Scritti di Diego Cocolo


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Diego Cocolo

Oggi, su “Internet” si corre, si salta da un sito all’altro, si inseguono gli itinerari più svariati ed impensati, ci si perde e poi ci si ritrova; perciò Diego Cocolo ( 23-06-1927), scrive puntando sulla versatilità, passa da testi di cronaca personale a citazioni storiche, da ricostruzioni geografiche a riflessioni filosofiche. Il bisogno della letteratura, secondo le parole dell’autore “è agilità, mobilità , disinvoltura nel saltare da un’ argomento all’altro, nell’esigenza di affrontare le più svariate tematiche, siano esse storiche che filosofico- scientifiche.” Si sofferma a riflettere sulle note dello “Zibaldone” di Giacomo Leopardi , che definisce lo stile con parole quanto mai attuali: “La rapidità e la concisione dello stile deve presentare all’anima una folla di idee simultanee che fanno ondeggiare l’anima in una tale abbondanza di pensieri, o d’immagini e sensazioni spirituali, ch’ella o non è capace di abbracciarle tutte, e pienamente ciascuna, o non ha tempo di restare in ozio e priva di sensazioni…” Diego Cocolo, da autodidatta scrive per regalarci “emozioni” rievocando momenti di vita vissuta. Tra le sue opere ricordiamo: - L’isola felice che non c’è - I giganti fumanti - Oltre l’orizzonte - Il vento della sera - Giro lungo, nell’America dell’Ovest - Ma il dolore non ha una bandiera - Note di viaggio: città e sentieri del bel paese - Perché nulla vada disperso - Dolomiti e sentieri d’Italia - Il sale della vita-
Trovate opere e dipinti sul sito: http://www.tizianaweb.it/diegococolo.htm

Raccolta 1

Il capolavoro di "Giulio Romano"...
Il nostro primo impatto nel grandioso palazzo del Te di Mantova, é stato nel grande atrio d'onore, aprentesi sul giardino del meraviglioso palazzo. E' simile al quello della romana villa della Farnesina, con decorazioni a grottesche e statue allegoriche. Offre una chiara idea della ricchezza ornamentale che ha fatto la fama di questo edificio. Giulio Pippi dè Iannuzzi, detto Giulio Romano, dalla sua patria ( 1492- 1546), architetto e pittore, fece del palazzo Te il suo capolavoro. La splendida decorazione pittorica, che costituisce uno dei complessi decorativi più notevoli dell'avanzato Rinascimento, fu tutta da lui eseguita, o da allievi secondo i suoi cartoni originali. In precedenza, alcuni anni fa, abbiamo visitato la Sala dei cavalli, affrescata in parte da Rinaldo Mantovano e da B. Pagni su cartoni di Giulio Romano, in parte dal maestro stesso. Vi sono ritratti sei cavalli preferiti dal Gonzaga. La Sala dei giganti, con affreschi raffiguranti la nota leggenda mitologica dei Giganti abbattuti da Giove; vennero eseguiti da allievi su cartoni di Giulio Romano; sono impressionanti le spaventose colossali figure. L'Appartamento del banchetto nuziale di Psiche con Amore. Le pareti e gli scomparti del soffitto di questo splendido ambiente recano dipinti ad olio ed a fresco eseguiti dal Pippi e da collaboratori, sempre su cartoni suoi: Quella scena rivela senz'altro l'immediatezza della mano del celebre maestro. In questa nostra visita al Palazzo Ducale, oltre al complesso della Reggia, abbiamo ammirato un'importante selezione di disegni sull'architettura e le decorazioni della reggia dei Gonzaga, che vanno tra la metà del Cinquecento e la metà del Seicento.
Dopo questa carrellata di opere insigne, sia del Palazzo Ducale, quanto del Palazzo del Te, veniamo alla visita della " Celeste Galleria", per il quale motivo, oggi, noi semplici amatori, siamo giunti dal piccolo borgo medioevale di Campitello.

"LA CELESTE GAL(L)ERIA".
(Museo dei Duchi di Mantova),
Appena siamo entrati all'interno della " Celeste Gal(l)eria " dei Gonzaga", é stato come aprire una scatola magica, lo scrigno più prezioso dell'arte pittorica di un antico tesoro, formato da decine di migliaia di tessere, e rivelarne l'identità una ad una; ripercorrere le loro vicende, rintracciare la loro nuova sede ed infine riunire un nucleo eccezionale in una mostra che pareva impossibile per gli ideatori mantovani.
" Quella dei Gonzaga era la raccolta d'arte più importante e straordinaria di tutto l'Occidente. All'apice della sua estensione, nel secondo declinino del Seicento, la collezione accumulata dai Duchi di Mantova contava più di 2000 dipinti e quasi 20.000 oggetti preziosi tra bronzetti, sculture, cammei, libri, cristalli e gemme: frutto di tanti sforzi per creare una corte in grado di colloquiare con l'Europa, fonte di stupore e d'ammirazione. Un insieme favoloso d'opere d'arte collezionato nel corso di tre secoli e incrementato e strutturato, a partire dalla metà del Cinquecento, dai duchi Guglielmo, Vincenzo I e Ferdinando Gonzaga, il VI Duca - precorrendo tutti i tempi - di dare un ordinamento quasi museale a tante preziosità. Poi fu la decadenza. Nel 1625 iniziarono le bramosie dei collezionisti inglesi, nel 1630 -1631 i lanzichenecchi saccheggiarono la città e il patrimonio dei Gonzaga venne disperso definitivamente: tante opere attraversarono montagne ed oceani, passarono di mano in mano, entrarono a far parte nuove collezioni: di molti si persero le tracce o la memoria.
Ora, dopo quasi quattro secoli, la mitica collezione dei Duchi di Mantova, meticolosamente " ricostruita" attraverso lunghe ricerche documentarie ed archivistiche, torna nella sua città con una selezione esemplare di capolavori prestati per l'occasione dai musei e dalle collezioni d'America, Australia e di tutta Europa, compresa la Royal Collection di Sua Maestà la Regina Elisabetta, dalla quale giungono ben 9 importanti dipinti.
Dal 2 settembre all'otto dicembre, circa trecento significative opere della collezione saranno esposte nelle Fruttiere di Palazzo Te.
Oltre alla quadreria, abbiamo ammirato i cristalli di rocca, cammei di impensabile valore, gioielli delle più famose botteghe del tempo, oltre ad armi, sculture e codici. Questa mostra, oltre che culturale, é stata mostra di grande risonanza internazionale, che ha richiamato a Mantova, migliaia e migliaia di visitatori, provenienti da ogni parte del mondo. E' stata una esperienza unica e, bene ha fatto l'Ente Valle, nel programmare questa visita per noi della terza età. Grazie a questa mostra d'arte, la nostra cultura ne é maggiormente arricchita, come pure il nostro spirito e la nostra anima sensibile. Sebbene stanchi dalle attese e dalle lunghe code, che hanno messo a dura prova le nostre membra stanche, alla fine del tour, sul viso di ognuno di noi, per un momento, era ritornato il sorriso, ma soprattutto la gioia di aver potuto ammirare, tutti riuniti, questi capolavori assoluti della pittura.
Riportiamo qui di seguito alcuni capolavori, che maggiormente ci hanno impressionati, come il ritratto di giovane donna allo specchio di Tiziano dal Louvre di Parigi, La Toilette di Venere di Guido Reni, prestata dalla National Gallery di Londra, Davide con la testa di Golia del grande Mantegna e, della Galleria del Castello di Praga, l'imponente e spettacolare l'Assemblea degli Dei nell'Olimpo con cui Pietro Paolo Rubens, nel 1602, raffigurò il X canto dell'Eneide di Virgilio.
(Tratto dal libro: "Perché nulla vada disperso")   

San Gimignano
Nelle prime ore del pomeriggio, quando il sole stava per tramontare dietro le colline del colle dominante la Val d'Elsa, dove appunto é ubicata la pittoresca cittadina di San Gimignano, che si annuncia con il profilo delle orgogliose torri che dominano le sue case, ammassate su tre livelli di un colle, sono illuminate da un pallido sole autunnale, con i suoi colori caldi e sfumati, che lo rendono maggiormente caratteristico. Questo borgo medioevale sorge non lontano da Siena in una posizione strategica, a trecento metri di altitudine nella valle del fiume Elsa. Incominciamo col dire che San Gimignano, é una delle più note mete turistiche della Toscana, fu la principale località toccata da questo ramo della Francigena, che attraversava tutto l'abitato tra le porte di San Matteo e di San Giovanni. La storia ci racconta che, la sua funzione viaria é attestata dalla presenza di numerosi ospedali, tra i quali ricorderemo la mansione templare di Sam Jacopo al Tempio e i due ospizi giovanniti di San Giovanni e di San Bartolomeo, dei quali rimangono interessanti strutture romaniche, oltre all'ospedale di Santa Fina ancora in funzione. La città si sviluppò nei pressi di un crocevia che raggiunse la massima importanza fra il IX e l'XI secolo: l'asse principale era la via Romea, meglio conosciuta come via Francigena, che collegava Roma alle province transalpine che in Val d'Elsa incontrava la via Pisana. Il nucleo primitivo sorse fra i due punti di riferimento più vicini all'incrocio, la collinetta della Torre, dove sarebbe stato edificato il castello vescovile, e Montestaffoli, futura sede del potere secolare La cittadina raggiunse ben presto un'invidiabile prosperità economica, che incominciò a riflettersi nell'orgogliosa dignità degli edifici. Già nel 949 San Gimignano era disegnata borgo e, appena cinquant'anni dopo, proprio sul finire del millennio, veniva costruita una possente muraglia difensiva che circondava tutta la città e includeva anche un tratto della via Romea. Le aperture verso l'esterno si riducevano all'arco della Cancelleria sul lato nord, quello dei Becci a sud, la porta Santo Stefano a est e la garitta di Montestaffoli a ovest, oggi scomparsa. Fra l 'XI e il XII secolo, la cittadina, sotto la protezione del potere vescovile, continuò a crescere e a prosperare.Sono in questo periodo che la collegiata, iniziata nel 1056, e la nascita fuori porta di due piccoli nuclei urbani. San Giovanni e San Matteo, sorti entrambi ai lati della via Romea, che furono incorporati nella città grazie ad un secondo giro di mura eretto all'inizio del XII secolo. In questo modo la struttura di San Cimignano prende la forma a croce: un asse é formato dalla via Romea e l'altro dall'unione fra i due borghi incorporati. A partire dal 1247 iniziarono a insediarsi in città gli ordini mendicanti, che furono propulsori della costruzione di varie chiese, come quella di San Francesco, e altri importanti monumenti. San Gimignano, sempre più ricca grazie alle sue fiorenti attività - fra le quali spiccano per importanza la produzione di zafferano, che veniva esportato anche in Francia e nei Paesi Bassi - raggiunse in questo periodo il suo massimo splendore. Con il passaggio dei pellegrini, provenienti dal nord e dall'ovest europeo, che erano diretti a Roma e a Gerusalemme, che in un certo senso, furono anche i propulsori della costruzione di edifici , monumenti e chiese con la loro partecipazione, contribuirono a fare crescere questa città e raggiungere il massimo splendore. Potremmo definire questa città delle cento Torri, una città internazionale. Grazie all'elemento umano di questi pionieri erranti della fede cristiana, provenienti appunto dal nord e dall'ovest della vecchia Europa, che gettarono le prime fondamenta di quella che oggi é una realtà: l'Unione europea. Abbiamo fatto ogni sforzo per realizzare l'Europa unita; si é fatto di tutto - e ben a ragione - per sensibilizzare soprattutto i giovani ad "incontrare l'Europa" e, forse non si pensa abbastanza ad " incontrare l'Italia". Ed " incontrare l'Italia" significa penetrare nella cultura, nella tradizione, nel modo di vedere e intendere la vita e il modo propri di ciascuna zona di questa composita realtà socio - culturale che la nostra Italia presenta. Ma soprattutto significa riuscire ad eliminare più che il divario economico, la sostanzialmente assai scarsa comprensione e, quindi, la fondamentale difficoltà di un dialogo aperto e fecondo fra il Nord ed il Mezzogiorno.
Scoprire e capire le più profonde radici della tradizioni e della storia del Mezzogiorno
italiano é fondamentale sia per il Nord - onde possa comprendere e, quindi, amare il Mezzogiorno -, sia per il Mezzogiorno stesso onde possa " ritrovare se stesso", la coscienza della propria natura, che é, in fin dei conti, la coscienza della propria storia.
Via via che saliamo o scendiamo per le aeree strade di San Gimignano, avvertiamo come degli strappi, abbiamo l'impressione che si aprono delle crepe. Crepe materiali, crepe precise, se appena ci facciamo attenzione, costituiti dagli innumerevoli vicoli: vicoli dai cento nomi, uno diverso dall'altro, come pure le piazze. Stradine che staccano un palazzo dall'altro, una torre dall'altra, come coltellate piantate fra parete e parete con lo scopo di apparente di costituire degli spazi di sfogo, dei "servizi" nel corpo degli edifici signorili, ma col risultato evidente di fare idealmente precipitare chi passa verso le valli, di riportare agli occhi lo spettacolo della campagna senza limiti, di ricordare - a chi viveva nei tempi degli splendori, del Cinquecento al pieno Ottocento - le miserie della pianura, l'assillante presenza della palude della Chiana. In questi vicoli, in queste strade ovunque puoi leggere nomi che esulano l'idioma toscano. Se poi sfogli le pagine della rubrica telefonica, incontri cognomi di origine inglese, spagnola, francese e tedesca. Questi cittadini toscani, sono i progenitori dei pellegrini che nel medioevo attraversarono le Alpi, per giungere a Roma. Molti di questi pellegrini, per motivi contingenti di diversa natura e che noi non conosciamo, si sono fermati nel senese, dando origine ad una nuova generazione di vari popoli europei, formando una amalgama perfetta di varie razze, mentre noi oggi, stiamo facendo molto poco per amalgamare il sud ed il nord del nostro Paese. E ciò, é dovuto, in particolare, al diverso terreno, al diverso humus storico e culturale nel quale affondano le loro radici il Nord ed il Mezzogiorno. Lasciamo questo nodo scabroso, arduo, difficile da risolvere e ritorniamo alla storia di questa magnifica città medioevale. "Fu allora che venne costruita tutta una serie di opere comunali, come fontane e piazze, attorno alle quali sorsero immediatamente edifici maestosi, quali il palazzo del Podestà, sulla piazza del Duomo, e la chiesa di San Lorenzo. Nello stesso periodo (1251) venne incluso nel recinto murario il primitivo borgo di Montestaffoli, fatto indicativo dello sviluppo raggiunto a quell'epoca da San Gimignano. Esistevano ben nove foresterie destinate ai mercanti che quotidianamente arrivavano in città e, per quanto riguarda la popolazione stabile, ogni famiglia di una certa importanza cercava di dimostrare il proprio prestigio erigendo una torre accanto alla propria casa: queste agili costruzioni, oggi per la maggior parte scomparse, raggiunsero la cifra di 72. Il problema dell'eccessiva concentrazione di edifici si fece sentire in modo sempre più impellente, tanto che le autorità comunali furono costrette a promulgare una serie di regolamenti che limitavano le dimensioni delle nuove costruzioni: un edificio non poteva superare le 17 braccia di fronte e le 24 di profondità, mentre le torri non potevano superare l'altezza della Rognosa ( la torre del palazzo del Podestà), che era di 50,92 metri.
All'inizio del XIV secolo le lotte fra guelfi e ghibellini causarono una grave crisi economica che, accompagnata dalla tremenda epidemia di peste che decimò la popolazione nel 1348, mise fine alla potenza di San Gimignano. Insomma, a quell'epoca, San Gimignano, con le sue 100 Torri, che svettavano e svettano e svettano tuttora nel cielo, poteva essere paragonata alla città di New York, con i suoi imponenti grattacieli. Lo so, che il paragone non regge, ma nel suo piccolo, San Gimignano, visto dalle colline circostanti, sormontato dalle sue alte torri, ci ha dato l'impressione di una Manhattan in miniatura.Le mura che proteggono il nucleo più antico della cittadina di San Gimignano con le sue famose torri hanno un perimetro di 2177 metri, lungo il quale si alternano cinque torrioni cilindrici.Sulla piazza della Cisterna, sulla sinistra per chi entra dalla porta principale della città, vi è ubicato un piccolo bar - ristorante. Sul terrazzino di quell'edificio, era solito fermarsi lo scrittore Jean d'Ormesson. Infatti, in quell'angolo di pace, sembra che furono scritte molte pagine del suo romanzo: " Il vento della sera". Anche noi, ci siamo fermati in quel locale, per sorbire una tazza di ottimo caffé, e fu per puro caso che ci siamo accorti, che sulla parete c'è una piccola targa con il suo nome.
Qualcuno si potrebbe domandare, perché quella piazza si chiama della Cisterna? La piazza deve il nome alla cisterna costruita in mezzo alla piazza nel 1273, e ampliata nel 1346, per raccogliere l'acqua piovana. Su questa piazza della forma triangolare sorgono le torri gemelle, non quelle di Manhattan, ma degli Ardinghelli, la torre Becci e il palazzotto Razzi con la sua torre. Più a nord troviamo il palazzo Cortesi con la bella torre del Diavolo e il palazzo Lolli, che apre il passo alla piazza del Duomo, dominata dal palazzo del Governo o del Podestà, con la torre Rognosa, la Collegiata, le torri gemelle dei Salvucci e il palazzo del Popolo con la torre Grossa. La Rognosa era originalmente una prigione ( da cui derivò probabilmente il nome), ma dal 1407 diventò la torre dell'orologio.La collegiata di Santa Maria assunta, come ci ha spiegato Don Enrico, romanica nelle origini (XI secolo), fu modificata e ampliata da Giuliano da Maiano. Tra gli affreschi che arricchiscono l'interno tripartito, pregevole é il Martirio di San Sebastiano di Bonozzo Gozzoli. Questo pittore lavorò anche alla decorazione della chiesa di Sant'Agostino, costruzione romanico - gotico della seconda metà del XII secolo. San Gimignano e Pienza, come pure le Cinque Terre, che sono comprese in questo contesto escursionistico - culturale, fanno parte dell'UNESCO e quindi sono "Patrimonio dell'Umanità". Il Direttore Generale dell'UNESCO Federico Mayor Zaragoza, nel presentare i due volumi editi dal Corriere della Sera, dai quali noi abbiamo attinto la storia, ha così scritto: " Ogni Paese, grande o piccolo che sia, va giustamente orgoglioso delle ricchezze naturali e culturali che possiede, dei capolavori riconosciuti da tutto il mondo che costituiscono un'eredità del passato per le generazioni future". Con la visita di San Gimignano, termina il nostro Week-end in terra di Toscana, in quella terra di pellegrini, di borghi antichi barbicati sulle alture, ma anche e soprattutto in una terra di colori che ci hanno richiamati alla memoria la pittura e le pennellate di Telemaco Signorini, ma anche dall'aria e dalla cordialità dei maledetti toscani.
(Tratto dal libro: "Perché nulla vada disperso")      

La sofferenza dell'uomo contemporaneo.
Osservando la moltitudine di persone come noi della terza età, che sono intervenute a questo convegno - pellegrinaggio della fede, in questo raduno spirituale di Padova, abbiamo notato gente gagliarda e gente sofferente per gli acciacchi. Vedendo tutto questo, ci é venuto di pensare al dolore fisico, perché il dolore fisico non si può comunicare agli altri, ma si può intuire. Nel passato la gente si lamentava e persino piangeva. Il cristianesimo dava voce e significato alla sofferenza attraverso la passione di Cristo, il Calvario, la crocifissione. La rappresentava nelle torture e nella morte dei martiri e dei santi. Questa testimonianza, l'abbiamo osservata anche oggi, in questo tempio della fede, dove é raffigurata sui numerosi quadri che mostrano il dolore, lo strazio, il lamento.
Invece negli innumerevoli film e telefilm sugli ospedali, si vedono ammalati, interventi chirurgici, si vede l'angoscia dei parenti, si vedono i medici che corrono a salvare vite umane. Ma non viene mai rappresentata la sofferenza fisica. Forse vogliamo dimenticare che, nonostante i suoi progressi, la medicina ha poche risorse nella terapia del dolore. Tant'è vero che, nei casi estremi, ricorre ancora a farmaci antichi come i prodotti dell'oppio.
Il risultato é una nuova morale, come scrivono i sociologi Cavalli e Alberoni, una nuova etichetta, che impone di soffrire in silenzio, di non disturbare gli altri con storie dei propri dolori fisici.
Si può parlare di quelli spirituali, si può cercare consolazione nella comprensione degli amici per le sofferenze amorose, si può piangere per l'incomprensione dei figli e per il loro egoismo, per una cattiveria dell'amico più caro o del capufficio. Ma non per la spaventosa sofferenza di una sciatica. Molti di queste persone, che sono sedute davanti a noi, in questo momento di riflessione e di preghiera, si rivolgono direttamente al Signore. Le parole del Vescovo Caporello nella sua omelia, sono state parole di profonda fede e soprattutto di incoraggiamento a continuare ad avere fiducia in noi stessi e nella preghiera. Perché, solo con la preghiera e la fiducia, ognuno di noi, po' ritrovare la serenità dello spirito.
PADRE DAVID MARIA TUROLDO:
UN GRANDE UOMO DELLA SOFFERENZA.

Dall'omelia del Vescovo Caporello, ci viene in mente "la parola poetica in difesa degli ultimi" di Padre David Maria Turoldo. Egli, ha così scritto: " Non é importante che la parola sia perfettamente levigata ma che aderisca alla realtà della condizione umana, che non tradisca insomma la verità dell'uomo. In una delle sue raccolte più significative, Nel segno del Tau, del 1988, il poeta, dopo di aver lamentato di non aver saputo lodare in modo adeguato la divinità, così come hanno fatto certi grandi musicisti del passato, rivendica il dovere morale dell'umanità ( anche nel dire) e l'assoluta poeticità di una parola povera ma autentica. Noi anziani, oggi più che mai, abbiamo bisogno di quella parola povera ma autentica, per elevare la nostra mente e il nostro spirito religioso. Scrive dunque padre Turoldo: "Signore// ma da me avrai appena/ rudi versi: stanze di versi degni della mia/ miseria d'origine.// Ad altri (...) Celebrare il favoloso corteo: // ma la madre mia contadina/ del paese usava dirmi: Figlio// sono cose troppo grandi per noi!"
La poesia di Turoldo non é mai puro esercizio retorico. E', certo, una realtà simbolica, enigmatica, alata, che presuppone però un'altra realtà, quella della storia, aspra, dolorosa, talvolta sanguinante. La sua parola, ha scritto uno dei suoi interpreti più acuti, Andrea Zanzotto, " deve sentirsi vera anche come forza tra le forze caotiche del mondo, di questo mondo cui deve in qualche modo " giovare". C'è in essa, quindi, un insegnamento e, prima ancora dell'insegnamento, il senso del potere e dover mettersi al suo livello, a livello del suo dolore. E a questo punto appare un sentimento d'impotenza che si fa strada inevitabilmente perché collegato al male di tutti i tempi ed a quello orribile dei nostri tempi".
Ricordo una frase bellissima di Padre Turoldo, con la quale era solito concludere il suo sermone televisivo, annunciando la buona novella, con quel sorriso enigmatico che non lasciava trasparire il dolore e la sofferenza, ma il buon umore e i buoni principi: "Ricordatevi o miei cari fratelli, che domani é una giornata meravigliosa, una giornata piena di vita e di speranza, una giornata che nossun ha ancora mai vissuto, ecco perché, é meravigliosa e degna di essere vissuta". Terminava sempre con la solita frase, che ormai é passata alla storia: " Pace e bene a tutti"! .
IL BINOMIO TUROLDIANO: " PENSIERO E FEDE"
Ci siamo più volte domandati, ma chi era padre David Maria Turoldo? Era un umile frate che predicava ai fedeli dal piccolo schermo della televisione, la Sacra Scrittura o altri argomenti di carattere religiosi, ma spesso si soffermava su argomenti della vita di ogni giorno. Ma oltre che un predicatore, era un poeta autentico, attento alle suggestioni della parola, ma mai disponibile a porre in secondo piano il perseguimento della verità, l'impegno civile e il dovere della denuncia; soltanto adesso, a dieci anni della scomparsa, si configura come una delle voci più significative del Novecento.
Egli é stato definito dalla critica: " un poeta religioso del Novecento, in un contesto in cui " religioso" é assunto come sinonimo di credente e, più ancora, di aderente a una religione specifica, che nel caso in questione é la cattolica. Allo stesso modo, se questo dire avesse un senso, potremmo affermare che Alessandro Manzoni é un poeta religioso dell'Ottocento o che Giacomo Leopardi é un poeta ateo dell'Ottocento.
Ma forse bisognerebbe approfondire il concetto di religiosità, ma noi non siamo teologi e neppure studiosi di teologia, di quella dottrina che si occupa della divinità e della religione, ma semplici osservanti: cattolico praticante. Se così fosse, si scoprirebbe allora che essa é una dimensione permanente e universale dello spirito umano, " la coscienza del legame col cosmo", come afferma Benedetto Croce, quel rapporto dell'uomo con un ordine di cose divino e morale, che induceva Francesco De Santis a dire che l'anima del Leopardi é profondamente religiosa. In questa ottica riduttiva si spiega anche, ma non si giustifica, come l'opera di Turoldo non abbia potuto trovare alcun posto nell'antologia, pur eccellente e per certi versi insostituibile, di Pier Vincenzo Mengaldo, Poeti italiani del Novecento, edita da Mondadori.
Padre Turoldo, oltre ad essere un teologo e un poeta, aderì alla Resistenza, di cui il 25 aprile, tutta l'Italia ne ha festeggiato la ricorrenza. Nel momento in cui la storia presentava il suo volto più livido e inquietante, egli si schierava con i più deboli, con i perseguitati, con gli ultimi. Era il tentativo di non subire la storia, ma di trascinarla in giudizio, e di lì ricominciare da capo e inventare un futuro possibile. Scrive a proposito della storia Zanzotto: " Che sei?, dove vai?, perché sei così?, sei una deriva che va avanti casualmente, o mossa da forze " ulteriori", non umane? Sei o no qualcosa su cui si può incidere? Sei un insieme di responsabilità in cui tutti siamo colpevoli nello stesso tempo, o in cui siamo forse innocenti perché già plagiati da altrui colpe? Questo é l'incalzare delle domande che si ricava seguendo l'ininterrotto processo turoldiano alla storia".
"La resistenza di Turoldo non finisce con la fine della guerra, con la costruzione di una società aperta, libera e democratica, dove le occasioni di prevaricazione dei più forti son ridotte al minimo. La sua é una resistenza permanente, contro la desolazione morale del nostro mondo, che si é appaga di beni materiali e non si cura del vuoto dell'anima. In questo simile al suo conterraneo Pier Paolo Pasolini, é angosciato dalla riduzione dell'uomo a strumento di produzione e di consumo, della perdita generalizzata della parola e insieme del silenzio.
Noi stessi ci domandiamo, perché citiamo questi due poeti friulani - Pasolini e Turoldo - e non altri? Perché essi nutrono la stessa preoccupazione per le sorti del mondo contemporaneo. Nel momento in cui le risorse - come scrive Paolo Pinto - della scienza e della tecnologia consentirebbero di risolvere secolari problemi, sembra affievolirsi tensione e morale. Il risultato terribile é che l'efficienza del sistema economico finisce per prevalere sulla solidarietà fra gli uomini. Entrambi i poeti si preoccupano infine di salvare la parola poetica, ma anche la parola tout court, oggi sommersa dall'immane frastuono che ci assedia.
Alla morte dell'anima si accompagna il pericolo della morte fisica dell'uomo, sia che si tratti della violenza incontenibile covata nelle immonde periferie suburbane delle grandi città, come pure nei piccoli centri come il nostro, é guarda caso, le spese le fanno sempre gli anziani, quelli della "Terza età". Il sentimento di disfatta é lì, a portata di mano: come salvare questo mondo, a volte malvagio e a volte benevole? Con la misericordia di Dio, certo, ma anche affidandosi alla poesia, alla perennità dell'idea di bellezza.
Da questo pellegrinaggio di Padova, ne siamo usciti più ricchi, sia nell'anima che nello spirito. Abbiamo condiviso le nostre amarezze, le nostre sofferenze, ma anche e soprattutto la nostra fede. La salvezza, dunque, é nella parola, é nell'innocenza dei fanciulli, é nel colloquio ancora possibile con la " buona gente", é, soprattutto nella certezza dell'amore di Dio. " Dio sola necessità", come é detto in un testo di Padre Turoldo. Dio che ha compassione di tutti, che ama ogni cosa e nulla disprezza delle sue creature.
(Tratto dal libro: "Perché nella vada disperso")  

Giotto e la sua pittura.
Per comprendere la pittura di Giotto, dobbiamo fare un passo indietro nel tempo, dobbiamo risalire alle origini dell'arte figurativa che nasce in un'epoca molto remota, con le prime immagini di animali graffite e dipinte sulle volte delle grotte naturali. Con esse l'uomo primitivo comunicava, in modo immediato ed essenziale, le proprie necessità materiali e spirituali in una serie di figurazioni intensamente espressive ed emotivamente coinvolgenti.
Questa ricerca, di sintesi, che faccia appello ai bisogni spirituali più elementari e, conseguentemente più universali dell'uomo, diviene consapevole con l'avvento della storia. Nelle loro molteplici espressioni formali, le grandiose effigi Sumeriche, Assiro - Babilonesi, Egizie, Fenicie e Gretesi ci trasmettono, tramite lo spirito della civiltà a cui esse partecipano, un messaggio più profondo che ricollega il presente al passato e lo proietta nel futuro. La cultura Greca con la sua ricerca nell'assoluto nella perfezione e le colossali statue ed architetture Romane, non si discostano dalle stilizzatissime icone Bizantine nel tentativo di trasmettere ai posteri la nostra capacità di percepire e fruire dell'eredità spirituale che esse ci trasmettono. La ricerca dell'unità nella pluralità unisce spiritualmente Giotto a Michelangelo e Leonardo da Vinci, come pure ai grandi pittori e scultori Barocchi.
Sebbene usino tecniche diverse, adeguate al momento in cui vivono, questi grandi artisti ci suggeriscono una chiave di lettura che non si sofferma su ciò che l'episodio racconta, bensì su ciò che esso evoca e suscita nel fruitore emozioni legate alla sua esperienza di vita, che si allargano in esperienze universali, e che rispondono a profonde esigenze interiori. L'opera figurativa del '900, nella scomposizione e ricomposizione appartenente arbitraria di immagini, nell'annullamento completo della figura in un'astrazione di luci e colori, nelle molteplici manifestazioni a volte di difficile interpretazione, può apparire inusuale ad una lettura superficiale. Essa non deve essere analizzata rapportandola a ciò che essa rappresenta, poiché la sua natura simbolica esula da qualsiasi precisa definizione.
Essa deve essere fruita e goduta in modo istintivo, lasciando che le emozioni e sensazioni che essa sprigiona si impossessino di noi e ci conducono ad una lettura intuitiva del messaggio.
Giotto proviene dalla scuola di Cimabue che gli trasmise il gusto per la ricerca plastica e volumetrica, operò fino in fondo il distacco della tradizione bizantineggiante, contrapponendo alle astratte idealizzazioni che le erano proprie la sofferta umanità delle sue figure, costruite con una essenzialità di mezzi pittorici che é perimenti lontana dal decoratissimo delle scuole goticheggianti. Le sue opere, oltre a quelle della Cappella degli Scrovegni, che avremmo dovuto visitare oggi per la prima volta, le abbiamo ammirate ad Assisi, nella chiesa superiore, a Firenze a S. Maria Novella, a Madonna d'Ognissanti, agli Uffizi; affreschi con Storie della Madonna e del Cristo e il Giudizio universale (1303 - 1350), a Santa croce e alla Cappella Bardi. Come architetto, ideò il campanile di S. Maria del Fiore di Firenze e ne iniziò la costruzione.
Quest'antica e nello stesso tempo moderna città, che conserva le strutture, le Piazze, i portici, i palazzi e i bellissimi monumenti, é l'antica Patavium, alleata di Roma dal sec. III a .C., ne divenne municipio nel 49 a. C. Libero Comune (sec.XII), passò sotto la signoria di Ezzelino III da Romano (1237- 56) e poi ( sec. XIV) dei Carrara. Nel 1405 passò alla Repubblica Veneta. Interamente pianeggiante, se si eccettuano i rilievi dei Colli Euganei ad W. Ben irrigata dai fiumi ( Brenta, Astico ecc) e da una fitta canalizzazione si presta ad un'intensa agricoltura.
Appena giunti nella città di Padova, abbiamo visitato la Basilica di S. Antonio: uno dei più famosi santuari d'Italia. Venne eretta in forme romanico - gotico fra il 1232 e la metà del '300 per custodire la tomba di S, Antonio da Padova ( nato a Lisbona il 1195 e morto a Padova, all'Arcella, nel 1231. Sull'altare maggiore vi sono bronzi di Donatello. Nel transetto a sinistra é la cappella di S. Antonio costruita nel 1500 e contornata da bassorilievi marmorei di famosi scultori come Lombardo e Sansovino che descrivono fatti della vita del santo. Nel transetto a destra si nota la bellissima cappella decorata da affreschi di Giusto De' Menabuoi ( lo stesso pittore che dipinse il Battistero di Padova).
Dopo la basilica, con in testa al gruppo dei Campitellesi, vi era il nostro parroco Don Enrico, che ci ha condotti a visitare il Museo da poco istituito, ai Chiostri ( ses.XIII . XV), al negozio ( libri e ricordi...).
Abbiamo scoperto , che Don Enrico, oltre ad essere un sacerdote all'avanguardia, con le sue innovazioni nella celebrazione della S. Messa domenicale, e poi, ha un particolare ascendente derivante da spiccate doti personali: é una persona dotata di carisma, non solo con i giovani che gli fanno corona, ma con tutti i parrocchiani di Campitelo. In queste poche escursioni che abbiamo effettuato con lui, possiamo dire, che é una brava persona e una guida turistica sufficientemente preparata.
Prima di lasciare il tempio del Santo, abbiamo piegato il ginocchio davanti alla tomba di S. Antonio per devozione, recitando una preghiera personale, una preghiera semplice, come sappiamo dirla noi anziani della così detta " terza età":
Annesso al Duomo vi é il Battistero ( sec XIII.) A pianta quadrata con ampia cupola cilindrica, tutto ricoperto di un ciclo di affreschi di Giusto De' Menabuoi, che per questioni di orario non abbiamo potuto visitare.
IL MUSEO DIOCESANO
Il Museo Diocesano é allestito nei prestigiosi ambienti del Palazzo Vescovile e si sviluppa su una superficie di oltre duemila metri quadrati. Il Museo raccoglie preziose opere di pittura, scultura, oreficeria, codici e incunaboli, paramenti sacri provenienti dal territorio della Dicesi di Padova. Abbiamo potuto ammirare, esposti in questi spazi secondo criteri cronologici e per sezioni, le opere che testimoniano la ricchezza culturale, la sensibilità artistica e la profonda fede della Chiesa padovana dai secoli immediatamente anteriori al Mille fino ai giorni nostri.
Il percorso espositivo si apre con due preziosi oggetti provenienti dal Tesoro della Cattedrale: un calamaio trasformato, come ci ha spiegato la nostra simpatica guida: una giovane signora con una grande preparazione culturale ed artistica, in crismino ( sec. IX) e una formella in steatite con Cristo benedicente ( sec.XI). Risalgono al XIII secolo la croce processionale ( 1228) e la preziosa coperta di Evangeliario proveniente dalla Collegiata di santa Giustina di Monselice -
Nelle sale del Belvedere sono presente opere dei secoli XIV e XV che testimoniano la vivacità culturale e artistica della città e del territorio. Tra le opere pittoriche di particolare interesse il ciclo con le storie di san Sebastiano realizzato nel 1367 dal pittore veneziano Nicoletto Semitecolo, collaboratore di Guariento a Padova; e le tavole di Giorgio Schiavone provenienti dalla chiesa di San Francesco Grande di Padova; tra la produzione orafa spicca il grande reliquiario della Croce ( 1435 - 1453).
Nelle sale del Seicento e Settecento, secoli in cui le chiese si rinnovano nelle forme architettoniche e nell'arredo sacro, dalle suppellettili ai parati, sono esposte le opere degli artisti attivi nel territorio quali la famiglia di scultori Bonazza, Giambattista Tiepolo con il figlio Giandomenico e Angelo Scarabello, orafo di Este presente a Padova con la sua bottega.
Abbiamo ammirato inoltre e con grande interesse la sala di San Gregorio Barbarico, i codici e gli incunaboli della Biblioteca. Tra questi ricordiamo i libri liturgici della Cattedrale e le opere manoscritte e a stampa accuratamente miniate provenienti dalle biblioteche rinascimentali dei vescovi Zeno e Borazzi.
Nel Palazzo Vescovile si trovano anche le prigioni, che non abbiamo potuto visitare per mancanza di tempo, ma la nostra guida ci ha fatto un piccolo cenno: " Trattasi un complesso di celle, formatosi almeno dal trecento, che risulta costituito da quattro piccoli ambienti: due interni e due rivolti verso il cortile. Sulle pareti si conservano iscrizioni eseguite dai reclusi con il fumo delle candele o con cocci..
Durante la strada che ci ha condotti alla " Casa del Pellegrino", che sorge accanto alla Basilica del Santo, dove abbiamo pranzato, ci siamo fermati per ammirare la bella struttura del Palazzo della Ragione, che é a forma rettangolare, cinta da logge trecentesche.
Alle ore 15 circa, abbiamo visitato la chiesa di Santa Maria del Carmine, luogo della celebrazione odierna con il nostro Vescovo. Prima di parlare della celebrazione eucaristica celebrata da Sua Eccellenza, il Vescovo Caporello di Mantova, con i sacerdoti della varie parrocchie del mantovano e con i gruppi parrocchiali della terza età, vogliamo spendere due parole su questa bellissima chiesa: fu costruita all'inizio del XVI secolo su disegno di Lorenzo da Bologna, ha la sua facciata incompiuta, come certe chiese che abbiamo visto nella bellissima Firenze, e conserva l'abside gotica; nell'interno, ha un'unica grande navata, fastosa decorazione architettonica nella parte absidale e sagrestia rinascimentale sempre di Lorenzo da Bologna. Accanto a questa chiesa, sorge la Scuola del Carmine, edificata nel sec. XIV e tutta decorata all'interno di affreschi con storie di Cristo e di Mario di pittori veneti del sec. XVI ( G. Campagnola Girolamo del Santo e altri).
Questo di oggi, é il secondo pellegrinaggio dedicato a tutti quelli della "terza età" della diocesi di Mantova, che noi abbiamo partecipato. Il primo raduno si é svolto l'anno scorso al Santuario della Colomba, in provincia di Pavia, mentre quello di oggi, ci ha visti numerosi qui a Padova, nel Santuario della Madonna del Carmine.
Parlando con numerose persone anziane come noi, abbiamo compreso che alcune di esse hanno una grandissima memoria. Ricordano le poesie, le date storiche studiate nelle scuole elementari o in quelle medie. Fra questa massa eterogenea, che differisce per genere, qualità o altro, e che comprende elementi diversi tra loro per estrazione sociale, non abbiamo notato una grande diversità, anzi, se vogliamo, la diversità esiste. Un grande scrittore ha detto: " Noi, camminiamo su di un tappeto di foglie morte, dove è sepolta la nostra storia e le radici del nostro passato prossimo, quindi ricordiamo il passato ed ignoriamo spesso il presente".
Da che cosa dipendono queste differenze? Da capacità innate, da fattori genetici? In minima parte. La vera, profonda causa delle differenze di memoria sta nei nostri interessi e nel modo in cui impariamo. Il sociologo Francesco Alberoni, così scrive: " Noi ricordiamo le cose che consideriamo importanti, vitali e che vogliamo ricordare per sempre. Dimentichiamo quelle che non ci sembrano essenziali e che debbiamo usare solo un momento".
Prima della diffusione della scrittura, la gente ricordava tutto a memoria. Ricordo che nelle lunghe sere d'inverno, quando tutta la famiglia era riunita attorno al focolare, mia zia Cristina, che era analfabeta, ci raccontava interi poemi, per esempio, come quelli omerici, per averli appresi nella sua fanciullezza da altre persone che li leggevano o li raccontavano. Se andiamo ad analizzare questo principio della memoria, riscontriamo che i libri sacri indiani sono stati conservati in questo modo per almeno mille anni. Il Corano, nei primi tempi, é stato trasmesso oralmente. Ma anche il greco citava a memoria l'Odissea e il fiorentino La Divina Commedia. Lo stesso faceva l'ebreo osservante con il Talmud, il protestante con la Bibbia.
Oggi, a scuola i ragazzi non imparano più nulla a memoria, come ci spiega nostra figlia Tiziana, che da molti anni insegna alle scuole elementari. Ma anche il testo lo dimenticano subito perché materie come la matematica, la storia o la filosofia, non le sentono importanti, essenziali per la loro mente per ricordare per sempre. Le tengono in memoria per il momento della interrogazione, poi le lasciano scivolare via, come le facce incontrate a un ricevimento, o ai paesaggi osservati passando in treno.
E' questo il motivo per cui, arrivati all'università, hanno dimenticato quasi tutta la matematica, la storia, la letteratura studiate negli anni precedenti. Ricordano solo ciò che li ha impressionati veramente: le canzoni, il nome dei cantanti, gli sport, il nome dei campioni sportivi, i personaggi del mondo dello spettacolo, le marche dei prodotti che comperano per il loro tempo libero.
Il sociologo Alessandro Cavalli, ha dimostrato che l'ultima generazione europea ha perso il senso del futuro e del progetto. Perciò ha perso anche il senso del passato. Vive nel presente. Per duemila cinquecento anni l'Occidente ha costruito la sua civiltà sullo slancio verso il domani, sulla speranza. Ha sentito la storia come un vettore proteso verso l'alto, verso una meta infinita. Scrutava il passato per plasmare il futuro. Lottava per realizzare una vita infinitamente più giusta, più nobile, più pura. Forse questa spinta si é interrotta. La nostra civiltà - continua il sociologo F. Alberoni - giunta ad un apogeo, ha incominciato il declino.
" L'Occidente resta potente, domina il mondo con la sua tecnica e la sua economia. Ma ha perso la potenza spirituale delle origini, il fuoco che accendeva gli animi e dava loro una meta. Quando ogni individuo considerava la sua vita un difficile viaggio alla ricerca dell'assoluto. Perfino nell'amore.
In questo nostro tempo tecnologico e consumistico, abbiamo compreso che le nuove generazioni non hanno la forza per valorizzare e far crescere nulla.
(Tratto dal libro: "Perché nella vada disperso")   

