| Breve storia dell'egregio Professor Primus 
Sapiens 
 Il professore Primo Sapiente fu ben presto chiamato Primus Sapiens per la 
sua eccezionale levatura culturale.
 
 Appena nato, subito si mise a recitare innumerevoli hihihi hehehe, volendo 
dire:"Ho fame", ma per i suoi cari genitori era il grido di una spiccata 
predilezione per la cultura.
 Nei primi anni di vita, mamma e papà lo accudirono amorevolmente, dedicandosi 
anima e corpo alla sua educazione, inculcandogli le bellezze dell'arte, della 
scienza e della letteratura.
 A due anni e mezzo iniziò il suo periodo educativo. A colazione gli recitavano i 
versi più belli dei poeti italiani, a pranzo gli descrivevano scientificamente i 
cibi, a cena gli facevano vedere i cartoni animati.
 Cosicché, quando compì cinque anni, al posto della torta, gli misero davanti, 
sulla tavola riccamente imbandita, un contenitore con provette, alcune riempite 
d'aranciata rossa, altre di succo di frutta all'albicocca, e lui dovette berle 
in onore della scienza e della tecnica. In più dovette recitare "Pianto antico" 
di Giosuè Carducci, mentre dal giradischi si diffondevano le magiche note del 
Notturno n. 2 di Chopin. La mamma con le lacrime agli occhi, papà serio e pieno 
di commozione, gli zii e cugini con sorrisetti ironici, gli amici invitati, che 
aspettavano impazienti le paste, applaudirono entusiasti.
 Da allora in poi, fino ai dieci anni, papà gli insegnò tutto lo scibile umano, 
attingendo il sapere dalle numerose enciclopedie e dai pesanti volumi che 
riempivano la sua casa. E, come se non bastasse, perfino di notte, quando la 
luna brillava, gli sciorinava le bellezze del Creato, mostrandogli le stelle con 
somma sapienza; e lui imparava tutto a meraviglia.
 Non destò stupore, quindi, che dopo qualche anno ne sapesse più del padre.
 Ma, oltre agli studi intensi, trovava il tempo per divertirsi: gli piaceva 
andare in giro in bicicletta, arrampicarsi sugli alberi, suonare i campanelli 
delle case insieme con i compagni monelli, fare battaglie sulla riva del mare 
con squadre avversarie, lanciandosi pugni di sabbia bagnata, buttare petardi nei 
cassonetti delle immondizie e fare pernacchie, nascosti, ai passanti.
 Tutto questo non scalfì la corazza della sua buona educazione, che a quindici 
anni favorì la metamorfosi completa della sua maturazione ed esplosero le sue 
due passioni dirompenti: studiare matematica e collezionare foglie.
 Il suo avvenire fu segnato: terminato il liceo, si laureò in Scienze Naturali, e 
poi si dedicò all'insegnamento.
 
