Racconti di Alessio Vailati


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IL GENIO
1. Addio alla clinica
“Le ossa si sono rinsaldate con una celerità veramente impressionante, la ferita lacero-contusa alla testa si è richiusa nella sua interezza, ogni ematoma riassorbito totalmente”, mentre diceva tutto ciò il dottore, fermo nelle sue convinzioni, sorrideva radioso e quel sorriso riverberava magicamente nel candore del camice.
“Diciamo che la sorpresa è tanta, intendo per la sua guarigione ovviamente… oltre ogni più rosea aspettativa”. Si interruppe, mi guardò come se si attendesse da me una qualche parola.
Fu per questo che mi sentii costretto ad esclamare “Bene!” ma poi non fui in grado di dire altro. La sua perplessità durò una frazione di secondo. Diede uno sguardo rapido alla cartella, alle radiografie e all’esito delle varie analisi.
“Inutile aggiungere che la sua permanenza in clinica può ritenersi qui conclusa” e rise sotto i sottili baffi neri. Gli occhi restarono invece fissi su di me, quasi che cercassero di cogliere sul mio volto un segno. Nascosi, come di solito mi capita, il leggero imbarazzo con uno sbadiglio. Deglutire di fronte a qualcuno, con il movimento sussultorio del pomo d’Adamo, significa parlare a chi ti sta di fronte delle tue emozioni. Lo sbadiglio ha una gamma più estesa di significati. Lo sbadiglio è un ottimo metodo per ingannare…
“Credo che lei abbia bisogno di ritrovare se stesso… Vada a casa, si faccia una bella dormita e ricominci a vivere. Sappia sempre che da questo incidente lei è uscito come un miracolato. Non so se lei, signor T., fra le altre cose, sia anche un credente. Faccia questo, comunque: entri nella prima chiesa che incontra e accenda un cero di ringraziamento. Lassù qualcuno la ama!”.
“Grazie, dottore, vedrò di farlo”, risposi. Mi invitò con cortesia ad uscire dal suo studio, non senza avermi teso la destra in segno di saluto. Poi, prima di chiudere la porta, chiamò Augusta e mi fece accompagnare in camera per raccogliere le mie cose.
“Augusta, addio!” scherzai improvvisamente colto da un repentino moto di ebbrezza. “E’ stato un vero piacere fare la tua conoscenza, nonostante le circostanze non fossero poi così…, come dire…”.
L’infermiera arrotolò attorno all’indice una ciocca dei capelli biondi, sbattendo violentemente le palpebre dipinte d’azzurro. La sua figura longilinea, alquanto piacente, mostrava nei modi bruschi una certa decisione, a dispetto dei suoi diciannove anni.
“…poco piacevoli, giusto”, continuai avendo trovato nella sua espressione il senso di quella mia frase. “Spero che un giorno noi…, ci si possa rincontrare ecco. Anzi…” e finsi di cadere assorto in un qualche pensiero, “…stavo riflettendo sul fatto che magari, in settimana… una cenetta da me… Non vorrei, però, che la cosa sia mal interpretata, quindi… Mah, non so…”.
Augusta sembrava essere intransigente sulla questione: “Non credo sia il caso”, esclamò in tono risoluto, abbandonando con noncuranza la ciocca di capelli e afferrando la valigia che giaceva sul letto. Poi tirò un lungo sospiro ed il camice si allargò all’altezza del petto, mentre sul suo viso si dipingeva un grosso sorriso di circostanza.
Capii che non era il caso di insistere ulteriormente. “Allora, mia cara Augusta, non mi resta che dirti addio. Al massimo, so dove trovarti. Non hai intenzione di trasferirti, vero?” e accompagnai la domanda con un’espressione scherzosa del viso, che lei colse immediatamente e che liquidò con un perentorio “A lei piace sempre scherzare!” e con un’occhiata che mi parve di rimprovero o, forse, di compatimento.
Mi porse la valigia e mi accompagnò all’uscita della clinica. Finalmente libero, dopo dodici interminabili mesi di prigionia! Prima di scomparire definitivamente nel parchetto, diedi un ultimo sguardo a quella graziosa fanciulla che si era occupata di me nel corso del mio ricovero. “Che dolce creatura”, pensai, e a quel pensiero mi venne da ridere.
“Vita, a noi due!” e la clinica scomparve rapidamente dietro il pesante cancello, ingoiata dalle fronde dei pini del parchetto, sotto una pioggerella fine ma fastidiosa.
- Da Anatomia del dolore -

2. La locomotiva
Sulle pareti, le macchie lasciate in modo indelebile dall’umidità erano state doverosamente nascoste con locandine e con vecchie fotografie in bianco e nero. Il proprietario dell’appartamento (un piccolo bilocale che avevo trovato ad un prezzo decisamente economico) aveva, in tal modo, risparmiato sull’imbiancatura che, ad una vista appena meno superficiale, sarebbe senza dubbio risultata molto opportuna. Poco sopra la spalliera del letto, una logora cornice, intagliata nel legno e intaccata dai tarli, ospitava la stampa di una locomotiva a vapore che, avvolta nel suo fumo bianco, era all’imbocco di una galleria e sembrava sferragliare alla massima velocità sui binari, piegata in una curva malsicura. Quando il mio pensiero indugiava a quella rappresentazione, mi sembrava di avere chiaramente in testa l’immagine di quella che, in quel momento, era la mia vita. Una continua tensione verso una svolta (che era ben rappresentata dall’insicurezza della curva) in cui ogni singolo respiro, ogni sbuffo fumoso, ogni sforzo estremo si perdeva all’interno di una scura galleria da affrontare con tutta l’incertezza del caso.

