’amica di Rocco? La giovane le fece un sorriso e le andò incontro chiedendole: ─Signora Vittoria! Lei è la madre? Sara stese il braccio e le porse la mano, con la vitalità propria dei giovani, le disse che era felice di conoscerla e di slancio le chiese: ─posso abbracciarla? ─Lei la abbracciò e si litigarono per chi avrebbe dovuto portare la valigia. Vittoria lasciò che fosse lei a portarla e mentre si dirigevano verso il bus, le chiese:─ perché Rocco non è con te? ─Lei dovrà dimostrare di conoscerlo! Ha portato qualche documento? Dovranno attestarne l’identità, come le ho detto al telefono. Vittoria cercò nella borsa e mostrò a Sara i fogli che tirò fuori e le disse: ─questi sono i soli documenti che ho con me, il foglio di scarcerazione, l’estratto di nascita e lo stato di famiglia. ─Stia tranquilla, saranno sufficienti a dimostrare l’identità di Rocco e cosa più importante, che è suo figlio, poi sbrigate le formalità potrà finalmente portarlo a casa. Nel breve tragitto che le avrebbe portate alla residenza, le due parlarono poco. La tensione crebbe sempre più a ogni fermata. Quando giunsero davanti all’ospedale, Vittoria prese Sara per la mano e come una bambina si fece condurre verso l’ingresso. Era l’ora delle visite dei parenti, l’atrio era affollato di gente, le due cercarono Rocco tra i visitatori, poi, salirono al piano superiore e lo cercarono nella sua stanza. Domandarono agli infermieri se lo avessero visto, poi un paziente riconobbe Sara, l’aveva vista nei giorni scorsi in giardino con Rocco: ─lo sta cercando? Poi fece un sorriso pieno di sottintesi, Sara annuendo gli chiese ─lo ha visto andare da qualche parte? ─Le ha delle monete? Le due donne si guardarono, poi frugarono nelle borse e insieme tirarono fuori le monete porgendole all’uomo. Lui prese le monete con una mano e con l’altra indicando verso l’alto disse:─ è andato in cima. ─Dove? ─In terrazza. ─Come si va sulla terrazza? In quel momento giunse il medico che si era interessato della dimissione del giovane. ─I documenti li avete portati? Disse rivolgendosi alle due donne. ─Vittoria sventolò i fogli mostrandoli al medico. ─ Eccoli! Sara rivolgendosi al medico: ─Rocco è sulla terrazza dell’ospedale! ─Venite con me si va a prenderlo. Rocco era seduto a gambe incrociate sul parapetto della terrazza e guardava sotto di lui la città che brulicava di gente. Nel porto i fumaioli delle navi attraccate gli sembrarono cosi vicini da poterli sfiorare con le dita. Quello era un giorno speciale per lui e avrebbe lasciato per sempre questo luogo che era stato un rifugio sicuro dopo la fuga. Qui si era fermato e questa era diventata la sua casa. Vittoria lo vide e per un attimo pensò al peggio, Sara si avvicinò e gli sfioro il braccio domandandogli: ─c’è una bella veduta da lassù? Rocco si girò e scese dal parapetto: ─avevo bisogno di fissare questa città nella mia mente, non l’aveva mai vista così dall’alto. Andò incontro alla madre le prese la mano, poi delicatamente la strinse a se. La sentì così fragile nel momento in cui lei si appoggiò al suo petto, la coccolò come faceva lei quando era bambino. Nel viaggio di ritorno tra Vittoria e Rocco sembrò che ci fosse stipulato un patto. Non parlare del passato fino a che non fossero certi che questo non li dividesse nuovamente. Dovevano abituarsi l’uno all’altra, alle modifiche che il tempo aveva portato al loro aspetto esteriore e interiore. Vittoria lo fissava, oramai lui era un uomo, pensò a quanto avesse lasciato in quegli anni lungo la strada dell’infanzia di suo figlio. Si distese sullo sdraio era felice che in quel momento fosse lì con lei, volle credere che quel giorno fosse il più importante di sempre. Non aveva senso pensare al passato, quanto non lo era del futuro, voleva gioire del presente, se fosse possibile cristallizzare quell’attimo per l’eternità. Si girò verso Rocco e lo vide fissare la scia della nave mentre l’isola diventò un punto all’orizzonte.

Tornare a casa lentamente un passo dopo l’altro, mentre i primi raggi del sole rapiscono le gocce di rugiada e le foglie libere vibrano nell’aria. Il canto della terra è imponente, mentre la marea a ondate avanza e colma l’anima. In così tanta bellezza c’è la fragilità di ogni essere nell’universo. La mente si perde nell’immensità dello spazio, è un granello di sabbia portato via dal vento.  

***

Giungemmo all’epilogo di quel viaggio durato trenta giorni, attraversando parte della Spagna, percorrendo circa ottocento chilometri a piedi. Restava il tentativo di metabolizzare tante emozioni, molte immagini. Visitammo altre chiese quel giorno, nella Chiesa dedicata a San Francesco, partecipammo a una coinvolgente preghiera dedicata alla pace, recitata da ognuno dei presenti nella propria lingua. Visitammo la città per quanto possibile, visto il poco tempo a disposizione prima della partenza. Il giorno dopo preparammo gli zaini prendemmo il bus alla stazione dei treni, direzione aeroporto Santiago de Compostela. Mentre il bus passò tra le strade della città, vidi alcuni pellegrini che giungevano dal cammino, guardai per riconoscere il nostro compagno di viaggio tra loro, poi dissi dentro di me, che ognuno di loro poteva essere Rocco, un pellegrino che non aveva mai smesso di viaggiare. Rientrato a Roma, chiesi qualche informazione in giro. Qualcuno mi disse che Vittoria era diventata titolare di un’importante azienda di trasporti e che viveva con il suo compagno Gianni a Roma. Lucia la maga, la nonna materna di Rocco) era morta da molti anni, anche Pietro e Ada i genitori di Aldo morirono dopo che gli abbatterono la casa in via dell’Idroscalo e furono trasferiti nell’abitazione popolare assegnata dal comune. Per quanto riguardava Rocco, dopo un periodo tranquillo vissuto con la madre, andò via di casa e nessuno l’ha più visto d’allora. Tornai con Isabella sul cammino l’anno dopo, attraversai l’Aragona partendo da Sonport, (passo sui Pirenei, al confine tra la Francia e la Spagna) ogni volta che vidi un pellegrino che mi precedeva, cercai di affiancarlo sperando che fosse Rocco il mio caro compagno di viaggio che era tornato a camminare libero nel mondo.

Fine
 


 

La Marina a mezzanotte

Le comari
Marmocchi con i pantaloni corti lungo la strada che
portava alla chiesa. "Il freddo rende le gambe forti"
diceva la nonna. L'acqua gelata della fontana specchiava
i visi distorti dei bambini. Don, Dan ... la campana
suonava nel mese dei morti, chiamando a raccolta i
fedeli; Paolo con il carro veniva giù per la discesa, lentamente
attraversava la via degli orti. Seduto con la
gamba che ciondolava sopra la paglia fumante, gialla
come l'oro, con ampi gesti salutava mentre sfilavano le
case lungo la via. Nuvole di vapore sbuffavano dalle
narici di Lisa, una cavalla bianca con zampe forti che
al passaggio alzava zolle di terra e ciottoli; la mascotte
ai lati della processione scodinzolava in cerca di un
pezzo di pane.
Nella piazza Padre Vittorio era in cima alle scale della
chiesa e invitava ad affrettarsi, la funzione stava per
iniziare. Gino, il chierichetto con il viso bianco come la
tunica, buono per istituzione, sorrideva ai fedeli. Giovanni
e la nonna occupavano come sempre i posti più
avanti. Lei passava in rassegna l'assemblea controllando
che ci fossero tutti: la moglie del macellaio, seduta
due posti dietro di loro…
- Il marito non viene mai alla funzione, è comunista
- si lasciò sfuggire a bassa voce; il falegname con la
moglie e i figli, Diego e Marina. Lei piace a Giovanni,
quando sarà grande la vuole sposare; ora però doveva
fare attenzione: se solo la guardava Diego diventava
una furia ed era un rischio perché picchiava tutti.
Il cerimoniale prevedeva di salutare anche le persone che
si frequentavano poco, con un cenno della testa, della
mano, un sorriso, per i parenti un abbraccio, a volte
un bacio e quando c'era qualcuno nuovo, si sentiva un
brusio in sottofondo durante la messa:
- Signore Pietà
- Chi è?
- Il figlio dell'orologiaio, occuperà il posto del padre
in negozio.
Il padre, Pacifico, aveva la gioielleria proprio a fianco
della chiesa. I paesani gli erano molto affezionati;
da quando si era ammalato non veniva alla funzione
della Domenica. Mandava sua moglie a riscuotere i
debiti fuori dalla parrocchia e nelle case del quartiere,
e lei raccontava del povero marito, impossibilitato a
lavorare. Cosimo, tornato dalla Germania, era sul lato
destro, tra la madre Rosetta e Giselle, la figlia del tappezziere.
- Cristo Pietà.
- Ho sentito dire, che si devono sposare.
Lui era già tornato qualche mese prima, aveva conosciuto
Giselle a una festa di compleanno a casa di
amici; i due si erano innamorati ed erano spariti per
una settimana prima che lui ripartisse. La ragazza, da
quando era partito, non si era più vista in giro prima
di quella Domenica.
- O Signore dimmi soltanto una parola ed io sarò salvato.
La ragazza non nascondeva la gravidanza, tenendo
una mano sulla pancia, anzi: la esibiva accarezzandola
con piccoli movimenti rotatori, con l'altra stringeva
il braccio a Cosimo e sorrideva, salutando le comari.
Poi il prete alzava un poco la voce e tornavano tutti
concentrati sulla messa. Come sempre, al momento
di prendere l'Ostia, Giovanni si alzava seguendo la
nonna, lei gli dava un pizzicotto sotto il braccio, uno
schiaffo sulla nuca e con i denti stretti sibilava:
- Siediti, tu non sei ancora comunicato.
Mentre la platea si accalcava verso l'altare Giovanni
pensava: arriverà anche il mio momento. Il prete distribuiva,
"il corpo di Cristo" e, "Amen". Padre Vittorio
alzando le mani imponeva di abbassare la testa,
dando la benedizione, quella cadeva su tutti, anche su
quelli come Giovanni, non comunicati. Finalmente Padre
Vittorio dichiarava: "La messa è finita andate in
pace".
Quello era il momento migliore per le comari, che si
scambiavano tutte le informazioni possibili:
- Quella ragazza non si fa vedere da qualche tempo,
sarà incinta
- Quella invece si fa vedere spesso, evidentemente cerca
marito
- Le donne che si truccano, lo fanno per nascondere i
lividi causati dai maltrattamenti del marito ubriacone
- Quelle che non lo fanno, sono malate
- Vedi com'è pallida? Lui la deve sostenere, me l'ha
detto una persona di cui ci si può fidare. Sussurravano
le comari, con voce pietosa e lieve, mentre passava
una donna sulla trentina stretta al braccio del marito.
- Quante se ne sentono, comare mia, sono tempi magri.
- L'altro giorno dal pizzicagnolo quella donna che ha
tutti quei figli, quella che abita alla fine della strada,
ha capito chi è? Proprio quella là. Mezza pagnotta, un
pezzo di formaggio, una misura di olio… li ha fatti segnare
sul quaderno, figurati! Il marito se li beve tutti, i soldi che guadagna!

La nonna di Giovanni dal canto suo non si fermava
volentieri a spettegolare, anche perché lei stessa era
motivo di pettegolezzo, da parte delle comari. Si vociferava
del fatto che i genitori di Giovanni si erano divisi.
I due non andavano in chiesa da qualche tempo.
Il padre si era fatto un'altra famiglia al nord. L'ultima
volta che lo avevano visto era stato in occasione della
morte del nonno paterno di Giovanni. La madre tornava casa
non più due o tre volte l'anno, giusto per le feste, lasciando
l'onere di crescere Giovanni alla nonna.
Così, le comari passavano al dettaglio la vita delle persone
del paese. Incredibile quanti erano i fatti che si
venivano a sapere in così poco tempo, salutavano gli
indagati con un sorrisetto a mezza bocca, mentre passavano
alla spicciolata, sapendo che avevano qualcosa
da nascondere. I ragazzi giocavano davanti alla chiesa,
mentre il prete gongolava tra le assidue vecchiette
della parrocchia.
 

La fuga
Quella sera, dopo cena, Giovanni era sul letto e
guardava la finestra; aspettava il momento giusto per
la fuga, era andato a letto vestito e ascoltava con attenzione
i rumori che provenivano dalla cucina. Quando
questi non arrivarono più attese il leggero russare
della nonna, in sintonia con quello del nonno, che era
andato a letto presto. Quando fu sicuro che tutti dormissero,
si alzò e con circospezione, attento a non fare
rumore, aprì la finestra: il vento fresco e l'odore del
mare invasero la camera, qualcosa di nuovo attraversò
il suo corpo con un fremito. Niente ormai lo poteva
fermare, saltò giù (a dire il vero non era molto alto), si
calò fino a che le punte dei piedi toccarono in terra ed
era fuori! Si avviò con passo deciso verso la piazza;
la strada era poco illuminata se non da qualche luce
sopra le porte della lunga via. Il vento era molto forte,
si camminava a fatica ma Giovanni avanzava con
la determinazione di un treno. Arrivato in piazza, davanti
a lui si stagliava la sagoma severa della chiesa e per
un attimo si fermò. Per poterla vedere tutta doveva
rimanere all'inizio del grande slargo. Dietro il campanile la
luna illuminava le grosse campane, sempre pronte a
suonare: a festa e a morto, i quarti, le mezzore, le ore,
mentre le grandi lancette dell'orologio si spostavano
allo scandire dei rintocchi. Giovanni si avvicinò alla
chiesa facendosi il segno della croce, per poi proseguire
lungo il muro che circondava il giardino. Aveva
sentito dire che oltre il muro vi era un luogo segreto e
misterioso: durante la notte, si raccontava, era abitato
dalle anime dei defunti che pregavano per la loro salvezza.
Dopo essersi guardato intorno, iniziò ad arrampicarsi.
C'erano molte fessure nel vecchio muro e lui
con agilità, mettendo una mano qua e un piede là, in
poco tempo fu in piedi sul muro. Alla luce della luna
piena allargò le braccia come se fossero ali, lasciandole
ondeggiare al vento forte di Libeccio. Pensò: ?Per
la miseria! Questa è una notte da lupi mannari, quelle
che si leggono solo sui libri e io ci sono dentro con tutte
le scarpe!. Gli venne in mente la nonna quando gli
raccomandava: non guardare fisso la luna piena, puoi
diventare un lupo anche tu! Lui era sicuro che fosse
solo una leggenda, però pensò: ?A volte mi potrebbe
essere utile essere un lupo, specialmente quando i ragazzi
più grandi a scuola fanno i prepotenti … però la
notte la passerei alla fontana a bere, perché il mannaro
come dice la nonna, ha sempre sete.
Comunque, a scanso di equivoci, rimase con gli occhi
bassi, attento a non guardare la luna; era pronto a saltare
nel giardino,
quella notte avrebbe saputo cosa
c'era di segreto nel giardino di padre Vittorio. Il cane
del prete era lì che lo guardava fisso, abbassava e alzava
le orecchie al ritmo del proprio respiro.
- Vai via - gli disse Giovanni a bassa voce, ma il cane non
si toglieva.
Allora si spostò lungo il muro, ma il cane lentamente
lo seguì, lo guardava e si metteva seduto,
spazzolando l'erba con la coda, poi si spostava nuovamente,
brontolava, guaiva con la lingua penzoloni.
- Togliti da lì! - gli gridò nuovamente. - Dai, non è un gioco!
L'animale, come fosse sordo, rimase dov'era, quindi il
ragazzo fece finta di spostarsi e nuovamente l'animale
lo seguì. Per Giovanni il cane del prete era una bella
prova di coraggio. ?Sembra un lupo, pensò e subito
dopo saltò, atterrando sul prato, per niente morbido,
avvertendo un forte dolore alle gambe, quasi come le
botte che prendeva da sua nonna, quando marinava la
scuola. A fatica riuscì ad alzarsi, mormorando, mentre
zoppicando andava avanti, indietro: ?forse dovevo
aspettare ancora un anno, per scappare da casa,
alla prima media sarei stato pronto. Il cane si avvicinò,
dopo aver fatto un salto all'indietro, lanciando
un guaito, neanche fosse caduto sopra di lui. Decise
di chiamarlo Buck, cercando di stabilire un rapporto
di amicizia. Aveva letto qualcosa di un cane di nome
Buck, su qualche libro. L'animale scodinzolava e gli
leccava il viso, dentro di sé il ragazzo pensò: ?Non è
un lupo. Il dolore alle gambe oramai si era attenuato.
Buck era un pastore belga, color rosso, con qualche
sfumatura più scura intorno agli occhi e alle estremità
delle zampe, il pelo piuttosto folto e lungo gli copriva
il corpo, leggermente sproporzionato rispetto alle
gambe corte e tozze. Giovanni aveva spesso desiderato
di possedere un cane come Buck. Era socievole e gli
girava intorno, cercando una carezza, così decise che
quel cane poteva diventare il suo; iniziò a guardarsi
intorno, la domanda che si poneva era: ?Cosa c'è di
segreto nel giardino? E che ci faceva un cane nel giardino
della chiesa? Tutto era ben curato, alti alberi che
si muovevano al vento, l'erba tagliata bassa sembrava
un tappeto, tra l'erba alcune macchie bianche, che
guardando bene si rivelarono per lastre di marmo. ?
Tombe! Il suo primo pensiero fu di uscire da
quel luogo: si trovava nel cimitero della chiesa.
In fondo al giardino s'intravedeva una lucina sopra
a una porta e camminando lentamente, per non distogliere
le anime dalle loro orazioni, si recò verso
di essa. Passava tra loro cercando di non disturbare
e giunto alla porta che per sua fortuna era aperta,
entrò. Percorrendo uno stretto corridoio arrivò in una
stanza, dove c'erano gli abiti di padre Vittorio e quelli
di Gino.
?Eccola la tunica bianca che lo fa sembrare così buono:
Si trovava in sacrestia. L'occasione era imperdibile:
iniziò con il vestire la tunica. Era bella e gli stava
anche bene, poi i paramenti del prete, ma sembrava
che in lui non fosse cambiato nulla, non si sentiva né
migliore, né peggiore di prima. Fu grande la sua soddisfazione,
non voleva sapere altro. "Non era la tunica a fare
buono Gino." Pensò Giovanni, si tolse la tunica e la buttò
sopra la sedia, parlando ad alta voce:
- Se la metta Gino, a lui fa effetto, ma di più alla madre;
ogni volta che la indossa, piange. Allora lui non
è così buono se fa piangere sua madre.
Borbottando ancora qualcosa attraversò il corridoio
entrando nella chiesa deserta, dietro l'altare vide Gesù,
era lì immobile, lo fissava, quindi con un filo di voce:
- Certo che hai una bella costanza a stare lì sulla croce
a guardare tutta questa gente che prega ad alta voce
e impreca in silenzio - disse guardandosi in giro, sentendo
la sua voce rimbalzare sui muri della chiesa
vuota.
- Come il solito sei triste vero?
Nella chiesa si diffuse una voce:
- No, forse è così che mi ha visto il falegname.
- Allora parli?
- Non sempre, solo quando serve e non a tutti.
Giovanni pensò: ? che dovesse essere fortunato,
Gli aveva rivolto la parola. Una cosa non gli tornava:
"Il falegname era il padre di Marina, lui l'aveva visto
quando era impegnato a fare la croce, era sempre allegro
e il legno usato non si lamentava sotto la pialla".
- Io sono al fianco del Padre mio, caro Giovanni. Nel
tempo con te avrò molto da fare.
Giovanni pur guardando bene, non vide nessuno accanto
a Gesù, neppure andando dietro l'altare.
- Adesso vai c'è chi ti aspetta.
Pensando che qualcuno l'avesse scoperto, si fece il segno
della croce e si congedò da quella conversazione.
Fece una serpentina tra le panche, con Buck che lo seguiva,
arrivò alla porta, aprì il chiavistello e prima di
uscire guardò bene che non ci fosse nessuno che lo
aspettasse sulle scale del sacrato.


Notte tra le dune
La luna era alta e faceva freddo, in strada non girava
nessuno; Buck andò avanti, poi tornò indietro, girò
intorno a Giovanni strusciandosi, sembrava felice di
andare via dalla chiesa. L'odore del mare era forte, intorno
ai lampioni una leggera foschia correva veloce
disperdendosi nella notte e sulla spiaggia la schiuma
formata dalle onde si alzava come panna montata e
leggera volava via con il vento. Seduto sul muretto
un ragazzo guardava il mare in tempesta. Giovanni
pensò: sarà lui quello che mi aspetta? Era impaziente
di parlare con qualcuno, si diresse verso quel ragazzo,
deciso a fare la sua conoscenza. Era seduto con le
gambe ciondoloni, stretto in un giubbino troppo leggero
per la stagione, in particolare per quella notte
così fredda, i lunghi capelli biondi, erano legati come
se fosse una ragazza. Quando lui si avvicinò non si
scompose minimamente, ignorandolo. Giovanni non
si fece intimidire dell'atteggiamento scostante del ragazzo
e mentre giocherellava con il cane, disse:
- Ciao che fai qui?
- Guardo il mare.
Buck si avvicinò al biondo e scodinzolò, attirandone
l'attenzione.
- Come ti chiami?
- Massimo e tu?
- Giovanni.
Due uomini ubriachi che passavano, barcollando,
dall'altra parte della strada, per un attimo li guardarono
incuriositi, poi sbandando e sostenendosi a vicenda,
girarono l'angolo e canticchiando sparirono nel
buio.
- Dove vai a quest'ora?
- Sono scappato da casa - poi, guardando l'animale: - È
tuo?.
Buck sembrò capire che l'argomento era lui, iniziò a
correre verso la parte opposta della strada, arrivato al
muro del palazzo, frenò slittando sull'asfalto, ritornò
indietro, li puntò, poi si arrestò a pochi metri da loro.
Quando Giovanni provò a prenderlo, scartò ripartendo
nuovamente. - Come si chiama?
- Buck... a dire il vero è mio da poco, mi segue da dentro
la chiesa - confessò timidamente.
- I cani in chiesa non ci possono entrare - Ribatté Massimo,
mentre scendeva dal muretto.
- Lo so, ma lui era nel giardino, sono saltato dal muro
e abbiamo fatto amicizia.
Mentre lo abbracciava, disse:
- Ho deciso che sarebbe stato mio per sempre, guarda
come mi ubbidisce.
Mentre si chinava per prendere un rametto che il vento
aveva strappato dagli alberi, ordinò al cane:
- Buck seduto! Ho detto seduto!.
Il biondo non riuscì a trattenere le risate e quasi scivolando
in spiaggia, da un'apertura del muro, disse:
- Prova con un'Ave Maria, è un cane di chiesa … non ti
fila proprio, questo Buck! Ah ah ah, però è divertente,
scodinzola, vuole giocare.
I due iniziarono a giocare con il cane, corsero avanti e
indietro, tirando qualche rametto per farselo riportare.
Buck ci stava volentieri, corse, saltò, poi si sedette e
attese che il gioco riprendesse di nuovo, ma il freddo
si fece più intenso e i ragazzi si misero al riparo, accucciati
sotto il muretto.
Il vento sibilava tra i rami spogli degli alberi, fogli di
giornale danzavano a mezza aria, finendo il loro volo
abbracciati ai lampioni, un barattolo di conserva, vuoto,
rotolava sul marciapiede, accelerando ogni volta
che le raffiche rinforzavano, facendo un rumore simile
ai campanacci del gregge che era vicino al fiume, grosse
nuvole nere arrivavano dal mare, nascondendo la
luna.
Massimo, che era vestito più leggero, chiese a Giovanni
- Vuoi venire con me?
- Dove?
Il ragazzo si mise in piedi sul muretto, poi indicò un
punto oltre le case più lontane, alla fine del paese.
- Andiamo tra le dune, al riparo del vento, dormiamo
e domani partiremo verso … Non lo so, poi domani ci
penseremo, comunque non torniamo a casa.
I tre percorsero un tratto sulla spiaggia, Buck non smise
di correre per tutto il tragitto e quando si affiancava
ai due, a causa del forte vento, la coda gli si alzava
sbandierando. Loro tenendo le braccia larghe, si facevano
spingere dalla tempesta. La sabbia si alzava e,
colpendoli, gli procurava un fastidioso pizzicore sulla
pelle scoperta. Superarono le ultime case del paese,
le collinette sabbiose apparvero come altissimi monti,
s'inoltrarono fino a che, stanchi, si fermarono in un
punto dove le dune creavano un avvallamento.
- Senti Giovanni, sei scappato da casa senza neanche
un panino?
Gli vennero in mente i nonni che russavano, prima di
saltare dalla finestra.
- Avevo paura di svegliare qualcuno, sono andato via
senza prendere niente.
- Bene, al mangiare ci penseremo domani.
Era buio tra le dune, come Giovanni non aveva mai visto
prima. Le luci della città lì non arrivavano, a parte
la luna che si rifletteva sulla sabbia non c'era luce sopra
di loro, le stelle erano tante, più di mille, milioni.
A Giovanni sembrò di vedere la carta che si usava per
il cielo del presepe. "Tra non molto sarà Natale, per
quel tempo tornerò a casa", pensava. Il Natale era una
cosa seria nella sua famiglia; s'iniziava nei primi giorni
di Dicembre a pensare come trascorrerlo. Dopo il
giorno dell'Immacolata era tutto un fervore di preparativi
in attesa dell'evento; la notte della vigilia tutta la
famiglia andava a messa, dopo aver consumato fritti
di ogni tipo di verdure e pesce. Ciò che meno piaceva
a Giovanni era la mattanza di animali che sarebbero
serviti per il pranzo del giorno dopo, a lui sembrava
che le povere bestie sapessero della fine che avrebbero
fatto da lì a poco. Almeno una settimana prima di
Natale iniziavano a rumoreggiare fino a schiamazzare
in modo assordante. Poi, quando la nonna dopo aver
scelto gli animali più adatti per il pranzo, si avvicinava
per eseguire la condanna, la confusione era al culmine:
penne che svolazzavano dappertutto, il tacchino
si metteva in posizione di sfida, ma non c'era nulla da
fare, oramai era stato scelto. Due colpi ben assestati ed
era pronto per essere spennato. Poi gli venne in mente
quella volta che nascose l'oca che doveva servire per
il brodo. La cercavano tutti, erano sicuri che l'avessero
rubata gli zingari che si erano accampati nello spiazzo
dietro la chiesa. La tenne nascosta per una settimana,
in una gabbia vicino al canale che passava poco
distante da casa sua, tutti i giorni spariva con i resti
d'insalata e pane fino a che qualcuno lo vide e fece la
spia alla nonna. Oramai il Natale era passato e almeno
fino a Pasqua l'oca se la sarebbe cavata. Mentre era lì
imbambolato a guardare le stelle e pensare al Natale,
sulle labbra si disegnò silenzioso un sorriso, ricordando
l'oca scampata alla mattanza. Mentre i due si erano
accovacciati in terra, il cane sembrò impazzire dietro
agli odori di animali selvatici che si sentivano frugolare
in mezzo ai rari cespugli. Quando si fece rivedere
aveva il muso e il pelo pieno di sabbia, si scrollò vicino
a loro, riempiendoli di bava, poi si sedette con la lingua
penzoloni, non la finiva d'ansimare. Faceva molto
freddo allora Massimo ebbe un'idea: - Facciamo
una buca nella sabbia e copriamoci.
Così iniziò a scavare, anche Giovanni fece la sua, quando ci
s'infilò dentro, gli sembrò strano che la sabbia fosse calda.
Giovanni chiese a Massimo:
- Quando muori e ti sotterrano, la sabbia sarà così calda?
- Non lo so.
Mentre si coprivano, i pensieri andavano veloci:
- Massimo, come sarà quando si muore?
- Non lo so, io non sono mai morto prima di questa
sera - Rispose, scocciato da quelle domande, poi prese
a raccontare di un vecchio che era spesso all'osteria
vicina casa sua:
- Sai cosa diceva?
Tirando fuori la testa dalla buca Giovanni cercava di
vedere l'altro, che invece ne rimase ben all'interno, allora
allungò la mano verso il cane, la affondò nel folto
pelo provandone piacere poi Giovanni disse:
raccontami del vecchio.
Massimo alzò la testa quel tanto che bastava per vedere
Giovanni accarezzare il cane. - Il vecchio diceva:
ho paura di morire, ho tanti anni, alla fine accadrà.
Ho visto la miseria e la guerra, ma questo non mi ha
tolto la voglia di vivere.
Mentre Massimo parlava, lui pensava al nonno e a
quanto fosse vecchio; aveva fatto la guerra, raccontava
sempre della Russia, fino a che non si addormentava
con la bottiglia del vino quasi vuota sul tavolo. Non gli
aveva mai detto che aveva paura di morire, gli diceva
che quando sarebbe accaduto, lui avrebbe dovuto portargli
un garofano rosso e un bicchiere di vino sulla tomba.
Quello che lo consolava era che tutti quelli che erano andati
di là non erano più tornati e pensava che ci si trovassero bene
se non lo facevano. Poi alzando il bicchiere mentre rideva,
diceva:- Sarà quel che sarà, magari ci troverò anche un bel
bicchiere di vino e un toscano da fumare, chi lo sa!
Poi Massimo smise di parlare e Giovanni si stese nella
buca coprendosi con la sabbia, osservando le nuvole
che passavano veloci. Buck si sistemò vicino ai due
ragazzi, i pensieri lentamente diventano sogni, dormirono
così fino il mattino. L'aria fresca dell'alba li svegliò,
mentre uscivano dalle buche tremanti di freddo,
sentirono delle grida:
- Se so' svegliati i morti, aiuto, so' risorti dalla sabbia.
Un ragazzino un poco più piccolo di loro, urlava, correva,
inciampava, gridando:
- Aiuto mamma, se so'svegliati i morti, viè a vede'.
Buck gli corse dietro saltellando, credendo che volesse
giocare, poi stanco tornò indietro ansimante. Massimo
e Giovanni si guardarono e, sorridendo, orinarono
dentro le buche.
- È stato come pisciare nel letto - commentarono i due
ridendo, poi si avviarono verso il mare.
Durante il tragitto, un brontolio nello stomaco rammentò
loro che non mangiavano da almeno un giorno.
- Massimo, tu hai fame? Se ci sbrighiamo, prima che
il bar apra prendiamo qualche cornetto e il latte che
lasciano i fattorini fuori dalla serranda. Se siamo fortunati,
c'è anche il latte al cacao.
I due si avviarono veloci verso il bar che era ancora
chiuso. Accatastati davanti alla serranda, c'erano dei
contenitori con dentro i cornetti e dentro delle cassette
di plastica c'era il latte contenuto nelle piccole piramidi
di cartone. Presero tutto quello che potevano; qualcosa
nelle tasche, quello che non vi entrava, lo misero
dentro la maglia, poi fuggirono prima che il proprietario,
(che Giovanni conosceva suo nipote frequentava
la sua stessa classe), se ne accorgesse. Ma la fame era
troppo grande: il rischio valeva la candela se volevano placarla.
Si diressero verso la spiaggia e al riparo di una cabina
mangiarono la colazione appena rubata.