 Quale non fu la sua gioia, quando entrò, giovane giovane, a ventiquattro anni, 
in un'aula e vide i ragazzi scattare in piedi. Erano altri tempi, come poi, 
spesso, amaramente, pensava ed andava ripetendo in ogni occasione a tutti. 
Perché dovete sapere che nel corso di trent'anni quella gioia ben presto si 
tramutò pian piano, ma inesorabilmente, in sofferenza atroce nel constatare 
quanto il mondo della scuola dipendesse dai capricci di alunni piagnucolosi e di 
genitori arroganti ed ignoranti.
 E poi cominciò a considerare, mentre si faceva strada in lui il demone dello 
stress, che le colpe principali del mal funzionamento della scuola, di quella 
almeno dove prestava servizio, ricadevano sulla maggior parte dei colleghi e del 
Capo d'Istituto.
 A lui piaceva insegnare e stare con i ragazzi. Però, già dopo qualche anno, al 
mattino, appena sveglio, si sentiva stanco e gli veniva un po' di nausea al 
pensiero di dover andare a scuola per ripetere le stesse cose senza più slancio, 
sentire i colleghi lamentarsi di continuo, non essere sempre apprezzato come lui 
si aspettava.
 Monotonia.
 <<Potessi cambiare lavoro!>> arzigogolava <<ma che lavoro? Almeno avessi uno 
stipendio decente!>>
 E così, avanti. Triste e insoddisfatto.
 Una cosa che lo rendeva nervoso e insofferente erano le lagnanze e i piagnistei 
di genitori e alunni, le accuse larvate o aperte al suo sistema d'insegnamento. 
Alcuni, evidentemente in malafede, dicevano che il proprio figlio, 
intelligentissimo, non riusciva a comprendere le sue spiegazioni. E pensare che 
la matematica era la sua dea. Una volta, esasperato dalla critica di una mamma 
iperprotettiva, rivolta non soltanto a lui, ma anche alla scuola tutta, esclamò: 
<<Avete la scuola che meritate, genitori, di che vi lamentate?>>
 Riteneva che la colpa di tutto erano gli alunni, quelli maleducati, quelli che 
gli ridevano spavaldi in faccia, mentre lui si prodigava a spargere il seme del 
sapere! Si convinse che per quei ragazzi viziati c'era un solo rimedio: 
punizioni severissime.
 <<Se non tornano le regole>> predicava <<andremo tutti in malora.>>
 A volte era pensieroso, cupo; a volte ansioso, scorbutico; a volte sorridente, 
beffardo.
 Si mise a prendere in giro le colleghe e i colleghi, lui che era stato tanto 
rispettoso e disponibile verso tutti.
 Gli insegnanti non si resero conto del suo cambiamento, non gli diedero peso, 
anzi lo sollecitavano a criticare l'operato della preside e di tutti i suoi 
superiori, su su fino al ministro, sghignazzando volentieri e rimpinguando il 
campionario dei pettegolezzi. A loro non interessava nulla che il povero 
professor Primo Sapiente stesse per impazzire, preda di uno stress strisciante, 
barcollante sul baratro della depressione. Non pensavano che potesse succedere 
anche a loro.
 E dire che in quella scuola si erano verificati in passato fatti che avevano 
destato scalpore, capitati a professori stimati e preparati.
 Molti ricordano ancora quando la professoressa Vabellasta alla risposta un po' 
strafottente del solito bulletto, all'improvviso, scoppiò in un pianto dirotto e 
disperato davanti a tutta la classe. A nulla valsero le parole di conforto della 
preside e degli altri docenti. Finì in pensione anzi tempo, come capitò anche al 
professor Luigi Piluccetti, accusato ingiustamente da un'alunna di essere stata 
da lui circuita. Ma dov'era la preside? Cosa dissero i colleghi? E i genitori? 
Tutti addosso, specialmente il sindacato che avrebbe dovuto proteggerlo. E 
quella bambina dallo sguardo angelico si era inventata tutto!
 Andò peggio alla professoressa Elena Sostano. Fin dai primi giorni di lezione fu 
oggetto di scherno per la sua evidente timidezza e bontà. Aveva un animo 
sensibilissimo, non reggeva ai perfidi sorrisi e agli sgarbi. Soffriva oltre 
ogni limite nel vedere come i ragazzi le facessero dispetti e saltassero sui 
banchi, e nel sentire come i genitori la denigrassero e volessero che fosse 
cacciata. La classe fece perfino sciopero, rifiutandosi di partecipare alle sue 
lezioni. Non le bastarono calmanti e pillole, e la mattina di un triste giorno i 
genitori la trovarono nel letto morta, stroncata da un infarto.
 
 Nonostante tutto, il professor Sapiente resisteva, ma cominciava ad urlare come 
un ossesso e a diventare manesco. Se un alunno lo sfidava con lo sguardo, lo 
trafiggeva con battute offensive o addirittura lo colpiva con una sberla.
 Proteste, denunce, sospensioni dall'insegnamento.
 Ogni volta che tornava a scuola, la situazione si aggravava.
 Un giorno, un ragazzo particolarmente maleducato lo mandò a quel paese con un "vaff…", 
e lui reagì di colpo, sferrandogli un manrovescio che lo colpì tra labbra e 
naso, facendoli sanguinare.
 Per lui fu la fine.
 Esonerato, fu costretto a chiedere le dimissioni.
 E così si avverò quello che aveva sempre temuto: finire in malora.
 
 Per fortuna la sua famiglia gli è stata sempre vicina, assistendolo con amore e 
riconoscenza. Nei rari momenti di lucidità piange per la vergogna e qualche 
volta ha anche pensato di farla finita come il maestro Bisceglie che si sparò un 
colpo di fucile calibro 12 in bocca, ma l'affetto per i suoi cari lo ha sempre 
frenato: non meritano un altro dolore, sarebbe ingiusto far impazzire anche 
loro.
 
