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    L’Ebreo errante 
Mio padre, Romolo, nacque nel lontano 1892 da famiglia numerosa e molto povera. 
Sua madre, già vedova con dieci figli , stava a mezzadria con Don Cesare Cerulli 
in una campagna fuori Porta Romana della città di Teramo. 
Un mattino , poco dopo la morte del padre Pasquale un gruppo di signori a 
cavallo si presento` davanti alla capanna di terra dei mezzadri. Il fattore di 
don Cesare disse alla vedova Teresa che , non avendo uomini per lavorare, la 
terra veniva sfrattata. 
Teresa , supplicando ed abbracciando uno stivale di don Cesare , prego` di 
rimanere e di non metterla in mezzo alla strada con tutti quei figli e che lo 
zione Candù tornava a zappare dall’America. 
Zione Marcantonio col nomignolo di Candù era noto nelle vicinanze per la sua 
imponente statura , alto piu` di due metri ed addirittura tarchiato ed era 
rinnomato per la sua forza che gli permetteva di zappare per quattro uomini. 
Alla povera Teresa così fu concesso un rinvio allo sfratto. 
Col ritorno di Candù e la crescita dei primi figli i De Luca rimasero a 
mezzadria.Candù dormiva in una piccola cabina ad ovest del ponte vicino al fiume 
Tordino ed ai limiti della masseria . La nonna Teresa gli portava a mangiare 
prima e dopo il sole. Tutti , anche i ragazzi di pochi anni, zappavano dall’alba 
al Vespro. 
Vestivano ( Lu camiscione) un sacco blu di cotone con tre buchi che arrivava 
sotto il ginocchio. Il nonno Giovanni e Candù avevano i pantaloni, un lusso 
permesso da pochi contadini per giorni di festa. 
Una vita tanto meschina da non potersi immaginare nemmeno con una ampia fantasia 
. 
Erano rassegnati e quasi contenti che potevano sfamarsi e avere una casa 
tuttochè di un vano e di terra , dove donne e piccoli potevano coricarsi mentre 
gli uomini dormivano nei pagliai. Romolo a dodici anni andava alla scuola serale 
con le scarpe della sorella maggiore .  
Mio padre Romolo fu coscritto alle armi per andare a conquistare la Libia per 
poi essere trasferito al fronte alpino della prima Guerra Mondiale . Un totale 
di quasi otto anni di vita militare sveltì il suo modo di pensare . 
Tornato a casa e alla miseria nera decise di andare in America a trovar fortuna 
per raggiungere il fratello maggiore Luigi a Boonton N J . 
Vicino al paese di Boonton sempre alla periferia di New York City si stava 
fabbricando un nuovo paese fra laghetti appunto chiamato Mountain Lakes. 
La ditta edile fabbrticava manieri per i ricchi della città . Mio padre si mise 
subito a lavorare per il fratello Luigi che faceva l’appaltatore con una ventina 
di uomini. 
I lavori consistevano di fare giardini ,muri e autorimesse per i nuovi ricchi 
padroni che avevano soldi a palate per la fiorente economia di Wall Street.  
Dopo brevissimo tempo di soggiorno in America , Romolo si mise a fare il 
contrattore per proprio conto. Forte e instancabile lavoratore si fece in soli 
sette anni d’America una fortuna.  
Tornato a Teramo , con la morte di don Cesare , ebbe la fortuna di comprare la 
masseria dove la sua povera famiglia soffrì la fame. 
Fabbricò un bel palazzo con a fianco una scuderia e un garage per 6 macchine in 
via Cadorna 6 vicino al ponte di Porta Romana . In via Pigliacelli, la parte 
piu` nordica della allora tenuta, fece fare una villetta dove ci mise la non più 
povera mamma. 
Quando noi figli alle volte deridevamo nostro padre che faceva lo spilorcio, 
egli giungeva le mani a mo` di preghiera col la parte bassa aperta a forma di 
triangolo per raffigurare un tetto . Con questo gesto ci diceva:”Chi e` che 
fabbrica case” Alle volte rispondeva verbalmente: “Chi e` quel che ha tolto la 
schiavitù ai Callara`“ 
Romolo acquistò due tenute alle periferie della citta` , permettendo a noi figli 
di fare una vita agiata. 
Con la seconda guerra mondiale e con la forte svaluta della lira mio padre 
regresso` economicamente .  
 
Durante l’occupazione tedesca, una sera , quasi all’imbrunire, si presento` alla 
porta della cucina un uomo snello dall’aspetto signorile. Con un volto cereo e 
con una voce fioca chiese qualcosa da mangiare. Erano tempi brutti di guerra , 
il fronte era solo a una trentina di km.  
Mio padre lo fece entrare e gli offrì un posto a tavola che era pronta per la 
cena . 
L’esile signore , dopo il pasto, ci disse in un italiano da straniero che era un 
fuggiasco ebreo e cercava un nascondiglio dai tedeschi . 
Romolo lo nascose in cantina e dormiva in una grandissima botte. 
La botte aveva una porticina nel retro e nella parte del muro che dava ad un 
passaggio che riusciva addirittura in un appartamento di 2 vani. L’appartamento 
era usato per operai pero` in quell tempo papa` l’aveva affittato a una certa 
Maria di Ornello . L’ebreo che si chiamava Maurizio stava dentro la botte tutto 
il giorno , la sera usciva per sentire notizie della radio free dall’Ingilterra 
con noi.  
Maurizio visse con noi parecchi mesi e con l’arrivo degli Alleati e la 
liberazione di Teramo , egli ringraziondo gentilmente si licenzio` per andare a 
Londra da suo fratello .  
Poco piu` di un mese dopo arrivarono due pacchi con due cappotti di pelliccia di 
visone per le mie due sorelle con un semplice messaggio di due parole :”GRAZIE 
MAURIZIO “  
(Storie di vita vissuta dal libro di Callara` "Un Abruzzese In America") 
  
  
   Il ritorno 
La fine di luglio salpai da NYC per Genova con Marilyn e la sua compagna d’universita`. 
Io presi una cabina solo nella classe turistica . 
La compagna , Gloria, sembrava piu` libertina mentre Marilyn piu` seria . 
Finalmente dope 6 o 7 giorni di mare romantico incominciai a fare  
l’ amore serio. 
Girammo quasi tutta l’Italia del nord lei appassionata di tutte le chiese e le 
loro statue e mi faceva tante domande che mi cominciava a scocciare .  
Ricordo in una delle citta` lei mi chiese chi era la statua sopra un alta 
colonna, io senza guardare in su` dissi che era Garibaldi. “Ma no” lei di 
rimando “e ` una donna !!” Ed io “ Ah! Si` e` sua moglie Anita.”  
Cosi` finirono tutte quelle scocciature di domande . A Venezia ci separammo . 
Lei con l’amica partirono per l”Austria ed io per Teramo in Abruzzi . 
A casa con la mamma , Marilyn mi telefonava quasi tutti i giorni e voleva venire 
. Io le dicevo di aspettare perche` dovevo sbrigare molte cose . 
Rividi la mia bella Elena ci abbracciammo da non mai finire. Da principio era 
una cosa drammatica e commovente . Con tanti di …”non mi lasciare piu`” ecc ecc. 
Una sera ci mettemmo d’accordo di andare al mare . La mattina l’andai a prendere 
con l’Ardea e , con mia grande sorpresa, entro` in macchina con una vecchia zia 
vestita in nero. Urtato , mi torno` in mente che le ragazze per bene avevano le 
chaperon.  
Prima di arrivare al mare riconobbi un cantoniere che stava affilando una siepe 
ai margini della strada. Era un certo Davide , mezzadro di mio padre che alle 
volte faceva da giardiniere intorno alla nostra casa .  
Mio padre vendette la masseria e Davide fu cacciato dalla mezzadria . 
Davide padre di famiglia numerosa si raccomando` a mio padre che riusci` a 
prendergli un posto come cantoniere con l’ANAS . 
Raggiuntolo accanto alla siepe lo chiamai . Davide mi riconobbe all’istante e 
scappellando il suo gran sombrero di paglia s’inchino` e disse:” Bongiorne a 
ssiggnuri` ‘gnore patrunu`” ( Buon giorno alla Vostra signoria signor 
padroncino). Gli misi in mano due carte da dieci dollari dicendo :” Davide, 
dieci per i piccoli e dieci per una sbornia di vino in cantina.  
Ritornai in macchina e fui accolto da due sgardi gelidi delle due donne seguito 
da un silenzio eloquente che diceva” Come ti sei permesso di accostare e 
abbassarti a parlare con uno spazzino nella nostra presenza .” 
In Ametrica con i bassi mestieri che facevo m’ero dimenticato delle vecchie 
usanze e dei ceti sociali.  
Arrivammo al mare quasi senza dire una parola. Fu una giornata fredda . Il mare 
luciava del suo splendore ero io che non riuscivo a vedere perche` da quel 
silenzio appresi tutto. Io ero tornato per portare la mia bella com me in USA . 
In quel silenzio capii che era una impossibilita` . Lei senza finire l’universita` 
venire in America con un camionista /manovale squattrinato. 
Mi allontanai per un paio di giorni , dopoche` un nostro comune amico mi disse 
:” IL padre di Elena e` interessato in fotografia e vorrebbe vedere la tua nuova 
macchina da ripresa”  
Io gli dissi che lo andavo a trovare la sera stessa .  
Pensai subito che era un sotterfugio per il riavvicinamento . 
Dopo cena parlai a lungo col padre della nuova tecnica di cinematografia 
personale . Mi licenziai con Elena che mi accompagno` al cancello . 
Era una sera serena e lei con una mano sul cancello semiaperto disse:”  
“ Che bella luna piena in un cielo pieno di stelle” 
IO tolsi lo sguardo dal voluttuoso seno da dove emanava un profumo di donna e 
vidi la luna e il cielo. Rivolsi lo sguardo a lei, al suo viso da dove sfiorava 
un incerto sorriso e un invito al bacio. Col cuore straziato dissi un freddo 
“Buona notte “ e m’allontanai da quel forte desiderio di amare , da stringerla 
fra le mie braccia forte , come farla penetrare nel mio corpo ed essere parte 
integra di me stesso .M’allontanai col lo stesso cuore in gola di quando lasciai 
la prima volta.  
 
Dopo alcuni giorni feci venire Marilyn a Teramo e trascorremmo quasi due 
settimane al mare in un appartamentino affittato . Giorni belli spensierati 
pieno d’amore. A quei tempi non c’erano i turisti e quando la portavo a ballare 
i miei amici e coetanei litigavano per fare un balletto con la biondina dagli 
occhi verdi . 
Marilyn riparti` per salutare i parenti in Austria e riprender l’amica Gloria
 
Con l’accordo di ritrovarci nella nave di ritorno.  
Beh ci mal capimmo ed io ripartii da Genova quasi venti giorni prima . Arrivai 
tardi e sulla nave invano cercai la mia Marilyn.  
Settimane dopo mi arrivo` due telegrammi” Non ti o` visto sulla nave. 
Penso che sei gia` tornato. Vienimi a prendere, arrivero` giorno 28 a NYC .”  
Mi feci prestare la bella macchina Buick nera del mio principale per andare a 
prendere Marilyn. 
Al molo 82 una piccola folla aspettava dietro barricade lo sbarco dei 
passeggeri. Finalmente apparve Marilyn che vedendomi butto` giu` una grossa 
valigia e corse ad abbracciarmi . ci stringemmo per alcuni minuti baciandoci . 
Notai una elegante signora che ci stava vicino, capii subito che era la mamma 
quando la mia bella salutandola l’abbraccio`. 
La signora De Stein che venne da Pittsburg disse che aveva un amico con l’auto 
per portarci all’hotel. Io le feci capire che ero molto pratico della citta` ed 
avevo la mia auto proprio davanti al molo e la pregai di venire con noi. 
Arrivammo al Lexington Hotel in east side in pochi minuti .Le donne salirono in 
camera per preparasi per il pranzo ed io invitai l’amico al bar del lobby. 
Dopo il pranzo la De Stein voleva pagare ed io che avevo notato gia` una certa 
freddezza insistetti e pagai il conto, mentre ..l’amico tacque. 
La sera con Marilyn dopo cena andammo a ballare al club “Roseland” dove c’era la 
famosissima orchestra di Xavior Cougat e la sua musica “Latina”  
Gia` tardi andammo al mio Hotel e finalmente soli, inebriati dallo champagne e 
dall’amore.  
All’alba la riportai al Lexington con un abbraccio e quasi piangendo ci 
promettemmo di rivederci subito . Le asciugai le lacrime con la mia mano e lei 
mi rivolse uno sguardo pietoso , gli occhi verdi sembravano di brillare piu` che 
mai alla fioca luce del lampione della strada. Quanto era bella quanto mi 
dispiaceva lasciarla .  
Risalii sull’auto e senza girarmi partii , presi la strada 36 come per far piu` 
presto ad attraversare la citta` per entrare al Lincoln Tunnel ed uscire nel mio 
New Jersey. Aprii il finestrino come per scacciare l’aria malvagia della citta` 
piena di tragedie come la mia . Imboccai l’autostrada # 3 e l’aria fresca 
mattutina col sole sorgente mi rifocillo`.  
Guidando verso casa ripensavo che Marilyn me l’aveva accennato in Italia che la 
mamma era una vedova dura, una “ social climber” che viveva con una forte 
entrata finanziaria del defunto marito . 
Ecco perche` mi scrutino` dal basso in alto come per giudicarmi se ero degno 
della figlia e dal tono della voce e dalle parole mi fece subito capire che lei 
ci teneva a mantenere la distanza. Ecco perche` insistetti ad andare con la mia 
auto e a pagare il conto del pranzo . Certo un gran contrasto con la figlia 
cosi` dolce ed affettuosa .  
Dopo alcune settimane Marilyn venne a NYC per trascorrere un wekend con me . Un 
mese dopo andai a Pittsburg da lei per un paio di giorni e mi accorsi che il 
nostro amore incomincio` ad indebolirsi. La distanza , la mancanza 
dell’avventura touring l’Italia e la realta` del lavoro quotidiano furono i 
contributi ad affiacchire il nostro impeto amoroso . 
Alcuni anni dopo ricevetti una lettera dove mi diceva che si sposava e che aveva 
detto al futuro sposo la nostra avventura romantica.  
Col tempo il viso , gli occhi verdi ,i capelli biondi quasi ricci incominciarono 
a perdersi nella nebbia mentale . Con cio` anche l’ardore cocente di amarla 
(Storie di vita vissuta dal libro di Callara` "Un Abruzzese In America") 
  
  
   New Jersey 
Tornai a N J sempre piu` scoraggiato tra i miei buoni parenti che non potevano 
aiutarmi a farmi una posizione, una strada. 
Mi misi a lavorare con Domenico Pepe che faceva l’appaltatore . Di solito 
portavo gli operai ai diversi posti di lavoro con un Jeeppone e poi con un 
camion ribaldabile andavo a prendere breccia sabbia ed altro materiale da 
costruzione .  
Gli operai erano tutti vecchi emigranti che parlavano un dialetto misto a 
qualche parola inglese pronunziata barbaramente .  
I paesi vicini dove si lavorava avevano nomi anglossassoni e moltissimi nomi 
indiani come Lake Hiawatha, Lake Hopatcong, Lake Vahalha , Troy Hills. Nomi 
impossibili per questi poveri analfabeti a pronunziare. Quindi adottavano 
nomignoli per i paesi e le strade dell’area.Io li dovetti imparare tutti perche` 
la mattina il Boss mi diceva porta Luigi e Nicola al paese “De lu scimmie” . 
Infatti un uomo bruttissimo fra un don Chisciotte ed un Onassis viveva nel 
villaggio di Mountain Lakes . 
Lavorando con questa gente m’accentuava la mancanza della lingua , della mia 
terra, dei miei compagni e sopratutto l’amore della mia Elena.  
La sera andavo in sale da ballo e clubs per incontrare ragazze che , a volte li 
accompagnavo a casa con le solite …fermate per abbracci e bacetti e . alle volte 
un po` …di piu`. 
Non mi accompagnavo mai con donne italo/americane perche` scivolavo sempre in 
lingua italiana dialettale .  
Scieglievo le americane per apprendere la loro lingua dato che a casa e al 
lavoro si masticava un aborto fra il dialetto antico italiano e lo slang 
americano . 
Era poco piu` di un anno che stavo al New Jersey quando decisi di andare al mare 
per un weekend.  
Questa volta preferii andar solo e non con i soliti compagni , con la mia 
chevrolet tipo Balilla che filava verso il mare sulla strada d’aperta campagna . 
Le finestre aperte per respirare l’aria sapida gia`marina . mi sentivo felice , 
non so`, forse perche` mi sembrava di andare al mio Adriatico.  
Posteggiai davanti ad un hotel che dava sul mare, presi una camera al primo 
piano con un balcone addirittura sulla sabbia . La vista dell’oceano possente 
dal color blu cupo m’irradio` la mente . Tale panorama mi ha sempre 
appassionato, mi fa bramare di essere in mezzo ad esso con una barca piccola o 
addirittura nuotando e assaporare l’acqua fresca e vergine d’altura. Alle volte 
tanto da essere un pesce maestoso guizzando in un oceano infinito .  
Il tempo fugge quando si sogna con gli occhi aperti , infatti m’accorsi 
dell’imbrunire . Dal balcone dei miei sogni rientrai in camera per una doccia . 
Rivestitomi mi presentai all’ingresso del ristorante dell’Hotel.  
Una bellissima ragazza, dai capelli biondi e ondulati e con occhi verdi smeraldo 
mi si avvicina mostrandomi il menu`. 
Con lo sguardo grazioso allo sboccio d’un sorriso mi disse girandosi:”Please 
follow me “ Mi offri` un tavolo davanti una finestra dove ancora si vedeva un 
mare calmo con delle vele all’orizzonte . 
Un cielo dalle nubi scarlatte che rifletteva le fiacche luci della sera sul mare 
e sui velieri . La spiaggia ormai isolata dava l’idea della frescura con qualche 
falasco ondeggiato dall’arietta iodata .  
Si scorgeva le onde come stanche ,che accarezzavano la battigia . 
Dopo cena entrai in un gran salone dove c’era un piano/bar, mi sentivo un po` 
stanco non volevo uscire e mi trattenni un paio di ore sorseggiando Dewar con un 
schizzo di soda . Notai un paio di belle ragazze che erano sedute quasi di 
fronte a me ma non risposi ai loro sguardi furtivi . 
Era quasi mezzanotte e mi sdraiai sul letto con le porte del balcone aperte per 
piu` fiutare l’aer marino.  
Mi addormentai pensando alla bella hostess del ristorante dagli occhi verdi 
lucenti L’indomani col sole gia` alto scesi le scalette del balcone che dava 
sulla spiaggia gia` piena di ombrelloni e gente . 
Passai vicino ad una ragazza sdraiata su un accappatoio nella rena cocente. 
I miei piedi sollevo` sabbia che disturbo` il viso della ragazza ed io pronto mi 
scusai . Lei con la mano ancora in faccia per scansarsi la rena disse : “ OK , o 
ma sei tu di ieri sera? “ 
La riconobbi era la bambola dagli occhi verdi. Mi sedetti accanto e 
incominciammo a chiacchierare quasi tutto il giorno.  
La sera dopo le dieci e dopo il lavoro , Marilyn ed io andammo in un bar dove 
ballammo fino a tarda ora . 
Marilyn mi disse che lavorava per far un gruzzoletto per andare in Italia e 
Austria a visitare dei parenti verso la fine di luglio.  
Mi trattenni un paio di giorni in piu` con lei e ci affezzionammo e divertimmo 
moltissimo . Le dissi che molto probabile sarei andato anch’io perche` sento la 
forte mancanza della mia terra. Ci lasciammo con la solenna promessa di 
contattarci. 
(Storie di vita vissuta dal libro di Callara` "Un Abruzzese In America") 
  
  
    
  
  
   L'orologio d'oro di Villa Romita 
(Making of a warrior 2) 
 