Pellegrinaggio alla Madonna del Carmine di Padova
Stamani, quando abbiamo aperto la finestra che da sul giardino, il cielo incominciava ad albeggiare e una leggera foschia fasciava i fossi, le case e le strade del piccolo villaggio di Campitello. Nella Piazza Garibaldi: una Piazza di nuova costruzione, che rispecchia le linee prospettiche di un disegno innovativo, era completamente vuota. Era vuota perché oggi é giovedì, una giornata anomala per andare in gita turistica, mentre le domeniche scorse a quell'ora, incominciava a popolarsi dei numerosi mercantini che si apprestavano a sistemare le loro bancarelle merceologiche. Si, perché, tutte le domeniche in Campitello, da data immemorabile, si svolge il mercato settimanale e che richiama moltissime persone anche dai paesi limitrofi. Vedendo tutta quella gente eterogenea, che comprende elementi diversi di razza e di colore, che si muove tutta indaffarata, ti da la sensazione di vivere una giornata nei quartieri di Napoli o di un'altra città del Sud del Mediterraneo, ma se vogliamo, é anche una giornata d'incontro con gli amici. Per capire meglio l'essenza di questa diversità, vi invito a riflettere su un verbo, esistente nella lingua greca, che, non avendo corrispettivi in nessun'altra lingua, é di fatto intraducibile, a meno che non si voglia ricorrere a delle frasi complesse. Questo verbo é "ogorazein".
" Agorazein" vuol dire " recarsi in piazza per vedere che si dice" e quindi parlare, comperare, vendere e incontrare gli amici; significa però anche uscire di casa senza un'idea precisa, gironzolare al sole d'estate e immersi nella nebbia d'inverno, trattenendosi al bar, per dare un'occhiata alla Gazzetta di Mantova, sorbire un buon caffè, fare due chiacchiere in attesa che si faccia ora di recarsi a messa e poi a pranzo, in altre parole "intalliarsi", come si dice a Napoli e nelle città partenopee, ovvero attardarsi fino a diventare parte integrante di un magma umano fatto di gesti, di sguardi e di rumori. Come scrive Luciano De Crescenzo, " Agorazonta", in particolare, é il participio di questo verbo e descrive il modo di camminare di colui che pratica l' "agorazein", e cioè il procedere lento, nel nostro caso fumare la pipa o con le mani dietro la schiena e su un percorso quasi mai rettilineo. Lo straniero che, per motivi di lavoro o di turismo, si trovasse di passaggio in un paese greco, sia esso Corinto o Pozzuoli, resterebbe molto stupito nel vedere un così folto numero di cittadini camminare su e giù per la strada, fermarsi ogni tre passi, discutere ad alta voce e ripartire per poi fermarsi di nuovo. Ma noi, non siamo a Corinto e neppure a Napoli o a Pozzuolo, ma siamo in Lombardia e precisamente a Campitello, che se lo vogliamo o no, sta diventando un centro multi etnico, ove ci sono altri usi e costumi e dove la vita scorre diversamente che nella Magna Grecia, oppure a Napoli o nel Sud d'Italia.
Dopo questa divagazione o digressione come dir si voglia rispetto all'argomento, ritorniamo a parlare della nostra escursione nella Città di Padova. Davanti alla chiesa parrocchiale, c'era il pullman e un gruppetto di partecipanti che discutevano del più e del meno. Dalle stradine laterali e dalla Piazza G. Garibaldi, (ex piazza Sigulina) insonnoliti ed in piccoli gruppetti, si avvicinavano a passo lento verso il luogo di partenza. Alle ore 7 precise, come previsto dal programma, il torpedone si apprestava alla partenza. All'ultimo minuto, dalla porta della canonica, é uscito Don Enrico Castiglione, il parroco della nostra parrocchia, che ci ha guidato in questa escursione, che infondo non é stata una vera escursione, ma un raduno spirituale per noi della "Terza età".
E' meraviglioso osservate la campagna padana alle prime luci del giorno, con i suoi filari di pioppi, i fossati e i campi seminati, col contorno lontano lontano delle Alpi e degli Alpennini che serve a fondere insensibilmente l'immensità verde del piano con l'immensità azzurra del cielo. Il Monte Baldo, é stato il primo ad essere baciato dal sole di maggio, e sotto quella luce, mostrava le sue bellezze naturali, che poco prima erano nascoste dai misteriosi veli della natura e dalla luce poco diffusa delle prime ore del mattino.
Mentre il grosso torpedone viaggiava ad andatura turistica sull'Autostrada verso Verona, alcuni degli amici Campitellesi chiacchieravano, mentre altri sonnecchiavano, mentre noi , come al solito, eravamo intenti ad osservare il paesaggio. Possiamo dire, che ovunque é bellezza di fertili campi ben avviati al par di giardini e subito si scorge come l'agricoltura sia la principale fonte del benessere; ma qua e là sono sparse anche l'opera dell'umano ingegno.
Subito dopo Mantova, abbiamo ammirato le risaie specchianti, che in un certo senso, ci hanno fatto rammentare la Lomellina ed il Monferrato, luoghi da noi noti dai quali conserviamo un caro ricordo. "Uno chiude dietro di sé il piccolo cancello della mera fanciullezza - come scrive Joseph Conrad - ed entra in un giardino incantato. Là perfino le ombre splendono di promesse. Ogni svolta del sentiero ha una sua seduzione. E non perché sia una terra ignota. Si sa bene che tutta l'umanità ha percorso quella strada. Ma si é attratti dall'incanto dell'esperienza universale da cui si attende di trovare una sensazione singolare o personale: un po' di se stessi ".
Si va avanti, allegri e frementi, riconoscendo il bene e il male insieme - le rose e le spine, come si dice - la variopinta sorte comune che offre tante possibilità a chi la merita o, forse, a chi ha fortuna. Si, uno va avanti e il tempo pure va avanti, finché ci si scorge di fronte una linea d'ombra che ci avverte di dover lasciare alle spalle anche la regione della prima gioventù.
Questo é il periodo della vita che può portare ai momenti ai quali abbiamo accennato. Quali momenti? Momenti di tedio, di stanchezza, di scontento, di sofferenza dopo una lunga e disastrosa guerra mondiale. Momenti d'irriflessione. Da questi luoghi, se vogliamo puntualizzare, é maturata l'idea ed ha avuto inizio la nostra lunga carriera militare, sotto le grandi ali dell'aquila turrita, che ha dimostrato sempre ed ovunque, una grande fierezza e nobiltà, tanto che a questa nobile istituzione, giustamente, le é stato attribuito l'appellativo di Arma benemerita.
Centottantasette anni, di storia e di cronaca, densi di gloria, di illusioni, di severe realtà, di dolori, di entusiasmi. Oggi, é la quarta potenza militare del nostro meraviglioso Paese. Possiamo dire, senza alcun timore, e di questo ne siamo orgogliosi, di aver servito con onore per oltre 40 anni di onorato servizio questa grande famiglia, che é l'Arma dei Carabinieri, per il bene della nostra Italia. Inoltre, possiamo dire, con un certo orgoglio, che la divisa da maresciallo e gli alamari argentati, ci sono rimasti cuciti a doppio filo sulla nostra pelle.
A Verona, abbiamo imboccato l'Autostrada Serenissima, percorrendo un paesaggio meraviglioso, diverso da quello padano, perché qui incominciano le verdi e lenti propaggini di quei monti Berici nati per essere sfondo alle arcadie di Francesco Zuccarelli non meno che alle olimpiche architetture di Andrea Palladio. Ma noi oggi, non andiamo a Vicenza, ma a Padova, nella città del Santo, come la chiamano i padovani.
Ecco, siamo giunti a Padova, dove scopriamo insieme ai nostri amici della cosiddetta "Terza età" di Campitello, la Città e la Basilica di S. Antonio: uno dei più famosi santuari d'Italia. Questa bella città del Veneto centrale, é situata sul Bacchiglione. E' conosciuta pure, oltre alla Basilica di S. Antonio, per la statua equestre di Donatello, che campeggia in mezzo alla Piazza, di fronte alla Basilica, dedicata a Erasmo Gattamelata da Narmi, detto il ( ci. 1370 - Padova 1443), capitano di ventura al servizio di Venezia, che combatté contro i Milanesi: sconfisse Nicolò Piccinino a Tenno ( 1439), riconquistò Verona occupata dai Visconti. La Scuola del Santo ( dipinti del Tiziano). L'Oratorio di S. Giorgio. Il Museo civico. L'Orto botanico ( il più antico d'Europa). La Basilica di S. Caterina. La Chiesa degli Eremitani e l'antichissima Università, ove ebbero cattedra Pietro d'Abano, Galilei e Morgani.
Nel programma c'era compresa la visita alla Cappella degli Scrovegni, ma per questione di orari e di prenotazione, non é stato possibile visitarla. Proseguendo nella nostra visita in questi luoghi sacri e storici, qualcuno del gruppo, che non ricordo chi fosse, mi ha domandato, ma chi erano gli Scrovegni? Gli Scrovegni, era una potente famiglia della nobiltà padovana. La storia ci dice che, partecipò alle contese cittadine ora a fianco ora contro i Carraresi. Enrico Scrovegni (m. dopo il 1336), fece decorare da Giotto la famosa cappella nell'Arena di Padova, detta Cappella degli Scrovegni ( con i celebri affreschi di Giotto), che recentemente, dopo un lungo restauro, é stata aperta al pubblico. Questa Cappella, non era inclusa nel nostro itinerario, e dietro nostro suggerimento, Don Enrico, si é preoccupato di prenotarla, ma come abbiamo detto sopra, non é stato possibile. Vuol dire che la prossima volta che capitiamo a Padova, andremo a visitare questo gioiello della pittura italiana.
(Tratto dal libro: "Perché nulla vada disperso")   

La festa dell'acqua
In marzo si festeggia in tutto il nostro meraviglioso Paese , la festa dell'acqua. A Torre d'Oglio, sono giunte scolaresche da tutto il Nord Italia, per festeggiare questa ricorrenza: l'acqua é un bene molto prezioso per l'intera umanità. Esistono molti Paesi che sono assetati di questo liquido vitale.
Dal piccolo villaggio padano di Campitello, usciamo a far un giro per la campagna e muoviamo i nostri passi per la strada bianca che dal ponte di Gazzuolo segue il fiume Oglio. .... che fino a Sant'Alberto e subito dopo Torre d'Oglio, dove una breve ansa cade in Po....
Ovunque é bellezza di fertili campi ben avviati al par di giardini e subito si scorge come l'agricoltura sia la principale fonte del benessere; ma qua e là sono sparse anche l'opera dell'umano ingegno, e su queste ci soffermeremo in breve. Un tempo, ormai lontano, l'anima degli uomini era piena, solida, uniforme come questo paesaggio, tutto conquistato dalle acque, che il poeta cantava: " Acque serene ch'io corsi sognando/ nella dolcezza delle notti estive/ acque che vi allargate fra le rive/ come un occhio stupito, a quando, a quando./ Oh! nostalgiche acque di sorgiva,/ acque lombarde".
Rivediamo quella campagna descritta molti anni fa da Giovanni Nuvoletti, nel suo libro " Un matrimonio mantovano": " Una campagna immersa nel silenzio fervore delle opere; riposato paesaggio d'argani da cui per la gran distesa si possono scorgere lontani profili di monti, il Baldo e le prime cime delle Alpi discoste e nevose". Anche oggi, come allora, i vecchi o meglio dire gli anziani pescatori affollano le rive con le lunghe canne da pesca, ma oggi il pesce non abbocca e allora, alcuni di essi passeggiano per quelle rive e traendo dalla vita infallibili presagi del tempo, ripetevano allora e lo dicono ancora oggi, i nomi quasi misteriosi di vette che nessuno di loro aveva mai visto da presso, essendo, i più modesti viaggi, roba da sior, roba da giovani. Nei giorni limpidi come questo di oggi, volgendo lo sguardo a mezzogiorno, l'Appennino si disegna domestico e quasi confuso nella linea dell'immensa pianura. Ci siamo più volte fermati, in un momento di pausa o di riflessione, per ammirare questo paesaggio da favola o da cartolina illustrata, quando con il nostro fedele amico "Lassie" percorrevamo questo paesaggio riposante d'argine. Oh, si, tempi ormai lontani, ma che ci sembrano ieri, eppure, la vita passa veloce e inesorabile come il tempo.
La strada che stiamo percorrendo, a tratti bianca e a tratti asfaltata, ombreggiata dagli alti pioppi che in certi punti oscurano persino il placito fiume Oglio, che scorre dolcemente nel suo alveo. Osservando le loro cime ondeggianti ci rammentano alcuno versi di G. Nuvoletti, che così recitano: "c'era una volta ..... ieri, vecchie canzoni d'amore sempre viva, sentita su le cime dei pioppi alte sulle verdi golene del nostro fiume". Queste vallate, un tempo molto lontano, erano una terra di fiumi, di stagni e di acquitrini che le continue bonifiche redimevano. Fra gli alti pioppi si alzavano i canti della antica pazienza, intrecciandosene qualche nuovo delle prime rivolte. Lunghe file di carriolanti uscivano all'alba a scavare nelle umide terre e senza più canzoni. In questi e simili luoghi s'era levato cupo il grido dei diseredati, le boje.
Oggi, in questa giornata di primavera, rallegrata dalla stupenda fioritura dei frutteti dell'oasi di Sant'Alberto, che dista pochi centinaia di metri da Torre d'Oglio, ci fa dimenticare il lungo inverno freddo e reso grigio dalla nebbia, che copriva ogni cosa, come se fosse un sudario. Se proseguivi scarpinando, ti sembrava di entrare nell'inverno degli Hobbit. Fantasmi di dune innevate, pioppeti sotto vetro, pezzi di banchisa tra i campi gialli gelati. L'acqua, quell'acqua di cui si festeggia oggi, era al minimo, ma la cosa eccezionale non era quest'aorta semivuota. L'Oglio e il Po così basso si é visto altre volte. " Quello che non si era mai visto - ci spiega Gianni, il vecchio amico pescatore di Gazzuolo, che controllava ogni giorni l'Oglio fino al punto in cui diventa tutt'uno con il grande fiume : il Po. "Una simile durata della magra: quasi quaranta giorni. E non si era mai vista, nemmeno una temperatura così a lungo sotto zero". Di notte faceva meno otto, anche nove. Freddo boia. Roba da tabarri, come nel libro "L'albero degli zoccoli" Nei boschi e sugli argini c'era ancora la neve di metà dicembre, la brina disegnava fiori di ghiaccio sulla sabbia. Un gelo tale che fino a tutto gennaio si é mangiato pure la nebbia. Tutte le mattine, salivo fin dietro al Municipio, dove lei Maresciallo, andava sempre con il suo cane, si ricorda! dove si era formata una grande spiaggia di sabbia, da dove riemergevano i palafitti del vecchio ponte in ferro, che collegava Gazzuolo, all'altra sponda dell'Oglio. Il bello viene dopo il ponte in ferro. Qui la vallata era diventata uno stoccafisso - una bassura secca e fredda come la Puszta ungherese. Qui dove l'Oglio diventa un dio - serpente, dopo Bocca Chiavica si attorciglia in meandri, sbanda come un ubriaco e ti depista nella nebbia per attirarti nella sua trappola invernale fino agli argini di San Matteo delle Chiaviche". Salutai in vecchio pescatore e continuai la mia passeggiata verso Torre d'Oglio.
A Torre d'Oglio é festa sugli argini e nelle golene per celebrare la giornata mondiale dell'acqua. Apprendiamo che vi hanno partecipato quattromila ragazzi del bacino idrografico del Po ( tremila dei quali mantovani) e quattrocento insegnanti. Più di cento i volontari che hanno offerto la loro disponibilità, e con rappresentanti delle istituzioni e delle associazioni, a sostegno dell'iniziativa. Una mobilitazione dunque di massa che ha fatto dell'appuntamento alla confluenza di Oglio e Po la più grande manifestazione a livello europeo. Alunni e studenti di ogni ordine di scuola hanno dimostrato sul campo, con una cinquantina di attività, come si può vivere e utilizzare l'ambiente fluviale, salvaguardando il territorio e le sue preziose risorse.
Il giornalista Giorgo Guaita, così scrive nel suo articolo, apparso sulle pagine della " Gazzetta di Mantova" del 23 cm. : "La manifestazione si é snodata su un itinerario di tre chilometri, dallo stabilimento idrovoro di San Matteo a Corte Motta di Cesole. Per l'occasione il transito sul ponte in chiatte é stato chiuso dalle 9 e sino alle prime ore del pomeriggio. In tutto questo periodo le corti vicino alle due sponde e le aree rivierasche sono state al centro di iniziative che hanno inteso promuovere una cultura dell'ambiente in grado di dare continuità a un progetto teso a sviluppare nei cittadini una partecipazione consapevole e attiva alla gestione delle problematiche del territorio. A Corte Corregioli si é assistito alla tessitura e alla colorazione della canapa con lo zafferanone; in funzione anche laboratori scientifici, performance artistiche, esposizione di modellini. Non molto distante da lì il gruppo di protezione civile di Viadana ha simulato il contenimento di un fontanazzo; molto frequentato anche un percorso di "orientamento" in golena. Alla Madonnina dei Correggioli é stato possibile cimentarsi in un'opera di "land art" e svolgere giochi di strada proposti dagli operatori dell'Ecomuseo delle valli Oglio - Chiese. In altre località vi sono state rappresentazioni teatrali, studi su delle specie ittiche e della botanica autoctona, oltreché in prossimità del ponte, monitoraggi chimici, batteriologici e dei macroinverterbrati delle acque. Non sono mancati i momenti di puro divertimento, grazie anche all'esibizione del trio Pietro Borettini " Pedar", alla chitarra; Paride Tenca alla fisarmonica e Giovanni Ghierlandi " Giuanin" al tamburello.
Di centinaia di ragazzi é brulicata anche corte Motta, dove i sono avute simulazioni di smielatura, laboratori con piante palustri, escursioni in calesse, attività pittoriche, giochi mostre di auto elettriche. Davvero impossibile elencare tutte le iniziative nelle quali gli studenti sono stati coinvolti dagli insegnanti e dagli organizzatori dal Labtr -Crea di Mantova e dal laboratorio regionale per l'educazione ambientale " Laura Conti" di Milano. Da rilevare comunque l'azione corale svoltasi in conclusione alle 13,30, quando alunni e studenti si sono disposti sui due argini dell'Oglio e sul ponte per sottolineare, con la loro catena umana, l'impegno comune a favore dell'ambiente.
La manifestazione " erre d'acqua tra Oglio e Po, programmata nell'ambito del progetto " Un po di cultura" in occasione della giornata mondiale dell'acqua é ora alla terza edizione. Nel 2000 era stata organizzata nel Parmense e l'anno successivo a San Benedetto Po. Crescente il numero dei partecipanti, passati da 600 a 3000 e adesso a 4000.
Non é incluso che per la prossima edizione venga scelta una località compresa tra Ostiglia e Sermide.
" Questo successo - ha commentato alla fine il prof. Sandro Sutti, uno dei più attivi promotori - é il frutto di una grande progettazione partecipata, che ha coinvolto a lungo molte persone nell'impegno di richiamare l'attenzione sui problemi delle risorse idriche. Nel ringraziamento generale vanno comprese le comunità locali, che hanno risposto con slancio e in modo meraviglioso al nostro invito di collaborazione".
Fra gli amministratori dei Comuni limitrofi, abbiamo visto il nostro caro amico Ezio Zani, sindaco di Marcaria e altri insegnanti e alunni di nostra conoscenza.
Così continua Giogio Guaita - dicendo - " Gli obiettivi della giornata a contatto con la natura sono stati illustrati a corte Motta dagli organizzatori e dalle autorità. In particolare, vista la partecipazione di tanti ragazzi, é stata sottolineata l'importanza di portare le giovani generazioni a scoprire e vivere i paesaggi fluviali e di creare un'occasione per testimoniare l'impegno delle scuole per lo sviluppo sostenibile, Fausta Setti di Lea ha insistito sul fatto che occorre una vera cultura ambientale per il governo del territorio e anche giustamente si parte dalla scuola per costruire coscienza e responsabilità ambientale. Sono poi intervenuti tre sindaci: Giovanni Pavesi di Viadana, Ezio Zani di Marcaria e Gianfranco Allegretti di Borgoforte. Tutti si sono felicitati dell'iniziativa ( che getta il seme su un terreno fertile) e hanno insistito sulla necessità di tutelare l'ambiente e di utilizzare al meglio le risorse a disposizione. " Per le popolazione rivierasche - hanno aggiunto - va considerato un privilegio vivere in questi luoghi".
Ad un certo punto del nostro percorso, mentre camminavamo sull'argine del Po, ci siamo accorti che la nostra passeggiata stava volgendo a termine, come pure la grande festa ecologica al Ponte d'Oglio. Ma eravamo talmente attratti dalla vista panoramica del vecchio e grande fiume , con l'intrico di canali ed insenature, dove l'Oglio termina la sua corsa, diventando un tutt'uno con il grande e vecchio fiume. In quella insenatura, in quella macchia selvaggia, costituita di pioppi, rovi e canne, potevamo osservare le numerose famigliole di folaghe, di capiverdi e oche selvatiche, che si rincorrevano fra i cespugli. In quella zona, oltre alle folaghe, si possono ammirare numerose specie di uccelli acquatici. Più avanti, vicino a Scorzarolo, alcuni aironi grigi erano intenti a pescare vicino alla riva, mentre tra l'acqua e l'argine, una numerosa famiglia di nutrie stava pascolando indisturbata. La riviera opposta, compresa tra Gualtieri e Boretto, faceva da sfondo ad un paesaggio meraviglioso, segnata da borghi distesi lungo il corso del fiume, era talmente bello che sembrava un paesaggio astratto. Per completare il quadro magico, improvvisamente si é aggiunta la nave fluviale: una nave bianca, che solcava le acque limpide e trasparenti del grande fiume, che navigava verso sud.
Il grande disco del sole, che sembrava appeso ad un filo di lana, lentamente dall'alto del cielo presto si tufferà nelle lucide onde del vecchio fiume, nel fiume della vita.
Umida di rugiada l'aria imporpora l'infinita, serena volta celeste, mentre dai campi che fiancheggiano il fiume la luce che viene meno e il suo tepore destano ovunque aliti di profumo. Ecco che lo sciame, composto di quattromila ragazzi, amanti della natura, già sazi di tanta gioia di vivere una giornata a contatto con la meravigliosa natura, con gli automezzi messi a loro disposizione, lasciano il campo base di Torre d'Oglio, per fare rientro alle loro case. Sono come lo sciame amante dei fiori, già sazio del dolce timo, rientra operoso ai bugni sapidi di miele; ma tutt'intorno, con quei rumori misti a sussurri che accompagnano la fine delle fatiche quotidiane, evocando i silenzi della notte, crepitano invece i dintorni tutti delle varie fattorie, sinora tranquille.
(Tratto dal libro: "Perché nulla vada disperso")  

Storia e segreti della "piantata".
Dopo l'esplorazione delle colline moreniche, siamo ritornati nella grande Pianura - Padana e ci vogliamo soffermare sulla "piantata". La piantata, con i suoi caratteristici filari di alberi, è quasi scomparsa dal paesaggio agrario della Pianura padana. Ma qui ha tradizioni antichissime. Gli scrittori latini di agronomia disegnavano la pianura come "arbustum". Per i Romani era legata alle esigenze tecniche della produzione vinicola in terre forti e umide come quelle della pianura. Una tradizione che durò fino alle invasioni barbariche, quando i territori agricoli vennero abbandonati, come conseguente rilascio delle opere sistemazione idrauliche.
La storia di questa antica terramaricola ci racconta che con la ripresa sociale ed economica che accompagna la nascita dei Comuni, la piantata divenne un'esigenza vitale per il podere mezzadrile. Oltre ad essere cultura promiscua di vite e cereali, assicura all'azienda legna da ardere e da opera e la frondatura degli alberi offre un'integrazione all'alimentazione del bestiame.
Nella seconda metà del Settecento, cominciarono a differenziarsi due tipi di piante, almeno nella nostra zona. Quella emiliano - romagnola, che era diffusa dalla Romagna al Modenese, al Basso mantovano, al Parmense e al Piacentino, caratterizzata da una notevole autonomia della cultura della vite alberata, assicurata in piante larghe da 4 a 6 metri, che intramezzavano i campi destinati alle culture erbacee. Lo scolo delle acque era assicurato alla testata dei campi da cavedagne, da viottoli campestri, sentieri ai margini dei poderi, e dai fossi di seconda raccolta.
L'altro tipo di piantata era quella "a cavalletto" o "bolognese", con la sua variante "a strena" o ferrarese, dominante nella zona delimitata dalla linea Samoggia - Crevalcore - Ferrara - Bologna.
Le cavedagne, oltre che al transito dei carri e al giro dell'aratro, servivano come organi di scolo delle acque.
Il passaggio si trasformò e le piante aumentarono progressivamente nell'epoca napoleonica, in cui si accelerò il recupero di territorio coltivabile attraverso dissodamenti e bonifiche.
Nella seconda metà dell'Ottocento e nei primi anni del Novecento la piantata superò quasi l'affermarsi delle culture industriali e dei frutteti specializzati. Ma il suo declino era già segnato.
Meccanizzazione. La cultura promiscua di vite e cereali subirono infatti un'inesorabile recessione, che interessò tutto il nostro secolo, a causa di vari fattori sociali, tecnici ed economici.
Le operazioni culturali vanno verso una intensa meccanizzazione, con contemporaneo sviluppo dell'irrigazione. La frasca come risorsa complementare nel moderno sistema di allevamento del bestiame, perde importanza, con parallela diffusione del prato artificiale. Si diffondono le culture specializzate e le aziende si industrializzano. I tempi, insomma, sono immensamente cambiati e la piantata ha fatto il suo tempo.
Resta nel ricordo di molti quella inconfondibile nota del paesaggio padano, con la sua armoniosa combinazione di alberi e di piante erbacee.
Per la stesura di questo brano di storia agraria di questa antica terramaricola, con i suoi caratteristici filari di alberi detti la "piantata", che oggi sono quasi scomparsi dal paesaggio piatto e brumoso di questa meravigliosa Valle Padana, abbiamo attinto da testi storici e da un articolo apparso sulla " Voce di Mantova".
Con questo spaccato di vita vissuta delle gente padane, terminiamo questi nostri itinerari storici - culturali del più esteso bassopiano della regione italiana.
(Tratto dal libro: "Dolomiti e sentieri d'Italia")   

Mantova
Il sole stava per tramontare quando abbiamo raggiunto la città di Mantova. Mantova offre uno stupendo profilo caratteristico per tutti coloro che come noi provengono dal Ponte di S. Giorgio: si presenta nitida e suggestiva come emergente dall'armonia delle acque, oggi rese limpide e distese dopo i secolari lavori di bonifica della plaga che Dante ricordò, per bocca di Virgilio, nella sua Commedia divina.
Si protende degradante sulla sinistra verso la chiarità del mattino e si distende a destra tra verzure rigogliose sulle sponde tranquille del suo Lago di Mezzo, offrendo, giusto al centro della scenografia, l'impressione di un agglomerato da torri quadrate e campanili eleganti e dominato dalla mole superba della cupola della basilica di S. Andrea: e nel profilo attraente risalta massiccio il Castello di S. Giorgio da cui è originato il nome del lungo accesso, da secoli gettato a sovrastare le acque levigate dai riflessi nitidi e precisi.
Gran parte delle costruzioni risale a glorie mantovane sin da prima del mille, progressivamente moltiplicate per opera dei Bonacolsi e dei Gonzaga tra il '400 e il '500: si accavallò poi il periodo storico della dominazione austriaca sulla città avanzata del " Quadrato di Villafranca" nel quale tempo, come risulta da una ricerca storica di Romano Morradi, non si aggiunsero alla sua magnificenza altri palazzi vistosi, quanto piuttosto costruzioni di particolare forza militare, all'interno e all'esterno della città.
Mentre siamo seduti davanti alla macchina per scrivere e crediamo di descrivere il nostro itinerario morenico, abbiamo costantemente davanti ai nostri occhi la visione fantastica della città di Mantova, con la piacevolezza delle colline moreniche, la limpidezza dell'aria, il buon vino che abbiamo degustato nei vari casolari ove ci siamo fermati.
Nel nostro itinerario sui colli morenici abbiamo potuto osservare l'albero che assieme alla vite è simbolo del paesaggio collinare, il cipresso, che in altre aree della provincia non riesce a resistere alla rigidezza del clima invernale: lo abbiamo visto svettare isolato, a marcare i viali di ingresso alle parrocchiali, o segnare i crinali in piccoli tondi detti " roccoli", vere e proprie stanze verdi del grande fascino.
Anche oggi la giornata è finita. Meditiamo seduti nello studiolo e attraverso i vetri della veranda stiamo osservando il grande disco infocato del sole, che sta per tramontare dietro i lunghi filari di pioppi alti su le verdi golene del nostro fiume.
Riflettiamo sul creato, sulla natura, sull'universo nella totalità dei suoi fenomeni ci torna in mente un piccolo brano di Sigmund Freud:
" Tutti noi mostriamo ancora troppo poco rispetto per la Natura, la quale, secondo le parole sibilline di Leonardo precorritrici di quelle di Amleto, " è piena d'infinite ragioni che non furono mai in isperienza". Ogni uomo, ognuno di noi corrisponde a uno degli innumerevoli esperimenti nei quali queste " ragioni" della Natura urgono verso l'esperienza".
(Tratto dal libro: "Dolomiti e sentieri d'Italia")  

