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      GremboIl grembo
 immenso ammassa
 assiomi
 e canti storti
 non vaglia,
 non discerne
 il pane dall’argilla,
 né tinge, non indora
 la verità che impera.
 
 Oceano immenso
 accetta
 tributo d’ogni letto,
 sia giallo,
 obliante o sacro
 fagocita e confonde.
 
 Il grembo
 immenso ammassa,
 in antropico svelare
 non sarà, nonè,
 ma sabbia
 è eterna culla
 del suo mare.
 
       
              
              
         
      
       
      PrimavereTra fronde rinate,
 gemmate
 preziose,
 rivive il mio brio
 frusciante di fiori.
 Sulla coda del gelo
 raggianti, lucenti
 mille stelle filanti
 gioiscono il cielo.
 Pastellano l’aria
 caleidoscopiche
 emozioni.
 Lassù pigola il ramo;
 zufola, danza,
 ammanta il vento
 nel ventre tremulo
 di un magnifico sospiro,
 e dilatata lento,
 lento,
 è lento il tempo;
 e in questo tempo, lesto
 io sono.
 
       
              
              
         
      
       
      Parole all’amoreVorrei che la mia fantasia
 volando più in alto
 giungesse al tuo spirito,
 cogliendo
 nella sua piena parabola
 l’intimo senso
 dell’accettare,
 spartire,
 aderire,
 afferrare, gioiosi di noi
 le fragranze del giorno.
 
 A te dono il mio tempo,
 i miei pensieri.
 La mia poesia.
 
 Ti prego, percorrimi
 o anticipami, se non
 procediamo per mano.
 Attendimi in cima,
 se scaliamo il mondo
 da versanti differenti;
 e garriamo insieme
 al vento del momento
 ben stretti al pennone
 del sogno
 
 Immensi monumenti
 l’umiltà innalza
 nell’anima.
 
       
              
              
         
      
       
      In ogni sensoOdo
 profumi
 di tattili
 tinte.
 Assaporo così,
 umano consenso,
 tutto il mio
 non essere oblio
 
       
              
              
         
      
       
      
      Quando arriveraiUmide piume e sigarette
 d’attese sfumate, vedrai.
 Io che bevo,
 ma non riesco scordare
 quanto la sete sa apparire
 rimbombo di grotta
 Quando arriverai, sulla mia soglia
 cuscini sudati
 velanti frangenti di fumo
 sul mare di Bacco;
 labile scia d’un oblio
 
 Ah, la notte, quanto
 è difficile vivere il giorno!
 Il cuore balbetta
 lo sguardo mio al cielo
 in dolce, perenne attesa
 e sotto
 un neonato pezzo di prato
 da svezzare correndo.
 
 Quando arriverai, chissà,
 scorgerai, errabondo
 il mio consueto cuore
 ricucire rotte
 lacerate in alto mare;
 forse un pensiero d’umore salino,
 o un coacervo d’idee
 in brandelli ancora nebbiosi;
 non so. Non so neppure
 se mi troverai.
 
 Non so neppure
 se mi ritroverò,
 dentro i tuoi occhi
 fondali melmosi,
 avvinto e perso come sono
 nella kasba assassina
 di questo mesto gioco
 dell’oca giuliva;
 che ogni casella che avanzo
 è un lancio di dadi
 in meno dal via.
 
       
              
              
         
      
       
      Vita miaVento pungente
 sul dorso della strada.
 Vola il biglietto
 dell’ultimo tram perso,
 volteggia
 intona canti stanchi
 e danza
 tra le chiome sbiadite
 di scordanti radici.
 
 E tu,
 occhi amari
 che mi domandi piano,
 se ancora
 ti afferro la mano.
 
 Alita il gelo,
 qualche fiocco cade,
 presagio solitario
 in fondo al cuore.
 Passano risate
 e un cane,
 la coda esclamativa,
 fiuta e rifiuta
 tracce vaghe;
 i miei pensieri.
 
 Ed io,
 occhi sfatti,
 che su vetrine intrise
 di borse, impronte
 e lustrini di Natale mi scorgo
 e mi domando invano
 se ancora
 so prendermi per mano.
 
       
              
              
         
      
       
      Il peso(Per Ale)
 
 Ieri ho provato a dare
 un valore all’amicizia.
 
 Sono andato dall’Orefice
 con un pensiero tuo;
 ma il bilancino ad ogni prova
 s’inchinava, impotente.
 Ho colto tra le mani un tuo sorriso
 e l’ho portato al Poeta,
 Lui, gioioso l’ha osservato:
 “Questaè già poesia!”
 Allora, ho domandato
 all’ Astronomo
 se con le sue potenti lenti
 avrebbe letto
 fino in fondo al tuo cuore;
 mi ha guardato
 stupito e inerme,
 pareva un bimbo
 che a bocca aperta,
 contempla la Luna.
 
 Mi sono seduto allora
 lungo il fiume,
 chiedendomi
 se esisteva soluzione,
 quando,
 come un soffio,
 ti sei accostata a me.
 E mentre ponevi
 tenue una piuma
 sul mio palmo della mano
 ho percepito il tuo pensiero:
 “Ne cogli il peso?”
 Sorridendo ti sei voltata
 e con ali d’Angelo,
 hai spiccato il volo,
 portando via i miei dubbi.
 
 Così mi sono alzato,
 ed ho ripreso grato
 la marcia della vita,
 col passo che quasi
 non conosceva impronta.
 
 Ora so il valore immenso,
 del peso lieve dell’amicizia.
 
       
              
              
         
      
       
      Solo splendidi sorrisiSolo standocene soli
 si sa,
 si scoprono sentieri solari
 sprizzanti scintille smaniose
 sulle strabilianti
 singolari storie
 sinuosamente sciorinate
 su stolidi senni.
 Spesso, sbagliando
 svicoliamo spediti,
 scegliendo sbandate, stupide
 strade stantie,
 serpeggianti strampalati
 spazi senza senso.
 Se sulla solitaria
 spiaggia segreta
 stacciassimo seriamente
 stucchevoli silenzi,
 scartando stupidi
 stridenti sermoni,
 spiazzeremmo scure sere,
 sparpagliando
 sicure serene sirene,
 su straordinari spazi
 straboccanti
 soavi sentimenti.
 
 Sventoliamo sempre
 sogni sinceri,
 scartando
 stupide spalle strette,
 sfoggiando
 supercalifragilisticamente,
 spensierati, schietti
 splendidi sorrisi.
 
       
              
              
         
      
       
      
    Canto alla NotteNel tuo baccello di stelle
 ad uno ad uno
 ho visto nascere
 fotogrammi fulgenti
 d’eterni sogni incantatori.
 Nell’incertezza
 delle tue braccia
 rannicchiandomi ho tremato,
 nudo cuore smarrito,
 levigato
 da ogni callo di realtà.
 
 Ho invidiato la morte
 col suo assordante,
 infinito mantello,
 amato il filo d’erba
 che commuove l’alba
 con muta rugiada,
 e ho abitato l’istante,
 mattone del tutto
 che figura l’essere.
 Ma questo inesorabile
 migrar di comete,
 alla perenne ricerca
 d’altri natali, Notte,
 scaglia immani,
 astronomici silenzi
 sulle mie labbra avvinghiate,
 inabissando in mari diversi
 l’infinitesimale mio
 cercar poesia.
 
       
              
              
         
      
       
     
      
              
              
         
      
       
      DissolvenzeDardeggiano occhi,
 tramontano sguardi
 l’anima intona
 una triste canzone.
 Questa notte il poeta,
 sul foglio, nonè riuscito
 a rimare l’orgoglio.
 Strali di penne
 danzano al vento
 e salticchiano, buffi
 pensieri pinguini.
 
 Io urlo il tuo nome
 sul nulla
 ma il bisillabo cozza,
 si spezza tra gli incisivi.
 Verticale,
 imbizzarrito l’amore
 sfida tutti
 i recinti del cosmo.
 
 Questa notte
 di giorni smarriti
 strappo bende a illusioni,
 leggo loro la mano,
 ne rapisco il destino
 e l’affido all’animo pio
 del boia di cuori.
 
       
              
              
         
      
       
      
      
              
              
         
      
       
    ChiaroriUn giorno
 la Notte,
 attingendo
 tra i mille
 tuoi soli gentili
 mi ha prestato la vista.
 
 è piena Luna
 il tuo esserci, ed io
 abbacinato e grato,
 più non conosco il buio.
 
       
              
              
         
      
       
      
      Bacini mariniIl volo delle mosche mi racconta
 di un canto di volubili chimere,
 gettate sul tragitto ad asciugare
 al sole d’impossibili passioni.
 
 Il tempo vacillando si svapora
 nel limbo illuminato, e le falene
 satelliti scromati, evanescenti
 rimbalzano nel cosmo quotidiano
 
 …Un bacio, solo un bacio di mattina
 capello carezzato sulla pelle,
 fortezza alla ricerca della rupe
 sparviero senza cielo da rigare
 
 …Un bacio, solo un bacio di sovrana
 radenti voli sulle gote chiare,
 distese di profumi rincasati
 nel nido di ricordi rifiutati.
 
 Di un mendico dimentico d’affetti
 rivela veleggiando la mia rotta,
 scoprendone i vascelli già varati
 relitti e meri riti derelitti.
 
 E un bacio, un bacio, solo, in alto mare
 ricerca colombesche rotte indiane
 sognando voli cosmici spaziare
 fra mosche d’una mano chiusa a pugno
 
  
       
              
              
         
      
Pianto d’AutunnoGuarda, mio orgoglio
 puoi vedermi tutto,
 nudo senza scorza,
 abbracciato alla foglia
 del pudore perduto,
 sul tappeto rosso
 di fronde di lacrime
 secche .
 Come pianta d'Autunno
 ho gettano ai miei piedi
 le stagioni sfogliate.
 Riarso di linfa, scricchiola
 il m’ama non m’ama,
 che mi passeggia
 sul petto scavato
 da cicatrici fanciulle.
 Ora più non mi sfiora
 il corallino canto
 del seme di Maggio.
 
 Laggiù condensata,
 tra latte di stelle
 e un mondo naif,
 òra e brilla la Luna il mare.
 È pace di risacca
 nella terra distesa al sale
 che pare il buio non sia.
 Pare che, ritrosa la luce
 sbirci bambina il mondo,
 attendendo tremula l’alba,
 dietro i luccicanti fori
 che ci paiono stelle.
 
 Ma ancora piove,
 piove
 e spiovono ancora
 minuti granelli di tempo
 che tutto pervadono
 e madidi, portano a te.
 Tumida nube, io vivo
 il volere del vento,
 in questa notte che tace.
 In questa notte silenzio.
 
 China gli occhi
 e incatena i denti l’intelletto:
 legato all’albero maestro,
 allievo del mio pianto,
 veleggio muto
 il libeccio del dolore.
 Regina di quadriMa re di quale
 sterile scettro
 sei,
 se ancora vai
 chiedendo
 al mondo
 qualè mai
 l’oscura nobiltà
 di una lacrima sola,
 che pur
 non agghindando
 stole ermelline,
 pur non fluendo
 sangue cobalto,
 e pur senza ancelle
 a sostenere
 il madido strascico,
 incoroniamo
 sovrana
 d’emozioni?
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
-Senza titolo-(Olio su tela 140x200
 Biella, 2010)
 
 Così ruvida,è dura
 la scorza del giorno
 e arida
 di risa divisa da rivi,
 d’arrivi velata.
 Io caparbio tento.
 Più ruvido e duro
 stento ma provo
 a dipingere ancora.
 
 E cerco d’inventare
 diventando fiaba
 mormorio di cascata
 tremulo trillo di nido;
 coreografia leggera
 di bianca neve che torna.
 Aquila e vento,
 costato e sperone.
 Bacio e risveglio
 del mio parlare e
 sentirmi sorpreso
 
 Già i giorni
 appassiscono
 come i fiori più rari.
 Già mi sento così,
 come quando appassiscono
 i fiori più rari;
 perché anche loro
 avvizziscono,
 tenui come il grembo
 che li ha cullati
 lattiginosi, come il tempo
 che li ha svezzati,
 - Flv./ 2010-
 piovigginando
 come esili istanti d’Inverno,
 sulla tristezza
 dei miei sospiri.
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
Ab hoc et ab hac(Politicamente corretto )
 
 Preferirei non proferire.
 Mi spiace, non so che dire.
 Potrei concepire un concetto,
 un’americanata, una cineseria,
 parlarti del caffè schiumato
 o dire di questo, di quello,
 del bianco, del giallo.
 Che dici? Ah, si, del rosso, del nero.
 Ricordarti quella volta o raccontarti
 ciò che penso, del singolo, dei tanti
 di lui, di lei, di tutti quanti
 ma, credimi, non sarei sincero:
 non sarebbe fiato di cuore,
 ma solo un farcire istanti d’impasse
 e il nostro nutrirsi non sarebbe satollo,
 poiché questo, quello, il bianco il giallo
 lui, lei, loro, il rosso il nero
 il ricordo, il mio pensiero
 il singolo ed il coro, son argomenti
 triti , stratriti e ritrattati
 tremilatrecentotrentatré volte;
 quindi,
 piuttosto che ripetermi
 dare numeri o dire cose vacue,
 sciocche, senza senso
 preferisco non fiatare.
 Guarda, mi spiace non so che dire.
 Non ti saprei suggerire.
 
 Ma, or or che mi sovviene,
 a ben pensare,
 potrei dirti del pepe, del sale
 dell’acqua minerale…
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
Il monello nella fotoImmerso nel gorgo,
 dell’apnea del tempo,
 ritrovo pugni finti, sorridenti
 occhi e denti scordati
 in bianco e nero
 con tanto di sfondo
 di fili stesi
 ingobbiti da zuppe canotte,
 sogni appesi a nubi,
 aggrappate,
 sciorinate al levante da dita,
 da gesti ormai persi.
 
 Gran pavese di un’età
 sventolante d’avvenire.
 
 Si annodano gli attimi ora,
 ma l’ieri scorreva
 così dolce nel mio domani,
 che ho corso in lungo e largo
 i verdi rivoli di Primavera,
 senza mai inzupparmi
 in questa rorida nostalgia,
 che pure dirompe,
 sciogliendo tutto il suo
 spensierare gaio in stille
 ai miei piedi.
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
Della vita(una goccia)
 
 Si scaglia all’ignoto,
 il frutto di nembo
 tra folgori e rombi
 s’avventa, galoppa.
 
 Guizzando nel cielo
 con esile scia,
 su ciottoli e tralci
 spiovendo s’acquieta
 
 Scivola, vìola
 anfratti celati,
 svelando l’essenza
 del cuore del mondo.
 
 Qui stringe, congiunge
 le mille sorelle,
 in fragile istante
 d’eterno riposo
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
Tarpati voliE’ sola la mia voce,
 su mari immoti, amari
 fra celie e folli soli
 e cieli di spergiuri
 
 Tra Lune butterate,
 crateri dissennati
 d’ampolle ed ippogrifi,
 è solo il mio richiamo
 
 Prillando i toni danzano
 giocando a frantumarsi
 in scontri di neuroni,
 e canyon di sinapsi.
 
 E solo il mio rimpianto
 sa dire di regioni
 di desolate terre
 in cerca d’altri lidi,
 in cerca di sorgenti
 che asciughino l’arsura
 di verbi acuminati
 che ruzzolano in gola.
 
 E’ sola la mia voce,
 
 accoccolata a lato
 di questo capo verso,
 abbarbicata all’ala
 del volersi spiegare
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
Tra mitiConfinano i miei giorni
 con la voglia di scostare,
 il telo nero della notte
 per scoprire se le stelle, poi
 galleggiano davvero.
 Accarezzo i vecchi giorni
 come fossero le gote
 di sfiniti cuori morsi
 e rimorsi da rimorsi.
 Affronto ogni risveglio
 con lo sguardo della talpa
 che intuisce là un lucore
 ma non ne coglie appieno il nesso;
 e m’ammanto di mistero
 per nascondermi nell’ombra
 con la voglia immacolata
 di una vita tenebrosa.
 Così volo,
 dietro il telo della notte
 a imbrogliare un po’ le stelle.
 Volo,
 tra le quinte della notte
 per appendere altri soli;
 per illudermi e pensare
 che galleggiano davvero.
 Qui punteggio, a piacimento
 qualche nuovo firmamento;
 stringo in pugno tutti i quanti
 poi li getto come dadi
 per scommettere sul cosmo,
 azzardare aberrazioni.
 Infine fuso,
 in questo cronotopo
 sposo solchi di comete,
 intaglio un arco al Sagittario
 e m’acquerello mio fondale.
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
Anche in cieloSul quadrante del giorno
 lancette in cemento
 ti hanno rapita,
 e nel vestibolo d’oggi
 è sfumato, il tic tac
 del tuo cuore.
 
 Mi sono dipinto ed appeso
 tra i quadri screziati
 della tua mente,
 per gustare trepido
 l’attesa d’un tuo sguardo.
 
 Dove mai disegnare
 il tuo volto,
 se non ovunque?
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
Nella buferaErrando il crepuscolo bigio
 per mano lividi a svernare,
 sprofondo afosi pensieri
 nel molle nevischio;
 tormentata, pallida vela a pois.
 
 Pigramente battezzato
 dal ballo arruffato
 di fiocchi ubriachi, intirizzisco
 meditando sul bianco
 che cova tra i miei capelli.
 
 Con passo sospeso
 scosto greve il mio cielo,
 così radente il lampione,
 e sulla coltre dormiente
 in un declivio del mondo
 ritrovo sbiaditi i righi
 di un vecchio pentagramma.
 
 Soffici note echeggiano,
 ferendo l’oblio
 con mai dimenticati nostri canti;
 e ancora ti cammino.
 Accanto.
 Troppo distante amore.
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
Nel mio scrignoHo percorso tremando giorni
 di tormentati monti.
 Su e giù a violare vette,
 avanzando incerto sull’orlo dell’essere.
 Su e giù a non distinguere
 le mie orme ghiacciate;
 esiliato da freddi concetti,
 arabescati frantumi di confuse sinestesie,
 stupidamente appagato
 dall’ostinazione di lancette esistenziali.
 Sfinito anche nel sogno.
 Finché ti ho sentita
 sfiorarmi piano le ferite nel sonno,
 e tutta una lunga notte
 parlare alla mia anima
 colorando,
 cantando,carezzandole ricordi,
 lenendo stanche piaghe.
 Le hai mostrato sguardi,
 sorrisi
 orizzonti stupendi tra monti
 e l’aurora, fatata creatura
 ha strappato al buio colori
 e ha fatto la notte una culla antica
 atavico scrigno incantato
 dove ora adagio tenero il domani
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
La domatrice(A una vecchia bandiera )
 
 Mi acciambello,
 chino il capo, ora
 che mi trovo tutto qui,
 sullo sgabello. Ora
 che riconosco l’avidità
 con la quale ho scritto,
 spedito
 pagine d’amore.
 Lei, cocciuta via scalza
 dove orme interiori
 mescolano il mio artiglio
 al suo sventolare.
 Mai, avrei creduto
 di divenire felino
 tanto domestico.
 
 Ma chi l’ha detto
 che le tigri senza fame
 siano così fiere?
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
Il donoCon infinita pazienza
 l’amore,
 ha amalgamato
 vorticose babbucce
 a molli petali di dita,
 abbarbicandoli
 ai teneri singhiozzi
 di un seno fragrante.
 Qua e là
 poggiano morbidi
 i sospiri
 e piano tace l’occhio
 dell’avida prima sete,
 stemperando
 nei miei sguardi nudi,
 in me
 umidi veli
 d’arcana dolcezza
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
Sinistri RumoriEccomi
 tempo stempiato,
 che mi passi sul capo
 come fossi soltanto
 un croccante lombrico.
 Sono onirico chicco
 sotto il tuo piede,
 un cartoccio rigonfio
 di fuggevole sbuffo.
 
 Ma prima d’effondere
 l’ultima goccia di fiato,
 d’inaridire
 la mia stilla di luce
 morderò questa vita,
 mi farò danzatore.
 All’ultimo passo
 del balletto spietato.
 
 Che altro non sono
 tra tasche e salotti
 tra campi ed asfalti,
 gli scricchi che ascolto.
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
Indocili i pensieriNel filare di ragno
 d’un istante vischioso,
 penzolante, pigro
 s’una diafana attesa
 (universale erede
 già compiuto, nel plastico
 mutare del tempo)
 rivivo il riverbero molle
 di confinati incontri,
 con infiniti me stesso.
 
 Domestici,
 i pensieri indolenti
 dei miei viali ombreggiati
 rifugiano in facili frasche,
 tra monoiche piante sorelle.
 
 Scalcia, allora, imbizzarrisce
 il puledro del dubbio
 e scarta e rampa
 confondendomi,
 confondendosi con la sua più sana,
 selvaggia, indomabile natura;
 dispiega galoppi in danze
 sui terreni miei sbrigliati
 scavalca schemi,
 disarciona pregiudizi
 e inventa, il mio vedere
 del vento la criniera
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
InganniPromesse di giorni
 di notti distanti,
 senza eclissi lunare
 ad oscurare
 i nostri volti segnati
 sciacquati, gettati
 nel nulla d’un lavello.
 
 Domani baratterò,
 arrugginita la chiave
 con lievi parole
 che sollevino il cuore,
 e vivrò
 quel mozzicone di gioia
 che, innamorato ho nascosto
 in una vecchia poesia.
 
 Imbrogliandomi
 di non soffrire.
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
Amica mia“- Ho nello zaino
 manciate di sorrisi,
 per tutti quei nasi
 senza bocca”
 
 “- Non sarà poco
 per così tanta tristezza?”
 