Sognando Firenze
La tempesta si era placata, come la fame.
A Giovanni sembrò incredibile come cambiano in fretta
le cose: solo qualche ora prima il vento era cosi forte
che gli sembrava volesse portare la città nello spazio,
il mare così agitato che gli faceva venire il mal di pancia
solo a guardarlo, le luci delle petroliere al largo,
apparivano e poi sparivano. Ogni volta pensava che
fossero affondate fino a che riapparivano. Era come se
salissero sopra una montagna per poi sparirci dentro.
Adesso invece il mare era calmo, all'orizzonte sfilavano
le paranze, con dietro i gabbiani in un volo disordinato
fatto di volteggi e tuffi, per raccogliere il pesce
scartato dai marinai. Le petroliere erano immobili
alla fonda, in attesa di scaricare il prezioso carico nei
terminali, alte torri di ferro sempre visibili da terra.
Anche la fame si era calmata: i cornetti avevano funzionato,
però il latte gli aveva fatto un brutto effetto e
di corsa i due sparirono dietro la cabina e si liberarono
del superfluo. Quel giorno, sarebbero dovuti essere in
classe, con i libri sul banco, Giovanni chiese:
- Ma tu a scuola ci vai?
Massimo, sistemandosi i pantaloni, mentre usciva da
dietro alla cabina, fece attenzione a non pestare i resti
lasciati e rispose:
- Sì.
- Io non ti ho mai visto. In che classe sei?
- E tu?
- In quinta, ho dieci anni.
- Io sono stato bocciato, sono in terza. Poi un poco
seccato da tutte quelle domande. - E non vado alla tua scuola.
Lo studio mi ha rotto, non fa per me, voglio andare a lavorare.
- Siamo ancora piccoli per andarci.
- Allora Claudio? Ha undici anni e lavora da meccanico.
Sai quanti ne vedo tutti i giorni? Federico fa il
barista, Paolo porta il pane con la bicicletta.
Giovanni lasciò cadere il discorso, che aveva preso
una brutta piega, l'altro alzava troppo la voce, agitando
le mani davanti al suo viso. Sapeva che il padre di
Claudio aveva l'officina, lui dopo la scuola andava ad
aiutarlo sistemando le chiavi utilizzate per le riparazioni,
Federico era il figlio di Mario, il proprietario del
bar davanti alla chiesa. Il padre di Paolo era il fornaio
del paese e lui consegnava il pane solo il pomeriggio e
quando non c'era scuola. Sviando il discorso Giovanni
chiese all'altro:
- Tu sei capace ad andare con la bicicletta?
- Certo - rispose con un'aria esperta.
Seguì qualche minuto di silenzio, mentre lentamente
camminavano, prendendo a calci ogni piccola cosa
che era sul marciapiede, rametti caduti durante la notte,
barattoli vuoti. Poi presero a saltare sul muretto,
restandoci in equilibrio per qualche secondo e lasciandosi
poi cadere sulla spiaggia. Erano sdraiati sulla
sabbia, quando Massimo si alzò proponendo:
- Vieni andiamo alla stazione dei treni, lì ce ne sono di
biciclette, le lasciano per prendere il treno e se ne troviamo
una senza lucchetto la prendiamo ci facciamo
un giro, poi la riportiamo.
Per andare alla stazione passarono davanti alla chiesa:
un gruppetto di persone erano lì che discutevano a
voce alta, in mezzo a loro c'era il prete e due poliziotti.
Quando furono più vicini, Buck attraversò la strada
infilandosi nel gruppetto, il prete vedendo il cane lo
rimproverò, come se fosse una persona, Buck era felice,
si vedeva che era il cane del prete. Poi l'attenzione
si rivolse verso di loro:
- Giovanni, Giovanni, vieni qui - gridò il prete - Tua
nonna ti cerca da ieri sera, povera donna.
Massimo prese a correre e dopo un attimo d'incertezza
anche Giovanni lo seguì, i poliziotti salirono sull'auto
e li inseguirono. Dopo una lunga serpentina tra
le auto parcheggiate scavalcarono la ringhiera di un
giardino. Una signora intenta a fare le pulizie li cacciò
con la scopa urlando cose incomprensibili, in un misto
di frasi italiane e dialetto abruzzese. Si nascosero
dietro un cumulo di calcinacci, rimanendo così per un
bel po' di tempo. Quando tutto fu tranquillo, uscirono
allo scoperto, avendo in testa sempre la stessa idea,
"prendere la bici alla stazione e fare un bel giro". Nei
pressi della stazione un bel mucchio di biciclette, una
sopra all'altra, sembravano tutte uguali alla bici del
nonno di Giovanni e quella era alta. Aveva già provato
a portarla cadendo più volte, poi aveva imparato a pedalare
da sotto la canna. I due ne scelsero una accuratamente,
Giovanni si mise sopra alla canna e Massimo
cominciò a pedalare, percorsero qualche centinaio di
metri nelle strade intorno alla stazione.
- Con questa possiamo arrivare anche a Firenze! Disse
Massimo, eccitato del furto che avevano commesso.
- Per me Firenze può essere pure la luna, rispose Giovanni,
mentre con la bicicletta sfioravano gli alberi del
viale. - Quanto tempo ci vuole per arrivare a Firenze?
- Non lo so - disse Massimo, alzandosi sui pedali per
vedere sopra la spalla dell'altro - Credo almeno una
settimana.
"La bicicletta la dovevamo riportare dopo aver fatto
un giro, questo era il patto", pensò Giovanni.
Intanto Massimo, si voltava per guardare se qualcuno li seguiva,
mentre la bici sbandava notevolmente.
- La posiamo quando torniamo.
La bicicletta rimbalzò scendendo un marciapiede.
- Attento Massimo! - Gridò Giovanni.
Un'auto che giungeva dalla corsia opposta, se li trovò
davanti e nonostante l'estremo tentativo del conducente
di evitarli, dopo una lunga frenata li colpì.
La bicicletta fu lanciata in aria, il rumore
delle lamiere che strusciarono sull'asfalto si sentì
fino alla stazione. La gente che era in attesa del treno
corse per prestare aiuto e si radunò intorno all'auto.
Giovanni si trovava proprio sotto di essa, mentre Massimo
era rannicchiato sul marciapiede a qualche metro
dal punto d'impatto, aveva perso una scarpa e la gamba
destra aveva assunto una posizione innaturale, era
piegata come fosse di gomma, intorno a un alberello.
Nell'aria si sentiva un forte odore di gomma bruciata.
Dopo l'impatto a Giovanni sembrò di volare, provò
una sensazione di leggerezza, poi il tonfo e un liquido
caldo gli bagnò il viso, qualcosa spingeva forte sul
fianco. Sentì la voce dell'autista che ripeté più volte:
- O Dio mio, O Dio mio, sono venuti nella mia corsia
all'improvviso, non li ho potuti evitare.
- Quella bici è mia - disse qualcun altro, poi tante voci
si sovrapposero, il ragazzo pensò: "forse sto per morire,
non riesco a muovermi e non vedo Massimo". Poi
sentì una mano che lo accarezzava, mentre una voce
lo rassicurava ripetendo:
- Non ti muovere, ho già chiamato l'ambulanza, sarà
qui presto.
La sirena era come un lamento mentre si avvicinava,
sentiva quella cosa che premeva sul fianco destro, poi
il suono di qualche clacson, sportelli che si aprivano,
voci concitate che incitavano a fare in fretta. Sentì sollevare
l'auto e finalmente la pressione sul fianco si alleggerì;
aveva paura ad aprire gli occhi, poi non sentì
più niente. Si svegliò con la sensazione di essere tutto
bagnato e qualcuno che gli toglieva i vestiti; era dentro
una vasca.
- Fermo, fermo, non ti muovere faccio io.
Il suo primo pensiero fu: "Questo qui è matto, mi taglia i
pantaloni e poi devo essere proprio sporco, se mi hanno
messo dentro la vasca".
- Adesso andiamo a fare le lastre, disse l'uomo tutto
vestito di bianco. Parlava in modo tranquillo, lo asciugò,
poi con l'aiuto di altri due lo adagiò sulla barella
con le ruote, lo coprirono con un lenzuolo e si diressero
lungo il corridoio che portava in radiologia. Vide le
luci sfilare sopra di sé, avrebbe voluto dire qualcosa,
ma le parole gli si fermarono in gola, pensava a Massimo,
a Firenze alla bici rotta, al fatto che non avrebbe
potuto riportarla alla stazione, alla madre, alla nonna,
al padre, poi qualcuno gli parlò:
- Lo sapevo che con te avrei avuto molto da fare.
Giovanni Lo vide che camminava accanto a lui.
- Dove hai lasciato la croce?
- Quella è sempre lì in chiesa e, anch'io sono sempre
lì.
- Come fai a essere sia in chiesa sia qui?
- Dovresti saperlo, quest'anno farai la comunione che io
sono ovunque.
- Certo che è una fortuna essere ovunque senza dover
prendere la bici adesso sarei a Firenze, oppure a
casa, invece sono qui che devo fare le lastre, che dici
muoio?
- No, avevo previsto che avrei avuto molto da fare
con te.

Alzandosi leggermente dalla barella Giovanni disse:
- Potevi venire prima, ora non sarei qui. Poi ricadendo
pesantemente: -Massimo muore?
Il dottore entrò nella stanza dicendogli di stare fermo,
un'altra immagine e avrebbero terminato. Andava e
veniva il dottore, lo spostava gli diceva di stare fermo
dal gabbiotto con i vetri e si sentiva come un fruscio.
Rientrando gli chiese con chi parlasse poco prima il
ragazzo, accennò una risposta:
- Con... non te lo dico sono cose private … poi chiese:
- Il mio amico come sta? E la bici? Si è rotta?
- Non ci pensare adesso al tuo amico, piuttosto a parte
un bel taglio sulla testa e una caviglia rotta, che dobbiamo
ingessare, per resto sei a posto. Fuori ci sono i
tuoi genitori e due poliziotti … la bici non era vostra?
- No, ma l'avremmo riportata dopo essere andati a Firenze
- Sì, Firenze, con la bicicletta! - disse il dottore sorridendo
- Raccontane un'altra. Ti è andata di lusso, avresti
potuto morire, sei stato fortunato.
All'uscita dalla stanza, sua madre piangendo:
- Che hai combinato disgraziato? Pure ladro adesso?
- Poi rivolgendosi al medico: - Come sta? Ci ha fatto
prendere uno spavento!.
Il dottore spiegò quello che aveva detto al ragazzo di
non preoccuparsi, si sarebbe ristabilito in fretta. Giovanni,
mentre la madre parlava con il dottore, pensò:
"Sono venuti pure loro, allora sono proprio grave ".
Poi raccontò quello che ricordava la macchina, il rumore
e nient'altro.
- Perché sei scappato da casa? - Chiese la madre mentre
le lacrime le scendevano sul viso.
- Se fossi stato chierichetto, forse non sarei scappato,
ma io volevo diventare grande, ho capito dopo che forse
dovevo aspettare la prima media.
- Che c'entra?
Confusamente lui cercava di spiegare il motivo della
fuga:
- Gino questa cosa non l'avrebbe fatta, lui è buono,
però ogni volta che veste la tunica anche sua madre
piange e le lacrime sono lacrime".
Il padre era lì impietrito, non diceva una parola, pensando
che fosse impazzito, "quando sarà guarito, a
forza di schiaffi lo farò riammalare". Poi il pensiero
del ragazzo andò a Massimo, non gli dissero che fine
avesse fatto, dove si trovava e, cosa più importante, se
era vivo. I poliziotti parlavano e lui non li capiva.
- La prossima volta passerai dei guai più seri, vedi di
filare dritto, un'altra cosa come questa e andrai a finire
in riformatorio, hai capito?
- Sì, sì - rispose Giovanni, ma il riformatorio proprio
non aveva capito cosa fosse e provò a chiederlo: - Cos'è
il riformatorio?
I due se ne andarono senza spiegare altro. In quel momento
un altro letto con le ruote passava accanto al
suo, vide l'amico, si lamentava poi lo guardò, abbozzò
un sorriso, strizzò un occhio, dicendo:
- Giovanni, sarà per un'altra volta.
- Firenze altro che Firenze! - gli disse il dottore - Starai
per un bel po' con noi adesso.
E lui: - Sì Massimo, ci andremo a Firenze, poi tutto
prese a girare, "ci andremo a Firenze".
Si svegliò nel letto di una stanzetta, era svenuto e come
provò ad alzarsi la testa prese a girargli vorticosamente.
L'infermiera disse:
- Buono, hai perso molto sangue, vedrai che tra due o
tre giorni starai meglio e te ne andrai a casa.
Così passarono quattro giorni. Finalmente il mattino
del quarto giorno il dottore durante la visita giornaliera,
dopo avere controllato la cartella che era ai piedi
del letto di Giovanni, disse:
- Questo ragazzo sembra che si sia ristabilito completamente,
oggi lo dimettiamo. Giovanni, come ti senti?
- Voglio tornare a casa, mi sento bene … non sto male
con voi, ma qui c'è puzza di ospedale. Poi giuro: ritorno
per togliere il gesso e i punti.
Il dottore sorridendo firmò il foglio di uscita. Giovanni
non stava più nella pelle, prese le stampelle e corse
nel corridoio, l'infermiera subito dietro di lui.
- Fermo, fermo, il dottore non vuole chiasso, vieni!
Lui si calmò e attese sua madre seduto sul letto. Mentre
era lì che aspettava gli tornò in mente Massimo,
lo voleva salutare prima di uscire. Senza essere visto,
percorse il corridoio del reparto guardando in tutte
le stanze, poi uscendo dall'entrata principale si trovò
nell'atrio; c'era una porta che immetteva nel reparto di
fronte. Anche lì ispezionò tutte le stanze, ma di Massimo
neanche l'ombra, poi chiese a un infermiere:
- Sai dov'è il mio amico?
- Chi è ?
- Si chiama Massimo, ci hanno portato con l'ambulanza
dopo l'incidente quattro giorni fa … dai che lo sai,
eravamo con la bici e ci hanno investito con la macchina.
- Ho capito quel Massimo là. L'hanno trasferito nella
clinica ortopedica, per operarlo, ne avrà per un bel po'
di tempo.
- Dov'è la clinica ortopedica?
- Nell'altro padiglione, ma tu non ci puoi andare da
solo.
- Portami tu.
- No, non posso, ora ho da fare. Più tardi ti vengo a
prendere e ti accompagno, adesso vai al tuo reparto e
stai tranquillo.
L'ospedale era affollato di persone che andavano di
fretta, avevano intasato i corridoi e occupato tutte le
panche a disposizione. Nell'ora di visita era sempre
così, i più giovani, non potendo entrare, aspettavano
gli ammalati in grado di camminare fuori dai reparti.
Giovanni si trovò a fare lo slalom tra bambini che
correvano e persone che andavano in giro con il pigiama,
barelle con malati gravi che sostavano nel corridoio,
in attesa del ricovero. Da fuori le entrate dei reparti
erano tutte simili, si distinguevano solo per la scritta
sopra la porta d'entrata e lui non riconobbe il suo, non
si era reso conto che parlando con l'infermiere, aveva
percorso qualche metro inoltrandosi tra i corridoi
dell'ospedale. Dopo aver girato inutilmente nei corridoi
alla ricerca del reparto, sedette su uno scalino,
sperando che qualcuno riconoscendolo, lo accompagnasse
nella sua stanza. Finalmente l'infermiera del
reparto lo chiamò dicendogli che sua madre era arrivata.
Attese inutilmente l'arrivo dell'infermiere, mentre
la madre era lì che raccoglieva le cose da portare
via e sorridendo salutava tutti; lui le chiese che fretta
ci fosse, con la speranza che lo portassero da Massimo.
- Forza Giovanni saluta.
Si arrese all'idea che l'infermiere non sarebbe arrivato.
- Ciao a tutti.
Si avviarono tra le persone in visita, le buste piene di
cibo, vestiti di ricambio dei ricoverati, bambini che
correvano in ogni parte. Giovanni e sua madre,
ci misero un po' a guadagnare l'uscita.
Era una bella giornata, fuori c'era il sole, le
auto intasavano la strada, i clacson degli autisti
impazienti strombazzavano rumorosamente e la gente
che percorreva il marciapiede lo faceva frettolosamente,
sembrava come se tutti avessero un appuntamento a cui
erano in ritardo.
Aiutandosi con le stampelle, insieme alla madre, giunse
alla fermata dell'autobus, che arrivò quasi sbuffando
e quando si fermò dopo aver dondolato un paio
di volte, aprì le porte. La gente che era in attesa prese
d'assalto i seggiolini occupandoli quasi tutti. Come al
solito la madre misurò l'altezza di Giovanni, per vedere
se doveva pagare il biglietto. Superava di poco
l'asta:
- Abbassati un po', gli disse la madre.
Il bigliettaio guardando la scena, disse:
- Su signora, per non farlo pagare non doveva mica
ingessargli la gamba!
- Sono le stampelle che lo fanno sembrare più alto.
Il bigliettaio sorridendo continuò:
- Gliele dovevano tagliare tutte e due … si vede che è
alto più di un metro, biglietto prego.
Era cresciuto, pagava il biglietto.
Trascorsi sette mesi dall'incidente, la caviglia ogni tanto
si faceva sentire, ogni volta che diceva alla nonna:
- No', la caviglia mi fa male - la nonna in automatico
rispondeva: - Non ti preoccupare si vede che cambierà
il tempo. Lui pensava: "se ci fosse il sole, pioverà, se
piove, ci sarà il sole, ogni volta che cambia il tempo mi farà male?"


La comunione
Quei mesi erano trascorsi in fretta, la scuola gli faceva
avere i compiti a casa, tramite i suoi compagni. Marina
era quella che più di altri aveva questo compito.
In seguito lui seppe che era stata lei a prestarsi volontaria.
In quei giorni escogitò ogni trucco affinché
lei rimanesse il più possibile a spiegargli la lezione, a volte
dicendo che la caviglia gli faceva così male che
non poteva studiare, chiedendole di leggere per lui,
facendo smorfie di dolore, cui lei non poteva resistere.
Poi, in seguito, quando la caviglia guarì, passava il
tempo alla finestra che dava sulla stradina per vederla
arrivare. Quando appariva in fondo al viale, prendeva
a fasciarsi la caviglia e, gettandosi sulla poltrona
fingeva, come un attore consumato. Lei aveva capito
benissimo ma stava al gioco, poi prima di andare via
lo salutava con un colpetto sulla fasciatura dicendo:
- Vedrai che domani starai meglio.
Alle visite di Marina si aggiunsero quelle del prete
per il catechismo, del signor Pacifico, l'orologiaio, per
il regalo della comunione, che avrebbe dovuto fare a
maggio. Fu così che, nonostante le molte assenze, poté
studiare senza rimanere indietro e, nello stesso tempo
rispettare il programma del prete e fece indebitare la
madre con l'orologiaio (cosa che d'altronde avevano
fatto quasi tutti quelli che avevano figli pronti per la
comunione). Il giorno prima della comunione era una
bella giornata di maggio. I ragazzi si erano recati per
tre giorni, dalla mattina alle otto fino al pomeriggio
alle diciassette, nella chiesa a studiare bene il cerimoniale.
Per la prima volta Giovanni si confessò; si misero
in fila e, quando toccò a lui, s'inginocchiò confessando
che voleva sposare Marina. Il prete gli disse che quello
non era un peccato e se avesse altro da dire. Dopo una
piccola pausa gli raccontò della notte che aveva scavalcato
il muro entrando nel cimitero della chiesa, ma
anche quello al prete non sembrò grave. Poi gli disse
della sacrestia e dei vestiti provati in quella notte compreso
quello di Gino.
- Poi, che altro hai da confessare al Signore? - chiese il
prete, cambiando leggermente il tono della voce.
Giovanni gli disse del fatto che gli avrebbe voluto rubare
il cane. Il prete non parlò per qualche secondo, poi
lo tranquillizzò dicendogli che erano tutte ragazzate
e che lo avrebbe assolto, in cambio di cinquanta Ave
Maria e altrettanti Padre Nostro, da dire in ginocchio
davanti all'altare. La nonna quando venne per portarlo
a casa dovette attendere fino alle diciotto, prima di
vederlo arrivare con le ginocchia rosse come peperoni.
- Come mai così tardi?
- Pregavo
- E che pregavi? Chi hai ammazzato per pregare tutto
questo tempo? - e gli mollò un ceffone
- A no' stai sempre a menà! E fuggì a giocare con gli
altri che si erano attardati nella piazza. Lei si avviò
verso casa promettendogliene altre per la sera. Arrivò
anche la madre, ci sarebbe stata anche lei alla cerimonia;
il padre non venne, mandò a dire, tramite lei, che
era impegnato per lavoro.
Era arrivato il giorno della comunione. Giovanni, con
gli altri bambini, era nel corridoio adiacente alla sala
della chiesa, in attesa del momento in cui sarebbe entrato;
la guida cercava di tenerli calmi, dando le ultime
raccomandazioni. Lui, con il fiore che gli avevano consegnato,
era proprio impacciato, non sapeva proprio
come tenerlo e ripetutamente la guida lo riprendeva
chiedendogli di fare attenzione per non rovinarlo. In
mezzo a tutta quella confusione cercava Marina, lei
era in disparte con una delle comari, che le davano
le ultime istruzioni, (Marina sarebbe stata quella che
avrebbe recitato davanti all'Altare la donazione dei
fiori a Dio). Poi venne il momento, dalla sala si udì:
? Il Signore della vita è con noi.
Si misero in fila, e in processione fecero il loro ingresso
sfilando al centro, dirigendosi verso l'altare, mentre il
canto Popoli Tutti, si diffondeva nella sala; Marina era
in testa alla processione, mentre Giovanni la seguiva
qualche bambino dopo di lei. I genitori commossi li
osservavano fieri nel loro avanzare, la chiesa era gremita:
il falegname e la moglie erano in prima fila con
gli altri genitori dei comunicandi, la nonna di Giovanni
era come sempre al suo posto, vicino c'era la madre,
e le sorelle del padre, Antonietta e Sara. Il fatto strano
era che la moglie del macellaio era insieme al marito …
alla nonna non era sfuggita quest'anomalia, poi
in seguito disse che lui era in chiesa per controllare chi
gli doveva i soldi della carne presa per il pranzo della
comunione; a fianco al macellaio si erano accomodati
Pacifico con la moglie, Cosimo e Giselle gli erano
seduti accanto, Giselle aveva tra le braccia il bambino
nato da pochi giorni. Il tappezziere con la moglie,
erano una panca dietro di loro, lui non aveva visto di
buon occhio il fatto che avessero avuto il bambino e
ancora non si fossero sposati. Giunti davanti al sacerdote
Marina si staccò dalla processione e recitò:
- Ti doniamo o Signore, questi fiori bianchi e profumati,
rappresentano i nostri fragili esseri e sono un umile
omaggio in questa celebrazione che fraternamente ci
unisce a Te.
Poi sulle note di Popoli Tutti, i ragazzi passando davanti
al Sacerdote gli consegnarono il fiore che lui depose
in un cesto.
Il sacerdote ricordò a tutti della veste bianca che era
stata loro consegnata durante il battesimo e dell'amore
che dovrebbero aver sperimentato, ma anche di aver
incontrato il peccato. Giovanni non ricordava di aver
peccato e in quanto all'amore ancora non aveva capito
bene a cosa si riferisse il sacerdote, però era sicuro che
a Marina tenesse e non la perdeva mai d'occhio. Poi
il sacerdote chiese ai ragazzi di rinunciare a Satana e
loro in coro come era stato spiegato bene risposero:
- Rinuncio
- E alle sue opere?
- Rinuncio
- Alle sue seduzioni?
- Rinuncio
- Credete in Dio Padre Onnipotente Creatore del cielo
e della terra?
- Credo
Giovanni, che si era perso nelle sue fantasticherie, non
sentì la domanda e rimase in silenzio, nessuno se ne
accorse a parte quelli che più vicini a lui non videro
muovere le labbra. Marco gli diede un calcetto che lo
riportò alla realtà, lui lo guardò e facendo un sorriso
gli disse:
- Mi hai fatto male! Poi aggiunse, - a che punto siamo
arrivati?
Antonio, proprio dietro di lui, gli disse:
- Zitto e segui la cerimonia!.
Marco senza rispondergli si rivolse verso il sacerdote
che poneva l'ennesima domanda ai ragazzi:
- Credete in Gesù, suo Figlio, nostro Signore che nacque
da Maria Vergine, morì fu sepolto e resuscitato
siede alla destra del Padre?
Allora Giovanni senza rendersi conto iniziò a parlare
tra sé:
- Ci credo, io ci ho parlato, ma ho anche guardato dietro
l'altare e non c'era nessuno, a me sembra sempre
solo sulla croce che gli ha fatto il padre di Marina.
La cerimonia giunse al momento dell'aspersione
dell'Acqua Santa, che fu distribuita su tutti mentre si
alzava il canto dell'Alleluia. Poi pregarono e i genitori
s'impegnarono a occuparsi dell'educazione dei propri
figli e Giovanni si girò verso sua madre, pensando che
al posto del padre c'era la nonna e a lui andava bene
così.
I ragazzi offrirono il pane, il vino, l'acqua, i fiori, le
pergamene e i cesti, al canto del Santo, mentre il Sacerdote
si preparava a rendere i doni sotto forma del Corpo
e del Sangue di Cristo. Finalmente Giovanni prese
l'Ostia Sacra e si sentì leggermente diverso, più che altro
perché sapeva che la cerimonia stava per giungere
al termine e avrebbe potuto parlare con Marina.
Qualcuno dei genitori aveva preso anche il fotografo
e la chiesa s'illuminò sotto i lampi di decine di flash
mentre i ragazzi prendevano l'Ostia; altri possedevano
delle macchine fotografiche che sviluppavano la foto
all'istante altri fecero dei filmini per non dimenticare
quel giorno. Giovanni vide la madre che
scattava le foto e si asciugava le lacrime che colavano
sul viso, portandosi dietro anche il trucco e gli ritornarono
in mente quelle della madre di Gino quando
era chierichetto. Dopo aver ringraziato il Signore che si
era degnato di venire a loro e per tutti i doni ricevuti, il sacerdote
dopo la benedizione dichiarò che la Messa era finita e
di andare in pace. All'uscita della chiesa c'era più gente
che all'interno, molti parenti non erano entrati, la
nonna come il solito ne aveva per tutti, ma in particolare
per lo zio Ernesto, che andò incontro a Giovanni
per congratularsi con il ragazzo; lei lo fermò ponendosi
tra i due e gli disse:
- Non lo toccare, ora è pulito e tu sei uno spretato comunista!
Lo zio rimase per qualche secondo in silenzio guardando
serio la nonna, poi disse, mentre il viso gli si rilassava
con un bel sorriso:
- Non li mangiamo più da un bel po' i bambini, signora
Ines, meglio le fettuccine che prepara lei.
Così dicendo abbracciò Giovanni e sollevandolo da
terra gli disse:
- La nonna non cambia mai, ti vuole proteggere dal pericolo
Comunista, vai a giocare con i tuoi compagni!
Giovanni non se lo fece ripetere due volte e si diresse
verso la piazza, ritornando dopo poco deluso dal fatto
che Marina era già andata via. La cerimonia gli era
sembrata troppo lunga, il prete non era Padre Vittorio,
(lui si era scusato con i parrocchiani dicendo di non essere
in buona salute per officiare un evento così importante),
ma un sacerdote venuto da Roma. Già questo
lo aveva spiazzato, poi si era annoiato, a parte il fatto,
che Marina gli era sembrata perfetta vestita da sposa,
e per tutta la cerimonia aveva atteso il momento di
essere solo con lei per qualche minuto, lontano dagli
adulti, per dirle com'era bella e tutto il resto non contava,
ma lei non c'era per dirglielo.


