| Tecnologie moderne Volevo mettervi a parte di un segreto
 Che finora ho tenuto riservato
 Perché non ancora collaudato.
 
 Da anni mi sono scervellato
 Per realizzare un cellulare innovativo
 Senza batterie e che si usa anche senza fiato.
 
 E' incorporato,
 Nella persona, ha il pensiero come trasmittente
 E per tastiera i battiti del cuore comandati dalla mente.
 
 Normali,
 Quando sei di buonumore,
 Accelerati, per le questioni dell'amore.
 
 Non più parole smozzicate,
 Ne mancanza di campo.
 Vi troveranno sempre, senza via di scampo.
 
 Diciamo pure che l'ho fatto per trovare Lei
 Bella mia ormai
 Più non mi sfuggirai.
 
 Posso comunicare
 Dalle cantine, dalle grotte,
 Financo dal fondo del mare.
 
 Dentro un sommergibile
 O su un aereo astrale.
 Addirittura dall'un pianeta all'altro.
 
 E senza infrastrutture da realizzare
 E senza costi.
 Oggi, subito, adesso lo voglio provare.
 
 Che sensazione di trionfo che emozione
 Cuore a cento e passa
 Non v'è dubbio circa la destinazione.
 
 Vocina dolce e garbata,
 SiiiiJ la Sua.. 
                    -…è inconfondibile…
 “La persona desiderata rimane irraggiungibile.-L”
 
                                                           
                    Lo specchioVai vai gridò quasi con rabbia
 E invece fu costretto a frenare
 Per colpa di quel rimbambito
 Dopo una certa età guidare dovrebbe essere proibito.
 
 Battè le mani sul volante spazientito
 Sbuffò guardando allo specchietto
 Una donna giovane con occhi di cerbiatta
 la mano destra corse svelta al nodo della sua cravatta.
 
 Scattato il verde con rabbiosa accelerata
 Sorpassò deciso il canuto mentecatto
 Ma fu costretto a rapida bloccata
 Una donna a passo lento sulle strisce imbacuccata.
 
 Bisognerebbe vietare la città agli anziani
 fanno perdere tempo occupano gli ospedali
 non hanno i riflessi pronti
 raccontano sempre le stesse cose e diventano seccanti.
 
 Arrivò al parcheggio snervato e un po' sudato
 Fece per uscire svelto ch'era già in ritardo
 Si portò una mano al collo improvvisamente
 Trafitto da un dolore acuto e lancinante.
 
 Artrosi aveva detto il suo dottore
 Ma va è meglio che cambi mestiere.
 Entrò in quello che era un bel locale
 A cercare un regalo di natale.
 
 Per figlie e nipotini belli e grandicelli
 Tra dolci vari e luci colorate
 Notò tra gli altri un uomo
 I capelli erano bianchi e il volto un po' rugoso
 
 Aveva un che di familiare
 Non era certo giovane come lui
 anche se non proprio vecchio
 Poi incredulo e con raccapriccio s'accorse dello specchio.
 
                              
    Sera in paeseBatte l'ora del vespro,
 Solitari rintocchi monotoni
 S'infrangono sui muri scrostati
 E intanto pe' borghi
 E pe' campi s'accostan gli aratri.
 
 Volti dal tempo
 E dalla fatica segnati.
 Corpi piegati in avanti,
 Passi lenti e stanchi
 Visi scarni, nasi adunchi.
 
 Dai comignoli acuti
 Il fumo leggero col cielo imbrunito si fonde
 Mentre un profumo di legna bruciata,
 D'inverno,
 Per l'aria si spande.
 
 La testa bionda reclina
 Vinto dal sonno
 Il bambino seduto
 Sulle gambe
 Del nonno.
 
 Tic Tac sul camino
 La sveglia il tempo scandisce
 Mentre la fiamma,
 Come il giorno, pian piano,
 Assottiglia e svanisce.
 
  Parafrasando DanteGiorgio io vorrei che tu
 
 Giorgio i’vorrei che tu ed anche io
 Fossimo presi come per incanto
 E messi su uno yacht che ad ogni vento
 Per mare andasse al volere tuo e mio.
 
 Si che la fortuna od altro tempo rio
 Non ci potesse dare impedimento,
 Anzi vivendo senza di salute più lamento
 e senza la paura d’alcun licenziamento.
 
 E donna Lory e donna Paty poi
 Quella che prefisso de li anni è ancora trenta
 Con noi venisse col suo sguardo ammaliatore.
 
 E quivi con loro ragionar sempre d’amore
 E ciascuna di loro fosse assai contenta
 Constatar da noi una virilità affatto spenta.
 L’uomo con la motoLa strada bagnata, la siepe,
 Un muro di pietra,
 E tutto d’intorno rischiara
 Il fanale potente della gilera.
 