 Così vicino al dolore
 per non essere prodigo
 il suo cuore.
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
RisveglioCosì ti ripasso la notte
 agghindando
 stagioni emigrate di stormi,
 esiliati richiami smarriti.
 
 Mezzo sogno in pugno
 mezza in gola, io
 intaglio zucche
 vuote carrozze,
 per la mia favola scalza.
 
 Sguardo intarsiato
 da mano d’artista, tu
 telaio e tessuto
 d’estatici arazzi.
 
 E volo
 manieri reali
 da vivere e Inverni
 sgelati da voci
 di cori affiatati,
 di risa e rincorse
 stremate
 di stanze infinite
 lustrate
 vetrate
 sospese tra pezzi
 acrobatici
 e stive solari
 di menti
 e volute
 in cantate
 e bevute
 di pinte, ricolme
 intinte d’amore.
 
 Di colpo mi desto.
 Fuoriè l’alba
 o il tramonto, non so.
 
 Ha il tuo volto
 lucente il lampadario;
 ti chiamo la voce smorza
 tiretti vuoti. Ancora sogna
 la mano,ti cerca.
 Riappisolano gli occhi
 e piano piano piove.
 Tutto respira
 il tuo ritmo
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
Cos’è?C’è una urgenza che pigia.
 Circoscrivo l’intorno
 traboccante di schiere
 di ninnoli rotti, di baci tarpati.
 Avvicino le aste al compasso
 faccio qui l’orizzonte.
 Sciorino il bisogno
 ora amorfa, secca placenta
 d’involucro di germe
 che lusinga e ributta.
 
 C'è paura
 a braccia conserte
 come se la cima
 dell'albero maestro
 si perdesse in bruma
 l'onda dolce che appare
 fosse schiuma.
 
 Buttarsi dentro
 a capriola invece
 nel "non so"
 salvare anche solo
 un ramo dell'albero
 e carpire al buio
 una fiaccola
 che mi porgi.
 
 Raccogliere
 insieme cocci
 in slancio
 mormorare confessioni
 anche tra vetri
 un poco appannati
 ché il tedio della solitudine
 abbranca l'anima.
 
 Inabissarsi
 all’imperfetto
 di un eravamo armonico,
 stretti al filo d’Arianna
 che porta al profondo
 che non conosce distanze
 o scatole chiuse
 e parlare di cuore
 dal cuore.
 Tinti Baldini e Flv
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
Pensieri riversi(Confessione di un beone)
 
 E mi ritrovo ancora
 ad inchiostrare
 ciechi cieli celati
 s’un libro già liso.
 Cesellare concetti
 scontando a me stesso
 l’ortogonale
 involuzione del dire.
 
 Soffocante
 il lezzo opprimente del limite
 aleggia, rilega
 sparviero in catene
 domande galeotte
 e risposte evasive.
 
 Geme, la ragione
 allora stride e s’offre
 supina
 alla sfrenata malia dell’errore,
 ciondolando tentennanti cortei
 di sfinite figure di cuori,
 d’ebbri fanti di vini
 che dal vagito decantano
 e dicono,
 mano nella mano
 al mio immemore
 barricato avvenire.
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
Il mio MondoForse nonè questo
 il mio mondo.
 Il mio mondo
 è diverso.
 La terra
 è di forse e di cocci,
 perché non
 spaccia certezze.
 La volta
 in pastelli e sorrisi
 per tingere gioia.
 le foreste
 di legni e di fiati
 per orchestrare sospiri.
 I monti
 di versi e crinali
 per stagliare poesie.
 
 Forse nonè questo
 il mio mondo.
 Il mio mondo
 profuma di Terra.
 
 In questa valle
 verde metano,
 avverto troppo
 un lezzo marziano.
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
Bianco ciliegio Non sprofondi l’anima,
 s’un trono sultano
 in damasco di seta,
 ma su madidi passi
 adagi il tuo cuore.
 
 Non insegui
 aromi abbaglianti
 d’un vuoto che erompe.
 
 Non condizioni riflessi
 all’amore che vivi,
 e non usi pupille,
 vetrine sgranate
 per sfoggiare il tuo Io
 
 Eccoti,
 eremo,
 d’aromi antico,
 cimelio
 di suono smarrito.
 
 Spirito odierno,
 stupendo di vita.
 
 Ora germogli
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
Perdonatemi… parlerò d’amoreSon strade che riportano al fienile
 cammini che conducono il ricordo,
 stringendolo per mano quandoè sera,
 per farmi raccontare un po’ d’amore.
 
 La paglia scalda l’animo e le membra
 dal turbine che sventa la mitezza
 ch’è scritta sulla linea della vita,
 che inciampa sopra i calli dell’amore.
 
 Saranno omaggi in fiore o funghi matti,
 cestini colmi pesano sul petto
 ch’espira versi nati dal balletto,
 che ritma questo mio cantar d’amore.
 
 Così dirò di fiordi e verdi tetti,
 rianimerò le foglie rinsecchite
 le rivedrò danzare col maestrale
 che soffia sul mio acero d’amore
 
 E’ acqua che nel letto non riposa,
 è leva che solleva questa terra,
 orecchio che bottina la tua bocca
 silenzio mormorato il nostro amore.
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
Boh!Ma che dici
 quella cacca l'ha fatta
 il tuo gatto soriano
 il mioè
 educato
 mangia tacchino e vongole
 e fa le sue feci
 là nell'angolo del
 Mio giardino
 ma quell'oleandro striminzito
 penzola volgarmente
 sul mio
 terrazzo
 e porta vermi e malanni
 ma signora non si vergogna
 suo figlio
 la sera
 canta e pure da tenore
 e il grande fratello
 è a quell'ora
 cacchio si sposti nò
 con quelle mani
 m'insozza la carrozzeria
 
 E respirate la mia
 stessa aria
 avete sempre ragione
 e cercate l'occasione
 per farvi
 piacere
 tutti quelli che dovrebbero restare
 al loro paese
 e poi fate
 beneficenza
 come se foste davvero voi
 del mondo la speranza
 e vi vedo
 che non andate in Chiesa
 anche se dite
 di pregare alla vostra maniera
 e
 pagate le tasse
 disturbate sui tram
 con la vostra tosse
 e riempite le
 pagine dei giornali
 con lettere di protesta
 mentre io vorrei leggere i
 vostri necrologi
 e mi fate ombra
 siete vento che porta tempesta
 
 E voi, pezzenti,
 testimoni freddolosi
 di sguardi disgustati
 e cravatte ben zavorrate,
 con le vostre pupille
 verde semaforo
 e le unghie lerce
 dei miei avanzi,
 siete degni
 della Città di Dio.
 Contrabbandate favelas
 qui, sotto il naso
 del mio salotto buono,
 rovinandomi l'aroma
 del meritato caffè,
 magari raccolto
 proprio dalle vostre
 lorde mani nere.
 
 Mandrie di nubi
 Vomitano dal cielo
 Acque inquinate con zolfi
 E residui di smog
 La terra tutta
 Ormai nel vuoto spazio
 Si sotterra vergognosa
 Della stupida umanità
 Non riesco pensare
 Al cibo stamane
 Cosa sarà farina
 Di sterco
 Oppure carne di ratto
 Certo avere un cavallo alato
 E raggiungere un mondo
 Lontano dall'uomo
 Terrestre sarebbe
 Fantastico
 
 O forse la soluzione
 a tutto questo
 troiaio
 è semplice
 buttare nel cesso
 le chiavi
 di tutte le nostre case
 nei tombini per strada
 quelle delle nostre automobili
 chissà che si ritrovi
 un po' di umanità
 
 Bah!
 Tinti baldini,Maria Attanasio,Flavio zago ;Marcello Plavier,Maria Cristina 
Vergnasco
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
Percezioni senza oggetto
 < Ancora >
 
 Come allora, trascorro
 contorni leggeri
 di vaneggianti silhouette
 mollemente distese
 tra impalcature del mondo,
 rallegrandomi con le mie rughe,
 per la loro ramificata età.
 
 < Rincorro un momento >
 
 Nel durante delirante
 di luce privo ed idee,
 armonicamente sciolto
 è il tamburellare di falangi
 su pause tentennanti
 di frammenti di parole.
 
 < vaneggiato sui modiglioni >
 
 Tra i mille scaffali
 nell’emporio del dire,
 ritrovo attempate parole
 arrotate, appuntite
 in libera vendita;
 amici, messaggi,
 pane, pace, Dio,
 sono articoli da vetrina,
 da pochi spicci ormai.
 
 < D’immani gioventù >
 
 Su assi cigolanti
 “orbo de na recia,
 sordo da n’ocio”
 beffa recite d’astanti,
 Arlecchin batocio.
 
 Nell’atrio impudente,
 il bigliettaio stanco
 spia l’incoerenza
 spacciare promesse
 ad un’adolescenza
 avvinghiata all’angoscia
 di conoscere il domani.
 (Quanto dovrà
 crescere, ancora
 prima di raggiungere
 i suoi pensieri?)
 
 < Perso nel tutto >
 
 Scaverò la trincea
 nel mezzo della solitudine,
 mi calerò
 nelle rosee volute
 dell’ombelico
 scolpendo nel tempo
 la mia corsa impazzita.
 (Prima che raggiunga e
 fagociti i miei pensieri.)
 
 < Ghermito dal nulla >
 
 In un angolo
 solo,
 spaventosamente umano,
 su se stesso
 si raggomitola l’arbitrio.
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
RivelazioneQuando,
 tra i tentacoli
 scossi, di un
 impenetrabile se,
 nell'intima linfa
 di un qualunque
 perché,
 ti fermerai
 un istante,
 scoprirai tutti
 i tuoi se,
 i tuoi perché
 giocare al destino,
 e non avranno
 più reconditi,
 le sottili labbra
 del tuo dolore.
 
 Allora,
 cesellate
 dalla commozione,
 dimenticate
 da tutti i forse,
 distinguerai
 le inaspettate
 certosine,
 estensioni
 della tua anima;
 sarai tempo
 che indugia,
 e tutti i tuoi se,
 i tuoi perché,
 avranno volti
 di mani amiche.
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
Cuori PoetiTemendo
 le brine polari,
 mi trovo
 a giocare col fuoco.
 
 Le ustioni
 sono inezia:
 la pelle s’oscura,
 cade;
 è tutto il calore
 perso
 a segnare il pensare,
 a far meditare
 sul gelo del mondo.
 
 Proverò
 a salvare
 il mio panda,
 perché le sue carni,
 domani,
 mi potranno sfamare,
 così
 come ora
 mi cibo di cuori
 in via d’estinzione.
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
ImpronteE’ radice
 che esiste di fronde
 l’anima mia
 che s’allatta di sensi.
 Linfa innata,
 folle di corse
 nei contorti
 tronchi del vivere.
 E’ rugiada del tempo
 che svezza i miei rami,
 s’annida, dischiude,
 ondeggia e rimbalza,
 eco impietoso
 che,
 riflettesse
 realmente,
 non tornerebbe,
 come ricorrono,
 invece
 impassibili abissi,
 piedi, nessi,
 tracce e passi,
 ormeggianti,
 naviganti
 spumosi solchi
 di vino impastati
 di sudori callosi;
 orizzontali
 come taglio di falce,
 stridenti
 come uomo che infuria,
 umidi
 come occhi di gioia.
 
 Così suturanti,
 capillari
 rimbombanti,
 temporali.
 
 Così terreni,
 così alieni.
 Così miei.
 
 Sono uomo
 di orme screziate.
 Sono ricco
 d’impronte lasciate.
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
A mio padreUn solco,
 tra noi
 la vastità
 del nulla,
 consistenza
 sconnessa
 sotto spiazzi
 lunari;
 sfiorarti
 guardarti
 ora,
 solo vizi
 di diffrazione,
 inganni alieni
 d’argentati
 presagi.
 
 Lassù nonè
 il nostro bosco
 e l’infinito
 discioglie
 ascendenze.
 Lassù
 è strapiombo
 che aleggia.
 
 Gelido,
 il marmo
 non soffre
 il mio freddo
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
Di meI manieri onirici,
 tratti infranti
 di giochi sospesi.
 L’ingenua lana
 nel mio palmo fanciullo.
 L’ultimo rivo
 di vita di padre,
 sul ciglio già muto.
 Quei rossi, spessi,
 capelli mossi,
 immani massi,
 sul mio stupore.
 Il candido amico
 appeso alla morte.
 La musica,
 iridata amaca,
 che culla canti,
 le note andanti,
 dondolanti,
 inumidite, intinte,
 ora forti, ora fosche.
 La madre mia
 che sa di aia,
 di tasche ponderose,
 e cinque dita
 accoccolate grate,
 di vita avuta in dono
 e ben soppesata.
 La sorella poesia,
 lei meridiana,
 io gnomone
 a sognare ere,
 ad issare vele
 a segnare ore
 d’ombre sole.
 Nulla,
 nulla mi passa accanto
 e va, nulla lascio
 all’astro spento.
 Tutto
 mi porto appresso,
 sul dorso,
 in vimini e sudore
 gerla mai sazia
 intrecciata in divenire.
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
PoetronicaDi lembi innevati,
 d'itinerari fantastici
 nonè più tempo.
 Ostinata fugge,
 la poesia tra dita.
 Colgo i pezzi
 di frasi infrante,
 ne rifaccio orci cocciuti.
 
 Il silicio
 ha promesso sensi
 che nessun olfatto
 può eguagliare,
 e il mio naso nuovo
 in nanoschiuma di carbonio,
 non sa rifiutare.
 
 Ed ora, cablate le parole,
 dove inserire le pile a combustibile,
 senza effetto memoria,
 per dar luce, storia, vanto
 a questi venti versi spenti?
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
NebulaPensieri ad anello
 percorsi, ricorsi,
 eterni fuggenti
 istanti immortali.
 
 Cercare sequenze,
 assetti valenti
 tra questi frammenti
 è opera ria.
 
 - Non fossi sì solo
 nel freddo del cosmo,
 tra un Pico di Pico
 e un Tera alla Tera,
 potrei valutare
 il valore del pianto,
 dell’equo d’errori,
 d’assoluti insoluti.
 
 - Così il Nulla svanisce
 non appena lo penso,
 e il Tutto nonè
 finché nonè nominato
 e, già sillabato
 è monco d’inizio.
 
 In un eterno finito
 non essere tutto,
 in un infinito spezzato
 non essere niente.
 
 - Che mestizia, che vuoto.
 Che non finimondo.
 Forseè meglio colmare
 questo non Tutto.
 Forseè meglio freddare
 tutto questo non Nulla.
 
 Catafatismo incombente.
 
 - Sia fatta la luce!
 
 E il Caos finì?
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
PadreAncora mi
 scaldi,
 ora che
 non sei più
 braccio,
 ma soffice
 manto
 che m’avvolgo
 sul corpo.
 
 Ti scorgo,
 punto ardente
 tra tenebre
 timorose,
 che dà luce
 alle mie
 notti smarrite.
 
 Ti sento,
 vangare cieli,
 coltivare
 callose carezze,
 con le tue
 mani immense.
 
 Sei tu
 epico drago,
 di sogno di bimbo,
 che mai finisce
 di sputare fiamme
 nelle mie fantasie.
 
 Sei tu
 indomito dono,
 che mai smette
 di darsi.
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
AmartiSrotolo rosso
 il tappeto del cuore,
 al richiamo
 indiscreto
 d’antiche armonie.
 Vitruviano mi dono
 ordito divino,
 a colli flautati
 di sete ansimanti
 
 Nell’anima perso
 m’inginocchio
 sui sensi,
 spiando commosso
 i miei sogni ubriachi
 di ritmi, d’abbracci,
 di grida mimate.
 
 Alla sorgente
 sensuale m’inchino,
 daino silvestre,
 e incorono
 il tuo aroma
 unica essenza
 del cosmo.
 
 Un Angelo
 ti porge un sorriso,
 come l’alba il suo sole,
 nuda lo indossi.
 Echeggiano ombre
 e colori
 e sussurri percorrono
 rotondità.
 
 Io tremo.
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
CrepuscoloNella corolla
 di ponente,
 cullata al latteo
 vagito di stelle,
 cerco rifugio
 alle stanche certezze
 guazzando al ruscello
 della mia poesia.
 
 Intingo di luce
 la landa del sogno
 e l'atona notte
 sveste il suo buio.
 
 Scordo boccioli
 laceri e stinti,
 su prati di rovi,
 pensieri infranti
 su specchi di cuori,
 e in risa sfumate
 di pallidi atti
 la ribalta si perde.
 
 E tu,
 mia tana di tiglio,
 accogli dubbi,
 paure dell'anima
 e mi consoli.
 Rivivo tepori
 che sanno
 di guance
 e il mio
 sole sbiadito
 colora di te
 Kinita e Flv.
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
SorellaNon sono
 isole annegate
 le moine,
 tra vibrisse
 e assalti al baobab,
 del tuo amato
 gattomitolo.
 Scorrono
 diritti al tetto
 i richiami soriani,
 ignari di migrare
 la stagione del cuore,
 artigliato
 strapazzato
 grandinato
 di tegole antiche.
 Rivesti l’occhio in pelo,
 unghie affilate
 e affronti,
 le vie graffianti
 del momento;
 ricoperta di felino
 balzi sulla coda
 dell’inconscia
 prima attesa, e ne fai
 ghiotto boccone;
 predatrice d’attimi
 che sanno
 di fiera savana,
 celata
 nell’audace abisso
 del tuo domestico
 graffiare credenze.
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
Colori stonatiTi cerco nel
 calice,
 della mia sete
 asciutta.
 Non so se sei,
 non so se sai,
 non so se sarai.
 
 E non so più
 del giorno
 e del suo cammino
 obliquo,
 radice quadrata
 del mio sentire.
 Impietrito il domani,
 arcaico monolite
 lo confondo nei quadri,
 avvolti d’Inverno
 appesi sui ghiacci
 dei tuoi occhi bui.
 
 Ti cerco nel viola
 del mio pensiero,
 prillante nel gorgo
 di un sogno sottile,
 tagliente del gelo
 del tuo sole cieco.
 
 Ti cerco nell’inno
 di cori all’amore
 Ti cerco e mi trovo
 canzone stonata.
 Marcello Plavier e Flavio Zago
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
Chiacchiere da ringhieraCiao,che fai rientri oppure esci,
 io ho già le reni a pezzi
 ed ho cucinato per i ragazzi che rientrano da scuola,
 hai sentito dell’ultima notizia di guerra
 e comunque si muore di birra ogni sabato sera
 ed il tempo cambia sembrava ieri Primavera
 e tuo marito riga dritto oè strano
 basta ci lascino in pace il tempo di un caffè
 tre volte al giorno,
 e la pressione ballerina e quella strana voglia
 che tiè venuta poi te la sei fatta passare
 o fai come al solito che lasci passare,
 tanto passa tutto anche questo momento
 tu lo vivi e mentre stai vivendo
 sei già carne al macero…
 
 Ciao ,oggi nonè giornata
 mi mancano le sigarette
 la tazzina del caffè sa di muffa
 e poi sai quelli di sotto
 strillano da paura
 gli manca il companatico
 a me quello non manca
 mi manca l’aria
 e piove e piove
 e la notte non
 porta consiglio
 anziè un bosco
 tra le case tinto
 di pallido.
 E tu con le figlie
 fai finta e
 mascheri l’ansia
 con panni stesi
 al fetore di chi
 fa da padrone?
 Starei a far parole
 con te dal balcone
 fino a morire
 per lavare
 strizzato
 dolore secco che
 sta chiacchierando
 ora tra se’ e se’.
 
 Ciao, ciao,
 care signore,
 sono emerso un attimino,
 per dar acqua
 ai miei fiori invasati,
 e, noto solo ora,
 avete mica visto
 la mia bandiera
 della Pace?
 L’avevo lasciata
 qui, sul ballatoio,
 sventolante al vento
 di un grande fiato popolare,
 ed ora garrisce solo
 un insulso drappo bianco.
 Candeggina? Lo devo dire
 alla mia domestica filippina.
 Solo, qui, tra acida pioggia,
 scolari briosi
 e mozziconi sfumanti,
 non si vive più.
 Ieri sera,
 al mio canale preferito
 hanno mostrato
 quei bimbi mori
 con pance gonfie
 e mosche agli occhi
 che succhiavano lacrime.
 Proprio mentre cenavo.
 Che schifo.
 Qualcuno
 le dovrebbe censurare
 quelle cose. Magari
 organizzo una petizione.
 Già.
 Mi spiace, care signore,
 ora devo rientrare.
 C’è il mio Fratello Grande
 che mi chiama.
 Ciao, ciao.
 Maria Attanasio,Tinti Baldini, Flavio Zago
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
Il tuo mareVivi il tuo mare,
 possente di creste
 schiumate
 e fluenti
 seriche pieghe,
 ornate di suoni
 struscianti
 e sferzate
 su rive d’attese
 in granelli di credo.
 
 Vivi il tuo mare
 sbiancato, danzante
 dai ritmi stracciati
 da ere di stelle
 cadenti da spazi
 infuocati e percorsi
 da scie siderali,
 e scogli scolpiti
 da sogni sfrangianti
 e beffanti,
 bucoliche mete.
 
 Vivilo ora
 nuvola liscia
 aspirando, sfumando
 la spira silente
 d’anguilla argentata
 ammaliata, sinuosa
 dolce d’attesa,
 desnuda d’indugi
 su labbra accostate
 a giochi di palpebre
 
 E allora veleggia
 il tuo mare fraterno,
 ebbro compagno,
 acqua da bere,
 pioggia serena
 che vive ed imperla
 l’intimo drappo
 di falce di luna.
 Tinti Baldini e Flv.
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
Tra il giorno e la notteTi ritrovai,
 nell’orfica battigia,
 proprio
 tra il giorno e la notte,
 di un mio miraggio
 spiaggiato.
 