Il pranzo
Il pranzo si organizzò nello spiazzo davanti casa della
nonna. Era una bella giornata soleggiata e furono mesi
degli ombrelloni presi in prestito
dall'ombrellaio della spiaggia libera, Umberto.
Un uomo sui trent'anni, di cui si sapeva poco; viveva lì
da aprile a ottobre, appariva nei primi giorni della bella
stagione per poi sparire alle prime piogge di ottobre.
Si organizzava in una baracca di pochi metri quadrati,
che costruiva sulla spiaggia all'inizio della stagione, dormiva
tra le sedie a sdraio e qualche topo che rosicchiava la stoffa
degli ombrelloni.
La nonna lo aveva conosciuto l'anno prima tramite Giovanni.
Il ragazzo terminata la scuola, qualche volta il sabato e la domenica
andava ad aiutarlo a piantare gli ombrelloni, racimolando qualche
soldo da spendere in gelati. Le volte che si attardavano nella
sistemazione di sedie a sdraio e ombrelloni, Umberto accompagnava
a casa il ragazzo e spesso la nonna lo convinceva a
rimanere per un caffè e qualche dolcetto preparato in
casa, ma appena il dialogo si portava sul personale, lui
si alzava, salutava la nonna e il ragazzo e se ne andava
dicendo che non poteva lasciare per troppo tempo
il materiale incustodito sulla spiaggia. Il suo migliore
amico era un cane di razza setter, con il pelo bianco e
qualche macchia nera, che lo seguiva ovunque; come
un'ombra gli restava attaccato alle gambe in ogni spostamento,
pur essendo un cane da caccia, le uniche
volte che si cimentava in quella pratica era durante
la notte, quando cacciava i roditori all'interno della
baracca. Umberto, per arrotondare le entrate, la sera
posava le reti da pesca, lunghi tramagli ingialliti dal
tempo, regolarmente rattoppati dopo ogni battuta di
pesca. La mattina, quando rientrava con le reti, la folla
di bagnanti si accalcava intorno alla minuscola imbarcazione
per accaparrarsi i pezzi migliori. Tra le maglie
delle reti ammassate sul fondo della barca spuntavano
le teste imbronciate delle gallinelle di mare, di sogliole
chiare e scure, triglie colorate, argentei pesci con
grandi occhi fissi nel vuoto e le vivaci cicale marine
che non la smettevano di muoversi, colpendo chiunque
provasse a toccarle. Durante la bella stagione la
spiaggia, nelle ore più calde, sembrava un puzzle di
ombrelloni colorati che, sistemati a distanze uguali,
coprivano ogni centimetro di sabbia. Non essendo ancora
iniziato il periodo estivo l'uomo prestò volentieri
alcuni di questi alla nonna, glie li portò di persona e da lei
ricevette l'invito a partecipare al pranzo della comunione.
Lui ringraziò e allo stesso tempo declinò, dicendo che
non poteva lasciare incustodita la sua baracca e con
un sorriso se ne andò con il setter che gli girava intorno.
Il nonno e la nonna presero dei cavalletti, ci posarono
sopra delle tavole del vicino, che stava svolgendo dei lavori di
ampliamento, a lui chiesero anche le sedie che mancavano.
Poi, appurato che il tavolo non era sufficiente per tutti,
smontarono la porta della camera e usarono
quella per prolungarlo. Gli invitati erano più di quelli
che avevano partecipato alla cerimonia e la tavolata fu
divisa con gli uomini da una parte e le donne dall'altra,
i bambini tutti insieme alla fine del tavolo.
L'invitato più chiassoso era Ernesto, lo zio da parte
della madre, dirigente del partito e sindacalista. Si
vedeva poco durante l'anno, se non quando c'era un
pranzo o qualcosa da festeggiare. Ogni tanto arrivavano
delle voci riguardo al suo coinvolgimento in scontri
con la polizia durante qualche sciopero o manifestazione.
Quelle notizie arrivavano in casa e non facevano
che confermare la sua fama e alla nonna la propria
tesi: lo zio era uno spretato comunista. Parlava sempre
di politica e quel giorno non fu da meno. Il suo pallino
era la Democrazia Cristiana e la chiesa che assopiva le
coscienze; mentre si infervorava e beveva un bicchiere
dopo l'altro, il nonno che era di idee contrarie, intavolava
discussioni sul fatto che in Russia mangiassero i bambini.
Giovanni ascoltava terrorizzato da quei discorsi e chiese:
- Ma davvero mangiano quelli come me?
I due lo rassicurarono:- No, si fa per dire, non ti preoccupare.
Poi alzavano il bicchiere colmo di vino e brindavano
a lui che aveva appena preso la comunione.
Gli invitati andavano avanti e indietro, tra la cucina e il
tavolo, si sedevano parlando ad alta voce con quelli
che vedevano di rado. Le zie, Antonietta e Sara, non
andavano molto d'accordo, erano le sorelle del padre
di Giovanni ma sembrava che ci fossero tra loro dei
vecchi rancori, mai sopiti, riguardo a storie di corna:
si diceva che Antonietta era stata per qualche anno la
donna del marito di Sara, lui l'aveva lasciata che era in
attesa di un figlio, per poi sposare Sara. Della cosa si
fece un gran parlare nel paese, specialmente del fatto
che il figlio di Antonietta era allo stesso tempo fratello
e cugino dei figli di Sara e che quest'ultima aveva rubato
il marito alla sorella. Negli ultimi tempi Sara era
convinta che tra i due la fiamma si fosse riaccesa. Quel
giorno il marito non era presente e le due parlottavano
nervose in disparte, mentre gli invitati giravano nello
spiazzo adibito al pranzo, poi la tensione tra le sorelle
sembrò calare e si abbracciarono. In seguito si venne a
sapere che Sara aveva cacciato il marito di casa. Antonietta
disse all'altra:
- Vediamoci qualche volta, ci riuniamo solo ai funerali
e in queste rare occasioni
- Finite le comunioni, la prossima volta sarà per un
matrimonio o per un ultimo addio.
Intanto i ragazzini giocavano e correvano per il prato
che circondava la casa; nell'orto della nonna sembrava
fosse passato un gregge impazzito, le cannucce che
sostenevano gli ortaggi erano state divelte, alcuni bambini
giocavano agli indiani lanciandosele, il nonno li
cacciò fuori prendendone qualcuno a calci nel sedere
e quelli corsero dalle madri a piangere, rimediando
ancora qualche schiaffo. L'unica che reggeva il passo
in mezzo a quella confusione era la nonna: ordinava e
cucinava senza perdere la calma e mise tutti d'accordo
quando si presentò con le sue famose fettuccine per
le quali ricevette un lungo applauso. Seguì una pausa,
tutti erano con il capo chino sul tavolo, si sentiva solo
il rumore delle forchette che strisciavano sulla ceramica
dei piatti mentre venivano arrotolate le fettuccine.
Ernesto e il nonno avevano smesso di punzecchiarsi,
il primo aveva la camicia macchiata di sugo e quando
Sara glielo fece notare, rispose:
- Non è niente, sono come le rose rosse: stanno bene su
tutto, poi scoppiò a ridere e coinvolse tutti i commensali
in un brindisi a favore di Giovanni. I vicini prima furono
un poco scandalizzati dal comportamento dello
zio, poi si adeguarono alla festa, bevendo e mangiando
di gusto, discutendo sulla necessità che almeno
una volta l'anno si facessero delle vacanze. Loro
da quando lavoravano entrambi, lui al comune come
impiegato e lei alla Standa come commessa, erano riusciti
ad affittare una casa al mare per un mese. Ci fu un
momento di silenzio nella tavolata, poi un ragazzino
urlò: - Perché qui che è montagna?
Era il figlio di Antonietta. Lei si alzò di scatto per dargli
uno schiaffo. Lui fuggì come una saetta travolgendo
il suo vicino di tavolo, mentre lei gli urlava:
- Quante volte ti ho detto di non intrometterti nei discorsi
dei grandi?
- Lascialo stare è solo un bambino. Gli disse la sorella.
- So io come educare i miei figli, fatti gli affari tuoi! Le
rispose facendo riaffiorare i vecchi rancori. La nonna
intanto arrivava con la seconda portata: i cappelli del
prete, ravioli enormi, dentro il piatto non ne entravano
più di tre. Il clima tra i commensali ritornò quello
festoso. - Buono il ripieno con che lo hai fatto?
Domandò Michele, il figlio di Ernesto, un giovane
studente sempre impegnato come il padre nella politica,
con cui a volte aveva violenti scontri verbali, perché
sosteneva che era giunto il momento di mettere in atto
la rivoluzione e che quelli come il padre si fossero adagiati
sugli allori.
Lo zio Ernesto lo liquidava prendendolo in giro dicendogli:
- Io mi chiamo Ernesto e tu fai el Che.
Considerato l'abbigliamento che esibiva il ragazzo,
compreso il baschetto con la stella al centro e la barba
lunga, il nomignolo gli calzava a pennello. Era venuto
al pranzo con Annalisa, la sua fidanzata, una bella
ragazza sui vent'anni, molto diversa da lui. La giovane
sembrava timida ed era rimasta sempre in silenzio non lasciando
mai il braccio di Michele. La nonna non rispose alla domanda
del giovane, però alzò gli occhi per una frazione di secondo
verso Giovanni, che era a capotavola dalla parte dei
bambini, continuando a fare le porzioni. Il vino iniziava
a fare effetto: gli invitati, pur essendo uno vicino
all'altro, parlavano a voce alta creando una tale confusione
che era difficile udire bene le parole, se non venivano
ripetute almeno un paio di volte. Per l'evento
avevano preso due damigiane da venti litri e una era
quasi terminata. Ernesto sembrava avere raggiunto
un limite non superabile, continuava a bere senza che
la sbornia peggiorasse, e parlava, parlava del pericolo
capitalista, che incombeva. I bambini stanchi di essere
bloccati al tavolo, iniziarono a correre intorno ad esso.
Dopo i primi tentativi, gli adulti lasciarono che giocassero
a patto di non disturbare il pranzo.
Michele e Annalisa si alzarono e si diressero dietro la
casa per parlare, dicendo agli altri che lì c'era troppa
confusione. Giovanni li seguì senza farsi vedere e notò
che non parlavano, si tenevano stretti l'uno all'altro e
si baciavano. La madre lo chiamò per il secondo che
stava per essere messo in tavola. Giunse l'oca al forno
con le patate. La nonna, appoggiato l'enorme piatto
con l'animale coperto di patate dorate, brandì un coltello
da cucina sopra il petto dell'oca, la stessa che Giovanni
aveva salvato a Natale e lo affondò nella carne, tagliandola
in due pezzi, che ricaddero pesantemente facendo
rotolare alcune patate sul tavolo, prontamente prese
dal vicino di casa e sua moglie.
Il ragazzo era rigido a capo tavola. Mentre la nonna
faceva le porzioni si alzò abbandonando il tavolo, si
diresse verso il recinto dove l'oca doveva essere, trovò
il cancello aperto e l'animale non c'era più.
- Allora sul tavolo c'è proprio lei! Ecco perché si era
salvata a Pasqua! Esclamò ad alta voce.
Gli ospiti si girarono verso lui e lo videro arrivare
come una furia presso la tavolata. Giovanni con decisione
prese la tovaglia e tirandola con forza, andò all'indietro,
sparecchiando, piatti e bicchieri portando con sé l'oca
con le patate. Ernesto con un tuffo prese una parte
dell'animale prima che cadesse in terra, schiantando
una sedia e qualche bicchiere sotto di sé.
Gli invitati dopo una pausa che sembrò eterna
applaudirono il salvataggio della mezza oca che era
tra le braccia dello zio. Ignorando il ragazzo rimisero
quello che si poteva salvare sul tavolo e ripresero a
mangiare. La madre che fino ad allora era rimasta in
disparte, cercò di scusarsi con i parenti e mentre raccoglieva
le cose da terra, gridava a Giovanni:
- Cosa ti ha preso? Sei impazzito?
La nonna cercava di prenderlo per fargli pagare quel
gesto sconsiderato, ma lui proteggendosi dietro gli altri bambini,
scartava a destra e a sinistra, girando intorno al tavolo per sfuggirle.
I vicini di casa si alzarono per aiutare la nonna nella cattura
del ragazzo, poi desistettero e affaticati abbandonarono il pranzo
brontolando a mezza bocca: - Mai vista una cosa del genere,
quel ragazzo è un selvaggio.
Mentre se ne andavano lo zio Ernesto non la smetteva
di ridere e il figlio Michele disse:
- Cercate di capirlo, lasciatelo stare, avrà avuto i suoi
buoni motivi per farlo, ci avrà visto come dei cannibali
che stavano per mangiare la sua amica.
Gli altri bambini si misero tra la nonna e il ragazzo,
così facendo crearono una barriera tra i due per difenderlo.
Giovanni le sfuggì saltando la siepe di tamarici
che circondava la casa e dirigendosi verso la
campagna. Il nonno, la nonna e la madre lo cercarono
per tutto il giorno chiedendo a ognuno che incontravano
se lo avessero visto, il ragazzo sembrava svanito
nel nulla. Dopo ore di ricerche finalmente la sera la
madre, lo vide seduto sulla riva del fiume che lanciava
sassi nell'acqua. Nessuno ebbe il coraggio di alzare
una mano per punirlo per quello che aveva fatto.
Quello doveva essere un giorno da ricordare e così fu
per molto tempo.


La bicicletta
Il nonno di Giovanni un giorno arrivò a casa con una
vecchia bicicletta. Dopo averla smontata completamente
la scartavetrò riportando a nudo il ferro, poi
verniciò il telaio di rosso e le forcelle di bianco, fece
brillare i raggi delle ruote lucidandoli con dell'olio di
vasellina e quando finì sembrò nuova. Ci vollero molti
giorni, perché era proprio in brutte condizioni. Quando
fu sistemata per bene, chiamò Giovanni: - È una bella bici
Giovanni, stai attento alle auto e tienila con cura.
Da quel giorno i suoi amici diventarono tutti quelli che
avessero la bicicletta. Il giorno dopo la scuola si trovava
con gli altri, dove c'era un ponticello sul canale.
La campagna era a ridosso delle ultime case del paese,
le stradine si diramavano nei campi coltivati dividendoli,
collegavano le fattorie, costeggiando il fiume. Con loro
qualche volta ci andava anche Marina, che si era messa
con Gino. Suo fratello Diego, geloso com'era della sorella,
li teneva sempre d'occhio, non lasciandoli mai soli.
Gino, da qualche tempo, non era più il chierichetto di
padre Vittorio, non sembrava più buono e la madre
aveva preso a piangere più di prima, avendo perso
quel palcoscenico domenicale, anche perché lui non
frequentava molto spesso la chiesa. Il vero motivo
perché Gino non era più il chierichetto preferito del
prete venne fuori una domenica.§§§ Dopo la messa,
le comari fecero pelo e contro pelo al fatto accaduto. Un
pomeriggio, dopo la messa Gino fu sorpreso a scassinare
il bussolotto delle offerte. Il prete, entrando in chiesa
nonostante fosse più brillo del solito, lo vide intento a
prendere le monete e gli chiese: - Cosa fai Giuda?
- Le sto rimettendo a posto sono cadute.
Togliendogli le monete dalle mani, il prete lo cacciò a
pedate urlando: - Ladro! Esci da questo suolo sacro!§§§
Finalmente giunse l'estate. Giovanni aveva preso
la comunione e la scuola era finita. Lui fu promosso,
nonostante le tante assenze dovute all'incidente. L'anno
successivo andò alla scuola media. Gino fu bocciato,
ripeté la quinta e non prese la comunione. Diego
passò alle superiori, Marina andò in prima media.
Durante le vacanze estive la sera i ragazzi facevano
un po' più tardi. Da qualche tempo sedevano sui gradini
della chiesa, in attesa che passasse la spider di Carlo. La
sentivano arrivare da lontano, il rumore del motore
che urlava al massimo dei giri, poi sempre più vicino,
fino a sfrecciare con un rombo impressionante. Nella
spider rossa con la capote aperta, in mezzo al polverone,
si vedeva a malapena la testa bionda di Carlo.
Arrivava nella piazza, le ruote stridevano mentre curvava
invertendo la marcia, per poi fermarsi proprio lì,
davanti a loro per qualche secondo. Poi con una feroce
sgommata, lasciando puzza di gomma bruciata, ripartiva.
I ragazzi battevano le mani a quell'esibizione,
mentre guardavano le luci posteriori diventare sempre
più piccole, fino a quando non diventavano puntini
rossi, per poi sparire nella notte.
Carlo viveva alla fine della strada,
sempre sporco di grasso di macchina,
con lo spider rosso, sembrava un pirata
correva con il bolide, dalla sera alla mattina,
così come nella vita ai margine del fosso.
La notte come un furetto, roteava l'unico occhio
in cerca di refurtiva, di un colpo grosso,
non disdegnando anche le cose del prete.
Nella cantina, aveva oltre a pane e farina,
le radio rubate alla stazione e la benzina.
Come quasi ogni giorno, il gruppo si radunava nella
piazza, dopo avere esaurito i giochi che andavano per
la maggiore: una monta, la luna, lo schiaffo del soldato,
il batti muro, riga, la nizza, mentre le ragazze erano impegnate
per ore a saltare la corda e giocare a campana.
Era sufficiente che uno dei ragazzi inforcasse la bicicletta,
allora tutti partivano a grande velocità verso
l'argine, facendo a gara a chi arrivasse primo. Per gli
ultimi la penitenza era il tuffo nel fiume e tutti dovevano
ripetere la figura del primo tuffatore. Giovanni
non arrivò mai primo, in compenso aveva imparato
a tuffarsi. Il bagno nel fiume era una consuetudine,
andare al mare da soli era vietato, quasi tutti i genitori
erano terrorizzati dal mare, di conseguenza tutti ripiegavano
sul fiume, anche questo, senza farlo sapere
ai genitori. Le stradine di campagna, in quel periodo
dell'anno, erano polverose e i ragazzi al loro passaggio,
di polvere ne alzavano tanta. Ai lati i campi appena
mietuti erano un tappeto dorato, prima di arrivare
al fiume passavano dentro una fresca pineta che costeggiava
un pioppeto. Quello era un angolo magico,
per qualcuno sacro, molte lapidi erano disseminate tra
gli alberi, era un cimitero per animali da compagnia,
qualcuno ogni tanto veniva a sistemare le
tombe, togliendo le erbacce, in particolare ce n'era una
vicino al grande pino di un cane di razza boxer, vi erano
sempre fiori freschi e sulla lapide vi era scritto:
"Al mio caro e fedele compagno Mister".
Un pomeriggio, mentre gli altri correvano lungo lo stradino,
non risparmiandosi colpi proibiti per passare avanti,
Giovanni si attardò nel bosco per leggere le epigrafi
sulle lapidi. Poi riprese a pedalare per raggiungere i
compagni, scalando il ripido dosso, ma qualcosa attirò
la sua attenzione: udì dei rumori provenire dalle
folte canne che si trovavano lungo l'argine. Qualcuno
si faceva largo tra arbusti e rovi, sentì chiaramente un
respiro affannoso, interrotto da qualche colpo di tosse.
Qualsiasi cosa fosse, venne verso lui e Giovanni impaurito
gridò: - Ehi! Chi c'è?
L'uomo uscì dal folto boschetto, resosi conto della sua
presenza coprendosi il viso vi rientrò per poi uscire
qualche metro più in là, quasi ruzzolando discese l'argine
e s'infilò dentro un'auto scura partendo a tutta
velocità.


Imboscata tra i rovi
Dal rialzo dell'argine si potevano vedere i campi divisi
in rettangoli da stradine di terra battuta,
ognuno aveva una tonalità leggermente diversa, così
da formare un'enorme scacchiera. Vide l'auto allontanarsi
alzando dietro di sé una nuvola di polvere. In
breve tempo sparì tra la polvere delle stradine infilandosi
nelle case a ridosso dei campi. Giovanni fu sorpreso
dalla reazione dell'uomo, non fece in tempo a
elaborare che cosa fosse successo che udì le grida provenire
dalle cannucce. Da dove poco prima era uscito
quell'uomo qualcuno correva e gridava, guardò meglio
e vide una bambina coi vestiti a brandelli che si
impigliavano ai rovi. Scese dalla bicicletta, si avvicinò
per vedere meglio, raccolse i sandali, sistemati con cura
accanto a una pianta di more mature. Corse tra l'erba
che era schiacciata in più punti, trovandola immobile,
seduta in terra. Marina con le mani si copriva il viso.
La ragazzina che avrebbe voluto sposare era lì con il
viso sporco di terra seminascosta tra la vegetazione.
Grosse lacrime le colavano sulle guance. Giovanni la
chiamò e avvicinò la mano per tranquillizzarla ma lei,
arretrando si rannicchiò nel cespuglio.
- Sono Giovanni, stai tranquilla.
Il ragazzo ebbe una sensazione d'impotenza, di fronte a quegli
occhi spaventati, il suo corpo tremava, un brivido lungo,
interminabile, s'impadronì delle sue mani, urlò
così forte fino a stordirsi. Chiamò i suoi compagni,
che accorsero chiedendogli: - Cosa hai fatto? Perché urli così?
- È Marina, guardate è Marina!
Gli altri videro la ragazzina
- Cosa ti è successo? Chiese Antonio il Pera (era chiamato
il pera, per le spalle piccoline e il suo sedere abbondante).
- Bisogna chiamare la polizia! Disse Marco il nero,
("nero" per la sua carnagione sempre abbronzata, a
causa dei lavoretti che svolgeva con il padre che era
giardiniere).
Giovanni non aveva mai smesso di guardare quel corpo
tremante e gli sembrava di sentire la voce di Marina
che chiedeva aiuto. Lei però non parlava, guardava
con gli occhi sbarrati il gruppo.
- Adesso ci siamo noi, stai tranquilla! Dissero in coro i
ragazzi.- Ti portiamo a casa.
- Chi è stato? - chiese Giovanni, mentre lei lo guardava
smarrita, ma uscì una parola dalla sua bocca. Quel
giorno Diego e Gino non erano andati al ponticello del
canale, per la solita corsa in bici e qualcuno disse:
- Andiamoli a cercare per raccontare cosa è accaduto,
li troveremo certamente al bar della stazione, loro ci
vanno spesso per guardare le ragazze.
Lasciarono Giovanni e Marina al fiume e il gruppetto
inforcò le biciclette avviandosi. Quando ancora erano
lontani dal bar, riconobbero i due che parlavano seduti
sulla panchina dei giardinetti, e li chiamarono con
voce affannata:
- Diego, Gino, correte è successa una cosa brutta, disse
il Nero - Al fiume c'è Marina
Il Pera non riusciva a parlare e faceva segno di sì con
la testa. Allora Diego si alzò di scatto chiedendo cosa
fosse successo alla sorella - Qualcuno l'ha aggredita,
disse il Pera.
- È morta? Domandò Diego.
- No, no, dissero in coro il Pera e il Nero. -L'ha trovata
Giovanni in mezzo all'erba, adesso sono lì che ci
aspettano, bisogna chiamare la polizia!
Diego e gli altri si avviarono verso il fiume, dove Giovanni
e Marina, erano in attesa che arrivassero. I due
erano seduti, lui la rassicurava, gli amici sarebbero arrivati
in fretta, avrebbero chiamato la polizia e i suoi
genitori. La ragazza aveva gli occhi fissi su di lui, non
parlava e non faceva nessun gesto, sembrava una bambola,
quelle che sono spesso sui mobili appoggiate al
muro, con le gambe larghe per tenerle in equilibrio.
Arrivarono Diego e gli altri, il fratello la strinse tra le braccia
e le disse:
- Marina, tranquilla adesso ci sono io, andiamo a
casa.
Lei rimase in silenzio e gli si strinse forte, facendo un
cenno con la testa. I ragazzi li seguirono fino alla casa
del falegname, raccontarono i fatti ai genitori della ragazza.
La signora Maria e il signor Franco ascoltarono
attentamente la storia dei ragazzi, lui, visibilmente alterato,
sbattendo tutto quello che gli capitava a tiro:
- Porco, questo criminale, questo … bisogna trovarlo,
questo porco!.
La moglie, lo seguiva cercando di calmarlo e rimettendo
in ordine quello che lui gettava in terra, supplicandolo.
- Calmati, andiamo alla polizia, lo troveranno, vedrai
lo prenderanno.
Qualcuno aveva avvisato la polizia del fattaccio, poco
dopo aver portato Marina a casa. Davanti all'abitazione
giunsero due auto, ne scesero due uomini, uno
in borghese, l'altro in divisa. Un gruppetto di ragazzi parlavano
animatamente del fatto, ai primi se ne erano
aggiunti altri che normalmente non frequentavano.
Alla vista delle auto, vi si radunarono intorno aspettando
che gli agenti facessero domande. La casa del
falegname era una delle tante che erano state costruite
abusivamente al margine del paese, ed era gente
semplice ma dignitosa, ben integrata con il resto della
comunità, per lo più emigrati come loro. Il gruppo diventò
una folla quando i vicini seppero del fattaccio,
chi per curiosità, chi per sincera solidarietà. Si sentivano
i commenti più diversi. Tutti avevano una teoria,
chi disse:
- Così piccoli dovrebbero essere tenuti in casa.
- Ma con la bella stagione come si fa?
- on si può stare mai tranquilli.
- Di gentaccia ce n'è tanta, prendersela con una bambina
così piccola, povera Marina.
- La pena di morte ci vorrebbe …
Una lunga serie di luoghi comuni fiorivano nei discorsi
della folla. Il poliziotto vestito con abiti civili, ordinò
a due agenti:
- Fate sgombrare … troppi curiosi, non siamo mica al
teatro!.
I due allontanarono la folla, che si scostò di poco, per
poi riprendere presto posizione davanti alla casa.
Quando i poliziotti si avvicinavano si allontanavano,
quando rientravano in casa, si riaccostavano, così
per tutto il tempo. L'ispettore - che si chiamava Baldi
- dopo aver parlato con il padre di Marina, uscì e si
rivolse a Giovanni:
- Allora: da fuggiasco a eroe! Raccontami come sono
andati i fatti.
Giovanni non se lo fece ripetere e raccontò come aveva
salvato Marina. Disse dell'uomo che fuggiva e della
macchina scura, Baldi gli chiese: - Ne hai parlato con
i tuoi amici?
- Non ne ho avuto il tempo, è stato così improvviso il
primo pensiero era Marina, tutto il resto non contava.
- Bene, non divulgare il fatto e non raccontare che potresti
riconoscere l'auto con cui è fuggito, questo farà
sentire al sicuro quel porco.
L'ispettore Baldi si congratulò con il ragazzo per l'azione
coraggiosa, dandogli una pacca sulla spalla,
- Bravo ragazzo! Poi gli raccomandò la massima attenzione,
poteva essere pericoloso girare da soli nella
zona e di restare in gruppo con gli amici. Baldi era arrivato
per caso nel commissariato di zona, dall'accento si capiva
che era del nord. Si diceva in giro, che la sua aspirazione
fosse di fare musica. Per una serie di sfortunati episodi
aveva dovuto rinunciare alla carriera di musicista.
 

Il musicista
I giorni che seguirono furono incentrati sui fatti accaduti
al fiume. Il gruppo con le biciclette impegnava il
tempo a disposizione percorrendo le stradine che portavano
al fiume, con la speranza di trovare qualcosa di
utile per rintracciare l'aggressore di Marina. Durante
una corsa sullo stradino, nei pressi del luogo dell'aggressione,
i ragazzi sentirono della musica arrivare
da dietro un boschetto di salici. Lunghe fronde coprivano
il musicista, il gruppetto si avvicinò incuriosito:
seduto sulla riva del fiume videro l'ispettore che con
il violino suonava con passione musiche che loro non
avevano mai ascoltato. I ragazzi in silenzio attesero la
fine dell'esibizione. Baldi, resosi conto degli intrusi smise
di suonare; loro applaudirono: - Bravo, bis, bravo ispettore.
Il Baldi apprezzò visibilmente gli applausi dell'inaspettato
pubblico, poi chiese:
- Che cosa fate qui? Mi spiate?
- No, noi passiamo sempre da queste parti. È la nostra
zona.
- State forse indagando per conto vostro?
L'ispettore sistemò il seggiolino che era affondato con
una gamba nella terra morbida dell'argine, poi sfogliò
alcune pagine dello spartito bloccandole con una molletta
di metallo e accarezzando lo strumento, si accomodò,
inforcò gli occhiali dopo averli puliti con cura,
fissò Diego, che era il più grande del gruppo e disse:
- Allora, ti ascolto.
- Ispettore, noi passiamo qui e se vediamo qualcosa
che non ci quadra, veniamo in commissariato e cerchiamo
di lei.
Annuendo alle parole del ragazzo l'ispettore spiegò
come quelle cose fossero pericolose e che se ne dovevano
occupare la polizia, assicurandogli che alla fine l'avrebbero preso.
Poi li invitò ad andare via, dicendo che da solo si concentrava
meglio per suonare.
Giovanni non aveva raccontato a nessuno degli
amici dell'uomo che aveva visto fuggire, ma avrebbe
voluto togliersi quel peso, nonostante Baldi si fosse
raccomandato di non farne parola con nessuno. Poi
con la mente ritornò al giorno dell'aggressione, pensando:
"il fatto che i sandali erano sistemati con cura,
significava che Marina era tranquilla, come se fosse in
compagnia di una persona amica". Chi poteva essere?
Questo pensiero assillava Giovanni e la macchina
scura non era di quelle che si vedono tutti i giorni, poi
quei colpi di tosse gli erano rimasti nella testa,
"Per ché Marina e l'uomo erano all'argine? Se riprendesse a
parlare, si risolverebbe il caso". Il mese di luglio passò
in fretta, i giorni dell'aggressione erano lontani, i ragazzi
continuarono a vedersi nella piazza della chiesa.
Il Nero andò in vacanza con la famiglia, Antonio
partì per la Calabria, del gruppo rimasero in paese:
Diego, Gino, Giovanni e Marina, a volte a loro si aggiungeva
qualche ragazzo in vacanza, come Giuseppe e Mario.
Una sera, mentre erano raggruppati in piazza, Giovanni
vide una macchina scura transitare lentamente
sul lato opposto al loro, si alzò e con lo sguardo seguì
l'auto. Era sicuro che fosse la stessa vista fuggire quel
giorno. Uscì dal gruppo, scostò Diego, che gli copriva
la visuale e si mise a correre, verso quella che poteva
essere l'auto dell'aggressore di Marina. Giuseppe gridò:
- Giovanni, dove vai?
Il ragazzo non rispose, aveva bisogno di tutto il fiato
possibile, mentre era impegnato nella folle rincorsa
dell'auto. Gli altri lo seguirono e nella piazza, tra
la gente che prima sonnecchiava, iniziò una rincorsa
generale, senza capire bene perché lo si faceva. Diego
raggiunse Giovanni, con il respiro affannato gli chiese:
- È lui?
Il ragazzo in un primo momento, volendo mantenere
la promessa fatta all'ispettore, non rispose. Poi pressato
dal fratello di Marina, disse:- Forse, non sono sicuro.
L'auto lentamente sparì nella strada buia che era dietro
la chiesa. Il gruppo si arrese, con le mani appoggiate
sulle ginocchia respirando affannosamente, poi
fissando Giovanni gli chiesero perché avessero inseguito
quell'auto. Mentre ripresero fiato, rimanendo
piegati in avanti, raccontò dell'auto che aveva visto
andare via a tutta velocità il giorno dell'aggressione
di Marina. Quella che avevano appena inseguito gli
sembrava fosse molto somigliante all'auto dell'aggressore.
Accanto a loro c'era anche Marina, che ascoltò il
racconto attentamente e sembrò interessata dai particolari
che sembrava avesse rimosso. Giovanni, il giorno, dopo
andò al commissariato e cercò di Baldi. Al poliziotto
che all'entrata lo fermò, domandò:
- Dov'è l'ispettore?
- Bussa a quella porta dovrebbe essere in ufficio.
L'ispettore era seduto davanti al suo violino, con una
pezza bianca lo accarezzava come fosse una bella donna,
avendo cura che ogni granello di polvere fosse eliminato,
lo guardava in controluce per poi riprendere
l'operazione di pulizia con colpetti di rifinitura, mentre
eseguiva quest'operazione, senza mai togliere lo
sguardo dallo strumento, disse:
- Allora ragazzo cosa c'è?
Ho visto la macchina scura!
Giovanni raccontò il fatto accaduto la sera prima, come
tutti insieme avessero corso dietro di essa e che oramai
tutti conoscevano il fatto dell'uomo e di quell'auto.
- Siete riusciti a vedere l'uomo da vicino?
- No, era troppo buio.
- Secondo te si è accorto conto che lo inseguivate?
- Non lo so, però non ha mai accelerato, come se fosse
preso da altro.
Baldi ripose con cura il violino nella custodia, lo ripose
in un armadio, chiudendo a chiave lo sportello, poi,
rivolgendosi a Giovanni: - Caro ragazzo, ti avevo detto
di non parlare di quell'uomo.
- Ispettore, io non l'avevo detto a nessuno, ma Diego ha
capito e ha voluto sapere tutti i particolari.
- Va bene, oramai la frittata è fatta, non ti preoccupare:
adesso ci pensiamo noi. Vuoi che ti accompagni a casa?
- No, no, sono venuto con la bicicletta, grazie ispettore.