Luci e colori del Garda
Dolce e bello è l'avviarsi al Garda in questa giornata meravigliosa, piena di luci, di sole e di colore. Se tu giungi dalla pianura come noi, esso t'appare nella sua maestosa vastità racchiusa da una severa compostezza di linee e d'ombre, come direbbe un maestro del colore impressionista, che con le sue opere cerca di rappresentare la realtà così come viene colta in rapide e immediate impressioni e come cerchiamo di fare noi in queste pagine di letteratura estemporanea.
Letteratura estemporanea, che parole difficili per un principiante. Questo modo di esprimersi è concesso soltanto ai veri scrittori, narratori e studiosi della letteratura, non a chi è soltanto un semplice appassionato autodidatta.
Quella compostezza, quelle linee d'ombra e di luci che abbiamo citato sopra, subito si disvelano nel loro duplice aspetto che sposa lo specchio vastissimo, fra sponde blande, al fiordo titanico, fra rupi spettacolose.
Abbiamo percorso una regione storica, oltre che paesaggistica, una terra di battaglie, la morenica del Garda: le colline di Volta Mantovana, San Martino, Solferino, Peschiera ci ricordano che in questa plaga più volte furono decisi i destini d'Italia.
Attraversiamo la cittadina di Garda posta sull'arco stupendo dei colli vitiferi dove svettano alti nel cielo i magnifici cipressi, su cui siedono Bardolino e Lazise. In questa regione la sponda veronese si veste delle sue note più smaglianti, trionfanti poi nella punta di San Vigilio e nel suo parco meraviglioso.
Da San Vigilio fino a Torbole, pittoresco paese del dolce clima, tutta la sponda veronese si svolge ai piedi di un'unica poderosissima montagna, il Monte Baldo, che s'accampa possente, fra le acque del Benaco e quelle dell'Adige.
I paesi che abbiamo attraversato si susseguono ilari e sorridenti: Torri del Benaco e Brezzone, con i loro abitati semplici e tipici; e lungo il percorso, il panorama dell'opposta sponda e quello della montagna altissima ed imminente, sono di una grandiosità che rapisce e soggioga.
Il sole era alto nel cielo, quando siamo giunti nel borgo medioevale di Torri del Benaco, un borgo fra i più caratteristici della Riviera degli ulivi, posto ai piedi del Monte Baldo in una zona incantevole fra pini, oliveti e cedraie.
Abbiamo parcheggiato le autovetture nel viale panoramico, all'ombra del Castello Scaligero del XIV secolo, caratteristico per le sue numerose torri che si specchiano nel Lago sottostante.
La tradizione vuole che i romani chiamassero questa cittadina rivierasca " Castrum Turrium", appunto per le sue numerose, torri che svettano nel cielo.
Particolare importanza Torri ebbe nel Medio Evo. Fu infatti capoluogo della " Gardesana del Lago" e sede del Consiglio generale, prima che tale Consiglio passasse a Garda. Resti del castro romano si trovano in piazza della chiesa dove Berengario nel 1009, datò da Torri sei diplomi regi. Antonio della Scala fece ricostruire nel 1383 il grande maniero, di cui sopravvivono tre torri, fra cui una romana, con altri interessanti resti. A Torri nacque il filosofo e matematico Domizio Calderini morto a Roma nel 1487. La sua figura è ricordata in una stele marmorea nei pressi della chiesa della SS. Trinità, con una iscrizione del Poliziano.
Lasciamo la storia di questo bellissimo borgo antico e ritorniamo alla nostra breve, ma bellissima escursione fra le sue colline lussureggianti.
Fuori del borgo, percorriamo una strada bianca che sale dolcemente verso la sommità della collina. A mano a mano che avanzi, l'olivo e i roseti allietano i muriccioli di cinta delle ville, come i gerani le finestre dei casolari come pure il tipico cipresso che svetta e l'oleandro si impongono nel paesaggio, assieme al cedro ed al limone; al trionfo dei colori si uniscono la luce e il profumo della natura.
Superiamo uno sperone roccioso di facile percorribilità, dove incontriamo degli affacci panoramici da dove potremo godere appieno la visione della meravigliosa punta di San Vigilio e del suo parco incantevole.
Da un pezzo abbiamo lasciato l'oasi verdeggiante degli ulivi. Pianta tipicamente mediterranea, l'olivo è stato introdotto in epoca romana ed una volta era certamente più diffusa di adesso, anche se si cerca di valorizzare la sua cultura. Il fatto che possa essere coltivata qui sia pure sui versanti esposti al sole, sta ad indicare quanto il clima di questi colli sia mite.
Sui pendii più ripidi delle colline, che sono state finora risparmiati dalla cultura, troviamo una numerosa serie di boschetti e di prati verdeggianti. Si tratta comunque di brandelli isolati, relitti di boschi che una volta coprivano tutti i colli morenici congiungendosi a sud con le grandi foreste planiziarie della pianura padana.
I boschetti che abbiamo attraversato sulla cresta del colle e che sono presenti nell'aria morenica sono dei cedui più o meno invecchiati. Queste formazioni boschive a ceduo sono più propriamente riferibili al querceto termofilo sub mediterraneo.
Questi boschetti popolano, come abbiamo visto, i versanti più ripidi esposti a nord.
Si tratta di lingue di terra, più o meno estese in lunghezza, sottoposte a continua pressione delle erbe antropiche, infestanti o ruderali che si addensano ai loro bordi seguendo le coltivazioni dell'uomo.
Verso l'ora del pranzo, la comitiva costituita per la maggior parte da bambini, dietro consiglio della nostra guida, Luciano Messora, si è fermata per uno spuntino e per il meritato riposo.
La comitiva si era divisa in piccoli gruppetti sparsi nei dintorni. Era il posto ideale per fare uno spuntino e goderci un meritato riposo. Con Adriana, Mauro, Mattia, la signora Pagliari e sua figlia Gaia, ci siamo riparati dai raggi del sole sotto la larga chioma di una grossa pianta di faggio.
Era bello vedere come i bambini si divertivano a fare le capriole sul prato un poco scosceso, in quella natura incontaminata, lontani dai pericoli e dai rumori delle nostre città e villaggi.
Quel fantastico paesaggio è chiazzato di verde ed ai piedi della collina svettano i superbi cipressi che puntano dritti al cielo e sembrano poi veleggiare nell'aria pura di un silenzioso ed infinito spazio. Quello scenario di bellezza e solenne austerità ha fatto presto a conquistare il cuore della nostra piccola brigata; quell'angolo del creato, ha fatto aumentare gradatamente le file degli appassionati. Per poter capire tutti gli entusiasmi e i seducenti incantesimi che il Garda ha suscitato ieri ed impeccabilmente ripetono oggi, bisogna almeno poter personalmente vedere. Con l'ausilio dei sentieri ben tenuti e segnalati, si può entrare semplicemente, come abbiamo fatto noi, tra queste colline moreniche, incontrando visioni da favola in cui risultano vivacemente le zone verdeggianti, la grande distesa del Lago, la meravigliosa visione della costa ed i magnifici fiori di campo che danno la sensazione di sfogliare l'album della natura.
Dopo aver risalito i pendii di queste storiche colline moreniche ed attraversato i sentieri ombreggianti di un bosco ceduo di roverelle, è bello potersi riposare all'ombra di un vecchio albero di faggio in un fazzoletto di prato verde.
Dal vertice dei colli si gode un paesaggio grandioso, spettacolare ed intatto dove il romantico, l'agreste, il pittoresco e lo scenografico si fondono in armoniosa composizione. Quello è il paesaggio del Garda, le montagne e le colline risultano un particolare e prezioso dono che la natura ha minuziosamente modellato per rendere felice e gradevole la vita di una moltitudine di persone.
Sulla strada del ritorno, al principio del borgo antico di Torri, nascosta fra il verde degli ulivi, in un luogo che provoca sicurezza una piacevole sensazione di fresco, riparato dai raggi del sole, vi è una fonte agreste, dalle fresche acque? Quella fonte ci è parsa come un vero miraggio, uno di quei fenomeni ottici che si verificano nei deserti e sono dovuti alla rifrazione dei raggi solari che si verifica quando passano attraverso strati d'aria di diversa luminosità. Nel nostro caso tale miraggio, se di miraggio vogliamo parlare, era soltanto la realtà. Si, era realmente una piccola oasi fra il verde degli ulivi. Era un vero miracolo della natura che sgorgava alle pendici di quella montagna arida e selvaggia. Una vera sorgente di fresche acque che dissetano il viandante che passa da quella via.
Il sole era ancora alto nel cielo, quando abbiamo fatto ritorno al borgo medioevale di Torri del Benaco, da dove eravamo partiti alle ore 9,30 del mattino.
Il piccolo nucleo degli escursionisti, in poco tempo, si è sparpagliato per le viuzze del borgo alla scoperta di nuove immagini storiche.
Siamo ritornati in Piazza Calderini, di fronte al piccolo porto romano, dove il mattino abbiamo sorbito un'ottimo caffè, dove abbiamo visitato la chiesa della SS. Trinità con affreschi della scuola di Giotto; la facciata settecentesca del Palazzo Eccheli con la vicina "casetta quattrocentesca", mentre in Piazza della Chiesa la Torre di Berengario, resto molto ben conservato del " Castrum Turrium" romano con annesso rione pure di origine romana (" el trincerone"). Infine, abbiamo visitato il Duomo rinomato per la varietà dei marmi usati negli altari.
Il sole aveva incominciato a declinare verso le colline moreniche di Salò e il traffico stradale tendeva ad aumentare, così decidemmo di lasciare a malincuore la bella cittadina rivierasca di sapore mediterraneo e di fare ritorno al nostro villaggio della grande pianura.
(Tratto dal libro: "Dolomiti e sentieri d'Italia")       

Castellaro Lagusello
Raggiungiamo il punto più alto del territorio di Monzambano, ove a circa 130 metri di quota, sorge il borgo di Pille Tarso. Il borgo è immerso nel verde, con numerose case in sassi tipiche dell'alto mantovano, ed è posto su un crinale da cui è possibile osservare sia la vasta pianura meridionale verso Mantova, che il Lago di Garda e le prealpi a nord.
A Pille ci siamo fermati nei pressi della trattoria " Quattro gatti", per goderci la vista panoramica e per sorbire un caffè. Abbiamo attraversato il borgo in leggera salita e subito dopo siamo giunti alla cascina Bianco, all'incrocio con la strada asfaltata. Dopo la località di Pozzoli e Tersi abbiamo raggiunto la località di Monte Oliviero a 143 metri sul livello del mare. Qui un tempo vi era una abbazia con annessa chiesa dedicata a San Giuseppe, seicentesca: l'impianto antico è ancora percepibile nell'insieme degli edifici di un certo pregio architettonico.
Subito dopo abbiamo raggiunto il villaggio di Castellaro Lagusello, a metri 112,8 sul livello del mare. Vi si entra da un incrocio stradale presso un grande albergo isolato.
Castellaro è un borgo medioevale particolarmente suggestivo posto al di sopra di un piccolo lago intermorenico di origine glaciale, a sua volta circondato da una "zona umida" (ex cava di torba) : per unicità d'ambiente, questo luogo è soggetto a vincolo ambientale ( Riserva naturale di Castellaro Lagusello) e fa parte del territorio oggetto di tutela da parte del "Parco del Mincio".
Fu castello dei Gonzaga dal 1301, anche se non divenne mai residenza ufficiale dei signori di Mantova. Lo avvolge una cinta muraria del XII secolo, per cui l'accesso alla rocca avveniva attraverso un ponte levatoio ( oltrepassata la porta d'ingresso è una fontana, per approvvigionarsi d'acqua ). Vi si trova una chiesa settecentesca dedicata a San Nicola, mentre al fondo del borgo è il palazzo che fu del marchese Tocoli ( di grande rilevanza ambientale è il parco), e in cui venne ospitato sia Napoleone I ( nel 1769) che, nel 1859, Napoleone III dopo la cruenta battaglia di Solferino, il 24 giugno, 80.000 francesi attaccarono 90.000 austriaci e n'ebbero ragione dopo 10 ore di accanitissima lotta. A San Martino, 30.000 piemontesi si scontrarono con un nemico di forza pressappoco uguale, e anch'essi riuscirono a sloggiarlo dalle sue munite posizioni. Ma ancora una volta gli austriaci poterono ritirarsi indisturbati e chiudersi nel loro Quadrilatero di Mantova, Verona, Legnago e Peschiera. I vincitori passarono il Mincio sei giorni dopo, mentre le loro flotte congiunte in Adriatico mettevano il blocco a Venezia. Tutto sembrava quindi avviarsi, nel più favorevole dei modi, alla definitiva resa dei conti con l'Austria, quando si sparse la notizia che Napoleone aveva inviato, a mezzo di un suo Generale, una lettera a Francesco Giuseppe per proporgli un armistizio e un incontro fra loro a Villafranca.
Secondo certi memorialisti francesi, fu l'orrendo spettacolo dei morti e dei feriti sui campi di battaglia di Magenta e Solferino a sconvolgere Napoleone, che della guerra era un appassionato studioso, ma non ne aveva mai combattute. E può darsi che anche questo elemento abbia influito sulle sue decisioni o meglio sulle sue indecisioni.
Ma i veri motivi furono altri.
Lasciamo la storia e ritorniamo alla nostra escursione e alla scoperta di questo bellissimo borgo medioevale, per il quale motivo abbiamo raggiunto queste lussureggianti colline moreniche.
Il lago, meglio visibile in avvicinamento al borgo, è sito archeologico: vi si sono rinvenute strutture lignee di insediamenti palafitticoli dell'età del bronzo. oggi si possono osservare presso il Museo Archeologico dell'Alto mantovano di Villa Mirra a Cavriana.
Venendo dal Garda o da Mantova per inoltrarsi sulle colline moreniche il viaggiatore si accorge di entrare in una natura di qualità diversa, insolita e attraente.
Che fresco e che quiete. Il sollievo si sente non solo nel fisico ma in tutto l'essere e la mente all'improvviso è capace di pensieri lievi simili a fantasie.
Le macchie delle robinie più compatte si susseguono come solenni plotoni su una vasta piazza d'arme
Ai campi quadrati o rettangolari ne seguono altri di varia forma, ma sempre non casuale, quasi che la geometria e la natura si identificassero in una enorme scacchiera. Ogni coltivazione emana naturalezza, specialmente i campi sui quali cresce un'erba omogenea, d'un verde intenso e uniforme, a tratti interrotta, in primavera, da estensioni, anch'esse geometriche di fiori gialli, rossi e violacei.
Le cascine e le stalle hanno un'identità umana. L'aspetto decoroso, ricercato sempre dagli uomini, si intuisce che è nelle abitazioni in cui, al crepuscolo, quando sulla pianura s'alza un velo di nebbia, piacerebbe entrare, non si sa bene se per chiedere ospitalità, sicurezza o se per il piacere di stare con gente alla quale non ci si sente estranei. Così scriveva delle zone collinari Franco Turcato in un suo articolo apparso sulla " Voce di Mantova".
Giureremmo d'avere sempre conosciuto il genere di vita che si conduce nei casolari raggruppati l'uno all'altro; quasi che la nostra memoria, di là dai limiti individuali, s'allargasse e penetrasse in un passato altrui e al quale stranamente partecipiamo.
Ripensiamo alla bellezza dei luoghi, all'anfiteatro morenico del Lago di Garda, all'esito della II Guerra d'Indipendenza italiana e alle rare ville che, nella loro bellezza discreta abbiamo incontrato nel nostro itinerario nei colli morenici.
Tutto ci sembra irreale in un'architettura di elementi eterogenei la cui semplicità è forse una delle cause del misterioso senso di pace che si prova e della certezza verso cui si va incontro.
(Tratto dal libro: "Dolomiti e sentieri d'Italia")    

Pensieri e riflessioni sulla scogliera
Questa mattina appena sono giunto sulla scogliera di Levante della meravigliosa Liguria, per prima cosa, ho sistemato il cavalletto per dipingere uno scorcio bellissimo, in una prospettiva sfuggente.
La scogliera di Portofino è bellissima illuminata dal sole, mentre il mare si è messo un vestito pettinato - grigio - celestino, e zitto zitto sta partendo. Ci lascia all'asciutto, e gli scogli grandi e piccoli, secchi e puntiti, aspettano che ritorni. Siamo, loro ed io, mentre Adriana è più in fondo a prendere il sole sulla spiaggetta, abituati a questi viaggetti che ogni tanto anche il mare fa. Dove vada, non lo so. Noi non vediamo più in là dalla lunga linea grigia dell'orizzonte che costituisce tutt'intorno il limite della nostra vista e dove sembra unirsi mare, terra e cielo; si allarga tanto più quanto più alto è il nostro punto di osservazione. Dai suoi viaggetti di tramontana anche il mare ritorna sempre, a volte tutto contento e allegro, a volte furibondo che un subitaneo libeccio lo rimandi a casa, e allora rotola la sua ira sulla scogliera con onde fragorose e salatissime e la sua vaporosa brezza si deposita sul nostro viso, quasi per accarezzarlo.
Anche io mi arrabbio e lo tratto male, e lui tratta male me, e spesso litighiamo come due vecchi amici bizzarri, poi facciamo delle paci celestiali, e lui mi racconta che vanno al di là dell'orizzonte e che solo un poeta potrebbe ripetere senza sciuparle.
Mentre osservavo il paesaggio, per cogliere qualche particolare importante da riportare sulla tela, più volte mi sono detto:" Avrei una voglia matta di chiudermi lassù in una stanza all'ultimo piano di quel castello medioevale, che è posto sulla mia destra, e che da molti, da moltissimi anni è deserto, senza telefono, senza campanello, senza voci di bambini, senza televisione, senza nessuno, senza scampanare di chiese, e vedere che cosa succede. Sono sicuro che non succederà nulla, vivrò nella solitudine, lontano da ogni cosa, lontano dalle brutture della vita che ci circondano, in questo nostro mondo corrotto. Cercherò di immaginare una corte gaudente e magnifica, con belle donne e briosi cavalieri e artisti di fama. Più volte ho letto, nelle vecchie cronache, il racconto di fastosi conviti e allegre adunate nella Rocca.
Con interesse e amore storico o con nostalgica curiosità cercherò di frugare nei tempi andati, senza soffermarmi con prolissità a seguire date su date unendo anello ad anello in una catena ininterrotta di avvenimenti, scoprire con appassionato interesse i ricordi più salienti che illustrano questo storico monumento.
Fra le vecchie mura di questo grande Castello forse giovane donne e gioiosi cavalieri, freschi paggi e adolescenti avranno celatamente raccolto qualche raggio di sole, ma la grave oppressione della dispotica tirannia del signore inquieto ed ambizioso ha velato cupamente questi lunghi anni.
Così un poeta innamorato di questo castello scrisse in una notte di plenilunio sognando nel suggestivo bosco delle annose querce, pini marittimi, ginestre profumate che crescono spontanee ai piedi della Rocca, rievocando con il felice aiuto della fantasia, della leggenda e della storia, figure di ben note che, nella Rocca, hanno lasciato il ricordo della loro vita tormentosa di passioni e di rinunce, di odii e di prepotenze, di dolcezze e di crudeltà.
Nel mio sogno mi attarderò nell'elegante cortile e nelle austere sale che ricordano splendori o tediose malinconie.
Lascio questi pensieri di sogno, scaturiti dalla mia fantasia, dalla facoltà immaginativa e ritorno al mio quadro, agli scogli di natura trachitica, che è una roccia eruttiva, derivante da magmi sienitici. Con struttura porfirica e si presenta ruvida al tatto per la presenza di vacuoli. Questi grossi massi sporgenti da una grande parete ripida e levigata di colore chiaro con striature che vanno dal grigio al giallo, caratteristico per la forma.
Da qualche minuto sto osservando le piccole pietre che rotolano fra la sabbia della piccola spiaggetta e le terre rosse, biancastre della dorsale appenninica, qui ogni cosa è anfratto, i pianori delle colline, ogni collina con il suo nome e il suo posto, compaiono nella mia mente in una successione di calde immagini.
E' sera, il mare si è placato e anche la sua ira è cassata contro la scogliera trachitica. Ora tutto è calmo intorno a me. Ho fatto la pace con le onde spumose del mare, la sua fresca brezza dolcemente mi avvolge come una carezza.
(Tratto dal libro: "Viaggio lungo nell'America dell'Ovest e lungo i sentieri del bel Paese")    

Il Garda e le colline moreniche
Nell'intervallo tra una escursione e l'altra del programma escursionistico del CAI, dopo la bellissima esperienza conoscitiva del paesaggio meraviglioso della costa ligure che comprende le Cinque Terre, eccoci in un altro posto non meno prestigioso, che suscita sempre, incanto, fascino e seduzione.
Questa volta siamo soli, non siamo in coda alla rutilante e pittoresca fila di "caini" e "caine" come succede spesso. Eccoci con Adriana sulle rive del Lago di Garda, in questa giornata splendida di luci e di colori, dove le invasioni barbariche ( Ostrogoti, Eruli, Goti, Allemanni) non riuscirono a cancellare le testimonianze della romanità, presenti ancora oggi, oltre che nei ruderi e reperti archeologici conservati gelosamente nei vari musei, in molti nomi di località.
La penisola di Sirmione, in questa giornata splendida di primavera, che si protende dal sud nelle acque azzurre del Benaco per circa 4 chilometri, è molto frequentata da turisti italiani e stranieri per lo splendore del suo paesaggio.
I poeti Catullo e Carducci anch'essi affascinati come noi dalla bellezza dei luoghi, li descrissero in versi immortali. Tutta l'isola (che si collega all'istimo con un ponte trasformandola in penisola) sembra un grandioso e magnifico parco naturale, percorso da viali e sentieri fra una rigogliosa vegetazione di ulivi, cipressi, lauri e magnolie.
Attraversiamo il borgo medioevale con le sue strade strette e acciottolate e ci avviamo verso le tre colline che si alzano all'interno, la prima è posta a levante detta " Cortine", la seconda a ponente chiamata "Mevino", la terza a settentrione posta fra le due, chiamata " Grotte di Catullo" sede della zona archeologica di un antico palazzo romano.
Secondo alcuni studiosi la penisola prende nome dal greco antico "syrma" (coda, strascico) o del gallico "sirm" ed "ona" ( albergo acquatico). Certo che la penisola fu abitata fin dalla fine della più remota antichità. Le notevoli costruzioni romane, le lapidi, i tronchi di colonne, i capitelli ed altri resti venuti alla luce nei tempi, testimoniano l'antica importanza di questa splendida cittadina medioevale che nell'itinerario di Antonino viene segnalata come città.
La storia ci racconta che la penisola fu scelta dalla moglie di Desiderio,Re dei Longobardi, la regina Ansa, per edificarvi, nel VII secolo, un monastero di Benedettini. Nel XII secolo, Sirmione passò agli Scaligeri che vi fecero costruire la bellissima rocca, "seconda fra i castelli d'Europa per purezza di linee e sapienza di costruzione".
Il maniero, concepito come fortificazione, cingeva con le sue mura tutto il borgo. Agli Scaligeri successero i Visconti e quindi i Carraresi di Padova. All'inizio del XV secolo Sirmione passò a Venezia, seguendo le sue vicende.
Nelle prime ore del pomeriggio abbiamo visitato il castello scaligero, la parrocchiale di S. Maria Maggiore e la chiesetta di S. Pietro in Mavino ed infine le grotte di Catullo.
E' veramente difficile a noi turisti scorgere le linee della grande costruzione romana i cui resti sono ormai entrati a far parte del paesaggio.
Subito dopo superato l'ingresso percorriamo una stradina, meglio dire un sentiero fra i cespugli, la cosiddetta "via delle botteghe" (costruzioni a pettine che un tempo reggevano grandi volte a botte e sostenevano il piano di una grande terrazza).
Particolarmente interessanti sono stati la "Grotta di Catullo" (composta da quattro ambienti con volta a botte); il "doppio criptoportico" oggi privo di copertura, all'origine, come spiega la guida illustrativa dei luoghi, lungo 159 metri, composto da due corridoi lunghi ciascuno metri 4,46 e divisi da un filare di 63 pilastri.
Era stato probabilmente costruito per passeggiare nelle giornate più calde: la "piscina" costruita in un secondo tempo; quattro gradinate portavano alla grande vasca (resti di una trifora squarciata dalla quale il nostro occhio spazia su di un panorama meraviglioso della costa veronese dalle acque azzurre del Benaco).
Sulle " Grotte di Catullo " sono state formulate molte ipotesi: chi li ha ritenute tracce superstiti di un grande edificio termale, chi di un monastero, chi persino di un teatro. La tradizione vuole che la estremità della penisola di Sirmione, dove appunto si trova il parco archeologico, fra una distesa di ulivi, sorgesse l'abitazione di Catullo ( da cui appunto il nome di " Grotte di Catullo "). Certo è che i resti archeologici testimoniano come qui esistesse una grande villa romana, costruita in due epoche diverse.
" Non c'è alcuna prova - scrisse il prof. Mirabella Roberti che proprio questa villa fosse di Catullo, ma l'epoca è la stessa e c'è il fatto che Catullo si dice "padrone del luogo" e quello è il luogo più degno della penisola; il fatto che i Valeri furono una famiglia antica e ricca, che può aver avuto personaggi di tale possibilità da ingrandire la prima villa; infine la tradizione.
L'uomo ha lasciato testimonianze del suo passaggio in monumenti d'arte: dai graffiti preistorici rinvenuti sui massi del Monte Baldo, alle pievi medioevali, agli antichi castelli ( assai interessante, fra gli altri, quello di Sirmione del XIII secolo). Non è possibile citare, in queste poche pagine, i monumenti sia pure più significativi. Tuttavia che il turista più frettoloso come noi non può non visitare due complessi, fra di loro assai diversi, ma di grande interesse, anche per l'ambiente splendido in cui sono collegati: il parco archeologico noto con il nome di " Grotte di Catullo" ed il Vittoriale degli Italiani di Gardone Riviera.
Il sole stava declinando verso occidente, illuminando le alture del Monte Baldo e la costiera del Garda, di Bardolino, mentre noi lasciavamo la cittadina di Sirmione diretti a Castellaro Lagusello.
(Tratto dal libro: "Viaggio lungo nell'America dell'Ovest e lungo i sentieri del bel Paese")  

Cinque Terre - da Riomaggiore a Monterosso
In aprile, la Liguria è meravigliosa e le Cinque Terre sono splendide. L'escursione da Riomaggiore a Monterosso è stata la prima uscita del Cai di Mantova.
C'è soltanto mezz'ora di cammino, tra Riomaggiore e Manarola, il "sentiero azzurro" o meglio dire la " via dell'Amore", che richiama ogni anno migliaia di turisti da tutte le parti dell'Europa.
Frane e smottamenti hanno interrotto i sentieri a cominciare dal più famoso, via dell'Amore, chiusa nel 1990 per intraprendere i lavori necessari. La passeggiata forse più famosa d'Italia è stata solo in questi mesi primaverili riaperta al pubblico dopo oltre quattro anni di attesa, a causa dei ritardi nell'arrivo dei finanziamenti.
Una parte della lunga rutilante fila dei " caini", nella piazzetta di Riomaggiore, abbandona l'itinerario classico per salire con il sentiero nr. 6 a quota 65 nei pressi del Monte Marverde, per prendere il sentiero nr. 1 sul crinale, mentre il restante gruppo prosegue il sentiero classico.
Io ed Adriana facciamo parte del secondo gruppo. Percorriamo un sentiero ove ci sono piccoli orti e ruscelli da superare, una fitta macchia di lecci, pini ed eriche erboree da attraversare, e anche da risalire e discendere rapide scalinate che tagliano in due gli infiniti terrazzamenti.
La nostra escursione ha avuto inizio da Riomaggiore. Questo antico borgo medioevale è la prima delle Cinque Terre, procedendo da La Spezia verso Genova. Sembra un paese incastrato a forza tra le altissime ed aspre rocce che gli consentono soltanto lo spazio di una gola.
Il sole penetra a stento tra le ombre degli alti monti incombenti; ma la rude tenace opera della popolazione ha vinto la natura matrigna convertendo le bigie ed irte rocce in opulenti vigneti che formano la celebrata ricchezza del luogo. La Popolazione attivissima vive sul mare. La chiesa parrocchiale è stata dichiarata monumento nazionale e risale al 1340, secondo un'iscrizione in essa esistente.
Nella precedente escursione, effettuata con il Cai nel mese di aprile 1994, la comitiva ha sostato, per un meritato riposo, nella piazzetta antistante il Santuario di Montenero. Il celebre Santuario, sul colle omonimo, sorge a levante di Riomaggiore e fu eretto dai primi abitanti del luogo, che si presume venissero dalla Grecia nel 790.
Proseguendo sullo stesso sentiero che porta al Santuario, in direzione Levante, il gruppo ha raggiunto in poco tempo il valico della Cigoletta (m.612) da dove, a sinistra, come indica la cartina, col sentiero nr. 7 si accede a Vernazza dopo 4 ore circa di cammino da Riomaggiore.
Le Cinque Terre ancora costringono alla fatica e al vento di scirocco indigeni e forestieri. La ricompensa per tutto il gruppo rutilante è Vernazza, un piccolo mondo di casette colorate dove, invece delle auto, vi sono barche posteggiate lungo la stradina principale. A dominio della piazzetta, dove arrivano gli spruzzi delle onde, c'è il castello con la torre cilindrica da cui si ammira un Tirreno severo, inquietante.
La storia ci racconta che questo piccolo borgo marinaro è di origine romana, è posto sulla pendice di uno scoglio dirupato, sporgente sul mare. Difeso, per la sua posizione, dai venti del nord, presenta un clima sano, temperato e costante. Per quanto il territorio (circa mille ettari di superficiei si svolge tutto in piena regione montuosa, la vegetazione è varia e abbondante. Vi si producono agrumi e castagne, ma soprattutto olio e vino; da Vernazza appunto si vuole da taluno che tragga il nome il vino Vernaccia. Caratteristica, come nelle altre località delle Cinque Terre, la coltivazione della vite a causa del terreno sassoso, erto e a strapiombo, quasi a perpendicolo, sul mare.
Abbiamo potuto constatare con le nostre escursioni, che la popolazione è dedita alla coltivazione dei propri terreni o all'industria marinara o al lavoro d'officina nell'Arsenale di La Spezia.
Nel corso della nostra escursione lungo i sentieri di quel paesaggio meraviglioso, abbiamo potuto osservare che a tre chilometri circa dal capoluogo in bella posizione sorge il Santuario di Reggio dove si venera una miracolosa effigie di Maria SS, che si ritiene dipinta da San Luca.
Fanno parte del comune di Vernazza le frazioni Drignana, S. Bernardino e Carniglia. Quest'ultima, fornita di stazione ferroviaria, sorge ridente sopra un dirupo che sporge sul mare. E' una delle Cinque Terre, e già anticamente aveva fama per i suoi vini prelibati, decantati dal Boccaccio e dal Carducci.
Abbiamo visitato la sua bella chiesa, dedicata a San Pietro, di artistica fattura, con un stupendo rosone che s'apre nella facciata marmorea, è monumento nazionale. Se ne ignorano le origini; solo sappiamo che nel 1334 venne ampliata e abbellita dai Fieschi di Genova.
Stesso spettacolo a Manarola, a due fermate di un trenino spesso gremito come la metropolitana di Milano o di Roma. Nessuna strada carrozzabile. Manarola è unita al capoluogo, da cui dista un chilometro, per mezzo di una spaziosa galleria e da una strada prospiciente il mare, con panorami incantevoli. Manarola sorge sopra uno scoglio a picco sul mare; ha strette viuzze e ripide gradinate, serpeggianti fra le case dai tetti di ardesia e uno scalo tagliato nella viva roccia, ottimo rifugio alle barche.
Qui lo scorcio più bello sulle case del borgo alla costa rocciosa lo offre un piccolo giardino pubblico ben messo, sembra di recente costruzione. Peccato che deturpi la vista la struttura in cemento armato sopra il porticciolo naturale, che appoggia sulla roccia grigie colonne squadrate.
Con queste costruzioni, fatte di cemento armato, si attenta al paesaggio di una delle costiere più belle d'Italia, quella dell'arco ligure che si stende da Portovenere a San Remo in un susseguirsi di località celebri, nomi famosi, tappe irrinunciabili all'epoca del " Gran Tour".
Non solo noi che veniamo dalla grande e meravigliosa Valle Padana, dal grande ed infinito mare d'erba che ondeggia al primo alito di vento, dai lunghi filari di pioppi dalle cime alte su le verdi golene del nostro fiume, veniamo qui a bearci occhi e spirito, va venivano anche Charles Dickens rd Hermann Hesse, Ezra Pound ed Herry James.
Sembra che a Rapallo scrivesse la prima parte del suo libro Così parlò Zarathustra Friedrich Nietzsche, che pure amava spesso sedersi nella piazzetta di Portofino. Chissà quante pagine oggi lette in tutto il mondo sono state pensate sui sentieri che congiungono le Cinque Terre. Fino a ieri il treno era l'unica via di comunicazione lungo cui era possibile spostarsi via terra.
Oggi che avanza la nuova strada di collegamento a monte, rischia di andare perduto questo patrimonio di sentieri e carruggi.
Quando ci sono andato con Adriana e Tiziana, alcuni anni fa, i contadini si arrampicavano come camosci a cogliere con un movimento deciso del polso i grappoli d'uva per lo Sciacchetrà, nettare locale.
L'abbandono sempre più massiccio della viticoltura ha avuto come primo riflesso il degrado dei terrazzamenti costieri, sorretti da muretti a secco fin dal Medioevo ma bisognosi di una continua manutenzione. Abbiamo constatato tutto quello nella nostra escursione. Come abbiamo detto, frane e smottamenti hanno interrotto i sentieri a cominciare dal più famoso, quello della Via dell'Amore che porta da Riomaggiore a Manarola ogni anno migliaia di turisti e innamorati.
Al principio di quest'anno, questa famosa via è stata collegata a Manarola con un viadotto in cemento armato, sostenuto da una serie di archi che permette così l'attraversamento di quel luogo depresso, facendo onore alle nostre maestranze.
La nostra escursione si è conclusa sulla spiaggia di Monterosso dove molti " caini" e non, hanno approfittato per immergere i piedi stanchi ed arrossati per il lungo cammino, nell'acqua fresca del mare, ottenendo un giovamento immediato. Come diceva Adriana è stato un vero refrigerio, un toccasana miracoloso, che ha così rigenerato le energie perdute.
Monterosso è graziosa borgata, specie nella parte posta in regione Fegina, con civettuoli villini e buona spiaggia molto frequentata nella stagione estiva. Qui, tra pini e ulivi, sorge l'orfanotrofio "Pietro Bernardi" fondato nel 1922 da padre Semeria; ospita bambini in prevalenza orfani di guerra.
Bella è la chiesa parrocchiale, costruita nel 1301 in riva al mare, con facciata a zone alternate di marmo bianco e pietra serpentina con rosone di raro pregio e valore. Sugli avanzi di un vecchio castello sorge il convento dei Cappuccini, con dipinto del Baldracco, una tela della "Crocifissione" attribuita al Van Dych "La Flagellazione di Gesù"del Cambiaso; "La Veronica", attribuita a Guido Reni; "un San Francesco" presumibilmente del Piola ed altri ancora.
La storia di questo borgo marinaro ci racconta che in passato ebbe a sopportare guerre, distruzioni e carestie. Nel 629 veniva occupata da Re Rotari, che radeva al suolo il borgo di Albereto, poco lontano da Saviore; nel 1396 fu il Cardinale Ludovico Fieschi a devastare e incendiare l'abitato; nel 1545 fu messo a ferro e fuoco dai Turchi, giunti sulla spiaggia con dieci vascelli, e la maggior parte delle donne e dei fanciulli vennero tratti in schiavitù.
Monterosso fu importante dominio dei Fieschi.
Luoghi marine, vecchi borghi medioevali,sentieri, montagne e cultura,tutto questo è Cai.
(Tratto dal libro: "Viaggio lungo nell'America dell'Ovest e lungo i sentieri del bel Paese")    

Andora: piccolo borgo marinaro
Dopo le bellezze naturali che caratterizzano le Cinque Terre, ci sembra naturale citare un piccolo borgo marinaro e medioevale a noi molto caro, perché ci riporta indietro nel tempo e ci fa rivivere gli anni più belli della nostra vita.
Andora è formata da un complesso di una trentina di piccole ridenti borgate, raggruppate in cinque frazioni o parrocchie: S. Pietro, il capoluogo, S. Giovanni, Rollo, Conna e S. Bartolomeo, disseminate sopra un territorio ora pianeggiante ed ora montuoso, ricco di olivi, di vigneti,di foraggi, di legname, di ortaggi, di frutta e di pesca.
Nel 967 l'Imperatore Ottone I, perdonando alla propria figlia Adelasia la fuga con Aleramo, assegnava a costei il Marchesato del Monferrato, al quale incorporava il territorio di Andora, che successivamente passò al Marchese Teti del Vasco, quindi ai Clavesana. In seguito a guerre fra Genova guelfa e Albenga ghibellina, i Clavesana, nel 1252, cedettero alla Serenissima il feudo di Andora per otto mila lire genovesi. Così Andora seguì le sorti di Genova e quindi dei Savoia.
Oggi Andora è una cittadina moderna con le sue bellezze naturali di cielo, di mare, di territorio disseminato di ville e villini deliziosi, una vasta spiaggia di finissima arena, un clima perennemente primaverile e salubre, fanno di Andora una stazione climatica.
Sulla sommità del borgo medioevale, a fianco ai ruderi del vecchio castello, sorge una meravigliosa chiesa romanica del XII secolo. Al principio del borgo sorge un edificio del 1200 ben restaurato, un tempo apparteneva a un priore benedettino e da questi ha preso nome. Nello stesso edificio oggi c'è un ristorante, un piano bar e una "brasserie" con qualche tavolo all'aperto durante la bella stagione.
L'ultima volta che siamo stati ad Andora con Adriana, siamo andati a pranzo con alcuni nostri vecchi amici andoresi. L'accoglienza è stata gentile e il servizio molto premuroso e accorto, l'atmosfera, raffinata e romantica, nonostante la severità delle volte in pietra e mattoni.
Da qualche tempo un giovane chef piemontese di nostra lontana conoscenza, Ferrero, delizia gli affezionati avventori con caviale Malossal,(servito con crostini caldi, burro, uovo tritato e scalogno), insalatina tiepida di crostacei con verdure al vapore, fantasia di pesci affumicati, sottile filetto aromatizzato all'olio di tartufo bianco, ravioli alla crema di tartufo, spaghetti ai crostacei, risotto del Priore allo champenois con crema di tartufo bianco, tagliolini alle triglie e zafferano in pistilli, pesce fresco di giornata al forno e agli aromi, astice al burro fuso, filetto di Agnes - beef al rosso di Borgogna, lombatina di agnello normanno con salsa di rismarino.
Si tratta di una cucina piuttosto originale con abbinamenti talvolta arditi ma di grande soddisfazione.
Ricordo che quella volta è stato un pranzo fantastico,all'altezza della situazione. La carta dei vini proponeva ben 200 etichette, tra cui il rosso Ormeasco di Ramò, il Barbera Burdinoto del Ciabat e la Bianchetta genovese Bisson oltre a qualche francese. Possiamo dire che si tratta di un locale raro in Liguria e i proprietari, i fratelli Bestoso, sono stati giustamente premiati con una affluenza che rende quasi indispensabile la promozione, come potrebbe dire un vero esperto di culinaria.
In quella occasione abbiamo potuto capire che la clientela della "brasserie" è più informale. Tutti i clienti, però, sia nel ristorante sia nella "brasserie", sono accomunati dalla ricerca del buon cibo e del bell'ambiente immerso nella quiete e nel verde degli ulivi secolari, nonché fra i ruderi delle antiche costruzioni medioevali.
Con queste sensazioni l'escursionista percorre le colline e i dirupi strapiombanti su quel mare meraviglioso, sicuro di incontrare l'aspetto immutato come può accadere solo in un'opera d'arte, la quale, non appena il suo creatore se ne stacchi, domanda soltanto d'essere guardata e conservata nella memoria.
Qui le immagini sono contornate dal profumo delle ginestre, del rosmarino e delle altre piante aromatiche che crescono spontanee sui costoni e attorno alle povere case colorate e costantemente illuminate dal sole sui crinali. La fitta macchia di lecci, lentischi, pino marittimo e pinastro che attecchiscono molto bene in quei luoghi aridi sono ancora plasmate in un antico silenzio.
(Tratto dal libro: "Viaggio lungo, nell'America dell'ovest e sui sentieri del bel Paese")    