 Immobile,
 l’oceano attendeva,
 pacifico, un palpito
 e il levigato planare
 d’albatri assordanti;
 ma il loro volo
 sminuzzato
 dal ristagno del tempo
 stramazzava, tarpato,
 ai miei piedi argillosi
 
 Solo la tua immagine,
 folle di Sole,
 delirante di stelle
 danzava,
 tra il giorno e la notte,
 proprio
 sulla rena deserta,
 fradicia
 della mia malinconia
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
Io ti ringrazioTi ringrazio
 con l’abbandono
 del pugno,
 con l’armonia
 di un gesto.
 Con la Luna mia
 più chiara,
 col silenzio
 dell’orgoglio.
 Ti ringrazio,
 riflesso lindo
 dove l’occhio
 mio si coglie,
 dove poggio
 questi giorni
 zoppicanti,
 e vivo
 il respiro
 che rifiata,
 i miei mille
 mulinelli.
 Ti ringrazio
 per la bisaccia
 mai colma
 per la pace
 dell’udito,
 per gli sguardi
 a mani aperte
 io ti ringrazio,
 silente grillo
 dal verso
 amato.
 Cri!
 
 (alla cara Amica Cri/kinita)
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
Alieno vivoGiunto da un mondo lontano,
 intrappolato in un corpo non mio,
 in aria pesante che non m’appartiene,
 esiliato nel mio incognito destino.
 perché colpevole di voler camminare,
 reo di sapermi nutrire dei miei pensieri,
 ho colto questa via,
 questo mondo da amare e odiare .
 Ho provato, illuso argonauta,
 a frugare velli e crivelli
 a scostare fondali quotidiani
 di teatrini di pupi,
 alla ricerca umiliata
 della mia nobiltà.
 Ho scoperto che il vuoto,
 prerogativa interstellare,
 ha altri mille luoghi terrestri
 dove poterlo ritrovare,
 Ed Alieno disperato ed offeso,
 ritorno lassù a setacciare
 sincera polvere di stelle
 nella culla dell’universo infinito
 per trovare
 la mia pepita di verità.
 Marcello Plavier/ Flavio Zago
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
SalireE' calda di rovi e
 sassi adunchi,
 sterilizza pensieri
 rivangando
 dagli avelli del noi,
 la farsa infinita
 delle parole
 senz’anima.
 
 Brucia palmi
 talloni e nuca
 mescola bolle nel
 petto gonfio
 frena il pianto
 che rimane secco,
 raggiunge l’abisso
 tra te e te
 e ne imbrattata
 muti princìpi
 vagheggiando vette
 ed artigli spezzati.
 
 Ma se scendi
 piano ritorna,
 monda scorze
 di gusci di stelle,
 ancora e ancora,
 fiorisce vagoni
 di cerchi concentrici,
 gioia immensa
 della fatica
 tua
 e non d'altri,
 quel sudore di vita
 che rende grandi,
 che mescola
 fragranze di pane
 a morbidi sospiri,
 e l’intaglia su
 quel quotidiano
 spartire,
 che da qualunque
 ti fa unico
 Tinti Baldini e Flv.
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
MadreVizzo,
 sciancato il tuo comò
 tarlato
 di consuetudini
 e pazienza,
 tenero acquerello
 d’ingialliti volti
 in bianco e nero,
 poggiolo
 di vita fiorita
 da Soli
 d’altri cieli
 
 E tu, mite
 che immergi cenci
 nel rustico passato,
 impronte scalze,
 e tergi il quotidiano
 come a pulirne
 pallori
 e turbate ditate.
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
Nuova canzone d'autunno  Vagare ogni giorno,
 per mano ai pensieri,
 osservare,assorbire,
 riflettere.
 Incrociare persone,
 specchiarmi con loro.
 Cercare risposte,
 entrare in un bar,
 trovare domande
 uscire da un bar.
 
 Alberi smunti,
 le foglie canute.
 
 Sedersi, pensare.
 
 Una mamma sospinge
 la carrozzina che piange,
 un ragazzo s'invola
 col suo aquilone,
 ondeggia il pallone,
 veleggiano i bimbi,
 mentre un vecchio,
 il bastone,
 li osserva, sorride;
 due baffi in divisa
 un cane che annusa
 
 E il pensiero mio s'immerge.
 
 Scruto e trovo nel profondo,
 il suo volto, il suo sorriso,
 quello sguardo suo sottile,
 ironico, sensuale,
 che ancora scorre
 sul mio corpo
 e mi fa esistere, sperare,
 mi fa ridere, gridare.
 E poi,
 ebbro di ricordo,
 mi dono
 al suo profumo
 e sulle labbra sue
 mi trovo,
 perdutamente
 Marcello Plavier/flavio zago
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
CapriolaMi hai sorpreso oggi,
 tondeggiante
 poesia di un gioco.
 
 In un pomeriggio
 concavo,
 prestato,
 zoppo,
 quasi non mio,
 ho riassorbito
 l’essenza spiandoti,
 mentre involgevi
 di verde,
 spoglia di rovi.
 
 Evadente percezione
 strizzata
 tra allegria e innocenza.
 
 Un ciuffo
 di solenne semplicità,
 è ruzzolato spaurito
 nel cuore del mio
 racconto,
 percorrendo
 l’atrio spezzato
 di un palpito,
 ricostruendolo.
 
 Edè stata
 la tonda sorpresa,
 la parabola incauta
 di tanta fragranza,
 Arciere allettato,
 a farmi scordare
 il sacchetto
 ricolmo,
 di tramonti
 da cantastorie,
 e un responsorio
 querulo,
 amorfo,
 sulla panchina
 di pietra e betulla
 nel breve vialetto
 dei tuoi pensieri.
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
Acquisti inutiliScarpe rosse col tacco,
 le più belle in vetrina,
 il tuo pacco alla cassa
 solo un lampo di stelle.
 
 Serviranno soltanto,
 agli istanti specchiati
 davanti ai tuoi occhi
 per sognarti carina.
 
 E mai sulla spiaggia
 a scovare conchiglie
 o planare su prati
 a colorare farfalle.
 
 A dischiudere l'occhio
 del tuo amore piccino
 entro in punta di ali
 per non farmi sentire.
 Cristina Vergnasco e Flv.
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
Nel nome del PadreGonfio
 dell’imponderabilità
 del presagio,
 gremito di promesse
 gridasti il suo
 tenero segno
 di slancio smarrito.
 Non era un urlo,
 forse
 ma un cielo infranto
 che intonava
 la vaghezza
 della polvere.
 Sciolte
 da ogni futuro,
 le trecce del mentre
 hanno varcato
 i confini dei sogni.
 
 Ma i sogni sono
 quelli di ieri,
 di coppie furtive
 di ritorni sfregati
 su pelle viva,
 o quelli
 del domani
 ondeggiante
 in concentrici
 specchi d'acqua?
 
 Ogni supplica
 commossa di luce
 penzolante
 verticale
 foglia d’autunno,
 s’è curvata
 all’aspro ceppo
 ribattezzando
 il proprio destino,
 chiamandolo
 con il tuo nome.
 E vagabondo
 a cercare
 i tuoi passi
 arrivati per caso,
 senza rumore,
 in tasche
 che tintinnano
 di sole
 araldo del poi.
 
 Sarà pioggia.
 sottile
 sapida, pudica
 ignota
 lacrima,
 nella grondaia
 dei miei ricordi,
 o la memoria resta
 sguardo gentile
 nel cosmo
 zuppo di sogni,
 a farci amici
 in ogni dove,
 come per dono
 di un mondo
 nuovo?
 Tinti Baldini e Flv.
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
RincariOra,
 che so spendere
 la notte,
 mi costa l’aurora.
 
 Piangono abitudini
 gli occhi,
 e ascolto e non odo
 lacrime aride
 di gravidi domani.
 
 Oscuri
 immani muri,
 cingono spifferi
 di parole
 di labbra
 recluse grinze
 spossate
 assorte
 in funambolici,
 futili esami.
 
 Scendo
 in strada oggi.
 Lividi
 striscioni,
 pugni al cielo,
 e manifesto.
 
 In questo
 giorno asciutto,
 imbustato
 scontato
 sedizioso,
 contesto
 il prezzo
 esorbitante
 del biglietto,
 di questa mia
 accanita corsa.
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
Tinti Nel VentoDunque sai
 mia Signora.
 
 Sai,
 sai che significa
 ipotizzare verità.
 Lo sai,
 mia Signora
 del Maestrale,
 refolo spezzato
 dall’ironia
 fangosa
 lacerante
 di una valanga
 indolente
 strisciante
 invasiva
 
 Lo sai.
 
 Ora comprendi
 l’inesorabile scenografia,
 atto unico,
 della commedia
 dei tuoi gameti.
 Spalle alla scena
 serri i tuoi Segni,
 restituisci geometrie
 strappate al quotidiano
 colando
 il tuo corpo rorido
 sul fluido di clessidre
 alla ribalta
 di occhi assetati.
 
 Lo sai,
 lo sai,
 sai dell’Inverno
 dei suoi toni sfumati,
 sTinti,
 del giorno rassegnato
 che veleggia il temporale
 delle sopportazioni.
 
 
 Tue, forse per sortilegio
 anche le spossate fibre
 delle primordiali angosce
 come i tuoi passi
 che allungano
 fondendo il sogno
 tra l’allora
 e l’adesso, rimbalzando
 nella specie incerta del chissà.
 
 Sarà così,
 mia Signora
 del Levante,
 che mi vedrai
 riconsegnare l’istante
 che percorrerà
 il contorno
 della tua anima,
 con
 una comune
 una qualunque
 infinitesimale
 movenza.
 
 Sarà
 abbrivio slegato
 dall’implacabile,
 inesorabile
 coerenza
 dei sepolcri
 della tua memoria.
 
 Ma noi,
 noi saremo già altro.
 Saremo noi.
 
 Fresco disegno
 guizzo non unico
 della nostra ventosa,
 poliedrica,
 complice unicità.
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
Memorie Destate Come un mantello
 di canto di grilli
 questa sera
 d’estatica Estate.
 Copre groppe gelate
 e malinconie smarrite
 tra cortecce
 ed occhi di betulle,
 ritrovate tra rami
 d’abeti di pensieri.
 Sul crepuscolo dorato,
 temendo il suo letargo
 il ghiro dell’aurora,
 racimola barlumi, per
 l’Inverno a venire;
 non conosce pace
 la vena del nevaio,
 il timore mio accarezza
 e borbotta e spuma
 e bolle
 e canute pietre aguzze,
 smussa.
 Vestita di lamé
 da dietro il colle,
 sguscia madre notte.
 Espande il firmamento
 ed io con lui.
 Piccolo mi sento e nudo,
 sotto tutto questo
 immenso, che smarrisce
 il mio domani.
 Illibato d’avvenire sfumo,
 si dissolvono certezze.
 Torno seme antico,
 m’inumo,
 e in questo letto
 di terriccio lascerò
 che la mia vita accada.
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
Se soloSe solo
 pesassi meno
 ciò
 che da sempre
 tremo,
 ma vivessi
 al pieno,
 di ciò che già
 stringo
 in pugno,
 farei a pezzi
 l’ubiquità
 di guitto
 in perenne
 debutto,
 smaschererei
 tutti i miei
 arlecchini,
 abbandonandoli
 a variopinti,
 finti giorni
 già estinti
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
La fabbrica delle nuvoleNella fabbrica
 delle nuvole
 nuove
 armonici fiati
 a gonfiare l’ovatta.
 Lacrime
 dolci di gioia
 a diluire rancori,
 ed esili
 dita celesti
 a guarnire orizzonti.
 Nella fabbrica
 delle nuvole rare
 sogni randagi,
 pensieri spumosi
 ad imbottire
 nembi giocosi,
 e tiepidi
 sprazzi di sole
 a dar luce
 a speranze.
 Nella fabbrica
 delle nuvole
 vere
 voli di seta,
 fibre sottili
 a segnare
 tragitti
 mai scritti,
 e tanta,
 tutta la voglia
 di Sereno
 del mondo
 a spingere
 ruotare
 incitare
 ingranaggi
 corrosi,
 perché
 non chiuda.
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
Oggi(Tenero amico)
 
 Oggi ho udito
 il canto antico
 del condottiero
 solo,
 senz’elmo
 né scudo,
 né guerra
 da decorare.
 
 E’ il canto
 senza fine
 del giorno
 che non sa,
 del giorno
 che porta
 nubi gonfie
 a lavare via
 i forse ed i sarà,
 da dita ed ossa
 avvinghiate
 agli scogli.
 
 Oggi,
 in pieno Inverno,
 ho visto fiorire
 una speranza.
 Ho toccato
 con mano il pianto
 e per un attimo,
 oggi
 il cielo
 ha dubitato.
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
PreghieraSe te ne vai
 salpi dal cuore
 spezzandomi reni
 con giorni
 insensati
 di vele a ponente.
 Il viverti dietro
 è stridore
 ingessato
 su ardesia del tempo
 e l'occhio singhiozza
 aghi di pino,
 che graffiano
 mari di umori.
 Se te ne vai
 mi lasci l'ombra
 le pareti diventano
 abside romanica
 grezza e nuda
 il soffitto s'incurva
 in viale di tigli a Settembre
 le finestre
 panorama plasmato
 di alvei incavati e valli
 all'orizzonte
 e il colore attorno
 acquazzone di Marzo.
 Se te ne vai
 perde calore
 e fragranza,
 il tuo tatto tatuato
 sul mio tremore
 e il mutare
 delle forme
 scioglie nodi carnali
 di corpi estasiati.
 Troppo fragile
 e nero di seppia
 l'aquilone del sogno
 per forare le nubi
 e i domani fumosi.
 Tutto miè disegnato dentro
 acquaforte mi sento
 incisa di te.
 Tinti Baldini e Flv.
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
Il Chitarrista(A Nicola)
 
 Palpita, erompe,
 è onda di mare,
 s’inghiotte, rinsacca.
 Riappare.
 Sei corde sospese
 ben concordate.
 Ritmico arazzo
 d’arpeggio incessante:
 sprizzano plettri,
 scrosciano note.
 
 E’ glissare su manici
 è giocare d’armonici,
 questa rotta pacifica
 s’un oceano sonoro.
 
 Non parlarmi, non dire:
 acqua e fuoco al cospetto
 di sua altezza l’udito.
 Edè terra regale,è Gaia.
 
 Non parlare non dire.
 
 Percepisco passaggi
 ayurvedici tocchi,
 lievi umori al risveglio
 di sesti sensi sopiti.
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
Mitico guerrieroSarà lui,
 divinatore del forse.
 Paladino del già.
 Signore
 dei suoi confini,
 dei suoi quadri
 e colori.
 Padrone del ritmo
 del suo fiato
 inquieto.
 
 Sarà lui
 senza prigioni
 o leggende
 a scagionare.
 Nudo
 di fronte
 alla sua pazzia
 molto,
 molto meno eroe,
 molto più uomo.
 
 Stelo
 della sua corolla.
 Radice
 del suo deserto
 sarà lui
 guerriero smarrito
 del vento.
 
 Saprà allora,
 quest’uomo antico,
 passeggiare
 la sua pace
 su docili
 spiagge senili,
 fulgenti
 di terre rare.
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
Come AlloraTi attendo, come allora,
 mentre sospingevi
 il tuo spirito acerbo,
 infagottato di domani,
 sull’altalena dell’attesa.
 
 Ti attendo, come allora,
 quando gridavi che l’amore
 era fieno per giovenche
 che ruminavano dietro
 tornanti di strade alpestri
 
 Ti attendo, come allora,
 cantatrice del futuro, ricordi?
 Al bazar del palpito turchino,
 al solito posto, dove
 avrai scordato la chiave
 
 Ti attendo e ho lasciato
 a segnare impronte
 briciole d'armonica,
 ma le punte non trovano
 ritmo di passi scagliati
 a riprendere cadenza
 tintinnante di pioggia.
 
 Il tempo morde note alte
 e le nasconde in bocca,
 proprio sotto la lingua
 tra il dire ed il crivello
 
 Forse avrei dovuto
 raccontarti dove vado
 e che l'estate lunga
 s'è mutata in un attimo,
 che il sogno vaga tra
 camini e rivoli di ghiaccio
 ma devo ancora trovare
 quelle sponde coralline
 che sappiano arginare
 atolli da amare
 
 sono laggiù
 e le gambe
 tronchi spessi
 stentano
 a toccarle.
 
 Ti attendo come allora
 a giocare a rimpiattino
 sotto lenzuola scompigliate
 senza pudore di
 sole che sa di terra e rugiada.
 La cenere delle parole
 scivola lontana, velando
 l’immagine del mio volto,
 che ancora attende il suo
 specchio d’acqua pura,
 vera come allora.
 Tinti e Flv.
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
Wagon-litObliteri.
 Già l’orologio
 fischia la stazione
 e la corsa
 passa il passo
 al ciglio
 del respiro.
 
 La lavanda vera,
 offre in braccio
 il pigiama suo
 più bello
 
 E’ tardi.
 
 Neppure
 il tempo
 per lavarti i denti
 e sciacquare via
 l’ultimo sogno
 alla toilette.
 
 Rimani così,
 pensieri pieni
 di scienze esatte,
 a meditare
 sul resto
 delle divisioni
 del mondo.
 
 A bocca persa.
 
 La mappa
 della vita
 in mano,
 un biglietto
 scaduto
 nell’altra.
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
A che serveMa a che serve quella
 morbida curva del seno
 s'è lì appesa in profumo
 d'arazzo sul muro.
 E a che serve la bocca,
 florida di rosso se
 non assorbe l'altro,
 trabocca e l'assapora.
 Che cosa serve saper
 balzare ancora
 pozzanghere
 in fiera voce
 col fulvo in volto,
 se non si salta più.
 Non raccontano più
 gli odori del mondo:
 il giorno nasconde
 tutti i suoi nomi,
 la notte riannusa
 antichi sigilli.
 A che serve cantare
 ad orecchi spenti
 l'inno alla linfa, atavica sete
 di labbra di latte,
 di bocche in lallazione.
 E a che serve incarnare
 guerrieri lucenti,
 braccia ardenti a strizzare
 dei venti una rosa,
 sciabole in ghiaccio
 al certame
 fino al primo assolare.
 Saremo falangi impegnate
 nel costruire altro tempo
 per donare domani
 che rigirino zolle.
 O forse siamo già stati
 in metamorfosi
 di sensi e di umori,
 e le mille dita della mano
 basteranno
 ad afferrare il mondo intero?
 Tinti Baldini e Flv.
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
Al torrenteRiflessivo, paziente
 attende,
 il pescatore del ricordo.
 Maestro di rivi,
 bello di solitudine,
 riemerge umide figure.
 
 Sul ballatoio crepato
 gerani spiumati e
 il balletto spirato
 di calzini bucati,
 sciorinati in parata.
 
 Giorni fanciulli
 decantano miti
 di riti di elfi,
 nell'albero cavo
 sulla tana del tempo.
 
 Il potere assoluto
 un caco verde
 caduto, fra tanti
 e scagliato
 al nemico stregato
 
 Verità smarrite,
 cantilene sbiadite
 in minuetti lontani,
 confuse
 nelle nebbie
 dei rimpianti.
 
 Ripone ora la canna,
 il pescatore.
 Ritorna.
 Riveste il presente
 per non perdersi,
 come vorrebbe,
 tra alluci al vento,
 tra rami di pruni,
 suoi dedali d'allora
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
La scelta del ricordo(Il Suggello)
 
 Appoggia un tuo sogno
 dentro i miei occhi.
 In un canto soprano,
 in un caffè chiassoso.
 Sull'asma del tempo,
 su qualche sponda del caso,
 sull' umida terra
 del mio petto nudo.
 
 C'era tra noi una tavola
 eppure scoccava fluido
 senza intoppi:
 il cuore era fanciullo,
 consegnava ogni
 sorta di sè, spazzando
 nausea e bora
 a quel campo di grano,
 tra grilli e mani tese.
 
 Vincerà ancora
 la scelta del ricordo.
 Tinti e Flv.
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
ComplicitàSul tempo
 crespo
 che srotola
 aspro.
 
 Sul dorso
 del giorno,
 che di se
 vive solo.
 
 Sul vivere
 avvinto,
 scivolano
 lievi.
 
 Offerte inattese,
 creature
 sospese
 strappate
 all'oblio.
 
 Sono
 i sorrisi donati,
 a creare
 vere poesie
 
 Sono
 i nostri sguardi
 ad abitarli.
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
Domani?Ancora colgo
 dal tascapane
 momenti di
 minuzzoli
 venturi.
 
 Ancora
 mi ritrovo
 a rincorrere
 pensieri anteriori,
 intagliare turaccioli
 di parole infrante
 per tappare fori
 di giorni a venire
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
Momento azzurroCome brezza
 mansueta
 sul volto,
 risalendo
 la scala
 del tempo
 riscopro
 a Primavera,
 tra boccioli
 di poeti.
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
Astro sorgenteSorgi
 Scolpendo il tempo
 con la semplicità
 di un tuo gesto.
 Sorgi
 Afferrando col seno
 il ritmo spezzato
 di un fuggevole sospiro
 
 Sorgi quando
 riempi i vestiti
 del tuo brio,
 come castagne
 abbrustolite
 il cartoccio.
 
 E sorgi
 quando accarezzi
 di sguardi il giorno,
 ed eternamente
 inciampi nei pensieri.
 