 A casa ritorna la sagoma scura
 Dopo più di dieci ore,
 Suo solo compagno nella notte nemica
 il fidato motore.
 
 Gelido il vento spazza la valle,
 S’insinua un brivido freddo sotto la pelle.
 Dall’altana vigila la sentinella
 Sotto un cielo nero senza una stella.
 
 Rallenta appena un poco si piega
 E riprende veloce,
 Torna nel buio la quercia possente
 E ritrova la pace.
 
 Una scossa, un sobbalzo,
 Che stia per cadere,
 A quest’ora di notte, col freddo che fa,
 Chi è quel povero pazzo che va?
 
 Ma la moto
 E’ sicura,
 Abilmente la guida
 La sagoma scura.
 
 Lotta col buio e vince per poco,
 Sotto un piatto rotondo di bianca lamiera
 Una lampada elettrica fioca
 Tra la vecchia fontana e la cantoniera.
 
 Sorpassa veloce e svelta s’allunga davanti
 E scompare improvvisa com’era venuta
 L’ombra netta e possente
 Della sagoma muta.
 
 E più picchia insistente e copiosa
 L’acqua sul tetto
 Più forte si stringe il bambino
 Dentro al suo letto.
 
 Strani disegni proietta la luce improvvisa
 Sul buio soffitto,
 Frena a fatica le lacrime il bimbo
 E’ proprio un ometto.
 
 Dal canale di gronda proviene
 Siccome un lamento,
 Risponde la vecchia persiana, come per consolare,
 Cigolando.
 
 Son quasi le due
 O forse le tre,
 Di là c’è la mamma che dorme
 Ma il babbo dov’e’?
 
 Un tuono più forte
 Scuote i vetri delle finestre ed anche le porte.
 Sotto le coperte scompare l’ometto
 Forse era meglio restar pargoletto.
 
 Ma ecco tra gli altri rumori
 Una moto s’arresta con ruggito finale.
 Passa dal bianco al rosso rovente
 E si spegne del tutto il fanale.
 
 Apre l’uscio appena
 E richiude piano.
 E sale le scale in punta di piedi
 Per non fare rumore
 
 E invece non sa
 Quanta tranquillità
 In quel cuore di bimbo in attesa
 Quel passo ora da.
 In morte del padre Quel grosso bacio che non ti ho mai dato
 Quella carezza che ti ho sempre negato
 Quell’abbraccio affettuoso di cui mi son vergognato
 Quelle dolci parole che più non hai aspettato.
 
 Quel pugno sul muro ed un dito fasciato
 Quella risposta dal tono seccato
 Quel giusto consiglio non accettato
 Quando solo al lavoro io t’ho lasciato.
 
 Ben volentieri cancellerei
 L’ultima strofa di questa poesia
 Ma gomma non v’è che sia così forte
 Da fare in modo che venga via.
 
 Ora bacio il vetro di una foto a colori
 E accarezzo la pietra sistemando dei fiori
 Poi piego un poco la testa e una lacrima ancora nascondo
 E sussurro vane parole ascoltate adesso solo dal vento.
 La figlia di Dio(ode alla donna)
 
 Si muove per le strade della vita
 Essenza sua in essa stessa definita.
 Spesso incosciente giustificazione ai battiti di un cuore
 Serra umida e calda adatta al fiore tropicale dell’amore.
 
 Dizionario dell’esistenza,
 A tutte le enciclopedie capace di far concorrenza,
 Di lente o telescopio a un tempo la magia
 Invidia senza fine di tutta la tecnologia.
 
 Divinità fatta persona,
 Quale compenso al nostro faticare,
 Unica gioia essere amati e lei riamare.
 
 Di tutte le creature la più bella
 Perdono per chi la paragonò a una sola stella.
 Lei dev’essere la figlia di Dio oppure sua sorella.
 La giaccaPende una giacca dall’attaccapanni,
 La manica è lunga ma anche larga.
 e ben proporzionata.
 Un uomo alto giovane di sicuro in essa alberga.
 
 Un uomo di successo
 Con grande stima di se stesso
 amato e rispettato dal suo e dall’altro sesso
 perdente quasi mai, vincitore spesso.
 
 Il tessuto è grigio scuro, sobrio e serio
 Da manager o direttore o comunque di comando un accessorio.
 Di una persona importante,
 un professionista, un imprenditore benestante.
 
 Economica non è,
 Anche il buon taglio lo denota.
 La stoffa raffinata ed i bottoni,
 Non può essere di una testa vuota.
 
 Egli deve avere
 una voce profonda, da dominatore,
 sarà un dottore, un ingegnere
 o un amministratore.
 
 Chissà quanta gente
 Alle sue dipendenze.
 Quante conoscenze
 Quante esperienze.
 