La festa patronale
I preparativi della festa patronale erano a buon punto,
i ragazzi erano eccitati da quell'evento. I giostrai avevano
occupato buona parte della piazza, le bancarelle
erano una fila interminabile che si snodava anche nelle
vie adiacenti. Vi si poteva trovare ogni ben di Dio, e
la chiesa era decorata con luci fin sopra al campanile,
così come ogni lampione e albero che si potesse decorare,
le luminarie attraversavano la strada con figure
damascate, in più quell'anno il prete aveva voluto fare
le cose in grande, all'estendo un palco dove si sarebbero
esibiti vari artisti, tra cui sembrava sicura l'esibizione
dell'ispettore Baldi.
Nonostante i ragazzi non avessero smesso di perlustrare
i vicoli di tutta la zona,( per loro quella oramai
era l'occupazione principale) dell'auto in questione
non c'era traccia. Ogni giorno partivano con le biciclette
perlustravano la zona, cercandola in lungo e in
largo, per poi riunirsi nella piazza e fare il resoconto
delle ricerche. Arrivò la sera della festa, la chiesa
era gremita in ogni posto, padre Vittorio officiava la
messa, Giovanni con la nonna era nei primi posti,accanto
aveva il falegname con la moglie e i figli, Marina e Diego, poi
tanta gente che il giorno dopo avrebbe finito le vacanze. Il
chierichetto era un ragazzino che veniva solo d'estate
e non frequentava il loro gruppo.


Anche il diavolo va a Messa
Accanto aveva il falegname con la moglie e i figli Marina e
Diego, poi tanta gente che il giorno dopo avrebbe finito le
vacanze. Giovanni non aveva occhi che per Marina, lui della
messa seguì ben poco. La ragazza a parte il fatto che
non parlava dal giorno del fattaccio, sembrava in forma
e non stava ferma un attimo. I genitori ogni tanto
la prendevano con delicatezza per la mano per farla
mettere seduta. Il prete chiese all'assemblea di pregare
insieme, come il Signore aveva insegnato. Tutti in
piedi con le mani rivolte a Dio declamarono il Padre
Nostro, il momento più atteso da Giovanni era quasi
arrivato.
- La pace sia con voi, disse padre Vittorio e l'assemblea
in una sola voce rispose.
- E con il tuo spirito.
- Scambiatevi un segno di pace.
Giovanni si rivolse a Marina poi si avvicinò, la abbracciò
forte e le disse sottovoce:
- Tornerai a parlare, ti voglio bene.
Le lacrime rigarono il viso di Marina, mentre annuiva.
Arrivato il momento dell'Eucarestia, la nonna di
Giovanni si alzò dirigendosi verso l'altare dove il prete
offriva il Corpo di Cristo ai fedeli, che a loro volta
rispondevano: ?Amen.
Giovanni con gli occhi fissi sulla ragazza rimase seduto,
la nonna tornò indietro gli diede un pizzicotto
sotto il braccio e una pacca sul collo e sibilando a denti
stretti:- Devi fare la comunione, vieni.
Lui si alzò e la seguì, anche la ragazza si mise in fila,
i due si erano comunicati a Maggio. La fila era lunga,
Baldi era qualche persona dopo di loro. Le parole del
prete rimbombavano nella chiesa, nonostante le proferisse
con voce normale, quello che si sentiva più forte
era la risposta dei fedeli, ?Amen. Nel leggero brusio
della folla a tratti si sentì qualche leggero colpo di tosse,
uno in particolare attirò l'attenzione del ragazzo,
proveniva da qualche panca più dietro, era una tosse
più secca delle altre, girandosi per vedere chi potesse
essere, trovò un muro di persone più alte di lui che gli
coprivano la visuale. Quella tosse sembrò entrargli nella
testa, lo riportò indietro nel tempo, rivide la scena tra
le cannucce, l'uomo che fuggiva con la macchina in
mezzo al polverone, Marina con il vestito strappato
seduta come una bambola maltrattata. Avrebbe voluto
andare a vedere, chi fosse quello che tossiva in
quel modo, ma la fila era terminata. Si trovò davanti
a padre Vittorio, gli offriva il corpo di Cristo, allora …
?Amen.
Ritornando al proprio posto con le mani giunte, simulando
la concentrazione dovuta alla preghiera, guardava
la fila e le persone che si alternavano davanti a
padre Vittorio: Baldi, la signora Maria, il signor Franco,
la moglie del macellaio, Giselle la tappezziera e Cosimo,
tornato dalla Germania, avrebbe dovuto sposarla,
lei stava per partorire. Il padre, Pacifico l'orologiaio,
finito di riscuotere i debiti contratti dai paesani per le
comunioni, miracolosamente rimessosi in salute, non
aveva nessuna intenzione di lasciare il negozio al figlio,
che si mise a lavorare come aiuto tappezziere nel
negozio della moglie. Nessuno tossiva più, le persone
sfilavano senza che il ragazzo riconoscesse nessuno.
Poi Marina ebbe un sussulto al passare di un uomo
alto, ben vestito, con le mani giunte a testa bassa che
si avviava verso il proprio posto. La ragazza si strinse
al padre iniziando a piangere, lui non capì cosa l'avesse
agitata in quel modo, sussurrandole di calmarsi
la prese per le spalle e, avvicinandola a sé, la strinse
con un abbraccio protettivo, rassicurandola. Giovanni
aveva notato l'agitazione di Marina e si diresse verso
di lei chiedendole: - Lo hai riconosciuto? Chi è?
Lei girandosi su se stessa indicò un punto della chiesa,
ma dove prima c'era l'uomo ora era seduta una signora
anziana. Il ragazzo andò da Baldi, che era intento
a seguire la messa, ma l'ispettore gli fece cenno di
aspettare, Giovanni lo tirò per la giacca, infine l'uomo
spazientito da tanta fretta chiese:
- Cosa c'è?
- L'uomo dell'aggressione era qui in chiesa! Esclamò
Giovanni.
- Dove lo hai visto?
- Era lì, dove adesso c'è quella signora.
Poi gli disse come Marina si era agitata dopo aver visto
l'uomo che l'aveva aggredita, e a quel punto Baldi
si diresse verso i genitori della ragazza, chiedendo
loro di uscire. L'uomo, la moglie e i due ragazzi seguirono
l'ispettore fino alle scale della chiesa, da quel
punto di osservazione si dominava tutta la piazza: era
piena di bancarelle, la folla l'aveva gremita nonostante
fosse ancora presto, era impossibile trovare chicchessia
a meno di un colpo di fortuna. Baldi chiamò una
volante, fece salire i genitori e i due ragazzi sull'auto,
ordinò all'autista di fare un giro intorno alla chiesa, e
chiese a Marina:
- Guarda se lo riconosci mentre andiamo.
Lei annuì e s'incollò con il viso al vetro del finestrino.
Girarono per circa due ore senza vedere nessuno
che assomigliasse al ricercato. L'ispettore a quel punto
accompagnò il falegname, la moglie e Marina a casa,
lasciando Giovanni davanti alla chiesa. La nonna, in
pensiero per il ragazzo, era lì spazientita che lo aspettava.
Alla vista di Giovanni iniziò a lamentarsi, gli andò incontro
mulinando la mano libera, alzando l'altra in cui aveva la borsa.
Arrivata abbastanza vicino, quasi urlando gli mollò uno schiaffo,
ma il ragazzo lo evitò con agilità, abbassandosi, saltando
contemporaneamente all'indietro:
- Sono andato con l'ispettore ! Ripeteva Giovanni, facendosi
scudo con le mani.
- L'ispettore, l'ispettore, ne hai sempre una tu, va a
casa!
 

Concerto per Marina
Le note viaggiavano, si alzavano leggere, scesa la calura
del giorno, ero lì ad ascoltare la musica della festa del quartiere.
Giochi, balli, la giostra che girava a tempo di valzer.
Il banco dei dolci, lo zucchero filato, i biglietti della
lotteria.
Come ogni anno, in quel mese, la piazza di persone si
animava.
Molti giovani e nuove spose, mancavano quelle che si
erano arrese.
Una fiumana di bambini felici, correva, tirava per le
gonne e rallegrava.
Visi vecchi e capelli grigi, con grandi sorrisi delle nonne.
La sera, nella piazza, la festa era al culmine; cantanti e
poeti si alternavano sul palco e il pubblico apprezzava
applaudendo con calore ogni esibizione, anche la
più scarsa. Arrivò il momento dell'esibizione di Baldi.
Dopo una troppo lunga presentazione del prete,
fischiata dal pubblico, l'ispettore dal palco indicò Marina
che era seduta nei primi posti con il fratello e iniziò a suonare,
alle prime il silenzio calò sulla piazza: il suono del violino
si diffuse nell'aria, magnifico, drammatico, poi melodioso,
arpeggiato, Baldi fu bravissimo e alcuni,
più sensibili di altri, nel silenzio religioso della piazza
di fronte a tale bravura, piansero. Quando l'esibizione
terminò e Baldi si chinò per ringraziare la piazza, dopo
un attimo di silenzio, il pubblico applaudì con vigore
gridando: ?Bravo, bis, suona ancora! Baldi non si
fece pregare e riprese a suonare e quella che si udì,
fu quasi rabbia; pizzicando le corde e facendo volare
l'archetto si percepì la passione per quell'arte che aveva
abbandonato troppo in fretta, un breve, ma intenso
pezzo di bravura con cui si congedò, salutò la folla,
inchinandosi tra gli applausi. Il gruppo dei ragazzi
era riunito vicino alla giostra. Diego e Gino, giravano
sopra ai seggiolini, il primo dietro l'altro, facendolo
dondolare per poi lanciarlo verso il trofeo appeso in
alto, guadagnando un giro gratis. Diego era forte e a
ogni lancio Gino riusciva a prendere la coda di coniglio;
oramai era più di mezz'ora che giravano gratis e
il giostraio parlò con loro e li convinse a scendere poiché
gli altri iniziavano a lamentarsi. Dopo la trattativa
i due si accordarono, con la promessa di qualche giro
gratis il giorno dopo. La folla era in attesa del culmine
della festa, i botti, che erano, come in tutte le feste
degne di questo nome, un saggio di bravura e originalità
da mostrare ogni volta: la cascata, la fontana, le
stelle cadenti, il botto più forte. I ragazzi si aggiravano
tra le bancarelle, lanciandosi palline di stoffa riempite
di segatura e assicurate a un elastico, alcuni di loro
per renderle più pesanti le avevano inumidite, così
si fronteggiavano con altri provenienti da altre zone
del paese, mettendo in atto una vera e propria guerriglia
in difesa del territorio. La bionda del tiro a segno
invitava a provare la propria abilità, i dolci erano
abbondanti e di tutti i tipi: zucchero filato, caramelle,
canditi, lecca-lecca colorati e in tutte le forme, rotondi,
a cuore, bastoncini a strisce colorate, a palla. Le bande
di frombolieri, dopo aver corso per tutti i vicoli alla
ricerca del nemico, si fermavano al banco dei panini,
il loro preferito. Un parapiglia proveniente da dietro
il banco attirò l'attenzione di Giovanni che stava per
scegliere il suo panino. Qualcuno se le dava di santa
ragione, uno dei due gridò: ?Maiale, cosa volevi da
mio figlio? Porco, adesso ti do io quello che meriti!
L'uomo cercò la fuga e inciampando sui cavi elettrici,
tolse la corrente alla macchina dello zucchero filato,
lasciando il proprietario con il bastoncino in mano. Si
spensero le luci di tutta la fila di ambulanti, lasciando
al buio mezza piazza. Il cerchio dei curiosi richiamati
dalla rissa si strinse intorno a lui, impedendogli la
fuga. In breve si accesero piccole risse in ogni parte
della piazza, era come se approfittando della confusione,
si regolassero vecchi conti lasciati sopire, in attesa
dell'occasione propizia per risvegliarli. Giovanni
a fatica riuscì a superare il muro di persone, Marina
gli s'infilò dietro, giunti in prima fila c'erano i due che
se le davano di santa ragione. La ragazza si irrigidì,
poi stese il braccio indicando uno dei due uomini e
infine parlò, per la prima volta dal giorno dell'aggressione:
È lui! Diego, che era accanto a loro, prima guardò Marina
poi Giovanni, gli fece un cenno d'intesa indicando
quello più alto come l'aggressore del fiume. Il fratello
della ragazza scattò in avanti, bloccandolo con una
stretta al collo, l'uomo cercò di liberarsi dalla presa
mentre il padre del bambino molestato, ogni tanto tirava
un calcio. Richiamato dal trambusto Baldi, con
due poliziotti in divisa, si fece largo tra la folla.
- Che succede qui? - domandò l'ispettore.
- Quell'uomo ha molestato il figlio di Mario! L'orologio
della chiesa suonò la mezzanotte ammutolendo
i presenti: era l'ora dei fuochi.
- Fermi, fermatevi, ho detto! Ordinò l'ispettore, mentre
liberava l'uomo dalla presa del fratello di Marina.
Gli agenti presero l'uomo in custodia, lo ammanettarono,
lo fecero salire sulla volante, sottraendolo al
linciaggio della folla inferocita, che mentre l'auto passava
tirava calci e pugni ammaccando la carrozzeria.
Marina era rimasta al margine del cerchio di gente che
si stringeva attorno all'auto della polizia, quando Diego,
madido di sudore, si avvicinò e accarezzandola
sul viso le mormorò:- Finalmente è finita, vieni andiamo
a casa.
I due fratelli lentamente si avviarono tra la folla, che
si apriva al loro passaggio in silenzio. Poco lontano,
nella piazza, l'adrenalina era a mille, il vino e la birra
correvano a fiumi, la gente ballava e cantava, la giostra
girava a tempo di valzer, la festa era al suo culmine quando
un boato fece ammutolire la folla di festanti, poi
una serie di sibili e botti: gli artificieri avevano appiccato
fuoco alle polveri. Partì un applauso. La piazza
fu illuminata da cascate di luce e stelle cadenti. Con
i fuochi artificiali furono messi i sigilli, alla festa della
Madonna delle Grazie.
Il giorno dopo non si parlava d'altro che del maniaco
e di Marina che aveva ripreso a parlare. Baldi andò a
trovare Marina per farle vedere le fotografie dell'aggressore
e per sentire la voce della ragazzina.
- Lo riconosci? - chiese l'ispettore. La bambina guardò
con attenzione le immagini e fece cenno di sì con la
testa.
- Eh no Marina! Me lo devi dire parlando! Esclamò
l'uomo, abbozzando un sorriso.
Dopo una breve pausa: - Si è lui - disse Marina, con una
bella voce cristallina. - Brava, hai una bella voce.
Poi Baldi salutò i genitori e mentre andava via, giunto
nei pressi della porta, si fermò e girandosi si rivolse a Marina;
- Dimmi una cosa, come mai eri al fiume? Perché i sandali
erano così ben sistemati?
Si chinò per mettersi alla stessa altezza della ragazza,
in attesa della risposta. La ragazza spiegò che era
andata al fiume per attendere il resto della comitiva,
sapeva che sarebbero passati di lì, si era tolta i sandali
per pulire i piedi dalla polvere. Arrivata quella macchina
era sceso quell'uomo che l'aveva salutata sorridendo,
poi mentre saliva il dosso dell'argine le aveva
chiesto cosa facesse lì da sola, poi aveva iniziato a toccarla
per toglierle il vestito, ma poiché lei era riuscita a
divincolarsi l'aveva inseguita, fino a che si sentì la voce
di Giovanni e l'uomo scappò. Uscendo dalla casa del falegname
l'ispettore incontrò i ragazzi che lo attendevano e
lo fermarono chiedendo notizie dell'arrestato. Baldi
confermò che il colpevole dell'aggressione era proprio
quell'uomo, inoltre era ricercato e sospettato di altre
aggressioni, avvenute in località di villeggiatura, in
particolare per una avvenuta due anni prima, durante
la quale purtroppo, un bambino dell'età di Marina era
deceduto. Baldi disse ai ragazzi di fare sempre attenzione,
di non fidarsi troppo degli sconosciuti, tenendo
sempre d'occhio soprattutto i più piccoli. Nel salutarli,
ringraziando per l'aiuto dato nell'indagine, disse:
- Con questo caso ho chiuso la mia carriera in polizia.
Torno al nord, voglio riprendere la mia passione per la
musica dove l'ho lasciata … magari ci vediamo a qualche
concerto.
I ragazzi salutarono l'ispettore uno per volta con un
abbraccio, quando fu il momento di Giovanni, il ragazzo
abbracciandolo gli sussurrò:? Grazie. Dal gruppetto
si sentì:
- Ispettore qual è il tuo nome? -Bruno. Poi aggiunse
che avrebbe chiesto spesso notizie di loro, mentre
con passo svelto, senza mai girarsi si allontanava
accompagnato dagli applausi della folla che si era
radunata davanti alla casa del falegname.


Cinque anni dopo
Erano i primi giorni d'Agosto e le giornate passavano
lente. Nel pomeriggio, quando il sole picchiava forte,
per la strada si vedeva poca gente, i pochi coraggiosi che
si avventuravano cercavano l'ombra fresca dei grandi
platani che erano lungo il viale che porta alla scuola.
Giovanni oramai in quel periodo usciva solo con Marina,
Diego si era fidanzato con una ragazza di città,
Gino aveva preso a frequentare un'altra comitiva, il
Pera tornato dalle vacanze, non usciva più da casa, girava
voce fosse innamorato di una ragazza straniera
che forse non avrebbe più rivisto perché viveva troppo
lontano (forse in Svizzera)
. Il Nero era sempre a
lavorare con il padre nei giardini delle ville, che si trovavano
dall'altra parte del paese, Giuseppe e Mario
vivevano in città. Erano passati quasi cinque anni da
quell'estate famosa; un giorno mentre Giovanni e Marina
erano seduti sugli scalini della Chiesa, nell'unico
punto d'ombra di tutta la piazza, sul lato opposto al
loro passò un ragazzo in bicicletta. Pedalava in modo
strano, tenendo una gamba tesa e con l'altra spingeva
sull'unico pedale e si dirigeva verso la chiesa. Giovanni
vide i capelli lunghi, biondi, legati come fanno le
donne. Era passato tanto tempo dall'ultima volta che
l'aveva visto, ma riconobbe il suo antico compagno
d'avventura. Il ragazzo si fermò davanti a loro, scese
dalla bici e appoggiandosi al manubrio si avvicinò zoppicando.
Con un sorriso salutò i due, poi disse:
- Giovanni, non dovevamo andare a Firenze noi due?
Sorpreso e felice di rivedere Massimo, Giovanni si
alzò, gli andò incontro, lo abbracciò e gli chiese:
- Come ti va? Ti ho cercato in ospedale il giorno che
sono uscito, ma un infermiere mi ha detto che eri in un
altro padiglione.
- Mi hanno operato, ho passato quasi tre mesi in ospedale,
ma come puoi vedere, non è andato tutto a posto!.
La gamba di Massimo era tesa come un ramo secco, e
per mettersi seduto accanto ai due Giovanni lo aiutò.
- E questa? È la tua ragazza?
- No, ma siamo molto amici.
- Io sono Marina - disse lei - frequentiamo la stessa
scuola.
- E bravo Giovanni, sei andato alle superiori! Io invece
ho lasciato l'officina e ho iniziato a lavorare in un
laboratorio, riparo radio e televisori, dicono che l'elettronica
sia il futuro.
Nel breve tempo passato insieme prima dell'incidente
non si erano dette molte cose di loro.
- Come mai sei da queste parti? Sei in vacanza? Dove
vivi?
- Sono da mio cugino Carlo, rimarrò una settimana.
Mentre erano lì che si scambiavano domande, il prete
canticchiando passò con il cane, superò i tre senza salutarli,
costeggiò il muro ed entrò dalla parte posteriore
della chiesa. I ragazzi sorrisero, portando il pollice
alla bocca, come per dire: questo qui, trinca e, ripresero
i loro discorsi.
- Carlo chi? Quello con la macchina rossa?
- Proprio lui, lo conosci?
- Adesso è un po' che non si vede … ho saputo che ha
qualche problema con la polizia per delle cose che gli
hanno trovato in casa.
- Cose rubate, dovrebbe uscire la settimana prossima
- disse Massimo.
Tutti i ragazzi conoscevano Carlo, per le sgommate
che faceva con l'auto nella piazza, ma in effetti era un
bel po' di tempo che non lo vedevano da quelle parti.
Lo ritenevano, (nonostante la cattiva reputazione) un
uomo simpatico, e con loro si era comportato sempre
bene. Poi Giovanni gli raccontò i fatti che erano successi
nei tre anni trascorsi e, avuto il consenso dalla ragazza,
raccontò anche di quello che era accaduto quel
giorno all'argine e la cattura di quell'uomo il giorno
della festa patronale. Massimo ascoltava con attenta
curiosità le cose dette dai due ragazzi.
- Avete avuto un bel movimento, negli ultimi tempi,
non vi siete annoiati!.
Come in tutti i posti di mare il tempo cambiava in fretta,
grosse nuvole nere passarono veloci sopra di loro,
scurendo in un attimo la piazza. Cadde qualche gocciolone
cadde, il selciato di cerchietti scuri dove si era
accumulata la polvere estiva, e con un impercettibile
tonfo creava dei piccoli crateri. La rapida evaporazione
dell'acqua che colpiva l'asfalto caldo, diffuse un
odore acre di terra e catrame. Poiché il tempo peggiorava
Massimo, salutando i due in tutta fretta, inforcò
la bicicletta e disse:
- Adesso devo andare a casa, a domani!
Giovanni aiutò Massimo sostenendo la bicicletta.
- Mi fa piacere che mi aiuti, però ti devo dire che non
ne ho bisogno, comunque, grazie.
Quell'estate non fu molto diversa dalle altre. La comitiva
si era ridotta a pochi elementi: al Pera era passata
la cotta per la ragazza svizzera ed era diventato molto
diverso, si era dimagrito e allungato, non sembrava
più una pera; il Nero era sempre più abbronzato,
anche se aveva smesso di lavorare con il padre
nei giardini, la sua era un'abbronzatura da spiaggia,
luogo dove piantava ombrelloni da giugno a settembre;
Diego e Gino oramai erano troppo grandi perché
li frequentassero, e andavano raramente in piazza, se
non la domenica durante la messa.
Massimo, come aveva promesso, il giorno dopo tornò,
e con Giovanni e Marina trovò anche gli altri ragazzi:
Antonio (il Pera) e Marco (il Nero). Fatte le presentazioni,
chiese:
- Buck è sempre nel giardino?
- Padre Vittorio non lo fa uscire, se non qualche volta
quando ha bevuto un po' di più… non lo hai visto
ieri? Ci è passato davanti, lo tiene alla catena, ha paura
che gli scappi.
Poi Massimo disse:
- Vogliamo passare tutta l'estate in questa piazza? Oppure
approfittare per andare tutti a Firenze?
Il Nero sorridendo disse:
- Come ci arriviamo a Firenze? Con le biciclette?
- Visto com'è andata la volta scorsa, forse non mi sembra
il caso.
Allora il Pera:
- Si potrebbe andare con il treno, partiamo la mattina
presto per tornare la sera del giorno stesso, così i nostri
genitori non si accorgono di nulla.
I cinque erano d'accordo: sarebbero andati con il treno.
Giovanni era curioso riguardo alla voglia di andare
a Firenze da parte di Massimo:
- Perché Firenze? Anche cinque anni fa volevi andarci …
perché?
- Ne parlavano sempre in casa. Quando ero piccolo
mia zia la sera mi trascinava al bar, nell'ora che davano
il telegiornale per vedere gli angeli del fango.
Il quattro Novembre del 1966 l'Arno era straripato
invadendo la città, causando trentacinque vittime e
ingenti danni. Le immagini in bianco e nero, trasmesse
dalla televisione, avevano colpito l'immaginario
collettivo: ragazzi di tutte le età e diverse nazionalità,
che in mezzo al fango cercavano di mettere in salvo le
opere di valore artistico e storico del patrimonio nazionale
e universale. Alcune di esse andarono perse
per sempre e per quelle salvate bisogna essere riconoscenti
a questa mobilitazione giovanile spontanea
a cui assegnarono il nome di "angeli del fango".
Massimo
continuò a raccontare, mentre gli altri lo ascoltavano
con curiosità:
- In quel periodo tutto quel parlare di Firenze, degli
angeli del fango, aveva stimolato la mia fantasia di ragazzino,
volevo a tutti i costi arrivare in quella città,
dove gli angeli si sporcavano di fango.
Marina aggiunse:
- Ne parliamo ogni tanto a scuola di quell'alluvione,
quando piove molto e il fiume ingrossa, siamo tutti
preoccupati che possa accadere una cosa del genere e
viene in mente quella tragedia.
A quel punto Giovanni disse:
- Quindi tutti a Firenze!
Il gruppo era deciso e iniziò la preparazione al viaggio.
- Ci vuole qualche lira per andare - disse il Nero - Dobbiamo
vedere quanti soldi riusciamo a raggranellare.
Marina disse che aveva messo da parte qualcosa dei
soldi ricevuti durante le feste e per la promozione. Il
Pera:
- Io non spendo la paghetta da quando sono tornato dalle
vacanze di tre anni fa, la mettevo da parte per
un viaggio in Svizzera, lei però non mi ha mai scritto,
penso che mi abbia dimenticato, quindi: Firenze arrivo!.
- Io non ho molto, giusto qualcosa del regalo della
promozione. Saranno sufficienti per qualche gelato,
mi dovete finanziare voi, poi ve li rendo, disse Giovanni.
Massimo rispose:
- A te ci penso io, ti ho detto che lavoro, mi pagano
ogni settimana e non li spendo mica tutti. E tu Nero,
cosa puoi mettere?
- Io lavoro, ho qualche lira da parte, vediamo quello
che ci costa e dividiamo le spese, anche quelle di chi
non può. Poi però facciamo un patto: non mi chiamate
più Nero, il mio nome è Marco, siamo d'accordo?
Mentre erano lì che facevano i calcoli dei soldi necessari
una macchina irruppe nella piazza, era la spider
di Carlo. Come al solito faceva il giro completo, stridendo
con le gomme, per poi frenare davanti alle scale,
dove era il gruppo impegnato a pianificare il viaggio.
Lì guardò con il suo unico occhio abbozzando un
sorriso, poi disse:
- Che state facendo, la raccolta per i poveri? Uno eccolo
qui!.
Massimo, sorpreso dall'improvvisa apparizione del
cugino, esclamò:
- Non dovevi uscire la settimana prossima? Che fai
qui?
- Al giudice ho fatto pena e ha firmato il foglio di scarcerazione,
con quattro giorni di anticipo.
- Noi ci stiamo organizzando per andare a Firenze con
il treno.
- Con il treno? Potremmo andare con la macchina, ma tutti
non c'entriamo, poi tu con quella gamba dritta
occuperesti due posti!.
- Devo ridere? - chiese alterato Massimo al cugino.
- Dai, cugino, lo sai che scherzo.
- Scherza con i tuoi problemi, che ne hai da vendere! -
ribatté Massimo.
Carlo scese dall'auto chiedendogli scusa poi gli disse:
- Però un'idea ce l'avrei.
Raccontò che un suo amico aveva un pulmino attrezzato
per viverci, forse se gli avesse proposto uno scambio
con la sua auto, avrebbe accettato e così sarebbero
stati comodi per il viaggio. Poi disse:
- Sono anch'io della partita, vi va?
I ragazzi si consultarono per qualche minuto, poi insieme
decisero che così sembrava più facile:
- D'accordo noi mettiamo i soldi del carburante. Quando
partiamo?
- Calma, dobbiamo vedere prima se è d'accordo il mio
amico Fernando, andiamo a chiederglielo.
Fernando dopo una serrata trattativa con il gruppo accettò,
a patto di dormire a casa di Carlo fino al loro ritorno,
e l'affare andò in porto. All'interno del pulmino
si trovavano due divanetti, un tavolino, un piccolo lavabo
e all'interno del sedile di legno, il water. I ragazzi
ridevano eccitati per la fortuna capitatagli. Il Nero e
Giovanni non la smettevano di provare i divani, il Pera
e Marina sistemavano quella che sarebbe stata la casa
dei ragazzi per almeno una giornata. Carlo, aperto il
cofano del motore, controllò che tutto fosse in ordine,
si mise al posto di guida aggiustandosi il sedile alla
sua altezza, girò la chiave e il motore iniziò a girare e
commentò:
- Non è un'Alfa Romeo, però è pur sempre una tedesca,
tutto a posto domani si partirà. L'appuntamento era per
la mattina seguente: ore sei davanti alla chiesa.
Marina quella sera disse alla madre
che il giorno dopo sarebbe andata con Giovanni
e gli altri a fare un picnic, di non preoccuparsi se fosse
tornata un po' più tardi. Iniziò a preparare qualche
panino, aiutata dalla madre, qualche frutto e una
bottiglia di acqua, misero tutto per bene all'interno di
uno zainetto. La madre, per niente sicura, la seguiva
mentre lei era intenta nei preparativi per la gita:
- Dove andate di preciso? - chiese la signora Maria.
- Dai, mamma non ti preoccupare ora sono cresciuta,
posso badare a me stessa, poi sono con Giovanni, Antonio,
Marco e Massimo.
La ragazza aveva tralasciato volutamente di fare il
nome dell'altro elemento della comitiva, perché sicuramente
la madre non avrebbe approvato la presenza
di Carlo.
- Adesso chi sarebbe questo Massimo? Un nuovo amico?
- Un vecchio amico di Giovanni. Adesso vado a dormire,
mi devo alzare presto - tagliò corto Marina, baciando
la madre. Ognuno nella propria famiglia ebbe un
po' da fare a convincere i propri genitori, dopo molte
rassicurazioni che sarebbero stati attenti, ebbero l'autorizzazione
al "picnic".
 