Durante il giorno la camera era scarsamente illuminata: la piccola finestra, scavata nel muro, non si trovava certo nella posizione ideale per raccogliere la luce del sole ed era, per di più, provvista di una pesante inferriata a X che si protendeva leggermente verso l’esterno e che, nell’insieme, mi sembrava essere piuttosto originale. La sensazione complessiva, d’altra parte, somigliava molto a quella che deve provare un carcerato all’interno della sua cella, almeno così credo. Anche l’arredamento, a dir poco spartano (qualcuno dei nostri vecchi potrebbe, con un eufemismo, definirlo “essenziale” e magari, dati i tempi, addirittura azzardare un elogio all’essenzialità) contribuiva a conferire alla stanza quel senso di misera prigionia che poco fa ho descritto.

Alla sinistra del letto, su un tavolino aggiustato alla bella e meglio e traballante (era stato necessario infilar sotto una gamba un ritaglio di cartone per mantenerlo fermo) c’era ancora il pezzo di carta con cui l’anziano padrone di casa aveva ritenuto opportuno ricordarmi le scadenze dei pagamenti, la somma che avrei dovuto versare ogni fine mese (“con assoluta regolarità, guai a sgarrare ancora”, aveva minacciato cercando di raddrizzarsi sulla sua schiena ingobbita e agitandomi di sotto il naso l’indice della mano sinistra) nonché il regolamento che avrebbe dovuto disciplinare la mia condotta (“almeno finché lei sarà mio ospite”, aveva precisato).

Dall’ultima volta in cui il vecchio aveva fatto la comparsa nel mio appartamento, sventolando quel foglietto davanti ai miei occhi con un movimento nervoso, erano passati poco più di venti giorni. Da allora non avevo avuto più l’onore di incontrarlo, essendo egli costantemente rinchiuso nei suoi appartamenti al piano di sotto. Nonostante ciò, avevo raggiunto la certezza che il vecchio possedesse la copia delle chiavi degli alloggi dell’intero stabile (infatti tutto l’edificio -una palazzina di due piani con due appartamenti per piano- era di sua proprietà). L’idea mi era balenata già nei giorni seguenti il mio insediamento lì, confermata dal fatto che, al mio rientro in casa, trovavo alcuni oggetti fuori posto; sospetto che trovò, molto più tardi, un decisivo riscontro quando mi toccò di udire un’animata discussione, accesasi proprio di fronte alla mia porta, tra l’anziano proprietario e una sua giovane inquilina che l’aveva sorpreso a frugare nel cassetto del suo mobiletto.

La giovane, inviperita, sembrava in preda ad una crisi isterica e la potevo immaginare mentre, tutta rossa, con la camicetta sbottonata quel tanto che le permettesse di mostrare il generoso decolleté, minacciava fra strilli e singhiozzi, verosimilmente trattenuti, di rivolgersi alla “pubblica autorità”. Di contro, il vecchio aveva prima incassato il colpo in silenzio, con tutta probabilità sorpreso dall’imprevista e rabbiosa irruzione della malcapitata nella stanza; poi, dopo aver raccolto tutta la sua esperienza, aveva preso speditamente la via della porta, adducendo una successione di pretesti del tutto spropositati e lasciando qua e là intendere un malcontento per il “fracasso” proveniente dall’appartamento, soprattutto durante le ore notturne. La discussione -ricordo- a seguito di queste ultimissime considerazioni, assunsero un tono sempre più violento, tanto che le minacce della ragazza si erano fatte ancora più serie. E come avvertii il rumore di un oggetto di vetro in frantumi, seguito da un imbarazzante silenzio, temetti il peggio. Tuttavia, quando aprii la porta, non vi trovai più nessuno…

Eva rideva. Pensavo, calato nella penombra tremante diffusa dalla candela, a quello spasmo convulso, incontrollato che s’impadronisce delle persone nel momento in cui ridono. Il bicchiere di vino rosso, l’ultimo versato (avevo rispolverato per l’occasione i miei vecchi calici di cristallo), era stato vuotato in un sol colpo. La bottiglia mostrava malinconicamente il fondo mentre su di essa giocava il riflesso guizzante della fiamma.
“Eva, tesoro, così non va!”, cercavo, con tono di rimprovero (che nella circostanza mi riusciva alquanto difficile), di rispondere alle sue risa.
“Eh, no, proprio no! Così no… e perché?”, chiedeva lei con una smorfia falsamente ingenua, appoggiandosi sul gomito destro, protendendo da quella parte il peso del corpo e cominciando quasi ad oscillare. Fece appena in tempo a concludere quella frase, quando proruppe di nuovo in una fragorosa e insistita risata. Stavolta, però, come scossa da un improvviso capogiro, buttò la testa sul tavolo, tacque per un attimo e cominciò a mugugnare tra sé qualcosa.
“Credo che possa bastare, per questa sera. Il bagno, sai dov’è. Datti una rinfrescata” e, accesa la luce, con la fiamma che s’allungava ancora dallo stoppino, la presi per un braccio, l’aiutai a rialzarsi e la seguii con lo sguardo intanto che lei, ondeggiando e scotendo i lunghi capelli neri, cercava la direzione della “toilette”.
“Per oggi può bastare”, ripetevo continuamente. “Maledizione! Così proprio non va!”.
Parole al vento. Un senso di sconforto si era impadronito del mio animo. La osservai, infine, con sguardo rassegnato. “Beata impertinenza!”. Eva dormiva placidamente, il trucco del viso disfatto, i capelli sparsi sul cuscino. Sopra la sua testa la locomotiva continuava, caratteristicamente, a sbuffare, inclinata verso la galleria, nel consueto atto di anticipare la curva.
- Da Anatomia del dolore -