Durante l'ultima guerra mondiale la citta`di Teramo era considerata citta` 
ospedaliera . Ciononostante , i bombardamenti degli aerei leggeri degli alleati 
, le retate ed i mitragliamenti sporadici dei tedeschi ci costrinsero ad 
evacuare. Fu cosi` che io ed altri concittadini ci traslocammo a "Sette Case", 
un paesino tranquillo su una collina non lontana da Teramo. 
Si dormiva un po` ammucchiati in pessime condizioni cioe` senza elettricita`, 
acqua ne' gabinetto. 
Mio padre non era con noi , egli voleva starsene nella sua casa in citta`,come 
per difenderla dagli oppressori. 
Io ero ancora giovanissimo, pero` dimostravo anni in piu` di quel che avevo; poi 
vestito con calzoni a la cavallerizzo con gambali e scarponi militari chiodati 
mi sentivo forte e gia` uomo . 
Durante questo periodo la mia povera mamma mi supplicava di starle vicino e di 
non fare il delinquente, ma io non le davo retta e sia di giorno che la sera 
girovagavo con i contadini e altri sfollati , tutti piu` grandi di me. 
Ci riunivano nelle stalle dei bovini a giocare a carte mentre le donne stavano a 
parte a cucire e ricamare. Nelle stalle l'ambiente era caldo grazie alla 
presenza dei ruminanti ma la puzza dell'orina e del letame era un ostacolo non 
facile a superare. Col tempo ci si abituava a tutto e cosi` passavo le serate a 
giocare e a bere vino tornando dai miei tardi. 
Una tarda mattina mentre mi avvicinavo al paesino vidi tre soldati tedeschi che 
entravano nel paese ; li seguii con rispettosa distanza e ad un tratto corsero 
verso un parapetto sparando alcuni colpi di fucile. Minuti dopo apparvero sul 
viottolo tre contadini e tre paia di buoi. Capii subito quel che stava 
succedendo: gli ultimi tre bifolchi , tardi a scappare nei ..fossi per 
nascondere il bestiame che spesso veniva confiscato per il rancio ,furono 
catturati . 
Nei fossi coperti da vegetazione folta i tedeschi non s'inoltravano per la paura 
dei partigiani. 
La ronda grido` ordini incomprensibili ai tre malcapitati che si avviarono fuori 
dal paese. Al bivio il gruppo si fermo` nella bella casa colonica sulla strada 
principale e i tre soldati con fucili spianati domandarono vino e vitto. 
Io , che stavo a un paio di centinaia di metri ad osservare la situazione,vidi 
il fratello del padrone di casa che si avvicino` e mi disse :"Perche` non vai ad 
avvisare i partigiani sulla cima della collina per aiutarci" 
Dopo una mezz'ora di corsa arrivai vicino la cima , ma dovetti seguitare carponi 
tanto era irta e sassosa l'ascesa. 
Arrivato ad un piccolo spiazzo in vetta fui subito circondato da patrioti , mi 
portarono dal capo che lo chiamavano il Romano. 
Spiegai la situazione al capo che mi disse di tornare giu` nella casa del bivio 
e cercare di appurare da dove sarebbero ripassati con i buoi ; cioe`dalla strada 
nuova o dall scorciatoia del Pennino. 
Ritornai alla casa colonica correndo per quasi tutto il tragitto, prima di 
arrivare alla baracca dell'aia mi tolsi i gambali e scarponi militari e mi 
avvicinai alla vecchia signora che stava a prendere dei piatti sporchi. Le dissi 
alcune parole e mi sedetti all'ingresso della baracca dove i tre tedeschi ancora 
bevevano vino dai fiaschi. 
I tre contadini con i buoi stavano seduti per terra nel mezzo dell'aia a pochi 
metri di distanza. I tedeschi , un caporale di statura tarchiata sulla 
quarantina e due soldati giovanissimi ridevano profusamente e io incominciai a 
ridere con loro. Minuti dopo uno dei soldati mi fece cenno col fiasco se volevo 
bere, io accennai di si e mi avvicinai per prendere il fiasco da dove sorseggiai 
a lungo. Il giovane soldato meravigliato disse una corta frase al caporale che 
stava sdraiato sulla paglia.Non si capiva una parola ma si poteva intuire : "Ma 
guarda quanto beve questo ragazzo" 
Ritorno` la vecchia signora a prendere altre stoviglie e il caporale grido`ad 
alta voce:"vino!!! VINO!!!! La donna a passi svelti ,quasi correndo rientra 
nella casa per riapparire con tre fiaschi pieni. Seguitarono a bere e mi fecero 
sorseggiare anche a me un paio di volte. 
A cenni e a parole feci capire a loro che io li volevo accompagnare a Teramo 
spiegando piu` con le mani che con la bocca che conveniva prendere l'accorciatoia 
del Pennino invece di fare sei chilometri di strada nuova. 
All'improvviso il caporale si alzo` e mi disse indicando :"Andare'" e con 
l'indice mostro` la strada nuova e sul polso scintillava un orologio che 
sembrava d'oro.Con un truce sguardo mi urlo` : " Raus !! GHIRARE" Indietreggiai 
con le mani semialzate lentamente e poi mi voltai per avviarmi verso la porta 
della casa. Un gelido brivido di freddo mi percosse la schiena fino al cervello 
al pensiero che stavo per essere fucilato ma entrai in casa attraverso la porta 
, girai a sinistra e con due balzi uscii dalla finestra di dietro. 
Corsi e raggiunsi il nascondiglio dove mi rimisi i gambali e scarponi pensando 
di essere risorto e contento e fortunato che non mi avessero sparato. 
Un'altra corsa su per la scorciatoia del Pennino fino alla Croce dove c'era, 
come prestabilito, il partigiano che doveva riferire al Romano. 
Il patriota , un omaccione con incolta barba e capelli neri, mi domando`: "Da 
dove ripassano?" Io perplesso non rispondevo ma pensavo, il caporale mi aveva 
indicato la strada nuova ma nel modo arrabbiato che lo aveva detto mi fece 
pensare che mentiva. 
" Ripassano qui dal Pennino" Dissi con voce ferma e il partigiano afferatomi per 
le spalle e squotendomi mi grido`: " Come lo sai di sicuro" Io di rimando :" Me 
l'ha detto il caporale" 
Il barbuto si allontano` avviandosi verso la vetta del monte. 
Io rimasi li' , sotto la croce, in alto, Una posizione che permetteva di vedere 
il Pennino da ambo direzioni. 
Dopo quasi una mezz'ora vidi scendere un drappello di partigiani dalla cima del 
colle che sparirono sotto un boschetto di querce. 
Pensai che si fossero nascosti piu` giu verso Teramo. Guardai a sud della 
scorciatoia e i tedeschi non si vedevano; incominciai a dubitare, forse avevo 
sbagliato a riportare quel che pensavo e non quello che il caporale avesse 
indicato. 
Ma l'indugio duro` poco ! All'improvviso apparirono i buoi con i contadini, non 
aspettai di veder altro e corsi a nascondermi dietro un masso a quasi cento 
metri dalla croce e dalla scociatoia.. Il gruppo attraverso`la croce e 
incomincio` a discendere verso la citta`. 
Incominciai a seguire sempre a una rispettosa distanza, non so ` perche`, forse 
l'avventura, la curiosita`, l'orologio d'oro ma piu` probabilmente era la 
necessita` , l'urgenza di partecipare. 
Ad un tratto da una scarpata che fiancheggiava il sentiero si affacciarono una 
diecina di barboni gridando e sparando. I due soldati caddero fulminati , mentre 
il tarchiato caporale, balzando tra i buoi , incomincio` a correre giu` per il 
sentiero. 
Questo caporale , gia` vecchio per un soldato, non solo s'era salvato ma ogni 
tanto si girava e sparava contro i partigiani come per difendere se stesso o i 
due soldati. 
Ciononostante l'enorme svataggio, solo contro una diecina, il caporale correndo 
e sparando si stava avvicinando alla citta` e la strada principale. 
Infatti , sentendo la sparatoria , un carro armato germanico incomincio` a 
bombardare i partigiani che cessarono l'inseguimento per riparasi sotto un bosco 
di querce. 
Io girandomi incominciai a risalire il Pennino e vidi due patriotti togliere gli 
stivali ai due cadaveri. Piu` tardi apparirono i bifolchi con i loro buoi che 
risalivano la scorciatoia del Pennino per ritornare al paese. 
Arrivai alla"Croce" il punto piu` alto e scorsi in un sentiero parallelo e semi 
coperto da alberi , il drappello dei partigiani dirigersi verso le alture . 
Alzai gli occhi alla "croce" e pensai alla malvagita` dell'Uomo e della sua 
infinita capacita` di distruggersi. Pensai al tarchiato caporale che correndo 
fra i buoi riusci` ad avvicinarsi alla citta` e salvarsi. Da ammirarre la sua 
agilita`nello scoscese sentiero e di tanto in tanto , girandosi , sparava come 
per difendere i due compagni .  
Addio orologio d'oro.  
Ora , ripensandoci , mi sembra strano come la mente si ambienta al momento, 
cioe` bramavo l'orologio piu` della vita del caporale . 
Questi episodi nei miei anni verdi incominciarono a farmi capire gli orrori 
della guerra. Non mi rendevo conto che,per me, era solo il principio; la Corea 
era gia`alle porte. 
(Storie di vita vissuta dal libro di Callara` "Un Abruzzese In America") 
  
  
   The Gold Watch at Villa Romita 
During World War II, the city of Teramo in northern Abruzzo, was declared a 
hospital city. This, however, did not deter either Allied air raids by fighter 
plane and light bombers or the Germans’ round ups of peopleand sporadic machine 
gun attacks to harass the populace. As a result, we were forced to evacuate the 
city and take refuge in a small hamlet called Settecase (seven houses), a 
tranquil little town that tried its best to live up to its name.  
But, not in 1943-44 during the time that the front lines snaked its way 
northward slowly through our very neighborhoods! The town had swelled to ten 
times its normal population. The local gentry gave us hospitality without 
question, never asking how much money we had in our pocket, nor a promissory 
note. We had no electricity, no water and no bathrooms. 
My father was not with us preferring to stay in his own home in the city as if 
to defend it against the invaders, regardless who they were. I was very young, 
but I looked much older. I didn’t discourage those who surrounded me from 
considering me older, dressing as I did like a horseman complete with riding 
pants, black leather leggings and military boots with nails in the soles. I felt 
myself grown up and already mature. 
My poor mother pleaded with me to remain at her side and not be such a constant 
rascal, but I didn’t listen to her choosing instead to play around with the 
local farmers and some of the young people of the refugees who were there, all 
of whom were older than I. While the women spent their time sewing and 
crocheting, the men would gather to play cards in the cow barns which was warm 
thanks to the presence there of the cows, although the combined stench of cow 
urine and manure was a tall order to overcome. But,in time one gets used to 
anything, so it didn’t take long for us to develop a tolerance for the ambiance. 
And so I used to spend every evening playing cards and drinking wine getting 
“home” to my family very late. 
Late one morning, while walking around the little hamlet, I spotted three Nazi 
soldiers entering the town. I followed them at a prudent distance. 
Suddenly, the three ran towards a parapet and fired several shots. Within 
minutes, three farmers appeared on the road way pulling three pairs of cows. 
I quickly grasped the significance of the situation. Apparently those three 
farmers were late in taking their animals to the deep ravines that characterized 
the topography of the area where they would be relatively safe from Nazi raids 
who did not venture into areas with thick vegetation for fear of the partisans. 
The three Germans hollered some incomprehensible orders to the three poor cow 
herds who were on their way out of town to hide the six cows. The soldiers 
headed them off at the intersection just outside of the town. There was a 
beautiful country home there. The Germans, their weapons drawn, demanded food 
and wine of the owners. The owner of the house provided what they could and 
while the soldiers ate, he came out and, spotting me at a few hundred yards, ran 
to me and asked me to go call the partisans who were at the summit of the hill 
to come down and help them. That I did. It took me a good half hour running at 
full speed, often on hands and knees when the pathways became too steep and 
rocky. I had barely made it to the top, when I was surrounded by a number of 
patriots who grabbed me and took me to the commanding officer, a man they called 
the Roman. I explained the situation. He asked me to return to the farm house 
and see if I could find out which route they would take to return to the city, 
that is by the main road or the shortcut called the Pennino. I agreed and took 
off immediately doing the same route only downhill this time. It was much easier. 
At times I simply slid down the hill. It was fun, too. I covered the distance in 
half the time. As I got near the house, I saw that the Germans had consumed 
their food at an outside picnic table. The three cowherds still holding on to 
the animals were sitting on the grass. The lady of the house had just gathered 
the dirty dishes and was now washing them at a nearby tub. The Germans were 
still drinking wine directly out of flasks. 
Before reaching the tool shed in the threshing plaza of the house, I prudently 
removed my military boots. I approached the lady near the tub and I whispered 
something to the lady and then I took a seat near the entrance to the tool shed. 
The Germans, a middle aged corporal somewhat short and pudgy and two very young 
men, were still drinking with total abandon. Good,said I to myself, let them get 
drunk; they will be that much easier to dispose of. Without the boots on, I 
looked like the overgrown kid I really was so they didn’t bother me. In fact, at 
one point one of them offered me the flask to take a drink. I gestured 
affirmatively, so he handed me the flask. I did drink, too. I took a long draft 
of what tasted like a sweet aperitif wine. Seeing this, the young soldier turned 
to the corporal, who by now had lain down upon some hay bales, and said 
something in German. I did not understand it, of course, but I could tell that 
it was a remark concerning my ability to drink. Something like, “Look at this 
kid drink!”  
Meanwhile, the lady had finished washing the dishes and had come back to the 
table to gather the last of the utensils. The Germans demanded more wines. 
Almost in a running mode, the lady went into the house and emerged a few minutes 
later with three more flasks of wine. The soldiers continued to drink offering 
me a quaff a couple of times. Having established a somewhat congenial rapport 
with them, I began to converse with them in a few words and many gestures. I 
suggested that I would accompany them to Teramo, trying to convince them to take 
the shortcut through the Pennino Mountain. It would save them six kilometers of 
highway. The corporal got up, and he said “Andare…” and he pointed towards the 
highway. Obviously he didn’t trust back roads where there could be a trap set 
for them by the patriots. As he pointed towards the road, I noticed that he wore 
a beautiful gold watch on his left wrist. His attitude had suddenly changed and 
he actually screamed as he said “Raus! GHIRARE!” Suddenly I was scared. I backed 
up slowly, and then I turned and ran towards the house. A cold sweat covered my 
forehead as I expected a bulled to hit me in the back. But it didn’t happen. I 
jumped into the front door of the house, and without even slowing down I jumped 
out of a rear window and began to ran through the fields, heading to the spot 
where I had left my boots. When I got there, I put the boots on and I felt like 
Jesus must have felt on Easter morning, after the resurrection. Whew!That was 
close! 
Then I took off running again on the Pennino shortcut up to a point where a 
large cross had been erected a few years ago, an attempt to invite the passer by 
to stop a minute and offer a prayer. There, by previous arrangement, was a young 
partisan waiting for me, to get the information concerning the route the German’s 
would take back to Teramo and report to the Roman. This particular patriot, a 
big man with a straggling black beard and hair to match, asked me abruptly: “So, 
what route are they taking?” I was somewhat perplexed and I didn’t answer right 
away. I was thinking: The corporal had pointed to the highway, but the way he 
said it, made me thinking that he was lying. That’s why I, instinctively said, 
“right here. They’re taking the Pennino shortcut.” “How do you know?” “The 
corporal told me.” The bearded man took off immediately heading back up towards 
the mountain top. I decided to remain there. It was a remarkable vantage point 
from which I could see the Pennino shortcut for several kilometers in both 
directions. I decided to wait and see the “show.” I sat at the foot of the 
cross, literally, and waited for events to unfold. I had waited there almost an 
hour when looking towards the hill, I saw a group of armed partisans coming down 
the slope. They disappeared in the thicket of a small oak grove. I was surprised. 
thought they were going to hide in a spot much closer to the city. Meanwhile, 
there was no sign of the Germans. I began to doubt my power of reasoning. 
Perhaps I was wrong in second guessing the corporal. 
But my doubts didn’t last very long. Shortly afterwards, looking towards the 
south, I spotted the three Germans, the cows and the cowherds making their way 
down the shortcut towards the city. I hid behind a bolder about a hundred meters 
beyond the cut from which I could see without being seen. As the three Germans, 
the cowherds, and the animals passed by the Cross, they didn’t bother to stop to 
pray, They began do descend towards the southern end of the city. I don’t know 
why, but began follow them, at a prudent distance of course, to see what would 
happen next: curiosity? of course. Adventure? That, too. Even the thought of the 
gold watch might have lurked in the depths of my mind. But, mainly I was urged 
to do so by the necessity to participate in the unfolding of a historical event.
 
Suddenly, from an escarpment the flanked the road, a dozen or so of young 
partisans appeared, their rifles blazing as the did. The two young soldiers 
dropped to the ground mortally wounded, while the corporal ran forward and hid 
among the cows and, hitting the animals on their hind quarters, spurring them to 
run. As the cows ran, frightened out of their wits by the noise of the gunshots, 
the corporal ran in their midst right along with them. Occasionally he would 
turn and shoot at the partisans who were now in hot pursuit. 
Meanwhile, the German contingent stationed in the city, which now was but a few 
hundred yards away, having heard the shootings, activated a tank to go to the 
aid of the three Germans. It rumbled down the highway firing a few rounds of 
automatic fire at the partisans who, prudently had taken refuge in the midst of 
another oak grove.  
I saw the partisans remove the boots from the feet of the two dead Nazi soldiers. 
I supposed that they didn’t need shoes either where they were going. However, I 
felt a twitch of discomfort way deep in my soul. I didn’t linger upon it, though. 
After a quarter of an hour, or so, I saw them: the three herdsmen, their oxen in 
tow, were calmly returning to area of Settecase. There was no sign of the 
corporal. That’s when I felt a twinge of bitter disappointment. Good bye, gold 
watch! I’ll never see you again. And just when I needed to see what time it was, 
too! Oh, well! At this point, my stomach growled, our internal clock: I was 
hungry, so it must have been very late. I began the trek back to my family. As I 
passed in front of the cross, I even stopped for a second, perplexed by man’s 
infinite capacity to find ways to hurt his fellowman.  
As I look back, I cannot dismiss the thought that that must have been one of 
those moments in which we acquire wisdom during the course of our lives. Yes I 
was disappointed that the gold watch was gone forever, but my frustration was 
counterbalanced by another, rather strong feeling of revulsion that came upon me 
when I saw those patriots remove those boots from their dead victims. It wasn’t 
a reasoned, cerebral conclusion on my part; actually; just a gut feeling, an 
innate suggestion that what they did was a very bad thing to do, and the 
thoughts of the gold watch left my mind forever. I think that that was the 
moment in which I reinforced my previously acquired revulsion for war. Little 
did I know then, that for me, Korea lurked just around the corner!  
       English By Duna` 
  
    
  
  
   501 Fiat  
Alla forte bussata al portone Artemisia corse ad aprire. Tre ceffi fascisti con 
mitra entrarono con prepotenza , un quarto , corto e grasso con un cinturone dal 
quale pendeva una pistola quasi a meta` pancia disse :  
"Dobbiamo requisire un' auto , aprite il garage"  
" Le auto sono assegnate ai servizi dei Carabinieri e delle Poste ed io non ho 
le chiavi."  
Il grasso sergente, facendo cenno alle tre camice nere, disse uscendo:<< Va bene 
allora scassiamo la porta!>>  
I quattro scesero le cinque scalette e si avvicinarono ad una delle porte del 
garage. Al cenno affermativo del capo banda, uno dei fascisti sparo` due colpi 
al lucchetto del catenaccio. Spalancate le due porte i quattro fascisti salirono 
sulla bella 501 Fiat e attraversando le colonne di pietra entrarono sulla strada 
verso il centro citta`.  
La 501 Fiat era nera con un classico grigio interno, sebbene`avesse piu` di 
dieci anni sembrava nuova di zecca con ancora un forte odore di pregiato pellame 
,misto ad un inebriante profumo di lacca.  
Qualche mese prima ,Romolo l'aveva comprata dal signor De Palma , un riccone con 
tante masserie . Il De Palma usava la sua elegante Fiat un paio di volte al mese 
per visitare le sue tenute in provincia . Si diceva che quando era in salita, 
per non sforzare il motore, il De Palma la faceva trainare da un paio di buoi.
 