E' tempo di trekking attraverso i boschi e le montagne.
Dopo il lungo inverno grigio e brumoso, caratteristico della Padania, senza neve e poco freddo, che potremmo definire anomalo, in relazione alla posizione geografica in cui si trova la grande e meravigliosa Valle Padana, sembra che la bella stagione stenti ad arrivare,ma il mese di aprile promette veramente bene.
Questa mattina appena mi sono affacciato alla finestra della veranda,dalla campagna spirava un venticello dolcissimo, un venticello di primavera, i prati scintillavano ancora dalla rugiada notturna ed i campi erano bellissimi, ricoperti da un tappeto verde di grano rigoglioso.
Le viole che crescono rigogliose nelle vaschette sul davanzale della veranda, grazie all'impegno di Adriana che cura i suoi fiori con amore, con il loro profumo così penetrante mi stanno ad indicare che è ora di fare dello escursionismo, di camminare attraverso i boschi e i sentieri delle nostre montagne, per ritemprare il fisico dai lunghi giorni invernali.
La parola "camminare" è un verbo intransitivo, di carattere esortativo. Un semplice invito a camminare, a evadere, a portarsi da un luogo all'altro con le proprie gambe; andare a piedi, marciare, avanzare, muoversi.
E' un semplice invito a "camminare" rivolto a tutte le persone e soprattutto a noi "caini", (appartenenti al CAI) ancora troppo uncinati dal mito degli stadi, delle discoteche e delle dipendenze consumistiche che ogni giorno vengono propugnate dai mass-media.
Fuori dai nostri villaggi di sapore medioevale, di questa grande e meravigliosa pianura Veneto-Padana, c'è un'Italia sconosciuta che merita di essere "camminata" e (ri) scoperta. Più volte ho avuto modo di scrivere che noi viviamo in un terra benedetta da Dio sotto ogni aspetto: per il clima, il paesaggio, per il cielo, per il mare, ma questa è anche l'Italia delle montagne, dell'eccezionale varietà ambientale e culturale.
Un territorio unico nella sua gratificante effervescenza.
Ci viene spontaneo quindi il suggerimento di farne oggetto del "piacere escursionistico".
Più che nella dimensione spaziale, il suo valore aggiunto sta nell'occasione - speriamo non unica né effimera - di risvegliare a largo raggio l'interesse per l'escursionismo intelligente, disponibile a incamerare il bagaglio di insegnamenti che vengono dalla lettura approfondita dei segni del Creato e delle destinazioni trasmesse nel lungo arco dei secoli degli uomini - montanari.
Sono tesori, spesso sedimentati sotto un fitto strato di abbandono, che attendono di essere recuperati per applicarli alla nostra quotidianità.
Si può davvero leggere la storia. Camminando tra le montagne con gli uomini del "CAI" della Sezione di Mantova, che seleziona e sceglie sempre gli itinerari più belli e alla portata di tutti.
Il grande libro della natura deve quindi essere letto all'aperto per coglierne la ricchezza e la varietà degli insegnamenti, e farne tesoro. Camminare senza correre attenti anche alla "cultura del territorio", ossia alle moltissime testimonianze lasciate dagli uomini che ci hanno preceduti. Gli insegnamenti che vengono da un mondo contadino e alpigiano ormai quasi muto, conservano piena validità e attualità.
In questa bella stagione primaverile camminare sui sentieri del Trentino, della Liguria,della Lombardia e delle altre regioni del nostro meraviglioso Paese, significa quindi fermarsi fra la gente, anzi fra le genti italiane.
Condividere, anche solo fuggevolmente, la loro realtà. Portare una minimale solidarietà.
Da montanari (almeno nello spirito se non nella provenienza) fra montanari. E nel grande scenario della natura: accanto ad aree degradate si incontrano ancora settori di eccezionale bellezza. Forse più numerosi di quanto si pensi. Montagne e valli del silenzio, nelle quali non si incontra nessuno. Magari noi stessi.
Lassù nelle bellissime montagne del silenzio,nelle vallate incastonate fra le pareti scoscese e levigate di granito porfirico, di calcare, scaturiscono fresche sorgenti del corso misterioso che mantengono il verde dell'erba, mentre le vaste conche tirano a sé la rugiada notturna.
Discendendo con lo sguardo lungo le pareti giù nel profondo si può osservare una meravigliosa vegetazione: in forme bizzarre e fantastiche, simile alle stalattiti. Crescono dappertutto cespugli di lentischi e ginestre selvatiche dai fiori dorati. Spesso le pareti presentano tutti i colori dell'iride perché ora la roccia si tinge di un delicato grigio argento, ora invece è di un bel rosso ammonico con all'interno delle concrezioni ove vi sono rimasti imprigionati degli ammoniti, ora di giallo o turchino scuro, oppure nero addirittura.
Il paesaggio alpestre che circonda la cima dei monti apre uno spettacolo di straordinaria bellezza. Lassù si vive un'altra dimensione, la dimensione dello spazio e del tempo, in un paesaggio etereo.
Dal vertice della montagna, dietro la distesa dei boschi verdeggianti, spesso possiamo scoprire borgate e piccoli villaggi, casine linde dipinte a colori luminosi, delineate da strutture in legno, con vasti tetti spioventi, con i balconi infiorati. Quella è un'architettura prettamente del Trentino - Alto Adige, che si differenzia del resto del nostro Paese.
Sovente possiamo notare che in fondo alla lunga distesa di valli rocciose, che discendono a perdita d'occhio, più in là ci accorgiamo che si elevano monti giganteschi delle forme insolite e maestose sulle cui cime riflettono gli ultimi raggi del sole.
Quelli sono i "monti pallidi ", le cime maestose delle Dolomiti." Bello è poter vedere le rossastre vampate che al tramonto si mescolano col giallo striato delle nude rocce, cosicché un fuoco sembra restare acceso mentre intorno calano cupe le prime ombre".
Numerosi e ben collegati da una distribuita rete di sentieri, sono i rifugi delle Dolomiti che incontriamo nel corso delle nostre escursioni
Per coloro che sceglieranno i percorsi più dolci, come facciamo noi, ci sono stupende occasioni da non lasciarsi sfuggire. Se bella e quasi apocalittica sembra la visione delle levigate pareti, altrettanto stupenda è lo specchiarsi nei celebri e naturali laghetti alpini.
La smagliante bellezza della verde natura, crea un dolce contorno alla fantasiosa mitezza delle snelle crode che sembrano pizzicare l'azzurro del cielo. Sicuramente sono visioni meno grandiose, ma i fasci di guglie, pinnacoli e pilastri rocciosi che creano ricami nell'azzurro del cielo, bastano per riempire gli occhi.
Non c'è cosa più bella che poter osservare il tramonto sulle Dolomiti, quando la stupenda cornice dell'alpe raccoglie l'ultimo bacio del sole.
(Tratto dal libro: "Viaggio lungo, nell'America dell'ovest e sui sentieri del bel Paese")    

"Eco" alla conquista di Alessandria
Qualcuno si domanda, ma che cosa c'entra Umberto Eco in questo contesto letterario, che poi non è altro che un insieme di vicende e di fatti tra loro collegati che caratterizzano una situazione familiare, una specie di biografia della nostra "principessa" e delle vicende della nostra famiglia.
Se andiamo a scavare nel passato, diremo che anche Umberto Eco, il professore di Semiotica presso l'Università di Bologna, è un membro che fa parte, anche lontanamente della nostra famiglia, anzi, della famiglia di Adriana, che sono figli di due fratelli. Quindi , con Umberto Eco, ci lega il vincolo tra persone che discendono l'una dell'altra da uno stesso progenitore.
Noi oggi, vogliamo raccontare la cronaca di questo grosso personaggio, che si è recato ad Alessandria, nella sua città natale per presentare il suo Best - seller. La cronista Cristina Taglietti, così scrive: "Doveva essere una cena per pochi amici, un incontro informale con i vecchi compagni di scuola, la sorella, l'amico di sempre, il fisarmonicista Gianni Coscia, ma per mangiare e bere, alla fine c'è stato poco tempo. Il ritorno di Umberto Eco ad Alessandria, sua città natale, per la presentazione del nuovo libro Baudolino ( edito da Bompiani) si è trasformato in una specie di tour de force, in un grande abbraccio con cui la città a quasi stritolato uno dei suoi concittadini più illustre. Una situazione prevedibile fin da mezzogiorno, quando le librerie della città avevano già bruciato tutte le copie ( circa trecento) che l'editore aveva mandato nella mattinata.
La giornata piemontese di Eco, di questo nostro lontano parente, è cominciata alle cinque del pomeriggio al liceo classico Plana, dove ha incontrato studenti e insegnanti. " Non so come incominciare - ha esordisce Eco -, un po' come da ragazzo quando venivo interrogato proprio in questa scuola".
Già perché questo è il mio liceo ( " ci torno ogni volta che posso, ma non quando vorrei") dove ha studiato da ragazzo ( "abitavamo proprio di fronte - ricorda la sorella Emi, autrice di cabaret, venuta da Roma per l'occasione - era impossibile bigiare").
Ai ragazzi, piuttosto intimiditi, lo scrittore spiega con la solita ironia che cos'è un romanzo storico: Si sceglie un'epoca del passato e si inseriscono personaggi immaginari che fanno qualcosa. Il problema è che se ci sono personaggi realmente esistiti non si può far loro fare qualcosa che contraddica la storia. Scrivere di Federico Barbarossa, per esempio, è stata una faticaccia: ha fatto un sacco di cose, è sceso cinque volte in Italia. Il rischio era metterlo nel posto sbagliato al momento sbagliato". Ma questo non è l'unico problema, ha ricordato Eco: " Dopo la pubblicazione bisogna cercare di evitare le migliaia di imbecilli che ti scrivono lettere per dirti che quel giorno quel personaggio non poteva essere lì perché era da un'altra parte.".
A vincere la timidezza e a fare una domanda ( " cercate solo di evitarne due - aveva raccomandato Eco - su che cosa sarà il nuovo romanzo e che cosa penso del Nome della rosa") c'è soltanto una ragazza che chiede allo scrittore se le consiglierebbe di leggere il suo libro. "Non lo consiglio a nessuno. Sono cavoli vostri", è la risposta, anche se poi concede: " L'unico motivo che potrei dirti è che, magari, leggendolo, provi lo stesso piacere che io ho provato a scriverlo". E poi chi gli chiede se lui sceglierebbe di vivere nel Medioevo dei monaci del Nome della rosa, o in quello dei picari di questo romanzo, la risposta è immediata: " Quello dei monaci, naturalmente. Bevevano meglio e si divertivano con qualche ragazza
Ma il ritorno a casa di Eco non poteva finire lì. Dopo il liceo c'è stato il momento ufficiale, quello nel palazzo della Provincia che ha organizzato la giornata, con la giunta provinciale e le autorità. Ma anche con la vecchia zia Carmelina, ultima sopravvissuta dei tredici fratelli Eco, che ha accolto il nipote con uno squillante: " Ma come sei bello!" Subito dopo, la visita in Cattedrale, alla cappella di san Baudolino, patrono della città: " Che però non è il protagonista del libro, come ha equivocato qualcuno. Il mio personaggio si chiama Baudolino, come a Milano ci sono quelli che si chiamano Ambrogio", ha chiarito Eco.
E subito dopo la cena al ristorante Gagliaudo ( così si chiama anche il padre di Baudolino nel libro), la presentazione del volume in un teatro con storici e linguisti: Gianluigi Beccaria, Bice Mortara Garavelli, Delmo Maestri. Qui lo scrittore ha letto il capitolo 13, " Baudolino vede nascere una nuova città" . Alessandria appunto.
Questo nuovo romanzo di Eco, incomincia così: " Era ormai il Sabato Santo. L'aria era tiepida, i campi s'ingentilivano di fiori e gli alberi frascheggiavano gioiosi...". "Baudolino" ambientato nel Duecento, racconta la storia del protettore di Alessandria, città di Eco, e segna il ritorno dello scrittore al medioevo, l'epoca che gli ha assicurato un successo mondiale con "Il nome della Rosa". Già ieri il nuovo libro del semiologo era in testa alle classifiche di Roma e Milano.
Il romanzo storico firmato da Umberto Eco inizia nell'aprile del 1204, quando Baudolino, che l'autore descrive come un grande bugiardo, salva la vita dello storico bizantino Nicera Coniate, durante l'assedio di Costantinopoli. Il primo capitolo è preceduto da un prologo in lingua volgare del 1200 . " Baudolino" è il frutto di pazienti ricerche, come d'altronde Eco ci ha abituati coi precedenti romanzi. Tanto " Il nome della rosa" è romanzo gotico quanto " Baudolino" è picaresco, col protagonista che attraversa le grandi vicende del passato con piglio allegro e divertito. Un picaro, appunto, inesausto inventore di storie in cui realtà e fantasia si confondono. Senza dubbio un romanzo meno impegnativo di " Il pendolo di Foucault" e " L'isola del giorno prima", le altre prove narrative del celebre scrittore e semiologo. La cui notorietà, (come scrive Pier Angelo Vincenzi, sulla Gazzetta di Mantova, del 20 novembre (c.a.). "Travalica, e di molto, i confini nazionali: Eco è una vera star in tutta Europa ma anche negli Stati Uniti, dove la sua presenza, in qualità di prestigioso conferenziere, è assicura. Una celebrità: " Baudolino" è stato richiesto da quaranta paesi, e per alcuni, tra cui gli Usa, la Francia, la Germania, la Spagna, la Gran Bretagna, l'Olanda e la Grecia, gli accordi sono già chiusi".
"Che Eco sia tra gli scrittori più amati all'estero è dimostrato dal gran numero di saggi dedicati ai suoi libri, nonché dal gran numero di siti, perlopiù americani, contenenti interviste e profili bibliografici dell'intellettuale di Alessandria. L'attività di scrittore di successo Eco alterna quella di dottissimo professore universitario, uno studioso cui si devono alcuni tra i più importanti contributi alla semiotica contemporanea".
Alessandria, ci ricorda una pagina della nostra vita, una pagina indimenticabile che diede i natali non solo ad Umberto Eco, ma anche e soprattutto ad Adriana, mia moglie, che come abbiamo detto sopra, lo scrittore sono primi cugini e poi perché, nell'antica chiesa romanica di Santa Maria di Castello, l'8 settembre 1957, ci siamo sposati, coronando così il nostro sogno d'amore. E' stato invitato anche Eco al nostro matrimonio, ma per motivi inderogabili, non ha potuto partecipare..
(Tratto dal libro: "Il vento della sera")     

L'emozione di una scrittura femminile.
Erri De Luca, così scrive: " Leggo il libro scritto da un uomo e quello é solo un libro: ma se è opera di una donna, a sfogliarlo ho nelle dita la piccola febbre di chi viola segreti, profana intimità. In questa centuria di pagine dal titolo abbastanza perfetto di Rosa Furia, Patrizia Zappa Mulas scrive l'età che precede e poi precipita nella pubertà femminile, quando l'argine del sangue si rompe e scava la differenza tra i sessi".
Immaginiamo una strada della periferia di una grande città come Milano, che dista dal nostro borgo medioevale poco meno di 30 chilometri, è il deserto mobile fatto di sconosciuti appena trasferiti, palazzine in cantiere, un giardino inselvatichito e chiuso, campo di conquista della città che avanza, annette territori e passa oltre. Lo descrive l'unica presenza femminile di una banda di ragazzini sfrenati in avventure e scoperte, mentre da lontano assiste un'altra coetanea, assente ai giochi, già inchiodata alla soglia di casa delle mansioni della dannazione femminile.
La scrittura è alta, non vezzeggia l'estremismo di povertà dei bambini, ma lo risarcisce con le parole giuste, venute dopo a stabilire una linea d'intesa con la violenza radicale delle sensazioni, delle ferite infette nello sbaraglio infantile. Il passaggio dell'età avviene col rumore di un'attaccatura che cede, " era un dente di latte che scricchiola prima di lasciare la gengiva. Ecco la bambina che mette la mano sulla rotaia subito dopo il passaggio del tram per sentire nel palmo il tremito che vibra e fugge lontano: il perfetto contrario di quello che facevamo noi ragazzini imitando i pellerossa. Contro la nostra goffa allerta sta la delicatezza di quella mano che accompagna il viaggio fino a non sentirlo più. Il piccolo corpo femminile registra la spietata divisione in due generi, maschio e femmina. Il racconto regge con spavalderia la proporzione, la sopraffazione che il maschile trama intorno ad ogni nuova crescita di donna. Non solo l'esemplare adulto, anche il cucciolo in prima pubertà maschile diventa losco: c'è una scena giochi raggelati in cui lei, la protagonista narratrice, riesce a sorprendere alle spalle il capo dei ragazzi e a rovesciargli dentro lo stivale un getto d'acqua fredda, umiliandolo e anche impacciandolo nell'inseguimento successivo. Ecco che ha dato una figura nitida al mio spaesamento di lettore, io sono uno di quel genere maschile con lo stivale zuppo che l'insegue per tutto il racconto senza acciuffarla mai.
Questo è il periodo di transazione, che divide la fanciullezza dalla pubertà: un periodo molto difficile da superare dai giovani, che sono appena entrati o stanno per entrare in un'altra dimensione della vita.
Superare l'adolescenza è un tragitto di separazione dall'infanzia e dall'identificazione con i genitori; ed è l'avvio senza bussola verso un inedito sé: il corpo esplode in nuove forme, sorprende e smarrisce con l'improvviso secernere di sangue e seme, con i nuovi stimoli che invia insieme ( o in contrasto) con la mente che si riempie di " perché" d'alto profilo mentre dall'interno, dall'inconscio ( "questo sì sempre uguale sotto lo scenario di superficie, un terreno vulcanico") arrivano messaggi contraddittori che spingono al nuovo, al distacco e a rapide ritirate nella confortante regressione. Tutto questo fermento è esplorato e descritto con inedita minuziosità e sapienza, quasi anno per anno e sempre distinguendo capitoli per le femmine e per i maschi, dalla scrittrice Silvia Vegetti Finzi, coadiuvata nella stesura di questa preziosa guida, che niente proprio niente tralascia di questa età complessa, dalla giornalista Battistin.
Un'età si diceva, cui è venuta a mancare la chiave di volta: la rabbia, la ribellione. Freud affermava che l'amore unisce e l'odio separa. E' il lavoro dell'adolescenza sta proprio nel separarsi dai genitori" L'amore, dunque, può essere invischiante impedimento, ed ha certo una parte nelle "adolescenze interminabili" di oggi. La via solita tra i 13 e i 18 anni era l'opposizione, il rifiuto dei genitori come modello. Ma se il padre non incarna più l'autorità, è comprensivo, tenero, materno ( parlando in via generale: per la concreta realtà si vedono in Charmet gli incisivi ritratti, non privi di un humour al vetriolo, dei padri: " disertore", "debole" e " geloso".
Se nuova è la modalità di crescita, nuove sono le difficoltà connesse. " La ragazzina fa fatica di staccarsi verso una propria autonomia in quanto non rifiuta la madre, ma continua ad adorarla e ammirarla: un tempo la mamma era un modello negativo, perdente, relegata in casa o comunque socialmente svalutata". " Non sarò mai come lei" era il furibondo grido interiore delle adolescenti di ieri. Oggi, no, "la madre manda avanti la famiglia e lavora, ha successo, è un modello positivo, valido anche per uscire dalla famiglia, staccarsi". Un modello sociale che anche il figlio può "indossare" accanto o al posto della figura paterna, concorda Charmet. Però - sottolinea Vegetti Finzi, molto attenta ai sottili processi inconsci - il maschio è da sempre ( vedasi Edipo) innamorato della madre, il legame diventa obbligante, e può alimentare la paura di essere soffocato. Gli psicologi Alberoni e Cavallo, affermano che manca il terzo polo, il padre, che ieri aiutava i figli nel trapasso verso una identità propria. Ed ecco l'appello: " E' ora che il padre riprenda una funzione. Figura non più autoritaria, e va bene, ma autorevole si".
La mancanza di uno scontro generazionale, l'avvolgente rete e della comprensione reciproca in famiglia, l'obiettivo di continuo proposto della felicità, insieme - in molte case - a una vera adorazione per questi rari figli (i "bambini messia") generano delle adolescenze narcisistiche, piene di aspettative e senza alcun addestramento alla frustrazione. Molti scoprono di non essere attesi da nessuna " missione speciale" come avevano loro fatto credere un padre o una madre idolatri. In ogni caso, disinganni e difficoltà ineludibili con la crescita, in giovani bassissima tolleranza del dolore mentale, anziché produrre vivaci quanto fisiologiche lotte e contestazioni contro genitori e adulti, spingono ad afflosciarsi su di sé. " Noia e tristezza anziché rabbia e senso di colpa", specifica Charmet, spesso depressione vera e propria. E su questo devastante patologia, tanto diffusa tra i nuovi adolescenti, lo psicologo spende molte pagine, per spiegare le modalità, l'orrore e i fortissimi rischi connessi ( suicidio e ricorso alla droga, tra i primi) e lanciare l'invito a non sottovalutarla e a curarla subito. Antidepressivi inclusi, professore? " Non si può scherzare con la depressione", risponde, " e allora si deve pensare anche agli antidepressivi. Non possiamo rinunciare ad alcuna arma".
Secondo la drammatica lettura di Charmet, agirebbe la necessità di far paura agli altri per soffocare la propria paura, che è paura e pianto per la " morte del futuro", del proprio futuro.
Noi non siamo scrittori, psicologi o filosofi, che ci permette di penetrare addentro nell'anima umana e di comprenderne i moti, ma semplici cultori di questa e di altre materie, ma parlando della adolescenza, di quel silenzio così assordante dei nostri ragazzi, che non si ribellano più ai genitori, come un tempo, anzi li imitano. Ci siamo addentrati in questo grande tema, in un tema più grande di noi, ed analizzando il nostro tempo, abbiamo voluto conoscere il perché di questa radicale, e inquietante, trasformazione del costume. Se non ci siamo riusciti nell'intento, umilmente ci scusiamo con gli eventuali lettori.
(Tratto dal libro: "Il vento della sera")    

Il lieto evento
Nelle prime ore del mattino del giorno 11 giugno 1959, si è verificato un avvenimento meraviglioso, che ha rallegrato la nostra minuscola famiglia, era nata la nostra "principessa" , alla quale abbiamo dato il nome di Tiziana. Il pomeriggio del giorno precedente, quando abbiamo accompagnato Adriana, presso la clinica Salus di Albenga, l'ostetrica ci aveva assicurato che prima delle ore 10 del giorno successivo, non si sarebbe verificato il lieto evento, e che avremmo potuto fare ritorno tranquillamente a casa. Il mattino del giorno 11, alle ore 8, quando siamo ritornati , Tiziana era nata da un pezzo. Mi affacciai nella nursery, nel reparto destinato ad accogliere i bambini appena nati, ed ho identificato subito Tiziana, perché aveva un bel colorito bruno, era piccola e scura, si vedeva che aveva preso da me, mentre le altre bambine erano chiare e con i capelli biondi, ma subito dopo, mi è stata indicata dall'infermiera di turno. Era proprio lei, non c'era dubbio, non mi sono sbagliato, perché il sangue non mente. E' stata una grossa emozione, un'emozione così grande che annulla ogni altra cosa. Se si potesse dare una faccia a uno stato d'animo, fatto tutto insieme di euforia, commozione, paura, riso, lacrime, insomma quello era lo stato d'animo di uno che aveva avuto una prima figlia . Ero euforico, gioioso, felice, tanto che spruzzavo contentezza da tutti i pori. Non ero soltanto io felice, ma soprattutto lo era Adriana, in quel suo letto candido della clinica. Quindi, la vita incominciava a rifiorire, il clima era diventato gioioso e pieno di premure per la nuova arrivata, che allietava la nostra vita. E' proprio vero che non bisogna mai drammatizzare nella vita, bisogna guardare fiduciosi all'avvenire, perché prima o poi ritorna il sereno e quindi la felicità. Aveva veramente ragione padre " Turoldo" nell'affermare che : "Domani è un altro giorno, un giorno più bello, meraviglioso, un giorno che ancora non è stato vissuto, un giorno pieno di vita e d'amore". Gli anni passavano dolcemente nella serenità familiare, mentre Tiziana cresceva sempre più bella, in quel paese incantato e straordinariamente bello. Ma fin dalla sua tenera età, si faceva distinguere dagli altri bambini. Voleva tutto quello che vedeva e non voleva sentir ragioni, ogni suo desiderio doveva essere esaudito, altrimenti si metteva a piangere e faceva i capricci. Nel limite della possibilità, cercavamo sempre di esaudire i suoi desideri, anzi, lo facevamo quasi sempre, perché non si poteva non esaudirli. Nei periodi estivi, la portavano quasi tutti i giorni al mare, perché a lei piaceva moltissimo giocare con la sabbia e con le pietre arrotondate dal mare. Quando più grandicella, ricordo che con l'alta marea due balenottere si erano arenati sulla spiaggia. A tutti i costi, ha voluto salire sopra questi grossi cetacei per farsi fotografare, assumendo sempre posizioni diverse, si vede che fin da piccola aveva l'istinto di porsi al centro dell'attenzione, come se fosse una prima donna: infatti lo era. Un'altra volta, non ricordo che festa fosse, comunque, nel piazzale della stazione ferroviaria di Andora, c'era un complesso musicale che stava eseguendo un concerto. Nel bel mezzo del concerto, è saltata davanti a tutte le persone che assistevano, e si mise a ballare con una certa disinvoltura, come se nulla fosse. Quella volta, ha ricevuto i suoi primi applausi dalla folla incuriosita .
Con Isaia, che era un bravissimo pittore, (egli è stato anche uno dei miei maestri), eravamo sempre alla ricerca degli angoli più suggestivi della costa. Tutti gli anni, fino a quando noi siamo rimasti ad Andora, si ripeteva la stessa cosa. Da un posto all'altro, da una località all'altra, ci spostavamo a bordo della mia Vespa 150, così avevamo modo di ammirare le molteplici bellezze naturali di cielo, di mare, di territorio disseminato di ville superbe e di villini deliziosi, di scorci panoramici e di paesaggi stupendi. Quanti studi, quanti bozzetti abbiamo tratto dal vero con Isaia, in quella Liguria piena di risorse pittoriche, di luci e di bellezze che dilettano la vista non soltanto ai pittori, ma a tutte le persone che amano la natura. L'impianto solido, eppure pieno di lirismo, degli alberi di Isaia fa rivivere l'incanto della campagna, della costa e della marina. Ulivi, pini marittimi, castagneti e pescheti, sono immersi in un silenzio che sembra sottolineare un'attesa segreta. Su quelle tavole e tavolette di piccola dimensione, dove non compare quasi mari una figura umana, pare possa apparire da un momento all'altro un dio o una ninfa. Proprio come apparvero nelle poesie contemporanee di Valéry o di Ungaretti, che amava moltissimo la sua meravigliosa Liguria.
In quell'angolo di pace, dove l'amicizia era la cosa più importante, abbiamo conosciuto moltissime persone, che difficilmente possiamo dimenticare. Per quella gente, il rispetto era una cosa sacra, l'amicizia e la stima erano reciproci, ancora vivo era il vero senso dell'amicizia. Non possiamo dimenticare la figura simbolica del vecchio pescatore, del vero lupo di mare, come si dice in gergo marinaresco, di " Baciccia ù pescau" che tutte le mattine di buon'ora, bussava alla nostra porta per portarci il pesce fresco, pescato da lui durante la notte. Egli conosceva molto bene i nostri gusti e, preparava il cestino con cura, mettendo in evidenza i pesci più pregiati, specialmente quelli per fare il "brodetto", per la piccolina, come la chiamava lui. Erano bei tempi quelli, quando la genuinità, la schiettezza, la sincerità convivevano benissimo sullo stesso parallelo. Oggi è tutto cambiato, naturalmente il mondo si evolve, il tenore di vita è senza dubbio cambiato, ma non c'è più quella vera amicizia che c'era allora.
(Tratto dal libro: "Il vento della sera")    

Il vecchio sogno nel cassetto
Sarà stato il clima dolce e temperato della riviera, la tranquillità del borgo marinaro, la serenità della famiglia, la nascita della nostra principessa, la dieta alimentare o le cure mediche? Sta di fatto che la mia ulcera aveva cessato di tormentarmi. Comunque sia stato, sicuramente tutto ciò, secondo il mio modo di vedere le cose, hanno contribuito notevolmente alla mia guarigione, al ristabilire la mia salute. Per molti anni, quella piaga ulcerosa duodenale, mi aveva tormentato, tanto che avevo dimenticato di annotare il tempo. Ora si poteva dire affermativamente che ero guarito completamente, non rimaneva neppure la più minima traccia, neppure sulle lastre radiologiche. E' proprio vero, quando l'uomo o la donna, l'esse umano vive in perfetta salute, vede naturalmente la vita sotto un altro aspetto, sotto un'altra angolazione e assapora così le bellezze della natura e prova diletto. Quindi, affronta la vita con più serenità, con più slancio, con più impeto. Insomma, stare in salute è il massimo a cui l'uomo aspira, le altre cose, gli altri problemi, passano in secondo piano. Dopo la salute, meraviglioso è il procedere della fantasia, la quale, quasi febbre i cui germi siano portati di lontano, prende possesso della nostra vita, e s'annida sempre più profondamente e sempre più s'accende, finché la finzione ci appare come realtà e il quotidiano come sogno, entro cui ci moviamo a disagio, simili ad attori sconcertati dalla loro stessa parte: E' sicuramente proprio questo il momento, nel quale il tedio, che va man mano crescendo, assorbe l'intelletto e lo spinge a cercarsi una via d'uscita. Questa fu naturalmente la ragione per cui la paroletta "progredire" avanzare nella carriera, avere assunto, specie negli ultimi tempi, un senso particolare, che è un vero e proprio sogno, un impulso, un sentimento, una ragione di vita che s'impossessa completamente del nostro io, che senza dubbio, avrebbe potuto giustificare l'uso; non si poteva parlare soltanto di un sogno irraggiungibile, ma di una realtà che si presentava lì, alla portata di mano. Infatti, quell'anno, avevo nuovamente partecipato al concorso per allievi sottufficiali, e con mia grande sorpresa, ero stato ammesso alla frequenza del corso stesso. Quindi quel vecchio sogno, che era rimasto per molti anni rinchiuso nel cassetto, era stato realizzato. Quello è, naturalmente, il sogno di tutti i giovani carabinieri, di quei baldanzosi cittadini esemplari, servitori dello Stato democratico, che conoscono quanto difficile e gravoso sia il loro compito svolto al beneficio del Paese, la cui crescita civile e materiale spesso induce fenomeni di malessere sociale e che proprio i carabinieri, in collaborazione con le altre forze dell'ordine, sono continuamente chiamati ad affrontare in fedeltà alle istituzioni democratiche e matura obbedienza alle Autorità costituite.
(Tratto dal libro: "Il vento della sera")     

Il vento della sera
"Il vento della sera", non è un titolo insolito, che esula da ciò che è normale, non è altro che il sinonimo della parola "aria", che è l'elemento che non si vede, ma basta mettersi a correre per sentirlo sul volto, basta respirare per sentirlo nei polmoni. L'aria è l'elemento etereo o magico dei sogni delle fanciulle quando incominciano a sbocciare, dei voli reali e di fantasia, dei venti che soffiano tra le nostre case, la gentile brezza sulla spiaggia, il tornado che ci travolge... Come il tornado dell'amore. L'aria è anche sinonimo di pensiero limpido e snebbiato, e tanto il nostro corpo quanto la nostra mente hanno bisogno di aria pulita, ogni tanto. Tutti nella vita, ci siamo sentiti come se ci mancasse l'aria, qualche volta: ma poi, basta respirare a fondo per schiarirsi le idee e trovare nuove soluzioni. Basta provarci, sentire l'aria, per spiccare il volo. E se immaginiamo il cervello come la " stanza" dei pensieri", non resta che un'avvertenza di somma importanza: " areare il locale prima di soggiornarvi"! Come recita uno spot pubblicitario dei nostri giorni.
Ma, a volte, nei vari casi della vita, basta respirare a fondo per schiarirci le idee e trovare nuove soluzioni. In questo momento di pausa e di riflessione, tra un respiro ed un altro d'aria pura, si trova sempre la soluzione ad ogni cosa, ad ogni problema, dilemma o difficoltà, basta pensarci e meditare, considerare e valutare ogni cosa. Solo così, si riesce a volte, se non a risolvere i problemi, almeno o soffermarsi e riflettere.
" Ah! datemi il vento della sera sulle praterie,
E l'odore del fieno appena falciato, come in Baviera
Una sera dopo la pioggia, sul lago di Starnberg".
Valery Larbaud.
Questa nostra fatica letteraria, come abbiamo detto sopra, non vuole essere un romanzo e neppure una rievocazione storica, ma una raccolta di semplici brani di vita. Ho cercato e cerco di interpretare la filosofica dei "valori" del nostro tempo. Questa branca del sapere ci insegna, che i valori morali ed estetici non si possono dedurre dell'esperienza, ma sono costituiti a priori e servono a valutare la realtà nel suo svolgimento. Qualcuno potrebbe domandarmi:" ma che cosa ti aspetti più della vita?" Nulla, non mi aspetto nulla, assolutamente nulla. La vita mi ha dato tutto: una famiglia e una "principessa" meravigliosa, una casa e un bellissimo lavoro. Mi ha dato quel lavoro che avevo sempre sognato fin dalla fanciullezza, quindi, sono un uomo realizzato in ogni punto di vista. Ma in ognuno di noi vi sono sempre dei pensieri, delle riflessioni e delle paure, ma basta respirare a fondo per schiarirsi le idee e trovare nuove soluzioni, nuove vie d'uscita, nuove spiegazioni o prendere nuove decisioni nella vita di ogni giorno.
"Quando ho paura di poter finire
Prima che la penna abbia rastrellato il mio cervello
Prima che libri scritti e i quadri dipinti in gran copia
Stipati sian granai di ciò che è ben maturo....."
Qualcuno potrebbe dire, "come sono appropriate queste parole!" Tali e tanti sono gli argomenti che vorrei scrivere su questa pagina bianca, bianca come in quell'universo astratto, bianco e allucinante delle nevi del Polo Sud, ti fa guardare la bianca spettrale solitudine dei ghiacci e scrivere su quella, come su questo foglio bianco, il poema dei ricordi della nostra "principessa", che poi non sono altro che i ricordi della nostra vita, della nostra famiglia. Conosco bene i miei obiettivi, piuttosto dubito delle mie capacità di portarli a termine. Per fortuna, quando ero giovane, avevo imparato a memoria gli splendidi versi scritti da Milton quando, a metà della sua vita, era diventato cieco. Li avevo recitati centinaia di volte e ora mi ritornano alla mente per darmi la forza di cui ho bisogno. Questa è una sfida così sentita, perché mi coinvolge nella determinazione a " presentare il mio conto fedele" per riuscire a definire lo scopo dei miei scritti ed in modo così radicato da farlo diventare lo scopo permanente della mia vita. A settantatrè anni compiuti, gli stimoli a scrivere sono gli stesi di quando ne avevo trentacinque: ho sempre avuto un terribile desiderio di comunicare, di mettere in ordine le mie esperienze, di raccontare storie che dessero forma letteraria alle avventure che possono essere capitate anche al lettore, se un lettore un giorno ci sarà, ma ne dubito moltissimo, perché io scrivo soltanto per me stesso e per il gusto di scrivere. Nella mia lunga vita militare nell'Arma dei carabinieri, quale comandante di stazione, mi sono seduto al tavolo con grandi personaggi e anche vicino al fuoco da campo che ho passato la notte con altri miei uomini e pastori che mi raccontavano delle storie, e io mi sono concentrato su questo compito. Il cammino che ho intrapreso, il compito che mi sono assunto di tracciare un profilo cronologico della mia vita e soprattutto, partendo dall'infanzia ai giorni nostri e di Tiziana, la nostra amata "principessa". E' già di per se un compito molto difficile quello di fare il genitore, figuriamoci quello di cercare di scrivere un libro sui nostri figli. Sicuramente è un'avventura, un'avventura umana e letteraria, un bailamme: una confusione di cose, di luoghi e di persone. Si, perché la nostra vita è stata un continuo spostamento da una sede all'altra del nostro Paese. Qualcuno potrebbe pensare alla vita dei nomadi, non precisamente così è stata la nostra vita, ma c'è un'affinità. Per spiegare tutto questo, bisogna tornare alla filosofia, bisogna ricostruire l'abitudine ad analizzare, confrontare, argomentare , a pensare in modo profondo, sistematico. Ad usare le parole con significato preciso, indispensabile per comprendere ciò che accade e comunicare in modo logico ogni nostro pensiero.I grandi motori della conoscenza umana sono tre. Il bisogno, che ci porta a cercare l'indispensabile per la sopravvivenza. La curiosità, per conoscere altre persone, per esplorare il mondo seguendo gli stimoli più capricciosi e gli impulsi immediati. E poi la ricostruzione, con cui si da ordine e senso a ciò che abbiamo compreso e per comunicarlo agli altri. L'uomo primitivo, che vive sotto la minaccia delle malattie, della fame, dei cataclismi e dell'aggressione, pensa solo a sopravvivere. Ha poco tempo per l'attività esplorativa e la conoscenza razionale del mondo. Si affida all'abitudine, alla tradizione. L'esplorazione, la curiosità, il gioco si sviluppano quando diminuisce il terrore di essere annientato. La stessa cosa succede nel bambino protetto dai genitori e negli adolescenti che, pieni di energia, si lanciano, fiduciosi, alla conquista del mondo. Ma non si può sfuggire da sé stessi, dimenticare la propria vita e sostituirla con un'altra.
(Tratto del libro:"Il vento della sera")        