Autostrada del sole
Di buon'ora i ragazzi si riunirono nel punto prestabilito,
attesero qualche minuto fino a che il pulmino
fece il suo ingresso nella piazza. Carlo come suo solito
andava troppo veloce, suo cugino Massimo non era
accanto a lui. Si fermò facendo loro cenno di salire, i
quattro aprirono lo sportello scorrevole, mentre salivano,
chiesero in coro: - Massimo dov'è?
- Guardate bene, è sui divani.
Il ragazzo era steso sul divanetto che dormiva alla
grande. Giovanni e Marina si accomodarono nell'altro
divano, il Nero e il Pera, davanti con Carlo, esordirono
con:
- Tutti in carrozza, pronti si parte per Firenze!
Massimo svegliato dall'allegro trambusto, disse:
- Devo andare al bagno.
Nell'abitacolo scese il silenzio, mentre tutti guardavano
il ragazzo e poi il sedile di legno, dove era il water.
- Non vorrai andare lì? - dissero il Nero e Giovanni.
- Certo, non la posso fare in strada, altrimenti perché
ci sarebbe una tazza lì sotto? Giratevi se a voi da fastidio.
Marina si girò e così tutti gli altri, ridacchiando dissero:
- Va piano Carlo, se no questo piscia dappertutto.
Dopo aver fatto i suoi bisogni, il ragazzo raccontò il
fatto di aver dormito nel pulmino per paura che qualcuno
lo rubasse e che non aveva avuto modo di lavarsi.
Qualcuno ridendo esclamò:
- Si sente!
- Spiritoso - rispose lui.
La giovane banda spensierata si diresse verso l'Autostrada
del Sole, con la quale in poco meno di quattro
ore sarebbero arrivati a Firenze. Una striscia nera
d'asfalto che si snodava attraversando l'Italia da nord
a sud, costeggiando campi coltivati, attraversando
fiumi, valicando gli Appennini. In alcuni tratti la ferrovia
correva al suo fianco, come una sfida all'ultimo
chilometro, e su di essa sfrecciava il più famoso treno
nazionale: il Settebello, vanto delle Ferrovie dello Stato,
su cui tutti avrebbero voluto viaggiare. Il paesaggio
lungo l'autostrada era rilassante, e nonostante
l'eccitazione del viaggio i ragazzi si addormentarono
uno dopo l'altro, gli unici a rimanere svegli furono
Carlo che guidava e Marina. Le località si susseguirono
una dopo l'altra lungo il tragitto: Orte, Orvieto,
Chiusi. Anche la ragazza crollò vinta
dalla stanchezza, quindi Carlo pensò di sostare per
qualche minuto in autogrill e fare il pieno di benzina.
Durante la sosta i ragazzi si svegliarono. La costruzione
attraversava l'autostrada come un ponte, al
piano rialzato si trovavano il ristorante e il bar, e dalle
vetrate si vedevano le auto sfrecciare nei due sensi, chi
andava a nord, chi a sud, passando sotto l'autogrill. Il
Pera e il Nero erano alla ricerca dei bagni, Marina con
Giovanni, rimasero affascinati dalla quantità dei prodotti
esposti sugli scaffali, cioccolate, biscotti, salumi,
dolci di ogni tipo. I due cugini erano alla pompa del
carburante a fare il pieno al pulmino. Fatto il pieno e
consumato un panino, Carlo chiamò i ragazzi per riprendere
il viaggio, loro arrivarono di corsa e, salendo
in fretta sul pulmino dissero a Carlo:
- Metti in moto e vai veloce!
Carlo chiese cosa fosse successo, il perché di tutta
quella fretta e loro:
- Poi ti spieghiamo adesso, vai via da qui!
Il Pera e il Nero avevano la maglia gonfia e Marina che
ripeteva:
- Non dovevate farlo, questo è un furto.
Carlo chiese:
- Che cosa avete combinato?
Massimo rispose per loro: - Questi cretini hanno rubato
dei salami sui banchi dell'autogrill.
- Qualcuno li ha visti? - chiese Carlo.
- Anche se non li hanno visti, non dovevano farlo! Disse
Marina arrabbiata.
Tra Giovanni, Marina e gli altri s'innescò un'accesa discussione
e quasi arrivarono alle mani. L'intervento di
Massimo fu decisivo, urlò di farla finita, che oramai
le cose stavano in quel modo e non si poteva tornare
indietro a riporre i salami al loro posto, quindi di
non pensarci più. Giovanni e Marina si misero da una
parte in silenzio e nel pulmino calò il gelo. I ragazzi
occuparono ognuno un angolo del pulmino, il Pera e
il Nero non riuscivano a fare a meno di bisbigliare tra
loro del furto. Proprio quando tutto sembrava tornato
alla normalità, un lampeggiante si accese dietro di
loro e una macchina della polizia stradale li affiancò
facendo cenno di accostare. Carlo accostò il pulmino,
due agenti scesero dall'auto mentre uno rimase al volante.
Uno si diresse verso Carlo, l'altro iniziò a girare
intorno al pulmino, lentamente, ispezionandolo con
cura in ogni parte della carrozzeria, poi tornò verso
quello rimasto nell'auto e gli bisbigliò qualcosa, girandosi
ogni tanto per verificare se quello che riferiva
fosse giusto, poi si soffermò con lo sguardo verso la
targa, ripetendo i numeri con voce più alta e chiara,
mentre l'altro li ripeteva alla radio. Intanto Carlo provò
a scendere dal pulmino mentre con un sorriso accattivante
chiese:
- Cosa succede comandante? Siamo in viaggio per Firenze,
ed è un po' tardi.
- Non sono comandante e rimanga al posto di guida,
non scenda, piuttosto favorisca patente e libretto.
Carlo si fece più serio e prese il libretto dal cassetto
del cruscotto e la patente, consegnandola al poliziotto. Gli
altri due, a quel punto aprirono lo sportello scorrevole
del pulmino e chiesero ai ragazzi di scendere uno per
volta con i documenti in mano e di mettersi lungo la
fiancata. Mentre uno dei due entrava nel furgone, l'altro
si rivolse a loro
- L'avete combinata grossa, ragazzi?
- Noi non abbiamo fatto niente di male, siamo in gita
verso Firenze - dissero in coro.
L'agente che era entrato nel pulmino ne scese con i salami,
esclamando:
- Questo è niente per voi?
- Porca miseria! - Esclamarono Antonio e Marco, gli
altri ammutolirono, di fronte all'evidenza dei trofei
sventolati sotto il loro naso dall'agente.
- Non è tutto - disse l'agente, mostrando una pistola
che teneva con un fazzoletto tra le dita. Anche Carlo
fu fatto scendere. L'agente gli aveva messo le manette
tenendolo con il viso rivolto al pulmino:
- Tu sei in regime di sorveglianza con l'obbligo di non
lasciare il luogo di residenza, che fai in viaggio con
cinque ragazzini, una pistola e dei salami rubati?
- Quelli non li ho presi io e la pistola non so da dove sia
sbucata fuori!. Forse è del proprietario del furgone.
- Dove si trova questo proprietario adesso?
- A casa mia.
Carlo spiegò com'erano andate le cose e dello scambio
dei mezzi con Fernando. Arrivarono altre due macchine
della polizia, i sei furono fatti salire due per auto,
un poliziotto si mise alla guida del pulmino e si avviarono
verso il posto di polizia. Furono sistemati nelle
celle dividendoli: il Nero, il Pera e Massimo in una
Marina e Giovanni in un'altra. Mentre Carlo era alle
prese con un poliziotto in borghese, che lo pressava con
domande riguardo alla pistola.
- Ispettore giuro della pistola non ne so proprio niente.
Per quanto riguarda i salami, è vero: hanno fatto una
stupidaggine, ma sono tutti dei bravi ragazzi, glielo
posso assicurare, ma anche di quelli non sapevo
niente, sennonché me li sono trovati nel furgone. Sarei
uscito al prossimo casello per riportarli dove li hanno
presi quando voi siete arrivati.
L'ispettore chiamò un agente e fece portare anche lui
in cella, poi disse: Chiamate Roma e fate andare una
volante a casa di Carlo, recuperate questo Fernando,
ci deve spiegare come sono andati i fatti e cosa più
importante la storia della pistola nel furgone, intanto
io chiamo il giudice per vedere cosa fare di questi disperati.
Nella tarda mattinata le volanti della polizia
circondarono la casa di Carlo. Fernando era nel letto
che dormiva, i poliziotti fecero irruzione prelevandolo
senza tante cerimonie. Lui ancora intontito dal sonno
chiese:
- Cosa succede? Che cosa ho fatto?
Quello che sembrava essere il più alto in grado parlò
dicendo:
- Signorino ci deve spiegare alcune cose riguardo a
una pistola.
- Ispettore se è della pistola Berretta 7,65 che parlate,
quella è la mia, è qualche giorno che la cerco senza
riuscire a trovarla. Avevo pensato di averla persa, ho
cercato in ogni borsa e non trovandola, l'ultima speranza
era che fosse in qualche posto nel furgone che
ho prestato a Carlo, il padrone di casa. Sa abbiamo
fatto un cambio, lui doveva andare a Firenze con degli
amici, mi ha dato la sua macchina e il posto per dormire
fino che non fosse tornato.
- Va bene, però devi venire al commissariato per una
deposizione e farci vedere i documenti dell'arma, poi
hai dato il mezzo a Carlo che è in regime di sorveglianza.
- Io non lo sapevo che lo fosse.
- Comunque questo ti rende complice di Carlo, deciderà
il giudice cosa fare, adesso vestiti e vieni con noi!.
Al commissariato i fatti si chiarirono e per Fernando
le cose si misero bene, a parte il furgone trattenuto
sotto sequestro per il furto all'autogrill e la pistola sequestrata
anch'essa. Lui lasciò il commissariato libero,
maledicendo il giorno che si era fatto convincere
da quella banda di imbecilli. Intanto i ragazzi e Carlo
erano in cella che aspettavano le decisioni del giudice,
Marina e Giovanni erano lì che non si davano pace per
quello che era capitato. Doveva essere una giornata
fantastica e spensierata, ma per colpa di quei due stupidi
erano dentro una cella, accusati di furto. Il Pera
e il Nero, vista la situazione decisero di confessare il
furto scagionando gli altri da ogni responsabilità. Carlo,
dopo qualche ora fu trasferito al carcere, accusato
d'evasione agli obblighi della sorveglianza speciale.
Massimo fu trattenuto perché anche lui sembrò che
avesse qualche guaio con la giustizia e, poiché era un
minore, il giudice lo consegnò all'assistenza sociale. Ai
quattro rimasti, mentre attendevano che i genitori li
venissero a prendere, i poliziotti portarono dell'acqua
e un panino a testa e si fermarono a scherzare con loro,
alleggerendo così il pesante clima che si era creato, poi
una voce conosciuta si sentì provenire dall'altra parte
della stanza. Giovanni riconobbe la voce dell'ispettore
Bruno Baldi.
- Dove sono i ragazzi?
- Sono nell'altra stanza - rispose il poliziotto, poi aggiunse
- Sono io che ti ho chiamato, mi è sembrato opportuno,
la ragazza si chiama Marina C., credo che
sia la ragazza del fattaccio dell'argine, quello di cui ti
sei occupato quando eri in polizia.
- Sono passati cinque anni da allora. C'è anche il suo
amico Giovanni?
- Sì, con loro ci sono anche gli altri, Antonio e Marco,
che ti aiutarono a prendere l'aggressore.
- Dai, fammeli vedere questi benedetti ragazzi.
Alla vista dell'ispettore, i quattro rimasero in silenzio
per qualche secondo, poi Giovanni si avvicinò al Baldi
e allungò la mano per salutarlo, lui rimase per un
poco fermo sulla porta, poi fece un passo allargando
le braccia e disse:
- Giovanni, Giovanni, che mi combini, ci dovevamo
vedere al concerto, invece ci ritroviamo nel commissariato!
Così dicendo lo abbracciò, poi si rivolse a Marina:
- Tu non riesci proprio a stare fuori dai guai!
Lei piangendo abbracciò l'ispettore
- Sono proprio felice di vederti Baldi, sei venuto a portarci
a casa?
- Adesso vedo se posso accompagnarvi io, devo chiamare
i vostri genitori e il giudice per sentire se posso
farlo.
Si rivolse poi al Nero e al Pera:
- E voi due? Spero che sia sufficiente qualche ora in
cella, per pensare alla stupidaggine che avete fatto!
I ragazzi fecero segno di sì a testa bassa, non avevano
il coraggio di Baldi negli occhi. Lui si avvicinò ai due
dicendo:
- Per questa volta è andata bene, il giudice ha capito
che si è trattata di una ragazzata, ma la prossima volta
per voi potrebbe non andare così.
Chiamati i genitori, sentito il giudice, l'ispettore fece salire
i ragazzi in macchina e si avviò verso il loro paese.
In auto i quattro non avevano molta voglia di parlare.
Una notte e un giorno al commissariato avevano
svuotato i ragazzi di ogni energia.
- Allora raccontatemi com'è andata - chiese l'ex ispettore.
Nessuno rispose, si girò per guardare ma i quattro
dormivano e così fecero per tutto il viaggio. Erano le
cinque di mattina quando arrivarono a destinazione.
Baldi fece la prima sosta a casa del Nero, lo scosse,
dicendogli che era arrivato, anche il Pera scese, poiché
abitavano nello stesso edificio. Mentre scendevano
Baldi disse loro:
- Cercate di rigare dritto. Rimanete lontano dai guai!
- Ispettore grazie di tutto, speriamo di vederci in un'altra
occasione, migliore di questa.
Arrivati a casa di Marina, c'erano il padre e la madre
ad attenderli. La signora Maria si mise a ringraziare
l'ispettore, poi rivolgendosi alla ragazza:
- Un picnic, mi avevi detto! Adesso fila in casa che
dopo ne parliamo per bene di questa gita.
Baldi spiegò alla signora com'erano andati i fatti, chiarendo
l'innocenza di Marina e di Giovanni, mentre il
padre non smetteva di dondolare il capo bisbigliando
parole incomprensibili in dialetto. Arrivato il momento
di salutare, Giovanni disse a Marina
- Ciao, a domani.
La signora Maria, lo guardò come se lo volesse fulminare
con gli occhi e prendendo la ragazza per un braccio
la portò in casa. Durante il tragitto Giovanni aveva
solo un pensiero, Massimo che fine avrebbe fatto?
- Ispettore, dove l'hanno portato?
- Non sono più ispettore, ora sono un musicista a tempo
pieno. - D'accordo non sei più ispettore, ma hai ancora tante
amicizie nella polizia, le cose le sai.
- Il tuo amico non è proprio un bravo ragazzo, ha avuto
molti guai.
- Adesso dov'è, me lo puoi dire? L'hanno incarcerato?
- No perché l'assistenza sociale si occupa di lui e se
non fosse abbastanza devo dirti che fa uso d'eroina.
- Si droga! - esclamò sorpreso Giovanni.
Il ragazzo era restato senza parole: Massimo, il suo
amico dai lunghi capelli biondi, il compagno della sua
prima avventura fuori di casa era un drogato …
Arrivati davanti a casa il sole era alto, il caldo estivo
si faceva sentire e la nonna invitò Baldi a prendere un
caffè. Lui accettò volentieri, parlarono dei fatti accaduti,
tranquillizzandola sulla buona fede del ragazzo.
Nel salutare Giovanni, si fece promettere che sarebbe
venuto al suo primo concerto insieme a Marina.
L'ispettore andò via che erano oramai le dieci e trenta,
l'auto diventava sempre più piccola, percorrendo la
stretta via che portava alla piazza della chiesa. Fu l'ultima
volta che Giovanni vide l'ispettore Bruno Baldi.
Ne sentì parlare in seguito perché divenne un musicista
famoso, suonando in molti teatri in giro per il
mondo.

Nel pomeriggio dello stesso giorno Giovanni si recò a
casa di Marina; la madre si era calmata e lo fece entrare,
lei era in giardino sul dondolo. Da qualche tempo non
la vedeva più solo come un'amica … ogni volta che la
vedeva capiva che c'era qualcosa di più dell'amicizia,
che pure era importante per i due. Marina con voce
squillante lo distolse dai suoi pensieri.
- Ehi! Giovanni … ti sei fissato, che pensi? - Pensavo a
tutto quello che è successo in questi due
giorni - poi gli raccontò dei problemi di Massimo della
malattia. Dopo qualche attimo di silenzio Giovanni
disse:
- Dai adesso non ci pensare, andiamo al mare.
I due rimasero sulla spiaggia fino a tardi, non avevano
nessuna voglia di tornare a casa. Quando scese la notte
le stelle guarnivano il cielo estivo, mentre lentamente
le onde si frangevano regolando il respiro del mare.
La loro anima voleva essere rapita, per ballare danze
antiche, in atmosfere magiche ed essenze arboree. La
musica teneva il ritmo dell'universo, mentre la luna
lo illuminava e le stelle catturavano le note. Le parole
si trasformarono in fiori di glicine, in cerca delle note
fuggite. Ogni cosa aveva un luogo dedicato, nell'ordine
sparso dell'esistenza. Un suono brontolava invidioso
dell'armonia diffusa, una barriera di anime e stelle
lo respingeva a distanza. Sbocciando le rose diffondevano
l'amore, due giovani fiori si tenevano stretti
in riva al mare. La loro anima danzava una musica
antica, un'atmosfera magica che faceva battere forte il
cuore.
Appoggiati spalla a spalla girarono il viso fino a incontrarsi
con lo sguardo, per qualche secondo, poi le
bocche si avvicinarono così tanto che le labbra non
poterono fare a meno di sfiorarsi. Il cuore sembrava
volesse uscire dal petto e fuggire via, il respiro si fece
più veloce, il corpo tremava, finalmente si baciarono
e il mondo intorno a loro si dissolse con una sensazione
di leggerezza mai conosciuta. Restarono storditi
da quello che stava accadendo, si abbracciarono e
baciarono, fecero per la prima volta l'amore, ridendo,
piangendo, giurarono di non perdersi mai qualsiasi cosa
fosse successa. Quella notte Giovanni non dormì,
pensando di averla sempre amata.


L'isola delle fragole
Erano passati due giorni dai fatti della gita e al bar,
in orario insolitamente mattiniero, c'erano il Pera e il
Nero.
- Che cosa fate qui così presto?
- Siamo venuti a salutarvi, partiamo
- Per dove? Andate in vacanza?
- Vacanza lavoro! - esclamò il Pera - I nostri genitori
ci mandano in un'isola della Danimarca a raccogliere
fragole.
Il Nero disse: - Con la scusa che andiamo a imparare
la lingua, ci vogliono castigare per le cazzate che abbiamo
combinato.
Mentre erano lì che parlavano delle fragole danesi,
dall'altra parte della piazza videro arrivare Marina. A
Giovanni, di colpo, le parole dei due non interessavano
più, le sentiva lontane, come un brusio, nella testa
aveva solo quello che era successo la sera prima con
lei. Marina arrivò nel mezzo delle lamentele dei due
futuri raccoglitori, ascoltò le cose che dicevano e non
poté fare a meno di commentare:
- Certo che ve lo siete cercato, ma farete una bella esperienza!.
- Io un lavoro l'ho anche qui, perché devo andare in
Danimarca? - disse il Nero.
E l'altro oramai rassegnato rispose:
- Chi se ne frega, tanto sarà solo per tre settimane, alla
fine di Agosto saremo di nuovo a casa.
Giovanni non diceva una parola, aveva occhi e orecchie
solo per la ragazza, tanto che i due ragazzi a certo
punto smisero la discussione, incuriositi7 dall'improvviso
silenzio, e guardarono prima Giovanni poi Marina, domandando:
- Vi siete messi insieme voi due?
I due ragazzi non risposero, quel silenzio era più eloquente
di un sì.
- Andiamo bene, qui si parla della nostra deportazione
e questi due vivono in altra dimensione!.
Dal canto suo il Nero, proseguì:
- Andiamocene, tanto loro non hanno molto interesse
per i nostri problemi.
Marina li fermò, chiedendo loro di rimanere, ma i due
la salutarono:
- Ci vediamo alla fine del mese.
Marina insistette fino a che i due rimasero seduti.
- Andiamo al mare - propose.
Si avviarono verso la spiaggia tutti e quattro senza
dire una parola, la giornata passò senza parlare delle
fragole danesi. Arrivato il momento dei saluti Giovanni
chiese ai due:
- Io ho sentito parlare della raccolta delle fragole
all'estero, però sapevo pure che bisogna essere maggiorenni
per andare, voi due non lo siete, come fate ad
andare?
- I nostri genitori, hanno fatto una dichiarazione scritta,
motivandola che si tratta di una vacanza studio e lavoro,
per migliorare la conoscenza della lingua, il
tutto si svolgerà sotto la loro completa responsabilità
e così la fregatura è servita.
Fu così che i due andarono a raccogliere fragole in Danimarca.
Marina e Giovanni si vedevano ormai tutti i giorni vivendo
il periodo più intenso della loro esistenza. Nelle
lunghe passeggiate al fiume di quella calda estate sfogliavano
il libro dei sogni, pianificando viaggi in tutto
il mondo, un poco invidiando il Nero e il Pera e le
fragole della Danimarca. Quando erano vicini al luogo
dell'aggressione, smettevano di parlare superandolo
in fretta, sembrava come se non fossero passati tre
anni da quel giorno terribile. Giovanni, esorcizzando
quel momento per spazzare dalla mente i brutti ricordi,
parlando veloce disse:
- Finita la scuola, andremo a Londra e poi a Parigi.
- Io vorrei visitare l'India.
- Ci sposeremo? - chiese Giovanni.
- No, è meglio andare a vivere insieme, a che serve
sposarsi se due si amano, non è che con il matrimonio
si amano di più.
- Avremo dei figli bisognerà dargli un cognome - ribatté
Giovanni.
Poi all'improvviso un rumore accompagnato da un
verso stridulo spaventò i due, un fagiano passò tra le
loro gambe fuggendo sullo stradino di terra battuta
dell'argine. Senza pensarci molto iniziò l'inseguimento.
Marina gridava: "Prendiamolo!" ma il pennuto
correva velocissimo, facendo la serpentina, scartando
all'improvviso a destra, poi a sinistra, facendo piccoli
voli di qualche metro ei due ragazzi, dopo aver corso
per qualche minuto senza raggiungerlo, desisterono,
buttandosi a terra, ridendo, e sdraiati a guardare il cielo,
si presero le mani facendo placare il respiro:
- Verrò in India con te, in Australia, ovunque vorrai
andare, io verrò con te, ti amerò, anche se non mi sposerai
- E io verrò a Londra e a Parigi.
Poi si abbracciarono, si baciarono, rimasero lì fino a
sera, mentre il silenzio era rotto dal ritmo dei motori
delle barche che passavano sul fiume, dal rumore delle
frese nei campi che iniziavano il lavoro che avrebbero
svolto durante la notte, evitando la calura del giorno.
Qualche colonna di fumo si alzava dalle sterpaglie
incendiate dai contadini, all'orizzonte il sole calava
lentamente nel mare, dietro le case della foce. Seduti,
guardavano rapiti dall'armonia della natura. Quel
momento non lo dimenticarono mai.
Il Pera e il Nero ritornarono dalla Danimarca, oramai
era la fine di Settembre, le vacanze erano quasi al termine,
i due non si vedevano spesso dalle parti della
piazza e non frequentavano più la chiesa. La libreria
del quartiere era il luogo dove si ritrovavano gli studenti
dopo le vacanze estive, per cercare i nuovi libri
di testo o fare cambio con quelli dell'anno precedente.
Un mercatino in piena regola, i libri a volte contenevano
più del testo originale, ma erano un anno di appunti
di amori nati e infranti sui banchi di scuola. Confusi
nella folla di studenti c'erano il Pera e il Nero. Marina
li chiamò ma i due sembravano non sentire, allora lei
si avvicinò a fatica facendosi largo a forza.
- Ehi! Siete diventati sordi? Quando siete tornati?
- Ciao, siamo tornati da una settimana.
La sua voce era diversa da quando era partito, era più
bassa e lui era serio, distaccato come se si conoscessero
a malapena, poi lui si girò e andò via con l'altro
salutando con la mano disse:
- Ciao ci si vede.
- A questi le fragole hanno fatto male, sono diversi -
disse Marina rivolgendosi a Giovanni.
- Dai vieni, magari erano impegnati, avevano da fare …
cerchiamo i libri, non ci pensare.
Usciti dalla libreria videro i due che parlavano con un
uomo sulla trentina, appoggiato al cofano di un'auto
di lusso e annuiva con il capo alle parole dei due ragazzi,
poi li fissò con il viso serio di chi non ammette
replica, disse qualcosa, fece il giro dell'auto, salì e partì
quasi investendo il Pera che tentava di fermarlo. I due
rimasero per un poco in mezzo alla strada, poi se ne
andarono scuotendo la testa, preoccupati. Giovanni li
chiamò rincorrendoli
- Che vi succede? Siete nei guai? Chi era quell'uomo?
Il Nero rispose brusco:
- Fatevi gli affari vostri che è meglio!
Andò via senza dare nessuna spiegazione, chiamando
il Pera e dicendogli di sbrigarsi. Marina e Giovanni
si guardarono, pensando che doveva esserci qualcosa
di serio sotto; ne parlarono mentre andavano verso
casa, ma non riuscirono a farsi un'idea di cosa potesse
essere successo ai due. D'altronde erano stati in Danimarca
a lavorare, cosa potevano aver combinato lassù.
Il mattino seguente suonarono al campanello di Antonio
e, dopo molti tentativi, si sentì la voce del ragazzo
piuttosto alterata rispondere:
- Chi è?.
Marina perplessa dal tono, fece una pausa prima di
parlare
- Marina, sono con Giovanni e ti vogliamo parlare.
Il citofono rimase muto, lei provò di nuovo più volte,
senza ottenere nessuna risposta. Giovanni e Marina rimasero
seduti sugli scalini del portone e attesero per
ore. Oramai era mezzogiorno quando finalmente Antonio
e Marco uscirono dal portone.
- Siete ancora qui?
- Sì e non ce ne andremo fino a che non ci spiegate
cosa succede - Ribatté Marina.
- Cosa c'è da spiegare?
Il dialogo s'interruppe, alcuni passanti incuriositi dal
battibecco li guardavano. Passati i curiosi, Giovanni
chiese:
- Chi era quell'uomo davanti alla libreria?
Fermando Marco che voleva andare via, proseguì alterato:
- Perché i nostri due migliori amici ci evitano?
I due volendo troncare il discorso, fecero per andare
via scendendo i quattro scalini che li dividevano dalla
strada.
- Lasciate stare, non sono cose per voi, non v'immischiate!
- Siete partiti che eravate nostri amici ora quasi non ci
conoscete, almeno dateci una spiegazione.
Allora i due, come se volessero liberarsi da un peso,
si sedettero, poi sospirarono e, dopo una pausa che
sembrò durare un'eternità, raccontarono cosa era successo
in Danimarca. Dissero che all'arrivo sull'isola
tutto sembrava, andare piuttosto bene, il lavoro era
semplice, tante fragole raccoglievano, tanto li pagavano,
i ragazzi impegnati nella raccolta avevano tutti più
o meno la loro età, e la sera si riunivamo al campeggio,
dove li avevano sistemati insieme con altri provenienti
da tutta Europa. Le ragazze erano piuttosto socievoli
e tutte le sere uscivano a far baldoria insieme.
Ogni tanto Antonio si interrompeva, controllando che
non arrivasse qualcuno, poi si accendeva una sigaretta
aspirandone alcune boccate, riprendendo quando era
sicuro che nessun altro potesse ascoltare. Raccontarono
quanta birra girasse e che molti ragazzi fumavano
spinelli e a parte qualche piccola discussione tra ragazzi,
di come tutto filasse liscio. Poi Marco ci tenne a
precisare:
- La sera si faceva festa, ma il giorno si lavorava.
La loro integrazione andò a meraviglia con gli altri,
comprese birra e canne, così per molti giorni erano andati
avanti tra sbornie, sballi e raccolta delle fragole.
Marina e Giovanni, ascoltando il racconto, iniziarono
a comprendere il cambiamento avvenuto nei loro amici
in così poco tempo. E non era finito lì il racconto, poi
dissero di come fu che cambiarono le cose. Un giorno,
avevano appena terminato di lavorare e mentre erano
intenti a fare la doccia, vennero da loro due ragazzi,
Hans e Borg, quelli che li rifornivano d'erba. Gli dissero
che avevano finito il contratto della raccolta e dovevano
rientrare a casa per gli esami di riparazione … I due
proposero loro di sostituirli nello spaccio d'erba,
dissero di come il guadagno fosse il triplo della raccolta
delle fragole e se fossero stati d'accordo, li avrebbero
presentati alla persona giusta e loro senza pensarci
neanche troppo, accettarono la proposta. Il giorno seguente
non andarono nei campi, per poter incontrare
il fornitore d'erba. Giovanni ascoltò incredulo la storia
dei due, ogni tanto si alzava esclamando:
- Non ci posso credere alle stronzate che avete combinato
in quell'isola del cavolo!
 