Romolo torno` a casa con un furgone che faceva servizio postale e seppe dalla 
moglie Artemisia il fattaccio dei fascisti.  
Incazzato, inferocito alla perdita della piu` bella vettura che possedeva , 
Romolo racconto` l'accaduto al maresciallo dei carabinieri per telefono.  
Il maresciallo spiacente si scuso` dicendo " Con questi brutti tempi di guerra , 
col fronte vicino e con questi nazisti e fascisti che scorrazzavano come pirati 
non possiamo fare nulla per aiutarvi."  
La mattina dopo Romolo rispose allo squillo del telefono , era il maresciallo 
che ordinava un furgone per una "traduzione' dal carcere alla stazione alle 
dieci in punto.  
Romolo , arrivato al carcere , s'accorse che una dozzina di fascisti stavano 
davanti al cancello .  
Alle dieci uscirono dal carcere tre ragazzoni magari quindicenni ammanettati e 
circondati da sei fascisti.  
Il gruppo in fretta s'infilo` nel furgone dalla porta posteriore. Dal lato della 
strada due sbirri neri entrarono davanti ed altri quattro s'appolaiarono sulle 
pedane del furgone.  
<< Avanti, autista, andiamo!>> Grido` il caporione seduto davanti.  
Romolo aveva ricosciuto uno dei tre detenuti che viveva nel suo rione e gia` 
sapeva che il ragazzo era stato arrestato .Dopo l'otto settembre i tedeschi 
tornarono in citta` come conquistatori e chiesero la consegna delle armi da 
fuoco di tutti i cittadini. Una montagna di fucili e vecchie pistole furono 
depositate nel cortile dietro il liceo.  
I fascisti di Salo` che montavano di guardia acchiapparono i tre giovincelli 
vicino alla catasta delle armi.  
Romolo, col furgone, attraverso` la piazza girando a sinistra al Corso San 
Giorgio.  
Il capo drappello disse a Romolo che questi tre delinquenti saranno l'esempio 
che le leggi devono essere rispettate.  
Il furgone passa il Duomo e prosegue per Corso De Michetti.  
Il capo continua:" Non andiamo alla stazione , bensi` al cimitero Cartecchio per 
l'esecuzione."  
Romolo passando davanti a St Antonio rallenta il veicolo per fermarsi. Come 
volesse che il gran Santo facesse un grazia a questi tre ragazzi .  
Il capo , puntando la pistola alla tempia di Romolo grido` :"Riparti subito  
Romolo spinse l'accelleretore e il furgone riprese la sua corsa verso Cartecchio.
 
Romolo guidando pensava a questi vigliacchi fascistini di Salo` pronti ad 
ammazzare altri italiani . Erano piu` malvagi dei loro barbari compagni 
tedeschi.  
Il furgone si fermo` davanti al muro di fianco del cimitero dove c'erano una 
cinquantina di militi e soldati tedeschi.  
Il numeroso gruppo di sbirri si spiegava dal fatto che i partigiani gia` scesi 
dalle alte montagne s'erano infiltrati nelle colline circonstanti alla citta`. 
Si sapeva che molti di essi girovagavano anche in citta`.  
Si temeva , quindi , un attacco per liberare i tre poveri giovani. 
Romolo fu ordinato di rimanere davanti allo sterzo. Minuti dopo , attraverso il 
finestrino di dietro Romolo senti` un mormorio di preghiera e le lagne dei tre 
poveracci.  
Non passo` molto che i prigionieri furono messi a faccia al muro sempre 
ammanettati di dietro . Uno di essi si giro` e disse : "Perche` alle spalle ,non 
siamo traditori!!"  
Un altro girandosi ;"Mirate bene!!!"  
I dodici fucilieri fecero fuoco e due caddero fulminati, il terzo si gira 
sorpreso , incredulo guardo` pietosamente gli esecutori.  
Un civile , forse dottore , col capo squadra si avvicino` al superstide come per 
esaminarlo. Un ufficiale tedesco si avvicino` al gruppo e grido` dei comandi che 
, dai cenni ed l'espressione della faccia si capiva che volessero ripetere 
l'esecuzione. Cosi` dopo la seconda sparatoria cadde il terzo ragazzo , infatti 
era stato lui che aveva detto mirate bene .  
Quasi una dozzina di militi con i loro fez in capo si affollarono dentro il 
furgone che riparti` con altre camionette per il centro citta`.  
Romolo, reduce di due guerre, mise il furgone al garage e senza rientrare in 
casa , prese il bidente dal fondaco e ando` a sarchiare la vigna .  
Si` , reduce combattente di due guerre,ma come soldato , non concepiva , in 
questa terza sua guerra perche`, in questa lui era un civile , una vittima e 
testimone di eccidi tra italiani . Lui , che aveva difeso la Patria , lui che 
aveva perso due fratelli sul Carso, non si rassegnava a vedere tale orrore tra 
italiani . Ammazzare tre ragazzi era proprio un sacrilegio per Romolo gia` 
cinquantenne.  
Questa vile azione era una parte integra in zona di guerra. Ora Romolo 
incomciava a capire che chi soffriva di piu` non e` il soldato bensi` i civili , 
il popolo, i bambini ,le donne e vecchi .  
All'imbrunire Romolo rientro` a casa senza dire una parola , non mangio` e si 
getto` sul letto, pregando che Orfeo l' ammantasse .  
Dopo una notte quasi insonne, ancora presto avvio` il motore del furgone postale 
con la manovella . Alle nove e mezza fini` di scaricare i pacchi alle Poste. 
Decise di lasciare il furgone la` per il giro delle dodici e mezza, aveva appena 
chiuso le porte del mezzo quando vide l'amico Berardo Nardi avvicinarsi in 
fretta dicendo :" Cumba` ho visto la tua macchina ferma davanti alla sede 
fascista!!"  
In dieci minuti Romolo arrivo` alla sede e l'auto stava ancora ferma, dentro 
c'erano due fascisti.  
Romolo si avvicino` alla porta della macchina e disse:" Se avete finito con la 
macchina adesso la riporto al garage"  
Loro di rimando :" Dobbiamo scaricare vicino Porta Madonna ancora"  
Allora vengo giu` anch'io disse Romolo saltando sulla pedana della macchina gia` 
in moto. Dopo alcuni isolati e prima di arrivare al Corso l'auto fu arrestata da 
una pattuglia tedesca. "Rauss , rauss" Gridarono i teutoni . I facisti si 
presero quattro prosciutti che avevano forse rubati ai contadini e se la 
svignarono. I tre nuovi padroni si misero in macchina e mentre si partiva Romolo 
risalto` sulla pedana. Dietro la prefettura la` vicino,l'auto si fermo` al "Comandandur 
tedesco"  
C'erano una mezza dozzina di auto tutte a mano destra la 501 Fiat era sostata a 
mano sinistra. Uno dei tedeschi diede ordine di allineare la 501 con le altre e 
Romolo capi` dai cenni e disse mettendosi la mano al petto. " Mo` c'e` la metto 
io." e corse entro la macchina.  
Fece marcia indietro e ingrano` la prima come per mettersi in fila con le altre
 
Guardo` allo specchietto e sembrava che i tedeschi stavano a ragionare di altre 
cose. Decise di azzardare, va in seconda e parte velocemente. Un altro sguardo 
allo specchietto e vide una camionetta all'inseguimento . Giro` velocemente a 
sinistra e poi subito a destra , si sentiva spari di mitragliatrice. Romolo 
sapeva che correva come un pazzo dalla gente che saltava sui marciapiedi e 
pensava se arrivo dietro Sant'Antonio me la cavero` . Infatti in quel rione con 
le strade strette riusci` a svignarsela dal camion germanico .  
Romolo , ancora spaurito , si era allontanato un paio di Km dalla citta` ed 
arrivo` alla masseria del cugino Giovanni .  
Si fermo` sull'aia dopo aver raccontato l'accaduto , Romolo prego` Giovanni di 
nascondere la macchina.  
Giovanni con un paio di garzoni nascose l'auto sotto un fienile.  
Era quasi Vespro e Romolo s'incammino` verso casa .  
Rischiare la vita per una macchina!!!Da chiarire a quei tempi un’auto era come 
un tesoro anche perche `erano anni che non si produceva una auto per civili, 
Ero rientrato da poco quando mio padre Romolo rincaso`. Dalla sua faccia 
stralunata e pallida m’accorsi che qual’cosa di grave era successo.  
A cena mio padre racconto` l’accaduto . Io non arrivavo a concepire come mio 
padre, da me considerato gia ` anziano, fosse capace di certe gesta.Per me un 
soldato che ammazza e si fa ammazzare non e` nulla in confronto ad un civile , 
disarmato che si rivolta ad un’armata in zona di combattimento , a non accettare 
la sottomissione e….vincere. 
Questa sedizione e` innata nell’uomo. E` una potenza occulta piu` forte di 
tirannie , che reca fondamenti ideali della vita morale e della liberta`.  
(Storie di vita vissuta dal libro di Callara` "Un Abruzzese In America") 
  
  
   Fiat 501 
Startled by a bold, imperious, almost threatening knock at the door, Artemisia 
ran to see who it was. Standing there, machine guns at the ready, insolence 
written all over their faces were three fascist rogues. They didn’t wait to be 
invited in, but pushed their way inside as soon as the door was opened. A fourth 
hoodlum, standing in the back, with a handgun dangling from a holster that 
reached halfway to his belly, shouted: “We’re looking to commandeer an 
automobile. Open the garage doors!” 
“These cars have been leaseds to the Carabinieri and to the postal service. We 
don’t have the key to the garage,” said Artemisia.  
“No problem! We’ll break it open.” With that, he gave orders to the three to 
force the garage door. One of them, raising the nozzle of his automatic weapon, 
fired a volley at the big lock which snapped open like a mousetrap. They climbed 
aboard the nicest car in the garage, an elegant Fiat 501, started the engine and 
rolled the car down the driveway, past the two stone columns that anchored the 
heavy gates to the property. The black car with classic gray interior was ten 
years old, to be sure, but it had been kept so well that it looked as if it had 
just come out of the dealership. Romolo had purchased it no more than a month 
before from Signor De Palma, a rich landowner who had used it about twice a 
month to visit his vast land holdings. People in town used to remark that when 
faced by a long steep hill, in order not to strain the engine, he would have his 
farmers attach a pair of oxen to the front of the car and have them pull it to 
the top of the hill.  
A few hours after the incident, when Romolo came home with a small postal van, 
he learned from Artemisia, his wife, of the home invasion and the theft of the 
car. It infuriated him. He immediately grabbed the telephone and called the 
local police station and reported the crime. He spoke with the chief himself who 
was his friend. Unfortunately, the chief told him that there was little he could 
do. “Armed bands of Fascists and Nazis are running around committing such crimes 
with total impunity, and with the front lines of the war getting closer and 
closer to our area, our police force is totally ineffective. We can’t help you. 
Sorry!”  
The next morning, Romolo’s phone rang. It was the Chief of police ordering a van 
to transport some prisoners from the jail to the police station. Romolo started 
the van and drove to the city jail. He pulled into its parking lot and noticed 
about ten young fascist hoodlums loitering about in front of the jail. At ten o’ 
clock sharp, three young men were led out of the jail, three teenagers, actually, 
handcuffed and surrounded by six fascist thugs. They quickly entered the van by 
the rear doors. Two black shirts entered the van on the driver’s side, and four 
more perched themselves like vultures along the running boards on both sides of 
the vehicle. Their leader, seated up front on the passenger’s side of the van 
shouted a peremptory order to depart, and the van began to move. 
Romolo had recognized one of the three youngsters who lived in the same block 
where he lived. He knew that the young man had been arrested, and he also knew 
that it was a case of being at the wrong time in the wrongest possible time. He 
hadn’t done anything wrong. After the Armistice of September 8th, 1943, the 
citizenry had been ordered to turn in all firearms, regardless of their type, 
caliber or purpose. Many people from Teramo, fearing for their lives if caught 
with a gun or rifle in their possession, rushed to turn it in to the police. A 
day or two after the armistice, a pile of such weapons, mostly old shotguns, 
hunting rifles and even inoperative museum type pistols, had been deposited in 
the high school’s front yard. They had just been thrown there, one on top of the 
other without any sort of order. The three young men, passing by the school, saw 
the pile, and, becoming fascinated by the spectacle, stopped and began to look 
at them, attracted by the natural allure such items had for boys that age. The 
guard happened to be returning at that moment, seeing them there, arrested them 
as suspected gun rustlers. The kids were totally innocent, but were taken into 
custody by the Salò fascists just as a warning that the law must be respected. 
The laws in question, of course, were Nazi laws arbitrarily imposed on a 
sovereign people in their own land.  
The van, traveling at a pretty good clip, crossed the piazza and took San 
Giorgio Blvd. After passing in front of the cathedral, it proceeded east on De 
Michetti Boulevard, headed for the police station. Suddenly, the leader of the 
fascist gang gave a new order: turn left. We’re not going to the station. We’re 
going directly to the Cartecchio Cemetery. We’re going to execute the little 
bastards” Romolo became apprehensive, but he followed the thugs directives. As 
the vehicle passed in front of the church of Saint Anthony he slowed almost to a 
crawl, almost as if waiting for the saint to perform a miracle and save those 
poor kids. They really hadn’t done anything wrong. The chief fascist pointed the 
gun to Romolo’s temple and said: “Keep moving, if you know what’s good for you!” 
Romolo pressed the accelerator and the van lurched forward, continuing its run 
towards the Cartecchio Cemetery. As he drove, Romolo thought about the vile 
attitude of those fascist of the new Republic of Salò. They were Italians ready 
to kill other Italians. They were worse than the Nazis. 
As the van reached the cemetery’s outer wall, Romolo stopped it in front of the 
gates. He noticed there were about fifty German soldiers milling about near the 
gates. There had been rumors circulating round town that many partisans had come 
down from high up on the mountain and had infiltrated the surrounding hills. 
Many of them were also circulating incognito among the populace of Teramo. So, 
an attack to free the three teens was possible. 
After he stopped the van, Romolo was ordered to remain at the wheel. After a 
while, he heard the boys’ lamentations mixed with their last prayers. A short 
while later, the three were placed next to the cemetery wall and facing it to 
await execution, their hands still in handcuffs. One of them said defiantly, 
“Why shoot us in the back like traitors? We are not traitors!” Another added: 
“Make sure you aim well!” The firing squad made up of twelve fascists approached 
and fired on command. Two of the youngsters dropped to the ground killed 
instantly. The third, the one who had said “aim well,” looked around shocked. 
They had missed him. A civilian, a doctor, approached him as if to examine him, 
but the German commandant of the group gave some peremptory orders to fire again. 
The man backed off, the firing squad again fired on command, and the third boy 
was sent to join the others in heaven. 
About a dozen Fascists then piled into the van to return to the city, seemingly 
proud of their foul deed. Romolo, on the verge of vomit brought on by what he 
had just witnessed, took them back to their headquarters, then he return to his 
own home. He put the van inside the garage. He was totally disgusted. He was a 
veteran of two wars, but had never seen anything so vile, so revolting as what 
he had witnessed in his own hometown. He didn’t even bother to enter his house. 
Instead, he grabbed his hoe and went into his vineyard to hoe out some weeds. 
Perhaps work would keep his mind from thinking to what depths man’s inhumanity 
towards his fellow could reach. He had participated in two wars as a soldier, 
but precisely because he had been a soldier, he didn’t understand the philosophy 
that characterized this third war. He was a civilian now, and as such he should 
not have been a witness to Italians killing Italians, especially harmless kids. 
He was over fifty years old now and he had witnessed wanton murder perpetrated 
right in front of him and he had been powerless to prevent it. 
After having seen the vile action perpetrated by Italians against Italians, he 
finally realized that the function of the soldier is bad enough, but the real 
victims of this war were the members of the civilian population, women, the 
elderly, and the children and the infirmed caught in the web of adults gone mad. 
At dusk, Romolo returned home. As he entered his door he said nothing.,he didn’t 
even sit at table for supper. Instead he dropped onto his couch and tried to 
reconcile sleep quickly, hoping to forget the day’s revolting events. 
After a sleepless night, he got up at dawn. He went outside and started the van’s 
engine manually. By half past nine he had completed the unloading of a number of 
packages at the post office, and he decided to leave the van parked in front of 
it so that it would be ready for the 12:30 delivery tour. He closed and locked 
the side doors of the vehicle and began to stroll towards the downtown area. 
That’s when he ran into his friend Berardo Nardi, who approached him somewhat 
cautiously and said: “Hey, Rom, I just saw your car parked in front of the 
Fascist headquarters.” Hearing that, Romolo took off towards the area indicated 
and in ten minutes he was there. The car’s engine was running. Two of those 
thugs were seated in the front seats. Romolo approached the one at the driver’s 
side and said:” If you’re through with the use of my car, I’ll put it back in 
the garage.” 
“No,” answered the man at the wheel, “We have a delivery to make at the Madonna 
Gates.” 
“Then I’ll come, too.” With that, Romolo jumped aboard and the car sped towards 
center city. After traveling a few blocks, a German patrol stopped the car. The 
fascists got out of the car and were given four hams which had probably been 
stolen from the local farmers. They took the hams and disappeared. Three Nazis 
then jumped into the car and drove to their own headquarters. Romolo again 
jumped on the running board, staying with the car as it sped towards the 
prefecture where the Germans had set up its central command. The parking lot 
behind the prefecture had a number of spaces to the left and to the right of its 
door. There were a half dozen cars parked all on the right side. The spaces at 
left were completely empty. The driver parked on the left and got out. Within a 
few minutes, another German came out and motioned to the driver, who was now out 
of the car, to align the Fiat on the other side with the rest of the vehicles. 
Romolo grabbed the opportunity and pointing to himself, said “I’ll do it.” With 
that, he got into the vehicle.  
Suddenly, Romolo had a plan. He started the car and cautiously backed it up. 
Then he inserted the first gear moving slowly as if to park it alongside the 
others. He looked in the rear mirror to see what the Germans were doing near the 
door of the building. They were talking and not paying any attention to him. He 
decided to act. He inserted the second gear and took off into the streets at a 
high rate of speed. Within a minute, again he stole a glance at his rear mirror 
noticing that a German patrol car had taken up the chase. “If I can reach the 
rear of the Church of St, Anthony, I’ll be al right,” he said to himself. And, 
he was right. Once he got behind the church, there was a maze of narrow, winding 
little streets and alleys. One could get lost in there without leaving a trace. 
When he saw no signs of the German truck that had been chasing him, he headed 
for the open country in the direction of his cousin Giovanni’s farmstead. He 
stopped in Giovanni’s work plaza and told him what had happened, asking him to 
hide the car for him. Giovanni, with the help of a couple of field aids, hid the 
car under a haystack. By then, it was almost dark, and Romolo headed for home. 
Suddenly, it dawned on him that he had risked his life for a car. What an idiot 
he was. It had been an imprudent, daring act not linked to reason in any way. 
Granted, an automobile in those days was a precious commodity, especially since 
it had been years since the auto manufacturers had built any models for civilian 
use. Still, life had to be worth a lot more than a car. What a fool! 
 
