Racconti di Ilaria Azzurro


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Cronaca di una mattina
(Ispirata dalla poesia di Ida Guarracino "Una fisarmonica a piazza del Gesù" del 15 Marzo)

Salgo a piedi le scale della stazione della metro in Piazza Dante. La piazza è grande alle 7.30 del mattino quando ancora non è invasa da ragazzi che urlano passandosi il pallone e coinvolgendo i passanti: "Capo cio putit passà o pallon". L' aria a quell'ora è trasparente e fresca di un inverno eccezionalmente mite. Salgo le scale tra la folla assonnata del mattino e misuro lo spazio con lo sguardo. Napoli in piazza sembra ancora dormire, anzi sembra guardarti appena sveglia dai vetri di un alto palazzo , vestaglia e pantofole, tazza di caffè in mano, tipico sorrisetto napoletano, accomodante e sarcastico, ed ostentato compiacimento perché se tu sei lì in piedi ai lati della piazza è evidente che sei meno furbo di lei che sta ancora prendendo il primo caffè della mattina e che comunque, se solo avesse voluto, avrebbe potuto continuare a dormire fino a giorno inoltrato. Sistemo le cuffie del lettore mp3 lasciando scorrere i titoli, rinuncio ai pezzi hip hop e house ed anche alle canzoni di Battiato e Vasco per soffermarmi, come al solito, sulle colonne sonore di un film francese che riecheggiano i ritmi del valzer. Così lo spazio si riempie di note e nella piazza ampia, che nel freddo terso del mattino da una sensazione di distaccata indifferenza estranea alle altre ore del giorno, immagino di trovarmi nella grande piazza di una grande città del nord Europa, magari la Praga che ho potuto assaggiare nei 2 giorni di viaggio di quinta superiore che, nei miei ricordi, fa di quella fredda indifferenza la trama del mistero sottile e trasparente che sembra attraversarla in ogni piazza, in ogni strada. Forse quello stesso senso di mistero che Kafka otteneva nei suoi romanzi, quella stessa indifferenza, che il respiro dell'arte sfuma di rassegnazione ed insensatezza. Metto a paragone la città e il suo romanziere ed effettivamente mi sembrano l' uno lo specchio dell'altra e viceversa. Mi guardo intorno quasi alla ricerca dei merli gotici dei campanili che a Praga spuntano da ogni angolo pungenti e un po' tormentati, quasi ribellione alla freddezza della città.
Ma l' immagine di Praga svanisce quando dalla piazza intraprendo la stradina che attraverso Port' Alba immette nel centro storico della città. Allora mi ritrovo studentessa nella Napoli che è anche della cultura. Port'Alba è la sede delle maggiori librerie e la strada, già stretta, è invasa ai lati dalle esposizioni di libri di tutti i generi: si riconoscono immediatamente i manuali di cucina napoletana dalle grosse stampe in copertina raffiguranti generalmente un grosso e panciuto Pulcinella o l' immagine del golfo con in primo piano un lussureggiante piatto di spaghetti, e i classici latini in edizioni economiche ai quali butto sempre uno sguardo alla ricerca degli autori che devo studiare all'università. I bar sfornano cornetti e cappuccini a pieno ritmo per signori in cravatte e valigette da lavoro. E i ragazzi già iniziano ad inondare le strade con le cartelle ed il passo che procede con quell'ostentato ritmo cantilenante che pretende che tutti riconoscano con reverenza che anche quella mattina Antonio o Marco o Luca hanno fatto il sacrificio immane di interrompere il loro sonno per andare a scuola. Di solito questo tipo di pretesa è dei ragazzi. Le ragazze invece sono più arzille ed attente anche a prima mattina. Io percorro la strada quasi saltellando. Con lo zaino legato alle spalle con entrambe le bretelle mi sento una bambina e mi guardo intorno con l' allegria di una bambina.
Osservando le persone do sempre più credito alla tesi per la quale l' apparenza (la realtà non so) ci classifica inevitabilmente in "tipi". E la nostra consapevolezza di questa condizione traspare chiaramente dai tentativi di farsi individuare come appartenenti ad un "tipo" piuttosto che ad un altro. Superfluo specificare che tra i ragazzi è una condizione esasperata all'ennesima potenza. Così con la mia aria da bambina mi sembra di evadere un po' il sistema per poterlo osservare dal di fuori. Il mio andamento baldanzoso subisce però un rallentamento quando arrivo presso il conservatorio.Si fa solenne. Tolgo le cuffie e tendo l' orecchio alle finestre dell'edificio anche se so già che a prima mattina le attività interne non sono ancora iniziate. Il fascino che esercita è enorme. Squadro le forme degli strumenti, ovattate nelle custodie nere, delle persone che si attardano al cancello. Non conosco l' interno dell'edificio e questo accresce naturalmente la curiosità. A confusione moderata ed in altri orari ho ottenuto l' ascoltato in complesso di un pianoforte, un violino, chitarra, soprano e tenore. Record personale di varietà che ogni mattina cerco di superare, ma sono sempre troppo in anticipo con l' ora. Tuttavia non me ne rammarico. Percorrendo le strade a quest' ora vivo la città. Napoli riprende la sua attività mattutina, ed io con lei. Non ne sono turista, spettatrice, ne sono parte. Sorrido, quasi a volermi prendere un po' in giro per questa vezzosa forma di orgoglio, e riprendo la marcia. Dopo un lungo e stretto vicolo sbuco a Piazza San Domenico e poi giù per via Mezzo Cannone alla fine della quale c'è la sede della mia facoltà. Supero bar, rosticcerie, librerie, cartolibrerie e studenti, gli unici elementi che compongono la via, e raggiungo velocemente l' entrata dell'edificio. Salgo le scale ed entro in aula cercando di afferrare, mentre preparo penna e quaderno, la spiegazione che il prof sta tenendo su Kant.