Il battesimo del fuoco.
Nel mese di luglio 1948, dalla città di Bari, dal " Tacco" dello stivale italiano, che è un'area dal fertile territorio pianeggiante e, precisamente dalle "Casermette Porcelli", la Cittadella militare del Sud, al termine del corso di allievo carabiniere, che ha avuto la durata di 6 mesi, raggiunsi la città di Cuneo, ove fui trasferito.
Incominciamo con lo spiegare il toponimo di questa città piemontese. Il nome di Cuneo deriva da cuneato, che intuitivamente ci riporta alla localizzazione geografica della città, alla confluenza dei due fiumi Gesso e Stura di Demonte. Agli inizi di novembre la città ospita la fiera regionale del formaggio, con particolari tipi di formaggi locali. Al centro della città si trova Piazza Galimberti, con i suoi antichi portici, dove, ogni martedì, si tiene un grande mercato. Gran parte della città fu ricostruita tra il XVIII e il XIX secolo, con ampi viali alberati, anche se il grande viadotto che porta la linea ferroviaria in città risale al 1930. La sconsacrata chiesa di San Francesco del XIII secolo ha un bel portale del '400, mentre la chiesa di Santa Croce ( XVIII secolo) ha una particolare facciata concava, opera di Francesco Gallo. Cuneo è un buon punto di partenza, in particolare nella valle dello Stura, dove si trovano alcuni fiori rari.
Non siamo qui per illustrare la città, anche se non ne ha bisogno, ma per parlare del mio primo servizio di O.P. Dal profondo Sud, cioè dalla città di Bari, ero arrivato a Cuneo, il 13 luglio del 1948. Il giorno successivo, il 14 luglio - presa della Bastiglia - era una giornata afosa, sebbene, di tanto in tanto spirava un venticello fresco dalle Alpi. Anche a Roma era una giornata molto afosa. La Camera dei deputati si dedicava, piuttosto distrattamente, alla discussione di provvedimenti che non gremivano né accendevano l'emiciclo. Secondo Massimo Caprara, che era allora segretario di Togliatti, e che ha scritto, sull'attentato, un libro ricco di informazioni preziose e di vividi ricordi personali - anche se influenzato, e non poteva essere altrimenti, dal legame umano e politico con Togliatti - ci si occupava di contratti sul fitto dei fondi rustici e di vendite delle erbe per il pascolo: era presente per il governo, il ministro dell'Agricoltura Antonio Segni.
Quel giorno, dato il caldo afoso che stagnava nell'aula del Parlamento, insieme a Nilde Jotti, Togliatti aveva lasciato Montecitorio dalla porta secondaria di via della Missione, anziché dal portone principale, con l'intenzione appuinto di prendersi in pace un gelato da Giolitti, in via Uffici del Vicario. Lo aveva detto a Ugo La Malfa, incrociandolo, e La Malfa aveva ribattuto che lui invece andava a Mosca per trattare la questione delle riparazioni di guerra. "Hai il billet de confession dell'ambasciatore americano?" Scherzò un pò pesantemente Togliatti.. Quindi sboccò in via della Missione. In quel momento un giovane magro e bruno esplose contro di lui, da brevissima distanza, quattro colpi di pistola. Tre arrivarono a segno. Ha raccontato Caprara: " Colpito alla nuca e al torace, Togliatti cadde senza un grido, in ginocchio: prima si appoggiò al cofano dell'auto, una 1100 nera dell'onorevole Randolfo Pacciardi, ministro della Difesa, poi, raggiunto da un proiettile accanto al cuore, scivolò all'indietro, gli occhi sbarrati. L'urlo di Nilde Jotti che si chinò con le mani tese, sporcandole vistosamente di sangue, chiamando per nome Togliatti, fece accorrere i due carabinieri di servizio, altri poliziotti, alcuni giornalisti e deputati. Più giù, all'angolo dei magazzini Zincone, lo sparatore consegna la pistola scarica, una Smith and Wesson, a un ufficiale di polizia in borghese che lo spinge alle spalle".
Il ferito fu trasportato in autoambulanza al Policlinico dove il professor Valdoni stava operando, e fu subito introdotto in camera operatoria. Era assopito, debile, ma non incosciente. Il professor Valdoni s'era rivolto all'anestesista professor Mazzoni, prima di incidere, rilevando con stupore che Togliatti aveva, sotto choc, una frequenza di trentadue respiri al minuto e sessanta battiti cardiaci. Togliatti, che aveva sentito, mormorò: " Sono un bradi cardiaco: ho quarantotto battute al minuto". Valdoni operò. Togliatti era stato due volte fortunato: perché il proiettile nel torace aveva sfiorato ma non raggiunto il cuore, e perché un altro proiettile, schiacciatosi alla nuca, non era penetrato in profondità. Il paziente aveva retto bene, e si riprese con rapidità confortante.
Una edizione straordinaria alla radio ne informava il Paese. In poco tempo, sono scesi in piazza migliaia di operai. La piazza Caliberti, la più grande piazza di Cuneo, era piena di dimostranti. Si temevano grandi disordini e il principio di una rivoluzione. I fonogrammi si accavallavano uno all'altro. Tutte le forze di polizia disponibili, avevano raggiunto la grande piazza. La compagnia dei carabinieri di Cuneo, era comandata personalmente Maggiore Enrico Marone, comandante del Gruppo Carabinieri e coadiuvato dal maresciallo maggiore Giuseppe Pasino, comandante della locale stazione. Ricordo che noi carabinieri eravamo schierati sotto i portici, mentre un reparto della Celere, con le sue Jeep americane, bloccavano le uscite della piazza.
Quel 14 luglio, oltre a ricordare - la presa della Bastiglia - ricorda il mio primo giorno di servizio effettivo nell'Arma. Protremmo dire il mio "battesimo del fuoco", anche se non vi è stata alcuna battaglia. Come inizio, non era alquanto allettante, mi aspettavo tutte altre cose. Ma c'è sempre una prima volta nella vita. Affrettiamoci anzitutto a chiudere nel cassetto i ricordi per impedirgli d'intervenire in un discorso storico - politico, che è più grande di noi. Ma la memoria li carica di magia e li rende struggenti anche quelli che, vederli, struggere ci fecero davvero, ma in tutt'altro senso.
Quel giorno storico, carico di tensione, di nervosismo e di inquietudine, avvolto in un'afa quasi soffocante, sotto quegli antichi portici, dai muri sgretolati e dai mattoni anneriti dal tempo, di fronte alla grande piazza Galimberti, stipata all'inverosimile di una massa omogenea di tute blu, di squadre di ex partigiani e di gente comune, tutti raccolti in quella marea di bandiere rosse con falce e martello, con i pugni tesi e le canzoni inneggianti al partito comunista. Ci sono state piccole scaramucce, scontri di poco conto e di breve durata. Verso le ore 17,30 circa, quando sembrava che tutto stesse per precipitare, improvvisamente era successo qualcosa, qualcosa che nessuno sapeva darsi una spiegazione. La grande piazza, che prima era affollata di dimostranti, in un batter d'occhio si era svuotata. Dove era andata quella folla? E per quale motivo si era disciolta quella massa di dimostranti? C'era l'arrivo del Tour di Francia, nel quale Bartali si batteva per la vittoria, avendo quale antagonista Fausto Coppi.
Quella folla di dimostranti, si era dispersa fra i vicoli della vecchia Cuneo, ammassandosi pacificamente nei tanti Bar, osterie e ristoranti, per seguire il Giro di Francia. Forse in quel momento, la ragione e il sentimento di quelle persone che si trovavano in antagonismo fra loro, non più per la politica ma per lo sport Probabilmente, sia pure per un momento, avevano dimenticato la tragedia che era capitata a Togliati, che stava combattendo tra la vita e la morte. Lo sport, ancora una volta aveva vinto sui rancori degli uomini, accomunandoli alla passione del ciclismo.
Palmiro Togliatti, appena si è ripreso, la prima informazione che volle dal segretario e dal figlio riguardava il Giro di Francia, nel quale Baratti si batteva per la vittoria. Togliatti seguiva con molto interesse la corsa, come migliaia e migliaia di italiani, e aveva dato disposizioni perché l'Unità sostenessi Bartali. Solo alcuni mesi dopo, il campione, che aveva fatto dono al Papa della prima bicicletta uscita dalla sua fabbrica, ricevuta dalla stessa Unità il rude consiglio di darsi all'ippica. E' abbastanza paradossale che proprio Bartali e il Tour, cui si rivolse subito il pensiero di Togliatti scampato alla morte, siano stati come l'elemento decisivo per scongiurare, dopo l'attentato, la rivoluzione. In effetti il 14 luglio Gino Bartali trionfò in un tappone di montagna. " E' una leggenda dura a morire" ha scritto Andreotti " quella secondo cui, senza il successo di Bartali, vi sarebbe stata, a Montecitorio e fuori, una vera strage." Ma la leggenda " è l'esagerazione amplificata di un momento nel quale la tensione effettivamente si allenta: quando il deputato contadino Matteo Tonengo, entrato in aula tutto concitato, dette a gran voce l'annuncio dello strepitoso successo nelle tappe alpine del Tour del nostro supercampione" Questo si allaccia comunque al sussulto politico e sociale - quasi un terremoto - che l'attentato provocò.
Ricordo che negli anni che seguirono, l'Italia intera era teatro di violente manifestazioni, proteste, cortei contro il Patto atlantico: spesso sfociati in scontri tra dimostranti e forze dell'ordine. Non solo nelle grandi città, ma anche nei piccoli centri e nelle città minori come Cuneo, Fossano e Mondovì. In questi centri la celere non è mai intervenuta, perché eravamo sufficienti noi carabinieri. Nelle grandi città come Torino e Milano, oltre alla celere c'erano i battaglioni mobili dei Carabinieri, istituiti per fronteggiare le grandi manifestazioni. A Terni ci fu un morto, addebitato a Scelba, e al grilletto facile dei suoi celerini. Ma il 4 aprile del 1949, il patto fu solennemente firmato a Washington e Nenni commentò: " Se la guerra non è soltanto un fatto militare, ma un fatto politico. Può non esserci il conflitto armato. Ma da oggi tutto viene compiuto e attuato nell'ambito del rapporto delle forze militari".
(Tratto dal libro: "Oltre l'orizzonte")     

Il mito degli anni Cinquanta.
L'aspra adolescenza dell'Italia moderna, così titola un articolo di Giuseppe Galasso del "mito degli anni Cinquanta". "Indubbiamente gli anni 50 non furono quelli della loro sdolcinata rappresentazione in tanti film di allora relativi a quegli stessi anni: tanti, ma non tutti, perché molti altri film di allora, fanno, invece, una pittura critica, talora perfino in accesso, assai spesso molto istruttivi ancora oggi. Non furono, però, neppure anni da ricordare con repulsione o con deprecazione. C'era la povertà, certo; e molti di quelli che parlano oggi di poveri ( e fanno bene a parlarne) neppure immaginano che cosa sia stata fino a ieri la povertà.
Ma c'era insieme una reazione alla povertà, che nel corso di quel decennio già cambiò radicalmente la condizione delle cose." Quella fu una reazione spontanea e generale: dei "padroni del vapore", che si diedero da fare per inserirsi nella serie A dei Paesi avanzati e in gran parte vi riuscirono: dei loro dipendenti e salariati, che, in condizioni salariali e normative ancora molto insoddisfacenti, si diedero da fare per lavorare e guadagnare il massimo in quelle condizioni e lottarono, con parecchi risultati positivi, per migliorare, avviando un processo di avanzata dei loro diritti o richieste che si sarebbe poi dimostrato irreversibile e progressivo di coloro che erano fuori del grande giro dell'economia nazionale ed ebbero e colsero allora la possibilità di entrarvi, approfittando delle occasioni offerte da un grande ampliamento e modernizzazione del mercato del lavoro, che - caso eccezionalissimo in Italia - giunse alle soglie della piena occupazione: dei contadini e dei montanari del Veneto, del Friuli, del Mezzogiorno, delle isole e di altrove, che, dopo aver disperatamente lottato per la terra, se ne allontanarono in massa e, visto che il lavoro e la modernità non andavano da loro, andarono loro a trovarli, e nei luoghi del loro afflusso ne divennero spesso protagonisti.
Quando l'Italia fu messa a soqquadro dall'attentato a Togliatti, e De Gasperi - che per i dossettiani non aveva gran simpatia - era in cerca di diversi pacificatori, Fanfani avviò a tambur battente un suo piano per la costruzione di alloggi popolari. Il bello - o il brutto - è che De Gasperi vedeva probabilmente nel progetto soltanto un espediente. Fanfani, che invece l'aveva preso sul serio, si lamentò per l'iter parlamentare della legge procedeva a rilento. De Gasperi si stupì. " Pensi sempre al tuo piano?" Gli chiese. E forse ancora più stupito fu che con quel piano fosse dei pochi che giunsero bene o male in porto.
" Nacque da questa grandiosa epopea nazionale il " miracolo italiano" che tale, in effetti, fu nel senso, naturalmente, che i " miracoli" hanno e possono avere nella storia): un "miracolo" per cui, in assoluto, il decennio fra gli inizi degli anni '50 e gli inizi degli anni '60 non ha praticamente confronto con altri periodi della storia italiana per la portata del balzo in avanti allora compiuto dell'economia e dalla società nazionale, aprendo, insieme, allo stesso tempo le frontiere agli scambi delle merci, la cultura a nuove e svariate voci del tempo e il costume e le mentalità a un rinnovamento appena un poco più lento. E' stato il periodo della meccanizzazione di massa, alcune delle grandi infrastrutture del Paese, il passaggio a un nuovo livello quantitativo e qualitativo dei consumi, l'avvento della " civiltà televisiva" e tante altre cose dell'attuale Italia moderna nacquero allora, mentre si elevava il livello medio dell'istruzione e si determinavano nuove esigenze materiali e morali in tutta la vita civile.
" Vi fu anche - continua Giuseppe Galasso - un impegno dello Stato e della classe politica che consentì non solo di accogliere, ma anche, favorire e guidare il progresso ambito e realizzato: un impegno che avviò, fra l'altro, nel prevalente scetticismo e nell'opposizione di tanti che oggi parlano una diversa lingua, l'integrazione europea del Paese. Non tutto ciò che allora parve possibile, si tentò e si sperò fu poi realizzato o fu realizzato al meglio, ma vi fu anche altro a cui non si era pensato e che si realizzò, non solo nel peggio, ma anche ( e molto, allora) nel meglio: un rovescio della medaglia: un rovescio terribile per alcuni aspetti (delle sofferenze degli emigranti al primo estendersi della malavita organizzata fuori dei suoi confini tradizionali, per dirne solo qualcuna); e, tuttavia, nello spirito e nei comportamenti degli italiani la cifra di quegli anni non fu data dal rovescio, fu dal diritto della medaglia".
Nel ricordo e nella memoria del nostro passato prossimo, è riduttivo parlare di "anni della speranza", perché mai come allora si vide che cosa sia la speranza quando è operosa e ricca di propositi e ambizioni anche ardite, ma non velleitarie. D'altra parte, sarebbe ancora più errato parlare di "anni della nebbia" e, soprattutto, di "anni spaventosi": nessuno allora si spaventò, neppure quando ci siamo trovati fra le (barricate, nei tumulti di piazza, quando il nostro Paese fu messo a soqquadro dall'attentato di Togliatti,) e pochi si arrabbiarono davvero. La rabbia ( a torto nel fondo, ma a mio parere, non senza qualche ragione venne dopo, alla fine degli anni '60; e sulla spaventosità delle condizioni da cui ( per la verità, non in tutta l'Italia) si partiva prevalevano di gran lunga la sensazione e la soddisfazione di allontanarsene. La mitizzazione di quegli anni, e tanto più un loro rimpianto, non hanno senso ( o hanno il senso di indicare che non si sa né pensare, né immaginare altro da quel che si immaginò e si pensò allora, oppure, ancora, hanno il senso di tentare più o meno sensate operazioni ideologiche). Ma neppure i rigetti immotivati hanno un senso. A ciascuno il suo. Agli anni '50 il ricordo doverosamente ( per chi non lo sente spontaneamente) equo e grato dell'aspra e acerba adolescenza, non priva di allegria, di un Paese moderno in erba".
Il ricordo di quegli anni, se anche nella turbolenza dell'Ordine Pubblico, sono gli anni più belli della mia giovinezza, perché hanno contribuito alla mia formazione professionale e culturale. Sono gli anni in cui ritornai nuovamente sui banchi di scuola, per acquisire quelle conoscenze letterarie, che prima, a causa della guerra, non avevo potuto portare a termine. Sono ritornato con entusiasmo ai vecchi libri della sapienza e della conoscenza. " Una borsa di conoscenza e di sapienza vale più di una piena di perle", osservò anticamente il patriarca Giobbe.
La storia parla all'anima più che gli spettacoli della natura e l'uomo non vive che di memorie. E' ne è convinto tanto nel profondo, che non esita a confessare di aver provato più intensa emozione nel contemplare le rovine di Siracusa che nello spaziare con lo sguardo su quasi tutta la Sicilia dall'alto dell'Etna.
A tutti questi ricordi del nostro passato prossimo, che si animano per me sulla veranda, dove da un pezzo sono seduto per ammirare il tramonto del sole, in questo pomeriggio dolce d'autunno non ci do un'importanza smisurata. Non credo affatto che il passato basti per comprendere il futuro.
(Tratto dal libro: "Oltre l'orizzonte")   

Il primo turismo
Noi crediamo di essere stati noi, nel nostro Tempo tecnologico, consumistico e telematico ad aver scoperto il turismo, i luoghi di villeggiatura, gli angoli più belli del nostro Paese. Noi abbiamo soltanto creato il turismo di massa, il caos sulle strade, sulle spiagge, sui luoghi turistici e nelle città d'arte. Abbiamo soltanto deturpato, brutalizzato gli angoli più belli delle meravigliose coste della penisola, con le colate di cemento, per costruire ville e villette a forma di scatole. No! Non siamo stati noi a scoprire il primo turismo, ma i romani, naturalmente. Iniziarono quindi a costruire sulle isole una serie di dimore patrizie che si possono ammirare anche adesso. Alla Gorgogna, al Giglio, a Giannutri e ovviamente all'Elba i resti romani testimoniano della sontuosità delle dimore e del fascino che anche allora le isole dell'arcipelago dovevano avere. Dopo la caduta dell'Impero Romano, i cosiddetti " secoli bui" del Medioevo portarono miseria ed esodi su questo arcipelago. Alcune isole furono ripopolate dai cristiani, che vi eressero rifugi e più tardi monasteri. A Pianosa fu scavato un complesso catacombale, considerato il più importante a nord di Roma. In questi secoli storia e leggenda si intrecciano, come nel caso del vescovo di Palermo, Mamiliano, che sfuggì ai Vandali rifugiandosi a Monte Giove. Qui combatté e sconfisse un drago, e l'isola fu quindi ribattezzata Monte Cristo. Capraia fu visitata da Eudossio, e San Cerbone, vescovo di Massa Marittima e Populonia, si rifugiò, per sfuggire ai Longobardi, sull'Elba. I pericoli maggiori però, qualche secolo dopo, dalle scorrerie dei pirati saraceni. Gli abitanti, come accadde per esempio in Sardegna, si rifugiarono all'interno, in zone arroccate e ben difendibili, dove vivono ancora oggi. Le opere fortificate vennero di conseguenza. I maggiori costruttori di fortezze ( il castello del Giglio è opera loro) furono i pisani, che dal secondo millennio iniziarono a far sentire la loro influenza sull'arcipelago. Dopo un breve periodo in cui alcune isole caddero sotto i genovesi e altre appartennero invece agli Appiani di Piombino, dal Cinquecento in poi tutto l'arcipelago divenne terra di conquista per le potenze italiane e straniere, che cercavano un importante avamposto sul Mediterraneo. La cultura dei Medici portò al nascita Cosmopoli, l'antica Portoferraio, voluta da Cosimo I: un bel centro storico, difeso da tre forti ( Stella, Falcone e La Linguella), e delle Torri del Martello e di Porta a Mare. Nel Seicento l'Elba subì anche l'influenza spagnola: la Fortezza di Porto Azzurro fu costruita da Filippo III di Spagna. La cultura spagnola dell'Elba ha la sua opera più affascinante nel santuario della Madonna del Monserrato. Nel Settecento le isole dell'arcipelago videro anche gli inglesi, che furono però sconfitti nel 1797 della flotta di Ferdinando III di Toscana. Importantissimo per la storia dell'isola d'Elba fu il breve periodo, non più di dieci mesi, in cui sovrano dell'isola ( attenzione, non prigioniero!) Fu Napoleone Bonaparte. L'Imperatore decaduto fece costruire la Villa dei Mulini a Portoferraio e la dimora di campagna di San Martino. La presenza dell'Imperatore si percepisce anche nella Fonte del poggio, che porta il suo nome, e in alcune storie, o leggende, che risalgono al periodo napoleonico.
L'Ottocento e il Novecento vedono ancora preminenti le miniere sull'Elba, come quella di Porta Calamita, che abbia visitato alcuni anni fa, che è il fulcro di un'area ben conosciuta in passato per le sue miniere ricche di minerali di ferro. Oltre alla miniere vi sono state le costruzione di penitenziari su alcune isole vicine. Solo nel secondo dopoguerra le miniere iniziano a generare meno profitto, e insieme a alcune attività tradizionali, come la tonnara dell'Enfola, vanno in dismissione. In compenso, è aumentato il turismo di massa, il turismo mordi e fuggi, che ha la durata del fine settimana. Negli ultimi quarant'anni l'economia si è quindi spostata decisamente verso il turismo.
Alcuni anni fa, mentre visitavamo una villa romana nell'isola di Giannutri, che è un proseguimento della costa toscana, la parte emersa di una montagna calcarea sottomarina, che fu eretta dal Domizi Enobardi nel I . II secolo. Una grande terrazza con colonne che offre uno splendido panorama sul Tirreno, uno dei tanti visitatori del gruppo, ha così commentato nel suo linguaggio coatto, in quel linguaggio caratteristico dei partenopei, conosciuto in tutto il mondo: " Altro che noi, sono stati questi intraprendenti romani, che hanno scoperto il turismo e gli angoli più belli del nostro meraviglioso Paese. Ovunque sono stati, hanno lasciato tracce della loro presenza, della loro storia, della loro genialità, della loro cultura e della loro arte". Quel signore, aveva veramente ragione.
(Tratto dal libro: "Oltre l'orizzonte")     

L'amicizia.
Oh! Si, l'amicizia. Un vecchio proverbio dice che non è mai troppo tardi per scoprire le cose belle della vita come l'amicizia.
Noi abbiamo scoperto tutto questo quasi al tramonto della nostra vita. Non che prima non conoscevamo il valore intrinseco di questo sentimento che è dentro nella natura stessa degli uomini, nell'intimità dell'animo umano, ma essendo militari era naturale che i nostri rapporti dovessero mantenersi sempre su di una linea tale da permetterci di conservare in ogni dove quell'indipendenza che è necessaria al tutore dell'ordine e della legge.
Non, quindi, eccessiva dimestichezza o familiarità, con confidenze che non sarebbero in armonia con quella particolare posizione. Bisognava soprattutto essere assai guardinghi nell'accettare inviti e nell'entrare in rapporti, anche di famiglia, con privati.
L'imparzialità, il sapersi mantenere al di fuori e al di sopra di ogni cosa, l'umanità, il senso della misura nell'adempimento di ogni dovere, il mantenessi lontani da ogni eccessiva familiarità, l'essere prudenti e soprattutto riservati, costituivano altrettante necessità per la buona riuscita del nostro servizio,
Sono passati molti anni da quando abbiamo lasciato il servizio attivo è tutto è cambiato, non ci sono più quelle esigenze di carattere militare, con quella particolare posizione e quella indipendenza che era necessaria al tutore dell'ordine e della legge.
Da quando abbiamo scoperto la montagna, abbiamo scoperto dei canali unici per conoscere individui che hanno la medesima tendenza. Camminando insieme ci si accorge che, indipendentemente dalla professione che ciascuno svolge, si hanno gli stessi sentimenti, si hanno delle comunanze tematiche. Abbiamo compreso che non c'è differenza tra vecchi, giovani e anziani. Si vive un'atmosfera che consente all'anziano di vivere i tempi passati ed al giovane di stare con l'anziano e già prefigurarsi il suo futuro. Tutto questo affina lo spirito ed abitua i giovani ad avere sempre il culto della natura. Camminando con questi uomini ci siamo accorti, giorno dopo giorno, di aver scoperto la vera amicizia.
Ci siamo domandanti più volte, ma che cos'è l'amicizia? Esistono ancora quei valori umani e religiosi, quegli ideali a cui gli esseri umani si ispirano e nei quali credono? Io credo di si. L'amicizia è una delle forme spontanee in cui si manifesta la solidarietà tra gli uomini. L'amicizia è il legame di affetto che si stabilisce tra due persone, sulla base defila comprensione spirituale, della confidenza, della stima reciproca e con l'esclusione dell'utile ( almeno come scopo diretto).
L'amicizia è una delle occasioni in cui più facilmente si percepisce l'esigenza umana di solidarietà, di vicinanza di altri esseri, simili a noi per pensieri e atteggiamenti, il bisogno d'affetto, di approvazione, da parte degli altri.
Una delle contraddizioni più stridenti della nostra epoca è data dalla condizione in cui si trova a questo proposito l'uomo moderno: mentre mai come oggi gli uomini sono avvolti da una fitta rete di comunicazioni, di parole, di immagini, di presenze di altri esseri viventi in tutto il mondo (radio - televisione - internet, giornali ,città affollate, stadi ricolmi, rapporti di lavoro e rapporti politici) l'uomo sente come mai prima il peso di una paurosa solitudine. Specialmente la grande città suggerisce questo senso di vuoto: le presenze sono quelle di estranei, la folla è anonima.
Gli uomini assorbiti dalle loro occupazioni, si scambiano rari, convenzionali manifestazione di rapporti umani; i giovani, costretti nelle ore del mattino all'isolamento da un medioevale sistema scolastico, passano per lo più il pomeriggio nelle loro rispettive abitazioni, spesso soli - i genitori sono al lavoro - cercando contatti umani per telefono e nei mezzi di comunicazione di massa.
E' così come qualcuno ha scritto, i giovani passano via in una monotonia che avvizzisce sentimenti, illusioni, speranze. Ma il sabato sera si ritrovano nelle mega - discoteche, ove si stordiscono con la musica e con le droghe, confondendosi fra quella folla omogenea e indifferente, con le note conseguenze......
(Tratto dal libro: "Oltre l'orizzonte")        

Le Dolomiti
Finita la carriera militare, abbiamo iniziato quella escursionistica, con gli amici del CAI di Mantova. Qui, oltre di aver scoperto la natura, abbiamo scoperto anche l'amicizia, camminando sui sentieri del nostro meraviglioso Paese.
Il modo di vivere moderno ha incluso tra gli "oggetti di consumo" anche le nostre montagne. Così scrive il presidente generale del CAI, Giovanni Spagnoli, in un suo articolo: "Esse, infatti, e soprattutto in tempi a noi prossimi, sono sempre più minacciate in due modi: per un verso dall'aggressione da parte di masse di fruitori e organizzatori del tempo libero che vi hanno individuato ampi, insospettabili spazi per le loro evasioni più o meno rilassanti e per proficue speculazioni fondiarie ed edilizie e, per un altro verso, dall'abbandono di sedi e attività da parte di montanari anch'essi attratti dai modelli consumistici ed alla ricerca di nuove, più ricche fondi di reddito.
Tutto ciò si traduce in un progressivo, grave processo di deformazione e di degradazione dell'ambiente montano.
I soci del Club Alpino Italiano, che all'ambiente delle montagne si riferiscono come portatore di alcuni dei valori essenziali per la formazione e la crescita armoniosa della personalità umana, sono da tempo mobilitati per scongiurare i pericoli di una alternazione dell'assetto delle aree montane che vi provochi irrimediabili dissesti. Da vent'anni, pur con scarsi mezzi e scarsi poteri, spesso tra l'indifferenza e l'ostilità della gente e delle istituzioni, si adoperano con alacre impegno a difendere tale dovizioso patrimonio culturale allo scopo di conservarlo integro nell'interesse vero degli Italiani, sia cittadini che montanari, delle attuali e delle future generazioni".
Da molti anni, siamo soci di questa sana associazione, e in tutti questi anni, abbiamo compreso che essa è ispirata, non senza qualche ottimismo, alla convinzione che i dissesti cui è soggetta la montagna ai tempi nostri siano anche conseguenza di scarsa informazione sull'entità, i caratteri, la natura delle ricchezze ambientali che la montagna propone a chi la avvicina per la prima volta, come è successo a noi, che di montagna non sapevamo che cosa fosse, anche solo per goderne gli aspetti esteriori e che, pertanto, una più approfondita e scientificamente sicura conoscenza ne promuova, come sempre avviene, un amore più autentico e quindi una spontanea, premurosa difesa.
Camminando, passo dopo passo, su questi sentieri, abbiamo compreso che la grande forza sprigionata da queste austere montagne, ha grandemente appianato le numerose divergenze dovute alle diverse realtà storiche ed umane, delle molte vallate che vi si addentrano che le circondano. Queste superbe montagne dolomitiche, uniche al mondo per la loro estrema varietà di forme e di contrasti, le Dolomiti si possono definire il regno dell'armonia e la fonte di perenne giovinezza.
Siamo nel pieno della calura d'agosto, in questa pianura padana infuocata e afosa, che a volte ti manca perfino il respiro , per la grande umidità che c'è nell'aria e ti blocca i muscoli degli arti inferiori. Dopo di aver lasciato le fresche coste dell'Adriatico, in attesa della imminente pausa estiva, mi voglio soffermare, a "guardare" per poche e insufficienti righe, sul filo della memoria, quelle che vengono definite le montagne più belle del mondo.
Le Dolomiti sono la meta desiderata per chi vuole distaccarsi completamente, per il tempo che gli è concesso, dalla sconsiderata realtà urbana, irrazionale conquista di una vita cittadina moderna, che spesso non vuol dire società o comunità, ma, al contrario, significa purtroppo passivo subire degli eventi, costretti come siamo dagli ovvi e giustificati motivi della ineluttabile quotidianità di lavoro, che sempre più ci allontana dalla dimensione umana che non più tardi di cinquant'anni fa abbiamo incominciato a calpestare. Un certo signor Deodat Sylvain Tancredi de Grated de Délomieu, celebre esperto e studioso di geologia alpina di duecento anni fa, scoprì la composizione della roccia dolomitica, formata da un "misterioso calcare contenente magnesio", per cui il moderno nome di Dolomiti. Credo che sulle Dolomiti si sia stampato e scritto tutto, ma concedetemi questo appunto estivo che ha la pretesa di avere il solo significato di una cartolina illustrata e di un omaggio alla nostra Italia che possiede anche questo tesoro naturale. Quello delle Dolomiti è un paesaggio che definirei " inumano" per tanta grandezza e complessità: è però un meraviglioso dono del creato per l'Uomo.
Nelle numerose escursioni in questo mondo irreale e metafisico, mi sono più volte fermato ai piedi di questi colossi, per ammirare la loro bellezza e tutte le volte mi sono sentito una nullità, un piccolo moscerino nei loro confronti. Arditi profili, rocce articolate, creste bizzarramente sagomate e frastagliate risultano ovunque in primo piano spesso assumendo l'incantevole aspetto di una fiabesca e capricciosa ricostruzione.
Attraverso la complice costituzione geologica, principale responsabile, le Dolomiti ci offrono la suggestione delle grandi cime, delle splendide vallate, dei pittoreschi laghetti e di quell'incalcolabile quantità di verde e di fiori rari.
Uno si trova sperduto di fronte a questa architettura prodotta dalla natura in milioni di anni, che spesso, in tanti angoli d'Italia, ci viene generosamente concessa, qui appare sorprendente e supera ogni immaginabile forma, diventa un fantastico scenario quando sopra l'intenso verde di una valle, punteggiata di una miriade di fiori variopinti, ecco, si stagliano massi angolosi e squadrati, tagliati da chissà quale mano a formare torri e bastioni merlati, cime aguzze e taglienti che si ergono quali poderose ed insuperabili parete a difesa del cielo.
E cosa dire, quando sei fermo in una cengia strapiombante, con un paesaggio mozzafiato ed osservi meravigliosi colori con i quali si tingono le rocce? E' il colore del tempo, è il colore della forma che con la potenza del sole e al variare della sua posizione fa assumere alle rocce luminosità diverse, nelle varie stagioni e nelle varie ore del giorno. Quando al tramonto, il gruppo del Rosengarten assume un'intonazione rosata la prima volta si resta estasiati, che perfino non hai voglia di proseguire, per non perdere quella meravigliosa apparizione, ma poi uno si abitua, però è sempre una emozione nuova che premia il tuo intimo, il gusto del raro e dell'esclusivo; è uno spettacolo di fronte al quale non è dato di immaginare nulla di più emotivo ed entusiasmante, ma, nel contempo tranquillizzante e rilassante; qualche momento di contemplazione di quei colori, perché solo un momento è la durata del fenomeno, quasi un premio dopo la sana stancante salita fino alla cengia, ma quella passeggiata, se passeggiata vogliamo definire quella escursione che a volte ha la durata di 7 o 8 ore: è una riconciliazione con te stesso e con la natura.
La serenità e la tranquillità è propria della gente delle Dolomiti, gente d'antica origine, severa custode sempre a difesa del proprio patrimonio culturale e naturale.
A quella gente, che noi del CAI di Mantova, stimiamo molto, fatta di instancabili lavoratori, va il merito di aver sapientemente adeguato ai tempi il " lavoro nuovo", quello del turismo, non distaccandosi però dalla dimensione dell'uomo, nell'assoluto e rigoroso rispetto della natura, salvaguardando fauna e flora.
"Contemplazione e riflessione - come scrive Massimo Carlesi - in un suo articolo sulle Dolomiti, bene si coniugano con il lavoro delle mani: ed ecco preziose sculture in legno di cirmolo, le fantasiose creazioni in ferro e gli splendidi pizzi confezionati dall'abile e velocissima manipolazione dei colorati fuselli di lino.
Neppure un ricovero per animali, semplicemente costruito, appare tale, quando intervengono mani che racchiudono antiche esperienze innate, e subito si trasformano in un luogo sacro, ove la sacralità è data dalla preziosa semplicità di modeste assi di legno sapientemente incrociate ed assemblate che vibrano attraverso la luce a sembrare una moderna cattedrale. E' la vittoria dello spirito semplice. Qui c'è l'uomo. Inconsapevolmente più vicino a Dio".
(Tratto dal libro: "Oltre l'orizzonte")        