Spacciatori
- Non è finita … mettiti seduto e stai zitto! - disse Marco
e riprese il racconto di come i due spacciatori li avessero
accompagnati al porto di Ballen, dove arrivava
il traghetto proveniente da Kalundborg. Dopo aver
preso una birra, attesero che arrivasse il tipo. Quando
arrivò il traghetto, tra le persone che scendevano, un
uomo vestito elegantemente con una borsa capiente si
guardò intorno, poi, incrociando il loro sguardo si avvicinò
sorridendo. Hans e Borg gli andarono incontro,
parlottarono per qualche secondo, girando ogni tanto
la testa verso loro, il tipo annuiva, poi i tre si avvicinarono.
Il nuovo arrivato chiese, in italiano, se erano
pronti a sostituire Hans e Borg. Li informò delle regole
da seguire, che erano poche e chiare, lui avrebbe
portato loro la merce ogni Martedì alle undici di mattina,
e loro gli avrebbero consegnato l'incasso, meno il
dieci per cento del ricavato che era il loro guadagno.
Mentre erano lì che parlavano passò Padre Vittorio,
chiese che cosa stessero facendo, aggiungendo alla
domanda un termine piuttosto colorito: stravaccati
sugli scalini?. I quattro gli dissero ridendo:
- Padre, si è bevuto tutto il vino delle funzioni?
Lui s'irrigidì e alzò la mano ammonendoli:
- Venite in parrocchia che c'è molto lavoro, invece di
non fare niente tutto il giorno!.
Antonio e Marco ripresero il racconto, dissero che
l'uomo li aveva portati in un appartamento al primo
piano di un edificio vicino al porto e, aperta la borsa,
aveva frugato tra camicie e calzini, tirando fuori un
pacchetto grande come una scatola di biscotti. S'intravedeva
la merce compatta e pressata. La prima impressione
fu che pesasse più di quello che sembrava.
L'uomo continuò a frugare dentro la borsa, prese una
bilancina, la sistemò sul tavolo, prese un coltellino e
un altro pacchetto più piccolo, ne tolse un poco d'erba
mettendola su un piatto della bilancia, e sull'altro mise
un piccolo peso, poi si rivolse a loro dicendo:
- Quando i piatti sono in linea, il peso del pezzo è un
grammo.
Tirò fuori altri pesi da due grammi e poi da tre, fino a
dieci. Marina, alzandosi in piedi, sbottò:
- Ma allora siete più stupidi di quanto pensassi! Non ci
posso credere che avete combinato tutto questo!
Giovanni le prese la mano facendola sedere. I due amici
continuarono il racconto, dopo che la ragazza si era
calmata. L'uomo andò via e loro quattro iniziarono a
dividere le dosi sul tavolo, in pezzi da un grammo e da tre,
ne fecero almeno un centinaio poi, avvolta la
droga dentro una busta, la chiusero con nastro adesivo
per renderla stagna, la misero dentro lo zaino e
tornarono al campeggio.
Hans e Borg lasciate le consegne, partirono il giorno
dopo. I due ragazzi dissero di come avevano messo la
merce sotto la roulotte legandola con dello spago; fu
da quel giorno che andarono poco a lavorare, giusto
il tempo per coprire alcune ore e non dare nell'occhio,
prendendo le ordinazioni della merce. La sera i due la
consegnavano, sia in giro per il campeggio, che direttamente
alla roulotte. Antonio si alzò e chiese:
- Andiamo al bar? Ci prendiamo un caffè?
Arrivati al bar si sedettero all'esterno, nel tavolo più
appartato. Da quella posizione si poteva vedere sia
la strada proveniente dal mare, che tutta la piazza, e
facendo attenzione alle persone che passavano Antonio
continuò a raccontare. Il commercio andava bene,
il martedì successivo all'appuntamento con l'uomo,
avevano consegnato i primi incassi. Pur non avendo
finito tutta la merce, lui consegnò loro un altro pacchetto,
dicendo:
- Questa settimana andrà meglio. Ci vediamo martedì.
Poi fatta la stessa operazione della settimana precedente
i due amici tornarono al campeggio. Nascosta
la droga e bevuta una birra, si erano fumati uno spinello
e ben presto si erano addormentati. Dovevano
aver dormito molto, perché furono svegliati dal trambusto
e dalle grida, aperta la porta della roulotte videro
gente che correva verso ogni parte. Nonostante
fosse già notte, il campeggio era illuminato a giorno.
Era scoppiato un incendio e il fuoco aveva raggiunto
anche la loro roulotte. Il primo pensiero fu per la droga
nascosta, usciti all'aperto s'infilarono sotto la roulotte per
prendere la merce, allungando le mani al buio ma,
con loro grande sorpresa, non c'era più. Nonostante
l'intervento dei pompieri, il campeggio andò quasi
tutto distrutto. Molti ragazzi avevano perso tutti i soldi
guadagnati con la raccolta delle fragole, loro due
avevano perso anche la merce che non era loro!. Nelle
indagini che seguirono la polizia stabilì che l'incendio
era di origini dolose, che fosse iniziato vicino alla roulotte
dei due amici, ma della droga nessuna parola.
Furono interrogati per ore e infine furono ritenuti responsabili
dell'incendio e furono espulsi, nonostante
non vi fossero prove certe del loro coinvolgimento nel
disastro.
- Beh, il resto lo sapete, lo avete visto quello davanti
alla libreria? Quello è l'uomo che ci forniva la droga
in Danimarca … vuole i soldi della merce andata persa
nell'incendio. Ha detto che la dovevamo lasciare
nell'appartamento al sicuro, avendola spostata la
responsabilità della perdita è nostra.
Antonio fece una lunga pausa, poi evitando gli sguardi
degli altri due si accese una sigaretta accasciato sulla
sedia con la testa all'indietro e mormorò a mezza
voce:
- Ci ha minacciato, vuole che spacciamo fino all'estinzione
del debito, in alternativa ai soldi che gli dobbiamo.
Giovanni si alzò agitato: - E voi che intenzioni avete?
- Non lo sappiamo, la cosa più semplice è quella di
spacciare per lui.
- Così non ve ne libererete mai! - Disse Marina.
- Che cosa proponi tu?
- Andate alla polizia, raccontate come si sono svolti i fatti,
ci penseranno loro.
- Questo vuol dire essere accusati di spaccio internazionale,
visto quello che abbiamo fatto in Danimarca!
- Disse Antonio.
Il bar ora si era riempito e i tavoli erano occupati dalla
gente che faceva la pausa per il pranzo, per lo più muratori,
carpentieri e ragazzini completamente ricoperti
di schizzi di calce, che mangiavano panini appena
scartati da fogli di vecchi giornali. La situazione era
complicata, troppa gente estranea, i ragazzi rimasero
in silenzio per paura che qualcuno ascoltasse il loro
discorso, fino a che Giovanni disse:
- Adesso andiamo a casa questa sera ci ritroviamo qui
e ne parliamo con calma, cerchiamo una soluzione che
possa andare bene a tutti.
- Va bene ci troviamo qui alle nove, - disse Marina.
I quattro si lasciano in silenzio, andando ognuno verso
la propria casa.


L'ultimo viaggio di Massimo
Quella sera i ragazzi si trovarono nel luogo dell'appuntamento.
Il bar era pieno di gente che discuteva
di calcio. Il giorno dopo si giocava la prima di campionato,
avrebbero potuto anche urlare, ma nessuno li
avrebbe sentiti in mezzo a quella confusione. Qualcuno
li salutò, altri li ignorarono presi dalla compilazione
della schedina. Anche padre Vittorio tentava la fortuna,
adducendo che i soldi avrebbero fatto comodo
alla parrocchia. Era con il padre di Marina, discuteva
sui pareggi e le vittorie dell'anno prima, delle squadre
che si erano rinforzate e quelle che erano retrocesse,
fino all'atto finale: la giocata. Da quel momento si sentivano
milionari fino alla sera della domenica, quando
le previsioni espresse erano azzerate dai risultati delle partite.
Il padre di Marina si avvicinò al tavolo dei ragazzi:
- Allora, vi state preparando per il nuovo anno scolastico?
E voi due? Dove andate, succede sempre qualche
guaio. Poi rivolgendosi alla figlia: - torna presto a
casa, tua madre si preoccupa, lo sai.
- Si papà, torno presto, sta tranquillo - rispose lei, col
tono di chi quella scena l'ha vissuta almeno un milione
di volte.
Videro arrivare la madre di Carlo. Si avvicinò a padre
Vittorio, iniziarono a parlare fitto, mentre il prete di
tanto in tanto dava dei colpetti sulle spalle della donna.
Lei s'interrompeva portandosi le mani al viso poi
lui, rivolgendosi al proprietario del bar, chiese se poteva
accompagnarlo con la signora in città. Giovanni
si avvicinò ai due e chiese:
- Che cosa succede signora? È successo qualcosa a
Carlo?
- No, Carlo sta bene, è Massimo che è grave, è ricoverato
in ospedale, mi hanno chiamato … sembra che
non passerà la notte!
Poi la donna portandosi le mani al viso:
- Maledetta droga, maledetti porci spacciatori!
I quattro ragazzi, sentendo queste parole, si guardarono
per un attimo, considerando quelle parole come
rivolte anche a loro. Mario, (il proprietario del bar) invitò
il prete e la donna a salire in auto; i ragazzi avrebbero
voluto andare con loro ma Mario disse che erano
in troppi:
- Ne posso portare solo altri due, non vorrei prendermi
una multa!
Dopo una rapida consultazione decisero che sarebbero
andati Giovanni e Antonio.
- Svelti! Salite si fa tardi - sollecitò Mario.
Il percorso dal bar all'ospedale sembrò interminabile,
il silenzio era interrotto dai sospiri della madre di Carlo,
seguiti dalle parole di conforto del prete. La struttura
dell'ospedale era inquietante, si intravedeva tra le
fioche luci dei lampioni. All'ingresso l'addetto indicò
il padiglione delle malattie infettive. Arrivarono al reparto
e fu detto loro che potevano entrare solo la zia
di Massimo e Padre Vittorio. I ragazzi e Mario restarono
in attesa nel corridoio, seduti sulle panche. Non
passò molto tempo che la porta si aprì, ne uscì il prete
scuro in volto comunicando la notizia della morte di
Massimo.
- Ora Massimo non soffre più, non ce l'ha fatta. Dopo
una lunga pausa sospirando disse: la zia è disperata e
sconvolta da questa perdita, il medico ha dovuto darle
un calmante.
Giovanni e Antonio rimasero seduti, increduli, soffocati
da una sensazione d'impotenza, troppo giovani
perché mettessero in conto anche la morte nelle questioni
della vita. Per la prima volta uno di loro non andava
via per la vacanza, ma perché era la morte a portarlo
altrove. Le lacrime iniziarono a scorrere scaricando
la tensione accumulata. Nel ritorno a casa l'unico che
parlava era Padre Vittorio, la zia di Massimo intontita
dai calmanti teneva la testa reclinata sul vetro dell'auto,
ogni tanto prendeva un gran respiro lo tratteneva,
poi lo rilasciava rumorosamente quasi sbuffasse. Antonio
e Giovanni seduti nei sedili posteriori rimasero
in silenzio, intercettavano a tratti le parole del prete,
quando soprattutto cambiava il tono della voce, molte
di quelle parole ai due sembrarono inutili e ridondanti.
Massimo era morto, ogni altra cosa non contava per
i due.
Il giorno del funerale non c'era molta gente, la chiesa
era quasi vuota, la zia era in prima fila, accanto a lei
c'era Carlo (il cugino di Massimo)tra due carabinieri,
aveva ottenuto un permesso dal giudice per il funerale.
Poi le altre panche erano occupate da donne anziane,
assidue frequentatrici della parrocchia.
I quattro ragazzi si erano sistemati sul lato opposto a
quello occupato dalla zia e da Carlo, il prete officiava
la funzione in modo semplice.
Al momento dell'omelia, mentre ricordava la breve
vita di Massimo, Giovanni disse agli altri:
- non lo conosceva, queste cose gliele avrà raccontate
la zia.
Poi iniziò a parlare dei rischi della droga, delle malattie
legate a essa, del fatto che la parrocchia si era svuotata,
dei giovani che preferivano il bar e il muretto come
luogo d'incontro. Poi attaccò sulle famiglie disgregate,
come quelle di Massimo e non la finiva più, fissando a
turno la zia, poi i ragazzi, in entrambi i casi indicando
prima l'una, poi gli altri, ammonendoli minaccioso.
L'odore dell'incenso si diffuse nella chiesa, piccole colonne
di fumo salivano verso la volta portando con
loro l'anima di Massimo, che si preparava all'incontro
con Dio, mentre il suo corpo sarebbe rimasto con loro,
sepolto nel cimitero del paese. Dopo il funerale Carlo
ritornò in carcere senza poter salutare nessuno dei
ragazzi, non gli era permesso avvicinare nessuno che
non fosse un parente, l'unico era la madre. I genitori di
Massimo non erano presenti, loro lo avevano lasciato
alla zia quando aveva quattro anni, non li aveva visti
più nessuno da quel giorno. Da allora lui aveva passato
la maggior parte della sua vita in istituti di correzione,
salvo qualche periodo di permesso nella sua casa,
poi la droga e la malattia. Ora era tutto finito, senza
aver potuto visitare Firenze. Giovanni venne a sapere
di tutte quelle storie che riguardavano il ragazzo solo allora.
Pensò alle bugie che gli aveva raccontato:
l'officina, il laboratorio di elettronica, i genitori che lo
portavano al bar per vedere Firenze alluvionata, forse
anche la storia del vecchio che gli aveva raccontato tra
le dune era una bugia.
Giovanni leale come deve essere un amico, pensò:
- erano sogni, speranze, non bugie.


Infiltrati
Ogni cosa era passata in secondo piano dalla morte di
Massimo, i quattro avevano rimosso la Danimarca, ma
lei non si era dimenticata di Antonio e Marco. Quattro
auto della polizia erano ferme sotto casa dei due, un
gruppetto di persone incuriosite da quello spiegamento
di forze sostava in circolo, per vedere cosa accadesse.
Dal portone d'ingresso uscirono prima due agenti
chiedendo di fare largo, poi i ragazzi accanto ai due
poliziotti, che con una mano li tenevano ben stretti e
ammanettati, con l'altra reggevano dei fogli. Li fecero
salire in auto diverse, partendo a tutta velocità con i
lampeggianti accesi. Si seppe in seguito che la polizia
danese aveva fermato Hans e Borg, mentre prendevano
il traghetto e durante la perquisizione nei loro zaini
era stata trovata la droga sparita dalla roulotte. Gli
agenti erano arrivati ai due, dopo aver interrogato i
ragazzi del campeggio, avendo notato che i loro nomi
ricorrevano spesso nei racconti della sera dell'incendio.
Messi sotto pressione avevano confessato di aver
appiccato l'incendio, il furto della droga, raccontato
la storia del passaggio di consegne ad Antonio e Marco
e del fornitore, (di cui non conoscevano il nome) e
indicato l'appartamento vicino al porto. Al commissariato
Antonio e Marco furono interrogati dal giudice,
confermando tutto quello che avevano detto Hans e
Borg. Inoltre dissero dell'uomo che li minacciava da
quando erano tornati e del fatto che aveva chiesto ai
due di spacciare per lui fino all'estinzione del debito.
Un agente della polizia danese era al commissariato
e propose al giudice e agli ispettori di usare i ragazzi
per prendere l'uomo e smantellare l'organizzazione di
spaccio internazionale che operava da anni in Europa.
Il magistrato, dopo aver parlato con i genitori dei ragazzi,
disse che se collaboravano questo avrebbe avuto
effetto positivo nel processo per spaccio che dovevano
affrontare, sarebbero stati condannati ma con
sospensione della pena e non avrebbero passato neanche
un giorno in carcere. L'accordo con i ragazzi era
fatto: il piano era semplice, loro avrebbero accettato
di spacciare, facendosi consegnare la merce dall'uomo,
poi avrebbero venduto regolarmente la droga e
consegnato i soldi. La droga la compravano giovani
agenti sotto copertura, come se fossero normali clienti
dei due e col tempo l'uomo si sarebbe convinto che li
aveva in pugno. Lo spostamento di tanta droga, con
gli appostamenti coordinati delle forze dell'ordine, sarebbe
giunto fino alla centrale operativa della banda,
(i Pesci Grossi, come diceva spesso il giudice). Antonio
e Marco ritornarono a casa liberi, come se niente
fosse accaduto e ripresero la loro vita normale. Alle
domande di Giovanni e Marina risposero che era stato
tutto un equivoco, che li avevano scambiati per altre
persone e chiariti i fatti, li avevano rilasciati. Da quel
giorno la vita dei quattro si divise: Antonio e Marco
dopo la scuola, sparivano impegnati come dicevano a
tutti nei compiti.
Dal giorno in cui si diede il via all'operazione, si vide
spesso quell'uomo passare lentamente davanti alla
scuola e fare salire i due ragazzi sulla sua auto, per
poi allontanarsi in fretta. Dopo un giro per il paese si
dirigeva verso la città inoltrandosi nei vicoli, e arrivati
davanti a un vecchio palazzo faceva scendere i ragazzi
per aprire la serranda del garage. Sistemata l'auto entravano
in un ascensore, salivano fino all'ultimo piano
dove c'era solo una porta che si apriva su un appartamento
lussuosamente arredato, con un salotto pieno
di divani.
- Sedetevi!
Antonio e Marco si sedettero e lui:
- Il commercio va a gonfie vele, vendete più di quanto
immaginassi
- Sempre più gente cerca droga, ne serve tanta, tu puoi
averne una quantità maggiore? - Chiese Marco.
- Piano, quanta ve ne serve?
- Almeno il doppio.
- Insieme all'erba, pensate di poter spacciare anche
l'eroina? - disse l'uomo alzandosi dalla poltrona e
prendendo una bottiglia da una vetrina, da cui versò
nel bicchiere del liquore scuro.
- Non lo sappiamo, ci possiamo provare, facci sondare
questa settimana, poi vediamo.
- Va bene. Adesso datemi i soldi, prendete la merce e
andiamo, vi accompagno a casa!
Marco chiese:
- Tu sai come ci chiamiamo, il tuo di nome però non ce
lo hai mai detto.
- Chiamatemi Giorgio, va bene?
- Va bene Giorgio, ti chiameremo così.
Il giorno dopo, videro il funzionario del commissariato.
- Ragazzi come va con il nostro uomo?
- Ci ha chiesto di spacciare eroina. - E voi cosa avete risposto?
- Che saremmo in grado, ma non prima di aver sondato
la piazza.
- Non lo so, rispose dubbioso il funzionario. Poi continuò:
? dobbiamo stringere, non vorrei che diventi troppo pericoloso per voi.
- No, lui è tranquillo, si fida.
- Sono io che non sono tranquillo. Facciamo così, acconsentite
allo spaccio d'eroina, cercate di andare anche
voi a prenderla. Vi forniremo dei ciclomotori. Il
nostro obiettivo è di non farvi salire sull'auto dello
spacciatore, non farvi correre rischi inutili, in caso di
un nostro intervento non previsto. Allo stesso tempo,
che vi usi per andare a prendere la droga al magazzino,
così da valutare quante persone sono coinvolte.
Gli direte che trasportare la droga in auto è troppo
pericoloso, la dividete un poco per scooter, in questo
modo, qualsiasi cosa accade, non va persa tutta.
- Che gli diciamo? Dove abbiamo preso i motorini? -
chiese Marco.
- Non ve lo chiederà, tutti i ragazzi oggi ce l'hanno. Se
ve lo chiede, gli direte che è un regalo dei vostri genitori
e vi serve per andare a scuola.
- Voi cosa avete intenzione di fare?
- Ormai ne sappiamo abbastanza: abbiamo fotografie
e filmati delle attività della banda, ci manca di capire
dove hanno il magazzino della droga.
- Che cosa dobbiamo fare quindi?
- Dovete cercare di convincerlo che tre trasportatori
sono più sicuri di uno solo in auto e che due ciclomotori
non temono il traffico, svicolano meglio in città.
Farò in modo che abbiate al più presto i mezzi. Un po'
d'attenzione e tutto finirà bene.
Da qualche giorno i due raggiungevano la scuola in
motorino, e Marina vedendoli li fermò: - Belli chi ve li ha dati?
- I nostri genitori, così non facciamo tardi alle lezioni.
I due oramai rispondevano con le stesse parole a tutte
le domande, erano in sintonia su tutto. Marina non era
molto convinta della risposta, aveva visto i due frequentare
lo spacciatore, qualche dubbio se lo poneva.
- Ci vediamo questa sera al bar?"
- Va bene ci vediamo questa sera - rispose Marco.
Al bar si ritrovarono tutti e quattro.
- Se ci vede il prete, inizia il sermone sul fatto che non
andiamo più in chiesa - disse Giovanni.
I quattro scoppiarono a ridere come non facevano da
tanto tempo. Mario uscì e chiese loro:
- Che cosa avete da ridere così? Dovete consumare se
volete rimanere seduti, lo sapete.
- Portaci due birre e una gassosa.
- Siete minorenni, non posso darvele le birre.
- Allora porta una birra e tre gassose! Disse Antonio
ridendo.
Il barista stanco di essere preso in giro sbuffando acconsentì:
- Va bene, poi però basta birra.
- Bravo Mario, basta birra! Annuì Giovanni.
Poi il discorso inevitabilmente finì verso lo spacciatore.
Marina chiese:
- Cosa avete deciso riguardo a quello spacciatore, lo
denunciate?
- Ci stiamo ancora pensando, per il momento gli abbiamo
detto che non siamo pronti, dopo quel che è
successo in Danimarca.
- Vi ho visto l'altro giorno che salivate in auto con lui
- ribatté Marina.
- Sì, viene spesso a cercare di convincerci, saliamo, facciamo
un giro, ci porta a un bar prendiamo qualcosa e
poi se ne va - ammise timidamente Antonio.
- Dovete prendere una decisione e quella giusta, non
potete frequentare quel criminale! - incalzò Giovanni.
Calò il silenzio tra i quattro, Marco avrebbe voluto
dire dell'operazione in cui erano coinvolti per la cattura
degli spacciatori, ma Antonio gli diede un calcetto
sotto il tavolo, riprendendo a ridere:
- State tranquilli non è furbo come sembra, pensa solo
ai soldi e ha capito che se ci fa del male, li perde.
Cosi passarono una serata allegra e spensierata come
quelle di prima delle fragole.
L'operazione andò avanti senza intoppi, il giorno previsto
per la consegna del ricavato l'uomo arrivò puntuale
davanti alla scuola. Passando lentamente davanti
ai ragazzi in sella a ciclomotori, fece loro cenno di
seguirlo e i due misero in moto e si accodarono all'auto.
Lui si fermo subito dopo la curva, abbassò il vetro
del finestrino e disse:
- Cos'è questa novità, vi siete motorizzati?
- Ti piacciono? Sono un regalo dei nostri genitori per
non tardare a scuola.
- Bene, potrebbero essere utili anche per il lavoretto
che fate per me.
Fatto lo scambio soldi-droga, Giorgio chiese ai due:
- Siete in grado di raggiungere casa mia con questi?
- Certo!
- Bene vediamoci verso le diciannove, che vi devo proporre
un lavoretto, c'è da guadagnare.
I due avvisarono il commissariato della richiesta di
Giorgio, il funzionario disse:
- Non preoccupatevi, vi teniamo sotto controllo ventiquattro ore
su ventiquattro. La strada, resa viscida dalla leggera pioggia, non era
l'ideale per i ciclomotori dei ragazzi, ma arrivarono
in fretta al vecchio palazzo del centro dove Giorgio li
stava aspettando.
- Non scendete! - disse con tono perentorio, mentre
dava loro due pacchetti
- Andate al bar della stazione, una ragazza aspetta che
le portiate questi due pacchi.
- Come la riconosciamo? - chiese Antonio.
- Vi conosce lei, non vi preoccupate, dopo vi pago il
disturbo.
I due si avviarono verso la stazione, percorsi alcuni vicoli,
attraversarono una piccola piazza e imboccarono
un vicolo così stretto, che dovettero passare uno per
volta. A metà dello stretto vicolo un uomo si mise in
mezzo chiedendo loro di fermarsi; i due ragazzi provarono
a tornare indietro ma l'uomo li fermò:
- Fermi, sono un agente! Cosa vi ha chiesto di fare?
Dove state andando?
I due, tranquillizzati dal distintivo mostrato dall'uomo:
- Dobbiamo consegnare questi a una donna alla stazione,
poi tornare a casa sua che ci paga.
- Va bene adesso avviso il giudice e il commissario. Voi
fate presto, non vorrei che un ritardo lo insospettisca.
Arrivati al bar, della donna non c'era traccia. Antonio
e Marco si sedettero sulle sedie fuori del bar, si guardarono
in giro per intercettare la donna di cui aveva
parlato Giorgio.
- Questa non si vede, che facciamo? - chiese Marco.
- E che ne so io, aspettiamo un poco, poi ce ne andiamo.
Mentre erano lì indecisi sul da farsi, si avvicinò una
donna alta, vestita elegantemente, si fermò davanti al loro tavolo:
- Antonio e Marco?
I due rimasero in silenzio fissando la donna con i capelli
rosso fuoco, stretta in un tubino nero, avvolta nella
pelliccia, appoggiata sulle spalle a mo' di mantella.
La pausa sembrò eterna. Lei ripeté la domanda ancora
una volta e dai due uscì un filo di voce:
- Sì. Tu sei l'amica di Giorgio?
- Sono io. Dovete darmi qualcosa?
I due sorridendo si alzarono e si diressero verso i ciclomotori,
dal portapacchi presero i due pacchetti e
li consegnarono alla donna, che li mise in una busta
capiente dei grandi magazzini, poi senza salutare, si
girò e andò via.
Giorgio era davanti all'ingresso del vecchio palazzo,
che attendeva i due, quando li vide arrivare.
- È andato tutto liscio?
I ragazzi confermarono la consegna e lui, soddisfatto
del lavoro svolto, prese una busta dalla tasca dei pantaloni
e la consegnò ai ragazzi dicendo:
- Questi sono per voi.
- Wow! Sono tanti soldi! - esclamò Antonio.
- Marco si limitò a dire:
- È stato facile.
Giorgio mise le braccia sopra le spalle dei due come se
fossero vecchi amici e disse:
- Per quanto riguarda l'eroina avete già iniziato, la
prima consegna l'avete appena fatta. La piazza l'avete
sondata?
- Si può fare, la richiesta è alta - rispose Antonio e
Marco continuò: - Il problema è che tutta questa merce
come la trasportiamo? Non vorremmo dare troppo
nell'occhio, girando con te che sei più grande di noi,
qualcuno potrebbe fare delle chiacchiere.
Lo informarono della loro idea: ognuno di noi potrebbe
trasportare un poco di merce fino a un posto sicuro,
poi quando occorre la si prende.
Giorgio ascoltò attento la proposta dei due, la loro iniziativa
gli piacque.
- Va bene, rimane il problema del rifornimento, quello
lo faccio io come sempre: voi venite a casa mia, vi
consegno la merce che serve, ne prendete un poco per
uno e ve ne andate
".
Così fecero per alcune settimane. Giorgio era soddisfatto
del commercio che aveva messo in atto con i due
e durante uno dei soliti scambi propose loro di andare
di persona a rifornirsi.
- Ormai mi fido di voi, potreste andare a rifornirvi da
soli direttamente alla casa madre.
Antonio e Marco dopo qualche secondo di silenzio:
- Certo si può fare, ci devi dire dove andare a prenderla,
ma siamo pronti - disse Marco.
- Andiamo vi faccio vedere come ci si arriva e vi presento
il mio amico.
Saliti in auto attraversarono la città, poi arrivarono in
periferia percorrendo strade poco illuminate, dove i
palazzi color marroncino erano riuniti in lotti, circondati
da giardini incolti. Giorgio fermò l'auto davanti
a un cancello. Gruppetti di persone li guardarono
con sospetto, come se avessero ognuno qualcosa da
nascondere. Un uomo si avvicinò a Giorgio, parlarono
a bassa voce, poi il tizio ricevette qualcosa da lui, indicando
i ragazzi. Giorgio disse ad alta voce:
- Tutto bene, questi sono quelli che mi sostituiranno.
L'uomo fece un sorriso e li salutò portando una mano
sul capo, con il gesto di chi si toglie il cappello, poi tornò
verso il gruppo da cui era venuto. Si diressero verso
un piccolo portoncino aperto, salirono cinque scalini
fermandosi sul piano, una porta si aprì e la donna della
stazione fece loro cenno di entrare. L'appartamento
era quasi vuoto, la stanza odorava di chiuso, come se
la finestra fosse rimasta chiusa da sempre. Era arredata
con un divano, un piccolo tavolino, due sedie, un
quadro e uno specchio, le pareti erano dipinte con un
colore roseo, in alcuni punti erano così scolorite, da
sembrare panna sporca, sul soffitto macchie ammuffite
lo decoravano quasi damascandolo. Dall'altra parte
della parete si sentiva qualche rumore e delle persone
parlavano a voce alta, poi la donna picchiò due volte
sul muro e le voci si attenuarono. La rossa, senza fare
le presentazioni e con tono perentorio:
- Voi due verrete una volta alla settimana a rifornirvi,
il ricavato della vendita continuate a consegnarlo
a Giorgio. Di volta in volta o io, o lui, vi diremo cosa
fare. Quando verrete ci sarà sempre qualcuno che mi
avviserà del vostro arrivo. L'uomo che avete conosciuto
prima si si chiama Luigi, gli darete ogni volta una
cosa che vi darà Giorgio. Capito?
I due annuirono. Giorgio e la donna andarono nell'altra
stanza, dopo un poco ritornarono e si salutarono,
lei fece un cenno d'intesa anche ai ragazzi, poi i tre
uscirono dalla casa.
Giorgio lentamente percorse l'itinerario fino al suo
appartamento, dicendo ai due:
- Imparate bene la strada, la dovrete fare spesso da
oggi in poi per venire a casa della mamma a rifornirvi
dei biscotti.
Giunti sotto casa di Giorgio i due presero i ciclomotori,
e percorsi qualche centinaio di metri si fermarono,
si guardarono e Antonio disse: - Se tutto andrà come
deve andare, da domani sarà tutto finito.
Ripresero la strada avviandosi verso il commissariato,
facendo attenzione a ogni curva per vedere se erano
seguiti da qualcuno. Arrivati nei pressi del posto di
polizia rallentarono dando un'altra occhiata per sicurezza,
poi suonarono al campanello, un agente andò
ad aprire chiedendo chi cercassero.
- Dobbiamo parlare con il commissario è una cosa urgente,
apri non possiamo stare qui!
- Calma ragazzi, il commissario non c'è, adesso lo chiamiamo,
entrate.
Il commissario arrivò in fretta e dopo che i ragazzi gli
ebbero spiegato la situazione, disse:
- State calmi, sappiamo tutto, vi abbiamo seguito. Domattina
scatta l'operazione, l'unica cosa che voi dovete
fare adesso è starvene in casa in attesa di nostre
notizie. Non andate a scuola, i vostri genitori sono già
informati li abbiamo avvisati. Ora andate a dormire, il
lavoro svolto è sufficiente a incastrare quei delinquenti,
il giudice terrà conto della vostra buona volontà.
Arrivati a casa l'adrenalina era ormai in circolo, i due
non avevano sonno, si sedettero sugli scalini e Antonio
accese una sigaretta. Marco in silenzio fissò il fumo che
saliva, poi si alzò, si appoggiò al muro dell'androne
- Che pensi, filerà tutto liscio?
- Siamo arrivati fino a questo punto, perché no? Arresteranno
tutta la banda e noi ci riprenderemo la nostra vita.