* * * 
I had come home just minutes before Romolo arrived home. I knew that something 
serious had happened because his face was contorted and he seemed out of himself. 
As we sat at table for supper, he told us the full story. I couldn’t understand 
how my father, whom I considered already in his declining years, could be 
capable of pulling off such a daring exploit. A soldier in battle who kills and 
exposes himself to the danger of being killed is in his proper environment to do 
what mankind has been doing ever since Cain killed Abel. But the psychological 
motivation that prods an unarmed man to rebel against oppression to that degree 
has to be sought in his natural aversion for submission by another man. And, he 
often emerges the victor against despotic villainy. The call of freedom has to 
be stronger than any tyranny. It is the call of the wild. 
-English 
By Duna`- 
  
           
      Callarà 
(Making of a warrior 1) 
 
Callara` , biondo con gli occhi azzurri penetranti, benche` ancora giovanissimo 
aveva un corpo gia` fatto da uomo maturo. Dalle spalle quadrate e ampie da dove 
uscivano due braccia robuste che sembravano staccar la testa di una belva. 
Robusto di petto ma dalla cintura in giu` quasi magro con gambe atletiche. 
Nella sua faccia un ‘ espressione dura con uno sguardo scaltro che comandava 
rispetto e alle volte anche paura. 
Fin da piccolo era a capo della sua banda del fiume che era un satellite di 
teppa “Porta Romana”. 
Aveva una capanna su una ripa alta dove sotto scorreva il fiume ed era il 
ritrovo della banda. Per rimanere a capo ogni volta che nel vicinato veniva un 
ragazzo nuovo, Callara` doveva fare a botte e vincere. Una volta venne un 
rifugiato siciliano che aveva due anni piu` di lui. Fecero a botte come si 
vedeva nei films;si rotolarono giu` dalla ripa fino al canale del mulino. 
Seguitarono a menarsi nell’acqua che arrivava fino alle spalle. 
Finalmente vinse con tutti I compagni che stavano a guardare. 
Ancora giovanissimo , quando ruggiva un ordine veniva ubbidito,in somma un “born 
leader”. 
Una mattina d’estate Callara` ed alcuni dei suoi andarono alla villetta ,una 
sezione del fiume dove l’acqua s’approfondiva per una curva del letto fluviale. 
La riva orientale era protetta da gabbioni con dietro una ripa molto alta ,quasi 
perpendicolare. Appunto alla cima di questo burrone, Callara ed I suoi compagni 
avevano fortificato con massi per proteggere il loro territorio e la loro 
capanna. 
Alla “Villetta” Callara` ed I suoi si svestirono e si sdraiarono sopra I muri 
gabbionali che si affacciavano al fiume. 
“La Villetta” era adornata da abeti, cipressi ed altre belllissime piante che 
furono piantate da un conte e la battezzo` “La Villetta” 
Appunto il conte Condini faceva spesso bagni anche con l’acqua fredda d’inverno 
,si diceva per calmare i suoi nervi. 
Questo piccolo bosco era sempre fresco e perfetto per far corse scalzi sulla 
bianca sabbia tra gli alberi. 
Callara` si sentiva padrone assoluto della “Villetta” perche` tutta la terra 
circostante apparteneva a suo padre e poi perche` dalla sua “fortezza “aveva 
l’assoluto comando della sottostante “Villetta”  
Era ancora presto quella mattina e c’erano solo due uomini a nuotare , nudi , 
nell’acqua; Callara` si tuffo` dal gabbione e quando sali` a galla si trovo` di 
fronte ad uno degli uomini che l’afferro` per i capelli e gli mise la testa fra 
le gambe. Sott’acqua Callara` stava per annegare a stento riusci` a girare la 
testa per  
addentare la coscia dello sconosciuto.Con un potente morso si libero` dalla 
stretta. Si allontano` con un rapido nuoto verso la sua sponda .Risali` sul 
gabbione e ordino` ai suoi:”Alla capanna.!!” 
Tutti si arrampicarono in cima alla ripida rupe e incominciarono a sferrare 
sassi e rotolare macigni.dalla “Fortezza”. Piccole piante con cesti legati ai 
crocirami venivano usati come catapulte per lanciare sassi all’altra sponda. 
Ai primi sassi i due uomini saltarono fuori all’altra sponda corsero verso i 
loro vestiti e , prese due pistole, incominciarono a sparare verso la capanna. 
Callara`, sapendo che i proiettili non potevano arrivare a tale altezza, si 
espose spocchiosamente all’orlo del precipizio fingendo di acchiappare le 
pallotole con le mani. 
I due uomini si rivestirono, erano due soldati tedeschi che allora erano ancora 
ospiti in Italia; Callara` era allora un ragazzone. 
(Storie di vita vissuta dal libro di Callara` "Un Abruzzese In America")   Il pescecane  
Sono le otto di un bel mattino , e` da quasi un’ora che sto preparando la mia 
barca per la pesca aspettando i miei due giovani compagni . 
Herrick che vive da tempo nel nostro complesso edile e lo conosco da quasi 10 
anni; bruno, alto due metri, che solleva pesi , forte come un toro.L’altro, 
Steve, anche lui dello stesso stampo ma piu` snello e non conosce la pesca 
grossa d’alto mare. 
Con i motori avviati e tolte le sei corde d’ormeggio si salpa con la mia “Grady/White” 
di trenta piedi con motori fuori/bordo di 200 cavalli l’uno. I due motori 
“Yamaha” capaci di far andare la barca a 55 miglia all’ora , sono considerati 
ideali per questo tipo di barca. La” Sea Signore”, tale la battezzai e` 
costruita per l’unico proposito: la pescad’altura, dallo stile bello e slanciata 
nello stesso tempo esprime velocita`e saldezza . Essa e` munita di una cabina 
con tre letti,cucina e gabinetto con doccia. 
Usciamo dal porto per entrare in mare con media velocita`mentre la sua svelta 
prua taglia le onde che spruzzano ai lati formando piccoli arcobaleni. 
Come un cane a guinzaglio viene sciolto per la sua corsa quotidiana,tale sembra 
la barca nell’affrontare il mare. 
Coi motori rombanti in una mezz’ora ,leggo sul G.P.S. che siamo a trenta miglia. 
Rallento e buttiamo giu` cinque esche uncinati legati a fili d’ acciaio. 
Dopo un’oretta e tre pesci di una trentina di libbre l’uno, This and That ,il 
nomignolo di Herrick, aggancia qualche cosa di grande. 
Herrick combatte il pesce piu` d’un ora, a volte mollando e a volte ammainando 
velocemente il gran mulinello “Finn /Nor”. Di tanto in tanto Steve lo spruzza 
con l’acqua dolce dalla doccia esterna per rinfrescarlo. 
Quando il pesce decide di tornare nel suo abisso, This and That bestemmiando 
molla il cavo e il mulinello canta il suo “scricchiolio” e il pesce ritrova il 
suo dominio ,il suo baratro. Poi il mostro ricomincia a salire e Herrick ammaina 
velocemente sapendo se gli dava “slack” il filo si spezza. “ Brutta bestia, per 
Dio, quando ti stancherai!!. E` ora che vedi il cielo e l’aria che ti ammazzera`”. 
Urla This and That con la faccia buia e accigliata dalla rabbia e dallo sforzo. 
Io al timone sono occupatissimo a manovrare la velocita` e l’avanti e dietro 
delle mosse necessarie per aggevolare Herrick. Lo scopo dello skipper e` di 
mantenere il pesce sempre a poppa altrimenti si perde la lotta e si deve 
tagliare il cavo se non vuoi perdere il palo e il mulinello di cinquemila 
dollari. 
Passa piu` di un’ora di lotta; Herrick ,malgrado il suo forte fisico, inizia a 
dimostrare stanchezza, ma anche lo squalo incomincia a indebolirsi. 
Ad un tratto s’affaccia a solo 50 metri a poppa per mostrare la sua bocca 
dentata e il suo occhio nero come una palla di bigliardo.  
“E` uno squalo “Mako!!” gridiamo in coro.  
Il Mako e` uno dei pochi tipi di squali commestibili. IO ne ho catturato alcuni 
, ma mai uno cosi` grosso. 
Finalmente Herrick riesce a portarlo alla fiancata posteriore ,io lascio il 
timone e aggancio il “gaff” sul dorso del mostro marino gridando a Steve di far 
lo stesso all’altra parte di Herrick. Ma Steve stupito dal terrore rimane 
immobile con gli occhi sbarrati. 
Col cavo e un arpione cerchiamo di tirar su. Lo squalo alza la testa fino al 
parapetto a un metro dalla mia faccia , arriccia il naso , apre l’enorme bocca e 
mi fissa con l’occhio nero come per dire : “Chi sei tu? Io sono il re del mare, 
non ho paura di nessuno,tutti mi temono,come osi agganciarmi!! “ 
Un loquace sguardo d ‘ ira,di prepotenza selvaggia che non conosce la 
sommissione ;ecco quel che mi dice in un attimo. 
Infine Steve aggancia dall’altra parte e tutti e tre a tirar su. 
Lo squalo ora da` una grande codata contro la fiancata del vascello addirittura 
allagando tutta la parte posteriore della barca. Steve perde la presa lasciando 
il gancio attaccato al mostro e va a finire in coperta completamente sommerso 
dall’acqua che seguitava ad entrare come un’onda gigante. This and That ancora 
impiedi non molla ed io con una mano al parapetto e una al gancio cerco aria 
sotto l’ondata. 
Questo Mako ci sta dando un combattimento da vero eroe, merita rispetto e non la 
morte. Con una rapida mossa sgancio l’arpione e l’enorme testa si butta giu` nel 
mare spezzando il cavo. 
In un tonfo e getto d’acqua scompare per tornare a comandare nel suo Regno. 
Salutiamo “ Maesta`”. 
(Storie di vita vissuta dal libro di Callara` "Un Abruzzese In America") 
         Pusan 
      Dal paradiso giapponese all’inferno coreano; tornai nella mia vecchia 
      compagnia E [Easy co] del Fifth Reg. Combat team. 
      La mia compagnia stava a valle e su ,in collina c’erano I bunkers della 
      prima linea a difendere il trentottesimo parallelo. 
      Il giorno dopo del mio ritorno vidi nella lista della tenda della mia 
      squadra il mio nome , era la lista di coloro che montavano di guardia alle 
      8 di sera sul bunker. All’adunata fummo informati che veniva una tregua[ 
      CEASE FIRE] .  
      Al bunker ero nella lista dell’avanposto cioe` dovevo andare in una 
      trincea con due posti con un altro sfortunato giu` a meta` collina vicino 
      al nemico. 
      Pensai “Con questa iella oggi e` il giorno che si muore. Che stupido 
      potevo scappare su in montagna con la mia bella giapponesina invece ho 
      scelto la morte”.  
      Era quasi buio quando stavo per uscire dal bunker ;ed ad un tratto 
      incomincio` un bombardamento di mortai da sessanta mm. Il sergente disse 
      :”E` naturale che usano tutto quello che hanno prima di cominciare la 
      tregua.” 
      Cosi` sotto quella pioggia assordante di fuoco incominciai a strisciare in 
      un solco che mi portava all ‘avanposto [fox hole]. 
      Le esplosioni da vicino con lampate giallorosse mi facevano sentire la 
      testa spaccare con l’interno del corpo che voleva scoppiare come se mi si 
      fosse fermato il cuore. 
      Difficile a descrivere certe esperienze. 
      Nel solco mi urtai con un altro elmetto che, fra l’esplosioni mi grido` :” 
      Fuori soldato, sono il tenente ……[mi disse un nome ]. 
      Ed io strillai: “ Fuori di QUA!!! Sono capitano CALLARA`!!!! “ 
       
      2 
      Il tenente salto` fuori e io proseguii. Ma che cazzo di mondo cane, morire 
      in questa terra maledetta. Io non avevo mai saputo che c’era una Corea nel 
      mondo.  
      Cessarono il fuoco e incomincio` la tregua.  
      L’ultimo a morire nelle forze americane fu un sergente del mio reggimento. 
      Alcune settimane dopo venne l’ordine che si andava a Pusan, una citta` 
      grande portuale a sud est.  
      La marcia, quasi sempre a piedi, duro` alcune settimane. Si camminava ai 
      fianchi della strada in fila indiana ad ambo i lati con automezzi che 
      scorrazzavano in due direzioni. Questo lungo cammino mi ricordava la 
      ritirata dei tedeshi che passarono di fronte alla mia casa a Teramo. 
      Quando arrivammo alla citta` di Pusan sui marciapiedi vedemmo una grande 
      quantita` di soldati, anche Marines, in uniforme di gala[ Class A uniform] 
      che applaudivano nel vedere I gagliardetti del quinto reggimento. Noi , 
      armati fino ai denti, impolverati, capimmo che a Pusan non c’era guerra ed 
      i Marines andavano in uniforme “A”; ma daltronte questo non era Hollywood. 
      Prendemmo posto in citta` in un ex campo di prigionieri. La sera a libera 
      uscita non si doveva portare armi , questo fu un gran sollievo perche` 
      prima non si poteva neppure cacare disarmati. 
      In Pusan esistevano allora migliaia di case di tolleranza per servire le 
      forze armate. Le scopate costavano $3 il giorno di paga e mezzo dollaro 
      tutti gli altri giorni del mese. 
      Il rancio era normale , non piu` quelle scatole puzzolenti. Si marciava 
      quasi tutto il giorno. Fortunatamente dopo una diecina di giorni 
      m’informarono che venivo trasferito con alcuni altri , temporaneamente 
      nella polizia militare. Incominciai a montare di guardia in un carcere 
      militare per soldati nostri.  
       
      3 
      Di notte, sulle torri, col vento faceva freddo cosi` mi raccomandai al 
      sergente di darmi un posto migliore.  
      Con $50 il sergente mi mise , con una Jeep a pattugliare le stade della 
      citta`. 
      Una vera pacchia, con uniforme “A” e stivali lucenti si controllava tutti 
      i casini della citta`. Quando si entrava le mamasan[madri badesse a capo 
      dei casini] alzavano le lunghe vesti e prendevano il denaro dalla 
      giarrettiera sulla coscia per consegnarmelo. Io, al ritorno consegnavo il 
      tutto ai miei superiori che ,a loro volta mi pagavano una piccola 
      percentuale. 
      Una delle prime mattine di ronda mi fermai in una stradetta senza uscita e 
      propio alla fine del vicolo c’era un mio compagno di poker che stava 
      scaricando merce che vendeva ai civili. Scesi con l’altro M P e quando lui 
      mi vide disse con un sorriso di sollievo: 
      ” Oh sei tu Frenchy.”  
      Allacciandomi l’elmetto e con tono autorevole dissi: 
      “ Che stai a fare qua. Va via subito”. 
      Il malcapitato con tono sommesso: 
      “SI!! Vado”  
      Ed io di rimando: “ OH! Senti siamo pari di quel debituccio eh!!” 
      “Sicuro e quando ti serve qualcosa in cucina sara` mio dovere” Sudato e 
      spaurito, risali` sul camion per sparire al piu` presto. 
      Questo tizio di Brooklyn lo conoscevo da quasi un mese , era capo cuoco e 
      giocando a poker avevo fatto un debito con lui. Io sapevo dove vendeva la 
      merce perche` l’aiutai propio io una mattina. 
      Durante questo periodo facevo la vita da pascia` avevo un ragazzo coreano 
      che mi lucidava gli stivali e tutte le fibbie ed emblemi; facevo 4 ore di 
      turno e otto .anche sedici ore libere, avevo dei bei soldi in tasca e 
      tutte le donne gratis dei casini. Il mio compagno di 
       
      4  
      guardia era un vero “M P” pero` era arrivato da poco dalla scuola e mi 
      rispettava perche` io ero un veterano combattente. 
      Questo periodo fu una esperienza completamente nuova per me. Tra i tanti 
      voglio ricordare alcuni incidenti capitatomi. 
      Una sera tardi passando in un rione pericoloso vidi un militare inglese 
      che barcollava in mezzo la strada. Lo fermai accennando che c’era il 
      coprifuoco e gli dissi di salire sulla Jeep per portarlo alla sua caserma. 
      Egli ,indignato. Mi disse :”Fuck/off” 
      IL sergente inglese era un robusto di mezza eta` con baffoni neri e 
      continuo`: 
      “Vedo il tuo cognome al petto che sei italiano? AH! Si che lo sei ,ti si 
      legge in faccia. Io ho fatto la guerra in Libia, a Derna , Tobruck e i 
      prigionieri italiani li ho maltrattati perche` erano stupidoni e leccaculi.” 
      Ad un tratto l’ubriaco sergente alzo` le mani e fece un passo indietro. 
      Girai un po` sulla mia sinistra e vidi il mio compagno poliziotto con la 
      pistola “45” spianata e la faccia truce. 
      “Fermati Joe non sparare” Gridai e dissi all’inglese di mettere le mani al 
      muro e allargare le gambe che nel gergo poliziesco e` SPREAD EAGLE. 
      Ubbidi` ed io gli affibbiai una manganellata di traverso alla nuca. E` 
      l’unico colpo che puo` essere mortale. Cadde sul fango della via. Lo 
      buttammo dietro la Jeep e lo consegnammo alla polizia militare inglese. 
      Il giorno dopo sapemmo che la nuca non si spacco` protetta dalle sue 
      robuste spalle .. 
      La mattina dopo dissi a Joe perche` lo voleva freddare.” Frenchy “disse 
      “Io sono un italo/americano e mi sento piu` italiano di te.” 
      “ Ma era ubriaco!” Io di rimando 
      E Joe “inVino veritas” 
       
      5 
      Mi venne affidato un altro compagno di ronda. Alto bello dal corpo 
      atletico con occhi azzurri e uno sguardo freddo quasi malvagio. 
      Pattugliando a piedi uno dei moli vedemmo un vecchio che affacciatosi col 
      sedere sull’acqua stava cacando. Questi vecchi ritirati vestivano di 
      bianco e portavano cappelli neri cilindrici erano rispettati e venivano 
      chiamati “Arapuci`” cioe` nonni. 
      Il mio nuovo compagno si avvicino` al vegliardo e gli disse :”AGNAHASCIMNICA` 
      ARAPUCI` “ [Ossequi nonno] 
      Il vecchio ossequio` con la testa e il mio partner gli diede un calcio 
      sulla fronte che lo mando` in aria e nell’acqua sottostante. 
      Poi calmo seguito` a camminare senza voltarsi per vedere il vecchio 
      annegare. 
      Con la cinghia della pistola e quella dei pantaloni lo tirai dove l’acqua 
      era meno profonda. 
      Non dissi niente al mio partner perche` mi accorsi che era propio un 
      delinquente. 
      Gli scaricatori di porto lavoravano per due centesimi al giorno e prima di 
      lasciare il molo ,la sera, si dovevano spogliare nudi [anche alcune 
      donne]per assicurare che non rubavano. 
      Il mio nuovo partner, usando la pistola a mo’ di martello scasso` una 
      cassa di legno e caddero giu` ancuni orologi ;poi si nascose dietro un 
      ‘altro cassone , a pochi metri, aspettando i facchini che lasciavano il 
      lavoro. 
      Io mi allontanai un bel po` pensando chissa` che sta combinando questo 
      disgraziato. 
      Uno dei facchini s’inchino` per prendere gli orologi , rintono` una forte 
      esplosione della pistola “45” del partner. Il malcapitato cadde a terra 
      fulminato alla fronte seguito dalle grida del piccolo gruppo .  
       