 Occhi di ghiaccio grigio verdi
 Barba rasata e un carattere forte,
 mascella volitiva e pugno duro
 Deciso e fiero mai insicuro.
 
 Intelligente e interessante
 Preciso scrupoloso e attento.
 Questa dev’essere, stando alla giacca, la sua fisionomia
 Invece è mia.
 La lavagna(Tragedia di San Giuliano di Puglia)
 
 Strilli acuti e giocondi
 Nel sole del gaio mattino.
 Carezze di bimbi
 Sul dorso tremante di un dolce gattino.
 
 Colori sbafati
 Eccedenti i contorni di una casetta.
 Matite spuntate,
 Cantilene di una strofetta.
 
 Birichini sorrisi,
 Paffutelli visini.
 Giocar con le mani
 Gli occhietti e i nasini.
 
 Bionda o nera treccina
 S’agita coi salti in cadenza,
 Grazioso umano vessillo
 D’infinita innocenza.
 
 L’astuccio, le penne, i colori,
 I nuovi quaderni, gli odori.
 La cattedra della maestra,
 La cartina d’Italia vicino alla finestra.
 
 La nera lavagna e
 Il bianco del gesso,
 Negli anni a venire, per tutti,
 Ricordo prezioso sempre più spesso.
 
 Poi il tremore improvviso, l’urlo, l’orribile schianto.
 Buio assoluto, risa trasformate in pianto.
 Contro travi mattoni e cemento assurde difese
 Tenere piccole mani di bimbi sul capo protese.
 
 Come boccioli di fiori
 Travolti da cingoli di carri armati,
 Petali e gambi rigogliosi
 Dal durissimo ferro spezzati
 
 maciullati,
 al fango per sempre legati.
 Poesia profanata.
 Bellezza sbranata.
 
 Tra la polvere bianca
 E l’acciaio contorto
 C’è un bimbo, correte! correte!
 Ma è morto.
 
 Un piccone smuove una pietra,
 Mio Dio, una mano,
 La speranza che torna,
 Presto anche qua, fate piano.
 
 Di nuovo, ancora per troppe volte
 la vita incontra la morte.
 Lacrima e scava, freme e teme
 fate silenzio, qualcuno c’e ancora che geme.
 
 Emerge tra le macerie
 e i poveri resti di quell’inferno
 Un banco di scuola
 un cestino, un orsetto, un quaderno.
 
 Ed ecco pure, destino crudele,
 Intatta la nera lavagna,
 Di lieti ricordi purtroppo stavolta
 Tu non sarai lor compagna.
 DonnaCarezza di Dio sulle ruvide guance degli uomini,
 Angelo custode visibile e invisibile,
 Incomprensibile fantastico universo,
 Contenitore stupendo di gioiose speranze,
 Dolcezza infinita,
 Fragilità, dispensatrice d’insospettata forza,
 Fattezze dell’amore.
 Selvaggia femminilità,
 Porta d’ingresso al paradiso perduto
 Dove nuotare di nuovo tranquillo e sicuro
 Come pesce in un acquario tropicale
 Che non temerà più alcun male.
 MadìTi ho visto Madì, ti ho visto in tivvù
 Quattro, cinq' anni non certo di più
 Su un cencio giacevi ignorato
 Nudo, il tuo pianto accorato.
 
 In mezzo a uno spiazzo polveroso
 Sotto un sole spietato,
 Su un terreno brullo e assetato
 Dalle lacrime tue solamente bagnato.
 
 Tra un tugurio e una capanna
 Mai tu conoscesti il canto dolce d’una ninna nanna.
 Tra quella piccola disperata folla
 Mai nessuno compose per te le sue braccia a mo’ di culla.
 
 Poi mano pietosa straniera,
 Missionaria, amorosa e tardiva,
 Un poco di latte ora ti offriva,
 Mentre insieme con te pure il giorno moriva.
 
 Tu con gesto deciso, sdegnato
 lo rifiutavi,
 E senza parole il resto
 Del mondo accusavi.
 
 Figlio del vento e della disgrazia,
 Per altri milioni d’innocenti hai parlato,
 Tirandoti solo quel lurido cencio sul capo,
 Bara misera e indegna per te diventato.
 
 Tu cherubino nero dagli occhi grandi,
 Con la pancia gonfia e le gambe scheletrite,
 Senza la forza di scacciare una mosca
 Scuotesti però milioni di coscienze assopite.
 
 Diamante che brilla nella lordura
 Nessuno di te ebbe mai cura.
 Fiore stupendo nato sul fango
 Chi solo t’accarezzò fu forse un orango.
 
 Perdonami Madì, non lo sapevo,
 Oppure lo sapevo ma non lo vedevo.
 Ora so che chi ti ha voluto morto non è stato Dio
 Ma tutti gli altri indifferenti tra i quali c’ero anch’io.
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