Vite spezzate
Furono distolti dalle loro paure, voci allegre provenivano
dal viale, due persone camminavano sul tappeto
di foglie dei platani che oramai spogli facevano svettare
i rami nudi verso il cielo. I due si correvano dietro,
ora nascondendosi dietro il tronco di un albero, poi facendo
la giravolta attaccati ai lampioni. Quando
i due furono abbastanza vicini ad Antonio e Marco,
si bloccarono vedendo che li guardavano. Erano Giovanni
e Marina: - Oh! Che fate ci spiate? Poi ridendo Marina chiese:
- Pensieri? Non andate a letto? Domani c'è scuola.
- Voi invece mi sembra che problemi non ne avete?
Chiese Marco, serio.
- Dai scherzava non te la prendere, disse Giovanni.
I quattro rimasero in silenzio per qualche minuto, poi
Giovanni ruppe quel momento di tensione:
- Domani dopo la scuola ci vediamo a casa mia? Stiamo
un po' insieme, si potrebbe andare al fiume a pescare.
- Domani siamo impegnati, non veniamo a scuola e
neanche al fiume.
- Che cosa dovete fare? Domandò Marina.
- Niente che possiamo dirvi, ribatté Antonio. Marco
la guardò e disse: - Se fosse per me, mi chiuderei
dentro casa e ne uscirei da vecchio, altro che scuola!.
Seguì una lunga pausa di silenzio, rotta da Antonio,
che disse: - Ma chi se ne frega, domani sarà finito tutto!
Raccontiamogli come stanno le cose, non ce la faccio a
tenermi tutto dentro, con qualcuno dobbiamo confidarci e
loro sono le persone giuste!
Giovanni preoccupato dal tono di voce dei due chiese:
- Cosa vi succede? Altri guai?
- Non sono finiti mai! Rispose Antonio - Siamo coinvolti
in un'operazione di polizia, contro un'organizzazione
di narcotrafficanti, gli stessi che ci hanno incastrato in
Danimarca. La polizia e il magistrato ci hanno
chiesto di aiutarli a sgominare la banda facendo da
esca. In cambio terranno conto della nostra collaborazione
nel processo per spaccio che dobbiamo subire
per i fatti accaduti in quell'isola del cavolo.
I due raccontarono la verità, dello spaccio di droga,
della cattura di Hans e Borg, come erano arrivati a
loro nelle indagini, dell'uomo che non li aveva mai
mollati e del finto spaccio messo in atto con le forze
di polizia. Adesso le cose apparvero più chiare a Giovanni
e Marina, ma mentre stavano per dire qualcosa
il portone si aprì: era il padre di Marco che invitò tutti
ad andare a dormire, richiamando il figlio e Antonio
in casa. I quattro si salutarono, poi Giovanni e Marina
tornarono indietro, chiesero se il giorno dopo avrebbero
potuto passarlo con loro, in attesa delle notizie
dalla polizia riguardo l'operazione e i due acconsentirono.
Andando verso casa i due notarono che alcune
auto lungo la via erano occupate da persone mai viste
prima, immaginarono che fossero poliziotti, evidentemente
controllavano le case di Antonio e Marco. Ogni
persona che si incontrava, o era un poliziotto, o un
bandito, non vi erano mezze misure, la suggestione
del momento, la fantasia, la paura, fece il resto. Quella
notte nessuno dei quattro riuscì a prendere sonno.
All'alba erano già in piedi e si trovarono al bar di Mario,
la tensione per quello che doveva accadere era
tanta, presero un cappuccino, si misero fuori sul marciapiede,
seduti senza parlare. Marco si accese una sigaretta, accasciato
sulla sedia umida del bar. Padre Vittorio, che come tutte le
mattine si era recato presto al bar, vedendo i quattro domandò
come mai non erano a scuola, attaccando un sermone sui
giovani irresponsabili e perditempo, al che i quattro si alzarono,
lo lasciarono a parlare da solo, mentre andavano via
senza guardarlo. Oramai erano passate le undici del
mattino, le notizie non arrivavano, i ragazzi iniziavano
a preoccuparsi. Le domande senza risposta erano
molte, una su tutte: Li avranno catturati?
Verso le due del pomeriggio un'auto si fermò sotto
l'appartamento di Antonio. I ragazzi si affacciarono
alla finestra che dava sulla strada, il commissario e un
agente in borghese scesero dall'auto dirigendosi verso
il portone. Il suono del campanello li fece trasalire,
aprirono in fretta e i due salirono al piano, trovando i
ragazzi davanti alla porta insieme ai genitori:
- Loro chi sono? Chiese il commissario, indicando
Giovanni e Marina.
- Nostri amici, sono informati di tutto.
L'uomo iniziò a parlare:
- Dunque: la banda è stata smantellata al completo, questa
notte fino all'alba siamo stati impegnati nell'operazione,
l'uomo chiamato Giorgio lo abbiamo catturato
che tentava la fuga in auto al casello per l'autostrada.
Nell'appartamento della donna sono stati trovati ingenti
quantitativi d'eroina e di cannabis. Nello stesso
momento l'operazione si è diramata in molti paesi,
Spagna, Marocco, Danimarca, smantellando questa
potente organizzazione criminale. Rimane da capire
che fine ha fatto questo Luigi e i suoi compari, non
li hanno presi, ma probabilmente non erano elementi
dell'organizzazione, gente assoldata nella malavita
locale per fare da palo … li prenderemo, sappiamo che
sono della zona.
Il commissario si congratulò con i due ragazzi, ringraziò
i genitori e si congedò dicendo: - In seguito vi farò chiamare,
per tutte le deposizioni che servono al giudice.
Uscito il funzionario, i quattro si guardarono in silenzio,
in testa avevano un unico pensiero: Luigi.

Passarono i mesi ed arrivarono i giorni degli esami
di maturità. L'estate già inoltrata faceva sentire la sua
presenza con giornate calde, i ragazzi erano impegnati
nei ripassi per gli esami. Dal giorno della cattura dei
narcotrafficanti, in città sembrava che fosse in atto una
guerra tra bande. Non passava un giorno che la cronaca
non riportasse notizie di aggressioni e omicidi. La
tecnica era sempre la stessa: una motocicletta arrivava
sul posto, il pilota chiamava per nome l'uomo, poi lo
crivellava di proiettili, un killer scendeva dalla moto
finendolo con un colpo di grazia, per poi sparire ad
alta velocità.
Queste cose non passarono inosservate ai quattro e
parlavano spesso della ferocia con cui erano fatte le
esecuzioni e dell'escalation di violenza dilagante che
imperversava in città.
Era un periodo di cambiamenti: formazioni di studenti
di destra e di sinistra si fronteggiavano davanti
alle scuole e le università, i movimenti studenteschi
organizzavano grandi manifestazioni di protesta, le
lotte operaie erano all'apice della loro affermazione.
Le forze dell'ordine durante e dopo ogni scontro,
organizzavano retate e perquisizioni nei luoghi dove
presumibilmente si riunivano studenti o operai che
avevano partecipato al corteo. Durante una retata di
questo tipo all'interno di un circolo ricreativo, tra le
cose trovate durante la perquisizione (droga e armi),
fu trovata un'agenda con nomi e indirizzi che portarono
all'arresto di persone che con gli studenti avevano
poco a che vedere, gente della malavita e politici locali
di cui si parlava spesso come sospettati di manovrare
la protesta per coprire i loro affari.
Gli agenti trovarono citati alcuni nomi di persone giustiziate
nei mesi precedenti, altri di persone che occupavano
posti di primo piano nel commercio e nella
politica della città. Tra i nomi trovati vi erano quelli di
Antonio e Marco con accanto scritto: "Delatori".
La maturità era fatta, i quattro furono promossi, erano
pronti per l'università.
La mattina dopo gli esami erano come il solito al bar,
seduti a discutere su quale facoltà avrebbero preso
all'università, l'indirizzo da scegliere, la prospettiva
di lavoro che avrebbe dato, quale sogno si prospettasse
per loro. Marina la sua scelta l'aveva fatta: si sarebbe
iscritta a Giurisprudenza, voleva diventare avvocato,
nonostante la madre avrebbe preferito che lei
diventasse una professoressa. Antonio si era iscritto a
lingue, Marco seguì la scelta dell'amico. Giovanni al
contrario dei tre non ci pensava proprio agli studi. Nei
due anni che seguirono, mentre gli altri frequentavano
l'università, la sua passione per il mare lo portò a
fare un corso di subacquea e, preso il brevetto, iniziò
a lavorare per una ditta del paese che si occupava di
recuperi subacquei e manutenzione di opere sottomarine.
Lui e Marina oramai erano una coppia consolidata e
spesso lei si fermava a dormire a casa di Giovanni. Il
nonno era morto da circa un anno e lui una volta il
mese andava, come promesso, a posare un garofano
rosso e un bicchiere di vino sulla sua tomba. La nonna
dalla sua morte non era più la stessa, sembrava vivesse
un'altra dimensione, fatta di sorrisetti e cenni della
testa, era piegata come un ramo che non poteva sostenere
il suo stesso peso. Una sera dopo cena si addormentò con
la testa sul tavolo e non si svegliò più.
Al suo funerale Giovanni si mise dove era solito sedersi
con lei, facendo attenzione che nessuno ne occupasse il
posto. Il prete dopo le esequie si avvicinò per porgergli
le condoglianze e come al solito puzzava di vino.
Quando lo abbracciò per mostrargli tutta la vicinanza
al suo dolore, non poté fare a meno di dirgli:
- Padre, sono le dieci e già è in queste condizioni!
Lui si scostò dicendo:
- Il dolore per la perdita di una buona parrocchiana
come la tua nonna è grande mi è stato d'aiuto un goccetto.
Poi si girò e si avviò barcollando leggermente verso la
sacrestia senza salutare nessuno.
La sera, dopo il lavoro, Giovanni andava in piazza
per incontrare gli amici studenti, seduti al bar; discutevano
animatamente delle proprie prospettive. Lui
parlava spesso della ditta che voleva impiantare coinvolgendo
Marina come legale della società, Antonio
e Marco delle possibilità che avrebbero avuto con la
conoscenza delle lingue nel mondo del lavoro, la discussione
si animava spesso e Mario usciva a calmarli offrendogli una birra:
- Buoni, siete solo all'inizio e già vi scannate sulle ipotesi,
bevete questa e andate a casa che domani chi lavora,
chi studia vi dovete alzare presto!
Loro con una risata accettavano i consigli del barista.
Quella sera, mentre erano intenti nelle solite discussioni,
un'auto si fermò, ne scesero due persone che si
diressero verso di loro, una delle due, qualificandosi
come agente di polizia, mostrando il tesserino disse:
- Antonio, Marco, con noi.
- Che succede? - chiese Marina - Possiamo venire anche
noi? - Non vi riguarda, solo loro.
Così presero i due ragazzi per un braccio, invitandoli
a seguirli. Saliti in auto si diressero in direzione commissariato,
lasciando Marina, Giovanni e Mario sbigottiti,
davanti a quel prelievo inaspettato.
Al commissariato i ragazzi erano attesi dal giudice che
aveva guidato l'operazione Danimarca, e da un funzionario
che loro non conoscevano. Dopo un poco arrivarono
anche i genitori dei due, quando furono tutti
presenti, il magistrato iniziò a parlare:
- Vi abbiamo fatto venire per informarvi di questioni
che riguardano i ragazzi in primis, ma anche tutti
noi.
Il giudice parlò del ritrovamento dei nomi nell'agenda,
poi chiese se i due avevano avuto a che fare con il
circolo dove fu rinvenuta. Alle risposte negative dei
ragazzi il funzionario li informò di tutte le preoccupazioni
che lo opprimeva, riguardo a un possibile inserimento
in una lista di persone da giustiziare, che prevedeva
anche i ragazzi. Il pensiero dei presenti andò
all'operazione di due anni prima, Luigi non era stato
rintracciato, nonostante le forze messe in campo dalla
polizia nazionale e internazionale, e in quel momento
l'impotenza dei presenti fu evidente.
- Che cosa dobbiamo fare noi, porca puttana! Esclamò
il padre di Marco, - abbiamo messo nelle vostre
mani la vita dei nostri figli e adesso guardate come ci
ritroviamo!
I ragazzi ammutoliti dalla notizia, rimasero a testa
bassa, pensando: "non finirà mai, non finirà mai". Il
giudice ammise di aver sottovalutato la situazione,
convinto di aver smantellato la rete criminale il giorno
dell'irruzione nel circolo. Poi disse:
- al ritrovamento dell'agenda è stato disposto un controllo
discreto dei ragazzi. Non vi abbiamo informati
per non preoccupavi, poi, visto che le cose si erano
messe bene, avevamo allentato i controlli. Ora il fatto
nuovo è Luigi, sembra che sia stato visto in zona,
abbiamo tentato la cattura senza riuscirci. Metteremo
una macchina fissa sotto le vostre abitazioni, faremo
in modo che i ragazzi siano sempre sotto controllo degli
agenti, fino a che questa storia non sarà finita.
Tornarono a casa con la paura in tasca. I due amici,
non uscirono per diversi giorni, e quando Giovanni e
Marina venivano a trovarli non li facevano salire, inventando
ogni volta una nuova scusa. Sotto casa l'auto
della polizia in borghese era sempre presente, si davano
il cambio ogni sei ore, coprendo tutto il giorno e la
notte. Passò circa un mese. Un giorno Antonio e Marco
scesero al bar, si misero seduti e ordinarono due
birre, come al solito Mario era contrario che bevessero
alcolici, ma loro insistettero:
- Adesso siamo maggiorenni, ci puoi servire la birra
con la coscienza a posto.
Mentre erano lì che sorseggiavano le birre, una motocicletta
di grossa cilindrata con due persone a bordo,
con il volto nascosto dai caschi, si fermò davanti a
loro, uno dei motociclisti scese dalla moto e chiese ad
alta voce:
- Antonio? Marco?
I ragazzi si alzarono di scatto: avevano capito cosa stava
per accadere. I due poliziotti di scorta, che erano
in auto, scesero velocemente dirigendosi verso il bar,
ma fecero solo in tempo a udire i rapidi colpi di pistola,
vedere l'uomo con il casco mentre freddamente
esplodeva i colpi di grazia ai due stesi sul marciapiede
e poi vederlo salire rapidamente sulla moto che lo
attendeva con il motore al massimo dei giri.
La moto sfrecciò con un'impennata e passò accanto agli agenti
mentre l'uomo esplodeva colpi verso di loro.
In un attimo i due agenti la videro sparire nel traffico. Nel bar
i clienti, che prima erano fuggiti ora si accalcavano,
i due agenti avevano chiamato il commissariato, comunicando
la notizia degli omicidi. Arrivarono auto della polizia a sirene
spiegate e le ambulanze.
Per Antonio e Marco non c'era più niente da fare, erano in una
pozza di sangue, lì sul marciapiede, con il viso deturpato dai colpi
ricevuti da distanza ravvicinata.
La notizia si diffuse rapidamente, la piazza si riempì
in fretta di curiosi. Arrivarono Marina, Giovanni, Diego,
Gino e altri giovani dietro a Padre Vittorio, che si
fece largo con il segno della croce, pronunciando parole
sottovoce all'indirizzo dei due. Si fermò davanti
alla scena di morte e allargando le braccia verso il cielo,
chiese pace per quei corpi così giovani martoriati.
L'odore del sangue era forte, nauseante, il caldo lo fece
seccare in fretta, alcune persone si sentirono male e
caddero in terra. All'arrivo dei genitori la folla si aprì
per richiudersi subito dopo il loro passaggio. Le grida
di dolore furono interrotte a tratti da terribili maledizioni
verso chi aveva ucciso i loro figli: - Maledetti, bastardi,
assassini! Ripetuto all'infinito nel silenzio dei presenti.
Marina e gli altri erano in silenzio mentre osservavano
i loro amici immobili. Portati via i corpi rimasero in
terra le sagome dei due, fatte con il gesso dalla polizia.
La folla si era sfoltita, non rimanevano che Mario,
il prete e i quattro amici dei ragazzi uccisi, in silenzio
guardavano quei corpi disegnati sull'asfalto. Giovanni
si era seduto su una delle sedie del bar, poi all'improvviso
si alzò e con i pugni stretti prese a correre
verso la chiesa - Dove vai? - Urlò Marina.
Lo trovò inginocchiato davanti al crocefisso:
- L'ultima volta che ci siamo visti avevi detto che avresti
avuto molto da fare con me. Dove sei stato gli ultimi
dieci anni, mentre io pregavo che non morisse Massimo?
Massimo è morto, oggi hanno ucciso Antonio e
Marco e, cosa hai fatto per evitarlo? Io ti parlo, posso
pregare, offenderti e non fai un gesto, non cambi
espressione, sei finto? Esisti? Oppure no? Indifferente,
non puoi cambiare il destino delle persone, sei un bidone,
sei una fregatura, una scultura di legno fatta da
qualche falegname per due soldi!.
Poi si alzò, per accasciarsi su una delle panche con le
mani sul viso, piangendo. Il prete si avvicinò e abbracciandolo
forte gli disse:
- Ora sei deluso dalla vita, ma siamo noi gli artefici
della nostra vita, non possiamo incolpare altri delle
nostre azioni, tanto meno Dio. Avere fede non è male,
non averne è solo una condizione mentale diversa da
chi l'ha. A volte aiuta, magari parlare con Dio, pregare
non uccide nessuno, non farlo ugualmente non causa
la morte, a noi la scelta, uccidere o amare l'altro,
pregare, oppure no, siamo noi con le nostre contraddizioni,
le nostre scelte a decidere del nostro destino.
Adesso io prego, chi vuole, lo può fare con me.
Giovanni in lacrime si girò e si diresse verso l'uscita,
mentre gli altri s'inginocchiarono accanto al prete.


Discesa all'inferno
Il giorno dei funerali la chiesa era piena.
Nella piazza la gente arrivava fino alla sua estremità,
il prete aveva messo gli altoparlanti fuori, così tutti
quelli che non potevano entrare avrebbero ascoltato
la funzione. Giovanni, seduto fuori, ascoltava le parole
del prete rimbombare nella piazza e nella sua testa,
quando fece i nomi di Antonio e Marco andò via, dirigendosi
verso il fiume, nel luogo dove andava spesso con Marina.
Rimase per lungo tempo seduto a pensare a quello che
era successo in quegli anni, agli amici persi, poi lo raggiunse
Marina:
- Che fai qui da solo? Non sei venuto al funerale?
- Sì, ma sono rimasto fuori, ho ascoltato dalle trombe
allestite da Padre Vittorio. Poi sono venuto a pensare,
in questo luogo sto bene e mi rilassa. Sono accadute
troppe cose negli ultimi tempi, questo non è più il paese
in cui sono nato. Guardati intorno: l'eroina è padrona
delle giornate di molti giovani come noi, tutti i
giorni qualcuno è trovato all'angolo di una strada, nel
bagno di un bar, morto di overdose. Poi adesso, Antonio
e Marco uccisi, è troppo per me.
Lei lo strinse a sé, mentre lui singhiozzava con la testa
china tra le mani.
- Adesso cosa pensi di fare?
- Non lo so, non sono sicuro di niente, rimanere in
questo posto, mi fa troppo male.
- Che cosa vuoi dire? Che te ne vai?
- L'idea è quella.
- A me non pensi? Mi era sembrato che mi amassi …
- Ti amo ne sono certo, ma ho bisogno che io riprenda
fiducia nella vita, negli uomini.
Poi Giovanni indicò il punto, dove era il pioppeto e
disse:
- Il tempo cambia gli uomini troppo in fretta, come le
stagioni gli alberi.
- Io non voglio cambiare. -Ti amo Marina, vieni con me …
Prendendogli il viso, lei supplicò e gli sussurrò:
- Giovanni non te ne andare, io non posso lasciare la
mia famiglia, gli studi, l'università e a mia madre non le
posso fare questo, rimani.
Lui rimase in silenzio e guardando i pioppi senza foglie:
- Tornerò, se puoi, aspettami.

Il giorno dopo Giovanni partì come aveva detto.
Marina la sera,ogni tanto, scendeva al bar, rimanendo in
compagnia di Gino, che aveva ripreso a frequentare dopo
il funerale.
Lui era diventato un giovane attraente e spigliato,
niente a che vedere col chierichetto bianchiccio e
roseo in viso di tanti anni prima. Veniva spesso al bar,
chiedeva a Mario se lei fosse passata, poi si metteva
ad attenderla, anche per qualche ora. I due passavano
molte serate insieme in allegria, bevendo qualche
birra, ogni tanto Gino fumava qualche spinello. Questo
a Marina non andava bene e sull'argomento fecero
molte discussioni, anche accese. Poi una sera lei aveva
bevuto un po' di più, lui le propose di provare, dicendole:
- Dai non fare la puritana è solo erba non ti succede
niente.
Lei prese lo spinello, fece qualche tiro, poi iniziò a
tossire e ridere quasi soffocando, infine disse che non
l'avrebbe più fatto continuando a ridere e fumare. Da
quella sera fu normale che i due fumassero insieme
spinelli. La cosa, con il tempo, ebbe un'evoluzione imprevista.
Gino alle canne mischiava l'eroina, questo gli aveva causato
una forte dipendenza alla sostanza e coinvolse Marina in
questa pratica. Marina si trovò in breve tempo in una girone
infernale. Iniziò a frequentare sempre meno le lezioni
all'università, in compagnia di Gino anche lei aveva iniziato
a iniettarsi l'eroina, nell'auto del ragazzo non mancava mai
l'occorrente per il buco: limone,cucchiaio siringa, dosi da
consumare. Gino aveva iniziato a spacciare per pagarsi la
sua dipendenza e Marina dipendeva da lui in tutto, lo aiutava
nelle divisioni dei pezzi da vendere, togliendo a ogni dose
un poco di sostanza, che in seguito si sarebbero iniettati.
Con il passare del tempo fare la cresta sui pezzi da vendere
non fu sufficiente, lei iniziò a prostituirsi per pagare le dosi per
se e per Gino.
A volte era lui che l'accompagnava dai clienti, spesso
lei se li procurava alla stazione, poi acquistata la dose
se la iniettava nei bagni luridi, rimanendo seduta per
ore sul water, semiaddormentata. Sempre più spesso
la sera qualcuno si presentava a casa di lei per chiedere
dove fosse Gino, i genitori avevano capito che qualcosa
era cambiato da quando lo frequentava. Lunghe
dormite, assenze all'università, i vestiti sporchi di vomito,
il suo fisico che già era esile, diventò terribilmente
scavato.
Una sera rimase chiusa nel bagno di casa per ore e
la madre dovette chiamare il marito per sfondare la
porta. La trovarono svenuta, con la testa riversa all'indietro
sporca di vomito. Quando si riprese, non volle
che chiamassero il medico, fu messa sotto pressione e
lei confessò la dipendenza dall'eroina. Diego, saputo
del coinvolgimento di Gino, uscì inferocito mettendosi
alla sua ricerca, lo trovò seduto in un'auto davanti
al bar. Spalancò lo sportello tirandolo fuori, lo colpì
più volte, fino a che intervenne Mario il proprietario
del bar:
- Basta così lo ammazzi! Urlò tenendolo per le braccia,
e lui fuori di sé rivolgendosi a Gino;- non farti più vedere
da queste parti, tu sai il perché! L'altro risalendo in auto
mormorò: - mi dispiace, non volevo che finisse così.
Diego diede un calcio allo sportello dicendogli:
- Vaffanculo, verme, non tornare mai più in questa
zona!
Mario calmò il ragazzo, poi gli consigliò di andare a
casa.
- Qualcuno potrebbe chiamare la polizia, dai vai Diego.
- Grazie Mario, vado, mormorò a denti stretti Diego
dirigendosi verso casa.
Iniziarono una serie di azioni per far uscire Marina da
quel vortice infernale, come farla rimanere chiusa in
casa per smaltire la ruota, resistere alle sue suppliche,
alle promesse che le cose sarebbero cambiate da allora
in poi. Passarono giorni, poi le settimane, tra speranza,
ricadute e bugie, gli incontri con operatori del centro a cui
era affidata si susseguirono ottenendo piccoli successi e
cocenti sconfitte. Poi, mentre in casa erano tutti impegnati
al recupero di Marina, avvenne l'arresto di Gino per rapina.
I genitori della ragazza alla notizia non nascosero la loro
soddisfazione per quella notizia, ritenendolo il primo responsabile
dei guai della figlia.
Marina rimase chiusa in casa per molto tempo, ai più sembrò
che filasse tutto liscio e lei fece tutto per confermare quella
sensazione, nascondendo quel senso d'inadeguatezza, d'ansia
che la opprimeva.
Poi conobbe una giovane volontaria nel centro, dove le veniva fornito
il metadone. Le due donne iniziarono a frequentarsi assiduamente,
la giovane assistente sociale la seguì e l'accompagnò lungo la difficile
ripresa. Fu accanto a Marina quando ricadde nuovamente e per un
periodo si trasferì a casa della ragazza, fino al giorno che lei varcò
nuovamente il portone dell'università. Le due donne sapevano che quello
era solo l'inizio di una nuova vita e che il percorso era lungo, ma erano
certe di essere sulla buona strada.
Davanti all'università gli studenti si fermavano formando gruppi, dove
preparavano le lezioni del giorno o dei prossimi esami da dare, lei non
si sentiva completamente a suo agio in quell'ambiente era come se le
mancasse qualcosa e la tentazione di risolvere tutto con un dose d'eroina
spesso si affacciava nella sua mente, aveva finito di scalare il metadone e
le rimaneva solo la volontà e nei momenti più difficili la sua amica volontaria.
Passarono alcuni mesi e le cose per Marina, sembrarono andare meglio,
la vita aveva ripreso un corso normale, la frequenza alle lezioni era assidua,
fece amicizia con alcuni studenti del suo corso, dopo le lezioni
si fermava spesso con loro per organizzare qualche uscita.
Si seppe in seguito come erano andati i fatti che avevano
portato all'arresto di Gino.
Una sera lui e altri due erano nella via più frequentata
del paese, dalla parte opposta della strada in cui si
c'era il negozio di Pacifico, il gioielliere. Erano pronti
a entrare in azione, uno dei tre rimase in auto mentre
Gino e Tonino attraversarono la strada, attesero che un
cliente entrasse nel negozio, lo spinsero con violenza
addosso al banco, estrassero le pistole puntandole al
viso di Pacifico chiedendogli di consegnargli tutto l'incasso.
I due avevano il viso coperto da un copricapo
di lana con dei piccoli fori per gli occhi. Nella confusione
si dimenticarono del cliente, che sgattaiolò dalla
porta che era rimasta aperta e che diede l'allarme e in poco
tempo arrivò la polizia. I tre riuscirono a fuggire ma
dopo un breve inseguimento andarono fuori strada
colpendo in pieno un albero; nell'impatto quello alla
guida perse la vita, gli altri due, feriti gravemente, furono
portati in ospedale e curati per qualche settimana,
da lì furono trasferiti in carcere. Della rapina si parlò
molto in paese e quando dopo l'arresto dei rapinatori
Pacifico e gli altri seppero che tra loro c'era anche
Gino il chierichetto, ci fu un grande scalpore intorno
alla faccenda. Il prete ne parlò alla messa della Domenica,
indicando nella necessità di procurarsi la droga
la responsabilità di quel gesto, poi come al solito se la
prese coi genitori non attenti e quando parlò dei ragazzi
stravaccati nei bar, Mario si sentì tirato in ballo quindi si alzò
dalla panca e con un gesto eloquente lo mandò a quel paese,
uscì dalla chiesa inviperito e ad alta voce disse:
- questo si è bevuto anche il cervello! Che pensa che sono
tutti uguali i giovani!