Le tre cime di Lavaredo
La memoria è la storia del nostro passato ed i ricordi sono la nostra fortuna: c'è in loro tutta la bellezza del mondo e della natura che ci circonda. Odio il pensiero di perderli e di lasciarli svanire nel vuoto. Ecco perché voglio soffermarmi, a "guardare" per poche e insufficienti righe, un mondo meraviglioso che è stato teatro di grandi battaglie ed il banco di prova di ogni giorno per scalatori ed escursionisti alle prime armi, come noi.
Non è che questo è il momento delle confessioni della nostra vita, no di certo, quel giorno è ancora prematuro, ma questi sono ricordi, storie, avventure del presente. È difficile stabilire anche per noi, dove l'autobiografia sconfina dal presente al passato, la vita vissuta si trasforma in vita osservata, quando il raccontarsi è un semplice raccontare. Tutto nella vita è ricordo. Ma anche la nostra vita è stata piena di avventure, se avventure le vogliamo chiamare, durante la nostra lunga vita da comandante, che poi ad una ad una abbiamo bruciato con il passare degli anni. Ora sono rimasti soltanto i viaggi, i sogni, l'inseparabile pipa tra i denti che ci consentono, in una rete di richiamo sotterranei, di rintracciare le fonti delle nostre certezze e delle cose reali, di momenti felici sui sentieri pianeggianti e impervi del nostro meraviglioso Paese.
Quello è un sentiero classificato (EE), che vale addire per esperti escursionisti, e la sua pendenza supera i 90 %, quindi, occorre una buona dose di conoscenza della montagna e una borsa di sapienza, che vale più di una borsa di perle. Ma dove si può trovare oggi questa sapienza?. Dentro di noi stessi, naturalmente. Non bisogna strafare, bisogna affrontare la montagna con molta calma, pazienza, conoscenza, sapienza e soprattutto non avere mai fretta di arrivare, perché prima o poi, passo dopo passo, si conquistano le vette più difficili.
Il 21 agosto di 130 fa, c'è stata la prima escursione alle Tre Cime di Lavaredo. Il primo a conquistare " Le cime incantate" fu un giovane viennese nel 1869. Poi durante la Grande Guerra gli scontri tra gli alpini e le forze austriache per il rifugio Locatelli.
Franco Brevini, in un suo articolo del 20 agosto, sul Corriere della Sera, ne commemora quella storica data della " Scalata alle perle delle Dolomiti". In un certo senso, anche noi cerchiamo di rievocare la prima volta che ci siamo trovati al cospetto di queste " Cime incantate".
Sempre con il gruppo CAI di Mantova, verso la fine di settembre del 1995, cioè quattro anni fa, siamo partiti per una lunga escursione della durata di due giorni, alle Tre cime di Lavaredo. La sera precedente dell'escursione, abbiamo pernottato al rifugio " I Tre Scarperi", che è ubicato alle pendici di questi tre superbe cime, di cui il rifugio prende nome. Quello è un rifugio confortevole, che si differenzia dagli altri per i confort e la ricettività. In quel locale abbiamo trovato una comitiva di austriaci, veterani della montagna e molto affezionati alle Tre Cime Incantate. Quasi tutte le camere erano state occupate dal gruppo degli austriaci e noi ci siamo dovuti arrangiare nel sottotetto del rifugio. Ricordo che siamo partiti molto presto ed il sentiero della vallata era illuminato dalla luna. Questo chiarore lunare, dava al paesaggio e al greto del fiume che era in secca, un aspetto caratteristico, sembrava che fosse nevicato durante la notte. Alle prime luci dell'alba affrontammo il sentiero, che ripido sale verso la cima della montagna. Incominciano una serie di salti di roccia, interrotti da cenge franose che conducono sotto il secondo risalto. Ci fermiamo un momento per prendere fiato e vediamo a fianco a noi i resti di quella che fu la base di una teleferica militare. Proseguiamo lentamente, mentre il grosso del gruppo è sparito dietro il costone, dietro di noi c'è soltanto il nostro amico Rambo, che ci segue. Adriana mia moglie, ha accorciato i passi, procede più lentamente su verso la montagna, un passo dopo l'altro. Ecco, siamo giunti dove c'era il primo accampamento degli alpini. Ci fermiamo ed esploriamo il luogo: un basamento in cemento, qualche muretto e delle travi infissi nella parete. Più avanti una piccola galleria, forse sarà stata una postazione d'artiglieria o un nido di mitragliatrici. Di fronte a noi, nella vallata che da sulla nostra destra, una cima era illuminata dai primi raggi del sole: l'accendeva come la lava incandescente. Quella cima, con i suoi pinnacoli, aveva assunto un colore particolare, in quel cielo terso e cristallino, era tutta d'oro. Era piantata in un deserto di pietra, per questo ci appariva così maestosa. Proseguiamo verso la cima e percorriamo una serie di camminamenti: una stretta via scavata nella dura roccia per consentire spostamenti sicuri agli alpini fra trincea e trincea. Alle ore 10 circa, il costone impervio era finito. Avanti a noi si stendeva l'altopiano sassoso, con centinaia e centinaia di metri di camminamenti, piccoli fortini e postazioni. Ma la cosa più bella e spettacolare, non sono stati questi fortini e ridottini, ma i tre giganteschi scatoloni piantati in un deserto di pietra chiara. Una cappa compatta di nebbia ne inghiottiva la base, lasciando bucare nel cielo le tre cime illuminate dal sole, ma gli strapiombi gialli e neri delle pareti Nord si stagliavano repulsivi in quel paesaggio inerte, rigato solo dai voli dei gracchi. Quelle erano le Tre Cime Incantate.
Il lungo sentiero procede verso sinistra, in un paesaggio bellissimo e metafisico, fra mammelloni bassi e tondeggianti, ricoperti da uno strato basso d'erba secca, dove pascolano i caprioli e le marmotte.
In questo lungo e faticoso sentiero, abbiamo incontrato un esercito di neo escursionisti come noi, aspiranti alpinisti, scalatori neofiti. Ma come quell'anno la montagna è stata scoperta o riscoperta dal turista autunnale. Forse, ma sicuramente è così, tutti i giorni d'estate o d'autunno, è una continua processione di escursionisti che salgono e scendono da quella montagna meravigliosa. Ci disse una vecchia guida, che abbiamo incontrato sul nostro cammino: " I sentieri a volte si trasformano nei corsi delle città, le passeggiate tra gli abeti in uno "struscio" griffato. Con buona pace del silenzio, sacro sui monti. Ma ricordatevi che c'è una tradizione che purtroppo sta scomparendo: il saluto. Quel buongiorno pronunciato con il sorriso tra le labbra in ogni lingua, che da sempre si scambiano gli escursionisti, anche i più affaticati, come lo siete voi adesso. Un gesto che deve far parte del DNA di chi va per sentieri. Non è solo educazione, ma un modo per sapere che non si è soli, che qualcun altro sta facendo lo stesso percorso e può anche aiutarci. Una parola, quel £ buongiorno", che dovrebbe entrare nel vocabolario di chi si avvicina alla montagna, una parola che sarebbe bello non scomparisse". Quell'incontro è stato come una lezione di vita.
In un certo punto, sentiero si divide in due tronconi: il primo va verso Sud, mentre quello di destra che stavamo percorrendo noi, andava dritto al rifugio Locatelli. Lì, abbiamo trovato il grosso del gruppo CAI. Ci siamo rifocillati con una buona tazza di te e una grossa fetta di strudel. Prima di partire, abbiamo firmato il libro - vetta, per fare conoscere ai posteri che in quel luogo ci siamo passati anche noi. Dopo di aver scelto alcune cartoline storiche, che inseriamo in questo contesto, abbiamo ripreso il sentiero, che tutto in discesa, ci ha portati nella valle Prato Piazza, dove ha avuto termine la nostra escursione.
(Tratto dal libro: "Oltre l'orizzonte")     

Paesi di emigrati.
Cosoleto, il borgo aspromontano dove io sono nato, è stato da sempre un paese di emigranti, perché il lavoro non era sufficiente per tutti, perché il nostro Paese non era in grado di dare loro un avvenire sicuro. Sono emigrati in tutti i continenti, specialmente in quello americano. Anche mio padre e i suoi fratelli, prima che io nascessi, emigrarono in America, per cercare fortuna come migliaia e migliaia di altri lavoratori. Molti di questi emigranti non sono mai ritornati e si sono perfino perse le loro tracce in quel grande continente chiamato America.
Soltanto le numerose leggende sui ritorni degli emigranti fiorite tra il popolo ci solleticano a immaginare un uomo anziano in veste di pellegrino, col saio e la bisaccia, il viso nascosto sotto una folta barba grigia, il quale camminò per giorni e per notti e alla prima luce di un mattino raggiunse il suo paese. Temeva di essere riconosciuto ma la gente o non aveva mai udito il suo nome o se lo era scordato. Pertanto non gli fu difficile interrogare e apprendere che il vecchio padre era morto da tempo e che la moglie viveva coi figli già sposati nella piazza della fontana.
Il forestiero si portò nella piazza indicata, si guardò intorno e si mise ad aspettare. Giunse l'ora in cui le massaie scendevano a riempirsi i grossi recipienti di coccio d'acqua. Ultima venne la moglie, ancora fresca e piacente benché vestita di nero. Lui la riconobbe subito e l'emozione per poco non lo tradì. Arrivò tuttavia a domandarle per chi portasse il lutto.
" Per mio marito" rispose la donna riempiendo il contenitore alla fontana.
"Quando è morto vostro marito?" Tornò a chiedere il pellegrino.
" Non so se è morto. Sono anni che se n'è andato da casa".
" E voi portate il lutto per uno magari è ancora vivo?" Insistette l'altro.
La donna aveva finito di riempire d'acqua il suo coccio. " E per fargli sapere, se dovesse tornare, che lui per me è morto". Si pose il contenitore sulla testa e senza reggerla neanche con una mano rientrò a casa.
L'uomo non si allontanò per un istante, sempre in attesa che la moglie tornasse alla fontana e lui ritrovasse il coraggio di farsi riconoscere. Ma lei non si fece vedere neppure l'indomani mattina insieme alle altre donne.
Il pellegrino non mangiava da giorni e per spegnere l'arsura si dissetava direttamente alla fontana. A mezzogiorno, quando tutti erano a tavola, un marmocchio uscì dalla sua casa reggendo un involto che porse allo sconosciuto dicendogli: " Non sapete che ai forestieri non è permesso sostare sempre vicino alla fontana? Prendete, questo è per tenervi in forze durante il cammino, ma non dovete aprirlo finché non sarete lontano dal paese".
L'uomo che era ricco, rimase male nel vedersi scambiato per un mendicante capace di sporcare la fontana del paese che serviva per tutto il borgo. Temendo che lo stessero spiando dalle finestre e che qualcuno venisse a scacciarlo con le brutte, mise il pacchetto nella bisaccia, infilò questa nel bastone e di diresse verso la strada maestra.
Non appena si fu allontanato dalle case si sedette sotto un secolare castagno e tirò fuori l'involto. Sciolse i nodi del tovagliolo, lo aprì. C'era del pane, c'erano due uova sode e avvolto in una cartina doveva esserci il sale. Come svolse anche quest'altro involtino, qualcosa gli brillò tra le mani. Era una piccola fede nuziale.
Questa leggenda, se leggenda la vogliamo chiamare, me la raccontò più volte una mia vecchia zia,;suo marito era emigrato moltissimi anni prima in Australia, senza fare più ritorno. Di lui si sono perse le tracce, come di moltissimi altri miei concittadini.
(Tratto dal libro: "Oltre l'orizzonte")        

I Monti Pallidi.
Chi abbia visto una sola volta lo spettacolo delle Dolomiti può comprendere come sia nata la leggenda secondo cui Tiziano Vecellio intingesse i suoi pennelli nell'arcobaleno dei Monti Pallidi. Il pittore di Pieve di Cadore, una delle figure più rappresentative della pittura italiana del Cinquecento, si formò artisticamente a Venezia ma è lecito pensare che il suo personalissimo stile, caratterizzato dalla natura e dai colori del Cadore. Ce lo confermano precise annotazioni nelle sue tele, come nel caso della Presentazione al tempio ( Venezia, Galleria dell'Accademia) in cui, profondo e arioso, compare sullo sfondo un paesaggio montano delle Dolomiti
Bello è poter vedere le rossastre vampate che al tramonto si mescolano col giallo striato delle nude rocce, cosicché un fuoco sembra restare acceso mentre intorno calano cupe le prime ombre della sera., all'ombra del fascino e della magia delle scogliere dolomitiche: le Tre cime di Lavaredo.
" Come si fa a dipingere il sole quando ci si sta dentro"?
Noi italiani non valorizziamo abbastanza questo nostro grande patrimonio naturalistico e culturale, questo paradiso terrestre, e a volte, non ci accorgiamo neppure di vivere nel Bel Paese: nel Paese più bello del mondo. La giornalista danese, Lisbeth Davidsen, corrispondente dall'Italia per un noto settimanale, così scrive: " Come si fa a dipingere il sole quando ci si sta dentro? Ci sono due motivi per cui sostengo che comunque gli italiani dovrebbero andare di più all'estero. Innanzitutto perché anche il paradiso, alla lunga, annoia. E se non hai mai visto altro non ti accorgi nemmeno di stare in paradiso. Se vedi ogni giorno le Dolomiti o la Costiera Amalfitana, come fai a sapere che quelle sono tra le località più belle d'Europa? Così si interrogava nel lontano 1843 il mio illustre connazionale Hans Christian Andersen. Il celebre scrittore di favole era in viaggio in Italia, Paese di cui era profondamente innamorato. Con lui, in quell'epoca, una schiera di poeti e pittori danesi giunsero nel Belpaese. A Roma, si riunivano nel suggestivo Caffè Greco, vicino a piazza di Spagna, e passavano ore e ore a parlare del colore di un muro o del meraviglioso ritmo della lingua italiana. Se allora con tutti i problemi di trasporto che c'erano, si sottoposero a quel lungo e massacrante viaggio pur di vedere la luce e il paesaggio italiano, viene da chiedere come mai oggi gli italiani fanno la fila alla frontiera per passare le vacanze all'estero?
Ebbene, la domanda non può che avere questa risposta: meno male che gli italiani vanno all'estero. Anzi, ci dovrebbero andare ancora di più e - ecco la prima proposta - con una rete di sicurezza meno fitta. Mi spiego. Da straniera che vive a Roma, sono sempre stata colpita dalla quantità di piccole e grandi manie degli italiani: la paura dei germi, l'esagerata attenzione per l'abbigliamento, la dipendenza dal caffè espresso. Nessuno muore, neanche un italiano, se per una settimana o due non beve l'espresso o non mangia la pasta. Ma il legame alle abitudini e alla quotidianità rientrano nelle manie degli italiani. E' una sorta di cordone ombelicale con cui si difendono dalle cose sconosciute, è un modo di uscire senza lasciare completamente casa. Ecco perché gli italiani - salvo le eccezioni che ovviamente ci sono - di solito sono più turisti che viaggiatori. Un danese difficilmente passerebbe una vacanza all inclusive in un resort turistico nei Caraibi. E' più probabile trovarlo, da solo, in una giungla brasiliana con lo zaino sulle spalle. L'italiano medio, invece, preferisce di gran lunga la comodità dell'albergo di lusso all'avventura piena d'incognite.
Ora se l'anima italiana fosse fatta solo di manie e dipendenze, certamente l'italiano passerebbe le vacanze a giocare alle carte col vicino di casa. Sappiamo tutti che non è così. L'italiano è strapieno di curiosità e voglia di fare, due caratteristiche che gli fanno superare le ansie.
Porti gli ospiti a vedere la Sirenetta di Copenaghen che, a mio parere, è il monumento più sopravvalutato della Scandinavia, e vanno in estasi. Li accompagni a vedere un castello ed esaltano. Li porti in giro a guardare il paesaggio e urlano di piacere ogni volta che vedono una casa con il tetto di paglia. Al ritorno ti cucinano i loro piatti (italiani) preferiti, e non ti fanno neanche lavare le stoviglie".
Ha veramente ragione la signora Lisbeth Davidsen: noi italiani siamo tradizionalisti, e facciamo fatica a staccarci dalle nostre radici, dalla nostra terra e dalla dipendenza della pasta e del caffè. Ma quando scopriamo altri orizzonti, altri paesaggi, altre bellezze, urliamo di piacere, perché scopriamo una cosa nuova mai vista. Per un momento, dimentichiamo le bellezze paesaggistiche, storiche e naturalistiche del nostro meraviglioso Paese. Nelle nostre esperienze escursionistiche, nei Paesi europei e oltreoceano, con speciale riferimento ai Parchi Naturali dell'America, di cui ne abbiamo parlato in questo nostro contesto letterario - escursionistico, siamo rimasti estasiati di fronte a tanta bellezza. Per quanto riguarda la dipendenza dal caffè espresso, dalla pasta e dalla cucina mediterranea, non è successo nulla. Ci siamo adeguati agli usi e costumi dei paesi che ci hanno ospitati. Di fronte al Grand Canyon, al Monumenti Vally, abbiamo persino dimenticato il fascino e la magia delle scogliere coralline dolomitiche: le Tre Cime di Lavaredo, che sono una delle sette meraviglie del mondo.
Per quanto riguarda la pasta e la cucina mediterranea, con gli aromi e i profumi della nostra terra, non è successo nulla, come pure per il caffè espresso. A proposito di caffè espresso, dopo quindici giorni di escursioni nel Nord Ovest degli Stati Uniti, sapete dove abbiamo assaporato una buona tazza di caffè all'italiana? In un minuscolo emporio, nel pieno deserto dell'Arizona.
" Come si fa a dipingere il sole quando ci si sta dentro?", così si interrogava nel lontano 1843 Hans Christian Anderson. Il celebre scrittore di favole. Noi né abbiamo compreso il senso e il pensiero del grande scrittore, viaggiando oltre l'orizzonte, per capire la differenza, tra il nostro Pese ed il resto del mondo.
Mi diceva un mio vecchio comandante: " Non ti deve mai fermare alla prima osteria, forse nella seconda il vino è più buono". Se si vuole sapere che cosa c'è dietro l'angolo, è decisamente più facile andare a vedere di persona per rendersi conto, senza farselo raccontare dagli altri.
La scoperta di un paesaggio, di un tramonto, di un monumento, di una città, la rievocazione di un momento lirico, ci appagano nel tempo, perché " tutto nella vita è ricordo, bellezza e gioia di vivere".
(Tratto dal libro:"Oltre l'orizzonte")     

I ladri di polli.
In tutta la nostra carriera militare, al servizio della Legge, abbiamo registrato moltissimi casi, alcuni piacevoli ed altri tristi, come quello che abbiamo cercato di descrivere sopra, ma questi sono i casi della vita che ognuno di noi incontra e sono sempre avvenimenti fortuiti, inaspettati ed in pensati. Questi casi non sono semplici casi, ma sono violazioni della Legge, quindi, sono reati, per i quali era nostro dovere intervenire.
Per rimanere a Commessaggio, diremo che questo villaggio prettamente agricolo, sorge a mezzogiorno di Gazzuolo, in quella pianura un tempo acquitrinosa, in quella terramaricola, che fu la patria di Vespasiano Gonzaga. Commessaggio, come Gazzuolo e Belforte, sono piccoli centri, piccoli agglomerati urbani che un tempo, nel lontano Medioevo, erano amministrati e quindi sottoposti ai Gonzaga e compresi nel territorio della nostra giurisdizione.
Anche in questo villaggio la cui economia si basa prevalentemente sull'agricoltura, troviamo una magnifica torre, eretta da Vespasiano Gonzaga, quale fortezza e caposaldo territoriale difensivo, posto appunto a difesa del borgo, collegata ad un valido ponte levatoio, che supera un canale irriguo. All'interno del "Torrazzo" oltre a bellissime sale e saloni si può ammirare una magnifica opera d'arte di alta ingegneria, sia nel modo in cui venne costruita, quanto nella tecnologia in cui gli scalpellini scappellarono i blocchi di marmo rosso di Verona, per ricavare gli elementi ad incastro, che compongono il complesso della scala a chiocciola che sale a spirale.
Il " Torrazzo", oltre che residenza estiva di Vespasiano, era una vera fortezza inespugnabile, costruita interamente in cotto, e con le tecnologie più avanzate in quel tempo. Tutto questo non c'entra niente con il nostro caso, ma c'entra per inquadrare e descrivere il borgo di Commessaggio.
All'ombra del " Torrazzo", all'epoca in cui risale il nostro racconto, vi era ubicata una vecchia osteria, che noi indichiamo con un nome convenzionale : l'osteria del Ponte. Era un edificio grigio, con il muro sgretolato, ammuffito dal tempo che faceva vedere i mattoni rossi d'argilla cotti al sole. Il vecchio mondo stava cambiano, ma il vecchio borgo era rimasto quello di sempre, quello dei Gonzaga. Sono ancora in piedi gli edifici medioevali, le torri dove i giannizzeri facevano la guardia e facevano anche razzie di polli nelle campagne circostanti. Nel registrare, giorno dopo giorno, una serie di piccoli reati, mi sembrava che il tempo si fosse fermato a quei lontani tempi della storia. Ma molta acqua era passata sotto il ponte levatoio del " Torrazzo", e nelle campagne circostanti si continuavano a rubare i polli, come succedeva con i giannizzeri della fortezza di mattoni rossi.
Quello era il periodo più buio della storia nostro Paese, era il periodo sanguinoso delle Brigate rosse. Non solo i carabinieri di Gazzolo, ma tutte le forze dell'ordine di tutta l'Italia, eravamo impegnati a combattere quella piaga terroristica, che si stendeva a macchia di leopardo, uccidendo e terrorizzando gli uomini più impegnati politicamente, nella cultura, nell'industria e nel giornalismo: culminando con il sequestro prima e l'uccisione dopo del presidente del Consiglio Aldo Moro. Tra un posto di blocco all'altro, c'era anche il tempo per registrare e perseguire chi violava la legge, come appunto i ladri di polli, piccoli furtarelli nelle aziende agricole e negli appartamenti, reati comunque, di poco conto. Il nostro territorio non era un angolo felice, ma neanche di grande emergenza delinquenziale, come la microcriminalità, la mafia, la corruzione e il terrorismo. Non avevamo ancora raggiunto il periodo massimo del consumismo, ma quello era un periodo di transazione, e quindi non si registravano casi di grande povertà. Commessaggio, come abbiamo detto sopra, era ed è un centro agricolo, non proprio alla avanguardia, ma neanche l'ultima ruota del carro, e chi vuole lavorare non faceva molta fatica per trovare il lavoro. Per dire la verità, facevamo fatica a comprendere e ad individuare la fonte criminosa di quella razzia di animali da cortile. Non pensavamo che potessero essere giovani del luogo, ma di altri paesi limitrofi, oppure da nomadi. E' proprio vero, che scavando, scavando, prima o poi si scoprono le tombe.
Eravamo nel periodo post natalizio. Le feste erano finite, ma le serate erano lunghe da trascorrere in famiglia o al Bar. In quell'anno, era nevicato abbondantemente e la campagna padana assumeva una vista caratteristica tutta coperta di neve. Fu uno di quei giorni cupi e freddi, che alcune persone di Commessaggio, vennero a denunciare l'ennesimo furto di polli e di conigli. Le nostre indagini ci hanno portato sulla traccia giusta. Aspettavamo di conoscere il giorno e il luogo dove si sarebbe tenuto il banchetto goliardico, scanzonato, spensierato al limite della spregiudicatezza. Un mattino d'inverno, freddo e pungente, mentre i campi erano ancora coperti da quella coltre di neve gelata, dai fossi si alzava una nebbiolina bassa e leggera che avvolgeva il paesaggio, che potremmo definire metafisico per la sua astrusità. Ci siamo fermati poco prima del bivio di Commessaggio, ove abbiamo istituito un posto di blocco volante, per il controllo della circolazione stradale. Nel corso del nostro servizio, abbiamo fermato e controllato alcuni autoveicoli, senza rilevare alcuna irregolarità. Un trattore, con il relativo rimorchio carico di letame, condotto da una persona di nostra conoscenza, si è fermato ed il conducente si è avvicinato, dicendoci: " Buon giorno signor comandante, questa mattina fa veramente freddo, ma questa sera in quel tale posto, ci sarà molta allegria, farebbe bene facesse una capatina". Avevo recepito il messaggio.
Il giorno prima, parlando con il messo comunale, ero venuto a conoscenza che la festa della classe del '57, si sarebbe tenuta all'osteria del " Ponte". Conoscevo uno ad uno quei giovani di leva, era una cosa normale, per un comandante di stazione, conoscere tutte le persone del proprio territorio. Non solo li conoscevo di vista, ma conoscevo anche e soprattutto, la loro capacità a delinquere. Erano bravi ragazzi, ma per trascorrere una bella serata in compagnia, sarebbero stati capaci di rubacchiare qualche cosa. Tre di loro, di tanto in tanto, si divertivano a prelevare due polli qui e due conigli là, fino a quando il congelatore non fosse pieno. Conoscevamo anche il luogo dove erano tenuti i polli e i conigli, ma non siamo intervenuti perché volevamo dargli una buona lezione. I preparativi della grande buffata era giunta. Verso le ore 18 circa, di una sera di gennaio, una telefonata molto confidenziale e attendibile, ci informava che alle ore 19 precise, avrebbe avuto luogo l'inizio della grande cena. Alle ore 19 precise, anche noi varcavamo l'ingresso nel locale. Tutti i commensali sono rimasti di stucco, sembravano tante statue di gesso, non si aspettavano la nostra visita, mentre dalla cucina giungevano i profumi delle vivande appena sfornate, pronte di essere servite.
Epilogo : abbiamo proceduto a termine di legge, sequestrando tutti i polli, compreso il brodo dei capponi, portando il tutto alla casa di riposo " Caracci" di Gazzuolo. I ladri di polli sono stati denunciati a piede libero per furto continuato e aggravato, in base all'articolo 624 - 625 del C.P. Ai nostri amici coscritti, non è rimasto altro che l'acquolina in bocca e il profumo dei polli arrosto.
Si, è vero, erano altri tempi .......!
(Tratto dal libro: "Oltre l'Orizzonte")

Argentario: luci, colori, riflessi e atmosfere
In attesa di nuovi viaggi escursionistici, attingiamo ai vecchi ricordi ed alla rievocazione di momenti lirici di un angolo di terra piena di luci, colori, riflessi ed atmosfere. Questa volta, cercheremo di parlare di una penisola meravigliosa che si chiama Argentario: nome enigmatico, che si presenta a noi con i caratteri di oscurità propri di un enigma. La sua interpretazione si presenta in modi diversi, che non sappiamo darci una vera definizione. Forse, in quella località, nei lontani tempi della storia, probabilmente vi sia stata una miniera da dove veniva estratto il minerale d'argento da parte degli Etruschi o dai Romani. Questo fatto non ci stupisce, poiché la Toscana è ricca di giacimenti minerari ( mercurio, ferro, piriti, manganese, lignite, piombo, zinco, rame, magnesite, marmi e probabilmente anche argento. Questo prestigioso none, potrebbe essere l'espressione poetica di un grande e sconosciuto poeta romano o greco, che ha voluto rendere omaggio al suo meraviglioso mare argentato e illuminato dalla mutevole e incostante luna. Ma noi oggi non siamo qui per stabilire l'origine del suo nome, ma per parlare delle sue bellezze naturalistiche.
L'Argentario era anticamente un'isola che poi si congiunse al litorale mediante due cordoni sabbiosi, o " tomboli", entro i quali si formò la laguna di Orbetello. Il tombolo meridionale, detto di Feniglia, ricoperto da una bellissima foresta demaniale, termina sotto il poggio di Ansedoni , sulle cui sommità sorgono le mura e i ruderi della città romana di Cosa; quello settentrionale ( della Giannella) ha inizio, dalla parte della costa, alla foce del fiume Albegna. A noi che abbiamo compiuto il giro turistico del bosco Monte Argentario, si sono presentati davanti ai nostri occhi scorci paesaggistici di grande bellezza: Oltre al Porto Santo Stefano, rinomata stazione balneare, il promontorio modella le sue coste in dolci insenature coltivate a vigneti e oliveti e aspri promontori a picco sul mare. Porto Ercole, è affacciato su di una suggestiva baia e l'occhio si perde in un vasto orizzonte, che si fonde tra cielo e mare. La storia ci dice che fu trasformata dagli Spagnoli in importante piazzaforte e munti di rocca, mura e grandi forti.
La nostra base d'arrivo e di partenza, è stata ad Orbitello: Pittorescamente edificata su una penisola che si protende nella pescosa laguna omonima, la cittadina conserva ancora un tratto delle mura etrusche. Il duomo si presenta con l'originaria facciata trecentesca in travertino. Poco a nord, vi sono le oasi faunistiche. Grosseto è il cuore della Maremma, una vasta area costiera dai confini non ben definiti che si estende a sud di Livorno fino all'alto Lazio. Nel passato landa disseminata di paludi malsane, oggi in gran parte bonificata. La Maremma offre luci, colori, riflessi e atmosfere straordinari, soprattutto dove la natura è ancora padrona indiscussa.
E' romana la Tagliata Etrusca.
Nella valle di Ansedonia, ci siamo fermati a lungo per ammirare i resti che sono visibili dell'antico Portus Cusanus, che la storia ci racconta che ha subito, nel corso dei secoli, un inesorabile processo d'insabbiamento. Proprio per impedire questo fenomeno , come ci spiega l'archeologo - dott. Ferdinando Licastri - un vecchio signore dai capelli arruffati e il pizzetto grigio, che parlava tra il serio e il faceto, con la pipa fra i denti, come del resto ero anch'io, che lasciavamo dietro di noi una piccola nuvola di fumo grigio e profumato, - continua il prof. - "i Romani realizzarono la cosiddetta Tagliata Etrusca che, insieme allo Spacco della Regina, una profonda fenditura naturale della roccia che un tempo comunicava con il mare attraverso cunicoli ormai ostruiti, permetteva il flusso e il riflusso delle acque. Scalpellata a viva forza nella roccia, la Tagliata Etrusca è un vero capolavoro di ingegneria idraulica".
Il giorno successivo, risalendo le valli dell'Ombrone e dell'Albegna verso le pendici del Monte Amiata, attraverso le direttrici di marcia di secolari migrazioni, di transumanza di pastori, un vecchio " tratturo" che attraversa la Toscana e si dirige verso L'Umbria, di flussi stagionali, si scopre che la Maremma conserva la propria unicità dal mare alla montagna. Lungo il percorso sono numerose le testimonianze della presenza degli Etruschi ( in particolare a Roselle, Saturnia e Manciano), i primi abitanti della Maremma che cercarono di dare una sistemazione idrologica alle paludi e di migliorare le condizioni agricole con terrazzamenti e altre forme di protezione del suolo.
La Maremma non è più selvaggia come nell'Ottocento, ma il verde e il mare sono autentici. In più ci sono i rifugi faunistici, i paesini pittoreschi, la tradizione artigiana. Per non parlare della gastronomia.
L'Amiata è una montagna incantata, dove una volta si celebravano i magici riti etruschi. Oggi, vi si possono celebrare i riti dell'evasione, del tempo libero, alla ricerca di un'antica serenità.
Il Chianti vuol dire buon vino, lo sappiamo tutti. Ma può voler dire anche dormire in un castello, andarsene in giro a cavallo, cercare mobili antichi, gustare i sapori inediti di una cucina di classe.
La Toscana, la Maremma, il Chianti, l'Amiata: tre percorsi diversi per assimilare l'essenza di un'antica terra, dove si fondono leggenda, storia e tradizione. Tre itinerari per sentirsi in sintonia con ciò che ci circonda: l'arte, la buona tavola, l'artigianato, e soprattutto quella fonte inesauribile di sorprese che è il paesaggio.
Dopo questo giro panoramico della verde Toscana, ritorniamo nella penisola dell'Argentario, con le sue coste frastagliate, le spiaggette, le calette, le insenature, la Cala Grande, la Cala Piccola, Porto Santo Stefano, da dove partono le imbarcazioni per la pesca e per l'isola del Giglio, le antiche torri di S. Liberata, il Monte Spaccabellezza e al vertice del Monte Argentario, con al vertice, immerso in una lussureggiate vegetazione mediterranea, sorge il Convento dei Padri Passionisti e da dove si può ammirare un panorama mozzafiato che da su tutta la laguna di Orbetello. Questa località meravigliosa, l'abbiamo documentata con una serie di schizzi a matita in bianco e nero, per renderla maggiormente più reale. Il ricordo di questo luogo solitario, immerso nei boschi, è un luogo di pace e di tranquillità, un luogo adatto per una vita contemplativa, di preghiera e nello stesso tempo di riflessione, lontano dal caos della vita moderna, che giorno dopo giorno, ci logora. Un breve ritiro in questo luogo solitario, farebbe bene ad ognuno di noi, per vivere e meditare sulla vita di ogni giorno: almeno per ritrovare noi stessi.
L'Argentario è un avamposto importante sul mare, battuto dai venti e nel passato esposto ad ogni scorreria di pirati e flotte nemiche, come pure lo furono tutte le altre isole che compongono l'Arcipelago Toscano.
Dopo millenni di mutamenti, l'avamposto è un vero puzzle di costruzioni, terrazzamenti sul mare, porti e città. Una stratificazione, come leggiamo nel numero 5 di "Airone", dell'Arcipelago Toscano, a pagina 46, di culture e usanze, una specie di modello multi etnico temporale dove ogni angolo è storia. Ecco l'Arcipelago Toscano. Una buona parte di esso è a noi noto per averlo visitato.
La vicinanza alla terraferma permise già agli uomini di Neandertal, e poi ai moderni, di colonizzare alcune di queste isole, lasciandovi ossa e strumenti di pietra che sono stati trovati in particolare a Lacona e Locanella, sull'Elba. Ancora sulla maggiore delle isole, ma anche al Giglio e a Giannutri ( una volta collegate alla terraferma, come l'Elba) sono stati ritrovati insediamenti neolitici, con ceramiche, strumenti e ciottoli levigati. Non sappiamo quale sia stato l'impatto di quegli antichi uomini sull'ambiente. Forse i cacciatori neolitici, come spesso è accaduto in altri arcipelaghi, hanno fatto scomparire animali piccoli, deboli, o particolarmente interessanti come prede. Di questo non abbiamo prove, ma certo sappiamo che le vicende dell'Elba, e dell'intero arcipelago, sono state profondamente influenzate da due fattori: la vicinanza alla costa e la ricchezza di minerali. Furono per primi gli Etruschi a scoprire quanto il sottosuolo dell'Elba poteva dare. L'importanza delle miniere etrusche per l'antichità fu grandissima, tanto che ad un certo punto le miniere dell'Elba, di Campiglia Marittima, delle Colline Metallifere e di Massa Marittima divennero fondamentali in tutto il Medioevo. La storia ci racconta, che nelle isole si erano nel frattempo stabiliti anche numerosi pastori, che modificarono profondamente, forse più delle miniere, il paesaggio. Lo stesso fenomeno si è verificato in Sardegna, come abbiamo potuto constatare nell'ultima escursione che abbiamo effettuato nell'Ogliastra. Le pecore, ma specialmente le capre, hanno un impatto fortissimo sul territorio, se si permette loro di pascolare senza controllo. Quanto fossero diffusi questi animali domestici lo si deduce anche dai nomi di alcune isole. In primavere abbiamo visitato la Capraia, e ci siamo spesso domandati da dove derivasse il suo toponimo. Esso, naturalmente deriva da forse da capra, anche se un'altra interpretazione fa provenire questo termine dall'etrusco capar , che significherebbe "pietra". E invece il Giglio che prende il suo nome non dal fiore, ma dal greco aigilion, questo sì col significato di "capra". Non furono però le "ricchezze" dei pastori ad attirare i conquistatori romani, ma la posizione dominante e le risorse minerarie. Ben presto però i nuovi conquistatori scoprirono quanto fosse splendido il mare, pulita l'aria ( a eccezione della zona delle maniere. Tanto che i greci chiamavano l'Elba Aethalia, la fuligginosa) e affascinanti le vedute.
(Tratto dal libro:" Oltre l'orizzonte")   