 
 
    Faffankullo
 Avevo quattro anni e mezzo. Ricordo ancora quando sbucò sul versante 
          destro della collina il carro armato tedesco con la canna minacciosa 
          del cannone puntata verso il paese. Corsi in casa, dove mio padre e 
          mia madre stavano ammucchiando la poca roba da portar via. Dovevamo 
          sfollare, era rischioso rimanere in paese. Il giorno prima s'era 
          sparsa la voce che sarebbero arrivati i Tedeschi.
 Partimmo con il carretto tirato a mano da mio padre dove erano state 
          messe in sacchi le cose indispensabili. Mio fratello minore stava 
          avvolto in una coperta tra i fagotti, mentre io portavo sulle spalle 
          un sacchetto di foglie di tabacco e patata, che mio padre avrebbe 
          tritato e mescolato per fare le sigarette.
 Dopo un giorno di viaggio, trovammo rifugio in una vecchia casa 
          colonica insieme con altri sfollati. Rimanemmo in quel posto più di un 
          anno. Si dormiva su pagliericci riempiti di foglie di mais stesi sul 
          pavimento di mattoni, coperti da mantelline e vecchi pastrani. La 
          cucina, abbandonata chi sa da quanto tempo, tutta nera e sporca, 
          ripulita dai miei per quanto si poteva, aveva un grosso focolare, dove 
          mia madre cucinava servendosi degli oggetti che avevamo portato con 
          noi e del cibo che mio padre si procurava con lavoretti nei dintorni.
 A poca distanza dalla casa si era insediato un comando tedesco con 
          guarnigione di soldati quasi tutti molto giovani.
 Mia madre, spinta dal bisogno, cominciò a lavare e stirare le camicie 
          per gli ufficiali e sottufficiali.
 A portarle e ritirarle, di solito, veniva un aitante soldato, 
          altissimo e biondo, che mi prese in simpatia. Mi offriva qualche 
          caramella insieme al pane nero di segala. E spesso si metteva a 
          giocare con me e mio fratello.
 Una volta come un gigante mi prese per la vita, mi sollevò fino agli 
          anelli infissi nel soffitto, che mi fece afferrare, e poi mi lasciò 
          penzoloni. Impaurito, mi misi a gridare la prima parolaccia che avevo 
          imparato senza per altro conoscerne il vero significato:
 -Vaffanculooo!-
 Lui mi prese di nuovo e mi appoggiò a terra, mentre rideva e ripeteva 
          contento:
 -Faffankullo, faffankullo!-
 Un'altra volta mi prese per il tallone e mi infilò a testa in giù nel 
          pozzo che si trovava vicino all'aia. Anche in quel caso, quando stavo 
          per toccare l'acqua, mi misi ad urlare vaffanculo a più non posso, e 
          quella magica parola rimbombante sulle umide pareti muschiose mi tirò 
          fuori dal pericolo. Lui, naturalmente, rideva pronunciando faffankullo.
 
 Un giorno trafficavo insieme con mio fratello vicino al focolare e non 
          mi accorsi di un pezzo di tavola da cui fuoriuscivano quattro grossi 
          chiodi arrugginiti. Dove credete che Lorenzo si sedette? Depose la sua 
          tenera chiappa destra proprio su quei puntuti chiodi.
 Urlai come un forsennato, accompagnato nel concerto da mio fratello, 
          fino a quando giunsero mia madre e mio padre (si nascondeva per ore 
          nell'intercapedine di due muri per sfuggire alle retate dei Tedeschi e 
          Fascisti) che mi diedero le prime cure. Ma c'era il pericolo del 
          tetano, comunque di un'infezione.
 Poco lontano, oltre la vecchia ferrovia, i Tedeschi avevano adibito 
          una casa ad infermeria. Là mia madre, facendosi coraggio e sfidando 
          tutti i pareri negativi, mi portò.
 Quando entrammo, scorsi Faffankullo e mi passò la paura. Lui fu 
          contento di vedermi e mi accolse con un gioioso abbraccio. Prima 
          dell'iniezione, tolse il pezzo di lenzuolo e pulì il tutto con 
          impacchi di alcool che bruciava e mi faceva male. Cominciai a 
          strillare e piangere. Per rabbonirmi infilò una mano in tasca. Pensai 
          che volesse darmi una caramella, invece tirò fuori il portafogli da 
          cui estrasse una foto che mi mostrò. Mi segnò col dito un bambino 
          riccioluto all'incirca della mia età, dicendo: -Kwesto essere Otto, 
          fighlio mio- e poi indicò la giovane donna -Kwesta sua mammà-
 A sentire "otto", guardai stupito mia madre e mi misi a ridere 
          (credevo che i numeri servissero ad altro!) e mi calmai.
 Fatta la puntura, aggiunse: -Tu essere puono, non dire me faffankullo-
 Aveva scoperto il significato della misteriosa parola! Finita la 
          medicazione, mi infilò sul petto, sotto la camiciola, un pezzo di pane 
          nero e con una carezza mi salutò, mentre su pressione di mia madre gli 
          dicevo sorridendo: -Grazie, ciao-
 Il passero Cippetto e la gatta Stellina
 
