Racconti di Eloisa Ticozzi
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La natura in me La natura è libera come me. La natura è in me, sia attraverso la genetica, come animale, che attraverso le esperienze, nella memoria e nei ricordi. Ho imparato molto dall’osservazione degli animali in campagna alle Eolie, prima di tutto, ho imparato la fragilità e la commozione. Come un animale comunica con gli occhi e con i versi e non con la parola. Le parole sono inutili quasi sempre, spesso non provengono dall’anima e dalla mente ma solamente da un riverbero coordinato di ugola e di faringe. Ho imparato ad osservare e forse ho sviluppato anche pazienza e perseveranza. Percepivo il silenzio quando ero piccola come noia, ma ora so che non è del tutto così. Il silenzio è la meditazione che proviene dall’anima, dalla sua riservatezza e dalla sua sofferenza. Si può dire che fossi tutto, tranne che milanese. Stavo a volte mesi, in campagna, circondata dagli alberi, dagli insetti e da parecchi animali. Allora era tutto molto più incontaminato di adesso. Il giardino aveva alberi di limone e gelsi, anche alberi in fiore dappertutto; senza contare i fichi d’india sparsi un po’ dovunque, grossolani in apparenza ma da una forte personalità. Ho anche imparato veramente il dolore, quando dal pollaio prendevano una gallina per stritolarla e ucciderla. Per me era una tortura sentire il grido straziante di qualcuno che stava per finire la sua vita; galline che io curavo e nutrivo. Avevo allevato verso i dieci anni un pulcino, che poi sarebbe diventato gallo; mi ricordo che mi seguiva dovunque avendogli dato l’imprinting genitoriale dell’accudimento. Ho sperimentato anche il terremoto nel 1994; ero una ragazzina ancora bambina che non sapeva cosa voleva dire la parola “scossa”. Ho imparato molto in quell’ambiente così primitivo, succube forse di un’esclusione forzata dal resto della civiltà. Ho partecipato anche alla vendemmia da ragazzina: mi ricordo benissimo che la raccolta dell’uva era un gesto sacro, quasi cerimoniale, da parte soprattutto delle donne. Donne con il velo sul capo, dai gesti svelti di chi sa cosa vuol dire lavorare manualmente. Mi ricordo che il cane del mio prozio seguiva ogni gesto propizio a quella magia così antica. Era un pointer, un cane da caccia, agile e snello, dal muso dolce. Mi piaceva molto scavare nella terra del giardino della casa per trovare cocci di piatti o altro, non ho mai capito cosa fossero, ma erano disegni bellissimi, dai colori ben disposti da creare una vera armonia, mi sembrava di essere un’ archeologa alla ricerca di qualcosa di importante e di vero. Ma era tutto reale, e a me la realtà piaceva così come l’immaginazione. Mi piaceva mescolare queste due propensioni di vita, rimpastandole per trovare una mia identità. La natura è terrena e fisica ma è anche creativa perché dispone ogni vita in modo inaspettato e indeciso. E io, essendo creativa, un’estate, mi sono costruita un arco con le frecce, aiutata da mio padre .Le frecce erano canne che avevo appuntito e le lanciavo contro le foglie polpose dei fichi d’india. Sopra il tetto della terrazza, qualche acino d’uva cadeva giù ogni tanto perché i gatti si arrampicavano sulle travi. Dalle due terrazze si potevano scorgere le altre isole Eolie; la notte quel cielo stellato non si poteva vedere a Milano, un progetto così ben disegnato, con ogni luce collocata secondo le costellazioni che io non conoscevo, eppure percepivo che era tutto in sintonia con me e con l’universo. In lontananza sulle montagne si vedevano altre illuminazioni, quelle delle case, più vicine o meno vicine. Dalle terrazze potevi scorgere la gente nella strada asfaltata o nelle stradine antiche: sembravano formiche ritornare nei cunicoli, accalcate a volte dalla fatica sotto il sole, o più sollevati dalla calura di sera, quando qualche vento, anche flebile, si ricordava di esistere. Le cicale intonavano durante il giorno un canto che stordiva e un po’ petulante, che ti accompagnava in un abbraccio mediterraneo fra luci e ombre, nella fragilità di una realtà isolana troppo confinata nel mare, almeno in quegli anni. |