Il mandorlo fiorito dell'orto di casa mia.
Come tutte le cose veramente forti e pure, la Calabria dei Borboni, dei Garibaldini, dei poeti e degli scrittori, come Norman Douglas, ha bisogno di spiriti profondi per essere compresa e di animi vergini per essere amata. Terra di meditazione, si apre intera con le sue luci abbaglianti e le sue cupe ombre ai pellegrini silenziosi e pensosi della bellezza. Il suo fascino, lontano dai soliti allettamenti preparati in altri luoghi, è lento ma duraturo; è come quei profumi, che sembra debbano subito svanire, eppure resistono al tempo e penetrano di sé ogni cosa.
Anche in noi, che siamo figli di questa antica terra, i ricordi della nostra fanciullezza e del nostro passato prossimo sono come questi profumi, che sembrano debbono subito svanire, eppure resistono e fanno parte del nostro "D.N.A".
Quando quel lontano 2 giugno del 1946, ancora imberbe e senza meta, ho chiuso dietro di me il piccolo cancello della mera fanciullezza per entrare nel giardino incantato della vita. "Là per fino le ombre splendono di promesse. Solo i giovani hanno di questi momenti. Non parlo dei giovanissimi. No. I giovanissimi, per essere esatti, non hanno momenti, hanno ancora il ricordo delle favole, raccontate dalla mamma o dalla zia Cristina, perché in ognuno di noi c'è sempre una zia Cristina, alla quale facciamo riferimento.
E' privilegio della prima gioventù di vivere in anticipo sui propri giorni, in tutta una bella comunità di speranze che non conosce pause né introspezioni.
Abbiamo compreso che percorrendo questa strada ignota, ogni svolta del sentiero ha una sua seduzione. E non perché sia una terra ignota. Si sa bene - come scrive Joseph Conrad , nel suo libro " La linea d'ombra" - "Che tutta l'umanità ha percorso quella strada. Ma si è attratti dall'incanto dell'esperienza universale da cui ci si attende di trovare una sensazione singolare o personale: un po' di se stessi". Si va avanti, allegri e frementi, come abbiamo fatto noi, riconoscendo le orme di chi ci ha preceduto, accogliendo il bene e il male insieme - le rose e le spine, come si dice - la variopinta sorte comune che offre tante possibilità a chi la merita o, forse, ha chi ha fortuna. "Si. Uno va avanti. E il tempo pure va avanti, finché ci si scorge di fronte una linea d'ombra che ci avverte di dover lasciare alle spalle anche la ragione della prima gioventù".
Emergono dai nostri ricordi, le cime dei monti aspromontani che erano coperti di neve e, a valle, la campagna restava profondamente addormentata, avvolta delle foschie mattutine e dell'umidità della notte: dalle Alpi alla punta estrema dello stivale, sono ancora i freddi colori invernali a dominare il paesaggio, anche se in primavera le giornate cominciano lentissimamente ad allungarsi, al ritmo di un paio di minuti ogni 24 ore.
Eppure, nonostante in tutta l'Italia sia ancora inverno, nella Old Calabria e nella vicina Sicilia si compie un piccolo miracolo, il primo segnale che la natura sta per risvegliarsi dal torpore della brutta stagione. Negli anni che seguirono, man mano che scoprivo le altre regioni del nostro meraviglioso Paese, ho compreso che dall'altra parte dello stivale, ad Agrigento succede prima che nel resto delle altre regioni del sud: già a gennaio, i fiori del mandorlo sbocciano, anticipando la primavera. Si aprono sui rami dei tronchi ritorti, quando l'albero è ancora spoglio, senza le foglie, che prenderanno il posto delle corolle chiare, una volta sfiorite. Sotto il rosso costante pietroso dominato dai templi agrigentini sono una visione sfolgorante. Ingentiliscono una zona bruciata dall'arsura del cielo e dal fuoco interno: dove finisce la collina dei templi comincia, infatti, una regione che, fino al primo Novecento, si poteva definire davvero infernale: la regione delle zolfatare. E già a pochi chilometri della città ( non più di quindici, verso nord, in direzione di Aragona) ci si imbatte in una collina forata da vulcanelli (i piccoli giganti che colano fango caldo, mentre la zona è avvolta da vapori fumosi e grigiastri, le cosiddette maccalube).
Ma il mandorlo non merita di essere ricordato nelle statistiche e negli almanacchi semplicemente per il suo primato nella fioritura e per la celebre sagra che al suo fiore viene dedicata ogni anno dagli agrigentini. Il vero prodigio di questa pianta, che ama i luoghi esposti al sole, caldi e secchi, e resiste nei terreni pietrosi e sabbiosi, è il tesoro che la luce e il calore fanno crescere i suoi rami, un vero prodigio della natura: la mandorla , una superstar tra i frutti della terra, anche se non sembra questo il suo destino alla nascita.
Nella costa di Agrigento, come in quella Ionica del Reggino, oltre alla mandorla e al bergamotto e agli agrumeti, dai fiori bianchi e profumati, che ci accompagnano da sempre: provenienti, nelle forme spontanee, dall'Asia occidentale, è coltivate da tempo immemorabile in Oriente. Gli ebrei conoscevano il mandorlo parecchi secoli prima di Cristo e nelle pagine della Bibbia gode di molto favore. Il suo nome ebraico significa "colui che veglia", per indicarne la precoce fioritura. Nella Genesi le mandorle sono incluse tra i più squisiti prodotti della natura e, nel Libro dei Numeri, il bastone di Aronne fiorisce per volontà divina e i fiori, maturando, si convertono in mandorle. Alla diffusione del mandorlo , degli agrumi e dell'ulivo in Occidente, provvidero i Fenici, mentre furono i Greci, che conoscevano già queste meravigliose piante intorno al VI secolo a.C., a portare il mandorlo nella nostra Penisola.
- Tratto dal libro "I giganti fumanti"-

L'Arizona
Non era nostra intenzione descrivere tutto l' itinerario sui Parchi Nazionali dell'America del Sud Ovest, infatti, non lo facciamo, ma vogliamo citare i luoghi più importanti, più spettacolari che maggiormente hanno lasciato dentro di noi una traccia profonda. Continuiamo dicendo: che l'Arizona è il trampolino per tuffarsi in un viaggio attraverso i meravigliosi scenari del deserto americano, battuto dal sole, scolpito dal vento, immortalato nei quadri di Dalì.
Queste, in un certo senso, sono come le montagne e i deserti del Pakistan e dell'Afghanistan, che ogni giorno ci propongono i telegiornali e i Mass media, terre dalle cime innevate come quelle di San Francisco Peaks, su cui aleggiano gli spiriti degli antichi avi di una tribù indiana - gli Hopi- che tuttora cela gelosamente la propria arte e le proprie tradizioni. Sulle mese di arenaria, nell'atmosfera sonnolenta del primo pomeriggio, i cani giocano con i corvi, e i vecchi del villaggio cesellano nel legno di ginepro le bambole kachinas, simboli della visione spirituale e fantastica della loro anima che incontreranno nei mesi invernali durante le cerimonie religiose a cui non sono neppure ammesse le loro donne. Due popolo quindi, che si rassomigliano molto, per cultura e tradizioni, ma gli Hopi sono una tribù di uomini saggi, mentre i talebani sono dei terroristi e fanatici della loro religione.
Dal nord al sud l'Arizona è veramente terra ... Di sogni e di chimere, coi saguari che circondano la simpatica Tucson, a pochi chilometri dal Messico, con le gole dei Canyons che, improvvise, ci immergono in un mondo delle intense emozioni geologiche, con i suoi ranch, dove la sera, quando il vento cessa di soffiare sulle lande bruciate dal sole, bisogna sforzarsi per trattenere la commozione di fronte ai colori, ai suoni e al profumo della terra allietata dalle mille cicale che danno il via alle loro serate. Queste sensazioni, si provano soltanto se uno ha l'animo sereno, e noi, eravamo veramente sereni, soprattutto con noi stessi , immersi nella selvaggia natura.
L'Arizona, con poco più di 3 milioni di abitanti, si trova alla stessa latitudine di Marrakech ed è un grande parco nazionale diviso in due diversi ambienti naturali, quello del sud dove domina incontrastato il deserto e quello del nord, sede del Colorado Pleteau: un altopiano prevalentemente stepposo in cui si trovano il Grand Canyon, il Deserto Dipinto e la Foresta Pietrificata e la Monument Vally. Il clima dell'Arizona è mitico: inverni dolci e asciutti, estati calde secche con temperature che, soprattutto a sud, raggiungono i 40 gradi. A parte le bellezze della natura, il Grand Canyon State ospita due belle città: Phoenix, la capitale, e Tucson - nome indiano per " poca acqua" - nell'estremo sud. Nei due centri urbani vive all'incirca il 60% della popolazione.
Zion e Bryce Canyon.
Ricordo, che per raggiungere questa stupenda località, siamo partiti con il nostro pullman riservato per lo Utah. Abbiamo raggiunto per primo lo Zion National Park, un tempo chiamato Mukuntuweap ( in lingua indiana : " ne verrai fuori così come sei entrato") dagli indiani Pueblo e Paiute che abitarono la vallata per più di quattordici secoli. La storia ci racconta che nel 1861 uno stanziamento di mormoni stabilitosi nelle vicinanze del parco assegnò nomi biblici alle montagne e alle formazioni rocciose. Solenni e tristi le alte vette sembrano lo scherzo di un pittore strambo che ha voluto spennellare di nero e rosso intenso le parti basse delle montagne lasciando immacolate le cime. Lo Zion è il frutto di un sollevamento della crosta terrestre che avvenne circa tredici milioni di anni fa, facendo nascere un altopiano di solide rocce di arenaria, calcare e scisto, alto 1600 m. Pensando a questo processo naturale - geologico, guardando queste meravigliose montagne, ci sono venuti in mentre le nostre stupende Dolomiti, che come lo Zion, hanno avuto origini di un sollevamento dal profondo mare sotto forma di un fantastico paesaggio chiazzato di scuro e di verde. C'è una differenza, è che le Dolomiti sono emersi circa settanta milioni di anni fa. Le Dolomiti si possono definire il regno dell'armonia e la fonte di perenne giovinezza. Arditi profili, rocce articolate, creste bizzarramente sagomate e frastagliate risaltano ovunque in primo piano spesso assumendo l'incantevole aspetto di fiabesca e capricciosa ricostruzione.
Ritornando ancora nella località dello Zion National Park, diremo che le acque del Virgin River e altri agenti atmosferici hanno così iniziato ad " attaccare" l'altopiano, provocando delle ferite che nei millenni hanno creato scoscese falesie, gli attuali " templi". Salendo sui tornanti che conducono al Tunnel si ammirerà il Great Arch, situato sul versante destro della strada. Passato il tunnel si raggiungerà sul versante superiore ed esterno del canyon . Dallo Zion Canyon Scenic Drive si ammireranno i Twin Brothers, e i Tre Patriarchi.
Dopo questa meravigliosa visione, siamo proseguiti verso Nord fino ad arrivare al famoso Bryce Canyon. Esso si trova a nord del plateau calcareo di Pungaugunt ( in indiano " pace dei castori"), a 2400/2700 mt. di altitudine. Le formazioni del parco testimoniano una storia geologica molto recente: l'erosione delle montagne non è infatti quella tipica dei canyon, con pareti scoscese da ambo i lati e un fiume che scorre al centro. Questa montagna ha invece iniziato la sua erosione nei bordi, e col passar del tempo i fenomeni erosivi hanno preso la forma di anfiteatri, dove all'interno delle rocce dai colori rosso - rosa si sono formati stalagmiti, colonne, torri e gradini.
Un piccolo gioiello tra i fenomeni erosivi è senz'altro il Red Canyon, che merita una sosta fotografica, come abbiamo fatto noi. E' possibile arrampicarsi sulle piccole colline circostanti dalle curiose stalagmiti per meglio godere il contrasto tra i colori della roccia, delle sabbie, e dei bellissimi pini che ricoprono questa zona montana. E', senza dubbio, la migliore introduzione allo stupendo Bryce Canyon, è un paesaggio da favola, un paesaggio che difficilmente potremmo dimenticare, esso rimarrà indelebile nei nostri occhi, e lasciatemelo dire, anche nei nostri cuori.
(Tratto dal libro: "Ma il dolore non ha una bandiera")

"In contumacia"
Le storie di ieri, sono anche le storie di oggi. In ogni paese del mondo ed in ogni villaggio come quello aspromontano di Cosoleto, si raccontano ai bambini molte storie e storielle come quella dell'emigrante. La zia Cristina, era molto brava a raccontare queste storie del passato, e noi bambini stavamo molto attenti nel recepirle. A volte pendevamo dalle sue labbra ed a ogni pausa era per noi un punto interrogativo. I mie ricordi mi portano quasi sempre alla mia infanzia e alla bella Calabria, quella che ora si trova nei miei pensieri, e davanti ai miei occhi, la cui sola menzione richiama alla mente la storia di un bandito condannato " in contumaciam" , con il cappello di feltro che termina a punta, (come quello che portano i montanari o le guide alpine dell'Alto Adige), la giacca di velluto riccamente ornata, le pistole, il pugnale decorato e il lungo fucile, così come ci vengono presentati dalla TV. ai nostri giorni, i guerrigliero Pachistani o dell'Arabia Saudita, oppure l'eroe dell'opera o del balletto, in un ruolo tra il cavalleresco e il criminale. E come sembra, questa figura anche ai miei tempi non appartiene soltanto al campo dei miti, poiché, mentre osservavo e osservo questi personaggi con grande interesse ogni baia , ogni spiaggetta, ogni gola della mia Old Calabria, sentivo fare il nome di Talarico, associato al racconto di ogni tipo di avventure e ardite azioni cavalleresche, tanto che alla fine non potei fare a meno di domandare alla zia Cristina, che mi raccontava con tanto trasporto, chi fosse questo famigerato Talarico.
" Giosafatto Talarico", mi disse mia zia Cristina, " è un fenomeno particolarmente interessante dei miei tempi. Nato nelle vicinanze di Cosenza da una stimata famiglia, egli non sarebbe mai diventato brigante se una vicenda che lo afflisse nella prima giovinezza non lo avesse inimicato col mondo".
" La protezione cavalleresca che egli concesse a tutti i poveri e agli oppressi, le richieste che egli fece a tutti i ricchi e ai prepotenti, gli procurarono presto una grande stima presso i primi e la fama di temibili nemico presso i secondi. Una volta pretese da Barocca, il più ricco proprietario terriero della Calabria - che certo non possiede meno di tre milioni di ducati - che gli desse entro un certo tempo stabilito mille ducati, altrimenti e egli avrebbe arrecato ai suoi possedimenti un danno tre volte maggiore. Barocca, ben sapendo che Talarico avrebbe mantenuto la sua promessa, non attese neanche un attimo e gli pagò i mille ducati, che il capo dei banditi non aveva però estorto per sé, ma soltanto per dividerli tra molti bisognosi. Un tiro ancora più ardito è il seguente. Quando Talarico giunse un giorno ad un paese di montagna, fu fermato da una giovane contadina: " Oh Talarico", disse ella quasi vergognosa, " io amo Giovanni ed egli anche mi ama e mi sposerebbe persino senza dote, se riuscissimo a trovare i soldi da pagare al cappellano, che si rifiuta di sposarci se non gli paghiamo le tasse; non può aiutarci?".
" Se questa sera, due ore dopo l'Ave Maria, ti troverai con il tuo fidanzato dietro la chiesa, sarà fatto, piccola mia"., rispose Talarico laconico, mentre continuava la sua strada, Tentennanti tra timore e speranza i due fidanzati si trovarono puntualmente al luogo stabilito. Anche Talarico non si fece attendere e cominciò a bussare con tutta la sua forza alla porta del sacerdote. . " Chi é?" Domandò una voce maschile dalle finestre del piano superiore. " E' Talarico". " Talarico!" Ripeté balbettando il curato, morto di paura. - " Si", replicò perentorio il bandito, "e vi ordina di dargli immediatamente cento ducati".
Il servitore di Dio, conosciuto quale avaro benestante, (perché in quel tempo, i preti erano molto ricchi e possedevano molti lasciti in terreni, in edifici e anche in contanti), era convinto che un rifiuto da parte sua lo avrebbe fatto incorrere soltanto in pene maggiori e obbedì tremando all'ordine di Talarico. " E adesso, poiché abbiamo la dote", continuò il capo dei banditi, " vada e unisca in matrimonio questa giovane coppia e impari da ciò che non si nega impunemente il matrimonio a due amanti senza mezzi".
La ripetizione però di simili imprese non mancò di attirare su di lui l'attenzione delle autorità, cosa che in questo paese non è sempre scontata, e il re, stufo delle infruttuose citazioni, mise un'altra taglia sul capo del bandito e non tralasciò nulla, pur di farlo catturare vivo o morto. Quando anche questi tentativi fallirono, " venne a patti con lui", cioè stipulò con lui una specie di contratto, secondo il quale il bandito era libero di scegliere come luogo di residenza un'isola dove avrebbe potuto vivere libero quale pensionato regale, perché desse la sua parola di restare tranquillo.
Talarico acconsentì a queste condizioni e scelse l'isola di Lipari come residenza, e qui nell'anno 1855 si sposò con una nativa del luogo e da allora gode di una rendita quale buon padre di famiglia".
In quest'isola Eoliana, transitando con Adriana nel centro storico, in una stradina che sembrava uno di quei " budelli" della vecchia Genova, alzando gli occhi sull'angolo della via, ho letto il nome di Talarico. Per meritarsi l'intestazione di una strada, di una strada anche modesta, si vede che a Lipari era ritenuto una persona importante.
(Tratto dal libro: "I giganti fumanti")      

Da Boccaccio a Montale una moneta amica della poesia.
Una ricerca storico - letteraria di Paolo di Stefano, ci riporta nuovamente agli albori della vecchia e cara Lira, che ha lasciato il posto all’Euro: la nuova moneta degli europei.
“ Lira funesta. Senza apostrofo. Nel giorno dell’addio, secoli di vita più o meno gloriosa, anche in letteratura, non si dimenticano facilmente. Va bene che Dante quando parla della “ lira” allude solo al dolce strumento suonato dai beati in Paradiso, ma pensate alle infinite rime possibili: con aggira, aggira, delira, desira, inzaffira, ira, mira, spira, tira e altro ancora. Che strana parola, invece, un prefisso che ha il privilegio di rimare, oltre che con se stesso, soltanto con il poco promettente neuro ( tra qualche anno dovremo affrontare malattie eurovegetative, andremo dall’eurologo, finiremo tutti in cliniche europsichiatriche?). I tecnocrati dell’Ue hanno pensato a tutto tranne che alla poesia.... C’era da aspettarselo.
Insomma, ora la vecchia liretta ci appare cara ben oltre il suo oscillante valore venale. In effetti, come unità monetaria, corrispondente a una libbra d’argento, nacque in sordina con la lingua italiana, ben prima che Boccaccio fissasse a lire cento la quota minima perché una gentildonna potesse sposare la sua figliuola o perché un gentiluomo fosse in grado di acquistare un podere; e a dugento una buona eredità ( quella che una zia lasciò, in contanti, a Calandrino). A parte l’eccezione decameroniana e le sparute presenze in Lorenzo de’ Medici e in Poliziano ( ma nell’espressione gergale dire tre lire con il significato di possedere carnalmente), è pur vero che per tutto il Medioevo e in epoca rinascimentale, la lira viene per lo più relegata a cronache, statuti e lettere.
Bisognerà aspettare l’Ottocento perché il suo nome echeggi alto nell’olimpo letterario. E se tanto mi dà tanto, solo nel 2500 circa avremo il primo euro in versi. Ancora lontano dalle leggendarie mille lire fasciste, Foscolo si dichiarò male in arnese dovendo sopravvivere con “ 64 lire il mese, senza casa, e malato della mia antica infermità”.
Ben diverse le disponibilità di Pietro Verri che, più o meno in contemporanea, faceva puntualmente i suoi conti:  “Centomila franchi sono centocinquanta mila lire, altre per cento fanno la rendita annua di quattromila cinquecento lire milanesi”. Ma sarebbe toccato a Manzoni, nel solco di Boccaccio, l’arduo compito di riesumare la lira come materia di letteratura: anche se il Fermo e Lucia, l’antecedente più illustre dei Promessi sposi, si mostra più disinvolto nel parlare di dannaro. Così, Renzo non mostrerà nessun imbarazzo nel ricordare a Tonio il “ debito di venticinque lire con il signor curato, per fitto del suo campo”. E il narratore non esiterà a rivelare che all’epoca dei fatti il prezzo del riso equivaleva a lire dodici il moggio ( e se il moggio era circa 150 litri, non è difficile supporre che nel ’600 la piccola lira doveva valere ben più di quanto valga oggi il grane euro).
Poi, nel giro di un decennio, è il trionfo. I Malavoglia del Verga, poveri in canna, non fanno che parlare di once, carlini, tari e, ovviamente, di lire: le 25 che servivano per ottenere assistenza dal giovanissimo avvocato Scipioni ( mentre un vecchio azzeccagarbugli ne avrebbe chieste più del doppio) dovevano valere almeno l’equivalente di cinquanta euro dei nostri (la Provvidenza, la barca di famiglia, era valutata circa cento euro, il prezzo di una modesta stampante....).
Se la matematica non é un’opinione, secondo Collodi due anni dopo, nel 1883, il Direttore di una compagnia di pagliacci avrebbe venduto un somaro azzoppato di nome Pinocchio per soli quaranta euro ( venti lire di allora). Del resto, per Fogazzaro, in Malombra (1881), 2,200 lire erano uno stipendio molto rispettabile come sarebbero oggi più di quattromila euro. E De Amicis, un decennio più tardi, Amore e ginnastica, considerava che un “vestito di lanetta ... Semplicissimo” potesse essere costato alla Pedani non più di trenta lire con la fattura ( roba da ipermercato di periferia).
Già bussa alle porte Pirandello, con pagine stracolme di lire, nelle Novelle come nel Fu Mattia. Il quale fugge dalle angustie domestiche senza Visa né Bancomat ma con le cinquecento lire del fratello che dovevano servire per la sepoltura della madre. Se avesse potuto disporre di una carta di credito, Mattia Pascal probabilmente sarebbe stato subito rintracciato e addio romanzo.
Un secolo dopo, quanti euro cash servirebbero a un marito angosciato per sparire nel nulla? Un decennio più tardi, uno dei maggiori racconti del secolo. Con gli occhi chiusi di Federico Tozzi, si apriva con le dita di un oste che tenevano due biglietti da cinquanta lire. A una banconota da cento lire Trilussa dedicò una poesia: un bijetto da Cento diceva: è più d’un mese che giro ‘sto paese...”. Pasolini immortalò un paio di miseri “ calzoni da due mila lire”. Una “sveglia da cinque lire” è finita in una poesia di Montale intitolata Realismo non magico. Era un oggetto tra tanti, degno forse, secondo il poeta, di sopravvivere a futura memoria, di restare “ agli altri... Quando avremo dimesso noi stessi”. Se per Montale non c’è magia in una “ sveglia da cinque lire”, figurarsi quanta ne conterrà una sveglia da cinque euro... I tecnograti dell’Ue hanno ignorato i poeti. E probabilmente saranno ricambiati.
Enzo Biagi, ha scritto: “ Petrolini vestito da Nerone”. Quando penso alla lira mi viene in mente lo sketch di Petrolini che, vestito da Nerone, dice: “ Tigellino dammi la lira!” Era lo strumento ma lui gli portava la moneta. E poi il discorso sulla lira di Mussolini del ’26 a Pesaro... A 14 anni andai a lavorare in un zuccherificio. Prendevo 14 lire come quando cantavo nel coro al Comunale di Bologna: odiavo il “ Parsifal” perché era lungo e la mattina dovevo andare a scuola e morivo di sonno. Portavo tutti i soldi alla mamma, non ne spendevo neppure per un’aranciata. Poi ricordo il primo stipendio da praticante: 450 lire al mese per i primi 18 mesi. E quello da professionista, il 30 giugno ’42 a 21 anni: 1.080 lire. Infine le case di tolleranza, che costavano dalle 5 lire delle più a buon mercato alle 20. Ma poi dipendeva dalla durata della permanenza. In quei luoghi il tempo era davvero denaro.
(Tratto dal libro: “Ma il dolore non ha una bandiera”)       

Cronisti in prima linea,
testimoni tra missione e paura.
Ci siamo più volte domandati, ma chi sono i cronisti e gli inviati speciali in zona d’operazione? Un interrogativo che rimbalza contro un muro di gomma e che è sempre lo stesso, da sempre quando il lavoro li chiama e li porta a vivere dentro i fatti. I rischi di una guerra, i disagi di un viaggio dall’esito incerto, gettati dentro le sofferenze degli altri: pensieri che restando imbrigliati nella matassa dell’occorrere fare presto” perché le notizie in questo pianeta sempre più narcotizzato dalla velocità non hanno più tempo, mentre gli affetti privati sono ontani o si è costretti a lasciarli lontani per potere lavorare scevri dai sensi di colpa: genitori, famiglie e figli che stanno perennemente in ansia, ogni volta che si prepara una valigia per partire, per andare a fare il soldato disarmato dell’informazione.
Il giornalista è come il maresciallo comandante di una stazione carabinieri, è sempre in prima linea, con il bello e col cattivo tempo, in guerra e in pace, in ogni disastro o calamità naturale, dove urge la sua presenza. I militari dell’Arma o le altre forze di polizia, devono portare soccorso, aiutare i bisognosi e informare le Autorità degli avvenimenti, ma anche il giornalista o il corrispondente deve cercare di raccontare i fatti di cronaca, per informare i cittadini. In quarant’anni di attività nell’Arma, ho sempre trovato sul posto degli avvenimenti, il cronista o il corrispondente della stampa. Nei limiti del possibile, senza rivelare le notizie di carattere riservate, senza intaccare il segreto istruttorio, ho cercato sempre di collaborare con loro, fornendo le informazioni necessari del caso. Mi diceva un vecchio corrispondente, nei vari momenti di pausa: “E sempre, ogni volta, quella domanda che torna a occupare i pochi momenti di ristoro, e che mia riesce a raggiungere “ la” risposta. Quel perché s’è scelta questa professione che ci spinge anche a viaggiare sulle strade, nei paesi lontani, sui luoghi degli incidenti, delle battaglie, è solamente per l’informazione diretta.
Nei film americani di guerra, sia nell’ultima Guerra Mondiale che in Corea o in Vietnam, abbiamo visto la figura del corrispondente dal fronte in quadrato nei ranghi dell’esercito. Egli vestiva una divisa, solo che al posto delle armi portava il taccuino e quando chiuso e la stanchezza nel corpo faceva compagnia ai pensieri che lo portano lontano, alla sua casa, e allora anche per lui scendeva la malinconia. Ho letto molti libri del grande corrispondente di guerra americano: James A. Michener. Egli non ha smesso di viaggiare per mare, nelle acque dell’oceano Pacifico, il lungo le rotte dei corsari e degli eroi alla Melville, nelle isole della Polinesia o nelle lande sperdute della Scozia e della Polonia, alla ricerca dei luoghi della guerra e di luoghi inesplorati e selvaggi, annotando ossessivamente su di un taccuino le proprie impressioni sui luoghi, sull’andamento della guerra e le persone che aveva conosciuto. Nei suoi libri, egli muovendosi liberamente tra i ricordi, senza seguire un rigoroso ordine cronologico, racconta le proprie esperienze di guerra nei mari del Sud, l’impegno politico contro le persecuzioni del maccartismo, le speranze e le delusioni del dopoguerra, ma soprattutto le gioie e le amarezze della propria attività di scrittore,, i delicati rapporti con l’industria editoriale e i mass media, il successo improvviso e inaspettato, le difficoltà di integrarsi tra gli intellettuali americano di quegli anni.
Oggi, fare il corrispondente di guerra, è veramente difficile, perché sei abbandonato a te stesso e senza nessuna scorta o copertura. Tutto questo, lo possiamo osservare tutti i giorni specialmente dall’Afghanistan, dove sono stati uccisi, come abbiamo detto nel precedente capitolo, dove abbiamo parlato dei 4 giornalisti caduti sulla via di Kabul. Il giornalista Claudio Monici, in un suo articolo, così scrive del corrispondente dal fronte: “ Quel perché si è scelta questa professione che ci spinge anche a viaggiare sulle strade dell’Afghanistan, come in quelle della Bosnia e della Cecenia, del Ruanda, del Ruanda e della Somalia. Comunque e sempre dove c’è una guerra e la morte che è in attesa dal suo posto. Una falce che non fa distinzione, che non guarda in faccia a nessuno quando deve portarti via. Quando per quel caso che ti riserva il destino, è l’ora del tuo momento.
L’ultimo. Come è già successo e come ancora, purtroppo, accadrà . Forse ci piace anche raccontarci che lo si fa perché qualcuno lo deve fare, si parte perché qualcuno deve partire. E stato sempre così e sarà sempre così, nessun eroismo. Nessun protagonismo, nessun Rambo.
Ma solo e sempre vera paura, ogni volta che bisogna prendere una decisione: andare ancora più avanti, un metro ancora più in là, o fermarsi prima di avere raggiunto una briciola di notizia più precisa, più vera? Non è un film, non è Cinecittà. La paura stranamente a volte aiuta a razionalizzare meglio un programma.
Ma non ci aiuta a prevedere il futuro, l’imprevisto, l’imboscata, il colpo di mortaio che ti cade dal cielo, la raffica di mitra, la mina nascosta sotto il terreno, il tiro preciso di un cecchino, i taglia gole o i ribelli che non aspettano altro di incontrare a modo loro chi va in giro a fare troppe domande. Se va bene non ti resta che consegnare tutto quello che ai alla richiesta di un mitra spianato, se va male non potrai mai raccontare a nessuno quel che ti è capitato.
Forse siamo nati “ male” e andiamo dove la maggior parte delle persone non vuole andare per tentare di capire come gira il mondo, per vederlo con i propri occhi, per annusarlo fin dentro la sua nausea più terribile, per mettere le mani nelle ferite più brutte. Per fare da testimoni là dove non si vuole che ci sia conoscenza di un fatto. Per raccontarlo a chi oggi leggerà queste parole.
(Tratto dal libro: “Ma il dolore non ha una bandiera”)   

Liberarsi del passato
per costruire un futuro.

Giorno dopo giorno, mi accorgo che il mondo procede nello stesso modo di sempre. Risucchiati dal passato, perdiamo il futuro e la speranza senza che ognuno di noi se ne renda conto. L’individuo continua a ripensare al passato, al bene perduto e ne resta prigioniero. Nel capitolo precedente, abbiamo visto che il passato ed il presente non esistono, specialmente nei paesi del Medio Oriente, fra Israele e la Palestina. In quella Terra Santa, dove dovrebbe esistere soltanto l’armonia e la pace, esiste da sempre la guerra, la discordia, il contrasto d’anime, di idee, di religione, di propositi, di interessi, di territori. Insomma, una guerra che si tramanda nel tempo, fin dai tempi di Mosse. E’ veramente giusta l’affermazione: non c’è pace fra gli ulivi che germogliano nelle colline del Golan o nei territori pietrosi della Palestina. Il pomo della discordia: questi territori bruciati dal sole e le vecchie mura della città Santa di Gerusalemme.
Ma per vivere in armonia, questi popoli devono abbandonare la discordia, progettare il futuro. Un modo è di partire dal passato stesso, di annullarlo simbolicamente. Si, lo so, che la modalità più semplice, più antica, è la vendetta, ma deve vincere l’amicizia, la concordia e la pace. Evidentemente, esiste soltanto la discordia: infierire lo stesso danno a chi lo ha procurato: occhio per occhio, dente per dente. Ma se si vuole vivere una pace duratura, non basta sedersi ad un tavolo per discutere, ma bisogna avere la volontà di raggiungere un accordo, una meta, sono così si potrebbe raggiungere la pace agognata.
Il mondo non sta vivendo una sola guerra che si tramanda nel tempo, cioè quella Medio Orientale, ma tre guerre contemporaneamente: il terrorismo psicologico, l’attacco proditorio alle Torri Gemelle di New York e i bombardamenti in Faghanistan, per stanare il principe terrorista Omar Bin Laden. Questa è una guerra diversa dalle altre che abbiamo vissuto, è una guerra di vendetta, che evoca spesso una catena senza fine. La vendetta definitiva è impossibile. Per essere tale deve diventare giustizia. Ma questa è possibile solo dove vale un ordine morale, una legge efficiente per cui l’offesa sia considerata un reato. Ma all’origine di tutto questo non c’è soltanto un semplice reato, ma un gravissimo crimine: Un attacco al cuore dell’America e l’eccidio dei suoi figli migliori.
Il sociologo Francesco Alberoni, nella sua rubrica “ Pubblico & privato”, così definisce le vie per liberarsi del passato e costruirsi un futuro migliore: “ Un altro modo di uscire dal passato annullandolo è la rivincita. Ma questa è possibile solo dove ci sono regole di competizione che lo prevedono, come nella cavalleria, nel duello, nello sport. Nello sport il campione o la squadra battuta si rifanno nella partita successiva. La superiorità del metodo democratico consiste proprio nel fatto che il partito sconfitto non viene perseguitato e non deve vendicarsi, ma solo prepararsi alle prossime elezioni.
La terza modalità è il riscatto. Il soggetto, in questo caso, lascia il passato. Se è stato sconfitto in un campo cercherà il successo in un altro, e potrà così annullare la frustrazione e l’autorimprovero. Il riscatto è una potente molla per il miglioramento e per il progresso. Il ricercatore frustrato della ingiustizia dei concorsi universitari si mette in proprio e diventa un imprenditore. A volte la molla del riscatto è una infanzia povera, marginale. C’è poi un quarto meccanismo che ha veramente il potere di annullare il passato, togliere di senso alla frustrazione e spalancare il futuro: la rinascita, lo stato nascente. Nella sua forma più semplice, l’innamoramento. Oppure la conversione, religiosa e politica. Il nuovo amore e la nuova fede annullano il dolore per l’antico, il suo rimpianto. Infine, nelle grandi personalità, c’è la creazione politica, artistica religiosa. Nietzsche, deluso nel suo amore per Lou Salomè, scrive “ Così parlò Zarathustra”.
Macchiavelli crea le sue grandi opere quando, cacciato dal governo, è costretto a vivere confinato nella campagna toscana. Dante sconfitto, condannato a morte, costretto all’esilio, rinasce illuminando il suo tempo con la “ Divina Commedia”. E forse tutte le cose veramente sublimi sorgono in questo modo: come abbandono del passato, del dolore, dell’ingiustizia, e creazione di un mondo spirituale superiore.
(Tratto dal libro “Ma il dolore non ha una bandiera”)

Capraia: l’isola che non c’era
- Arcipelago toscano -

Nell’ultimo capitolo del libro che abbiamo da poco terminato : “Il Nostro Tempo”, raccontiamo un brano della nostra vita: il viaggio di nozze in una terra meravigliosa, fantastica , incantata e mitologica: la Costa Amalfitana e l’isola di Capri. Quella vacanza settembrina, trascorsa in quella terra benedetta da Dio sotto ogni aspetto: per il clima, per il paesaggio, per il cielo, per il mare, per i suoi colori splendidi e per la trasparenza dei suoi infiniti orizzonti. Scoprire quei luoghi in autunno o in primavera è il massimo che la natura ci possa offrire.
Percorrere, mano nella mano, quei luoghi da sogno in lungo ed in largo, cogliendone ogni aspetto, rivivendone lo spirito in ogni luogo, anche più sperduto villaggio, scorcio panoramico, stradina o affaccio, gustandone sin dal profondo la duplice bellezza, quella della natura e quella dello splendore delle creazioni del genio e della storia, vivere e risentire e riscoprire fuori e dentro di noi tutta questa stupenda bellezza, ecco quello che abbiamo provato nello scoprire quei luoghi da sogno, in un periodo dolce, soave e mite di quello splendido settembre di molti anni fa.
Lo stesso sentimento, la stessa sensibilità d’animo, l’abbiamo provato percorrendo i sentieri e le piccole calette dell’isola omonima di Capraia, in questa splendida primavera, ricca di fiori e di colori. Capri e Capraia, sono due isole del Tirreno, due isole quasi con lo stesso nome, che evocano e richiamano alla nostra mente la storia mitologica degli antichi popoli greci.