      6  
      Piu` tardi mi disse di firmare il “ D. R.” , rapporto . IO dissi che stavo 
      pattugliando il lato opposto del molo e non vidi l’accaduto. 
      Che assassino , ammazzava per il solo piacere. Era sicuro malato di mente. 
      Volevo ammazzarlo ma non con la pistola, ma sarebbe stato un gran piacere 
      per me se lo avessi afferrato sotto il mento con la mia sinistra e 
      affondare la mia baionetta allo stomaco e poi dicendogli all’orecchio “ 
      Muori bestia ,ma piano , ti faccio soffrire. Lo senti il dolore. Muori 
      assassino!!! 
      Ma se avessi giustiziato cosi` anch’io fossi diventato una bestia ; il mio 
      pensiero di accoltellarlo era pure malato. 
      Era piu` di un mese dalla tregua e non si vedeva piu` guerra ed e` forse 
      per questo che l’assassinio del facchino portuale mi fece cosi` brutto 
      ispirandomi macrabi pensieri.  
      Due giorni dopo fui chiamato al C P del battaglione ed ero sicuro che si 
      trattava del omicidio al molo. Beh! Pensai se m’interrogano diro` tutta la 
      verita` ciononnstante al mio “ Delinquency Report” ho scritto che non ho 
      visto niente. Diro` la verita` questa volta; lo volevo incolpare questo 
      assassino cinico. Io prima pensai di non mettere niente nel mio rapporto 
      perche` stavo per essere rimpatriato e non volevo complicare e ritardare 
      il mio prossimo rimpatrio , mi ero stufato di questa Corea. 
      Un sergente mi fece entrare in un ufficio dove ,dietro un gran tavolo era 
      seduto un ufficiale . Riconoscendo l’aquila d’argento alle sue spalle 
      salutai e dissi:” Caporal De Luca reporting Sir!” 
      Il colonnello mi spiego` che c’era un problema con un gruppo di militari a 
      Pusan ed io ero stato scelto per aiutare a risolverlo. Aggiunse che un 
      ufficiale della C I C mi avrebbe dettagliato  
       
      7 
      sulla missione e preciso` che io avevo la scelta di accettare o  
      rifiutare. 
      Momenti dopo entro` un militare con divisa semplice senza nessun 
      riconoscimento ;il colonello uscendo mi disse : “Questo e` l’agente del 
      CIC” 
      Per tre giorni l’agente m’indottrinosul da fare, poi mi porto` 
      all’ospedale militare dove vidi dozzine di militari ciechi perche` avevano 
      abusato di certe bevande alcoliche che i coreani vendevano presso i casini 
      e per le strade. Poi mi fece vedere un dipartimento di riabilitazione per 
      i drogati. Cosi` decisi di accettare la missione che si trattava di 
      sventare i piani di un gruppo di soldati americani oriuti sud americani 
      chiamati “Latinos” 
      Mi consegnarono un revolver di calibro 38 che portavo nello stivale e 
      andavo girando per la citta` da soldato semplice e fui trasferito al 
      CIC{corpo di contra intelligenza}. Il mio compito era di inserirmi con i 
      gruppi di latinos e partecipare alle riunioni clandestine di droga 
      eccetera.  
      Una gran pacchia , per settimane non facevo che girare per la citta` senza 
      combinare niente. Riferivo al mio agente in posti gia` prestabiliti, lui 
      anche da soldato semplice , ma ,da come parlava sembrava almeno un 
      capitano.  
      La gran parte dei latinos sono meticci quindi semplice per me individuarli 
      e comunicare in lingua spagnola. Alle volte facevo la parte del drogato o 
      ubriaco e domandavo dove potevo trovare qualcosa di forte da bere. Ma gia` 
      da settimane ero in giro ma non riuscivo ad entrare nel loro circolo.  
      Finalmente una sera fui invitato da tre latinos ad una festa , lasciammo 
      il casino e ci avviammo su una stradetta con un canale 
       
      8 
      di fianco. Dopo una ventina di minuti arrivammo ad un cancello dove un 
      tizio ci fece entrare in un gran cortile. Il cortile era pieno di latinos 
      che si drogavano e bevevano alcohol coreano. Il cortile era affiancato da 
      loggiate dove chiaramente si vedevano donne nude e seminude a scopare ; 
      insomma una vera orgia. 
      Ci venne subito incontro un tipaccio tarqiato che salutando i tre compagni 
      domando` chi ero io. Io subito dissi che ero un venezuelano di Caracas da 
      cinque anni in N Y C da dove mi ero arruolato sotto le armi. 
      “ Beh divertitevi e per te “carachegno” ho una bella ragazza” Disse il 
      tipaccio accennando alla ragazza di avvicinarsi. 
      Dopo una mezz’ora di baldoria dissi alla ragazza di uscire per un po` di 
      calma. A venti metri fuori del cancello feci un passo indietro e sferrai 
      un poderoso pugno alla testa. Svenne sulle mie braccia e la scesi giu` al 
      canale. 
      In dieci minuti arrivai alla moto del poliziotto militare dove ,per radio 
      notificai al mio agente superiore la posizione dell’orgia. 
      Per noi era molto semplice e facile conoscere quasi tutte le strade e 
      vicoli della citta` perche` avevamo il nostro sistema con piante urbane 
      fatte da noi . 
      Non ricordo con precisione i numeri pero` si diceva: “Rione C Via D” ecc 
      .ecc.. 
      Mi fu ordinato di tornare indietro per essere arrestato con gli altri. 
      Tutti andammo al carcere militare di Pusan e dopo alcuni minuti 
      ,dall’altoparlante si senti`: “ Juan Martinez al capo carceriere per 
      trasferta al carcere di Tokio” 
      Cosi` fini` la mia missione. Il giorno dopo tornai al mio battaglione di M 
      P.  
      amente seppi che il mio ex partner cioe` l’assassino era stato investito 
      da un camion e dopo due giorni di agonie era morto all’ospedale militare 
      di Pusan . 
(Storie di vita vissuta dal libro di Callara` "Un Abruzzese In America") 
         Il Giappone 
      L`albergo di Karatsu era di 4 oppure 5 piani . A me fu assegnata una 
      camera al secondo piano con un balcone che dava sulla spiaggia della costa 
      est dell`isola. Il locale era gestito dal governo americano e si pagavano 
      25 centesimi al giorno per vitto e alloggio , l`unico divieto era che non 
      si poteva portare nessun altro in camera. 
      Ogni sera, dopo cena, il gran salone si riempiva di signorine che venivano 
      a ballare con i soldati. Dovetti aspettare un paio di giorni per 
      assicurarmi una camera a pian terreno con una piccola veranda che dava 
      anche sul mare. 
      Le signorine erano tutte puttane costavano $3. Con la camera a pian 
      terreno le ragazze entravano dalle verande. Io,non avendo tanti soldi,mi 
      accontentai di ballare con una ragazza che non era molto bella. 
      Pichko era molto affabile e parlantina, era felice di ballare con me 
      ciononostante io le feci capire fin da principio che non avevo soldi. 
      Io la notai la prima sera che non ballava quasi mai forse perche` non era 
      attrante come le altre di faccia ma aveva un corpo perfetto ed era 
      simpatica. 
      Era abbastanza colta e, con lei imparai un bel po` di giapponese,con mia 
      sorpresa lo trovai molto musicale e semplice di quel che sembra. Non hanno 
      un alfabeto come noi, ma una serie di sillabe che esprimono suoni diversi 
      come ma, me ,mi,mo ,mu. Ogni suono o sillaba ha il suo carattere , quindi 
      un suono anche straniero si puo` scriverlo anche senza capirlo. 
      La mia Pichko , dopo i balli la portavo in camera e si faceva l`amore ,era 
      bona ma sopratutto molto buona e compagnona. 
      Verso la mezzanotte o piu` tardi l`accompagnavo a casa camminando lungo la 
      spiaggia verso nord quasi mezzo km. 
      Pichko viveva con altre ragazze in una casetta quasi fuori paese io la 
      portavo fino dentro e conobbi le sue amiche. 
      Era contenta di stare con me .mi disse che veniva da un paesino bello, 
      pittoresco su in montagna e non era da molto ch`era scesa in citta`. Il 
      suo inglese era molto limitato,ma insieme alle mie frasi che apprendevo 
      giornalmente ci capivamo bene. Spesso lei ,gentilmente , mi ripeteva che 
      sognava di aver un bambino coi capelli d`oro e gli occhi azzurri come il 
      mare. La gentilezza e la grazia rispecchiava una finezza , un eleganza 
      aristocratica che la rendeva molto simpatica e attraente. 
      Incominciai a vederla anche di giorno; infatti la mattina pensavo subito a 
      lei e non vedevo l`ora di andare a prenderla. 
      Una mattina entrando nella casette sentii donne che urlavano riconobbi la 
      voce di Pitchko salii al secondo piano in un balzo; la vidi che piangeva 
      per le grida delle altre donne, la presi in braccio e la portai fuori di 
      casa . 
      Dopo un po` di tempo , seduti sulla sabbia mi fece capire che le compagne 
      erano arrabbiate con lei perche` non faceva soldi e perdeva tempo con me. 
      Io immediatamente le spiegai che era libera di fare quello che voleva, 
      benche` le volevo bene e la volevo per me. 
      Pitchko subito rispose che era innamorata di me e voleva stare sempre 
      vicino a me. Con lacrime di gioia mi si butto` al collo, ci abbracciammo e 
      baciammo tutti il giorno. 
      Quella sera non andammo a ballare come al solito ma l`aiutai a vestirsi 
      col kimono. Schiaccio` le mammelle verso il centro del petto ,una piu` 
      alta l`altra di sotto e poi si arrotolo` su una fascia che io tenevo tesa, 
      a mo` di un toreador. Mi spiego` che piu` il petto era piatto piu era 
      bella. Il petto grande era per le mamasan, donne anziane con figli. “E` 
      questione di parere! Di moda! O di tradizione.” Dissi in anglo/nipponico. 
      Sembrava una viva bambola era molto piu` bella col suo tradizionale 
      costume, camminava a piccoli passi con calzature di legno che la rendeva 
      ancora piu` gentile e graziosa. 
      Cenammo in un ristorante locale e tornammo al mio hotel dove facemmo 
      all`amore con una passione tale che si continuava come per arrivare ad una 
      soddisfazione finale irraggiungibile. 
      Era tardi quella notte quando la riportai alla casetta, mentre mi 
      allontanai sentii strilli delle compagne stavo per tornare indietro ma gli 
      strilli s`indebolirono e proseguii verso il mare. Mi sedetti sulla riva a 
      guardare il mare illuminato dalla luna piena. Le onde che si rompevano 
      sulla rena difronte a me ricordavano l`Adriatico di quando ero piccolo e 
      nuotavo quasi tutto il giorno durante l`estate. 
      All` improvviso , verso nord alla mia sinistra, vidi una siluette umana 
      correre verso il mare, strano, non aveva il costume da bagno ma una veste 
      lunga come una camicia da notte; s`innoltro` fino al collo e poi scomparve 
      . 
      Gia` alzato per veder meglio mi misi a correre sulla riva del mare per poi 
      proseguire verso la vittima che si era affacciata dal mare un paio di 
      volte. 
      In pochi istanti arrivai a prendere il corpo che sembrava essere di un 
      fanciullo che non dava segno di vita. 
      Sulla riva riconobbi che era Pitchko e incominciai a farle la respirazione 
      artificiale. Alcuni secondi e riprese vita incomincio` a piangere e 
      mormorare il suo giapponese; non la capivo pero` sapevo cosa diceva. 
      La portai in braccio per mezzo km alla mia camera ,dopo un bagno si mise 
      nel mio letto, immobile senza parlare. 
      Mi sentivo colpevole di tutto quello che stava succedendo a questa povera 
      ragazza perche` incominciavo a volerle bene; non sapevo cosa fare, ci 
      soffrivo. 
      Il giorno dopo le dissi di affittarsi una camera in un altro posto . Lei 
      mi spiego` che era impossibile, non aveva denaro.”Io di do tutto il mio.” 
      Le dissi subito.  
      “Tu non ne hai abbastanza per te.Poi cosa faccio quando te ne vai?” 
      Aveva ragione mancava pochi giorni per il mio ritorno in quella terra 
      infuocata dalla guerra. Volevo scappare sulla montagna con lei,non volevo 
      tornare in Corea.Il Giappone mi sembrava un paradiso era sereno, la gente 
      garbata e sempre gentile. Sapevo che cio` era un sogno, una chimera; la 
      realta` mi aspettava , rossa dal sangue e nera dall` orrore. 
(Storie di vita vissuta dal libro di Callara` "Un Abruzzese In America") 
         La Corea 
Nel campo d`addestramento a Fort Dix fui molto sfortunato. 
Durante la prima settimana, un venerdi` sera ebbi un battibecco con il capo 
squadra. Un oriundo irlandese che era soldato come e me e fu scelto a caso per 
capo squadra. Il sergente contava fino a undici e l`undicesimo era capo 
squadra.. 
Il mio capo squadra credeva di essere un generale , se la prendeva con tutti e 
anche con me. 
Sabato mattina prima dell`adunata si scopri` che il capo squadra stava ancora in 
branda con un mare di sangue.Ferito gravemente fu` ospedalizzato. 
Mi chiamarono al C P dove il capitano,Mc Intosh, mi consiglio` subito di 
confessare il mio crimine. 
“Signor no io non ho commesso nessun crimine” 
Piu` volte mi chiamo` al C P e mi minaciava di deportarmi, m`interrogava a lungo 
sempre con minacce ed imprecazioni, mi voleva impaurire e c`era quasi riuscito 
ma non potevo confessare un reato non commesso. 
Ogni mattina all`adunata di fronte alla compagnia diceva; “Dove sta il codardo 
che non ha le palle di confessare come un uomo. Vieni qua`.” 
Mi fece odiare da tutti i commilitoni. 
Dopo le durissime giornate di addestramento, ogni sera dovevo entrare in un 
pozzo di cemento a vuotare gli avanzi del rancio in un fetore irrespirabile. Si 
chiamava “The grease pit”= il pozzo del grasso. Solo a mezzanotte potevo andare 
a lavarmi e dormire per tornare alle 5 con l`addestramento. 
Dopo 4 mesi d`inferno dove giuravo di ammazzare il capitano alla prima occasione 
finimmo l`addestramento e dopo 10 giorni di licenza si parti` per la costa 
ovest. Dalla stazione di Newark il treno si allontano` con io che salutavo mio 
padre e mio zio Domenico. 
A Fort lewis nella stato di Washington, aspettando l`imbarco per la Corea,vinsi 
un sacco di soldi a poker. 
Un capitano mi doveva $400 mi scrisse un I O U . 
“Sor capitano” Dissi “Io preferirei un lascia passare esente di alcun servizio 
per il poco tempo qui al Fort Lewis”. 
“Ma senz`altro” Ribatte` il capitano. 
Me ne andavo alla bella citta` di Seattle quasi tutti I giorni con un altro 
soldato e, fra l`altro una sera mi comprai una bourlesque queen per una somma 
enorme. 
Mi feci la ragazza a Tacoma, giovane dell`high school. Biondina, ben fatta e ci 
facevo all`amore. 
Finalmente salpammo con un piccolo bastimento con migliaia di soldati. 
Eravamo tutti dalla lontana east coast e non c`era nessuno a salutarci. 
Ma la mia biondina venne con l`amichetta a salutare. 
Vidi un generale sul ponte mi avvicinai e dissi salutando:”Permesso di salutare 
la bella” 
“Permesso concesso militare” 
Corsi giu` nella lunga passerella e verso la biondina; l`abbracciai,la baciai e 
calcandomi la bustina sulla testa con gli urli di mille bocche , ricorsi sul 
vapore per andare in guerra. 
Ammucchiati in compartimenti con amache di tela non era brutto, ma quando di 
giorno si doveva andare in coperta facevamo l`altalena con il mare incazzato in 
un vaporetto che imbarcava molte onde. Con un freddo da morire, inzuppato 
d`acqua salata giurai che non ci sarei andato piu` in coperta. 
Infatti mi impadronii di una giacca bianca e un cappellone alto da cuoco e 
scendevo giu` nella mensa a mangiare senza fare la linea di ore. 
“Lasciate passare il cuoco” Dicevano. Si mangiava in piedi su un bancone alto; 