3. Miss Brown
Due giorni dopo, di mattina, il padrone di casa venne a bussarmi. Lo sentii gridare il mio nome da dietro la porta. Trovai alquanto strana la cosa. Risposi mentre ero ancora sdraiato nel letto, un po’ stordito per il brusco ed insolito modo di ridestarmi.
“Un momento”, gridai uscendo con un balzo dalle lenzuola stropicciate, il cuscino nuovamente a terra. Ultimamente il mio sonno doveva essere stato piuttosto convulso. Da qualche giorno, infatti, trovavo al mio risveglio il cuscino gettato sul pavimento, ad almeno un metro dal letto.
Ebbi appena il tempo di guardarmi allo specchio, il volto scavato, la barba incolta, di ammirare ciò che restava di me, quando il padrone batté nuovamente sul legno della porta con un colpo ancora più violento, accompagnando quel gesto con un perentorio annuncio: “Signor T., ci sono visite!”.
A quelle parole provai una strana sensazione. Chi poteva essere? Indossai la camicia bianca e mi diressi con passo rapido verso il mio mattiniero e inaspettato visitatore.
“Perdoni il disordine, miss…”
“ …Brown”, continuò la donna, pronta a levarmi dall’impaccio, avendo intuito che il suo nome mi era sfuggito già al momento delle presentazioni. Mi guardò, poi, con un sorriso divertito, lasciando intravedere una fila perfetta di denti, bianchi e ben allineati, che spiccavano nel colore scuro della pelle. Il viso rotondo, due amabili fossette che si scolpivano nelle guance al movimento delle labbra, “credo che si stia chiedendo come faccia, io, a sapere di lei…”, disse.
Era naturale. “Probabilmente c’è un equivoco, un errore di persona”, pensai.
I miei pensieri furono, d’altra parte, interrotti nuovamente dalle parole della donna. I capelli pettinati all’indietro, una perfetta parlata italiana, miss Brown non sembrava per nulla stupita del mio vistoso imbarazzo. Anzi, credo che indovinò immediatamente il mio pensiero perché, senza perdere tempo, aggiunse: “Ha già fatto colazione? Ho visto che qui davanti c’è un grazioso Caffè… Beh, la aspetto giù, signor T.”.
A quelle parole la mia sorpresa (inutile dirlo) quadruplicò e subentrò in me un sottile senso di timore, come se avessi avuto qualcosa da nascondere. La vidi ridiscendere, con assoluta tranquillità, il primo gradino. Quindi si voltò: “Dimenticavo: sono qui per la Ninfa alla selva. Ricorda?”. Allora cominciai ad intuire il senso dell’inaspettata visita.