 Sorgi,
 dalla nuda carne,
 sorgi
 e sfolgori in me,
 rendendomi
 non Luna,
 ma umile parte.
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
Il tessitoreRipasso la trama,
 rintreccio l’ordito,
 fornisco armatura
 alla tela di lino;
 dono vigore
 a drappi di raso.
 
 Mescolo fili
 di tinte distinte.
 Offro più tono
 alla stoffa pregiata,
 rivesto di nuance
 gli sguardi in velluto.
 
 Invento disegni
 di segni mai visti,
 per indisiare
 nuove figure,
 per concepire
 ricami preziosi.
 
 Tesso e ritesso,
 i licci danzanti
 col filo in viscosa
 di morbida mano.
 
 Tesso e ritesso,
 la navetta
 incerata,
 genero e filo
 denari e discorsi,
 
 Traccio e ritaglio,
 la maschera in seta
 e affronto passanti,
 passerelle ed astanti
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
Il nascondinoOmbra
 silente
 che fuggi
 la luce,
 che vivi
 l’oscuro sapere,
 perpetui
 un gioco
 d’infante
 fuggendo
 il Sole
 fatale.
 
 Eppure,
 se t’illuminasse,
 capiresti.
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
Il tragittoTremula goccia
 apparsa
 nel mentre,
 ti ho spiato
 estasiato
 quando,
 confusa,
 scorrevi l’attesa
 solcando
 tenere
 rotondità gitane,
 per offrirti
 trepida
 al mio
 lacrimatoio.
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
Il verme solitarioRisalgo la china
 di rovi e sorrisi,
 narcisi curiosi
 dischiusi a ponente.
 Risalgo la china
 di lombrichi poeti
 di ragni tramanti
 e formiche in cordata.
 
 Risalgo la china
 e canto
 con tutto il fiato
 canto
 le dita impastate
 di sangue e di terra
 le unghie spezzate
 da sassi e radici,
 canto.
 
 Risalgo la china,
 di cuori squarciati,
 ginocchia segnate
 da troppe cadute.
 
 Risalgo la china
 e a tutta voce,
 canto,
 prosodia
 sotto i tacchi,
 sputo tossine,
 e canto.
 
 Jota su jota canto
 a squarciagola,
 il canto antico,
 in capolino terreno,
 del poeta lombrico
 e della sua
 mattutina
 risalire la china.
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
Olio su tela 3:Il visionario
 
 Bastasse
 penetrare i colori,
 percepire l’olio di lino,
 tastare
 la traccia d’artista,
 per dirsi vivi,
 allora mi saprei
 ridestare.
 
 Conosco la parabola
 delle foglie nel vento,
 i timbri profondi
 dei bassi russi
 e so trovare l’ombelico
 in ogni minima parte;
 il fiorire dei suoni
 da sempre
 inghirlanda il mio capo.
 
 Ma i sogni, veri geni,
 i miei sogni
 creano capolavori,
 affreschi cangianti,
 troppo tenui
 per vaghi
 sussurri d’aurora,
 troppo fuggevoli
 per lievi pennelli
 d’ermellino.
 
 Vivo dei quadri
 di mondi ideali,
 ed ogni risveglio
 è uno scempio
 d’opere d’arte
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
Olio su tela2:Oswiecim, sterminate
 vedute polacche
 
 Bocce rasate allineate,
 gusci stuorlati albuminosi.
 Smorfie o sorrisi?
 
 Pennello sciacquato
 in soluzione finale.
 Fumo vitale
 che arranca e fatica
 s’aggrappa e si issa
 e s’avvita nel vento.
 
 Occhi vacui sul bianco
 del manto di neve,
 occhi persi nel gelo
 del senno del mondo
 
 Pennellate decise,
 rasoiate precise.
 
 Una tela che grida
 di non scordare
 
 …e una cornice
 che cerco,
 ma non riesco
 a trovare
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
Olio su tela 1:Natura Morta
 
 Sei bacche
 di lentisco,
 due mele
 arrugginite,
 uva ursina
 s’un vaso,
 nespole
 sparse
 di cuoio
 vestite.
 Polvere lieve
 di pesticidi.
 Albicocche,
 dorate,
 disseminate
 tra fresche
 succose,
 pesche pelose.
 L’ape tarpata.
 Tra tre fichi
 un melograno,
 un foulard
 avviluppato
 a mo’ di rosa…
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
Questione di stileNon ci dona
 i suoi effluvi
 il fiore d’oblio.
 Il senso s’inchina
 il cuore tumultua,
 Zarathustra
 pontifica e parla
 e promette
 un bel niente.
 Le elegie
 ci corteggiano
 e non sapersi
 accontentare
 è l’originale condanna:
 la pena
 d’infinite ricerche
 la dannazione
 di riscontri mai avuti.
 Un dado lanciato
 saprà solo dai tuoi occhi
 se ha vinto.
 
 Isole di carta, lo so
 i diari incipriati,
 e Monna Lisa,
 ciocche avvoltolate,
 segue un presente,
 che si muove per lei.
 Il passo si fa corto
 il pane un po’ più amaro
 e sempre più spesso
 il mio tempo andante
 non si fa storia,
 facendomi sposare
 lo stile volgare
 degli infelici.
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
Radure rareSai Sire,
 a volte anche il principe si lascia;
 a volte, quando la macchia si fa fitta
 e non riesce a galoppare a briglie sciolte,
 là, deve uno spiazzo lo attende
 carezza le redini e smonta
 dal devoto destriero.
 
 Non scuote più al vento e pigra s’affloscia,
 la morbida piuma del suo cappello.
 Non più vibranti criniere,
 non ritmi pressanti di zoccoli fieri
 e l’aria smette di garrire.
 
 Disteso, sulla pace dell’odore dell’erba
 immerso, nel tepore di raggi tra fronde,
 ritrova la consapevolezza del respiro
 e un cuore saggio che insiste a pulsare.
 
 Sussurrano vene e mormorano rivi
 di riflessi argentati e sassi sinuosi.
 Richiami svolazzano garruli, curiosi;
 l’ala senza tempo avvince i pensieri.
 
 - Stimare la sosta, per librare la corsa;
 gustare il poco, per non strozzare nel tutto.
 Provare la fame, per godere del cibo;
 saggiare il solo, per amare il noi. -
 
 Riscopre l’essenza del seme nudo,
 la fonte che, nembo, rivive la luce.
 Ritorna il pastello di forme sfumate
 e radici celate a dir di foreste
 
 “ … ora dimmi, dimmi mio Sire,
 quante radure concedi agli eredi?
 A quanti pennacchi consenti la tregua
 e a lame lucenti l’inguainato riposo? “
 
 Edè il ponente a dipingere il cielo,
 a stagliare profili velati di bruma.
 L’ombra esitante cavalca nel forse.
 Un principe oscuro ricerca l’azzurro.
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
Bagliori belliciNon scioglie più il gelo
 la nostra cara arcaica casa.
 Disorientata, la selce
 non sa quantoè polare,
 senza fiati nati
 da labbra amiche.
 
 E sono un cumulo idiota
 di sassi ammonticchiati,
 le frasi addentate e trite
 inghiottite
 senza un pizzico di sale.
 
 E solo grovigli d’intenti,
 di tele d’Itaca
 i gesti invalsi, persi
 abbandonati
 sul ciglio della notte.
 
 Rannicchiato a lato
 del masso erratico,
 attendendo l’agape,
 il nudo giorno indugia
 contemplando
 lacrime cosmiche,
 stille cadenti posarsi
 sull’occhio ottuso
 d’un miope elianto.
 
                                                                             
  
    
                                                                           
  
Allegoria(Giovani Amori)
 
 Così, lieve danzavi
 sul tappeto del mondo,
 col tuo essere errante,
 vago sussurro.
 Artista immane,
 l’inventarughe del tuo viso,
 intarsiava
 pieghe sinuose, piene
 di mille domande nascoste.
 
 Scorrevi i tuoi giorni
 stranieri, con l’estro
 del rivo dell’alpe.
 Cascatelle i sorrisi leggeri,
 che posavi incauta qua e là,
 tra le mie cose.
 
 Ed uno, fra tanti
 l’ ho custodito
 e nascosto,
 tra i miei sogni veri.
 L’uso le sere d’Inverno,
 per riattizzare
 comete errabonde
 e rischiararmi di luce celeste,
 mentre cerco le mille risposte,
 nascoste,
 tra le grinze
 dei sorrisi di Dio
 
  Ripasso di storiaNel sottoscala
 del mio quotidiano
 tra polvere e diari bolsi,
 riscopro nidi di tempo
 ormai disabitati.
 
 Acciuffo al volo
 la stagione dei fiori,
 per calcare nuovamente
 palcoscenici pieni
 di giullari e sonagli,
 troppo tintinnanti,
 per non rivestirmi
 di vecchi sorrisi
 
  Canto di stanzaAnche la stanza canta,
 anche la stanza.
 
 Con le lenzuola fulve,
 le vele alla finestra
 prende il largo e canta.
 
 Canta
 di visioni, d’aspetti,
 d’unioni d’affetti,
 di tocchi lontani
 d’istinti e d’istanti.
 Canta
 Di lievi sospiri
 sensuali, solivi,
 di dita pittrici
 di segni sui corpi.
 
 Anche la stanza canta
 all’unisono
 col nostro fiato
 si strugge,
 confonde,
 ci cinge
 e
 incanta.
 SolitudineLa solitudine mi permea improvvisa,
 tra folle di voci stridenti
 tra cantilene d’imbonitori e maghi,
 tra tutto ciò, il niente m’inghiotte.
 
 Sono uccello dall’ali impaurite,
 zampetto e non fuggo, dentro il mio nido.
 Sono sociale per vigliaccheria,
 sono fratello per vestire stampelle
 e se solo il mio specchio trovasse
 estensioni nascoste,
 mi lascerei condensare nel tempo,
 cedendo alla carne insaziata
 l’ effimero gusto del tetro banchetto.
 
 Ma porto pane caldo, porto vino novello
 e un connaturato egoismo
 che fa donare infiniti sorrisi.
 Così, lentamente mi lascio a me stesso,
 e m’abbandona anche la solitudine.
 Una stella“Perché una stella
 nonè come un uomo,
 lei no, lei non illude,
 lei non finge luce.”
 
 Nel darci tesori,
 ed altre amenità
 ci scambiamo
 ferite nascoste,
 ombre sole,
 e le mani colorano disegni
 che sanno di sfregi.
 
 “Perché una vita
 nonè come una stella,
 lei no, lei non firma il cielo
 e non disegna carri,
 che ti portano via.”
 
 Il mio pupazzo
 sapeva di neve
 e la carota aveva un morso,
 proprio nel mezzo;
 e quando il sole se l’è preso
 ho pianto l’infanzia.
 Maè ancora nei miei pensieri
 e i suoi bottoni
 mi guardano gioiosi.
 Mono tonoDi che colore il mio sangue?
 E’ latteo di globuli diafani,
 se l’ ascolto le notti scure,
 e più non sa dare calore.
 E di che colore il mio coraggio,
 quando illude vite preziose,
 donando sogni rubati d’appendere
 su stanche pareti domestiche?
 
 Di toni di grigio il mio arcobaleno,
 che stona anche il nero sul pentagramma;
 di toni gravi il mio incedere incerto,
 che nonè avanzare ma staticità.
 
 Cercherò ancora gli acquerelli del cielo,
 tavolozze leggere,
 cercherò il volo di una mano farfalla
 che sapeva dipingere il canto del grillo.
 Cercherò ancora i tuoi salti sottili
 e lacrime gonfie di parole ingessate,
 quando l’inverno era vino e cannella
 e le castagne più dolci del fuoco.
 Cercherò il prisma del tuo sentimento,
 dove, passando, i miei mono toni,
 si tramutavano in mille scintille,
 donandomi ombre fatte di luce.
 Cerco perleCerco le perle preziose
 tra valve e vivide onde;
 scosto l’astio e l’odio di ricci
 per scovare frivola sabbia.
 Cerco e non trovo pace.
 Non sento vibrare le corde
 di gole di giorni distanti;
 e latita il mio lato amante,
 mentre maschera le mete
 coi ritagli di vecchi orizzonti.
 Saranno le notti a drogarmi,
 o i giorni a giocarmi?
 Quesiti che sanno di fatuo,
 come la viola nel deserto,
 come l’uomo tra la folla
 come un amante senza amore.
 Amici mieiRisorge ogni sera d’inverno,
 il dolore annegato in fiaschi
 stappati da alcolici cuori,
 senza che fiati il gallo.
 Sarà la gota che ho porto,
 o il bacio che ho ricevuto,
 ma sento ricorsi bussare
 e il cielo oscuro mi rende più cupo.
 Non affogano appendici
 che lo spirito conserva,
 ma s’ ostentano beffarde,
 tra il vetro e l’etichetta.
 “Via da me, questo mesto calice,
 colmo di plasma e colpa;
 via i rovi a treccia
 che mi cerchiano la testa!”
 Ma oraè tardi e devo andare:
 sul colle attendono i ladroni,
 amici miei, e un' ardente folla
 che delira al mio partire;
 m’attende ruggine sanguigna
 su legno di quercia nodosa
 e lacrime di madre a salare
 impronte mai comprese.
 MalinconiaRabbrividisce
 il mio Inverno
 alla mitezza
 di fiati scorsi,
 alla coreografia lieve
 di suoni danzanti.
 E’ un nome
 troppo arcadico
 ed immenso il tuo,
 mi ripeto,
 per riscriverlo
 sulle cortecce di oggi.
 Ma non riuscirò
 ad imbrogliare
 la tristezza,
 con pensieri
 ancora colmi
 di boschi
 da dimenticare.
 Se domaniLotto, mi batto
 per non farmi incrostare:
 secolare il tronco
 d’edera inverdisce,
 ma il mio cuore
 di luce di vetro brillante,
 il mio occhio castano,
 non cambieranno.
 Vernici cangianti spiccano
 e falsano i toni veri.
 Pennellate,
 giacche eleganti
 sanno promettere
 anche il futuro.
 Domani mi mostreranno
 la strada maestra;
 domani devo poterla
 marciare contromano.
 Domani mi chiederò chi sono;
 domani voglio essere certo
 d’ essere in dubbio.
 Domani voglio potermi
 ributtare nel mezzo,
 scoprire altri mille me stesso,
 navigare una politonia.
 NeramaroDa dove arriva questo sole ?
 Sarà l’ avanzo di un banchetto
 o il gioco abbandonato
 di un immenso bambino ?
 
 Dove andrà questo amore ?
 Sarà lo scarto di una vita
 o il pianto sospeso
 di feti mai nati ?
 
 Istinto, equilibrio, entropia.
 Il ghepardo affamato, insegue la sua preda.
 La carne fugge la carne
 Il tempo insaziabile, insegue l’ eternità
 Gli istanti si consumano a vicenda.
 
 Io ti inseguo, amore, ma come ti abbraccerò,
 sarai la tua morte.
 ... Tanti baciE tornerà l’ era dei suoni perduti,
 rivivrà un giorno l’ intesa silente
 e il letto del torrente rivedrà,
 il profilo mosso dell’ uomo chino.
 
 Bacia la terra, Cavallo pazzo
 Lei seme, lei madre, lei fonte e consiglio.
 Bacia la terra, figlio di Sparta
 Lei cruda, lei erta, lei filtro del meglio.
 
 Bacia la terra, pittore ingrato
 Lei vera, odorosa, lei tuono ed uggiosa
 Bacia la terra, indice teso
 Lei giudice e attesa, lei ultima sposa.
 
 Bacia la terra, nuvola irosa
 lei pianto, lei diga, lei spugna mai paga
 Bacia la terra, bambino mio
 lei corsa, lei fango, lei buio, lei strega
 
 Come sangue, nelle vene della terra,
 percorriamo i nostri sentieri,
 come sangue ci tuffiamo, dalle sue ferite.
 Come sangue impetuosi, corriamo al cuore.
 
 Bacia la terra, barbuto saggio
 Uomo, escremento, saremo tutt’uno
 Il mio bacio alla terra, compagni di viaggio
 navigherò il vento, m’incarnerò in Nessuno.
 CecitàSai quanti mondi, da viaggiare
 ed orizzonti da sfatare
 e terre e mari in questa società ?
 Nell’ universo della cecità
 
 A volte presto i miei pensieri
 agli occhi umidi di ieri
 e scorgo la semplicità
 
 frustrante era voler capire
 che cosa avessero da dire
 quei ciclopi, con la lingua senza età
 
 tu chiamala come ti pare
 ma quel sentirmi in alto mare
 è un’ emozione che mai mi lascerà
 
 Ed ora, ora caro amico
 che senti d’essere cresciuto,
 lo sai quantoè lontana la realtà?
 è distante molti anni fa
 
 Distante eppure qui accanto
 è tra le dita, il mio rimpianto
 di un bimbo, che ancora vive dentro te
 e, come allora, non riesce a far da sé
 
 ma non ti devi preoccupare
 che prima o poi, dal vecchio mare
 una nuova nave nascerà
 e un altro giro, un altro mondo, si farà.
 GiogoRipercorri il fiume che nasce intatto,
 come un mondo astratto, come un barlume di stella,
 e subito ti espandi, svelando antiche malie
 Il giogo non si spezza e la stradaè sempre quella.
 Rispondi incerto a richieste in bronzo
 ma ti ritrovi in sella alle mille teorie.
 
 "Resta nudo, non ti cambiare,
 come la serpe che, nuda, ha un’ altra muta.
 La liscia pelleè l’ invito più gradito,
 e gli umori sono un dono divino."
 
 Il giogo non si spezza e il bivio non si vede
 non si spezza, ma il ginocchio cede.
 Stringi il pugno del giusto, stridono i denti
 e impotenti giacciono ai tuoi piedi
 amici e desideri.
 
 "Ti doneremo un fiore, da incorniciare
 Avrai un giorno, per essere
 e una notte, per sognare.
 Ascoltaci: noi siamo i tuoi pensieri,
 il tuo giogo, il carro che trasporti.
 Chiedici tutto, e tutto avrai.
 Ma non chiedere te stesso,
 poiché avrai noi"
 
 La voglia di sorgente ti penetra ogni strato
 L’ essenza, l’ essenza !
 Qualè la differenza fra le tue idee e te stesso ?
 Com’ era il masso, dall’ acqua levigato ?
 
 "No, no, io non vi conosco,
 siete solo ciò che penso.
 Voi siete plasmati, corrotti,
 effimeri ed indotti”
 
 Dio mio, quanti concetti,
 Dio mio, quanti puntelli
 Rivoglio me stesso, mi rivoglio.
 Mangiar la terra, toccare il fuoco.
 Ripartir dal vero, ripartir da zero.
 
 Ripercorri il fiume che nasce intatto
 E subito ti espandi, invadente e corrosivo.
 Anni faDi fronte allo specchio rivedo il passato
 Ed un volto vecchio, dal tempo segnato
 
 Sei tu, chi mi guarda sei tu
 resta ancora un istante
 non ti chiedo di più
 
 Rivivo i tuoi boschi, dove andare a sognare
 di giovani muschi e sorgenti rare
 
 e ascolto la voce, ne sento il calore
 che parla e che dice e dà fiato al mio cuore
 
 Sei tu, chi mi parla sei tu
 non fermarti, t’ ascolto
 con il naso all’ insù
 
 Ma quando l’ alba, senza domani
 rubò la forza dalle tue mani,
 t’ avvolse dei frutti di erbe amare
 la seguisti ingenuo, senza fiatare
 
 ma quando l’alba ti chiese il presente
 annuisti serio, ma con sguardo assente
 pensasti che forse era meglio restare
 pensasti a qualcuno che volevi abbracciare
 
 sei tu, chi mi pensa sei tu
 ecco, vedi il tuo seme:
 chi ti pensa sei tu.
 Tutto ciò che restaEd ecco infine il tempo di contare,
 e mettere sul tavolo i gettoni,
 guardar le impronte figlie di un passato,
 spuntare i passi errati e quelli buoni
 
 Pesando cosa resta fra le dita
 col cuore ed il pensiero troppo uniti,
 verrebbe da lasciare la partita,
 abbandonando al sole i falsi miti.
 
 E di tutte le conquiste e di tutti i miei poteri
 i dolori, le sconfitte, puntelli fino ad ieri;
 e di ciò che era spada e di ciò che era croce,
 non resta che il mio fiato, il fiato della voce
 
 Dio, come vorrei poter giocare
 col sogno, come quando ero bambino:
 la notte mi sapeva far volare
 sui tetti, sino al canto del mattino
 
 Allora io potevo con la mente
 creare tutto ciò che avrei voluto;
 Maè così che nel plasmare il mio presente
 quel busto era me stesso ormai cresciuto
 
 E di tutte le conquiste e di tutti i miei poteri
 i dolori, le sconfitte, puntelli fino ad ieri;
 e di ciò che era spada e di ciò che era croce,
 non resta che il mio fiato, il fiato della voce
 
 E di tutte le magie e di tutti i miei voleri,
 le gioie, le poesie, i giovani pensieri;
 e di ciò che era corsa e di ciò che era vita,
 non lascio che dei segni fatti con la mia matita.
 Nuove ideeLontano corre piano un treno,
 il vento porta il suo ritmare.
 Un treno di concetti pieno,
 di senni da dimenticare
 
 Lo sento parlottare via
 fiume stanco, verso il mare
 ed unendo il sano e la pazzia
 incontro al mio tramonto andare
 
 Bianchi sassi sul cammino,
 nel ciglio le parole stanno;
 le rivesto di mattino
 così, da sole, nasceranno
 
 Lontano corre piano un treno,
 il vento porta il suo ritmare.
 Carrozze in corsa, senza freno,
 vagoni avvolti da scartare;
 
 l’osservo serpeggiare via,
 serpe ansante al sottobosco,
 lasciar dietro la sua scia
 promesse, che non riconosco.
 