con una mano si manteneva la cavetta con l`altra si mangiava ondeggiando su e 
giu` per il bancone nel fondo del “barcone” con alcuni che vomitavano. Mangiando 
un sergente con un vocione mi tuono`”TU!!! In cucina!!” 
Un lavoraccio da cani inforcando tacchini a centinaia per metterli ai forni. 
Era la festa di Thanks/given e si mangia tacchino negli U S A o nel…Pacifico…! 
Dal gelo alle fiamme , insomma non si trovava riposo. 
Dopo 16 giorni approdammo al porto di Yokahama nel Giappone del sud. 
Menomale ora qualcuno scendera` e ci sara` piu` spazio. No, Invece 500 indiani 
coi turbanti salirono per la volta della Corea. 
Ad Inchon fummo trasferiti in battelloni “L S D 50” e accucciati in fila di 12 
con I fucili tra le gambe,l`elmetto,il gile` di ferro,la maschera antigas,lo 
zaino e due bandoliere di munizioni pronti a saltare in avanti. 
Quando la mia linea arrivo` alla sponda del natante per saltare giu`, vidi gli 
altri avanti a me che stavano con l` acqua alla gola. Io che ero un gran 
nuotatore capii subito che annegavo con tutto quel peso. Buttai il fucile e 
rimasi a galla aiutandomi con gli elmetti dei piu` alti. 
Sulla spiaggia c`erano centinaia di camion. Chiesi ad un autista dove si poteva 
prendere un fucile:”Su quella tenda” Disse indicando. 
“Ne vuoi uno russo a tamburo?” 
“Ma no! Che ci faccio quando mi finiscono le munizioni?” 
“Eh! Lo usi come bastone…!” 
“ FUCK-YOU..!!!”Gli dissi incazzato. 
Mi consegno` un M 2 mitra leggero con gile` di munizioni. 
L`autocolonna gigante comincio` a partire verso il nord. Faceva gia` freddo. 
Attraversammo Seul che era un paesotto a quei tempi. 
Era gia` notte e pioveva quando finalmente il mio camion si fermo`.Uno delle 
reclute disse che tuonava. Ed io:”No!! Questi non son tuoni; ma son cannoni. Io 
li ho sentiti quasi un anno intero in Europa. 
Un sergente chiamo` 5 o piu` uomini con anche me e tutti i chiamati scesero. Un 
soldato fece cenno di seguire su per un sentiero tortuoso pieno di ciottoli. 
“De Luca, Zino qua`” Indicando una tenda che svelazzava come una vela stracciata 
in un mare di pioggia. 
Cosi` fui ammesso al 5 R C T [Quinto regimental combat team] tutti rangers;ossia 
truppe volontarie d` assalto, veri guerriglieri. 
Non mi piacque affatto, cosa stavo a fare con questi assassini assetati di 
sangue,io ero di leva appartenevo alle truppe regolari. Gia` stanco della guerra 
sulle montagne, non volevo incominciare da capo. 
Alcuni giorni dopo, avanzando verso la prima linea , vedemmo soldati frustare i cosidetti chiki/barrow, erano civili coreani che portavano sulle spalle enormi 
basti [A frame] di legno carichi di munizioni. 
Una recluta disse:”Ma che fate!!” Ed io subito : “Statti zitto e pensa ai cazzi 
tuoi” 
In linea il nemico avanzava come le onde di un oceano in tempesta. Dopo pochi 
minuti, con le armi automatiche, si finivano le munizioni e si scappava giu` in 
collina a rompicollo, con il lupo[Guks} dietro, bestemmiando il governo che 
invece di fabbricare le cadillac, fabbricassero elicotteri per portare noi le 
munizioni. 
Ma che cazzo di mondo!! Morir in Corea. Io ,da ragazzo, andavo bene in geografia 
eppure non sapevo della Corea. 
Fu propio in una di quelle fughe a rompicollo giu` in collina in una terra 
bruciata dalla guerra, cadendo e rotolandomi, vidi i miei soldati avanti a me 
presi a baionettate e sentivo le grida. 
Non avendo piu` il senso della direzione,caddi in un fosso e vidi due o piu` 
nemici con baionette puntate che sembravano pali della luce. Allora gridai:”Nenen 
Roscia cugnin!!!” 
L `avevo imparato da un prigioniero e significava :”Io sono un soldato russo”. 
Non ricordo piu` niente. 
Mi svegliai al buio con un vento che mi gelava e un rumoraccio. 
Poco dopo m`accorsi che doveva essere un elicottero che mi portava con una 
barella di lato in un ospedaletto da campo. 
Infatti tutto insanguinato da leggere ferite e gridando mi portarono 
all`ospedale. 
Giorni dopo calmatomi grazie alla morfina ed altre droghe venne un capitano 
medico che mi fece un sacco di domande per assicurarsi che non mi ero ammattito. 
Mi ordino` un mese di licenza in Giappone a Karatsu in Kiushu island, 
Che paradiso . Che vita da Pascia`. L`hotel stava sulla riva del mare. 
(Storie di vita vissuta dal libro di Callara` "Un Abruzzese In America") 
         L`America 
      Al molo di N Y C vidi tra la folla in attesa la faccia tonda di un certo 
      Domenico Pepe che era stato a casa nostra in Italia a visitare i miei 
      genitori. Egli mi accompagno` sulla strada dove riconobbi subito, avendo 
      vista una vecchia foto, la nonna Assunta. Seduta nella jeep di Pepe con 
      una coperta sulle gambe col viso docile e pio mi abbraccio` come se mi 
      avesse conosciuto tutta la mia vita. 
      Tornammo a 330 Green St. a Boonton N J dove centinaia di parenti mi 
      aspettavano.Ci fu una gran festa, tutti mi diedero dei regali anche 
      perche` la fine di novembre era vicino Natale. 
      “Tu sei il primo a venire dall` Italia dopo la guerra. E` vero che non 
      c`e` zucchero la`” ecc. ecc. . 
      Mi facevano tante domande, parlavano un dialetto antico,strano con un po` 
      di americanismo slang, che a stento capivo. 
      Una signora dai capelli “sale e pepe” mi prese da parte e mi disse:”E` 
      possibile che mio fratello Romolo non aveva soldi per farti un vestito 
      intero?”. Io, elegantissimo, con uno spezzato ultima moda, capii subito 
      che i miei parenti erano semplici e buoni; ma purtroppo provinciali che 
      non avevano progrediti in America ed erano rimasti come quando arrivarono. 
      “Zia” Dissi scusandomi. “Questa mattina all`alba, sulla nave, al buio, ho 
      messo la giacca sbagliata”. 
      Vivevo da mesi con la nonna che era una santa, con il nonnastro e due zie 
      zitelle che mi adoravano. Diventai un principe, tutti mi volevano bene, 
      non facevo piu` tanto lo spavaldo che ero in realta`. 
      Lavoravo in una fabbrica di borse e mi comprai una macchina usata di $100. 
      Una chevrolet 1936 nera che somigiava alla nostra Balilla. 
      Non mi potevo ambientare, mi sentivo solo senza gli amici;capivo, ma non 
      potevo spiegarmi bene in inglese. 
      Andai nella vicina N Y City e trovai un posto alla 42 strada. Da “Romeo 
      spaghetti e pizza” dove mi misero sulla vetrina come una scimmia a tirar 
      pizza in aria. Pagavano bene, un dollaro all`ora e si potevano fare 100 
      ore la settimana perche` c`erano brande nel retro bottega e Romeo stava 
      sempre aperto.Poco dopo mi cacciarono, sostituendomi con un portoricano e 
      mi spiegarono che, biondo, non sembravo un italiano….! 
      Poi, per lavoro guidavo un camion enorme, ribaltabile, antico tanto che 
      non aveva le porte e era a catene senza il ponte o differenziale. Insomma 
      era come I nostri 18 biel a catene del 1915. 
      Anche nella BIG APLE ho portato il tassi per una ditta piccola. Si andava 
      sempre ad Idlewild airport ad acchiappare i “merli” che spolpavamo per 
      spartire con il padrone.Si guadagnava bene, ma la cuccagna fini` quando 
      una mattina andando a lavoro,al garage vidi una confusione di gente e 
      poliziotti. Proseguii all`opposto marciapiede e seppi, piu` tardi, che il 
      capo fu arrestato perche` aveva tutte le licenze false e le vetture le 
      affittava. 
      Tornai a N J sempre piu` scoraggiato tra i miei buoni parenti che non 
      potevano aiutarmi a farmi una posizione, una strada. 
      Stavo per ritornare in Italia e rimettermi alle spalle di mio padre a fare 
      il parassita o forse diventare un delinquente vero. 
      Mi presentai in una raffineria poco lontano un po` arrabbiato con frasi 
      preparate in un inglese scolastico. 
      Durante l`intervista con il vecchio signor Grambling dissi 
      chiaramente:”Vorrei trovar un impiego nella vostra ditta di un certo 
      calibro” Aggiungendo:” Non tutti gli italiani zappano ,il papa non 
      zappa!”. 
      Sorpreso e non offeso il vecchio signore mi porto` dal dott. Eger per 
      un`intervista tecnica. 
      Fui assunto come chimico nel laboratorio principale della raffineria di 
      oli e derivati. 
      Dopo piu` di un anno di servizio mi venne la chiamata alle armi.Con la 
      guerra in Corea e con il passaporto non scaduto partii per il Venezuela. 
      A Caracas rintracciai un certo Feto` che da giovane venne a lavorare con 
      mio padre perche` il suo, lo aveva cacciato di casa. 
      Feto`, allora quindicenne, non veniva considerato un operaio e mangiava 
      con noi tutti i giorni. L`anno dopo si fece volontario con i fascisti e 
      ando` a conquistare l`Etiopia. Dopo la guerra rimase la` e faceva la guida 
      per i cacciatori. Richiamato alle armi,ricombatte`, e perdette l`Etiopia;poi 
      ando` in Venezuela dove faceva la guida per i cacciatori nella jungla. 
      Con lui trascorsi piu` di una settimana nella foresta pedinando le orme di 
      un giaguaro sempre piu` invisibile. Benche` giovane e forte a volte 
      faticavo a respirare per l`immensa umidita`. 
      Una mattina Feto` sparo` in alto, d`un tratto, senza avvisarmi. 
      Voltandomi, con le orecchie che mi rintuonavano, stavo per strillargli 
      quando sentii un rompere di rami su, nelle alte piante;cadde giu` un 
      serpentone grande quasi come un palo di telefono. Sparammo diversi colpi 
      alla testa e dopo molti minuti che sembrarono ore il gran rettile 
      comincio` a calmarsi.Gli indigeni cominciarono a spellarlo con il macette; 
      c`era un palmo di grasso fra la pelle e la carne. La pelle ,arrotolata era 
      piu` alta di 2 metri,con corde cominciammo a trascinarla sul suo grasso 
      verso la jeep. 
      Feto` poi mi spiego` che il rettile era un piccino perche` stava ancora 
      sugli alberi; quando si fanno adulti vivono nel fiume la` vicino che si 
      chiamava Orinoco. 
      Tornai a Caracas e ritrovai alcuni dei vecchi amici notturni teramani che 
      erano emigrati. La notte andavamo a puttane nel rione del Capitoglio. 
      Mi sentivo finalmente piu` contento con i miei amici e mi spiegavo bene in 
      spagnolo esibendo una certa superiorita` alla gente locale. Era l’opposto 
      dell`America del nord dove mi sentivo etnicamente soppresso ed inferiore. 
      Telefonai alla nonna e la zia mi disse se non tornavo prima della fine del 
      mese ero considerato disertore. 
      Presi un aereo della linea “Aereo Postal Venezolana. A meta` strada si 
      spaccarono due motori ed atterrammo pericolosamente all`Avana di Cuba. 
      Mi volevano trasferire su una linea aerea americana lo stesso giorno; ma 
      io rifiutai, dicendo che avrei aspettato un aereo della Aero Postal. 
      Mi feci 5 giorni all`hotel National gratis con belle donne . 
      Rimasi al verde prima di ripartire per N Y C . 
(Storie di vita vissuta dal libro di Callara` "Un Abruzzese In America") 
         L`Americano 
      Eravamo giovani,disoccupati e senza la speranza d`impiego. 
      Iscritti all`universita` andavamo a spasso per il corso ammirando le belle 
      signorine. 
      Durante il giorno andavo con i miei coetanei. La sera tardi, dopo 
      cena,uscivo di nuovo e mi accompagnavo con una teppa molto piu` 
      interessante e piu` grande di me. 
      C`era, fra gli altri,Franco che era gia` sposato con una figlia di un 
      tassista per onorare un figlio.Franco era un tipo magro con una faccia 
      bianca coperta da una perenne espressione di”non me ne frega” E ,alle 
      volte, scoppiava in una risata rauca, gutturale come uno che abusa di 
      sigarette. 
      Andavamo a zonzo per la citta` bevendo qua e la` per i bar; alle volte 
      passando il tempo al casino per vedere il nuovo gruppo di puttane.Non 
      sempre si andava in camera per mancanza di soldi. Altre volte,seduti, ad i 
      tavoli da marciapiede accando ai caffe` si gridava, battendo un pugno sul 
      tavolo metallico che risuonava come un cong:”Pagnottella…!!! Per Dio porta 
      un cognac…!! 
      Pagnottella era un cameriere dell`Aquila d`oro,un caffe` sul corso di 
      fronte a via Carducci. Piccolo rosso di faccia. Rotondo di corpo ,quasi 
      nano con giacca bianca e pantaloni neri. Spesso lo facevamo incoglionare 
      prendendolo in giro;allora gesticolava furiosamente mormorando 
      imprecazioni inconprensibili e la faccia si faceva rosso cupo ,quasi nera. 
      Si parlava sempre di andare via dall`Italia.Ma il governo razionava il 
      rilascio dei passaporti. In Italia con la guerra persa non si vedeva un 
      futuro o una strada da prendere. 
      Un De Gasperi che si umiliava con gli alleati per far rispettare l`Italia 
      e farla loro amica. 
      Tutti volevano espatriare ma pochi ci riuscivano. Poi era di moda andar 
      via per avventure; io feci perfino la domanda, con altri, per la Terra del 
      Fuoco e anche per l`isola di Ceylon a pescare perle per una ditta 
      britannica.Feci la domanda per entrare in un carriera ufficiale come 
      Pietro e Mario[ma questa e` un altra storia .] 
      Alle sei di una mattina di primavera partii con la vecchia Balilla nera 
      per Roma per accompagnare mamma all`ambasciata americana. 
      Dopo un`avventura di 7 ore con dovute fermate per mamma che doveva 
      vomitare per via della strada piena di curve ; attraverso strade impervie 
      e mezze franate arrivammo a Roma a via Veneto. 
      Nel lobby dell`ambasciata,dopo aver spiegato quel che volevamo , fummo 
      indirizzati al secondo piano. Sulle scale c`era una lunga fila di gente 
      contadina, certi addirittura con bisacce blu che mangiavano pane e cacio 
      dall`odore forte e pungente delle loro montagne. 
      Un usciere prese il nostro nome e ci disse di aspettare indicando la fila.Io 
      pregai mamma di andar via e non accodarsi. Ma lei, no e stava per 
      accodarsi quando sentii una voce alta dal capo scala:”Signora Artemisia 
      Callara`! Prego.” Un uomo alto che sembrava vestito da generale ci 
      accompagno`,aprendo porte adornate e camminando su un soffice tappeto. 
      Alla terza sala si alzo` da dietro un enorme scrivania, un ometto calvo e 
      rotondo dalla faccia piena e cortese dicendo “Atemisia!!!Sono Marcello!!”E 
      l`abbraccio`. 
      Mamma con un brutto sguardo fece un passo indietro come per dire “Come si 
      permette?”. 
      Io con un sorriso stupido e quasi imbarazzato guardavo l`ometo vestito con 
      ricercatezza che irriggidi` un po`; poi, con un sorriso,spiego`”Arty, non 
      ti ricordi, siamo stati all`elementari insieme a Boonton N.J.? Io sono 
      Domenico Marcello.” 
      “Ah, si` ricordo che veniva a scuola in carozza ,vestito come un 
      signorino”. 
      Mamma, accomodatasi, chiese all`ambasciatore se poteva far tornare mio 
      fratello Lino a Boonton,suo paese natio. 
      “Per ora Lino non puo` tornare in USA perche` ha fatto il soldato in 
      Italia.Pero` tuo figlio Remo puo` andare in America perche` e` americano 
      dalla nascita,essendo figlio di americani nato all`estero.” 
      Io con gli occhi sbarrati alzandomi rispettosamente dissi:”Sua eccellenza 
      sono io Remo.Vuol dire che io sono americano e si potrebbe ottenere un 
      passaporto americano?” 
      “Certo. Puo` venire anche domani con tre foto.” 
       