Il Dream Café, a dispetto del nome così ricco di significato, era una modesta caffetteria gestita da immigrati tunisini ormai da una decina d’anni. Mohammed, il proprietario, nel corso delle mie sempre più frequenti colazioni, si era più volte dilungato a raccontarmi la storia avventurosa della sua famiglia.
“Mio nonno era proprietario di venti cammelli”, soleva ripetere con un senso di fierezza tutto particolare. “Ah, che bei tempi, quelli! Venti grossi, robusti cammelli…” e mentre lo diceva alzava il mento sporgente, si passava la mano sul viso e guardava, con aria trasognata, dietro il bancone semicircolare dove campeggiava una gigantografia con la scritta “Tunisia” in bella mostra.
“… aspetto una persona”, disse miss Brown, seduta al tavolino nell’angolo a destra del bancone.
Mohammed, in piedi davanti a lei nella sua consueta veste di cameriere, a quella frase aveva accennato un mezzo inchino, fatto un leggero passo indietro e, proprio nell’atto di girarsi, si era accorto del mio ingresso nel suo Caffè.
“Ciao, signor T.!” e, nel dire ciò, allungò il passo dall’ampia falcata e mi si fece incontro. “Passata bene la serata? La tua fidanzata, quella graziosa signorina coi capelli scuri…”
“Eva, Mohammed. Si chiama Eva”, lo interruppi.
“Sì giusto, Eva… Dicevo Eva, appunto…” e si sistemò il colletto bianco della divisa, “è stata qui ieri pomeriggio e mi ha detto che l’altra sera… ecco: crede di aver esagerato!”.
“Beh, caro Mohammed, questo lo so bene da me. Sono felice che anche lei si sia, per una volta, resa conto della cosa, ma non vedo la necessità di venirlo a raccontare a te…”.
Il tunisino, allora, abbassò gli occhi scuri sul pavimento e finse di giocare col piede su una macchia secca di caffè. Tossì e ritornò dietro al bancone, dove si rimise ad asciugare le tazzine pulite e ad armeggiare con la macchinetta dell’espresso. Alle sue spalle spiccava, per un particolare accostamento cromatico, un’oasi verdeggiante circondata dalla gialla sabbia del deserto e sovrastata, nell’azzurro fin troppo intenso del cielo, dalla scritta “TUNISIA” cui si aggiungeva, al modo d’un sottotitolo, “mon amour”, scritto con caratteri più minuti.
“Mi scusi di nuovo, signorina Brown, per l’attesa. Ho cercato di rendermi il più presentabile possibile”, dissi.
Ma lei non sembrava dar peso alle mie giustificazioni. “Senza dubbio”, proseguii con tono scherzoso, “Mohammed le avrà raccontato..”.
“Dei trenta cammelli del nonno?”, rispose sorridendo la donna.
Rimasi, per un attimo, sbalordito dall’improvvisa crescita del numero dei cammelli posseduti dal nonno di Mohammed.
“Trenta?!”, replicai bonariamente. “Allora, ultimamente, il buon Mohammed ha provveduto ad una riconta del bestiame. Fino a ieri erano soltanto venti!”.
“Non è stato difficile rintracciarla, sa? Qui la gente parla ancora di lei… Nonostante che… dopo l’incidente, intendo dire…”, cominciò la donna facendosi più seria. “Non voglio entrare, ad ogni modo, nel merito della questione. E’ cosa che riguarda esclusivamente lei e poche altre persone. Anche se, le dirò, non comprendo pienamente le ragioni del suo comportamento. Tuttavia, come dicevo poc’anzi, sono affari suoi. Quello che più mi preme di sapere da lei è se…”, e si interruppe come se lasciasse passare un altro pensiero, “…se è disposto a lavorare per noi. Su commissione. Diciamo, un piccolo ciclo di cinque lavoretti”.
“Miss Brown”, risposi, “ è una richiesta un tantino fuori luogo, date le circostanze. Dopo l’incidente… ecco, nulla è più come prima. Ho chiuso. La gente non può capire, lei non può capire. La mano trema, la testa si rifiuta di collaborare, le idee si dissolvono in un denso fumo. Tutto ciò risulta insopportabile.”
La donna rimase per un attimo a fissarmi in silenzio. Il tunisino, nel frattempo, erigendosi con la sua mole su un lato del tavolo, attendeva l’ordinazione in perfetto silenzio.
“Un caffè doppio, Mohammed e…”, detto ciò, spostai lo sguardo verso la mia ospite.
“Anche per me, grazie”, concluse la signorina Brown.
L’intervento del padrone del caffè servì, per il mio momentaneo sollievo, a distogliere l’attenzione dal discorso da poco cominciato. Non appena Mohammed si fu allontanato, la mia ospite si limitò ad allungarmi un biglietto da visita. “Ci pensi”, disse. “Sappia che la Ninfa alla selva è il pezzo pregiato della nostra collezione. Tuttavia, come ben sa, senza il ciclo completo, così come prevedeva il disegno originario, il suo valore risulta notevolmente sminuito…”.

Fuori, attraverso la vetrata, potevo distinguere nitidamente le persone accalcarsi all’interno dell’autobus diretto verso la città. Era una giornata di sole. L’inverno alle porte, la fine del mese oramai vicina. Pensai per un attimo al vecchio padrone di casa, alla giovane inquilina che l’aveva sorpreso all’interno della sua camera, con le mani nel cassetto della biancheria. Nascosi a stento il mio divertimento. La ragazza se ne era andata, l’anziano signore aveva sparlato di lei a destra e sinistra: quando qualcuno, per celia, gli domandava di quella storia, egli era solito rispondere con un cenno della mano, simile al gesto di chi vuole scacciare una mosca, seguito da una parola poco appropriata per indicare una signorina per bene.

4. La Ninfa alla selva
Le richieste dell’Associazione erano eccessive. La signorina Brown, d’altra parte, aveva parlato in modo chiaro e preciso. Lei era solamente una portavoce, questo appariva ben evidente ai miei occhi. Solo che non avrei mai pensato che la mia preferita, la Ninfa alla selva, sarebbe finita nelle mani di quei trafficanti d’arte degli Associati. Per loro, tutto si riduce a semplice, vitale business. Avrebbero tentato un’azione legale? Sul punto, la signorina Brown aveva taciuto. Eppure la cosa non era affatto da escludere. Anzi.
La Ninfa alla selva… soltanto il suono di quel nome mi confondeva. II pensiero del boschetto dietro la chiesa di Sant’Anna, del giorno di primavera appena fiorito negli alberi, del soffio del vento che scompigliava i capelli biondo-cenere della modella… Avrei dovuto bruciarlo, quel quadro. Lo scialle nero, traforato, che rivestiva impudicamente le dolci grazie di Cate, la Ninfa, era stato battuto, soltanto un mese dopo, all’asta per un valore piuttosto consistente. Ovviamente l’Associazione aveva avuto un bel guadagno. Beneficenza, era stato scritto. Gli orfanelli del Paese…I critici avevano guardato il dipinto con occhio estremamente benevolo. Troppo benevolo. Non si tratta altro che di colori spremuti su una tela. No, di più. È una vertigine che si arrampica lungo i fianchi della Ninfa, che scorre come linfa negli arbusti novelli delle piante, nel fogliame tenero, proseguendo nei capelli, nei seni venati dal nero esile dello scialle. È il Tormento, l’Estasi, il culmine di un orgasmo spinto al parossismo, fino a dissolvere il tempo, ad annientare un’esistenza. Dopo la Ninfa, il nulla…