Le quattro stagioni
Con il ricordo di quel dolce e soave settembre, ci viene in mente di rievocare l’alternarsi delle stagioni, incominciando appunto dall’autunno, dalla stagione che segue l’estate e che precede l’inverno:
La foglia ingiallita si stacca dal ramo e si posa leggera ai piedi dell’albero. Poi silenziosa, se ne stacca un’altra, poi un’altra ancora. L’aria si fa fresca e poi piovigginosa. La giornata si accorcia sempre più. E’ l’autunno. La natura, che per una parte della primavera e per tutta l’estate è stata generosa di fiori e di frutti, è esausta e sembra lentamente morire. Fra qualche settimana, arbusti ed alberi saranno spogli del tutto. Sbattuti dal vento, i rami stecchiti crepiteranno come legna secca e sembreranno privi di vita sotto la pioggia gelida e la neve.
D’inverno la natura non muore: si libera di tutto ciò che ormai è vecchio e inutile, si rinchiude in se stessa e si prepara a produrre nuovamente fiori e frutti nella futura primavera. Allora, come rispondendo a un segnale, anzi come obbedendo a un comando, quei rami che sembravano morti si animeranno d’un tratto e metteranno gemme e foglie. L’aria ritorna prima tiepida, poi calda: il sole sempre più alto e luminoso.
Così all’inverno succede la primavera, alla primavera l’estate, all’estate l’autunno. Una legge regola l’alternarsi delle stagioni, una legge che è legata al movimento della Terra intorno al Sole. In questo suo moto la Terra non è sola: altri pianeti la accompagnano, e tutti insieme col Sole, formano il sistema solare. A sua volta, il sistema solare è parte di un meccanismo molto grande, che gli astronomi chiamano Galassia. In questa si muove una miriade di altri soli, ciascuno con i propri pianeti intorno. Di là della nostra, si articolano altre galassie.
La stessa cosa succede anche per l’uomo: l’infanzia, la pubertà, la giovinezza e la vecchiaia, sono le quattro stagioni della vita.
Se in questo immenso complesso di astri e di pianeti qualcosa non funziona più, se in questo smisurato meccanismo qualcosa si guasta, anche il sistema solare ne sarebbe turbato, e probabilmente sulla Terra la vita cesserebbe. L’alternarsi delle stagioni e la vita delle piante e degli animali da un ordine mirabile che regola tutto l’universo. Donde viene questo tutto, ordinato e raccolto in una unità? Noi non siamo filosofi e neppure teologi e tanto meno scienziati, per dare una risposta a questa domanda e lasciamo a loro l’incarico di decifrare e spiegare il dubbio di questo grande mistero della vita e della creazione. Comunque, ogni volta che sentiamo parlare dell’universo ci emozioniamo moltissimo, come quando cerchiamo di dare un significato e una spiegazione esatta dell’anima. Il biologo Edoardo Boncinelli, scienziato in odore di Nobel, intervistato da Serena Zoli, ci da questa definizione dell’anima e della mente: “E’ l’insieme delle facoltà cerebrali. Ad essere riduzionisti, ma io lo sono, la mente è il cervello”. E l’anima? “ E’ un pochino più larga e radicata in tutto il nostro corpo, muscoli compresi. Già Piaget ebbe questa intuizione fulminante: noi conosciamo il mondo non solo osservandolo, ma manipolandolo o, come si dice oggi, agendolo. Ebbene, la scienza conferma sempre più questo”. Quindi per essere più precisi, l’anima sarebbe? “La sintesi della “ mente computazionale” e di quella fenomenologica”, cioè le facoltà cognitive più quelle emozionali” E la psiche? Fulminante: “ E’ il braccio destro dell’anima”.
Emozioni: proprio voi biologi e “ riduzionisti” state, in fondo, rivoluzionando le nostre emozioni. La Montalcini nel suo “ L’asso nella manica a brandelli” sottolinea che la zona libica del cervello, l’area degli impulsi emotivi, e quella “ votata alla conservazione dell’individuo e della specie” mantenendoci sostanzialmente identici a noi stessi nei millenni; il padre della sociobiologia Edward O. Wilson dice: L’emozione non è una perturbazione del corso della ragione, ma una sua parte vitale”....
“.... E il grande Gerard Edelman, che è il più determinista di tutti”, continua Boncinelli, “ dice che senza le emozioni probabilmente non sarebbe possibile nemmeno la cognizione. Del resto, il passaggio di quanto viviamo dalla “ memoria breve” alla “memoria lunga” è condizionato al 99 per cento dall’emozione. Mi ricordo di una persona antipatica o simpatica, non di una neutra.... La mente non è affatto un computer”.
E’ il “telaio incantato” del neuro biologo Charles Sherrington, da lei citato? “Bello, ma solo poetico. No, per me la mente è il commento dell’universo. Che cosa stiamo a fare noi uomini? A commentare l’universo, ad ammirarlo, a contemplarlo e continuamente ad emozionarci”.
Esaminando la parola emozione, anima e universo, abbiamo imparato moltissime cose, che fanno parte di noi stessi, della vita dell’uomo e del mondo che ci circonda e dell’intera galassia. Ma noi, nel nostro piccolo vocabolario, sappiamo distinguere e constatare soltanto che è ritornata la primavera e con essa le nostre escursioni, per ammirare da vicino la meravigliosa natura che non finisce mai di emozionarci. Oggi, il gruppo CAI di Mantova, dopo un lungo inverno, che ha creato non pochi disastri: terremoti, alluvioni, mareggiate, bufere, nevicate e tante slavine, con morti e feriti, ha programmato una meravigliosa escursione nella più bell’isola del Tirreno: La Capraia.
Vorremmo tante volte scappare dal mondo degli uomini, spesso violenti, malvagi, perversi, e rifugiarci nella pace della natura, dimenticare la cattiveria umana, le sue lotte, le sue guerre, i suoi delitti e ripararci nel seno della natura, come nel seno di una grande madre e, per questa prima uscita, non c’era di meglio che l’isola mitologica: La Capraia.
(Tratto dal libro: "L'isola felice che non c'è")

Taccuino degli appunti
Sento ancora quel venticello fresco e leggero che spirava dal mare, la sua fresca brezza che mi avvolgeva come una carezza, mentre stavo dipingendo sulla scogliera di Portofino.
Vi regnava una calma, una tranquillità senza turbamento alcuno.
Anche oggi come allora, la quiete di questo dolce pomeriggio di maggio entra dalla finestra aperta della veranda che dà sul giardino della casa: vi entra assieme agli echi smorzati del villaggio di sapore medioevale e assieme ad una brezza appena percettibile che si porta dietro, da un angolo del giardino, il profumo della magnolia in fiore. E' un profumo troppo intenso.… così dolce e penetrante da disturbare, in questa calma di paese, il nostro animo.
No, non sono certo le sensazioni degli anni della mia giovinezza quelle suscitate da questo profumo. Da tempo avevo appreso a dominare la smania e il turbamento di sensazioni che così spesso dalla natura arrivano a noi per i bui recessi del nostro animo. Posso ricordarmi, tornando con la mente agli anni della lontana giovinezza, di aver respirato anche troppo avidamente quello stesso dolciastro profumo, di essermi riempito gli occhi della rossa esaltazione delle grandi distese dei papaveri in fiore nei campi attorno al piccolo borgo aspromontano di Cosoleto, di essermi sentito voluttuosamente immerso nell'umida frescura dei boschi di castagni, degli ulivi secolari e dei vigneti opulenti che cingono il villaggio sferzati dalla pioggia ..… Sono ricordi armai lontani.
Ciò che mi arriva con questo profumo di fiori di magnolia, di rose, di viole e di cipresso, è soltanto un lieve sussulto dell'anima, o forse un'ombra di nostalgia del paese natio ma subito è rimossa.
Mi sono accorto con mia grande sorpresa che l'esercizio dello scrivere giova moltissimo al mio animo, grazie allo svilupparsi articolato dei ragionamenti nei paragrafi che si richiamano e si concatenano rigorosamente. E specialmente mi sono accorto che mi giovano le lettere, minute e ordinate che con il nero dell'inchiostro escono dalla penna. Esse materializzano la orditura dei miei ragionamenti dando loro la forma estetica e consentono, in una rete di richiami sotterranei, di rintracciare le fonti delle mie certezze: i quadri appesi alle pareti dello studiolo ed altri sistemati negli scaffali che ho dipinto dall'età giovanile a quella della saggezza o meglio dire della maturità. E come se secoli di storia e di cultura lasciassero a questi frammenti il permesso di contrasti nella successione di schizzi e disegni che si vanno disponendo sulla ruvida carta degli album.
Penso spesso e con sollievo a quanto siamo lontani da questi segni tracciati con la matita o con il carboncino i disordinati richiami della natura, le emozioni e le irrequietezze.
Da più di qualche ora mi sono ritirato nello studiolo e la fatica dello scrivere o disegnare, a cui sono avvezzo, è finita nella calma della sera per avere il sopravvento sulla lucidità della coscienza, e nel torpore di quel dormiveglia strane fustigazioni hanno luogo sulle pagine del taccuino.
Un senso di paura e forse l'immagine di un abisso, accompagna l'addensarsi degli acquerelli in una macchia di colore informe: ma subito essa lascia il posto ad una disordinata successione di macchie di intenso colore.
Quel catodico fluire senza posa, quasi una girandola o una vertiginosa dansa colorata, comincia poi, a poco a poco, a lasciarsi decifrare e diventa subito dopo la scura forma di un albero sul verde di un prato, diventa un cielo grigio di nubi, diventa il giallo dei cespugli di ginestre che copiose germogliano e colorano il costone roccioso di Portofino, diventa il largo ombrello sul tronco slanciato del pino marittimo che svetta sull'Appennino Ligure a fianco dei cespugli di ginestra.
Nel mio pensiero, mentre sono curvo sul foglio ruvido, mille altre forme naturali si lasciano decifrare.
Il mio animo, che prima era quasi inquieto, il profumo conturbante della magnolia, cessa di essere turbato ed ho intuito - o mi pare di intuire - la logica combinatoria di quel fluire l'algebra dei colori e delle forme, quasi una "charatteristica universalis", che mi consentiva di penetrare nella infinita riserva di significanti e di si significati che è il mondo della natura. L'ordinata successione dei tratti della matita sotto quelle forme astratte e quei colori irreali mi spiegavano quel mondo irreale, mi conciliavano nello stesso tempo con la cultura astratta, senza riferimenti concreti e con la storia dell'arte; e man mano che il lavoro procedeva potevo constatare che l'esteriorità della coscienza erano ridotte a sintesi.
Quell'assopimento, quel dormiveglia che spesso ci assale nelle prime ore del pomeriggio, in fondo non è altro che un processo fisiologico che permette all'animo affaticato di distendersi, ed è durato qualche secondo. Mi ha svegliato il profumo del caffè che saliva dalla cucina e il successivo tocco della campana del vicino campanile parrocchiale che indicava le ore 15, di un pomeriggio caldo afoso.
Il profumo della magnolia, delle viole e delle rose si era fatto più intenso. A nessuno - neppure a me stesso, avrei confessato di aver provato un senso di delusione nel constatare che le pagine del mio vecchio taccuino erano rimaste immutate.
Mi sistemai gli occhiali, intinsi il pennello nella piccola tavolozza e ripresi a dipingere sulla carta ruvida dell'album. Al momento giusto, tra una riflessione e l'altra, è arrivata Adriana con la sua speciale tazzina ristoratrice di caffè.
Scrivo, o credo di farlo, e dipingo soltanto per me stesso; per la tranquillità del mio spirito, per il resto di questi anni che mi è dato da vivere.
(Tratto dal libro: "Dolomiti e Sentieri d'Italia")     

Le bellezze della Riviera di Ponente
Dopo la storiografia di uno dei monumenti più belli e significativo dell'unità d'Italia, riprendiamo il nostro mini tour verso la Liguria di Ponente.
Ad Albissola, tornando nuovamente sul mare, altre splendide ville puntaggiano la fascia costiera che si fa via via più dolce avvicinandoci al confine di Stato: Villa Balbi, Villa Cavotti, Villa Faraggiana aperta anche al pubblico.
Savona ed Imperia, dal conto loro, sono due grandi centri con il relativo corollario di periferie industriali e grandi e trafficate strade.
Stupisce piuttosto la condizione di Alassio che, nonostante l'aspetto mortificato da schiere di palazzi insignificanti, viene ancora dipinta come importante località turistica da certe carte e guide che si ostinano a fare confusione tra ricettività e interressi turistico, come riferisce Giulio Ielardi, nella sua mini inchiesta sulla Liguria.
Alassio si estende attorno ad una stupenda e pescosa insenatura, ben riparata dai venti del nord da una cerchia di colline, tra cui s'erge maestoso il Monte della Guardia, teatro il 26 luglio del 1672, di un accanito combattimento tra le truppe della Repubblica di Genova e quelle piemontesi, calate dal Cervo e costrette a riparare a Stellanello, feudo imperiale del principe Doria.
La storia racconta che una colonna di profughi milanesi, nel lontano 568, allorché Re Alboino occupò Milano, si sia rifugiata nell'insenatura posta fra Santa Croce e Capo Mele ed abbia preso dimora sul poggio della Madonna delle Grazie detto pure di N.S. del Castello, da dove, verso l'anno 850, scese alla spiaggia per dedicarsi alla pesca.
Le molteplici bellezze naturali di cielo, di mare, di territorio disseminato di ville superbe e di villini deliziosi, una vasta spiaggia di finissima rena, un clima perennemente primaverile e salutare, fanno di Alassio la perla della costa di Ponente. Peccato che sia mortificata dalla schiera dei suoi palazzi insignificanti.
San Remo è ormai alle porte col paesaggio più artificiale di tutti, quello delle serre dove al riparo del vento e della pioggia cresce giorno per giorno l'industria più redditizia, quella dei fiori. Trame sorrette da sottili armature che ricoprono versanti a mare, spallette a ridosso dell'Aurelia, intere colline.
A decine si assiepano ad esempio nella vallata del torrente Armea, qualche chilometro prima di arrivare in città.
Sopra una di quelle alture avvolte dal vetro e dalla plastica sorge Bussana Vecchia, così chiamata per distinguerla da Bussana Nuova sorta due chilometri più nell'interno.
E' una città - fantasma, Bussana, da quel lontano 23 marzo 1887 quando un terribile sisma la distrusse assieme ad altri 234 Comuni liguri. Ma è anche una scommessa giocata e vinta da una piccola comunità multi lingue (soprattutto tedeschi, al solito ) di recuperare parte del prezioso patrimonio edilizio, facendone insieme un'attrattiva turistica e un esperimento di ritrovata armonia.
Proprio all'ingresso stretto e verdeggiante del borgo si domina con lo sguardo l'ultima tappa di questo piccolo tour in terra ligure: l'ormai famosa superstrada sopraelevata con tanto di svincoli a farfalla che non porta in nessun luogo perché si arresta tra le croci del cimitero di Valle Armea, assurta a simbolo di una pratica delle opere pubbliche sotto il segno dell'improvvisazione e di Tangentopoli. Quasi 5 chilometri di Aurelia bis, tra Taggia e San Remo, dal costo preventivato di 308 miliardi, finiscono oggi contro le 71 tombe del cimitero.
Inaugurato nell'ottobre del'89 dell'allora ministro Prandini, il cantiere si arrestò a causa dell'intervento della Soprintendenza di Genova perché furono rinvenuti resti di un insediamento romano.
Il nostro Paese dal punto di vista etnico, geografico, psicologico e soprattutto politico, è diversissimo dagli altri, frastagliato e pieno di imponderabilità, che non si può prevedere, valutare in tutti i suoi più vari aspetti.
E' terra magica la nostra, divertita dalle sue astruserie, bislacca, mutevole fatta apposta, per quel gioco millenario del rimpiattino che è poi un po' il compendio della sua storia e della sua morale. Ebbene, su questo terreno vario, circospetto, suscettibile si muovevano gli uomini che rappresentavano la politica della prima Repubblica.
In quel periodo degli anni Ottanta, in cui sono iniziati i lavori per i 5 chilometri dell'Aurelia bis, appunto, tra Taggia e San Remo, non è stato il fango che ha fatto la sua comparsa, anzi la sua irruzione negli anni Novanta.
Oggi è crollato soltanto un sistema politico, ma anche questo ha offerto pochi spiragli alla speranza. Quanto alla prematurità del "fango", che effettivamente ha incominciato a dilagare solo agli inizi degli anni Novanta, se il fango ha incominciato a tracimare solo a questo punto, è perché solo a questo punto si sono scoperti i tombini. Sotto di essi il fango si accumulava da lunga data e specialmente nell'ultimo decennio.
Il caso della famosa superstrada sopraelevata del paese - fantasma di Bussana, che non porta in nessun luogo perché si arresta tra le croci del cimitero di Val Armea, non è un caso anomalo.
Nel nostro Paese casi come quello si contano a decine. Molte opere pubbliche sono rimaste incompiute e abbandonate come cattedrali nel deserto, perché sono nate sotto il segno dell'improvvisazione e di Tangentopoli.
Siamo sicuri che nessuno ci saprà mai dire come andrà a finire questa incredibile storia italiana.
Lasciamo questa nostra perenne storia italiana e concludiamo questo nostro reportage, o meglio dire questo nostro itinerario escursionistico alla riscoperta della natura.
Le insenature, le rientranze a forma di sella, i luoghi scoscesi, i precipizi e le "ville sparse e biancheggianti sui pendii" che caratterizzano la costa delle Cinque Terre, con la loro bellezza discreta. Paiono nude in un'architettura di elementi eterogenei e la loro semplicità e forse una delle cause del misterioso senso di pace che si prova e della certezza verso cui si va incontro.
(Tratto dal libro: "Dolomiti e Sentieri d'Italia")     

La bella Genova
Eccoci così giunti, con il nostro viaggio a ritroso nel tempo, nella superba Genova, che non a torto, è chiamata "La Superba", per la magnificenza dei suoi edifici e forse perché, guardandola dal mare, posta com'è a guisa d'immenso anfiteatro, ornata di verde fra le densissime abitazioni e di cupole, di campanili, di pinnacoli, essa appare veramente la dominatrice, la regina del golfo.
La parola non è però completamente adatta, come direbbe lo storico Moraglia, poiché trattandosi di una città, farebbe pensare non solo ai palazzi imponenti, ma a grandiose strade simmetriche, e vastissime piazze, ad immensi giardini, ed ecco invece che in questo Genova si umilia.
E dai monti che la circondano e anch'essa ha preso d'assalto per espandervi la sua vita intensa, esuberante, scende in piccole innumerevoli vie e viuzze tortuose sino al mare, che è la sua attività, la sua ricchezza, per poi risalire con strade e piazze necessariamente piccole, utilizzando quel breve spazio in cui è costretta, indugiandosi a riprendere lena in qualche ristretto giardino.
Genova e le Riviere in passato trovavano motivo di vanto nell'abbondanza di "ville" e "fortezze", intese qui come forme di arredo paesistico formate da uno o più edifici attorniati da un giardino che faceva tutt'uno con i corpi architettonici. La loro presenza fin a ridosso delle mura cittadine e documentata già ai tempi del Petrarca, che le descrive come dimore di campagna delle ricche famiglie genovesi.
L'ultima indagine del 1981 ne contava quasi quattrocento, circa un terzo delle cui senza nemmeno un vincolo da parte della Soprintendenza.
Alcune oggi, ospitano uffici, altre biblioteche o istituzioni vari o scuole; quelle visibili si contano sulle dita di una mano, mentre la maggior parte è in stato di abbandono.
L'ANTICO FORTE DI SAN GIULIANO.
Nelle alture di Genova sono ancora visibili numerosi forti, che erano stati costruiti a difesa della città. Noi ci occuperemo del forte di San Giuliano.
Il Forte di San Giuliano fu costruito dal 1817 al 1831 con lo scopo di migliorare le difese della città dalle provenienze dal mare e da levante. La fortificazione faceva parte di un sistema difensivo che comprendeva le batterie costiere di San Nazaro e di Torre di Amore, per il controllo dello specchio d'acqua antistante l'imboccatura del porto, ed i Forti di S. Martino, S. Tecla, Richelieu e Ratti, edificati nello stesso periodo lungo il crinale ad Ovest di Genova che delimitava la valle del torrente Sturla.
L'ampio disegno difensivo della città risale probabilmente a studi condotti dall'ingegnere militare Michele Codeviola ( GE 1717 - 1801 ) per conto della Repubblica di Genova e poi attuati dallo stato Sardo Piemontese cui era stata assegnata la Liguria dal Congresso di Vienna dopo l'epopea napoleonica.
Forse all'esecuzione dell'opera, affidata al Col. del Genio Militare Cav. DE Andreis, lavorò anche il Tenente del Genio Conte Camillo Benso di Cavour, assegnato a Genova, nei primi anni della sua breve carriera militare, proprio per contribuire all'edificazione dell'imponente sistema difensivo.
Il Forte, costruito su terreni di proprietà dei marchesi Bernardo Sopranis e Giuseppe Malfante e del Sig. Giuseppe Bianchi, fu armato inizialmente con 10 cannoni da 16 libbre in grado di spianare le ville e i palazzi che ostacolavano il campo di tiro, e con 7 obici da 8 e da 5,72 pollici oltre a 20 cannoncini di piccolo calibro.
Nella rivolta del marzo 1849 che vide il popolo di Genova insorgere contro la mal accettata sudditanza del re di Sardegna, il Forte di San Giuliano fu occupato dagli insorti guidati dal triunvirato degli avvocati David Morchio e Costantino Reta e del Gen. Giuseppe Avezzana.
Nella rivolta fu ucciso il Maggiore dei Carabinieri Angelo Cappi di Bairolo al quale è tuttora dedicata una via di Genova. Ripreso dai Bersaglieri del Maggiore Generale Alfonso La Marmora, un reparto dei quali era accampato lungo le rive dello Sturla, dove ora è situato il Comando della Regione Carabinieri, il Forte fu destinato il 27 ottobre 1862 anche a prigione per i Garibaldini che al termine dell'impresa dei Mille avevano dato luogo a tumulti per non essere stati prontamente inseriti nel nuovo Esercito Italiano. Cosa che poi fu ottenuta dopo la ferma richiesta del Gen. Garibaldi.
Successivamente ( 1863 - 1865 ), vi furono detenuti i cosiddetti " domiciliati coatti" uomini e donne prelevati nelle campagne del sud nella lotta contro il banditismo dell'Esercito inviato a stroncare il fenomeno sorto prevalentemente a scopo di restaurare la spodestata dinastia dei Borboni.
All'inizio del secolo tutto il lato sud del Forte che originariamente cadeva a strapiombo nel mare, fu tagliato per fare spazio alla costruenda strada litoranea ora denominata Corso Italia.
Non per questo il manufatto perdette la sua importanza militare. Vari Comandi e Reparti vi furono destinati sostituendo le ormai superate batterie. Dal 1943 al 1945 fu occupato dalle truppe tedesche che vi installarono impianti delle trasmissioni ed una batteria contraerea da 88.
Fu anche utilizzato come carcere speciale e luogo di tortura. Vi furono fucilati Mr. 6 partigiani tra cui Giacomo Buranello al quale è intitolata una strada di Genova.
Nel 1948 i Carabinieri entrarono per la prima volta nel Forte con il Nucleo Autocarrato della Legione di Genova il quale convisse nella Caserma con Reparti del Genio - Trasmissioni.
Detto Nucleo dette poi vita al 2^ Battaglione " Liguria" che vi rimase fino al 1978 anno in cui fu trasferito nella Caserma Vittorio Veneto a Sturla.
Anche noi conosciamo molto bene ogni angolo del vecchio Forte San Giuliano, per essere stati assegnati nel lontano 1963, quale istruttore, del I^ Contingente di carabinieri ausiliari di nuova istituzione.
La nostra permanenza al Battaglione di Genova è durata alcuni anni, nel corso dei quali sono transitati moltissimi giovani carabinieri ausiliari,appartenenti a classi e contingenti diversi.
Nel 1982 iniziarono imponenti lavori di ristrutturazione che hanno restituito al monumento la sua antica dignità per divenire sede del Comando Provinciale dei Carabinieri di Genova.
(Tratto dal libro: "Dolomiti e Sentieri d'Italia")

La mitica Recco
L'antica Ricina, sorge a ponente del promontorio di Portofino, con a tramontana la ridente vallata di Uscio, che mette capo a monte Tugio, valida barriera ai venti freddi del nord.
Narra Diodoro Siculo che un giorno Erice, figlia di Venere, pensò di inalzare in onore della madre un tempio e scelse una località amena ai piedi del monte oggi chiamato S.Giuliano. La dea dal figlio venne detta Ericina, da cui derivò Ricina e di quì Recco.
Quando fu attraversata dalla Via Aurelia, a cui s'univa altra antichissima strada, ricordata nella Tavola di Velleiate e che passava attraverso il territorio di Tarbonie, oggi Tribogna, di Testaluna, l'odierno Testano e di Uscio, ora Uscio, crebbe di molto l'importanza di Ricina.
Recco e Camogli, al tempo dei Longobardi, prestarono sicuro rifugio ai metropolitani lombardi, che fuggivano le ire di Alboino e vennero poi cedute ai feudo dall'Imperatore d'Oriente al vescovo di Milano. Ma al principio del secolo XIII, Recco passò a far parte del libero Comune di Genova e fu retto da un Console, poi, nel XV secolo, da un Podestà e nel XVII dai Capitani del Popolo, soppressi sotto Napoleone I.
Una nota storica ci dice inoltre, che durante la seconda guerra mondiale, Recco venne quasi del tutto rasa al suolo dagli innumerevoli bombardamenti che miravano ad abbattere il superbo e massiccio ponte della linea ferroviaria Genova - Pisa ; oggi rifatto più maestoso.
Anche Recco è risorta da tanta rovina più linda e graziosa, circondata da ville e giardini. Per il suo clima mite, per l'incantevole posizione, per la cordiale ospitalità degli abitanti, è stazione climatica balneare assai frequentata. Noi conosciamo molto bene questa meravigliosa località balneare, poiché, durante il nostro lungo soggiorno per motivo di servizio nella bella città di Genova, spesso trascorrevamo il nostro Week- End su quella bellissima spiaggia.
(Tratto dal libro: "Dolomiti e Sentieri d'Italia") 

Tra passato e futuro
Pensando al passato, ai rimpianti di libertà e di gioie perdute, mi vengono in mente certe brevi parole di Teodoro de Divinis e di Franz Moscati ... " Come rintracciare l'etimo, come interrogare il suono più segreto?" Solo a volte una parola più aperta, più mossa, lacera il bozzolo di questo piccolo mondo e mette le ali. L'orlo schiumoso dei flutti, le screziature d'una conchiglia in cui si percepisce la fievole eco di età remote. Un minor soffio di vita, una piccola rinuncia, ed ecco che ritorna in ognuno di noi la gioia di vivere e di continuare ad esplorare quello che rimane e, credetemi, c'è ancora moltissimo nel nostro stupendo Paese , ma quello che ci manca, ahimè, é il tempo. Da queste visioni, da queste bellezze, creare un'opera d'arte sia letteraria che artistica, ma noi non creiamo, ci limitiamo soltanto a copiare questa meravigliosa natura che ci circonda. Questo é il racconto di tanti viaggi sui sentieri del nostro meraviglioso Paese in trasformazione. Di là della " facciata" moderna trapelano ancora - scendendo lungo la Francigena e i sentieri delle montagne dolomitiche e dell'Appennino - le strutture antiche. Nei camminamenti, nelle ridotte, nelle vecchie trincee del Gavia e dell'Adamello, dove gli alpini nostri, combatterono e perirono, come pure nelle città d'arte medioevali della vecchia Toscana, ce ancora un mondo fertile di sensazioni. La prosa semplice, chiara del narratore, spesso riflette un'osservazione diretta della realtà e la compone in un quadro efficace. Dopo questo inciso, terminiamo questo contesto letterario che abbiamo iniziato l'anno scorso e che abbiamo definito l'ennesimo "zibaldone". Con il Week-end in questa vecchia e meravigliosa Toscana, dove si fondono leggenda, storia, tradizioni e religiosità, ma soprattutto quella fonte inesauribile di bellezze paesaggistiche, termina questa nostra ennesima fatica letteraria. La verità é che in autunno di ogni anno quando ritorniamo in questi luoghi della memoria, proprio nei periodi in cui sia la montagna incantata dell'Amiata che le pianeggianti colline punteggiate dai vecchi casali e dai chiassosi cipressi, riacquistano tutto il loro fascino e mistero; quando con i loro silenzi, suscitano sogni e fantasie dentro di noi , che amiamo il contatto fisico di questa verde campagna, della quale esalta forme e colori. Un mondo particolare che per noi é quanto mai rappresentativo, sia per l'ambiente naturale che per quei profondi chiaroscuri di luci e di leggere foschie, così da poterlo distinguere da qualsiasi altra località del nostro meraviglioso Paese.
Qualcuno ha scritto che: "La natura, questa meravigliosa natura, ti invita e ti ama: riposati pellegrino del mondo sul suo seno, che essa ti apre sempre; quando tutto per te cambia, la natura resta la stessa, e lo stesso sole sorge sui tuoi giorni".
UN MONDO FANTASTICO.
La stessa cosa potremmo dire delle Dolomiti, delle Alpi e degli Appennini. Parlando appunto dalle Dolomiti, il grande scrittore Dino Buzzati, che fu amante delle Dolomiti, che lo riportavano all'atmosfera di sogno della sua infanzia, proprio nel mistero di quelle cime egli trova ispirazione e conferma ad una visione del mondo sospesa tra il fantastico e il metafisico, il precario e l'ignoto.
".... Di che colore? Si può trovare un aggettivo adatto per definire questa tinta così diversa da tutte le altre montagne, che al sottoscritto, ogni volta che ci fa ritorno e le rivede, provoca un trasalimento interno, risollevando ricordi struggenti? No, un aggettivo preciso non esiste. Più che di un colore preciso, si tratta di un 'essenza, forse di materia evanescente che dall'alba al tramonto assume i più strani riflessi, grigi, argentei, rosa, gialli, purpurei, viola, azzurri, seppia, eppure é la stessa, così come la faccia umana non cambia anche se la pelle é pallida o bruciata..."
Per capirle, le Dolomiti e le montagne in generale come pure questo paesaggio incantato della verde Toscana, veramente occorre un po' di più. E non vogliamo dire arrampicare in piena regola, poiché non ne saremmo più capaci, come molti anni fa, quando abbiamo incominciato l'escursionismo con il CAI, ora bastano i sentieri pianeggianti. Entrare, avventurarsi un poco tra le crode, toccarle, ascoltare i silenzi, sentire la misteriosa vita. Ci basta solo questo per essere felici , per amare la montagna.
"Montagne! Che siete belle, purissime nelle albe violacee
Frementi negli arrossati tramonti
I vostri picchi strapiombanti nelle nevi eterne io amo
I vostri ghiacciai silenziosi..."
(Tratto dal libro: "Perché nulla vada disperso")   

Le tinte di un tempo felice
Sfogliando le pagine della storia dell'arte, dove troviamo i grandi pittori impressionisti, il nostro ricordo ci porta a Settignano,sulle dolci colline di Fiesole, dove Telemaco Signorini, Firenze (1835-1901), che fu il più esponente, insieme con Giovanni Fattori e Silvestro Lega, dei macchiaioli e il più attento al fascino del paesaggio toscano, dipinse i suo quadri più belli.
Esponente del gruppo dei macchiaioli, che subì l'influsso degli impressionisti francesi, che dipinse la Piazzetta di Settignano, Bambina che scrive ed altre importanti opere e nelle memorie dei grandi che l'amarono. Ci duole moltissimo di non aver potuto visitare il borgo di Settignano, ma questo borgo non era compreso nel nostro itinerario e poi si trova nelle meravigliose colline di Firenze. In passato, abbiamo visitato questo borgo che ha ispirato il grande pittore, ma avremmo desiderato rivederlo. Non é stato possibile.
Sergio Savione, nel suo articolo apparso su "Bell'Italia", dove ci racconta l'Italia com'era, egli così scrive: " A confrontare adesso Piazza Nicolò Tommaseo con il quadro di Telemaco Signorini intitolato " Piazzetta a Settignano" si ha la chiave per aprire il clima, direi, di com'era Settignano. Paese scelto dal dalmata Niccolò Tommaseo come rifugio ultimo della sua instancabile vita di letterato, patriota e politico ( tra l'altro aveva proposto una federazione repubblicana delle diverse regioni d'Italia anticipando le velleità delle leghe).
Intanto quella piazza, già modificata nell'accrescere le costruzioni esistenti, fu sventrata dalle mine tedesche che fecero saltare l'allora Casa del Fascio, sorta al posto di una delle trattorie dei bei tempi, e non perché fosse la Casa del Fascio ma per bloccare le truppe americane e inglesi che avanzavano verso nord dilagando non soltanto al centro di Firenze, ma anche alle estreme ali della città come Settignano appunto.
Che, purtroppo, se conserva in parte quell'aria campestre e insieme letteraria derivantegli dal Tommaseo e D'Annunzio, ha subito notevoli variazioni che certo non abbelliscono la Settignano di ora. Nella stessa villa La Cappocina, in cui abitò per qualche tempo Gabriele d'Annunzio, il muro di cinta, ad esempio, é stato rifatto come anche quello fiancheggiante la strada. E se ci ha guadagnato di vista dell'amenità campestre richiamata invece dal muro di fronte. Non solo, se andiamo verso il centro del paese la via della Cappocina ha conservato quasi intatto quel sapore di "Estate a Settignano" che il Signorini sa raccontarci nei suoi quadri con colori magici. Ed é proprio questa Estate a Settignano il timbro letterario e pittorico del paese incantato di boschi e di vallate aperte verso Firenze o scoscese a nord - est riuscendo a darci ancora la tinta mnemonica di un tempo felice".
Si sa, la felicità é sempre trascorsa o rimossa e per il futuro quella attuale dobbiamo ricordare o immaginare il futuro. Siamo qui infatti per frugare nell'Italia com'era, per trarne dal rimpianto forse più bellezza che dalla realtà stessa. Ma la realtà é del passato, che di solito si porta via anche dolore e tragedia, per lasciarci l'illusione stentorea di un tempo che fu. In questo nostro Week-end toscano, abbiamo registrato tutto questo. E debbo dire che l'abbiamo ritrovato in pieno per le vie e le viuzze di Montepulciano, di San Gimigniano e di Pienza, come Sergio Savione li ha trovate a Settignano dove i fatti dolorosi della guerra diventavano solo ricordo pittoresco. Giorgio Savione, così continua dicendo: "Nutrito soprattutto dagli altri grandi di Settignano: lo scultore Desiderio, i fratelli Gamberelli detti Rossellino, l'architetto Fancelli e il grandissimo Palazzeschi, quasi dimenticato dai nostri critici che paiono nutrirsi solo di Pasolini e Moravia. Mentre trovare a Settignano la tomba di Aldo Palazzeschi ci riempie il cuore di sana letteratura, morbida dello stesso paesaggio che ci commuove".
Oggi, in questa escursione nel senese, in queste giornate di fine autunno splendenti di sole, é come é stata molti anni fa quando passeggiavamo per le stradine di Settignano, a constatare nel presente la validità di una nostalgia implicita nell'Italia com'era. Si, é vero, la nostalgia é fatta di sapori, d'immagine, dai colori dolci e sfumati come quelli del Signorini che se non contengono l'assoluto pittorico hanno però la patina di ricordo. Quasi l'arte si distingua in chi propone e in chi rammenta proprio per costituire quella presenza totale che a Montepulciano abbiamo ritrovato piena di nostalgia. Con l'amico Rodolfo Faroni, mentre percorrevamo quelle stradine, fiancheggiate da piccoli carruggi e affacci, che scendono verso la vallata, abbiamo ritrovato quelle dolcezze alle quali noi della Val Padana non siamo abituati a vedere qui in pianura e poi, c'era quell'atmosfera da sogno, quei colori leggeri e sfumati da quel mare grigio della nebbiolina bassa che copriva ogni cosa. Quelli sono immagini, dei colori del Signorini e del Fattori, che se non contengono l'assoluto pittorico hanno però la patina del ricordo.
Sicuramente non possiamo facilmente dimenticare le vie e gli angoli pittorici di questi borghi, ma che dico, di queste città medioevali, dove regna tanta serenità e dolcezza, dove gli artisti si innamorarono non solo della loro bellezza pittorica, ma anche e soprattutto della loro storia. Questi luoghi ricordano i grandi che qui nacquero e gli ospiti illustri. Noi, che non siamo niente di fronte a questi grandi artisti e personaggi della letteratura, dell'arte e della storia, ma sentiamo dentro di noi stessi di amare moltissimo l'arte pittorica e, vediamo questi luoghi allo stesso modo come Signorini vidi gli angoli di Settignano. Noi viviamo, giorno dopo giorno, di queste bellezze che riempiono il cuore e soprattutto gli occhi, non delle lusinghe interessate a corrompere l'arte e la letteratura. Ecco, dicevo all'amico Rodolfo, mentre ammiravamo queste meraviglie, sono state tre giornate di risorse venire in questa terra antica e meravigliosa di Toscana, per constatare nel presente la validità di una nostalgia implicita nell'Italia com'era.
Qualcuno ha scritto che le Terre di Siena e le Crete sono le terre dei poeti, degli scrittori e dei musicisti che qui hanno sempre trovato originale aspirazione. Un altro mondo da scoprire é quello dell'Amiata , montagna generosa la cui grande ombra materna da sempre protegge le Terre di Siena e le Crete. Altri climi e altre certezze naturalistiche, ci consentono di vivere con serenità la nostre passeggiate in primavera e in autunno. Qui le stagioni hanno caratteri più decisi e qui si apprezzano ancor meglio i frutti della terra, soprattutto quelli invernali, che oggi sono un vanto e una nuova risorsa. Sono i luoghi dell'anima dove le forme del paesaggio esprimono l'essenza dell'armonia e dell'equilibrio, sono il disegno dell'impalpabile interiorità, un'opera d'arte dai contorni imprevedibili. Noi diremo che La Terra di Siena é come un mare: onde, curve, valli e crinali s'inseguono dall'alba al tramonto, dalla primavera all'inverno.
E' come un gioco di scatole cinesi dove un tesoro lascia scoprire un altro tesoro. Piccoli edifici romanici che racchiudono preziosi fondi d'oro, vicoli stretti che si affaccino sulle piazze imponenti e sui pendii, mura severe che abbracciano la vita di comunità ancora capaci di curare con amore tradizioni e testimonianze del passato. La Terra di Siena é tanto ricca di capolavori da essere essa stessa un capolavoro. Immersi in un'atmosfera senza tempo é difficile scegliere se indugiare sui paesaggi delle Crete o ammirarli nelle pitture del Lorenzetti e di Simone Martini o ancora sulle tavole dei Maestri del Quattrocento. Questo nostro viaggio é stato all'insegna della poesia che dal nord al sud della provincia rivela aspetti diversi e tutti assolutamente affascinanti.
Dovunque ti aggiri, vedi che tutto respira ancora di glorioso medioevo la turrita San Gimignano , l'incantevole Montepulciano e Pienza. Il misticismo, come ci suggeriva Don Enrico Castiglioni, ci regala incanti come l'Abbazia Isola, l'Abbazia di San'Antimo e quella di Monte Oliveto Maggiore. Nei vecchi borghi, nelle stradine, nelle impenetrabili foreste, nei tronchi dei vecchi e secolari ulivi , nei cipressi e nei casolari, c'è la saggezza di una terra antica, ancora tutta da scoprire. Questi luoghi, questi paesaggi metafisici e lunari senza tempo ne orizzonti, sono immortali dentro di noi, come pure i paesaggi dipinti dai grandi pittori macchiaioli: Signorini, Fattori e Silvestro Lega. Sulla scia pittorica di questi grandi artisti toscani , che attorno alla seconda metà dell'Ottocento si proposero di lottare contro l'accademismo e di instaurare una pittura di " impressione" attuata per mezzo di "macchie" di colore , con diretto riferimento all'opera dei pittori pre - impressionisti e impressionisti francesi, studiando e copiando le opere più significative di questi grandi autori, oltre a formarmi una cultura pittorica, mi sono innamorato del paesaggio toscano, dall'atmosfera da sogno, di questi colori trasparenti, leggeri e sfumati. Ogni volta che ne ho la possibilità, vengo volentieri per ammirare questi paesaggi metafisici e lunari, luoghi da sogno e di dolcezze, dove regna la pace e la gioia di vivere.
Perché la vita, credetemi, é fatta di queste piccole cose.
(Tratto dal libro: "Perché nulla vada disperso")         

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