      In seguito, guardando vecchi documenti, l`ambasciatore chiedeva a mamma 
      come mai non era tornata in America quando l`ambasciata avviso` per posta 
      l`ultima nave che lasciava Napoli nel1940. 
      Lei disse:”Lino stava al secondo anno d`ingegneria navale e Mussolini 
      promise di non chiamare di leva gli universitari.” 
      Si parlo` di altre cose e dei tempi della loro infanzia. 
      La mattina dopo mi presentai con le foto e mi rilasciarono un passaporto 
      dopo un`ora.  
      Dissi tra me “ che sistema ,bisogna aspettare anni in Italia per un 
      documento simile.” 
      Il dignitario dandomi il passaporto mi avverti` che ,per legge italiana, 
      ero anche cittadino italiano .Se ti chiamano di leva ti devi rifiutare e 
      se stai ancora in Italia verrai internato. 
      Dopo qualche altro malore di mia mamma ripassammo il passo delle 
      Capannelle ancora coperto di neve e ghiaccio e tornammo a casa con la 
      buona e brutta notizia. 
      All`improvviso da mascalzone quasi delinquente,incominciai a prendere …”la 
      retta via…”Avendo una strada da prendere, una meta da raggiungere. 
      Devo partire subito,mi dissi, prima che mi chiamino di Leva; ma col la 
      licenza liceale che ci faccio, dovro` prendere un diploma; un pezzo di 
      carta e` sempre buono. 
      Feci la domanda per presentarmi come privatista all`abilitazione 
      magistrale per la sessione autunnale.Mi feci amico con Marcello Cameli. 
      Marcello era un magro,fragile , giovane con spessi occhiali , camminava 
      sempre solo a passi corti e svelti; seppi che si preparava per la stessa 
      abilitazione. 
      Mi mancava la filosofia, la pedagogia e la matematica e con l`aiuto di 
      Marcello e un altro amico fui promosso il 16 ottobre. 
      IL mese dopo accompagnato da mio padre,mio cognato Tonino e mio fratello 
      minore m`imbarcai a Napoli col Vulcania. 
      Un facchino mi porto` la valigia giu` sotto in un camerone e m`indico` la 
      mia cuccetta di tela.Il portantino,mettendomi una mano sulla spalla e 
      guardandosi intorno furtivamente, tiro` fuori un anello lucente e 
      disse:”Questo in America lo potrai vendere milioni io te lo do` per 
      sessantamila”. 
      Io, guardadogli con gli occhi ingenui misi il mio braccio sulle sue spalle 
      e tirai fuori un orologio guardandomi intorno.Non dovetti dire una parola; 
      capi` e corse su in coperta a cercare un vero merlo.. 
      Ero fortunato che lasciavo una Patria dove non c`era speranze,ma non 
      capivamo molto allora. Non sapevamo che c`era la prima ,seconda e terza 
      classe sulle navi. Eri fortunato se avevi un passaporto e un biglietto. Ma 
      con questa camerata , in fondo alla nave, con questa cuccetta e con i 
      puzzi di cacio e piedi sporchi non poteva andare. 
      Salii in coperta e vidi un gruppo di vecchi italo/americani che stavano a 
      giocare a poker in un tavolo vicino al bar. 
      “Si puo`, c`e` posto?” 
      “Si” Disse un vecchio accennando una sedia libera. 
      Cambiai il mio solo biglietto da 50 che mio padre mi aveva dato; barando 
      modestamente vinsi piu` di $100 in un`oretta. 
      La stessa sera mi assicurai una cabina in classe turistica pagando la 
      differenza con il gruzzoletto guadagnato. 
      La mattina seguente mi vestii con cura .Un pantalone marrone chiaro, quasi 
      latte e caffe` con scarpe di pelle lucida e camoscio marrone scuro. La 
      giacca marrone scuro con “pinstripes”sul bianco.Camicia color crema quasi 
      bianca sbottonata sul collo con sotto una sciarpetta di seta con palline 
      che dava sul giallo scuro e che donava al complesso marrone della giacca e 
      pantaloni. Stoffa di lana Zegna e Marzotto fatti su misura dal famoso 
      sarto Tappata`. 
      Mi guardai nello specchio dell`armadio pettinandomi i biondi capelli. 
      Notai gli occhi azzurri e l`espressione che ero capace di fare, ingenua, 
      quasi puerile ,credendo di apparire piu` bello. 
      Salii in coperta pronto ad accalappiare la piu` bella della nave. 
      Mi sentivo capace, confidente; tra i vecchi del poker e i bisaccioni delle 
      camerate non poteva esserci alcuna concorrenza. 
      Era ancora presto , appoggiato al parapetto guardavo il mare e quei pochi 
      vecchi che passeggiavano.  
      Ad un tratto si apre una porta a 5 metri da me, e una signora bionda 
      ,elegante con un vestito blu come gli occhi e una faccia bianca ,delicata 
      come un angelo viene ad appoggiarsi, vicino a me ,sul parapetto a guardare 
      il mare che scorreva lungo la nave. 
      “Bel mare!” Dissi come uno stupido. 
      “Si! E` una bella giornata”  
      Stupito sentii di rimando. 
      Cominciammo a parlare di un po’ di tutto. Offrii un caffe’ al bar di 
      poppa. Si rideva, ci piacemmo molto. Lei ,quasi trentenne,dal corpo 
      snello,perfetto, una faccia delicata che dimostrava molta classe. 
      A mala pena io cercavo di nascondere le mie intenzioni,fingendo di essere 
      disinvolto. 
      In realta’ salivavo come un cane che corre dietro ad una lepre, per 
      calmarmi mi sforzavo a pensare non a quanto era BBona, ma quanto era 
      graziosa. 
      Ascoltavo con attenzione ma non capivo un cacchio, m’ero rincoglionito; mi 
      abbagliava troppo. Mi disse che stava con la mamma pero` lei sempre in 
      cabina perche’ le faceva male il mare. La invitai al ballo in prima classe 
      che si dava in onore di certi attori italiani. 
      La stessa sera mi vestii con cura con un completo blu, la camicia bianca 
      con cravatta d’argento con striscette blu e nere . Al taschino un 
      fazzolettino bianco che risaltava sul blu scuro della giacca. Cosi’ 
      addobbato andai a bussare alla cabina di Tara. Si apri’ la porta ed io a 
      stento, come colpito da un fulmine, mi trattenni dallo spalancare la bocca 
      con un urlo di sorpresa. 
      In un abito da sera ben scollato dove quasi sboccava un seno pieno e 
      voluttuoso; poi stretto in vita per poi curvarsi sui fianchi da renderla 
      irresistibile. Le scarpette d’argento appena si vedevono sotto l’abito 
      dello stesso colore lucente. Dalla faccetta ben truccata usci’ fuori un 
      sorrisetto ingenuo:”Ciao! Andiamo? 
      Ballammo tutta la sera, la sala era piena di gente, gli uomini tutti in 
      frac. Seppi, in seguito, che c’era gente famosa, Silvana Mangano, registi 
      e produttori, ma io non vidi nessuno, solo il mio sole splendente. 
      Andammo fuori a poppa in una panchina incominciai a baciarla cercando di 
      essere gentile per paura di farle male; sembrava una fragile bambola. Lei 
      aveva uno sguardo come se capisse che non ne potevo piu’; era troppo 
      bella;la volevo stringere forte a me, ma avevo paura di romperle le 
      costole. Con una bottiglia di champagne andammo alla mia cabina e scopai 
      per dieci giorni e notti. Pensavo ai miei amici di Teramo, se avessi 
      raccontata questa storia non sarei stato mai creduto; ma chi se ne frega e 
      poi sembrava un sogno anche a me. Non era tanto l’illuminante bellezza 
      quanto la classe di una donna matura che anelava l’amore come fosse stato 
      un apice quasi irraggiungibile, con ansia aspettava l’esplosione del 
      godimento e per arrivare a quel apice che mi faceva entrare in un campo, 
      per me nuovo, di godimento superlativo fisico mentale, che alla vetta si 
      rompeva come l’onda allo scoglio, in un rilassamento soddisfacente,irreale 
      quasi fiabesco. 
      Ero io che mi alzavo, facevo una doccia e tornavo a letto e vedendola con 
      un soddisfatto sorrisetto, ricominciavo a fare l’amore. 
      La sera ,dopo cena, andavo a giocare con i vecchi,poi veniva Tara,tutti si 
      alzavano per rispetto ed io , gentilmente mi scusavo e mi alzavo dal 
      tavolo. 
      Scesi a NYC al molo 82 alla 42 strada con una bella sommetta in tasca. 
      Ora che ci ripenso son sicuro che i buoni vecchietti lo sapevano che 
      baravo e mi lasciavano fare, mi volevano bene, ero bello come un 
      bambolotto, vestito di lusso con una gran signora di classe. Forse, 
      vedevano in noi i bei tempi della loro gioventu’. 
      Al molo aspettando le valige, Tara mi presento’,con mia grande 
      sorpresa,suo marito; un uomo alto e non bello, dalla faccia cupa,incolore 
      e ordinaria. Lei mi disse che suo marito era un agente della FBI. Io 
      graziosamente mi licenziai tornando alle mie valige e pensando: “Che cazzo 
      di coraggio queste americane!” 
(Storie di vita vissuta dal libro di Callara` "Un Abruzzese In America") 
         Il bene di una puttana 
      Alla stazione tutti noi di famiglia salutammo Pasqualino che stava per 
      partire al fronte africano. 
      Mamma l`abbraccio` piangendo e poi con le mani sulle sue guance fisso` gli 
      occhi neri sulla faccia con uno sguardo eloquente di mille parole. 
      Il treno si allontano` con Lino al finestrino che salutava con la mano. 
      Arrivarono due o tre lettere dapprima,poi,per quasi due anni,niente piu` 
      perche` rimanemmo divisi dal fronte.Noi con i tedeschi e Lino con gli 
      alleati. 
      Una tarda mattina d`estate seduto davanti al garage con mia madre che 
      stava a preparare la verdura,vidi arrivare in bicicletta il “gobbetto”. Un 
      alto nano bigobbuto che faceva il barbiere nel rione povero di Porta 
      Romana. Io lo ricordo bene nella sua piccola barberia;per spazzar via i 
      capelli tagliati non usava una spazzola bensi` il suo fiato putrefatto che 
      poteva asfissiare un asino. 
      Scendendo dalla bici a malapena per il suo corpo deforme attraverso` a 
      piedi le colonne di pietra della nostra palazzina rosa. Si avvicino` a 
      mamma e le disse:”Ho visto tuo figlio Lino poco tempo fa`” 
      Mamma scatto` dritta e grido`”Dove?” 
      “Ieri sera vicino a Roseto”Disse il gobbetto guardandosi dietro.Anche io 
      rivolsi lo sguardo verso la strada e alla curva vidi apparire un soldato 
      molto magro con canzolcini corti e scarponi;portava in mano una valiggetta 
      di cartone marrone.Mamma ed io andammo di corsa ad abbracciarlo. 
      Non volle entrare in casa dicendo che era pieno di pidocchi. 
      Papa` lo fece entrare nel garage e gli spolvero` una polvere bianca che 
      aveva comprato da un milite americano. 
      Lino rivestitosi da borghese si sedette a cena con tutta la famiglia e 
      incomincio` la sua storia. 
      Disse che la Sicilia era fortificatissima ma l`esercito italiano si era 
      stufato di combattere e sapeva che la guerra era persa quindi non c’era 
      stata resistenza. 
      Qualche battaglione di testardi tedeschi pero` seguitava a sparare con 
      gruppi isolati di camice nere anche loro ignoranti e fanatici. 
      Fu fatto prigioniero e fu messo in un campo vicino a Gioie del Colle.  
      Le guardie inglesi che li guardavano erano cattive e severe;fortunatamente 
      dopo alcune settimane le guardie vennero sostituite con quelle americane 
      che erano buone,il mangiare anche era migliore con una pagnotta di pane 
      bianco al giorno;poi si capivano perche` in maggior parte erano 
      italo/americani. 
      Alcuni mesi dopo furono trasferiti a Bari dove c`era molta miseria e 
      furono rilasciati per essere riarmati contro i tedeschi nel fronte 
      Abruzzo/Lazio. 
      Nell`attesa del cambio si dormiva per terra senza paglia in un vecchio 
      casermone e non c’era piu` il cibo americano e il rancio non era altro che 
      acqua sporca. 
      Gia deperito e afflitto da malaria dalla campagna sicula,pieno di 
      pidocchi,Lino stava molto male.Il giorno se ne usciva fuori per qualche 
      isolato e soleva sedersi in un muretto vicino ad una fontanella ove le 
      donne venivano a prendere l`acqua con le loro conche di rame. 
      Fu propio la`,seguito` Lino,che una robusta donna sulla trentina con la 
      gonna corta che mostrava robuste cosce gli disse a voce chiara:”Che sei 
      Lino il figlio di Romolo?”. 
      Lino con gli occhi stanchi e tremante dalla febbre rispose:”Si! E tu come 
      lo sai?” 
      “Io sono Maria la Pite Zizze”. 
      Mettendosi la mano in mezzo alle mammelle ben formate. Maria era la piu` 
      famosa puttana di Teramo e bazzicava per lo piu` il casermone che stava 
      vicino alla nostra palazzina.Non si e` mai saputo come rimase a Bari 
      bloccata dal fronte;forse per ragioni di lavoro…!! 
      Lino le disse che stava nella caserma li vicino. 
      Maria,metendogli dei bei soldi in mano disse:”Lino tu stai male io ti 
      aiutero`,conosco un sergente americano che e` addetto propio al reparto 
      dei civili ed e` molto buono si chiama Albert e parla italiano. 
      Con i soldi Lino si compro` un pane e due bicchieri di lupini da una 
      vecchia in nero che vendeva per la strada. 
      A stento arrivo` alla sua cuccetta all`angolo della camerata dove soleva 
      dormire sul pavimento con il suo vecchio tascapane sotto la testa. 
      La mattina dopo si sveglio` dal vocione che gridava :”Dove sta Pasquale 
      Callara`" 
      “Sono io” disse Lino a stento con meraviglia, infatti Callara` era un 
      soprannome della famiglia. 
      Un sergente in divisa americana con due soldati dietro si avvicino` e 
      disse:” Maria mi ha detto che sei di Teramo e tuo padre si chiama Romolo 
      Callara`. 
      “Tua madre e` Artemisia?” 
      Di rimando il sergente con tono inquisitivo. 
      “Si” Disse Lino. 
      “Arty e` mia sorella!! Io sono tuo zio!!” 
      Lino rimase li` seduto per terra tremando con le lacrime agli occhi. 
      Il sergente Albert Venturini era,infatti, il fratello di mia madre ed era 
      nata anche lei a Boonton N.J. da dove piu` di ventanni prima salpo` alla 
      volta dell`Italia;ma questa e` un`altra storia….[forse]. 
      Albert tuono` un comando in americano e i due soldati aiutarono Lino su 
      una Jeep militare e venne ricoverato in un ospedale americano dove guari`. 
      Albert fu trasferito al fronte francese e Lino dovette tornare alla 
      vecchia caserma che pero` era stata arredata con brande e si mangiava 
      meglio. 
      Il suo regimento fu riarmato e spedito al fronte contro i tedeschi che 
      ormai,un poco tardi, incominciarono a capire che la guerra era persa e 
      correvano verso il loro confine. 
      Mio fratello Pasquale torno` dopo tanti anni a Boonton New Jersey,il suo 
      paese natio.Cola` formo` famiglia con tre maschi e una femmina ed anche 
      loro vivono a Boonton. 
       