5. Eva
“Non crede, caro il signor T., che si presenti giustappunto il caso di farmi salire in casa sua? Ritengo sia il minimo che lei debba fare, date le circostanze…”. A terra, l’ampia gonna in stile scozzese scompostamente ripiegata verso l’addome, la ragazza sui ventiquattro anni mi guardava con fare piuttosto scanzonato, le sue lunghe trecce oscillando ad ogni movimento del capo. Non mi chiesi neppure come faceva a conoscere il mio nome. D’altra parte, l’urto non mi sembrava essere stato tanto violento da provocare quel capitombolo.
“Date le… Che? Non le sembra di esagerare, carissima…”.
“…Eva. Eva Farinelli”, mi disse con tono sprezzante e con quell’aria da ragazzina viziata che, in seguito, imparai molto bene a conoscere.
Ricordo benissimo. Più che di un incontro si era trattato di uno scontro.
“Dagli esiti infausti”, era solita ripetere, con sfacciata malizia, ogni volta che l’avvenimento le veniva rammentato.
E poi: “Bella la locomotiva!”, non appena mise piede nella mia camera. “Davvero caratteristica!”. Si guardò intorno e sembrò meravigliarsi del fatto che quella fosse la mia casa. “Sa cosa si dice di lei?”, proseguì mentre scopriva il ginocchio ancora leggermente sanguinante.
“Attenta, brucerà un poco, signorina…”
“…Farinelli” e, a questa sua immediata replica, versai con cautela un po’ di disinfettante sulla ferita, sogghignando benevolmente alla smorfia che si materializzava sul suo volto.
“Garza e cerotti sono sul tavolino, mia cara. A sua disposizione. Credo che, ora, lei possa benissimo provvedere a medicarsi da sé”. Seduta sul letto, il ginocchio sbucciato leggermente piegato verso l’alto, il braccialetto d’oro che tintinnava alla caviglia, Eva ricambiò il mio sarcasmo con un brillante sorriso. Le cose sembravano sempre scivolarle addosso.
“Comunque, dicevo”- proseguì come se le sue riflessioni non fossero mai state interrotte- “la gente pensa che lei possieda un grandissimo talento ma…”. Tacque e quel silenzio mi sembrò decisamente artificioso, calcolato.
Senza dubbio, si sarebbe aspettata da me un’occhiata interrogativa o una qualsiasi altra reazione che però non venne. Mi limitai a voltarle le spalle con la massima tranquillità, fingendo di tornare nel soggiorno.
“Mi sarei, infatti, immaginata di trovare molti bei dipinti appesi alle pareti”, incalzò inclinando leggermente la testa da un lato. Allora, com’è naturale, la treccia destra si abbassò verso il basso, accompagnata da un contrapposto movimento dell’altra.
“E invece… che delusione! Nulla di interessante, a parte la locomotiva… Beh, caratteristica!”.
Che la locomotiva apparisse, a quei candidi occhietti scuri, “caratteristica” era ormai fuori discussione. Che la sua sfacciataggine mi risultasse parecchio fastidiosa era altrettanto evidente. Seduta sul letto cominciò a dondolare avanti e indietro la gamba sana.
“Insomma, lo sa, la gente dice che come artista avrebbe potuto dare di più… Soprattutto dopo la Ninfa alla fonte”.
“Ah, sì? E, se mi è lecito saperlo, a lei questa cosa interessa tanto? In ogni caso, ragazzina impertinente, tu credi di saper tutto?”, e quel “tu” echeggiò in modo strano nell’aria, come una nota stonata all’interno di una perfetta armonia di suoni. “Devo precisare” - continuai- “che si tratta della Ninfa alla selva. Probabilmente, signorina Farinelli, lei si confonde”.

Fu così che Eva entrò con la forza di un uragano nella mia piatta esistenza d’artista squattrinato e senza ispirazione. D’altronde, era proprio questa la definizione che la gente andava ripetendo alle mie spalle ormai da anni.