Un quadro indiano sulla parete della mia stanza
Un passo dopo l'altro, la neve cigola al mio tocco elegante e fiero. L'ombra allungata della mia figura in movimento si alterna alle lunghe tenebre, che si fanno più scure penetrando gli alti busti degli alberi e le loro chiome frastagliate. Furtivo avanzo in un bosco di tenebrosi coriandoli e fari cupi.
Non ti vedo!
Procedo alla cieca, vagabondo nella nebbia, appigliandomi saldo al ghiaccio sotto i miei passi. I miei artigli penetrano nella neve per non perdermi, voglio sentire il mio corpo pesante, il mio pelo più folto e più argenteo perché risalti nelle tenebre.
Sottile insicuro e furtivo vago in un bosco di ombre.
I lunghi alberi coprono il cielo notturno. Nera è la neve, nera è la nebbia, di ghiaccio i miei occhi, poco l'ossigeno e assetati i miei polmoni, bagnati i miei occhi, tremante il mio corpo, e la neve fredda e la notte buia.
Non ti sento!
Si dimena il mio tormento tra questi boschi, e io corro più veloce della notte, penetrando la mia disperazione. Il vento glaciale mi dilania ma non arresta la mia follia, il mio urlo. Corro e sbatto la testa contro le mura della mia vita. Mi riprendo e corro ancora. Corro, fin dove la nebbia diventi musica. Corro. Ma d'improvviso, come se la catena attaccata al mio guinzaglio, tesa, mi trattenesse per la gola, sono costretto ad arrestarmi. Il respiro mi soffoca ma il freddo è divenuto ossigeno che attingo voracemente. Il dirupo si distende pochi metri avanti alle mie zampe, in eterno vuoto, sordo silenzio. Nelle sue profondità il nulla.
Poi alzo gli occhi. Non più cappa di tenebre, la notte diviene grande, avvolgente, e mostra la luna piena, suo trofeo. Allora il mio cuore accelera con i tremiti dei miei arti, mentre i miei occhi oscillano al vuoto, poi alla luna, e al burrone, poi alla notte, al mio uragano, e al silenzio…. e poi alle percussioni dentro di me, alle urla dentro di me, agli spari dentro di me,alla vita dentro di me che, impazzita, si dimena e morde le sbarre con i denti. Mentre chiudo gli occhi e alzo il muso alla luna, una lacrima si scioglie e cade nel profondo silenzio, perdendosi.
Uuuuuuuuuuuuuuuuuuuuu

Ulula lupo e sciogli la neve con le tue lacrime, dimostra alla notte la tua libertà, raccoglila, fosse anche solo illusione. Spezza le catene con il tuo canto e sii orgoglioso, urla il tuo grido e non temere di farlo.
La tenda velata offusca metà della tua figura, ed io, di tanto in tanto, la scosto e ti ammiro nella tua vittoria, ascoltando il tuo urlo e sentendolo pulsare nel mio stomaco e nel mio petto.


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