 Un giorno, un passerotto, ai primi voli, rimase imprigionato nella nostra 
    terrazza. Non riusciva a spiccare il volo oltre la balaustra. Sul tetto di 
    fronte una famiglia di passeri cinguettava disperatamente. Lo presi 
    delicatamente, lo feci accarezzare da mia figlia e poi lo lanciai in aria 
    per dargli la spinta. Lui prese il volo, ma non andò molto lontano, non 
    riuscì a raggiungere i suoi fratelli sul tetto. Atterrò nel giardino del 
    condominio, dove subito fu preda di un gatto. Mia figlia scoppiò in lacrime, 
    corse in camera, dove continuò a piangere. Per consolarla le raccontai 
    quello che era successo a me tanti tanti anni prima.
 Avevo otto anni. Mi divertivo a catturare uccelli. Mettevo una gabbietta, 
    cosparsa all'interno di briciole, con la porticina aperta, legata ad un 
    filo, nella stanza adibita a magazzino. Spalancavo la finestra, e attendevo. 
    Arrivavano uccelli d'ogni specie, beccavano un po' dappertutto, entravano 
    anche nella gabbietta per prendere i pezzetti di pane. Allora ero pronto a 
    tirare la cordicella della porticina che si chiudeva. Osservavo gli uccelli, 
    li prendevo in mano, lisciavo le loro penne, e poi li rimettevo in libertà.
 Un giorno si infilò nella gabbia un passerotto, che mi intenerì per la sua 
    timidezza e bellezza. Lo presi in mano, e sentii il suo cuore che batteva 
    forte. Aveva paura. Lo accarezzai dolcemente, gli offrii una briciola di 
    pane, una goccia d'acqua e lo rimisi nella gabbia. Fuori con quei gattacci 
    che giravano nei dintorni, non sarebbe vissuto a lungo.
 Decisi di tenermelo.
 Mi procurai una gabbia più grande, la pulii accuratamente e la destinai a 
    sua dimora.
 Chiamai il passero Cippetto.
 Passavo ore con lui, finita la scuola, e tante volte non svolgevo tutti i 
    compiti. Gli parlavo, e sembrava che mi capisse, muovendo il capo e facendo 
    cip cip.
 Un giorno arrivò il grande momento.
 Aprii la gabbia per pulirla, lui si fece prendere senza fare resistenza, e 
    cinguettando mi diede una leggera beccata sul dito. Lo appoggiai sulla 
    tavola e non volò via! ma saltellò, beccò qualche briciola e tornò sulla mia 
    mano. Lo accarezzai, lui di nuovo cantò cip cip e si fece un altro giretto, 
    muovendosi con eleganza sulle gracili zampette. Non credevo ai miei occhi. 
    Pulii velocemente la gabbietta, aprii la porticina, e lui cip cip vi tornò 
    dentro. L'avevo addomesticato, ero felice.
 Quella scena si ripeteva ogni giorno. Stavo molto attento quando aprivo la 
    gabbia. Verificavo se nei paraggi ci fosse la gatta Stellina, spietata 
    cacciatrice di topi e uccelli. Da quando era entrata in casa nostra, dopo lo 
    sfollamento, non si vide più un topo in giro. Aveva i piedi e la punta della 
    coda bianchi, il pelo maculato e una stellina bianca in fronte.
 Consapevole del pericolo che passava Cippetto, quando mi dedicavo alle 
    operazioni di pulizia, chiudevo la porta della cucina e del balcone.
 Un triste giorno, di pomeriggio, ero solo in cucina, e, come al solito, 
    parlavo con Cippetto, gli davo da mangiare, lo accarezzavo, facendogli i 
    complimenti per la sua bellezza. E lui mi ringraziava con canori cip cip, 
    saltellando, svolazzando sul tavolo, quando all'improvviso un lampo bianco e 
    nero mi passò vicino alla spalla ed afferrò il passerotto: era la gatta, che 
    rapida si dileguò con un agile salto fuggendo per le scale. Rimasi 
    imbambolato, incredulo: avevo lasciato aperta la porta della cucina. Gridai 
    disperato:
 -Stellina, ridammi Cippetto!-
 Poi piansi.
 Pieno d'ira e desideroso di vendetta mi armai di bastone, deciso a punire la 
    gatta con la morte. Mi aggirai dappertutto, ispezionai tutti i suoi posti 
    preferiti, in modo particolare la legnaia, dove aveva partorito varie volte 
    i suoi micetti.
 La ricerca fu inutile. Stellina aveva capito che non doveva farsi vedere per 
    un bel po'.
 Infatti riapparve una decina di giorni dopo, quando m'era passata la voglia 
    di vendicarmi, all'ora di pranzo.
 Si avvicinò a mio padre e miagolando, gli chiese del cibo, tirandogli, come 
    sempre, con le unghie, l'orlo dei pantaloni.
 Ma giunse l'ultima ora anche per lei che cercava di catturare le rondini, 
    che avevano costruito i nidi sotto il balcone, facendo scattare la zampa 
    fuori dalle sbarre della ringhiera. Si ammalò di rogna, e per evitare il 
    pericolo di contagio si pensò fosse opportuno ammazzarla. Ero contrario. 
    Protestai piangendo.
 La infilarono in un sacco e l'uccisero con un colpo di fucile. Scavarono una 
    buca nell'orto sotto il noce e la seppellirono lì.
 Sono sempre stato previdente
 