6. Cate
“Parlami un po’ di lei”. L’inverno sferzava con un vento gelido i rami degli alberi, scivolando sulle panchine allineate per l’intera lunghezza del lastricato dove, intirizzito dal freddo, un piccione sembrava stringersi nelle piume.
“Come naufraghi”, pensai, tentando di scacciare quel ricordo, di sviare la domanda.
“Come naufraghi”, ripetei in un soffio, di modo che quell’espressione fosse appena percepibile.
“Parlami di lei”, disse nuovamente Eva, cercando di vincere per l’ennesima volta la mia ostinata resistenza. “Non credi che forse sarebbe meglio parlarne? Quanto è passato?”.
“Tanto. Troppo…”, risposi fissando lo sguardo su due bambini che giocavano a rincorrersi gridando dentro i loro cappelli di lana e tirandosi per la sciarpa. “Capitolo chiuso. Non se ne parla più”, conclusi freddamente.
Eppure entrambi sapevamo che non era affatto così. Le ferite nell’anima sono le più difficili da cicatrizzare. Dai camini delle case in lontananza, affacciate sull’orizzonte grigio, un filo di fumo disegnava strane figure nell’aria, destinate sempre e comunque alla dissolvenza. Seguivo, come immergendomi in uno strano torpore, la mutevolezza di quelle figure bianche che si rinnovavano attimo per attimo, evitando la vivace profondità degli occhi di Eva che, accanto a me, provava a scuotermi con il braccio e a cercare inutilmente il mio viso.
“Sarà sempre così, vero?” e lasciò penzolare malinconicamente il braccio più lontano, voltandosi dall’altra parte, come assecondando un moto dell’animo, senza aspettarsi una risposta. Il piccione raggiunse sul ramo una femmina.
“Certo”, le dissi fissando il vuoto. “Come si fa a dirlo?”, pensai.
E avrei tanto voluto risponderle con le nuvole di fumo dei camini, con il vento che sibilava freddo fra i rami scarni, con la voce del piccione che si lisciava le piume sul ramo.
“Americana. Ventisette anni. Professione… modella”.
“Ha già esperienze come… Sa, qui non si tratta di sfilare con un costume o un capo alla moda. Può ben capirlo, è differente…”, e scrutai attentamente i lineamenti decisi e gradevoli di quel viso. Dall’altra parte della scrivania, una ragazza alta, gli zigomi sporgenti nel viso bianco, gli occhi del colore dei laghi, ascoltava un po’ intimidita le mie domande.
“Ha detto di chiamarsi Cate, se ricordo…”.
“Cate Hoever”, precisò annuendo col capo. “A Chicago ho lavorato nello studio di un giovane pittore d’avanguardia”.
“Allora è già abituata a trattare con gli artisti! Brutta razza, vero?”.
Sorrise. Reclinò la testa all’indietro, raccogliendo con una mano i biondi capelli dietro la nuca.
“Un attimo… Perfetto!”, esclamai al gesto della ragazza. “Lei ha un viso perfetto per… Sì, non c’è dubbio, proprio quello di cui avevo bisogno”.
Mi lanciò un’occhiata strana e scorsi nel suo sguardo l’increspatura leggera dell’acqua, sentii il rumore lieve del vento. Davanti a me prendeva forma il dipinto ed era (non c’è dubbio, l’ho sempre saputo)… era la Ninfa alla selva che cominciava a delinearsi nella testa come un’idea sfuggente.
“Signorina Hoever… Posso chiamarla Cate?” e, al suo cenno di assenso, “Cate, dunque” –continuai- “si comincia domani pomeriggio. Sa, non amo dipingere il mattino. Non la prenda come una stranezza: semplicemente l’ispirazione mi coglie dopo pranzo. D’altra parte, da alcuni studi scientifici risulta che il cervello è più ricettivo nelle ore comprese tra le cinque e le sette del pomeriggio. Non so quanto di reale vi sia in una simile affermazione. Sta di fatto che le cose migliori non mi vengono fin dopo mezzodì. Ciò sarà poco scientifico -direi, al contrario che è piuttosto empirico- tuttavia funziona così…
Nel frattempo sto lavorando su un quadro un po’ particolare. Manca solo qualche piccolo ritocco qui e lì. Vorrei che mi dicesse cosa ne pensa. Allora, arrivederci a domani, ore sedici, nel mio studio. Approfondiremo meglio la conoscenza. Grazie”. Detto questo la congedai accompagnandola alla porta.

Fu così che, un anno dopo, nacque la "Ninfa alla selva". Fu così, pensai, che tutto cominciò.
Mi alzai dalla panchina con un brivido lungo la schiena. Eva rimase in silenzio, senza neanche alzar lo sguardo da terra. “Andiamo?”, sussurrai. Rimase per un istante immobile, quasi che stesse rimuginando su qualcosa.
“Andiamo!”, rispose sorridendo. Ed ebbi, per la seconda volta, l’indubbia impressione che le cose le scivolassero addosso come se nulla fosse…