      AD MEMORIAM 
      Dopo un giro mondiale 
      Tornasti,caro Pasquale  
      Alla tua terra natale 
       
      Ove quattro gioielli lasciasti 
      luminanti del tuo amore. 
      La mamma, la donna del cuore, 
      fratelli dolenti rimasti. 
       
      Sempre ti ricorde..Remo 
      Per l`altruismo e la tua bonta` 
      E del pensiero la lealta`. 
      A Dio fratello, Remo. 
      (Storie di vita vissuta dal libro di Callara` "Un Abruzzese In America") 
         Dal finestrino dell’ attico 
Dall’alto del finestrino del mio amico si vedeva un lungo tratto di strada di 
quasi 4 isolati che poi finiva in una debole curva. 
La via completamente deserta solo un canuto e arcato vecchietto avanzava a 
stento verso il nostro fabbricato. 
Correva la voce che questa volta i tedeschi venivano a conquistare Teramo. 
Le deserte strade erano sicura testimonianza del timore della rappresaglia 
germanica dopo il double cross dell’otto settembre. 
Gli uomini tutti alla macchia mentre le donne con i piccoli erano chiusi dentro 
le case per sentirsi piu’ sicuri. 
Anche noi dal finestrino ci sentivamo sicuri con un ‘ampia veduta. 
Dissi al mio amico ,fantasticando: “ Se vengono quassu’,per le scale, noi dal 
canale della grondaia possiamo evadere facilmente” 
Fernando di rimando: “ Ma che dici!! Loro non sanno che siamo nascosti quassu’ 
.” Ad un tratto dalla semi curva apparve una moto con sidecar seguita da un’ 
auto /carretta tipo Jeep e una sfilata di camion. La moto si fermo` di fianco al 
vecchietto, un tenente in divisa coloniale scese dal sidecar con una bustina in 
testa che a malapena copriva i gialli capelli.Due soldati in divisa con elmetti 
a sotto gole saltati fuori dalla Jeep per accodarsi allo spocchioso tenente. I 
soldati impugnavano pistole /mitra che pendevano a mo’ di collana . La ronda si 
avvicino` al gobbuto vegliardo che a stento alzo` di lato il suo capo. Uno dei 
soldati sembrava fare da interprete. Non si sentiva niente ma ,dopo alcuni 
secondi il vecchio con il braccio teso indico` le montagne all’orizzonte. Subito 
dopo l’auto colonna riparti`. 
Si aprirono le pesanti porte e una mezza dozzina di “femmine” ,uscite dalle 
case, prima interrogarono il canuto poi incominciarono a spingerlo e 
schiaffeggiandolo verso il parapetto al fianco della strada. Si udivano le grida 
delle donne, ormai una ventina. 
Il vecchio cercava invano di ripararsi con le braccia. La folla lo alzo` sul 
parapetto per scagliarlo giu’ dal muro. 
Egli cadde di dorso su una pietra fissa e rimase la’ come fosse incrociato. 
La donne ,inferocite, cominciarono a lapidare il malcapitato. 
“Fatemi passare!! Largo!!” grido` una donna pettoruta dai capelli rossi 
infuriati. La rossa appoggio` un masso al parapetto e si affaccio` per prender 
la mira e butto` giu’ il masso che fracasso` il torace del vegliardo. Rimase la’, 
il corpo immobile come inchiodato da due massi. Segui` un silenzio loquace, poi 
un vocio, il gruppo si disperse per rintanarsi e sbarrare le porte. 
Noi saltammo sul piccolo davanzale del finestrino che dava sulle montagne, e su, 
in alto, vedemmo i camion attraversare un piccolo ponte. 
Si seppe ,giorni dopo, che i tedeschi attaccarono un vero fronte partigiano 
equipaggiato con artiglieria ed ebbero la peggio. Infatti solo alcuni camion 
tornarono all’ospedale di Teramo con soldati quasi tutti fasciati e 
insanguinati. 
Storicamente questa e’ stata l’unica vera battaglia contro I tedeschi fatta dai 
partigiani in Italia, tutte le altre sono considerate guerriglie [Raids]. 
Infatti quasi tutto il regimento d’artiglieria da montagna con altrettanti 
giovani partigiani teramani si fortificarono al bosco Martese dove sconfissero 
il nemico in battaglia dopo due giorni di combattimento. 
Come I loro antenati Sanniti soggiogarono le legioni romane, questi furono gli 
eroi che combatterono contro l’oppressione e versarono il loro sangue alla 
difesa della loro terra. 
(Storie di vita vissuta dal libro di Callara` "Un Abruzzese In America") 
      Il bastardo 
      Vivevo con i miei in una bella palazzina rosa,vicino al ponte,nella citta` 
      di Teramo. 
      La mattina per andare all`asilo camminavo da solo;quando passavo la 
      fontana ed entravo a Porta Romana,camminavo sempre a destra dalla parte 
      dell` orfanotrofio perche`,a sinistra,attraverso la strada c`era sempre la 
      vecchia strega dai capelli gialli biancastri con uno o due neonati. 
      La vedevo masticare cibi e poi sputare nelle mani per dar da mangiare ai 
      piccoli. Cio` mi faceva schifo e paura. 
      Due lustri piu` tardi,quasi giovanotto,passavo accanto alla vecchia strega 
      con i piccoli e non mi faceva piu` ribrezzo sapendo che lei per guadagnare 
      il vivere allevava piccoli figli di puttane. 
      Questi poveri piccoli al cui certificato di nascita veniva stampato la 
      parola'BASTARDO' erano destinati alla poverta`e i piu fortunati imparavano 
      un mestiere.Proprio uno di questi giovani seppe,dalla mamma,il nome del 
      vero padre; un benestante di un paesetto su` in montagna e quando veniva a 
      Teramo si tratteneva con la mamma. 
      Il giovane prese il piccolo autobus per arrivare al paesino e si presento` 
      al padre. Non si sa cosa dissero, si puo`supporre che il giovane bastardo 
      si lamento` che il padre non lo aveva adottato, o forse gli chiese dei 
      soldi per cominciare una sua vita. 
      Fatto sta che il giovane prese lo schioppo da sopra il camino e uccise il 
      padre Il colpevole si diede alla macchia,su nelle montagne alte,e non fu 
      piu`ritrovato. 
      Il tribunale lo condanno` all`ergastolo e bandito dal Regno d`Italia. 
      Passarono molti anni, una sera dopo il tramonto,quasi all`imbrunire,mentre 
      ero seduto dietro un camioncino,di cui mio padre era alla guida ci 
      fermammo ai piedi della discesa del "Pinocchio" a sud di Ancona. Mio padre 
      apri` la sponda di dietro ed io scendendo vidi sul lato della via 
      Litoranea um mucchio di uomini , quasi scheletri,barbuti coperti da cenci 
      lerci. Certi erano bendati da vecchie fasce marrone dal sangue e terra.Tutti 
      si muovevano con gli occhi sbarrati verso il camion con una tetra 
      lentezza,come esseri di un altro pianeta. 
      Mio padre con il suo amico che era anche un omaccione sbarro`loro il passo 
      e poi disse ad alta voce:"Chi va a Teramo?" 
      Tre furono praticamente issati sulla camionetta,una vettura 501 Fiat 
      adibita a camion per le necessita` del dopo guerra. 
      Mio padre mi ordino` di andare davanti,ma io dissi che stavo bene di 
      dietro,sapendo che, con l`omaccione non c`era propio spazio per me. 
      Papa` acconsenti` ammonendo di tenermi lontano dai tre meschini per paura 
      dei pidocchi. 
      Ripartimmo e uno dei tre con una smorfia di un sorriso mi disse che erano 
      ex prigionieri che provenivano dal fronte russo. 
      Incomincio` a raccontare come rimase prigioniero e come fu salvato dalla 
      sicura morte. 
      Con la voce piu` cupa e con gli occhi bagnati mi disse che stava ad 
      aspettare il camion che li portava alla salvezza durante la ritirata di 
      Stalingrado. 
      Arrivarono i camion Fiat con il tricolore dipinto, su una stradetta di 
      ghiaccio rotto, proseguivano a stento in un terreno malandato.I veicoli 
      non si fermarono. Noi tutti soldati cominciammo a gridare;alcuni, i piu` 
      forti,corsero dietro e si aggrapparono alla sponda di dietro. 
      Con terrore vidi soldati tedeschi che davano baionettate alle dita dei 
      nostri alpini. Gridando, cadevano a terra sul suolo ghiacciato. 
      Rimanemmo la` con il freddo e la fame aspettando che la morte ci 
      graziasse. 
      Non so con precisione ma, dopo alcuni giorni ,arrivarono le truppe russe 
      che ci ordinarono di alzarci e seguirli;chi non poteva alzarsi veniva 
      giustiziato la` per la`.Tra molti mi rimase impresso il viso di un morente 
      dagli occhi languidi guardava il russo che non avendo il coraggio di 
      sparare lo colpi` in fronte col calcio del fucile e poi lo fucilo`. 
      Arrivammo ai piedi di un piccolo burrone vicino ad una vecchia strada.Fu 
      propio la` che i russi cominciarono a fucilare i miei camerati.Stava per 
      arrivare il mio turno quando una macchina si fermo`a pochi metri.Usci` 
      fuori un ufficiale con il pastrano alle spalle che a fatica copriva una 
      divisa elegante con stivali lucidi. 
      Tutti sull`attenti salutarono col massimo rispetto quasi paura.Il  
      generale russo tuono` alcuni ordini ed un ufficialetto timidamente 
      sembrava di spiegare la situazione. 
      Avvicinandosi e sembrando piu` grande di quel che era tuono` in 
      italiano:”Da dove venite?” 
      “Siamo italiani!”In un fil di voce dissi. 
      “Si !!!Ma da dove?” Disse il vocione del capo. 
      “Abruzzesi,teramani…!!” 
      Gridai con un po` di speranza. 
      “Sono anch`io teramano, di Porta Romana, mia madre si chiamava Maria pero` 
      era conosciuta con il nomignolo di “pite zizze”.Con la faccia atterrita e 
      il terrore in corpo capii chi era il generale.Smise la fucilazione e fummo 
      trasportati in un campo di prigionia con tende e stufe che si potevano 
      accendere qualche ora al giorno. 
      Poche ore dopo mio padre fermo` davanti alla scuola magistrale”Giannina 
      Milli” in via Carducci che era allora un ospedale militare provvisorio. 
      Qualche settimana dopo andai a trovare il reduce russo con il mio amico 
      Fernando e ancora una volta ci racconto` la sua storia in Russia. 
      Era ancora magrissimo, quasi uno scheletro, nei suoi occhi neri e 
      penetranti si leggeva la disperazione,l`orrore e la morte. 
      Un capitano medico,Libucci,mi disse che non sarebbe guarito , non era 
      capace di prendere peso e farsi forza. Aveva sofferto molto anche nel 
      lungo viaggio di ritorno. 
      All`uscita,sulle scale bianche della scuola,Fernando mi disse:”Guai ai 
      vinti..!!” 
      (Storie di vita vissuta dal libro di Callara` "Un Abruzzese In America") 
      Le pecorelle 
      C’era una volta una mammina Pecorina che aveva due agnellini uno col 
      fiocco blu e si chiamava Candu‘ e la sorellina col fiocco pink si chiamava 
      Caramella. 
      Una bella mattina la mammina Pecorina stava a mangiar l’erba fresca del 
      prato con gli agnellini. Poco dopo , Candu‘ e Caramella si misero a 
      correre e rotolar per terra. Correvano , correvano fino alla fine del 
      verde prato finche‘ arrivarono alla riva del fiume , dove l’acqua lesta 
      mugghiava e biancheggiava. 
      Candu‘ disse a Caramella :” Ho sete ! Andiamo a bere” 
      Scesero giu‘ pel pendio e, a riva , allargarono le gambe davanti per 
      abbassare la bocca al rio, quindi bere. Caramella , nel fango, scivolo‘ 
      nel turbo fiume , trascinandola fin dove era cupo. 
      Caramella si mise a belare: “ BEEE‘! BEEEE‘! Aiuto ! Aiuto” 
      Candu‘ , impaurito, comincio‘ a correre attraverso il prato per chiamar la 
      mamma. 
      Sull’altura , la‘ vicino , c’era papa‘ Montone che dall’alto vide 
      Caramella in mezzo al fiume. 
      Allora , papa‘ Montone , abbasso‘ le corna e come il vento si mise a 
      correre,si tuffo‘ nel fiume e a nuotar con quattro zampe, in un lampo , 
      raggiunse l’agnellina. 
      “ Lesta ! Lesta! Caramella acchiapati alle mie lunghe corna” disse papa‘ 
      Montone che nuotando contro corrente porto‘ in salvo la Caramella bella. 
      La‘ vicino ,sul prato verde,la mammina Pecorina con gli agnellini e Papa‘ 
      Montone s’abbracciarono felicemente e fecero un gran festone. 
              -Da Racconti dei piccoli- 
      Pollicino teramano 
      C’era una volta in un piccolo paesello una bella mammina che viveva in una 
      casetta bianca col maritino.  
      Tutte le sere prima di dormire la mammina pregava Dio che gli portasse un 
      bambino . 
      Passo` molto tempo ed il bimbo non veniva, La mammina disperata disse 
      nella preghiera 
      < Dio mio mandami un piccolino anche se mangera` come quattordici uomini. 
      Io ho tanto pane in casa.> 
      Una mattina di primavera la mammina si sveglio` al grido “<Ma` voglio il 
      pa`. Ma voglio il pane> 
      < Dove sei figlio mio , non ti vedo> 
      <Sono quaggiu` nella crepa del pavimento> 
      La mamma prese il neonato che era tanto piccino e lo chiamo` “Pollicino” 
      perche` era piccolo come un pollice. 
      Pollicino era tanto simpatico e bellino e mangiava sempre il pane della 
      mammina . 
      Il papino si ammalo` e non potette piu` lavorare. Pollicino con tutto il 
      pane che mangiava si faceva grande grande ogni mese che passava . 
      Tutti i giorni mangiava per 14 uomini e si fece grande e forte presto.  
      Divenne tanto grande e forte che tutti nel paesello non lo chiamavano piu` 
      Pollicino , bensi` lo chiamavano “Fourteen” che significa 14 nella lingua 
      inglese. 
      Un giorno la mamma disse a Fourteen :< Non c’e` piu` pane figlio mio e con 
      papa` che non lavora devi andare tu a cercar lavoro> 
      Lo stesso giorno Fourteen parti` per cercar lavoro con la bisaccia dove la 
      brava mammina aveva messo 14 pani e 14 mele . 
      Cammina, cammina, cammina e Fourteen attraverso` una grande selva, Era 
      quasi notte quando busso` ad un convento sopra una montagna.  
      Aprendo il portone un frate disse:< Chi sei? Cosa desireri? > 
      <IO sono Fourteen e cerco lavoro. Sono forte e posso lavorare per 14 
      uomini> 
      Il buon frate condusse Fourteen in una cameretta dove , stanco, si 
      addormento` subito. 
      La mattina dopo egli si sveglio` presto al suono di campana e usci` dalla 
      cameretta. 
      Nel lungo corridoio si mise in fila con tantissimi frati che , camminando 
      e cantando arrivarono ad un grandissimo salone con tanti tavoli. 
      Tutti seduti dissero una preghiera e poi si misero a mangiare . Fourteen 
      mangio` 14 pani. 
      Dopo il pasto mattutino il buon frate condusse Fourteen all’orto che 
      zappo` per 14 uomini tutto il giorno . 
      La mattina dopo, il capo dei frati , cioe` iI Priore disse a Fourteen:< Tu 
      che sei tanto forte e coraggioso forse sarai capace di andare a prendere 
      il “Pig watcher” su` nel monte alto alto. 
      “ Ma come posso trovarlo in quella montagna piena di alberi?” 
      <Facilmente > Disse il Priore. < Il “Pigwatcher e brutto peloso come un 
      lupo e si nasconde sulle piante alte alte > 
      < Va bene> Disse Fourteen. < Io l’acchiappo e te lo porto quaggiu`> 
      Fourteen in mezzo alla foresta della montagna alta incomincio` a chiamare 
      con urli il “Pig watcher” , ma non lo trovava .  
      Finalmente lo vidi su` un albero molto grande e gli disse < Scendi 
      subito!!!> 
      Il Pig watcher che si manteneva forte su un grosso ramo disse <NO!!!>. 
      Allora Fourteen afferrando il tronco dell’albero la scosse con violenza e 
      il Pig watcher cadde al suolo. 
      Pronto Fourteen lo afferro` per la lunga barba e lo trascino` giu` giu` 
      fino al portone del convento. 
      Entrando nel cortile Fourteen vide tutti i frati radunati che si fecevano 
      il segno della croce .Poi il Priore alzo` il grande crocifisso e il Pig 
      watcher lancio` una grande fiammata che spacco` il suolo e lui ci cadde 
      dentro scomparendo. 
      Il Priore si avvicino` a Fourteen ringraziandolo che aveva toldo il 
      Pigwatcher dal monte ed ora tutti i frati potranno andare a prendere le 
      castagne nella foresta del monte alto . 
      Il Priore , come ricompensa, consegno` a Fourteen un sacco piene di monete 
      d’oro. 
      Tutto contento Fourteen torno` alla sua casa natia dove la mammina l’abbraccio` 
      piangendo dalla gioia. 
      Fourteen e i suoi genitori vissero felici e contenti per tutta la vita 
      nella loro casetta bianca del paesello .  
      Morale della fiaba: I legami di famiglia sono piu` forti delle catene . 
              -Da Racconti dei piccoli- 
      L’allodola   
       C’era una volta un caro padre a cui volevo molto bene . Una bella e calda 
       mattina d’estate mio padre m’invito` a visitare una delle nostre masserie 
       . 
       Tutto contento salii sull’elegante carrozzina trainata dalla mia amata 
       cavalla “Baggianella “ 
       La carrozza a solo due ruote di gomma da noi ha il nome in vernacolo di (lu 
       scappavie) = “scappa via” e da` veramente l’idea che lesta scivola dietro 
       un cavalla spocchiosa cioe` che sa di essere bella e veloce . 
       Mio padre sale di fianco a me e col solo allentare le redini fa scattare 
       Baggianella ad un lesto galoppo . con io contento di andare con Baggia 
       invece della Balilla .  
       Attraversammo la citta` di Teramo passando fuori le mura per poi avviarci 
       alla strada , verso il mare . 
       Baggianella trottava lieta come se danzasse sulla strada, era un trotto 
       veloce e l’aria , gia` sapida dell’Adriatico mi carezzava il viso. 
       Gioioso ammiravo la bella strada ornata da tigli profumati e le verdi 
       pianure che si alternavano a campi dorati di grano. Le ville coloniche 
       con cipressi nelle piccole alture arricchivano il panorama da sembrar 
       fiabesco. 
       Ero un bimbo di otto anni e questa piccola gita mi e` rimasta piu` 
       impressa che i tantissimi viaggi per il Mondo. 
       Al bivio girammo a destra per Castellalto . Baggianella che ogni tanto si 
       voltava quasi all’indietro come per accettarsi che eravamo ancora con 
       lei, sembrava ancora piu` felice di trottare. Si` , perche` ora cavalcava 
       su terra battuta e non sul duro asfalto della strada maestra. 
       Non era ancora mezzogiorno quando arrivammo alla tenuta .Baggianella fece 
       un elegante giro sull’aia per fermarsi davanti la scalinata della bella e 
       moderna casa colonica . Un ragazzone afferro` le briglie della cavalla e 
       noi , scendendo, fummo accolti da Pio che disse scappellando :”Bonggiorne 
       a signeri` gnore patro`” =Buon giorno alla vostra signoria , signor 
       padrone . 
       “ Buon giorno Piuccio” disse mio padre con un sorriso . 
       Piuccio era un uomo alto ben fatto, quasi snello con baffoni ed occhi 
       blu. Pio emanava rispetto sia nel suo agire quasi nobile e preciso che 
       nella sua voce sicura e seria. Il suo viso scuro dal sole di un ”outdoor 
       man” ma alle volte s’illuminava con un radiante sorriso che indicava 
       bonta` ed amicizia .Piuccio veniva spesso alla nostra casa ed era sempre 
       vestito da contadino quasi elegante e sulle spalle portava una bella 
       lucida bisaccia blu con piccole strisce bianche Mi sembrava un cowboy con 
       le “saddle bags” . 
       Ma stavolta a casa sua non era elegante stava in tenuta da lavoro con 
       stivali jeans e camicione anche blu. 
       Piuccio ci accompagno` al lato della casa riservato per noi , sulla porta 
       c’era la moglie Splendora che saluto` con rispetto.  
       Entrando la frescura dell’ambiente ci ristoro` subito e ancora di piu` 
       dopo un bicchiere d’acqua e di vino per mio padre. 
       Dopo il ristoro andammo ad ispezionare la stalla con una dozzina di 
       vacche e buoi da lavoro e da latte con un paio di vitelli.  
       Sopra una mangiatoia , alla parte opposta dagli animali vidi una 
       bellissima allodola di un grigio quasi argenteo con una coda lunga e 
       piumosa . Senza muoversi aleggiava le corti ale freneticamente . Rimasi 
       incantato tanta era bella e dissi a mio padre che la volevo.  
       Durante il pranzo papa` parlo` d’affari con Piuccio. Il podere produceva 
       poco grano ma un forte tonnellaggio di olive per la produzione dell’olio. 
       Prima di risalire sullo “scappavia” Piuccio fece cenno con la mano a suo 
       figlio dodicenne Raniero di avanzare. Con una faccia brutta mi si 
       avvicino` e mi porse una gabbietta con la tortolella. Piuccio aggiunse 
       che la tortora aveva le piume delle ali tagliate per addomesticarla e non 
       volar via . 
       Mio padre ringrazio` e partimmo con Baggianella verso casa . 
       Tornai a casa lietissimo di avere la mia bella tortorella . Mamma non la 
       volle in casa e la portai nella stalla di Baggianella appoggiai la 
       gabbietta di canne in una mangiatoia non usata. L’aprii e la tortora 
       usci` cominciando ad aleggiare e poi all’improvviso fece un piccolo volo 
       per aggropparsi alla cavalla. Baggianella giro` la testa e la guardo` con 
       un tenero sguardo . 
       Con un piccolo sgabello presi la tortora e la rimisi vicino la gabbietta 
       . Quasi tutto il giorno stammo insieme e tutti e tre diventammo cari 
       amici. 
       La battezzai Tortorina e me la mettevo sulla spalla e camminavo su e giu` 
       nella stalla . La facevo vedere a Baggianella e lei mi seguiva con gli 
       occhi.  
       La sera al richiamo della mamma mi doleva lasciare Tortorina e 
       Baggianella .  
       La mattina mi alzavo infilandomi solo i calzoncini corti e dal balcone 
       della camera saltavo sulla pianta a mangiare fichi freschi. Poi scendevo 
       per andare a giogare con i miei due amici nella stalla . 
       Dopo alcuni giorni mi avventurai fuori con Tortorina alla spalla . 
       I miei piccoli amici e tutto il vicinato rimasero sbalorditi nel vedere 
       un uccello selvatico sulla mia spalla che aleggiava come fosse felice di 
       stare su di me .  
       Con Tortorina mi sentivo una persona importante , non so , come un 
       domatore di leoni , o almeno come una persona grande. Tutti mi ammiravano 
       ed eloggiavano come se fossi un ragazzo prodigioso . 
       Andavo con l’uccello anche a farmi il bagno nel fiume la` vicino dove 
       l’acqua s’approfondiva per una svolta fluviale . Prima di entrare in 
       acqua con altri bimbi mettevo Tortorina nella gabbietta e poi mi tuffavo 
       dagli alti gabbioni che s’affacciavano al fiume . 
       Mi sentivo tanto felice con i giorni assolati , caldi e col cielo sempre 
       blu ; 
       bramando che l`estate non finesse mai e la scuola non cominciasse piu`. 
       Alle volte , giocando in stalla con i miei due amici entrava papa` e 
       Tortorina dalla mia spalla volava sulla spalla di mio padre. . Egli calmo 
       metteva il dito indice davanti e lei , allegra , ci saltava su . Papa` 
       allora col dito carezzava la testolina e la nuca. 
       Passarono mesi felici e , un mattina , ormai d’autunno non trovai la mia 
       Tortorina nella stalla ‘ La chiamavo e la cercavo ovunque ma Tortorina 
       era sparita . Andai fuori e la chiamavo ad alta voce quasi come un grido 
       misto al pianto . Venne mio padre e dopo aver costatato la situazione mi 
       disse : 
       <Vedi, figlio bello che Tortorina con le ali ricresciute e` volata via 
       passando dall’apertura dove si scarta il letame . Devi capire , piccolo 
       mio, che Tortorina vuole vivere la sua vita di uccello selvatico e vuole 
       ritrovare la sua mamma , la sua famiglia>  
       Ed io piangendo ;< Ma papa` perche` non mi ha salutato, eravamo amici> 
       < Forse un giorno la vedrai aliando su, nel cielo blu e quello sara` il 
       saluto>  
       Papa` continuo`:< Su vieni con me che ti metto in groppa a Baggianella e 
       andiamo a trottare lungo il fiume .> 
       La sera m’addormentai piangendo e chiamando Tortorina invano. 
       Il giorno andavo a parlare con Baggianella che con gli occhi mesti mi 
       ascoltava e sembrava di capire il mio dolore . Non mi potevo consolare . 
       Passarono parecchi giorni e papa` un pomeriggio mi disse di accompagnarlo 
       . Dal retro casa ci avviammo sul sentiero delle nostre terre che dava al 
       fiume , a meta` strada , vicino le arnie delle api mio padre si fermo` 
       guardando intorno . Api sorvolavano intorno ed alcune addirittura si 
       misero sulle braccia nude di mio padre che calmo seguitava a guardare 
       intorno. Da notare che mio padre era un amico delle api infatti andava a 
       prendere il miele senza mai coprirsi con veli o guanti e le api lo 
       ricopriva quasi tutto , ma non lo pungevano . Erano amici da tempo. 
       Papa` m’incoraggiava a non aver paura e di restare calmo per far 
       conoscenza con questi bellissimi insetti che ci danno il miele e la cera 
       . 
       Quando ero con lui ci riuscivo non tanto ad essere calmo ma immobilizzato 
       quasi pietrificato per farlo contento. Da solo scappavo come una lepre a 
       casa. 
       Papa` ancora guardava attorno e poi , d’un tratto, indico` verso il 
       vigneto dove chiaramente si vedeva Tortorina volare verso di noi. Mi 
       sentii il cuore saltare in gola . Tortorina si adagio` sulla spalla di 
       Papa` e poi sul suo dito e lui me la mise alla mia spalla . 
       Tortorina , lieta comincio` ad aleggiare qual lo scodinzolare d’un cane 
       per farci capire che era contenta di rivederci . Mi salto` sul dito e 
       accarezzai la testolina . Salto` in alto dalla mia mano e prese il volo 
       verso la sua nuova famiglia . 
       Tornai a casa piu` soddisfatto perche` incominciai a capire ,tottocche` 
       ancora bambino, che tutti noi dobbiamo vivere la nostra vita non cercando 
       la contentezza del futuro ma la gioia del momento perche` cio` e` vita . 
              -Da Racconti dei piccoli- 
      Il mio amico 
              Mi sento tanto sola , tanto depressa vorrei proprio andarmene via 
              , lasciare tutto: “ Perche` non mi capisci, tu che sei mio unico 
              amico….perche`!!” 
              Cara mia , io ti comprendo ma non sono d’accordo . Ti vedo sempre 
              allegra con gli amici e poi sei tanto parlantina e simpatica. 
              Tutti ti ammirano e anche hai il piu` bel viso che io abbia mai 
              visto. Si` un volto ch’emana una sincera espressione d’ amicizia , 
              d’amore e comprensione del prossimo.  
              Ma tu non mi capisci , amico della mia vita eppure sei l’unico che 
              potresti comprendermi . Tutto cio` che hai detto io credo sia 
              artificiale , dentro , io mi sento abbandonata . Queste complicate 
              legature alle gambe che mi aiutano a farmi arrangare mi danno un 
              continuo dolore . Quando riesco dalla scuola il camminare sul 
              marciapiede e come un Via Crucis.  
              Il mio fratellino e mio cugino mi aiutano sempre ; alle volte mio 
              padre arriva dal lavoro e si ferma con l’auto e mi porta a casa . 
              Quando lo vedo vorrei dir gli : “Papa` sei un angelo” ma egli 
              legge il mio sguardo e mi capisce. Lo so` sta scritto nei suoi 
              occhi , e` uno scambio eloquente del nostro pensiero . 
              Egli che mi ha portato da dottori di tutto il mondo i quali hanno 
              solamente prescritto di fare esercizio , di sforzare per camminre; 
              combattendo l’atrofia.  
              Ma e` bello e facile a dire , ma brutto e doloroso a fare mio caro 
              amico . 
              Si` che ti capisco, cara mia , ma la tua festosa popolarita` con 
              tutti gli amici dovrebbe compensare la menomazione fisica.  
              Vedi che non ci intendiamo nulla puo` compensare il mio difetto 
              fisico . 
              Infatti e` cosi` forte e costante che m’appanna la mente ed ecco 
              perche` desidero lasciar tutto .  
              Devi essere coraggiosa , forte e rallegrarti delle cose che sai 
              fare . 
              Beh, hai ragione alle volte mi sento contenta ma solo in alcuni 
              casi come il parlar al telefono specie quando sdraiata sul letto. 
              Quando nuoto in piscina ma sopratutto quando nuoto nel mare . Si` 
              l’oceano , vorrei restare la` per sempre. In esso mi sembra quasi 
              di volare. Solo in questi momenti mi sento felice , forse perche` 
              mi sembra di essere uguali agli …altri . 
              Si` allora cerca di riempire i tuoi …vuoti pensando di nuotare , 
              come sognare con gli occhi aperti. 
              Si`, amico sincero, ci provo continuamente ma la realta` si 
              affaccia crudele e malvagia . 
              I miei mi portano a “ Jersey Shore ed a Palm Beach d’inverno cosi` 
              mi godo il mare quasi tutto l’anno.  
              Vicino la nostra dimora della Florida c’e` un parco sul mare che , 
              per me , e` il piu` bel posto del mondo. Una strada serpentina fra 
              dune e con tratti di acqua verde della laguna gia` da` l’idea di 
              raggiungere qualcosa di fiabesco. Abeti e palme si amalgano come 
              note in una sinfonia , poi , a manca, l’utimo spiazzo d’acqua 
              verde con una spiaggetta dove le mammine giocano con i piccini a 
              riva . 
              All’ultima svolta a destra la stradina s’addrizza ;a sinistra 
              l’estuario del fiume con un traffico di barche . A destra una 
              vasta spiaggia di rena bianca qual farina . Proprio la` , mio caro 
              friend , e` il posto dove mi sento gioiosa specialmente quando 
              entro nel mare . Alle volte , nuotando l’assaporo, come essere 
              parte integra in esso . Vagare nell’infinito blu come un delfino 
              che , scherzoso, sfiora le creste dell’onde come per gustare la 
              gioia del volo.  
              Ma sono quassu` , nel nord, nel tardo autunno , dalla mia finestra 
              vedo gli alberi della selva gia` nudi e brulli. Mi adagio sul mio 
              lettino un ultimo sguardo alla mia cameretta “Pink” Chiudo gli 
              occhi e m’addormento. 
              Sogno che, sin dolore , cammino sulla sabbia bagnata del mio parco 
              con Te accanto . Strano , mi giro e vedo solo le mie orme , 
              m’inoltro nell’ acqua sapida del mare , incomincio a nuotare verso 
              l’altura , libera , sin tormento , alzo gli occhi e scorgo un 
              Bagliore avvicinarsi dal cielo nero . M’abbraccia nelle Sue ali e 
              m’innalza al cielo . 
              -Da Racconti dei piccoli-  |