 Bianche perle senza il filo,
 in mano, i miei pensieri stanno;
 stringo il pugno per dar loro asilo,
 domani, certo, cresceranno.
 
 Terra?
 In questa notte d’occhi ciechi, tutto tace.
 La luna siè ingoiata, il silenzioè senza voce.
 
 Nell’essenza del tempo qualche istante impazzisce.
 I pensieri vorticano là sotto, ed io, sul ponte del presente,
 avanzo carponi.
 
 "Chi sei ?"
 
 Tu insisti a bussare, ma in quest’anfrattoè scarso il posto.
 Certo, vorrei abbracciarti.
 Certo, vorrei sfiorarti, sfogliarti, fiore mio;
 ma temo la mia polpa.
 
 Come su una zattera, al largo, cerco di fronte
 o alle mie spalle,
 ma non scorgo che lo stesso orizzonte;
 così ti guardo, ma non avvisto
 se ancora siamo o se
 solo sono.
 Vie latteeTi senti perso,
 quando apri gli occhi
 e ti accorgi del letargo,
 morbido e narcotico,
 creatore di stirpi vere,
 di terre isolate a te ignote,
 nei mondi nudi e
 inviolati da altri aromi.
 
 “Madre,
 prendimi ancora le mani,
 è l’ultima volta, lo prometto,
 poi saprò accompagnarmi da solo;
 ma in questo cammino,
 le mie gambe
 mi stanno tradendo,
 e se cadrò,
 si spegnerà anche il cielo.
 
 Madre,
 fai accostare i miei occhi,
 è l’ultima volta, lo prometto,
 poi saprò chiuderli da solo;
 ma in questi sguardi
 ci sono voci
 che non mi sanno illuminare,
 ed il buioè meno oscuro
 se me lo doni tu.
 
 Fammi suggere ancora
 il tuo nettare, Madre,
 è l’ultima volta, lo prometto,
 poi saprò cibarmi da solo;
 ma in quest’epoca di carestia,
 ogni stillaè vitale,
 e il mio spirito, anoressico,
 anela la tua purezza”
 
 Ora richiudi i tuoi occhi.
 Puoi tornare al tuo letargo
 e rivivere universi di profumi indigeni,
 di progenie reali.
 L’immagine, un seno vivo,
 il valore del succo celeste,
 ti accompagnerà ad ogni risveglio.
 Al valoreEravamo soli a dar tepore al mondo.
 E nelle nostre mani, le nostre mani.
 E nei nostri cuori, i nostri cuori.
 Parlavamo ore ed ore, ma le nostre labbra
 si dischiudevano solo per respirare.
 
 L’incanto
 era la mappa d’ogni attimo
 della nostra pelle, sulla punta delle dita:
 colli, valli, polle ed ogni anfratto erano scritti.
 Il potere
 era uno sguardo che foggiava i monti
 e inventava i nuovi orizzonti,
 d’abbracciare,
 da vivere, da incastonare.
 Noi, eravamo il nostro cibo.
 
 Ma ecco, cinica e puntuale,
 la guerra,
 ci richiamò alle armi;
 ci ricordò la terra, ferrea e cruenta.
 compresse il cielo,
 curvandoci la schiena,
 e i nostri occhi,
 non riuscirono più a cercarci.
 
 E guerra fu
 
 Ora,
 solo, a scaldare il mondo,
 contemplo il nostro campo di battaglia,
 cosparso di parole agonizzanti
 e sorrisi estinti, di baci ormai freddi,
 amplessi inesplosi e mille, mille croci.
 Ora,
 come vuole ogni battaglia,
 soppeso beffardo la medaglia
 d’oro finto,
 che ho appuntato al petto,
 e medito, tra i veli umidi
 tutto il valore perduto.
 I miei montiIl cielo sui miei monti all’imbrunire,
 non so dire che colori sa inventare;
 gli occhi persi per potere assaporare
 un calore che il dolore sa lenire
 
 I sentieri che si lasciano scoprire,
 non so dire quanti passi hanno contato;
 tanti quanti sono i lumi del creato,
 e con la luce son finiti col svanire
 
 Quei ruscelli, mille e ribelli strali,
 non so dire a quanti uditi san parlare;
 un borbottio che lascia immaginare
 i versi, i balzi i voli, sugli aspri crinali.
 
 Poi la neve, bianca tinta sulle vette,
 non so dire che candore sa imitare;
 foglio bianco, sul quale ormeggiare,
 per lasciare impronte mai lette
 
 Infine il vento, lesto e verseggiante,
 non so dire la poesia che mi sa dare;
 un abbraccio, freddo da tremare
 che risveglia il mio essere viandante
 Filo sottileAvanzando sul filo, giocoliere,
 s’un vuoto da tempo spento,
 una scintilla, piano s’accese
 e una figura intuii a stento
 
 Impellenti, mesti sentimenti
 funestarono il pensiero,
 mentre logiche, drogate
 abbandonarono il sentiero.
 
 Un tremore, un tuono, un suono,
 una voce si mise a fuoco;
 avvolgendo, edera, il volere
 mi rese schiavo del suo gioco
 
 “L’inviolabile, mitica creazione
 è solo un germe di mano umana,
 da lui così costrutto
 per non sentirsi cosa vana”
 
 “Non esistono bendaggi,
 non conosco impedimenti
 sfascia ciò che ti trattiene
 butta via i ragionamenti!”
 
 “Pane, male, luce, notte
 sono stupidi quadretti
 fioche immagini corrotte
 insulsi e miseri concetti”
 
 L’imene lieve della ragione
 si lasciò quindi spezzare,
 ed ignorando ogni prigione,
 il morbo prese a rosicchiare.
 
 Così, mano nella mano,
 li vidi, allegri andare via;
 il mio traviato senno insano,
 e l’incantevole Pazzia!
 A K.Valenti maestri
 al tuo cospetto,
 per cantarti all’unisono,
 cesellando uniti,
 il tuo essere valente
 e di spiagge
 degna ed ammantata.
 
 I fiati, mai sprecati anelano
 una vita sterminata, immane,
 come nido da scovare,
 punteggiato di vite in attesa.
 
 L’ombra non s’espande
 e la natura,
 inerme si ritrae:
 con un tuo singolo pensiero
 la notte mia s’abbaglia,
 e gli astri s’incagliano
 confusi, neri,
 sfumanti.
 Chi sei tu?
 ItacaLa risacca accarezza
 l’Itaca mia,
 rifugio di un cuore
 mai troppo nutrito.
 Orizzonti d’acque,
 profili sfoggiati,
 lasciano in mano
 grassa terra concreta.
 
 Qui coltivo i miei orti
 al riparo dal torto,
 dissodando al pio sole
 i più oscuri pensieri.
 Poi riparto all’ignoto,
 così ritemprato.
 Itaca attende;
 non mi ha mai lasciato.
 Per sempreDi bocca in bocca,
 di cuore in cuore,
 aleggia, essenza,
 il sentimento senza tempo.
 
 Dal mio oblò appannato,
 da un fiato lieve,
 spio estasiato
 la corolla della sera,
 così offerta
 all’ultimo bagliore,
 in avido suggere
 ogni goccia di calore.
 
 E non giungerà lama
 che ne reciderà lo stelo,
 non vento
 che ne asciugherà rugiada,
 non dita
 che la sfioreranno;
 
 solo eterei sospiri,
 folate quotidiane,
 che di bocca in bocca,
 di cuore in cuore,
 guizzeranno, fieri,
 sfidando venerande rughe
 ed occhi, umidi e pieni
 d’immortali, magnifiche,
 tenere promesse.
 PretestiQuando l’agire si fa più pressante
 e neppure l’attesa raffredda il rovente,
 sovente l’errore diviene padrone
 carpendo l’ambire, facendolo proprio.
 
 il laccio si serra, il fine tramonta
 dietro colline di scuse ed appigli,
 dove, la falce,è la cura del grano,
 dove, la mano,è una fonte di fati.
 
 Fardelli ribelli si cedono al forse,
 le ataviche morse divengono incerte,
 le aperte ganasce, arretrano il ruolo
 lasciando, sul suolo, bisacce afflosciate.
 
 Certo, son cento, mille i pretesti
 che restano, resti, in eterno languire;
 non serve giurare, al tempo tiranno;
 le fosse, si fanno ogni giorno più ingorde.
 
 Così, la tua meta, si scopre deviata,
 si ferma, rifiata, contempla d’intorno;
 poi scorge l’inverno che avanza spietato:
 “Ormai mi ha raggiunto. E’ fiato sprecato.”
 
 Come dighe di fumo, sul fiume vitale,
 pretesti.
 IndomitoEccomi, ribelle,
 svelare
 e riscoprir voci sopite,
 per piano farle destare
 e ricondurle alle gole rapite.
 
 Eccomi, di vite,
 fatale
 lacrima nel mare,
 guerreggiare col dio sale,
 attento a non bruciare.
 
 Eccomi, vagare,
 nel sole
 vulcano brontolante,
 masticar meste parole
 ed inghiottir lava fumante.
 
 Eccomi, piccante,
 feccia
 paladino del male,
 caricar lesto la freccia
 e dare morte col suo strale.
 
 Ed eccomi, rivale,
 Re,
 all’ultima mossa;
 reclinare a lato il capo,
 ma, con le unghie,
 scavare la tua la fossa.
 Ricordo paroleRicordo frasi appese, lì
 mere, stese, al sole ad asciugare,
 ed io a saltare per cercarle,
 afferrarle, per poterle srotolare.
 
 Ricordo il nostro camminare:
 con sorrisi, sguardi, discorsi,
 rivestimmo passati corsi, antiche piazze.
 Io, farfalla inesperta, volavo a stento.
 Tu, aliante, scivolavi al vento.
 
 E mi dicevi: ”Io lo so, perché
 l’ ho conosciuto, Napoleone
 non si sentiva, poi così grande!”.
 “Ricorda, mio candido amico,
 non albeggia ad Est: l’auroraè qui,
 ad Estè la sera...”
 
 Ed io, succhiavo tutti i tuoi discorsi,
 come caramelle li rigiravo in bocca,
 lentamente, per meglio gustarli.
 Ed io, contenevo tutto il tuo fiato
 nella mongolfiera della mia mente,
 che, senza zavorra, mi rapiva al cielo.
 
 Gli anni poi, passaggi di tinta al muro,
 mi hanno mostrato, e mascherato
 tutte le ore e i colori del tempo,
 e, componendo il mio mosaico,
 ho conosciuto quanti mezzi giorni,
 e mezze notti.
 
 Così, quando a volte
 il mio tramontoè troppo opprimente,
 mi volgo ad Ovest; inalo piano,
 ridò calore alle tue parole,
 e ricordo, con un sorriso,
 perché non muore un sole.
 
  FiorirannoCome bocciolo
 in attesa del sole
 le mie parole
 in punta di labbra,
 anelanti il tuo sorriso,
 per aprirsi e fiorire
 a quei raggi incantati.
 
 E che le mie radici
 tramutino in linfa
 il meglio della mia terra,
 e che i petali ne sappiano
 trarre profondo nutrimento,
 per sbocciare
 morbide e splendenti,
 ai tuoi sensi, a te,
 dalla fertile gola
 del mio pensiero.
 DomaniIeri,
 scordandomi, il sonno,
 mi ha fatto riscoprire
 il sapore d’un’ acqua salata,
 e la durezza di calli sul viso.
 
 In quest’ oscurità ti ridipingerò,
 e, domani, ti verrò a cercare.
 
 Con l’ego in un pacchetto
 e la mia chiave in pugno
 ti verrò a cercare,
 lasciando aperto questo petto,
 in balia della tua bocca.
 
 Perché un giorno nonè,
 nonè domani, non vita,
 non pane.
 Ti verrò a cercare.
 
 All’alba gocce di sole,
 mille pennelli,
 affrescano l’aria,
 e si respira un dorato tepore,
 che non svanisce sonno
 e sogni, appena vissuti.
 
 Domani ti verrò a cercare,
 e, ascoltando,
 sarò uscio per te.
 Strada maestraMorire, per rinascere:
 il silenzio degli alberi,
 è l’autunno senza foglie.
 
 Mano nella mano,
 scolari e pali,
 accompagnano,
 predestinati, la via.
 
 Ma perché
 continui a ridere,
 a gridare?
 Quando,
 quando crescerai?
 
 Certo, di là,
 ci sarà più spazio
 per essere grande.
 Certo, ritroverò
 la sincera luce azzurra
 e l’immane quiete
 di rami contorti e protesi
 a trafiggere il cielo,
 per perpetuare il rito del tatto.
 
 La mia vivida lingua sarà muta
 solo quando avrà perso le radici,
 e l’ anima orfana
 solo quando mi avrà mangiato.
 
 Proseguo imperterrito, intanto,
 il mio cammino d’alunno di vita.
 DNAmaroRammentavi
 un pugno di terre promesse,
 e come il cuore scopriva,
 un grano amante del grano.
 Ora guardi,
 e senti il vento infuocato,
 l’arso che ruba l’essenza,
 e n’asciuga, impietoso, le stille.
 Scorgi,
 la vita che annega impotente,
 in un mare di sale insensato,
 solcato da insipide menti,
 che giocano un dado truccato.
 
 Ora vedi,
 due mani piene di soffi,
 di aria che sgonfia polmoni,
 e perpetua promesse scontente,
 sputando la terra e i suoi doni.
 La vista miglioreFrugando,
 scrutando il tuo riflesso,
 l’inevitabile distorsione
 m’immagina i tuoi tratti,
 agli occhi miei
 più veri.
 Ma introvabileè il meglio
 d’uno sguardo mediato,
 perché pocoè più bello
 d’una svista d’amore.
 Attrazione fataleGuglie aguzze,
 sotto i piedi,
 per rammentarmi,
 quando terminerà il mio volo,
 la gravità del momento.
 
 Punte acuminate,
 sopra il mio capo,
 per evitare,
 riprendendo l’ascesa,
 di restar senza sospiro.
 GaiaGetta al vento
 il manto oscuro;
 rivesti d’azzurro
 e ponimi in capo,
 il raggio possente
 d’ un sole rinato;
 e che ancora,
 sempre,
 questo ritmo tribale,
 tempo di
 cuore sia.
 Tutte le veritàCome mille soli
 d’anni d’attese,
 le verità s’ardono
 concrete di credo.
 
 Illumina, abbaglia
 la voglia intestina,
 brandisce il fioretto
 e inizia a schermire
 Viene lo sguardo
 un occhio filtrato,
 e ciò ch’è suo raggio
 è riflesso mediato.
 
 Come mille soli
 che infiammano il vero
 stoccano ovini.
 S’attendono danni.
 Atavica levaVola, sfolgora, guizza,
 giavellotto,
 tracciando un arco in cielo;
 poi, all’alba della sera,
 fantastico cuoco,
 m’apparecchia
 ricche notti,
 lauti sonni,
 e ingordi, aerei, puri itinerari.
 
 Ritrova infine,
 al tramonto del mio sogno,
 l’ancestrale fulcro
 e, con eterna,
 sapiente dolcezza,
 riprende
 a sollevare il mondo.
 Il pianoPiano piano,
 aprì il grembo e mi donò il fiato
 offrendomi una vista, per scorgere al buio
 e un periscopio per sbirciare fuori.
 Piano piano,
 lasciò la mia mano, in uno scorrere
 di pelli e di dita ad uncino,
 in un donare a pugni chiusi,
 in attriti eterni e fausti.
 Piano piano,
 ha affinato il mio equilibrio,
 litigando col vento per non giocarmi,
 spianando la curva al mondo,
 per farmi avanzare in piano e,
 piano piano,
 mi ha bisbigliato all’orecchio
 di una vita in prestito,
 anima lisa da riconsegnare
 pegno di un fantoccio che
 Piano piano
 ha vissuto, ridendo ed amando,
 ha vissuto, giacendo e vagando,
 piangendo, ha vissuto, il suo tempo,
 l’incantesimo eterno, ha vissuto,
 il piano, piano…
 Fiat luxIn un attimo di luce,
 il pensiero tenebroso,
 s’appiglia rifiata, freme;
 bacia ciò che vede,
 mira gangli, d’azzannare
 e, insinuante, possedere.
 
 Spegnete quella mente,
 spegnetela,
 essaè fonte di regressi!
 Bruciate quel bosco,
 bruciatelo,
 in lui s’annida
 il lupo cattivo.
 Buttate la bomba,
 buttatela,
 s’accenda la vampa,
 infinita fobia,
 e che eterno buio sia!
 Precarie apneeTi cospargi, così, d’albore
 e affondi
 nell’atro anfratto, padre
 d’un occhio vero.
 
 E’ l’acqua del tuo mare
 a offrire rotte,
 e ciò che scorgi sponda
 cheè confine.
 
 Vivi il tuo sole
 offri il tuo corpo,
 il tepore sulla pelle
 è argine di luce.
 
 Il faro, sul tuo passo
 ti renderà suo figlio,
 e non soffrirà più il buio
 ogni tuo sguardo.
 Il coccodrilloEmblema spezzato,
 scudo foratoè,
 l’elevarmi a difesa
 di frana ormai scesa.
 Certo,
 il suo passo ha soppresso,
 stritolato ogni frangente,
 indifferente.
 Noncurante.
 Ma era palese,
 dichiarata, e
 la falsa meraviglia di chi
 ha vissuto il trascorso,
 è bandiera sventolante
 inamidata.
 Indifendibile, la Natura,
 accusa lo scarso acume.
 Leiè.
 L’Intelligenza sarebbe.
 Fuochi fatuiNon avere timore,
 non sono salse gocce di pianto,
 quelle che sentono le tue sottili dita, solo,
 in questa tersa, distesa, soffice notte,
 la frenesia di avvistare stelle cadenti,
 sta inumidendo i miei occhi esausti.
 
 Eccola, eccone una!
 Stria. Riga di luce il cielo,
 rischiara il presente
 e m’innamora dell’ignoto.
 
 Non cercare il mio volto, non c’è luna ma
 quest’esile scia cosmica, basta a far raggiare
 il rivolo sulla mia pelle che, in un niente,
 l’assetata brezza notturna, prosciugherà.
 
 Dolcezza caduca di due pari sorti,
 due fragili tracce, iniziate
 l’una, dall’universo profondo,
 l’altra dal profondo del cuore,
 Destinate entrambe ad un’effimera vita,
 e che, per un palpito, si sono specchiate.
 
 Ecco, guarda. Guardami, mentre rifletto
 l’identica amarezza di due effimeri fati.
 Guarda e dimmi che ciò che vediè l’eterno
 Un altro uomoDue uomini si guardano,
 due occhi
 si specchiano in abissi,
 in cardinali opposti;
 eppure gli sguardi son fusi,
 eppure il paneè lo stesso,
 ognuno non vede
 che il proprio riflesso.
 Impera la lotta.
 Due uomini si parlano,
 l’udito percepisce
 suoni ignoti,
 ciascuno si ferma al labiale,
 e non sente e comprende
 che ciò che vuole.
 Il contrastoè padrone.
 Si sfiorano due uomini,
 magneti identici,
 si ritraggono,
 come lumache si ritirano,
 e il fremitoè di fastidio.
 Il sole imperterrito rinasce.
 Scrivo, io come un uomo,
 scrivo di viste, di voci
 di tocchi.
 E lotto, mi scontro,
 cerco luce.
 Scrivo a me stesso.
 A un altro uomo.
 VariEtàEstendo le maglie,
 rifaccio lo staccio,
 l’orizzonte imminente
 mi fa meditare:
 quello che ieri
 era il grezzo, lo scarto,
 oggi rivela valenti virtù.
 
 Mi fermo disperso,
 ristudio il crivello.
 Che sia la mia vista
 che ha perso vigore,
 o forse s’è esteso,
 col tempo, il mio cuore?
 
 Eteree farine
 volano al vento,
 crusche concrete
 ondeggiano appena.
 Cambiano i pesi e
 con gli occhi,
 il mio metro;
 
 le travi di legno
 reggenti archetipi,
 con sagge stagioni
 si son stagionate,
 da mani vissute,
 son state plasmate.
 
 Ora, afferro la forza
 d’inverni impietosi,
 comprendo il potere
 d’estati scottanti:
 freddare il rovente,
 fondere il ghiaccio,
 raschiare cortecce,
 dar tempra
 al mio sguardo.
 TuTu,
 tra me e il cielo;
 ritagliavi l’orizzonte
 e se ti scostavi,
 non riusciva l’azzurro
 a riempire la tua assenza.
 Tu,
 tra me e il sole;
 t’inzuppavi di raggi
 e non luna,
 avrebbe offerto
 un’eclisse così chiara
 
 Ora
 il cielo, tra te e me;
 ed io che imploro il celeste
 di ridonarmi, un istante,
 quel profilo incantato.
 
 S’insinua il tuo sogno
 agli occhi aperti,
 e tra le strade,
 i tuoi capelli,
 hanno sempre appena
 voltato la via.
 
 Lascerò,
 il mio cuore tarpato
 su questa panchina,
 dove le stelle, cadendo
 ci hanno fatto volare.
 Lascerò,
 ramo asciutto il pensiero,
 ai piedi del tronco,
 dove l’autunno avvolgente,
 lo saprà ricoprire,
 custodendo il tuo volto dal gelo di notti,
 e nascosto dai miei denti tremanti,
 ma per sempre intagliato nei solchi
 delle mie inguaribili mani.
 Tempo di valzerPovero passo mio,
 così certo e vitale,
 che non sa incespicare;
 povero passo illuso.
 
 Povero cuore mio,
 così vero e distratto
 che dimentica il ritmo;
 povero cuore ingenuo.
 