7. L'incidente
"Che cosa significa questo?”, ripetevo meccanicamente, guardando il giornale che lei agitava violentemente nel pugno.
“Beh, tu non ne vuoi parlare, non mi aiuti a capire e io m’informo… ecco cosa faccio: mi informo. La gente fuori non fa altro che chiacchierare, chiacchierare! Ogni volta che cammino per strada mi sembra di avere gli occhi puntati tutti su di me. “Buongiorno signorina Farinelli, come sta? sempre più bella… mi saluti suo nonno”… e poi, non appena mi volto,… credi…, credono che non me ne accorga? Pugnalata alle spalle! Tu certo non mi aiuti…”.
“Ma questo è un complotto!”, pensai. “Non credi che stai esasperando un po’ troppo la cosa?”, replicai cercando di mantenere un’espressione calma. Si tratta di una storia vecchia… Inutile continuare a discuterne. Non ne vedo la necessità. Cerca, per una volta, di capire. Perché ti ostini così… ecco, così… morbosamente... a voler sapere?”
Alle mie parole Eva divenne insolitamente rossa. Sul suo grazioso viso parve disegnarsi una smorfia di sdegno. Quindi, inaspettatamente, scoppiò a singhiozzare come raramente le avevo visto fare.
“E poi –tentò di aggiungere, asciugandosi col polsino della camicia le grosse lacrime- quella signora con cui hai parlato ieri… Mohammed mi ha detto che era per il quadro… Quel maledetto quadro!”.
“Mohammed dovrebbe imparare a farsi gli affari suoi! Su questo non ci piove…”, dissi. “Non so che cosa abbia potuto dirti il nostro barista impiccione ma ti prego, anzi ti scongiuro di credermi: la signorina Brown si è presentata da me solo per una questione di lavoro ed esclusivamente per conto dell’Associazione che – ed è inutile sottolinearlo, anche se ti dà noia- fra le altre cose, ben conosci, essendone Presidente l’esimio, il rispettabilissimo eccetera, eccetera, eccetera, signor Farinelli! Quindi, se proprio vuoi conoscere parte della storia, va’ pure dal nonno che credo ne sia sufficientemente informato”.

Un senso di impotenza si stava gradatamente impadronendo di me. Avevo di fronte una ragazza di ventisei anni in lacrime e, dietro le spalle, un passato che non voleva lasciarmi in pace, che continuava a tormentarmi come una condanna a morte, che ritornava ciclicamente ad angustiarmi. Allora, mi ritornarono in mente le parole del dottor Pazzini nel giorno in cui mi annunciava le mie imminenti dimissioni dalla clinica. Il camice bianco, la sua stretta di mano forte e sicura, il tono di voce tranquillo sotto i sottili baffi neri: “Sappia che da questo incidente lei è uscito come un miracolato”.
Intanto Eva, dopo essersi ricomposta, si era accomodata sulla sedia e fingeva di leggere uno di quei vecchi giornali rimediati in biblioteca. Non appena mi accorsi che, con la coda dell’occhio, lei cercava di osservare la mia reazione, io non le regalai altro che un grosso sbadiglio.
“Ho capito cos’è quella cicatrice!”, esclamò dopo dieci minuti, sollevando il naso dalle pagine della cronaca nera. Il braccialetto alla caviglia tintinnò mentre accavallava la gamba. Era tornato il sereno. Almeno così sembrava.
“Prima di affrontare nuovamente qualche questione spinosa…”, mi sforzai di ironizzare al suo prevedibile contrattacco, “…vorrei sapere se ti fermi a cena. Salvo che poi finisca come l’altra volta…”.
Annuì sorridente, lasciando cadere la provocazione. Qualcosa di più importante le stava a cuore e non era capace di nasconderlo.
“… Ora so da dove arriva quell’orribile cicatrice!”. Ribadì con l’aria di chi, divenuto l’unico depositario della Verità, è in procinto di svelarne il segreto ad un circolo curioso di studiosi e, tuttavia, si sente in dovere di arricchire di tensione la solennità dell’avvenimento.
“Quale delle tante?”, buttai lì, per rompere la gravità del momento.
“Inguine… Quella di un palmo sotto l’inguine”, e appoggiando al bracciolo della poltroncina il gomito sinistro adagiò nel palmo della mano parte del viso, osservandomi di traverso.
“Eh sì, credo che sia tutto scritto qui”, proseguì, ritornando al giornale. “Vediamo un po’…

Giovane e noto pittore, autore del celeberrimo quadro…, al ritorno dall’inaugurazione notturna della mostra a lui dedicata nella città di…, per ragioni legate alla scivolosità dell’asfalto, causata da un violento nubifragio, termina la sua folle corsa in auto nel greto di un canale. Le sue condizioni, stando a fonti sicure, restano alquanto gravi…”, si interruppe nella lettura saltando alla conclusione dell’articolo, “…l’incidente va ad aggiungersi alla lunga serie di tragedie che ruotano intorno al quadro “Ninfa alla selva”. Solo qualche mese fa, infatti, la modella Cate Hoever –Musa ispiratrice del dipinto- scompariva tragicamente, su territorio francese, in circostanze ancora poco chiare. Ah!”, esclamò al termine di quella lettura. E per tutta la sera rimase piuttosto pensierosa.