 La settimana scorsa il vecchio signor Vittorio Emanuele, di anni 
    ottantanove, ha esaudito il suo probabile ultimo desiderio.
 È andato a visitare la Fiera dell'arredamento ("Tutto per la casa"), 
    appoggiato a mala pena sul suo bastone d'avorio e al braccio della 
    prosperosa badante slovacca, che ha anche l'ingrato compito di assecondarlo 
    sessualmente almeno una volta ogni trenta giorni.
 Che ressa, ragazzi! Ma lui, pignolo e sorridente (che strano vederlo 
    sorridere…), rigido e barcollante (ogni tanto il ginocchio destro cedeva e 
    il gomito scivolava sul seno di Katarina…), metodico e interessato (come 
    quando esamina la sua collezione di francobolli e farfalle…) percorse tutti 
    i padiglioni, fermandosi con attenzione ad osservare gli stand uno per uno.
 Cucine, salotti, divani, camere da letto, vasche da bagno, tetti, finestre, 
    porte, scale di legno, materassi, tende, tavoli, sedie… C'era tutto.
 Però, gira e rigira, dopo tre ore, non vide quello che cercava, quello che 
    l'aveva spinto ad abbandonare la comoda poltrona di casa.
 Visto che Katarina, biondastra di capelli, dalle labbra carnose rosso-fuoco 
    (strato considerevole di rossetto), più intenta a mirare uomini corposi ed 
    aitanti che mobilia, spiccicava poche parole d'italiano e con difficoltà, 
    decise di chiedere lui l'informazione che gli stava a cuore.
 Si avvicinò allora ad un commesso non tanto giovane e che gli sembrava 
    abbastanza disponibile. Biascicando con la sua bocca da topo, stretta e 
    prominente, sotto il naso adunco ed affilato, domandò:
 -Scusi, dove posso trovare il reparto bare?-
 -Ah, il bar lo trova sulla destra in fondo al padiglione.-
 -No, no, non cerco il bar, ma le bare!-
 -Bare? Ma che bare!-
 -Le casse da morto! Sa, sono vecchio, e allora vorrei avere un'idea sulle 
    misure e i costi, prepararmi, comprarne una adatta a me. Non si sa mai. Sono 
    sempre stato previdente.-
 Il commesso spalancò gli occhi e si passò una mano tra i capelli. Stava per 
    sbruffare con il suo viso da esperto venditore chissà che risata, ma si 
    trattenne davanti a quello straccio di uomo striminzito ed incartapecorito; 
    gli consigliò invece di recarsi da un impresario di pompe funebri che 
    sicuramente lo avrebbe accontentato.
 Vittorio Emanuele, a malincuore, cianchettando e sfogandosi con la badante, 
    si allontanò dichiarando che la fiera era incompleta e male organizzata.
 Mentre girava intorno allo stand vide il commesso dalla faccia buona che, 
    indicandolo, parlava con un altro, piegato in due dal ridere.
 -Ridete, ridete. Quando verrà il momento non potrete scegliere, e starete 
    scomodi per lunghissimo tempo!-
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