 Un giorno si scopriranno,
 il mio passo e il suo cuore,
 abbozzeranno un balletto,
 per esibir levità;
 poi, nel bel mezzo del giorno
 si lasceranno andare,
 e nel tempo di un passo vedrò
 il mio povero cuore cadere.
 Oh, povero me!
 FantasmiQuando sbattono le porte
 si schiudono le labbra,
 risorgono i fantasmi,
 rivivono ferite.
 
 Sgorga,
 è siero stagionato
 dalle finte cicatrici;
 stenta
 il vento a prosciugare
 vecchie lacrime indurite.
 
 Quel risorgereè morire,
 come mille altre volte;
 a che serve esorcizzare
 se l’infernoè dietro l’uscio?
 
 Tu,
 non sbattere la porta,
 non bruciare i calendari,
 non lasciare che il fantasma
 torni a prendermi la mano.
 E tu,
 non sbattere la porta,
 non mostrarmi la tua schiena,
 il domani brama luce
 ma il mio cuore sa del buio.
 Di ghiaccioIl ghiaccio, che sfiora leggero,
 d’alone di gelo vestito
 non riesce a celare il suo cuore,
 anima vitrea e sincera.
 E scivola, scivola e vola
 su bianche distese sorelle
 e rotola, rotola trottola,
 scintilla su groppe increspate.
 è ghiaccio, che vela e ricopre
 col manto di mille diamanti,
 il corpo e riaccende un sorriso
 negli occhi di chi sa ricordare.
 E ghiaccioè il tuo volto scolpito
 e il fiato immobile e spento,
 ghiaccio il tuo sguardo ed i gesti
 che soli mai resteranno;
 ghiaccioè in me la tua voce,
 la pelle nivea e venata;
 ghiaccio gli umori e i profumi
 che soli mai scioglieranno.
 Nella mia valigiaCerco il modo di esserci;
 nel cuore
 della tua notte stanca,
 nel tuo disegno arrotolato,
 sulla punta
 di una spada fiera.
 Come diga
 nel fluire di pensieri,
 cerco di esserci.
 Nel battere
 dell’ala al vento,
 aggrappato
 ad un lobo ferito,
 nel petalo dispari,
 in un calzino bucato,
 cerco di esserci.
 Già mi vedo
 Come quando non ci sei,
 già mi sento
 come quando non c’eri
 e vacilla, il castello di carte
 nella mia valigia.
 Cerco il modo di esserci,
 perché tu ci sia.
 RelativitàMonotonoè il diamante:
 riluce, edè
 ugualmente bello,
 da ogni parte
 lo si fissi.
 Incantevoleè la vita:
 rifulge
 di lati ignoti e nuovi,
 in ogni istante io la scorra.
 Forature latentiMi manchi,
 come cruna ad un ago,
 come gobba al cammello,
 mi manchi;
 come filo a un discorso
 ed odio al crudele,
 mi manchi;
 come domani al profeta,
 come ieri alla storia,
 mi manchi;
 come foglia al pudore,
 e orecchio al canto,
 mi manchi;
 Come tempo al tragitto,
 spietatezza alla morte
 mi manchi;
 ti cerco, e mi manchi,
 sognata vita di scorta.
 A stentoForse
 i molti mari di leggi,
 o troppi
 i punti cardinali,
 ma, se guardo le mie dita,
 grondano impotenza.
 
 E penso a stento,
 imbottito e avvolto
 da fiati colti.
 A fatica i miei occhi
 fanno breccia su muri,
 su cortecce deluse;
 su sguardi rubati
 a distese pianure,
 colme d’arbusti,
 d’idee ed astrazioni
 più vere e più giuste,
 multicolori.
 
 Sta,
 la vecchia pianta stanca,
 animo nobile in tronco
 piegato dagli anni,
 silente ammonimento
 al già stato;
 ma nemmeno la sua ombra
 dona luce;
 neppure il suo alone rassicura.
 Ancora arranco, ancora
 frugo inquieto nel passato,
 e penso a stento ad un futuro.
 Il conoscere, da noiQui,
 dove la cultura si misura
 a centinaia di chili
 di libri letti;
 qui,
 da noi,
 dove il sapereè pane
 e strutturareè cibo
 e vino il concetto,
 banchettiamo
 ogni giorno
 con discorsi ripieni,
 squisiti,
 colti e con assai sale;
 e ad ogni trascurabile cosa
 diamo rilievo,
 ad ogni piccola parte
 diamo importanza;
 qui,
 anche il più raro fiore,
 unico e sconosciuto,
 è sensatezza
 e qui,
 da noi,
 è colto.
 Ultima puntataNei passi tuoi più scuri,
 guardami, io ti farò da faro.
 Nei tuoi momenti vuoti
 mangiami, ti nutrirò di vero
 
 Ma non giocarmi, non mi giocare
 e come un dado, non mi lanciare,
 non sono il punto su cui sperare
 
 Nelle tue ascese, prive di prese
 stringimi, sarò la roccia.
 Nei tuoi deserti asciutti
 attingimi, diventerò la goccia
 
 Ma non giocarmi, non mi giocare;
 sul tuo tappeto verde, non mi puntare,
 non sono io il bersaglio, su cui mirare
 
 Nella tua giungla impervia
 leggimi, e vedrai la mappa.
 Nelle tue vittorie
 levami, perché sarò la coppa
 
 Ma non giocarmi, non mi giocare;
 e sulla tua scacchiera, non m’ingannare
 o il mio temuto amore mi vedrà arroccare
 Buco neroM’accosto attento e lentamente al centro,
 all’anima del cosmo e attendo,
 che s’insinui luce al nero buco,
 per rischiarare orditi mai svelati.
 
 Fagocita, inghiotte, infinito pozzo,
 ogni scintilla, ogni pensiero e ingrossa
 come se fosse indubbio, certo,
 d’assimilare tutto l’universo.
 
 Ora conosco, io, questo segreto,
 e corro, corro, urlo e mi dispero,
 ora so che tutto l’intelletto
 in quell’oscuro foro andrà a finire.
 
 Stremato, poi m’accascio sulla spiaggia,
 e da una stanca luna illuminato
 riordino tutto il mio creato,
 e al freddo cielo entropico lo dono
 Al vesproFermati, oh sole!
 Un uomo s’è perso
 e l’angoscia gli grida
 che sta traboccando.
 
 Tuttoè da fare,
 in pochi momenti,
 troppoè da dire
 in esigui secondi:
 questo balletto
 era solo una prova,
 adesso ha scoperto,
 come operare;
 questo avanzare era
 un sogno mal speso,
 ed ora conosce
 tutto il valore.
 
 Fermati, oh sole!
 Risorgi dall’alba,
 riporta le perle
 d’istanti svenduti.
 SomeHo promesso al mio cuore
 una vita esaltante,
 una stima maggiore
 per il suo pulsare.
 Ho promesso più strali,
 per farlo arrossire
 e riportare più umana
 ogni emozione.
 Ho promesso che il vento
 non mi avrebbe rapito,
 e che ogni pensiero
 avrei zavorrato.
 Ho promesso al mio cuore
 che avrei combattuto,
 ed avrei ricucito
 un passato strappato.
 Gli ho promesso conchiglie
 ripiene di suoni,
 e cori marini
 su cui galleggiare.
 
 Ed oggi che ho visto,
 che ho pianto, creduto,
 ed ho più impronte
 che passi da fare,
 il giorno spergiura
 che ieri era un sogno;
 ma pesa in petto il fardello,
 d'ingenue promesse.
 Un altro respiro Nel mare d’ignoto,
 dado gettato,
 ora rimbalzi,
 verde pallina,
 tra funghi di flipper
 e soli brucianti.
 
 Tutto tocchi e tutto
 vuoi tastare,
 figlio di tatto e sorpresa:
 il tuo non sapere
 è stiva da colmare.
 
 Ma tutta l’acqua del mondo,
 a fatica,
 ti saprà dissetare;
 tutta la luce del cosmo,
 a malapena,
 ti potrà illuminare
 perché,
 figlio di tatto e sorpresa
 i tuoi occhi, ora accesi,
 sono pozzo
 che non sa traboccare.
 Eterno bambinoSe tu fossi Tutto,
 non avresti altro da esigere,
 saresti Tutto e più nulla.
 Più nulla?
 Il vuoto,
 vuoto anche di luce
 non si lascia immaginare;
 la tua carne, gonfia di pensieri,
 non fa che consumare,
 e incauta sognare e risvegliare
 atavici nonsensi.
 “Fossi almeno il niente,
 che contiene e avvolge il cosmo,
 piano sparirei per, lentamente,
 riessere, assorbito dalla sua espansione,
 in un crescendo fiero,
 inesorabile, d’autocoscienza.”
 Amniotico ed immenso albume,
 culleresti il tuo tuorlo.
 Finalmente ermafrodito;
 artefice di te stesso, di un universo
 le cui costellazioni
 sono tue frazioni,
 e le tue dita sinaptiche
 infiniti tragitti da te dettati.
 
 Ed eccoti Tutto.
 Ad altro non puoi anelare.
 Tu sei Tutto. Tutto sei tu.
 Solo il nulla che eri,
 più non possiedi.
 Può il Tutto contenere il nulla?
 Il nullaè scorza: lui contiene il Tutto
 E, certo, non puoi regnarne poco,
 non sarebbe tutto il nulla.
 Ti rendi così conto, che per averlo,
 devi negare il Tutto.
 Si tradisce ancora
 la tua instabile natura.
 Ancora gli estremi si confondono.
 
 E il Tutto e il niente,
 è dondolo d’eterno bambino,
 che quandoè in alto,
 vuol discendere, quando in basso,
 risalire e,
 se in equilibrio, più non si diverte.
 VoleraiChissà come fremeva,
 quel ricciolo
 inquieto,
 mentre le folgori
 si sfogavano vicino.
 Piccola ciocca
 persa
 nel gorgo del mondo,
 rintanava il pianto
 sotto l’ala
 d’idee paterne.
 I pensieri,
 saette latenti,
 balenavano a sorpresa,
 che la mente
 acerba
 ne restava abbacinata.
 Troppa energia,
 in così troppo
 poca vita,
 e la crisalide
 avviticchiata,
 non riusciva a spiegarsi
 e spiegare
 le sue giovani ali.
 Volerai, volerai,
 promise candida
 la colomba,
 volerai,
 fece eco il corvo
 di fumo nero.
 Volerai, bimbo.
 Volerai.
 Orme di sabbiaArrancano i ricordi di un sentiero,
 di foglie e ricci secchi per tappeto,
 scricchioli autunnali sempre amati,
 da sandali di gomma avventurieri.
 Scioglievano i colori novembrini,
 confusi da giudizi ancora acerbi,
 profumi amici di brusii lontani
 e nudi nidi, sui legnosi arti;
 sfioravano le punte nubi incaute,
 il cielo era lì, poco discosto,
 e come un album da ricolorare,
 offriva forme alla mia bocca aperta.
 Ma i giorni lo stradino hanno scordato
 e quando son tornato per cercare,
 i rovi mi hanno dato il benvenuto
 e non sapevo più dove guardare.
 Invecchia l’uomo e riga sulla fronte:
 è ruga d’oro scritta dal tragitto,
 che se non si percorre più sovente,
 svanisce, righiottita dagli sterpi.
 Soli nascostiAll’ombra
 del mio sicomoro
 rivolto
 le zolle deluse,
 per farle
 baciare dal cielo
 e inondarle
 di spore novelle.
 Taglio le unghie
 alle piante
 per renderle
 più rigogliose,
 estirpo
 le erbe maligne
 che levano linfa
 al mio prato.
 Coltivo radici
 e germogli
 riscoprono
 il sole di marzo,
 all’ombra
 del mio sicomoro.
 Di teDell’ aura che gioca
 con fronde cangianti;
 dell’ avido rodere
 d’un bruco affamato,
 io vivo.
 Dell’ombra che allunga
 e che fugge dal sole,
 dell’urlo alla luna
 di gole lontane,
 io vivo.
 Del cuore di un cuore
 che batte, che batte
 che scorre la linfa
 di vita,
 io vivo.
 Ecco, io vivo,
 nell’iride rorida
 di gocce d’aurora;
 in tessuti di ragno
 tramanti tra l’erba,
 io vivo.
 Io vivo,
 nell’ occhio di luce
 che impara il tuo corpo,
 nel serico fiato che
 vela il tuo petto,
 di te,
 del tuo vivere,
 io vivo.
 Fragole pronePretesto.
 
 - …Solo quattro
 fragole selvatiche.
 Per il suo piccino.
 
 Tra dita tremanti,
 il ciuffo verde di giugno ora colto
 impuntato d'un rosso inchinato.
 Parole di gocce di sangue
 negli occhi di padre.
 E la mano che stringe
 e che soffre
 la Primavera imbrattata di ieri.
 - Sa, mi manca tanto
 mio figlio!
 
 Pretesto d'Amore.
 Anima puranon ammortizza più
 l’anima opaca che stringo,
 e sonde e gangli stranieri
 la passano e storpiano incauti.
 M’accovaccio nel cielo,
 ridisegno un feto.
 Rarefatta, l’aria che sento
 è più amniotica di mari di sale,
 più madre di terre argillose;
 un cordone saprà riportarmi
 nella mano che mi ha generato,
 e il mio essere sempre in cammino
 saprà ripartire dal pianto.
 AttimiAttimi,
 stille d’istanti,
 s’avvicinano lesti
 per appena spruzzarmi
 e fuggire al remoto;
 buco nero del tempo.
 
 Attimi,
 suonano al mio campanello
 e via repentini vociando
 a celiare, scalpitando le vie,
 senza nemmeno concedermi il tempo
 per adirarmi.
 Sono secondi sul mio quadrante
 provo a fissarli
 ma mutano ogni momento,
 e già non sono più loro.
 
 E poi via, via.
 Via,
 in un’inutile ed eterna ricerca
 d’ un domani che dia loro asilo.
 Via,
 mano nella mano,
 ad assecondare altri quadranti.
 Via,
 a giocare altri astanti e scovare
 campanelli sorpresi da fare squillare.
 Nel castello(a Katia)
 
 Nel castello
 dei tuoi pensieri,
 troppi gli intoppi
 e gli spigoli vivi,
 per chiudere gli occhi,
 avanzare a memoria.
 
 Ed ogni stanza
 è stanza di stanza
 e il pavimento
 è di steli di rose.
 
 Proverò ad entrare,
 in punta di cuore,
 per non forarmi,
 per non ferirti;
 
 e quando un’aiuola
 avrò ritrovato,
 seminerò
 mille spine spuntate,
 per dartele in dono
 nei giorni d’inverno,
 quando il gelo,
 in agguato,
 sarà più pungente.
 Colgo a piene maniColgo a piene mani
 dal fondo del mio cuore,
 da polle sempre fresche
 e ricche di sciacquii.
 Sorgenti misteriose,
 e nate chissà dove,
 si mischiano, avviticchiano
 d’ossigeno m’inebriano.
 Colgo a piene mani
 da fonti itineranti
 m’abbevero di vero;
 irroro il mio pensiero.
 Soccorsi fantasticiCorri, in questi giorni scuri.
 Corri, accarezzami il cuore.
 Corri, giungi in mio aiuto;
 in questi giorni crudi,
 amari,
 almeno tu, fatti certo
 e rischiarami, sogno:
 
 se apro i pugni, non vedo.
 L’adulteroLa vedovaè nera:
 il maschio
 l’ ha beffata,
 e tradita
 con la morte,
 che a letto s’è portata.
 
 “Giuda,
 è tuo il bacio che ha tradito!”
 
 Tradendo la sua gola,
 tradendo il suo appetito.
 Infanzie infrante(tre giorni a Beslan)
 
 Brillavano sottili e inconsistenti
 aggrappandosi allo stelo, ai loro sogni,
 le dita di mollica e bianco latte,
 la linea della vita da inventare.
 
 Abissi, dietro gli occhi da colmare
 e mille piedi e impronte da lasciare,
 soffiati via da giochi troppo grandi
 da fuochi fatui freddi ma letali
 
 Saranno loro
 la coscienza del futuro,
 la catena che trattiene
 adunche mani
 amare
 e colme solo di dolore?
 
 Saranno loro
 il cuore di domani,
 che pulsa, vive, irrora arti,
 anchilosati e crudi
 da linfe
 acide di ieri?
 
 Brillavano discoste, inesistenti
 pupille che sputavano al reale,
 le dita di mollica e rosso sangue,
 nel palmo una parabola già incisa.
 
 Venite bimbi, spugne, non temete
 questoè ciò che voi vivrete;
 venite, non perdete una parola:
 è solo il primo giorno di scuola.
 FragileAffacciato al poggiolo
 dell’ istante, vedo
 saltellare la mia gioia
 sull’ erba fresca.
 Profumi forano
 i sensi
 e l’imminenza
 è una dolce attesa.
 Sereno,è sereno
 il bosco, e freme
 come foglia al vento
 il mio pensiero,
 aggrappato al ramo
 del momento.
 Un battito di ciglia,
 edè già asfalto.
 L’ultima parolaCome vaporeè promessa di pioggia,
 nebbiosi i pensieri
 scrosceranno domani;
 
 e saranno alluvioni,
 dirompenti parole su gole bruciate,
 tuoni squarcianti silenzi di seta.
 Saranno tumide nubi,
 salate d’oceani incombenti,
 abissi nascosti rigonfi di verbi.
 
 Non Arca, non biblica cima,
 potranno salvare le menti stravolte
 da fiumi ululanti.
 E parole saranno la clava,
 parole il sasso, la lancia,
 il fucile. La bomba.
 
 Conquisteranno le terre
 d’uditi disposti,
 subisseranno sordi nemici
 e insegneranno l’immensa potenza,
 sganciando sui tetti ignoranti,
 la terminale Parola Atomica.
 SaràQuando sarò sereno
 ti penserò più piano
 ricorderò il tuo seno
 e un fremito lontano
 
 Potranno un giorno i giorni
 sembrarmi dei momenti
 e i pensieri in cui ritorni
 cacciare via i tormenti
 
 Ma non ora, non adesso
 che ti ho quasi cancellata
 e annullato ogni recesso
 
 ma non adesso, non ora:
 c’è la mente mia che brucia
 il mondo si scolora
 
 Stanotte sputerò alle stelle,
 maledirò l’ amore
 mi sfilerò la pelle
 e con essa ogni tuo odore
 
 Stanotte le grandi ali
 si formeranno a culla
 e forse, mentre sali
 ti vedrò volare al nulla...
 
 Quando sarò sereno?
 Come vento Il seme di maggioè tra noi,
 più avanti il suo cuore lo farà vegliare,
 più in là il suo orgoglio lo farà scoprire
 e l’occhiuta betulla, sorridendo m’addormenterà.
 
 Piccina mia, che guardi e non intendi
 ascoltami, ti prego, non danzare sul mio cuore:
 i tuoi capelli si poggiano sull’aria,
 ma le bisacce colme, s’infrangono ai tuoi piedi.
 
 La casa dei fiori non apre più le porte;
 anche il sole deve entrare di soppiatto,
 da fessure,
 dove una brezza che sussurra appena,
 ritrova vecchie crepe scure, dimenticate.
 
 Ma né sole né fiore ti fanno signora
 né il futuro ti vede presente.
 Solo qualche ricordo, qualche ruga sul mio muro,
 qualche brivido che torna, e mi concedo.
 Solo istanti. Già.
 Solo.
 
 Come vento, se ascolti,
 come fremito di foglie la mia pelle,
 al bisbiglio incauto che il tempo manda.
 E come nube diventa goccia, il pensiero si fa lacrima.
 
 Momenti. Anni. Anni, in quei momenti !
 
 Poi, impietoso, il vento che porta,
 porta via.
 Protetto dal mio fiato umido, il seme si farà fecondo;
 e, delle nuove radici, la giovane linfa,
 lei no, non svaporerà.
 BilinguaRipopolare, ripopolare
 è facile dire.
 Giostre,
 cigolanti voleri impotenti
 Strade divise, vesti ormai lise.
 Cavalli, promesse e sirene.
 Notti bianche, lumi, falene
 e voci.
 Voci tante, voci stanche.
 Voci
 rimbalzano, si fondono e saltellano
 giocano, si alzano e imprecano.
 Sbraitano.
 Tremano
 ma avanzano, fiere di essere
 d’ incrociarsi, tramare, tessere
 di vuotare il mare, di vette scalare
 e schiette toccare
 con garbo
 il cuore disposto o di mosto ospitale.
 
 Voci avare
 Questo veloè da scostare, pochi anni basteranno,
 voci vere,
 si potrà ripopolare e ripartire con l’ inganno.
 Giochiamo?Discrepanze emotive:
 i sentimenti infimi annaspano
 dentro coclee impietose.
 
 Il tritagiorni imperturbabile
 prosegue la sua opera mastodontica,
 in uno sfibrante ed illusorio lavorio
 di compressioni e impasti,
 come se l’ombra, spremuta,
 restituisse il sole.
 
 La soluzioneè assortita
 ed i grappoli di sfere
 si sbatacchiano allegramente.
 
 Ma,
 sarà perché il quotidiano
 reclama il suo bottino
 o perché l’incognita fagocitante
 vuole sempre la bocca piena,
 che l’imminenza, più esile e pungente,
 riesce ad insinuarsi
 e tra le spire indenne a passare.
 
 E’ in questo fluido ammortizzante
 e amniotico, ora approdato,
 che un’ infinità di anfibi
 si muta in autoattesa.
 
 Tuttoè spiazzato.
 Dannazione,
 non resta altro da fare :
 
 giochiamo?
  Ridicolo animale Effimeroè il tuo scopo,
 se così lo puoi chiamare.
 