8. Il signor Farinelli
“Si accomodi signor T., come sta?”, disse venendomi incontro il signor Farinelli, lisciandosi delicatamente i capelli bianchi. “Si accomodi, pure. Lei è sempre un gradito ospite qui all’Associazione. Quanti anni sono passati? Eh, il destino di noi tutti è invecchiare e morire ma guardi…”, e mi indicò immediatamente la parete dietro la sua scrivania. “Niente sembra scalfire le opere d’arte, come questo capolavoro assoluto che è… Non faccia il modesto: opera sua!”.
Davanti a me, in una cornice pregiata, illuminato da un fascio di luce, lo sguardo di Cate si lasciava nuovamente sedurre dal gioco del vento sui germogli e sulle sottili maglie dello scialle posato sulla sua pelle. Dopo sette anni, la Ninfa alla selva tornava nuovamente a ravvivare coi suoi colori l’iride dei miei occhi.
“E’ da parecchio tempo che avrei gradito fare una bella chiacchierata con lei, signor T.”, proseguì, non accorgendosi della mia confusione alla vista del dipinto, “ritengo che non ci sia, d’altra parte, occasione migliore di questa”. Indossò gli occhiali a mezzaluna, abbassando lo sguardo su una lettera riposta sulla scrivania.
“Noi due abbiamo diverse cose in comune: l’amore incondizionato per le Belle Arti, il gusto per le donne affascinanti e… la mia carissima nipotina. Anche se, ma credo che di questo lei sia molto ben informato, le cose fra me ed Eva non hanno preso la giusta piega”.
Tacque e scrollò la spalla come a dire: così è la vita, cosa devo farci.
“Da quando mio figlio ci ha lasciati”- proseguì, cominciando a giocherellare con la Montblanc sul tagliacarte d’argento- “il rapporto già difficile con Eva si è definitivamente chiuso. Ha un carattere davvero…, come dire: ingombrante. L’ostilità che nutre nei miei confronti è pari solo alla sua testardaggine! Buon sangue non mente, non trova? Come crede che sia riuscita a trovare il lavoro da impiegata nello studio legale Parrini? Un buon stipendio per pagarsi l’affitto dell’appartamentino in cui vive… e tutto grazie ai buoni uffici del qui presente. Senza contare che tutti, in città e nell’intera provincia, tutti la trattano da principessa… La cara, bella, insolente signorina Farinelli!”.
“Non sono qui per parlare di Eva”, puntualizzai guardando negli occhi l’anziano mecenate. “La questione riguarda solo voi due e non voglio intromettermi. D’altra parte, sua nipote è sufficientemente matura per gestirsi da sola e fare con piena consapevolezza le sue scelte. Ho ricevuto, qualche giorno fa, la visita della signorina Brown. Nell’occasione di quell’incontro mi è stata espressamente formulata una richiesta che io non posso assolutamente soddisfare. Mi è, pertanto, sembrato ragionevole voler chiarire la cosa con il diretto interessato. Ciò giustifica la mia attuale presenza nel suo ufficio. Lei, signor Farinelli, mi ha, poco fa, confidato di amare l’Arte ed è proprio in nome del suo amore per l’Arte che le chiedo di lasciar perdere… O forse la sua passione per il denaro è più forte? Impari ad amare anche gli artisti”.
Farinelli ascoltò con molta attenzione il mio discorso, scosse leggermente la testa e, quando ebbi ultimato la frase, sbottò con un secco: “Stando così le cose, noi non abbiamo più nulla da dirci”. La frase mi suonò come una minaccia. Era possibile che il vecchio rinunciasse così, senza colpo ferire, al suo proposito? Guardai nuovamente il dipinto. In un attimo rividi il corpo di Cate esangue, distesa sul tappeto del bagno con le vene del polso recise, rividi tutto quel sangue seccato a terra, rividi la strada viscida e l’auto che scivolava senza controllo nel greto del canale. Balzai in piedi, vinto da una forza incontrollabile, sbattei il pugno sulla scrivania: “Signor Farinelli, la prego, in nome di Dio, distrugga quel quadro!”
“Ho saputo che oggi sei andato nel Palazzo dell’Arte a parlare col nonno”, il tono di Eva era insolitamente accigliato. Non c’era alcun dubbio, bastava guardarla in volto per capire che la notizia l’aveva turbata.
“No, non l’ho saputo dal nonno, ovviamente… Sai che con lui non parlo da parecchio tempo. Dimmi, l’hai trovato bene?”
Mai come in quel momento riuscii a notare la grande somiglianza di Eva col nonno.
“In perfetta salute”, risposi cercando di evitare il suo sguardo. Lei stava armeggiando con la caffettiera, le tazzine erano già apparecchiate sul tavolo.
“Prendi anche i piattini…”, disse. “E poi una qualche sera vieni tu da me e ti fermi a dormire! Sai che questa casa non mi piace, con quel vecchio che origlia alle porte…”.
“Origlia anche alle porte? Questo come lo sai?”. Risi. Mi tornò in mente la scenata dell’inquilina dell’appartamento di fronte. Eva aggrottò le sopracciglia e, con un cenno della mano, sbuffò un eloquente “Bah” che nel suo linguaggio abituale stava a significare: lasciamo perdere, con te è inutile continuare…
“Ieri ho incrociato sulle scale la signorina Rosa”, riprese nell’atto di versare il caffè, “sai, quella nuova del primo piano. Graziosa, non trovi? Ma forse non l’hai notata, visto che tu sei sempre tanto distratto!”. Amava provocarmi. “Una donna molto graziosa eppure così sola… Tu, ecco… tu… ci andresti con lei?”.
Sul momento, il primo sorso di caffè mi andò per traverso. Pensai: “Ho capito male”. Non feci in tempo a soffermarmi su quel dubbio che continuò:
“Ho sentito il vecchio dire che un terzo del guadagno tocca a lui… Questa sta diventando una casa d’appuntamenti! Che vergogna!”.
“Ah, ecco dove voleva arrivare!”, fu il mio più immediato pensiero. Il trucco, per esperienza, era quello di lasciarla parlare. Assecondarla. Si trattava d’insicurezza? La baciai. Non fece obbiezioni. Era pur sempre la mia adorata Eva…
- Da Anatomia del dolore -


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