La strada di Giovanni
Mentre accadeva tutto questo, Giovanni dopo essere partito
si era fermato in varie località, sostava giusto il tempo per racimolare
qualche soldo utile al viaggio, svolgeva piccoli lavori manuali,
dopo due mesi giunse in una città di mare.
Sfruttando la sua abilità in acqua aveva trovato lavoro
in porto come sommozzatore. La società che lo aveva
assunto lo alternava nei lavori di cantieristica navale,
a immersioni, in particolare per la pulizia dei fondali
e della sistemazione delle catenarie, la costruzione
di pontili galleggianti, disposizione di corpi morti sul
fondale per l'ormeggio delle imbarcazioni. Il proprietario
della società, un uomo sui sessant'anni, con la
pelle del viso scura, solcata da rughe profonde, non
parlava molto. Il figlio si occupava della parte operativa
dell'azienda, in mare tutti lo chiamavano il capo,
ma il suo nome era Saturno.
Saturno, un ragazzo allegro e socievole, quando gli
uomini non erano impegnati nel lavoro era sempre
pronto a scherzare con loro, almeno quando non era
presente il padre. Giovanni, in genere, non partecipava
preferendo stare da parte a leggere qualche libro.
Il Capo aveva notato questo ragazzo che pur essendo
sempre pronto al lavoro, non legava più del necessario
con gli altri della squadra. Un giorno mentre
navigavano per raggiungere una boa di segnalazione
bisognosa di manutenzione, il Capo si avvicinò a Giovanni
e gli chiese:
- Questo lavoro ti piace?
- È un buon lavoro, non mi posso lamentare.
- Leggi molto, non ti vedo spesso parlare con i colleghi,
qualcosa che non va con loro?
- Nessun problema con loro mi vedo fuori dal lavoro e stiamo
bene insieme,disse Giovanni chiudendo il libro. - Sai questo è un lavoro
a volte pericoloso, ognuno ha bisogno di sapere che si può fidare
di chi gli lavora accanto - continuò Saturno.
- Stai tranquillo Capo, sono uno di cui ci si può fidare
- disse serio.
Arrivati alla boa, ancorata a una profondità di quaranta
metri, i due s'immersero compiendo la manutenzione
necessaria. Finito il lavoro, segnalarono in
superficie l'operazione conclusa. Da bordo calarono la
campana per la decompressione, loro due ci si infilarono,
tolsero le mute bagnate e si vestirono con tute
asciutte. Mentre venivano issati a bordo e assicurati
alla nave, ripresero il discorso, dove lo avevano lasciato
prima di scendere in acqua.
- Ci si può fidare di te? Oggi quando eravamo impegnati
sott'acqua, ci ho pensato sai.
Giovanni ascoltava.
- Tu sei giovane, come me e mio padre ti tiene in grande
considerazione, forse perché parli poco come lui.
- Sono contento della stima che ha per me tuo padre.
- Ti stima e ha pensato che puoi essere utile come socio.
Mi ha chiesto di proporti di entrare a fare parte della società.
Giovanni lo guardò serio:
- Ma io non ho soldi da investire, vivo di quello che
mi pagate.
- Ha pensato a tutto mio padre e io sono d'accordo.
Prenderò il posto di mio padre alla guida della società,
tu rilevi il mio posto con l'aumento dello stipendio
e il dieci per cento delle entrate, con il rimanente, che
è circa il ventitrè per cento, paghi l'accesso come socio.
Mio padre vuole una risposta, possibilmente positiva,
entro la fine della settimana.
Giovanni aveva ascoltato quello che Saturno gli aveva proposto,
mentre stava per rispondergli sentì la nave
che attraccava e il portellone della campana che si
apriva.
- Va bene, per fine settimana avrà la risposta.
La sera, dopo essere stato impegnato in mare, anche
per dodici ore continue, si trovava con i compagni di
lavoro nel bar adiacente al porto, tra racconti e birra e
spesso era trasportato a braccia fuori dal locale, però la
mattina dopo era sempre presente sulla banchina. La
proposta di Saturno era sempre lì che gli girava nella
mente, e giunto il sabato doveva decidere se accettare.
Camminava per la strada sovrappensiero, schivando
le persone che si affollavano davanti alle vetrine. Era
periodo di saldi e di tanto in tanto si fermava per vedere
se c'era qualche affare, del resto era da un po' che
non rinnovava il guardaroba. Era partito da casa ormai
da dieci mesi, avendo portato con sé poche cose,
e poi utilizzava di solito la tuta e il giubbino, che gli
avevano fornito alla ditta. Senza quasi rendersi conto
si trovò davanti agli uffici e salendo le scale che portavano
al piano superiore incrociò il padre di Saturno, il Signor Franco.
Si fermò qualche gradino sopra di lui.
- Venivi in ufficio da me? Domandò abbozzando un
sorriso.
- Se lei deve uscire, torno un'altra volta.
- No vieni così parliamo.
Salirono i pochi gradini che portavano al piano dove
era l'ufficio, il Signor Franco aprì la porta e lo fece accomodare
sulla poltrona davanti alla scrivania di mogano rosso
lucido. Tutto lì dentro era in stile marinaresco,
la veduta d'insieme ricordava l'interno di una
nave: alcune grandi fotografie appese alla parete ritraevano
il signor Franco a bordo di una nave, era insieme
con altri con la tuta sporca di grasso che brindavano
chissà a quale impresa, altre ritraevano la prua di
una nave che affrontava un'onda gigantesca. Mentre
Giovanni guardava con attenzione le foto, l'uomo aprì
un cassetto della scrivania, ne tirò fuori una bottiglia
di vino rosso, prese due bicchieri e lentamente versò
fino a poco meno della metà di questi.
- Prendi è un buon vino, disse porgendo il bicchiere
a Giovanni, poi come per brindare a un'intesa, sorseggiarono
il vino guardandosi negli occhi.
- Hai preso una decisione? Domandò il signor Franco.
- Credo che lei mi stia dando un'opportunità che dovrò
dimostrare di meritare con i fatti.
- Allora accetti la nostra proposta?
- Sì, con una piccola ma sostanziale differenza.
- Quale? Chiese il signor Franco, mentre aggirava la
scrivania guardando fuori dalla finestra, dandogli le
spalle.
- Va tutto bene così come mi è stato riportato, solo che
preferisco mi sia trattenuto tutto il trentatré per cento,
fino all'esaurimento della quota dovuta per l'ingresso
nella società. Lei continuerà a versarmi lo stipendio,
questo sarà sufficiente come lo è stato fino a oggi.
Il capitano si girò verso di lui, con un sorriso soddisfatto,
dopo aver bevuto tutto il vino, ne prese ancora
dalla bottiglia e prima di bere ancora esclamò:
- sapevo di non sbagliare quando ho pensato che tu
eri la persona giusta per noi!
Dopo una stretta di mano, proseguì dicendo:
- Adesso vai a casa, lunedì definiamo i termini di
quest'accordo.


Nostalgia
Giovanni quando giunse al bar, sembrava che tutti già sapessero
del nuovo ruolo assunto sulla nave. I compagni passando
gli davano pacche sulle spalle, qualcuno gli diceva:
- Devi pagare un giro!
Saturno in fondo al locale se la rideva, avendo appena
diffuso la notizia, lui si avvicinò al tavolo dicendo:
- Potevi attendere la firma.
- Una stretta di mano è sufficiente per gente come mio
padre. Ero nell'altra stanza così ho sentito tutto, sono
felice che sia andata bene, siediti, brindiamo al nuovo
Capo!.
Per qualche settimana, dopo la firma, Saturno continuò
a uscire in mare, spiegando a Giovanni tutto quello
che c'era da sapere per ultimare le consegne sul lavoro
da svolgere. Il capitano della nave fece confidenza con
Giovanni, considerando che avrebbe dovuto interagire
con lui da lì in poi. Saturno, certo che tutto sarebbe
andato bene, si dedicò al lavoro che fino allora aveva
svolto il padre. Il nuovo ruolo di Giovanni, se da un
lato limitava le discese in acqua, dall'altro gli dava una
grande responsabilità, la vita degli uomini che andavano
in acqua era nelle sue mani e ogni cosa doveva
essere controllata almeno due volte prima dell'utilizzo:
manichette dell'aria, compressori, filtri, erogatori,
campana, saldatrici, ossigeno, ogni operazione non
doveva lasciare nulla al caso. Ogni giorno che lasciava
il porto si sentiva un uomo soddisfatto, aveva trovato
quello per cui era partito: la fiducia negli uomini, la
voglia di vivere.
Come fosse vinaccia, dall'alambicco tolta la testa scelgo
il cuore.
Goccia dopo goccia, lo voglio annaffiare con le parole.
Come la pietra non mi arrendo, sfoglio immagini
care. Dalla poppa come un sentiero, la scia s'illumina al
sole.
Lasciata la zona portuale nella spuma, giocano agili
delfini.
Nel rimescolio la vita breve delle bolle d'aria nello
schiumare.
Il blu all'orizzonte cala il sipario sulla terra e suoi confini.
Ora solo l'elemento vitale, un punto, la nave nel mare.
La Pegaso, Saturno e i compagni imbarcati su quella nave
erano diventati il suo mondo.
Nelle lunghe serate invernali Saturno e Giovanni, al
bar del porto, s'intrattenevano in lunghe chiacchierate,
raccontandosi le rispettive esperienze di vita. Giovanni
confidò il motivo della sua fuga dal paese e della
ritrovata fiducia negli uomini, dopo aver conosciuto
lui e il padre. Quando poi l'alcool aprì la cassaforte
dei sentimenti, scardinando ogni barriera, gli raccontò
del giorno che aveva lasciato Marina, che piangeva sul
greto del fiume, supplicandolo di non partire. Saturno
lo invitava spesso a casa sua, era sposato con una ragazza
spagnola. Felicitas, sempre pronta a scherzare
e ridere e i due oltre che marito e moglie sembravano
fratelli. Erano una coppia perfetta agli occhi di Giovanni, lui
spesso restava in silenzio ad ascoltare i dialoghi in un misto
d'italiano e spagnolo dei due. Le serate passavano in fretta in
compagnia della coppia e al momento dei saluti spesso Felicitas gli
diceva: - è passato tanto tempo, da quando sei andato via da casa
vai a trovare la tua famiglia, fai quello che devi e dopo torna da noi.
Giovanni come sempre dopo una piccola pausa rispondeva:
-vedrò di organizzarmi, magari per le feste, buonanotte,grazie della bella serata.
Mentre andava via si girava più volte per salutare Saturno,
Felicitas, Stella e Gemma, le due figlie gemelle.
I quattro, fino a che non spariva dietro l'angolo, non rientravano in casa.
Quelle serate in casa di Saturno sempre più spesso
gli lasciarono una sensazione di malinconia, dopo l'allegria famigliare
e spensierata vissuta poco prima nella casa della coppia, nel tragitto verso
la pensione dove alloggiava,Giovanni pensava spesso a Marina e al giorno
che le aveva detto che sarebbe tornato.
Da quel giorno non aveva voluto più avere notizie del luogo che gli aveva causato tanto dolore, era sicuro che lei non sapesse dov'era, oppure non lo aveva cercato delusa dalla sua fuga. Le capitò di sognarla spesso nei pressi del fiume, al tramonto mentre una calda giornata estiva volgeva al termine e il sole tingeva
di rosso la foce, mentre dalle sterpaglie incendiate dai contadini salivano colonne di fumo verso il cielo e il silenzio era rotto dal ritmo dei motori delle barche che navigavano nel fiume e loro due chiusi in quell'angolo di mondo si amavano.
La notte finisce in fretta per chi si deve alzare alle
quattro; la giornata era fredda, la nebbia avvolgeva la
zona del porto, le luci nei magazzini erano già accese.
Alcune barche lasciavano il porto scivolando sull'acqua
lucida.
Accanto alla Pegaso vi erano gli uomini dell'equipaggio,
radunati sotto la pensilina dei carburanti. Lo videro
arrivare, il più anziano lo salutò poi disse:
- Allora Capo oggi che si fa?
Mentre gli altri parlavano ad alta voce Giovanni fece
una piccola pausa, mentre scrutava le condizioni del
mare fuori dal porto.
- Il tempo non promette niente di buono, oggi rimaniamo
a terra, prendiamo un caffè, poi si va in officina.
Dobbiamo preparare i pontili galleggianti per il nuovo
porto turistico, deve essere pronto per la prossima
settimana.
L'officina era un grande capannone gestito notte e
giorno da Gennaro, il tuttofare della società, che vedendoli
arrivare andò incontro al gruppo e chiese:
- Niente mare oggi?
Giovanni che camminava avanti a tutti gli rispose:
- No, siamo qui per farti compagnia.
All'interno del capannone, lungo le pareti, erano accatastate
verghe di acciaio di varie misure, grandi pile
di catena arrotolata, alcune boe e gavitelli, cordame
di ogni tipo, cavalletti di ferro, troncatrici, cannelli e
bombole per saldare. All'esterno, dentro dei fusti di
olio vuoti, c'erano scarti di grasso animale, che all'occorrenza
veniva fuso e usato per far scivolare sulle traversine
in legno la pilotina. L'agile imbarcazione era accanto
all'officina, sistemata sopra l'invasatura. In poco
tempo il capannone si animò, nella penombra i lampi
delle saldatrici illuminavano a tratti le pareti di lamiera
grigia, le figure degli uomini s'intravedevano a pezzi,
colorati come in un caleidoscopio, i colpi ritmici inferti
sull'incudine facevano vibrare l'aria. Gennaro accese i
bruciatori sotto i fusti del grasso, bisognava varare la
pilotina, per i sopralluoghi nelle acque dove sarebbe
stato allestito il porto turistico. Quando il grasso fu
completamente fuso iniziarono le operazioni di varo,
alcuni uomini imbrattavano le traverse con il grasso,
un trattore trainava l'imbarcazione lentamente verso
lo scivolo, quando giunsero nei pressi del punto prestabilito
dove sarebbe fatta scendere l'imbarcazione, il trattore si pose
a poppa, continuando a spingere la pilotina, utilizzando un lungo
palo appoggiato sull'invaso. Un uomo salì a bordo seguito
da Giovanni e lanciarono le sagole, mentre gli uomini
a terra fecero un giro alle grosse bitte del molo. Mentre
il trattore continuava a spingere la pilotina, che prese
a scivolare verso l'acqua, gli uomini lasciarono scorrere
le cime, mentre la barca avanzava sullo scivolo. Poi la prua
s'inclinò e quasi si tuffò lentamente alla ricerca
del suo elemento; l'imbarcazione si adagiò in acqua e
dopo una piccola sbandata si stabilizzò. Gli uomini la
accostarono al molo e la ormeggiarono, assicurandola
con cura alle bitte. L'invasatura che la sosteneva fu
recuperata dal trattore e lentamente trascinata verso il
capannone. Gli uomini rimasero per qualche secondo
in silenzio a fissare la pilotina galleggiare nell'acqua
della darsena, poi come in ogni varo che si rispetti,
anche questo fu festeggiato e applaudito.
La nebbia si diradò e, riempiti i serbatoi della pilotina,
Giovanni e Gennaro si diressero verso l'uscita del
porto per provare che nella barca tutto fosse in ordine.
Il vento proveniente da Ovest iniziava a formare delle
creste bianche, il mare sembrava fosse coperto da migliaia
di gabbiani. La barca mentre avanzava alzava
spruzzi d'acqua che si polverizzavano sulla cabina, i
potenti motori giravano a ritmo regolare, senza apparente
sforzo la spingevano contro le onde.
- Ci sarà una mareggiata da Ponente, disse Gennaro
- Non ci voleva, dovremo ritardare la messa in opera
dei pontili.
La pilotina si comportava bene, affrontava le lunghe
onde rimanendo stabile, Gennaro dava leggermente
gas mentre saliva sull'enorme massa d'acqua che gli
si parava davanti, contando ad alta voce il tempo che
occorreva a superarla:
- Uno, due, tre … forse è il caso di rientrare, il mare si
sta facendo un po' troppo agitato.
Giovanni chiese a Gennaro:
- Da quanti anni sei qui?
- Quindici.
- Hai la famiglia con te?
- Sì, sono sposato con Gianna, una ragazza che ho conosciuto
al porto.
- Hai dei figli?
- No, ne avremmo voluti, ma non arrivano. Tu come
sei capitato da queste parti?
Giovanni sospirò.
- È una lunga storia, magari una sera davanti a una
birra te la racconto.
Avendo verificato che tutto funzionava alla perfezione,
Gennaro mise la prua verso il porto. Ormeggiata
la pilotina i due si diressero al capannone. Il lavoro
procedeva speditamente. Giovanni chiamò Carlo, uno
degli uomini più esperti:
- Io ho un impegno, pensa tu a quello che serve per
andare avanti, questa sera mi farai il resoconto della
giornata.
Andò via salutando in fretta tutti gli uomini, si avviò
verso l'uscita del porto. Erano tre anni che non tornava
a casa, il lavoro lo impegnava ogni ora del giorno e
nelle rare pause, sempre più spesso lo assaliva la nostalgia.
Aveva avuto delle brevi storie con ragazze del posto, ma il
suo pensiero era Marina, non riusciva a dimenticarla.

Mentre Giovanni era lontano alle prese con una nuova vita,
a Marina mancavano pochi esami alla laurea. Da circa
un anno usciva con Luca, un ragazzo conosciuto
all'università. La droga non faceva più parte della sua
vita, anche se la sera, quando tutto sembrava tacere,
prima di addormentarsi spesso le ritornavano alla
mente i terribili momenti passati con Gino: le nottate
infinite semi addormentata nell'auto, la puzza di
vomito sui vestiti, le volte che si erano prostituiti per
procurarsi l'eroina e poi il periodo della disintossicazione,
i medici del Sert, i crampi, la nausea, la paura di non farcela,
gli sguardi di compassione dei vicini, i sorrisetti quando i suoi
occhi s'incrociavano con i loro, le piccole frasi sbrigative a bassa voce.
Sapeva che quel periodo lo avrebbe avuto per sempre con lei, nessuno
sarebbe stato in grado di cancellarlo. Lo intuiva ogni
volta che leggeva sui quotidiani delle decine di giovani
della sua età che non c'erano più, trovati morti nei bagni
delle stazioni, dei bar, sulle panchine del parco, in un
misto di orina e vomito, con il laccio emostatico ancora
stretto al braccio. La tristezza aumentava, quando
alcuni di questi nomi le erano noti, essendo di ragazzi
che aveva frequentato al liceo.


Notte magica
La storia tra Marina e Luca era una di quelle dove
il sesso non era troppo importante, ma un accessorio
secondario. I due parlavano a lungo del loro futuro;
le ore della notte passavano in fretta, seduti sulle sedie
del bar che Mario lasciava fuori anche quando era chiuso,
parlavano di politica e di come avrebbero cambiato il mondo.
Una sera Marina, dopo averlo baciato, gli confidò di amare
ancora Giovanni. Luca aveva accettato quella situazione,
pensando che con il tempo lei lo avrebbe dimenticato. Le lezioni
all'università si susseguirono con regolarità e così gli
esami, e la relazione con Luca proseguiva senza troppi
problemi, anche se senza passione.
Una sera, subito dopo cena:
- Volete sapere una notizia? - chiese Diego.
- Dicci questa novità - rispose Marina.
- Vi ricordate Giuseppe, quello che veniva in vacanza
da noi l'estate? Quello con il motorino che era presente
quando abbiamo fatto arrestare il maniaco.
- Si ora mi viene in mente, cosa gli è successo?
- Nulla, lui lavora come portuale a Civitavecchia.
- Allora qual è la notizia? - Incalzò Marina.
- Mi ha detto che ha incontrato Giovanni.
Marina, che fino ad allora aveva seguito distrattamente
il fratello, drizzò il capo e chiese:
- Dove?
- Negli uffici del porto, mentre depositava delle carte
inerenti a lavori d'ampliamento, previsti per l'anno
prossimo.
Marina non nascose l'emozione alle parole del fratello.
Diego fece una breve pausa poi riprese a parlare.
- Lui non l'aveva riconosciuto fino a quando gli ha ricordato
i fatti di quella famosa sera. Poi l'ha salutato
in fretta perché impegnato con i dirigenti del porto.
Marina, si chiuse nel silenzio, poi saluto i presenti e
andò in camera sua. Distesa sul letto pensava a Giovanni:
mi avrà dimenticato? Come sarà cambiato? Avrà
una donna che lo ama? Perché non è tornato? Aveva
detto che lo avrebbe fatto. Le domande non finivano
mai; restò nel dormiveglia per tutta la notte, agitandosi
nel letto, non riusciva a spengere il cervello. Un
film si ripeteva senza sosta nella sua mente, la riportò indietro
nel tempo, ai momenti passati al fiume con
lui, poi alla spiaggia, rivisse il giorno degli omicidi di
Antonio e Marco, la fuga verso il fiume, le parole dette
l'ultimo giorno rimbombavano nella stanza: Il tempo
cambia gli uomini, come le stagioni gli alberi.
Ogni giorno, dopo la notizia, Marina si recava al fiume
e stava lì per ore a guardare il pioppeto poi, giunta
la sera, s'incamminava verso casa, sapendo in cuor
suo che sarebbe tornata in quel posto, e così fece per
tutto il mese. Le lezioni erano sospese per le vacanze,
doveva comunque preparare un esame per Ottobre.
Luca veniva ogni giorno a trovarla e a studiare con lei,
poi una sera arrivò piuttosto agitato, chiese di lei alla
madre:
- Dov'è Marina?
- In camera sua.
- Le dovrei parlare.
- Vai, Luca, sta studiando.
Marina udendo i due parlare, aprì la porta:
- Che succede?
- Mi ha fermato un ragazzo della nostra età, mi ha
chiesto di te.
- Ti ha detto chi era?
- Si è presentato come Giovanni.
Lei si lasciò cadere pesantemente sulla sedia della cucina.
- Ha voluto sapere cosa ero io per te.
- Tu cosa gli hai detto?
Chiese tremante Marina.
- La verità.
- Quale?
- Che io ti amo, ma che per te sono solo un buon amico.
Marina non riusciva a fermare le mani mentre Luca parlava,
prese un libro dal mobile e lo posò sul tavolo, poi si sedette
picchiettando le dita sulla sedia e disse:- continua.
- Gli ho detto che tu non mi ami perché ami ancora
lui.
- E dopo?
- Che ho pregato fino all'ultimo che non tornasse, con
la speranza che tu un giorno tu avresti amato me.
Lei teneramente lo abbracciò e con un filo di voce gli
disse:
- Grazie.
Marina aprì la porta e guardò andare via Luca, lo seguì
con lo sguardo fino a quando ebbe girato l'angolo
della chiesa, poi scrutò nel buio per vedere se Giovanni
fosse magari seduto al bar di Mario. Rimase così
per alcuni minuti, poi non vedendo nessuno chiuse
la porta, pensando: domani andrò al fiume. Luca uscì
dalla sua vita in punta di piedi con delicatezza, così
come vi era entrato.
Il giorno dopo seduta sull'argine, con un libro in mano,
Marina guardava le coppie di germani, seguiti dai piccoli
appena nati, attraversare il fiume in fila, fino alle cannucce
della riva opposta. Ogni tanto una lucertola si affacciava
dall'erba per rubacchiare le briciole cadute dal
panino, una leggera brezza faceva cantare le foglie dei
pioppi, i pescatori di anguille ritiravano le nasse poste
la sera prima, scaricando il lucente bottino in grandi
barili. Stanca si addormentò al riparo di un olivastro;
al suo risveglio era quasi notte, raccolse il libro e si
avviò verso casa tagliando attraverso i campi di grano
mietuto: quello che restava della mietitura era una distesa
di gambi tagliati a circa dieci centimetri da terra.
Lei era abile a camminarci sopra lo faceva da quando
era bambina: alzava le punte degli zoccoli, poi strusciandoli,
le schiacciava creando un piccolo sentiero
per ogni piede. Arrivata nei pressi di casa, all'inizio
del vialetto, vide un uomo appoggiato al cancello che
guardava nel giardino. Rallentando il passo riconobbe
Giovanni. Nel petto il cuore prese a battere forte, lo
sentiva pulsare all'interno delle orecchie, come i tamburi
della banda del comune, respirava come se avesse
fatto tutto il percorso dal fiume di corsa. Si fermò a
qualche metro da lui, poi lentamente si avvicinò, mentre
lui si girava. Marina con un filo di voce gli chiese:
- Che fai da queste parti?
Poi si fermò, fece una breve pausa, come per prendere
fiato e, con una tonalità più alta incalzò:
- Cerchi guai?
Poi riprese a camminare dirigendosi verso di lui più
decisa.
- Le cose sono cambiate, non lo so tu, ma qui ora sono
diverse!.
Lui la ascoltava in silenzio; Marina, arrivata a circa un
metro di distanza, lo guardò fisso negli occhi e poi lo
colpì con un pugno nel petto, poi lo fece nuovamente,
più volte, lui non reagiva ai colpi ricevuti ma la abbracciò
delicatamente dicendole:
- Marina calmati.
Lei divincolandosi, lo guardò e scoppiò a piangere:
- Tu non sai quante cose sono accadute!
Lui la abbracciò ancora e le disse:
- Non abbastanza da farmi stare lontano da te per
sempre.
- Ho passato momenti terribili in questi anni.
- Tu non sei diversa da allora.
Poi, prendendole la mano le chiese di seguirlo. Passarono
davanti alla chiesa, attraversarono la piazza, superarono
il bar, dirigendosi verso la spiaggia. La luna
brillava, le stelle punteggiavano un cielo meraviglioso.
Arrivarono nel punto dove per la prima volta si
erano baciati. Lei gli volle raccontare tutto quello che
era accaduto in quegli anni, lui la ascoltò, tenendola
stretta tra le braccia quasi cullandola, poi le disse:
- Non dovevo andare via,se puoi, perdonami.
Poi le disse del suo lavoro e dei nuovi amici, le parlò
di Saturno di sua moglie Felicitas, delle due gemelle,
del signor Franco e quante volte, quando era solo in
acqua, l'avesse pensata.
- Ora però, sono qui con te, sono tornato come ti avevo
promesso, non sono cambiato.
Segui una lunga pausa e stringendola delicatamente,
le sussurrò:- Ti amo come allora.
Mentre lei esausta si accovacciava tra le sue braccia.
La campana della chiesa, don …
Il riflesso, al tramonto, adagiava
In acqua, la luce di mille stelle.
Ogni timore taceva sulla spiaggia
l'anima pigra fondeva con la pelle
e cuore e onda, sulla battigia,
danzavano sulle note più belle
azzurri come il mare,alla luna brillavano
i suoi occhi si crogiolavano in sogni d'amore
Nella notte, si udivano i rintocchi
la risacca li confondeva con il cuore
L'armonia non voleva più ritocchi
Le stelle continuavano a volare
navigando via i pensieri foschi,
velieri con le vele al maestrale.

Fine
Questa breve storia, la voglio
dedicare a tutti quelli che nonostante
tutto non si sono mai arresi. E' frutto
della fantasia dell'autore ed eventuali
somiglianze a fatti realmente accaduti
sono da ritenersi del tutto casuali.



Ho conosciuto un uomo nel parco, vive su una panchina con suoi cani.
Stringi i cani! Stringo le cose da togliere e quelle da tenere, ma io nella mia vita, non ho preso niente da togliere, era tutto da tenere, se le tolgo, dopo, non le ho più, di sicuro in seguito mi mancheranno e questo non è bene.

Qualcosa però mi toglie il respiro, "è questa cravatta che stringe", questo l'ho preso a Gallipoli, non lo tolgo gli cambio posto, per la miseria esce fumo dal forno, c'è puzza di bruciato l'avessi tolto prima l'arrosto, è tutto andato, è vero che non c'è fumo senza arrosto, ma così è troppo.

Urla il vicino:" ha segnato la Roma", urla, "ma quello perché lo fa giocare"? -Ma lo potrebbe togliere dal campo e invece se lo tiene- tanto un altro lo dovrebbe mettere, togliere mettere. cambia non cambia, tanto se tolgo qualcosa, poi ne metto un altra, non rimane mai per molto tempo uno spazio libero, sarebbe uno spreco, ti ho detto stringi i cani! Porco cane perché devo stringere i cani?

Tolgo un piede, metto l'altro, uno per volta senza perdere l'equilibrio, l'equilibrio mentale, nel parlare, anche nel mangiare, metto una cosa e tolgo un altra, nel parlare, se non le scrivi, le parole non prendono molto spazio, nella mente si sostituiscono in fretta "si sa, loro volano".

Stringi i cani! Ancora con questi cani, anche loro adesso devo togliere? Credo proprio che non si può fare, stringo i cani d'accordo.
Una volta stretti i cani, stringo la cinta, i denti, la fascetta, la curva, stringo, stringo, faccio spazio nella stanza, nell'auto, nella vita, prego si accomodi c'è ancora posto per qualche cosa, per una cuccia, non troppo stretta però, stringo io i cani, "porco cane è proprio una fissazione questi cani", poi sbavano e perdono il pelo, ti adorano incondizionatamente è un buon affare, lo stringo e non me lo faccio scappare.

Adesso questa cartella la elimino, faccio spazio nel disco, aspetta vediamo cosa c'è dentro, ma guarda è bellissimo! Lo tengo magari stringo un poco e la faccio entrare in un'altra cartella, stringo, stringo, voglio vedere come va a finire.

Stringi i cani ti ho detto!

Adesso ho altro da pensare, devo uscire e ho i jeans da stringere, sai fanno la coscia lunga che non guasta, stringi, stringi, qui non rimane niente, stringo le sedie, così magari, gomito, gomito, ci stiamo tutti, il Sabato, la Domenica e tutti i giorni … le vacanze?

Portiamo il materasso da campeggio" sai quello gonfiabile" ben piegato stretto, stretto, entra nel cofano, anche se è piccolo, "caspiterina" i cani! Dove metto i cani! Dai, ci stringiamo un poco.

Signore, si sente bene? "Porco cane era un sogno". Si grazie, anzi non molto, questo parco è un poco stretto e la panchina è scomoda, "senta piuttosto, ha visto dei cani"?

No non li ho visti.

Lo sapevo, aveva ragione quello, dovevo stringere i cani.

Stringi, stringi, si è fatto notte e sono ancora solo come un cane, mi è rimasto da tenere stretta la panchina, fino a domani mattina.
Ei! Ora mi hai svegliato, rimani un poco con me, magari mi dai una mano a cercare i cani, magari mi fai un poco di compagnia, ti posso raccontare una storia, ci stringiamo, ti faccio posto, mettiti seduto.

Prendi la busta sotto la panchina, dentro ci sono delle fotografie.

Io abitavo in questa bella zona, lavoravo proprio qui, vedi questo negozio?

Ecco questo per tanti anni è stato un punto di riferimento per quelli del quartiere, qui si parlava di cose semplici, problemi famigliari, successi personali, di figli, nipoti, dei vicini fortunati e di quelli che lo erano meno, certo l'edicola era come un confessionale laico, un portierato alla massima potenza, si sapeva un poco di tutti, la modernità è proprio una bella trovata, ogni epoca l'ha avuta, ma quella di oggi la trovo un poco meno a misura d'uomo, "la globalizzazione"che parolone.

Che dici i cani torneranno da soli?

E poi le banche che non ti aspettano vanno di fretta, le rate del mutuo, ingiunzioni di pagamento, stringi, stringi, sono qui su una panchina troppo stretta anche per i cani, che come sai sono scappati.

Ecco qui sono io bambino, vivevo ai margini di una cittadina balneare, come tra campagna e mare, don, don … i marmocchi con i pantaloni corti si avviavano lungo la strada che portava alla chiesa per la messa della mattina, lungo la strada c'era una fontana, a Dicembre sembrava una statua di ghiaccio, sospesa nel gelo, mentre stonata la campana chiamava a raccolta, lei brillava in attesa di essere liberata.

Vedi questo è Massimo, con il carro sul viottolo della fattoria, avanzava seduto annoiato con la gamba che ciondolava e la paglia fumante che sborda, gialla come l'oro, fumava il sigaro con ampie boccate, sorrideva e salutava in mezzo a una cortina di fumo, come quello dei camini delle case che sono lungo la via, qualche randagio ai lati dell'allegra processione, scodinzola in cerca di un pezzo di pane.

Questo è Il prete all'entrata della chiesa con ampi gesti invitava a fare in fretta, la funzione deve iniziare, io sono il chierichetto e devo aiutarlo a servire la messa.

"O Signore di soltanto una parola e io sarò salvato"

Vedi questo è Carlo, quelli erano bei tempi, aveva una grande passione, " il calcio balilla" io e l'amico Carlo, eravamo imbattibili, giriamo per tutti i bar a sfidare coppie fortissime e vinciamo, siamo quasi famosi per il litorale, poi un giorno Carlo parte per il militare, non l'ho visto più il Carlo allegro che conoscevo,"dicono che sia crollato" non mi riconosce e chiede sigarette a tutti avanti e indietro per lungomare, sempre il solito cappotto inverno, estate, mi sembra impossibile ma lui è da un'altra parte, non sembra ne felice ne triste, è passato un tempo infinito da allora.

Eccoli sono tornati i cani, guarda come sono felici di trovarmi ancora qui.

Sai mi sono accasato in questo parco perché la Caritas non li tiene i cani, come le chiese e poi alle otto e trenta ti sbatte fuori, non fa differenza se piove o nevica, poi troppo lingue che non conosco, in mezzo a tanta gente mi sento globalizzato nella solitudine.

Se vuoi, sono qui con i cani tutti i giorni, apriremo la busta e per ogni fotografia ti racconterò una storia, di questo progresso che per molti è un regresso.


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