 Godi l’ attimo, un respiro come mille altri
 e mentre domi la puledra di razza dubbia,
 o forse troppo nota,
 il tuo sudore umetta un’ altra pelle.
 Scarsa dedizione. Scarsa l’ emozione.
 L’ animo animale affiora,
 l’ anima non geme, ne sei conscio
 e ancora, l’ aura bestiale impera.
 Ciò che vediè.
 
 Effimeroè il tuo scopo,
 se così lo puoi grugnire.
 
 Stupendaè la bestia dal muso bavoso,
 immensi e vitrei i suoi occhi, che ti ci puoi specchiare;
 - Fratelli, siamo fratelli ! - urlano quei globi.
 Gli alibi si incarnano e tu,
 tu ne sei il boia.
 Così, deciso affondi i denti, per non dar loro scampo.
 Hai mai morso l’ acqua? Lei, ti sfugge tra le dita;
 come l’ aria che, pensasti vittorioso un giorno,
 d’ aver imprigionato nei polmoni.
 
 Effimeroè il respiro,
 ed effimeroè il tuo gioco, s’è un gioco da giocare:
 il rubinetto dell’ avidità, non smette mai di gocciolare.
 
 Già il tuo sogno, che non attende più la notte
 t’ ispeziona con passione, e non ti lascia addormentare.
 Allora, riconosci le gocce sulla volta della mente.
 Allora, il cavaliere perduto china il capo,
 e, dentro l’ armatura d’ osso, gonfia il petto per l’ ultima volta
 poi, bestemmiando si getta, come egli stesso avrebbe scagliato,
 senza dare alcun peso, un torsolo di mela. Frutto ormai spolpato.
 Ciò che hai visto,è stato?
 
 Effimeroè il tuo volo,
 finto e figlio di un qualsiasi incrocio.
 
 Dall’elmo, ciondolante per l’ira dell’ impatto,
 niente sangue. Solo un rivolo di bava.
 Un Angelo, deturpato dalla verità, medita una sconfitta.
 Chissà dove, brandendo la sua spada di ghiaccio,
 l’ uomo, nudo riconosce le grida e i bagliori lontani:
 sul colle della conquista, una puledra attende.
 L’ uomo corre alla battaglia.
 Ancora una volta la sua arma,
 effimera,
 fino al sorgere del sole, non si scioglierà.
 Tutto okNel giorno dello sparviero,
 fisso e nobile il suo veleggiare,
 nel suo giorno, nei suoi artigli,
 brandelli di pensieri informi,
 le radici penzolanti, si lavano d’aria,
 s’inzuppano di sole e si cercano,
 resoconti quotidiani unici,
 per familiarizzare,
 mentre giù, sempre più giù,
 rincorre il suo indice l’uomo casuale.
 
 Chi gli avrà rubato l’orientamento?
 Seguendo il suo dito, freccia scoccata, non sa
 cheè quel dardo a comandare.
 Nei suoi passi dinamici c’è la certezza;
 l’odierno ben stretto nel pugno
 e il domani nelle pupille.
 
 Chiamiamolo caso, l’ombra che scorre sull’asfalto.
 Chiamiamolo caso, l’occhio che la incrocia.
 Eccolo il nodo, ecco l’istante.
 
 Dita non avvezze a stringere,
 s’ articolano a formare un simbolo fallace;
 pugno d’aria, birillo da abbattere
 che nonè rabbia, cheè inganno
 che nonè vittoria, non forza,
 ma che tutti possono ammirare.
 
 
 Lassù, nel frattempo, parole mai dette,
 temono il nido e famelici gozzi.
 
 Inutili giorni, inutili voli e vani pensieri
 si perpetuano ancora.
 SempliceNell’andito introverso, ego
 di rinnovato ardore,
 di novello tepore, lego
 tatto e senso,
 se penso al tuo derma;
 e né colpisce né stupisce,
 come perda ogni valore
 e calore anche il colore
 d’iride estrazione,
 che di cosmica creazioneè figlio.
 Certo, meglio di misera frazione
 quest’immenso mio di te pensiero,
 e, pretta conclusione,
 sussurro e spero:
 “è vero,è vero”.
 
 Distanze intergalattiche.
 Parsec di parole.
 Ponti fra universi.
 
 Che sia Amore?
 
 Semplicemente!...
 UomoProsegui fiero
 la tua lotta contro il buio.
 La sciabola di luceè il fulcro
 dove poggia il coraggio,
 dove s’infrange l’oscuro.
 
 Labile fiammella,
 ingiuriata da rose di venti
 è il tuo cuore, bersagliato da dardi,
 da aliti fatali,
 ultimi sospiri di demoni gelosi,
 che ne intaccano crudeli
 le tenere fibre irrorate d’orgoglio.
 
 La tua forza, l’amore.
 L’amore, la tua debolezza.
 
 Sì, non Dio né demonio,
 ma Uomo, unico, inarrivabile.
 Figlio di sputo e terra,
 impasto azzimo, appena scernente,
 ma vivo e molteplice,
 come le facce di sfera.
 
 Ecco il tuo potere:
 l’impareggiabile uguaglianza,
 che ti rende simile
 ad un’infinità diversa.
 
 Che non ti rende Dio.
 Che non ti rende demonio.
 Che ti rende Dio e demonio
 Giuda, mon amourVittima di una svista interiore,
 in un ingenuo istante stolto,
 hai aperto il petto
 e mi hai mostrato il cuore.
 
 Ho smesso allora il mercanteggiare e
 cinico, perciò onnipotente,
 t’ ho strappato l’aorta e
 guardato boccheggiare.
 
 Ancora non sapevo che, svanito
 quel nettare rosso, la mia linfa,
 i miei canini orfani, all’infinito,
 t’ avrebbero cercato.
 
 Eccomi mostro di sentimenti.
 Eroe da purgatorio:
 pronto al fatuo, meno che polvere,
 attento al rovente, più che gelo.
 
 Sono io, architetto di sabbia.
 Più vero di un fiore di carta e
 imperdibile, come il tempo passato.
 Gioioso, come un bimbo mai nato
 
 Sono io, bacio da marciapiede,
 dissetante, come latte di fico.
 Coltello di stoffa ed eroe di gesta di fumo,
 sono io
 asino e biada che vive e vivrà
 in un eterno mangiarsi.
 
 Sono io, ombra notturna, sole spento.
 Panno steso in asciutta attesa,
 sono io, dannato,
 poeta e poesia che vive e vivrà
 in un deserto e inutile
 scriversi e cantarsi
 Altre impronteIl frutto della notte ormai scarnito,
 senza più profumi d’ammaliare,
 era come l’ombra della mia parola:
 il sole la passava senza storia.
 
 Dell’albero dei sogni e dell’incanto
 decisi allora, di partire alla ricerca,
 per cogliere dai rami in ogni istante
 bocconi di pensieri inebrianti.
 
 I passi s’inseguivano, come i grani di un rosario
 e vergavano ogni giorno le parole del diario.
 Ma in quell’azzurro alieno, dai mille drappi pieno,
 la mia bandiera fiera, non copriva alcun baleno.
 
 I paesi si lasciavano violare
 da sguardi miei da brame appesantiti,
 dai battiti e richiami del mio cuore,
 che sfioravano dei sogni già appassiti;
 
 e quando mi pensavo ormai perduto
 convinto di restare a mani vuote,
 lo vidi in quell’angolo di piazza,
 promettere la sabbia ai pugni chiusi.
 
 Gli occhi miei stupiti, non sapevan di sapere,
 che tutte quelle gocce era un mare di chimere.
 Gli occhi miei velati e di promesse ormai sopiti,
 non conobbero in quei grani, dei sussurri già sentiti
 
 I gusci, dalle anime svuotati
 ruzzolavano nel vento della sera,
 con le loro bocche tonde, spalancate
 che sembravano gridare di stupore:
 
 “Dov’è, dov’è finito il nostro cuore?
 Oh, mio Dio, aiuto, per favore!
 L’abbiamo barattato per tre soldi
 ed ora lo vorremmo riscattare”
 
 E l’albero dei sogni e dell’incanto
 se ne stava, come tempo, lì a passare;
 Era lì, palpitava al loro fianco,
 ma nessuno si sapeva avvicinare
 
 E l’albero dei sogni e dell’incanto
 se ne stava, come libro mio vitale;
 era, crudo, tutto scritto, lì al mio fianco.
 Ripartii, per riscriverne il finale.
 SfogliandoTu, che foglia ripudiata
 t’aggrappi disperata al vento,
 t’appoggi al suo gelido fiato,
 per prolungare
 il tuo ultimo volo,
 ascolta,
 la nuda terra ti chiama e tu,
 vecchia pagina,
 piccola coltre ideale,
 ciberai il suo seme,
 lo donerai al domani,
 rubandoti all’oblio
 di un infinito planare.
 Senza peccatoLanciasti convinto
 il tuo sasso tagliente,
 sospinto e incitato
 da grida di bronzo.
 
 Quel mero disegno,
 di linee pure,
 per te era pegno e
 garanzia di ragione.
 
 Ma i tuoi aloni deviati,
 di fluidi ormai pregni,
 imbracciavano vinti
 concetti stranieri.
 
 Mai avresti scoperto
 la supplica fioca,
 se non risvegliata
 da quel tonfo incerto.
 
 Una pietra ignara
 s’investe golosa,
 di venti inventati,
 da suoni scordati.
 
 Tu, scostati centro,
 che la miraè più vera,
 di lingue schioccanti
 e libere, e stolte.
 Il vecchio che vaEcco l’alba con due soli
 La vedi. Li vedi:
 fratelli, paralleli,
 come imperatori stanno.
 L’unoè orbitante e ligio
 al suo filo copernicano,
 l’altro ribelle, oscilla e danza
 intorno al gemello binario.
 
 Un attimo, uno sprazzo,
 una valenza si spezza;
 l’infinito trema, il tempo
 si volge ad ammirare
 la discesa superba, rombante,
 stupenda.
 L’astro rimbalza e saltella,
 la terra s’arriccia;
 l’aria fonde, il granito evapora,
 la storia sfuma.
 Spore nuove impregnano il tutto,
 il pulsare gonfio e aritmico,
 preludio di nuovo, ipnotizza
 e riplasma vergini menti.
 
 Ecco l’alba con due soli.
 L’uno, monito, statica apparenza;
 l’altro, vero, grida e ti reclama.
 Ondeggi sulla lava, aliti fiamme.
 Tuttoè arso, attorno a te,
 magra caloria del cibo universale.
 Non sei più nulla.
 Sei solo il vecchio che va.
 Grida e ti chiama.
 Non lo comprendi, nuovaè la lingua,
 o canutoè l’orecchio.
 Grida e ti richiama.
 Non ti opponi,è il tuo midollo,
 la tua ultima essenza;
 gli corri incontro.
 L’abbraccerai.
 Canti smarritiI turbinii di pollini
 ti lambiscono la pelle,
 come quando, senza peso,
 guizzavi sui tuoi prati,
 posandoti sensibile,
 s’un canto di grillo
 e un palpito d’ali.
 
 Antichi tocchi,
 canuti tatti, ora sopiti,
 d’altri contatti triti.
 
 Riscopri così
 che ciò cheè inciso,
 pur levigato,è parte,
 è geografia,
 e non esiste sisma
 che ne cancelli
 ogni minima traccia.
 
 In questi istanti pregiati,
 abbracciati, non temerti.
 Fatti polvere, donati al vento:
 lui sa scorrere e baciare ogni vetta.
 Sarai clessidra e conterai con essa;
 e tanto più ti sentirai granello,
 tanto più ti renderà montagna.
 Colori in bianco e neroTi cullerò, dolce malinconia
 che mi sorridi, in fotografia,
 dove il biancoè appannato dal giallo degli anni.
 
 Lo scrigno si schiude, dietro lo sguardo
 rivivo i chiarori, nel tempo mi perdo
 e d’incanto, la mente mia torna a frizzare.
 
 Ricordati di me, giovane sogno,
 dimmi il futuro e se ne sono degno,
 e se le tue dita, chiare, mi sanno ancora sfiorare
 
 Saprò riscoprire una poesia
 mi renderò vero, con la fantasia
 e sarò proprio io, come tu m’ immaginavi
 
 Farò sì che il sorriso, ed il pensiero
 possano, infine, unirsi e davvero,
 come vento e aquilone, rendersi disegno solo
 
 Ti proteggerò, velata nostalgia
 che mi riporti, in fotografia
 dove il nero di candidi occhi,è il verde degli anni.
 Strada o camminoIl dire, l’annuire e il dissentire;
 il tam tam ti tormenta.
 La goccia scava la roccia
 
 Il carpire, il condividere, il sembrare;
 il passaparola ti assilla.
 La goccia scava la roccia
 
 Il formarsi, il crescere, l’imparare;
 i forse ti spiazzano.
 La goccia scava la roccia
 
 Il comprendere, il gioire e il compatire;
 le grida ti saturano.
 La goccia scava la roccia
 
 Ed infine ti chiedi, tra tanto ostentare:
 sei goccia che scava,
 o roccia scavata?
 ConsonanzeDanzando sui tasti della vita,
 pochi brani si lasciano afferrare,
 e se ti fermi, rapito ad ascoltare
 in un lampo la stradaè già finita.
 
 Danzando sui tasti della vita,
 ricordi e accordi puoi creare;
 rari abbracci, da non dimenticare,
 negli affanni della tua salita.
 
 Danzando sui tasti della vita,
 se cedi ad incantanti vibrazioni,
 mille sirene, veementi tentazioni,
 fanno di te una nave mai partita.
 
 Danzando sui tasti della vita,
 l’ebano e l’avorio puoi notare,
 però, pigiandoli,è un attimo stonare,
 levando fiato ad un’aria già sentita.
 
 Danziamo insieme sui tasti della vita,
 e misuriamoci in orchestre sempre nuove;
 ma in questo insieme non esistono le prove,
 e il Direttore non prevede una riuscita.
 Stupidi viaggi?Dietro i confini tuoi, storie di marinai
 di viaggi ignoti, strisce di navi
 spumose, candide, splendenti
 e subito inghiottite.
 
 Come lama che fende l’aria,
 la traccia del tuo tragitto,
 fiato d’inverno, bocciolo avvizzito,
 verbi in svanente, madido fumo.
 
 Vorrei cantarti, sai, dire dei mille noi,
 sprazzi per mano, momenti fratelli,
 congiunti, danzanti, lieti,
 sul vivo vivere e brusire d’api
 
 Ora, non saprei s’è inumana natura,
 o innaturale umana visione,
 ma il pensarti nube piangente,
 è riportarti, torrente, nell’accaduto mare
 
 Come albatro errante, sorvolo
 distese ondulate, alla ricerca di labili scie.
 Solo onde increspate, venate di schiuma,
 rapiscono e traviano le iridi mie.
 
 Mai più itinerari, senza stelle polari,
 mai più senza sestanti.
 Mai più, false comete, suadenti sirene,
 navi volanti, fatati calzari.
 
 Mai più, mai più.
 Così, stupido comandante,
 io, ogni volta, al rientro
 ormeggiando mi giuro.
 Filastrocca della vitaPer cibarmi, già al mattino,
 verso versi nel frullino:
 corsi scorsi e campanelli
 cieli tersi e bai cavalli
 
 Variopinti pappagalli.
 Guai ai vinti e pii orizzonti,
 immensi monti, ponti e santi;
 canti antichi e antichi pianti.
 
 Al pomeriggio tutti i venti
 fasti e vanti, eventi lieti;
 sguardi esteti, occhi stanchi
 cocchi bianchi, il mio volare.
 
 Tutt’ insieme a mescolare
 e creare un bell’impasto;
 premo il tasto poi, la sera
 e da mia sfera, traggo stilla.
 
 Ecco, balla, una favilla
 che s’illumina e si trita;
 breve vita, lieve assaggio,
 e svanisce il mio miraggio.
 AnimaminaVoglio demolirti, cubo grigio
 inchiodato nel tempo.
 Come un guanto,
 voglio rivoltarti, per mostrarti
 quanto sei uguale: sei scorza,
 solo scorza,
 null' altro che scorza e,
 sotto questa, un cuore di scorza.
 
 Maledetto il giorno,
 quando ho creduto
 che tu potessi sanguinare.
 Maledetto il giorno in cui,
 ti ho mostrato le mie ferite.
 
 è un’anima stolta, la mia
 illusa da specchi
 ed auto riflessioni:
 il più dare così,è più ricevere
 ed appagata, la logica
 si fa sentimento,
 e non mi lascia ribellare.
 
 Lo sa pure il mio addome svuotato,
 che, ora, non possiede nemmeno
 la forza d’aver fame
 ConflittoImpatti violenti, fragori lontani:
 proclami fondenti in informi forme.
 Rintraccio il bandolo, per districarmi,
 per riformare pensieri ammassati.
 
 Starò oggi in casa, nel guscio a guardare
 nel mio giardino, cadere giudizi,
 pretese, concetti, come neve dall’alto
 che oscura il mio cielo, che ricopre la via
 
 E quando tormenta, sarà infine passata,
 potrò riuscire, affrontare l’aperto,
 e ben imbottito, per non subire influenze
 giocare a rifare un pupazzo d’idee.
 Sono ruotaSono ruota che gira, che morde il terreno,
 che cambia visione in ogni momento.
 
 Vortica il mondo, la terra oraè cielo,
 avanzando, prillando, verso il mio fato.
 
 Un giorno mi dissi “Guarda in modo globale”,
 un giorno m’ imposi “vivi a tuttotondo”
 
 Feci cerchio, così, il mio progredire,
 formando a spirale ogni mio pensiero.
 
 Ma il correre oscuro, sempre più lesto
 mescola il prato, l’azzurro, la roccia;
 
 e se allungo la mano per cogliere un fiore,
 fra le dita non resta che fiato di nube.
 E’ vita. E’ sognoTu,
 che temi il tuo sguardo,
 riflesso
 da bocche oscure,
 il porti in piazza,
 l’esibire il tuo petto,
 osi ghermire la mano
 alla notte,
 e giocare la carta finale.
 
 Butterata, la luna t’ignora
 e, smunta, a te cela un profilo,
 donandolo al resto del cosmo.
 
 Quel dorso ti gioca, t’irride.
 Disperato ricerchi
 il valore del germe sperduto.
 
 lo urli sui muri
 lo implori agli eventi,
 lo preghi ai sentieri
 lo sputi al tuo fato,
 e quando rialzi lo sguardo,
 una gravida Terra sorride.
 
 Ecco la luce, e in mano,
 il fluido assoluto,
 più grande del mondo,
 dell’universo.
 La faccia nascosta
 è in tuo pugno:è seme,è vita,
 e fino al risveglio,
 fino ai confini del sogno,
 con te fiorirà.
 Remote regioniDestandomi al giorno
 spalanco la luce
 e inondo i polmoni
 di pollini nuovi
 
 Sfiatano scorie
 illuse e perdenti,
 bacia l’olfatto
 un verde profumo.
 
 Abbracciami, sì,
 mia Primavera
 coglimi adesso,
 stupendamente!
 
 E se ciò che provo
 è rinascere ora,
 che ciò possa essere
 il mio sonno domani.
 ConsapevolezzeL’ avvenuto m’accarezza,
 non mi lascia allontanare,
 sempre pronto a far sentire
 il suo fiato sul mio corpo.
 
 L’imminente, più sottile
 come gas passa i recessi,
 insinuante ed adesivo,
 m’avviluppa come ragno.
 
 L’evidenza non rincuora
 quest’annosa scorza stanca,
 il sapere si fa icona
 ma non sbroglia le fobie.
 
 Vorrei essere digiuno,
 non conoscere il passato,
 per poter portarmi avanti,
 senza remore avanzare.
 
 Vorrei essere incosciente,
 non temere ogni mio passo,
 potrei giungere al mio colle
 senza impronte da calcare
 
 Vorrei essere, non sono,
 riconosco i miei sentieri;
 vorrei non essere, ma sono,
 posso solo proseguire.
 SorrisiI giorni, che avanzano, promettono spazi:
 mille scatole vuote, multicolori.
 
 C’era uno sguardo che era porta sul cuore,
 che ululava alla luna, s’aggrappava ai miei occhi
 
 Ricordo una smorfia, un’anima esausta
 non cercare più appigli, lasciarsi lasciare.
 
 Boccheggiava il sorriso, labbra rosse, carnose,
 disegnate su polsi; sputava la vita.
 
 Un’altra bandiera, ansiosa ha garrito,
 fino afflosciarsi, dal vento tradita
 
 Ed ora, che i giorni, non san dove andare,
 rimangono i vuoti, di colori coperti.
 
 Rimangono mani, che sanno il tuo nome,
 che lanciano corde a pugni ormai persi,
 
 e mille scatole vuote, in confezione regalo;
 mille scatole piene di giorni avanzati
 RicercheLe giovani vele,
 rigonfie di forse,
 mi recano incerte
 tra terre straniere.
 
 Il mio adattamento
 concorda il prosieguo,
 tra fusti mai visti
 e orizzonti sognati.
 
 Rifondo certezze,
 anfratti svelati,
 in cambio di soffi
 d’origine ignota.
 
 Nocchiero io sono
 di velieri di stagno,
 e affronto le belve
 del mio giardino.
 
 Come Salgari viaggio
 nella mia stanza,
 come uomo mi pasco
 con la fantasia;
 
 e finché avrò fiato,
 per gonfiare vele,
 o crateri di senno,
 d’andare a scovare,
 
 godrò l’ignoto
 baciando l’incerto,
 vivrò la mia giungla
 come astronomo il cielo.
 VanitàCombacio i segmenti,
 sfioro gli estremi,
 mal celo i dilemmi
 che sbuffano in scia.
 
 Mutano i corni,
 come i nomi dei giorni,
 come un sole ostinato
 a rinascere eguale.
 
 Sfilano i volti
 come icone impazzite,
 come l'uomo pentito,
 che riviene seme.
 
 Tu sovrano avvoltoio,
 vieni a baciare
 il mio fegato stanco,
 un pensiero ormai vago;
 
 fammi esultare
 del gusto del cielo,
 perché non colga notizia,
 d’un essere vano.
 
  Aromi di ieriEdè come vessillo, il comignolo fumante;
 come promessa aulente, al vento viandante,
 e pare declamare:
 “Odorate qui;
 qui il pane, tiepido e fragrante,
 cedete l’apparire, dimentico di ieri.
 Profumate qui;
 qui il tipico tepore, tenero e
 ruspante, della madre del passato”.
 Mormora a nari il suo superbo emblema,
 sussurrando ciò cheè genuino;
 combatte fumaioli e ciminiere, di lezzi e miasmi neri.
 Dimostra ansando l’impegno della fiamma,
 e abbraccia il borgo brumoso, in pace coi fratelli;
 poi, con l’ultimo suo sbuffo, tremulo fiabeggia,
 donando al cielo di bambino, e all’animo mio,
 un’altra pecorella.
 
  Orologi forati(Fuga a Samarcanda)
 
 Echeggiano trombe e l’indice atteso,
 rapisce ogni sguardo, pietrifica il coro.
 Stupidi primi, stolti secondi,
 già nati, già morti, s’inseguono eterni.
 Gli attimi persi si guardano intorno,
 indubbi d’avere uno spazio vitale.
 Maè corrersi contro, restando sul posto,
 meditar d’allargare i gangli del cosmo.
 
 E decolla il mio capo, in cerca d’un corpo,
 più consono e vero di carne consunta;
 fugge tra nubi e tempeste incipienti,
 tra passi di stormi che inseguono il sole;
 si posa sul collo del fiasco del mondo
 ancora più illuso, di tappare buon vino.
 
 Ma il tempo smarrito rintraccia il tragitto,
 mi scuote e riscuote il pegno mal speso.
 Tutto riprende, impietoso esattore:
 streghe sfatate, parole mai dette,
 versi mai sciolti, infinite premesse,
 orologi perdenti, mie ottuse attese;
 lasciandomi il viso sul gelo di marmo,
 a far da custode a plastica in fiore.
 
  Pomo scadutoMordo la mela e attendo,
 che giudici infallibili
 mi giochino il castigo.
 
 L’Oriente incerotta
 un ago scombussolato,
 nella speranza magra
 di rendere equo un mondo.
 
 Ma anche il saggio, a volte,
 contempla troppo la luna,
 mentre lo stolto affamato,
 gli mangia il dito.
 
 Non c’è più segno da seguire,
 ritorna a grugnire l’idea,
 diviene così lecita ogni via.
 
 Addento la mela e attendo
 la notte di stelle polari,
 l’amico di salda mano,
 un mare di gonfi alisei.
 Sarò ingenuo burattino,
 e ancora, mi lascerò fidare.
 
  Fortunali eventi Svetta la vita appesa
 su pennoni di burro,
 ignara e protesa
 a fortunali inumani;
 a giocondi dei dei venti,
 celianti ed intenti
 a rigonfiare vele,
 come ignare pedine.
 
 E come palloncino,
 il padre mio
 è aleggiato via,
 come un gioco di bimbo,
 che ancora lo attendo.
 
 Sventolo io, aggrappato
 ad una labile asta.
 Aspetto i giorni
 di calma piatta,
 riprendendo il fiato
 a stanche membra.
 Aspetto i giorni
 di miti oceani,
 per risolcare cicatrici
 su mari, indelebili.
 
  RifugiSaranno giorni di storte e d’ampolle,
 giorni sfiniti ed inconcludenti;
 vivremo fuggendo da gocce di fiele,
 sputando sul mondo il suo traccheggiare.
 Suggeremo al celeste le nostre chimere,
 strappando ad un’iride i fasulli fondali.
 Saranno i giorni di formule errate,
 intrugli di voci, di bocche invadenti,
 che svelano il nulla ch’è fonte del verbo,
 vuotando gli otri che sanno di muffa.
 
 Saranno i tuoi giorni, sfinito poeta,
 d’arti pennuti che non san più planare,
 di massi ammassati su inutili resti
 di legni incrociati su marmi ormai morti.
 
 Giorni di sfera, ormai senza atmosfera.
 
 Allora scavare, narrare, gridare,
 saranno soltanto ciò che son stati:
 solo parole, pure magie,
 meri miraggi su spiagge del tempo,
 bruciate dai giorni, inghiottite dall’acqua,
 a fare da cibo agli abissi dei cuori,
 dove rari guerrieri riescono osare,
 dove astronomi ciechi non sanno cercare.
 Cuori troppo vicini, per sguardi lontani,
 troppo sfumati per mani rapaci.
 Ed ultimo anelito, in quelle mitiche fosse,
 assetato poeta, ti lasci affondare.
 PoesiaNon lasciarmi,
 Luna che vivi il riflesso,
 preziosa pietra,
 spettatrice d’immensi
 astri nascosti.
 Non mi lasciare, poesia,
 che rifletti la vita,
 dono inestimabile, unico,
 testimone di uno sconfinato
 cuore velato
 Per tePer te rivelerei le guglie,
 avessi in tasca il volo;
 racconterei gli abissi,
 masticassi l’acqua
 e irrorerei radici,
 potessi sciogliere la Terra.
 
 Per te sarei grano,
 per inventarti valle;
 mi farei madre,
 per ambirti figlia,
 e ti riporterei embrione
 per cantar la primavera.
 
 Ma sono solo poeta,
 so solo sognare,
 e il mio solo potere,
 è donarti un Mondo.
 Per manoScendono torrenti,
 recidono i ponti
 percorsi secolari.
 Volano illusioni,
 trafiggono i pensieri
 prostrati cuori.
 
 Vinceremo ancora
 e mai più,
 ci lasceremo spezzare,
 trapassare
 da ponti in pietra,
 da impietosi risvegli.
 
 Combatteremo uniti
 dannate radici,
 metastasi
 affamate, avide di corpi,
 di vite, di sogni.
 Il nostro incedere
 fugherà
 semi mutanti,
 neonate cancrene,
 come il fresco domani
 inghiottirà
 un oggi consunto.
 
 Scendono torrenti
 e noi,
 sotto i ponti,
 solcheremo terre
 e rive, vive e grate.
 Come paneFluttuano i ricordi.
 Lieve brezza
 sulle spighe piega,
 ed accarezza,
 gentilmente,
 gli aurei scettri
 vitali e gonfi,
 di promesse e cibo.
 
 Tenui zefiri
 solleticano l’animo
 insinuando, impertinenti,
 fino al margine del conscio
 il loro lieve carico di sogni,
 mosaici vitali
 scomposti e latenti.
 
 Sono onde di grano,
 i miei pensieri al vento,
 in instabile attesa.
 
 Come farina che verrà,
 guardano al cielo,
 indugiando all’ultimo sole
 per poi tuffarsi,
 pregiata messe,
 nella macina del tritagiorni.
 Così, come seiCosì, come sei,
 come un albatro tornato
 dal vento stanco,
 come una vaga promessa
 che brama nel limbo
 pregando la luce.
 Così, come sei,
 canuto capello vissuto,
 zeppa di parole prestate
 e colma d’idee a rendere.
 Così, come sei,
 cima compiaciuta
 in docile attesa
 dell’ennesimo invasore,
 rocciatore del nulla.
 Così,
 mi getti un sorriso
 per farmi aggrappare,
 accarezzandomi il cuore
 e deviandomi dal violarti
 con mani rapaci.
 Così,
 anima mia m’accompagni,
 sospirando e fremendo
 ad ogni mio passo.
 Così,
 ti ho voluto e plasmato,
 mia ignota scultura.
 Santi beoniTremavano le foglie
 per il freddo ed il domani,
 il cuore, lieve, volava via.
 Il giorno risvegliava tardi,
 e portava solo nostalgia.
 “E Tu, giovane visione vieni,
 ho un pegno da pagare,
 i miei fumi non ti scordano,
 e il sangue, più non sa scaldare.”
 
 Tutte le volte giocava la via,
 per due spicci e fondi di fiaschi,
 e vinceva sempre,
 sempre e sempre,
 ma solo con la fantasia.
 “E Tu piccola celeste vieni,
 rivestimi di nuovo e di profumi,
 accarezzami la pelle esausta
 e sciogli i miei veleni.”
 
 Le parole e le promesse solo pane,
 da masticare ed inghiottire,
 la vita poco più che pochi istanti,
 sorrisi rari da rapire.
 “E Tu, giovane Madonna vieni,
 portami via. Di morsi e di rimorsi
 sono esausto, e più non so sperare;
 di troppi vini sono vacuo
 ma la mia follia, ora sa pregare.”
 Fiocco gelatoEd eccoti, candido gelo,
 sei coltre,
 sorgente,
 bianco che appare
 mentre attenui il cadere
 avvinghiandoti all’aria,
 strappandoti al grigio
 che appare il tuo mondo.
 
 Sai smussare,
 addolcire
 ogni spigolo o guglia,
 e con esile tocco,
 velare
 vetri invadenti,
 avvolgendo di quiete
 discorsi sereni.
 
 Poi, concluso il tragitto,
 abbracci i fratelli,
 in soffice attesa
 d’un sole impietoso,
 d’un fiato che scioglie
 questo rigido inverno;
 immolandoti al cerchio
 che reincarna ogni fine,
 e donando ai miei occhi
 infiniti pensieri.
 Avrei dovutoAvrei potuto dirti mille cose:
 le spine, la mia strada perigliosa,
 i corvi bramosi ed imminenti,
 e tutti quei pensieri inconcludenti.
 Avrei potuto amarti senza cuore,
 tenerti ed abbracciarti senza arti,
 dipingere lo sciogliersi dei ghiacci,
 evaporati da rari sorrisi.
 
 Avrei potuto mantenerti viva,
 nutrirti di pensieri ed emozioni,
 cullarti nel giaciglio della notte
 dove covo i miei giochi più preziosi.
 Avrei potuto scriverti pensieri,
 di quelli che si aggrappano nel cuore,
 per farteli trovare dentro il sogno
 che racconti, quando parli del reale.
 
 Avrei potuto viverti e imparare
 le sacre posizioni dell’amore,
 cantare la tua pelle e i suoi profumi,
 sfatare fiabe vuote senza te.
 Avrei potuto amarti, avrei dovuto,
 avrei dovuto amarti un po’ di più,
 sapere che saresti ripartita,
 sapere che eri l’unica occasione
 
 Perché, amica mia, non ti ho ascoltato?
 Perché, mia lesta vita ti ho ingannato?
 Fuggita, sei sfuggita dalle dita,
 e proprio quando ti ho pensato mia;
 fuggita, sei fuggita sei scappata,
 strappandomi i pensieri dalle mani,
 portandoli nell’anima del buio,
 dove regnano i voleri dell’oblio.
 SussurriSussurri serafici e lievi
 scivolano sulla mia pelle,
 come talco sfumano al tatto,
 sapendo dove esitare.
 E’ tepore,è donare,
 è reciprocità.
 Passa una vita,
 tra un battito e l’altro:
 un seme rinasce,
 tanto il tempo s’inchina;
 sussurri raccontano
 e incidono sassi,
 cantando l’eterno
 con un tenero segno
 CrisalidiVivo il Karma del sarà, con mille madri
 che m’imboccano tendendomi la mano.
 Ma nonè mai così tardi, e l’eventoè mutante,
 non irremovibile, incalpestabile.
 
 Le sfere d’ora scorrono liete,
 inconsapevoli, ignare dei trascorsi futuri.
 “E sarà, sarà lo so, e sarò uomo di paglia.
 Spaventerò i passeri, come ora fuggo i soli.”
 
 Altererò il passato, rendendolo mollica;
 spianerò i rilievi col credo del domani.
 “E sarà, sarà lo so, sarò fuoco di paglia.
 Impaurirò pensieri, come brucio i sentimenti.”
 
 Così, muterò il futuro rendendolo mio figlio,
 ostenterò il mio bozzolo, per farlo incuriosire.
 Vincerò il mio esistere, mi batterò,
 contemplerò di fronte, conscio delle spalle
 
 Crisalidi avanzano;
 è tempo d’attese.
 Puledri bradiLi senti galoppare da lontano,
 gli zoccoli di panno e di sospiri,
 sfiorarti i mille rivoli del cuore
 per farli, sempre più sentire vivi.
 Lo sguardo non si lascia accontentare
 e punta sempre oltre l’orizzonte,
 ma tutti i fiati a fianco della sfera
 n’annebbiano il cristallo del domani.
 
 “Mani di pane, quel bambino,
 che stringeva dentro il petto
 il canto antico del cavallo
 criniera indocile alla fune;
 e le dolci parole, sacro giardino,
 di lumache curiose e piante rare,
 distese ai raggi del mattino,
 ed ebbre, e già piene di tepore.”
 
 Li senti galoppare dentro al sogno,
 violare cinte, fossi e staccionate
 lanciare al vento il tempo di finzioni,
 mostrare il mero, il semplice, il reale.
 L’orizzonte, per un attimo si placa,
 ridandoti lo sguardo per vedere,
 cosa poggia sul tuo petto di soldato,
 così ritrovi, vecchie mani di bambino
 D’estro sinistro E’ gelo.
 Io, fuori, busso
 e, dentro mi apro.
 Entro nell’ordinario;
 mi sprofondo e imbastisco,
 con estro, pazienza,
 cucio e ricucio;
 nuove vesti m’invento,
 di nuovi strati mi scopro.
 Foggio. Creo,
 ma mi struggo: ecco,
 già manca materia prima.
 M’alzo
 e dall’uscio riesco. Aria.
 Un po’ d’aria.
 Ed erro, girovago e vedo
 toraci dischiusi
 anime al sole,
 corpi sbucciati
 orrendi ai miei occhi:
 escono dall’ordinario.
 Fuggo, lesto,
 ritorno all’uscio lasciato
 e ribusso,
 e riapro
 e rientro nell’ordinario,
 in un nido di fondi sipari
 a me famigliari;
 m’acquieto e imbastisco,
 disfo e impuntisco.
 Abbozzo una veste,
 di pelle umana:
 non cuore, potrà fuggire,
 non anima,
 avrà il sopravvento
 s’un manto umano
 d’eccelso sarto.
 M’ammanto, m’avvolgo
 di tale armatura
 e m’alzo, sicuro
 così ricoperto riesco:
 so che riposso
 ancora riuscire.
 Sul letto di fine giornoRitrovarti sul letto di fine giorno,
 rivedere quegli occhi, muti gridare
 sono istanti che non so più
 dimenticare.
 E sentire il calore della tua mano
 lasciare il posto ad ossa smarrite,
 perduto viaggio che non sa più
 come tornare.
 E quel taglio sul viso riusciva appena,
 a strappare un sospiro, dalla tua gola
 mentre il tempo, vigliacco,
 fuggiva via.
 Erano i giorni lieti e gioiosi
 di doni, dolci e sorrisi,
 ma il tuo sorriso lo hai donato già.
 Erano giorni di sole e tepore,
 labile tregua al gelo invadente,
 ma il tuo calore lo hai donato già.
 E son tornato a cercarti a fine giorno,
 per sedermi al tuo fianco, accarezzarti
 e scoprire che il cuore non può, più
 giocare.
 E son tornato a cercarti a fine giorno,
 per trovarti alla luce dei miei ricordi,
 e per non lasciar solo, quel tuo
 sorriso.
 RimirandoCerto d’avere dardi,
 d’essere un essere
 unico, eletto,
 t’appresti
 al bersaglio
 e miri con cura.
 Il centro dilegua,
 lasciandoti in dubbio.
 
 è qui che ti scorgi,
 tua stessa mira
 e, stolto, ti sposti
 per non scolpirti.
 
 Così nell’arco
 della giornata,
 nessuna freccia
 ti tocca più; e tu
 che sei mira
 e sei bersaglio,
 tu che sei tutto,
 non centri niente.
 Nasce un orizzonteTutta la vita
 camminò al futuro,
 per toccare quel sottile filo
 dove il cielo diluisce con la terra.
 “Ancora un passo:
 è appena dopo il poggio...
 stammi vicino.
 Non t’ abbandonare”.
 Mille volte vide
 il punto di partenza,
 e come inezia,
 ripartì per mille volte.
 E mille mani accolse,
 e voci intese; mille i sorrisi
 e l’anime sanate.
 E quando al vespro,
 groviglio di concetti era
 la barba e la sua fronte
 monte di sentieri,
 il fiato decise di chiamarlo,
 per ultimare quel suo vagabondare.
 Alzò così lo sguardo e scorse
 cielo e terra fusi; si volse indietro,
 il tempo per scoprire, che
 ora, era lui quel filo strano.
 Donò i suoi passi
 a chi stava per partire e allargò
 le braccia, facendosi orizzonte.
 Gridò il dolore all’uomo, da
 in cima al colle, e si lasciò
 inchiodare dall’amore.
 Volti al ventoE confidavi fosse
 eterno soffio divino.
 E’ solo brezza,
 ad asciugare stille,
 a carezzarti il viso
 e sussurrare:
 “Non soffrire.
 Vola!”.
 Solo sbuffo
 sprovveduto,
 ignaro a lambire
 come il tuo,
 altri mille volti,
 volti a un vento
 incerto,
 che era lì, a passare,
 ad inseguire segni
 accidentali,
 a rapire, fondere
 confondere il fiato,
 ansiosa spora,
 che ineluttabilmente
 spira.
 Solo brezza
 a sparpagliarti
 e farfugliare,
 ciò che resta,
 dell’eco di parole date,
 donate a mute
 orecchie
 e perse in dedali
 di menti.
 Solo fiato
 figlio del tuo petto,
 ingenuo,
 misero granello,
 a sollevarti,
 raccontarti, abbacinarti,
 e abbandonarti,
 liso,
 sulla spiaggia.
 Labili margini Invecchia lento il trave
 che regge saldo il tetto,
 si tarla, si contorce,
 storpiato dal suo tempo.
 
 E’ forza, avere gli anni
 per potersi raccontare,
 forzaè reggere sul dorso
 gli scudi all’intemperie.
 
 ***
 Sanguigni d’argille,
 impastate e seccate
 si cullan l’un l’altro
 i coppi muscati.
 
 Nella gronda ramata
 pochi semi avventati,
 rendono madre
 un pugno di torba.
 
 ***
 Privilegio o punizione,
 saper vivere sull’orlo?
 Quanti travi sono consci
 di germogli lì sospesi?
 
 Ovunque viaggi l’occhio
 si vela il mio pensiero:
 svela mille vite appese,
 aggrappate a cornicioni.
 Chiodi(Dubbi dubbi)
 
 Nonè semplice dire,
 dare idee;
 diradare dubbi
 incancreniti,
 di slogan zeppi e triti.
 
 Chiodi,
 che odi distanti
 ma martellanti;
 come un insieme d’istanti
 i tanti ceri
 accesi e persi, spenti,
 e sparsi in tersi cieli,
 che di mille nuvole
 novelle
 s’ impunta la tua volta.
 
 Ma ecco,
 spunta una capocchia
 a tradire e dire
 di una prole di parole,
 di mille madri figlia
 di mille figli madre;
 generazione concepita
 e nata urlante,
 per ribadire dubbi,
 perpetrare imbrogli,
 per seminare idee,
 perseguitare menti.
 VirtualitàVedi, mi sto sfogliando
 e l’Alba non mi riconosce da ieri.
 
 Sono monte che scioglie le nevi,
 cielo di nubi di fumo.
 Sono mare che annega la vita,
 ramo che genera cancri.
 Vedi, lo vedi il mio grido?
 Nel tuo monitor il soleè più sole,
 l’azzurro più vero del cielo,
 la palma riposo ed amaca,
 L’oceano più dolce del pane;
 ma lì il mio cuore sfibrato
 non pulsa e non vive.
 
 Vedi, mi stai virtualizzando.
 Uomo bombaOra conoscono l’unisono,
 le anime rubate e straziate;
 i fiati si spengono al sole,
 i cuori implodono e imbrattano
 voci e parole già rare.
 Bandiere ormai morte.
 
 S’arrestano i convogli arrugginiti
 cigolanti d’idee medioevali
 ossidate e gementi,
 dinanzi al passo dell’odierno
 masticato e trangugiato
 da uno sguardo futuro.
 
 Dovremmo spogliarci,
 denudare tasche al cielo.
 Bisacce, gonfie di promesse stantie,
 di necrosi nascoste,
 messe lì a schermare ideali
 affittati a media e a denti splendenti;
 
 dovremo forse concederci
 l’ immensa abbuffata globale:
 folgori e boati, e salutarci,
 com’estrema prova d’orgoglio.
 Domani un Mondo, all’unisono,
 sospirerà.
 La banca della vitaCerebrale,
 la mia corteccia,
 la puoi sezionare.
 
 Come in un albero,
 dai cerchi concentrici
 calcolerai le mie età,
 ad una ad una;
 vedrai poi, nel mezzo
 un cuore legnoso
 venato di lotte e
 di scontri coi venti,
 segnato da geli e
 d’asciutte stagioni.
 
 Ma un anelloè sfumato,
 e se contiè mancante:
 l’ ho rimosso ieri
 e a te l’ ho donato,
 ciclo spezzato,
 passo mai rincasato.
 
 Un dubbio solo,
 ora mi assale
 e punge e saltella
 nella mia mente:
 questa lacuna
 del mio cammino,
 nel conto finale
 della mia vita,
 sarà un anno speso
 o risparmiato?
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