Racconti di Miriam Terruzzi


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L'antico segreto
Lo vide e ne rimase affascinato.
Stava lì, sul grezzo banco di legno in mezzo alla confusione e alla varietà degli altri gingilli, e sembrava che lo chiamasse.
Si chinò per osservarlo meglio. Non aveva nulla di particolare ed era anche piuttosto insignificante in confronto alla moltitudine di oggetti d'oro che erano esposti.
Lo prese in mano. Era un orecchino semplice ma il suo occhio esperto calcolò il grande valore che poteva avere.
Sicuramente era un manufatto orientale, molto probabilmente di origine egizia. Lo osservò ancor più attentamente: da uno splendido apislazzuli partivano due barrette d'oro che erano agganciate a una lamina anch'essa d'oro. Al centro era incastonato un delicato fiore di loto in avorio e intorno era decorata da listelle in lapislazzuli e corniola.
Era poi adornato di pendenti con i più svariati tipi di pietre dure.
Pensò che era proprio quello che cercava e lo immaginò sul delicato orecchio della destinataria.
Avvicinò il mercante chiedendo il prezzo dell'oggetto e si meravigliò quando egli gli rispose che il costo ammontava a pochi sesterzi.
Egli sapeva il valore dell'orecchino e da uomo onesto chiese:
- Non è questo un manufatto egizio?-
- E' così - rispose l'uomo
- E perché mai il suo prezzo è notevolmente inferiore rispetto al suo reale valore?-
- Come fa a sapere quanto vale? -
- Sarò anche un umile servo ma me ne intendo di queste cose. Se io fossi rimasto abbagliato da tutti questi ori che ha esposto, che in realtà sono di poco prezzo, non avrei neanche fatto caso a questo orecchino che sembra aver ben poco di prezioso -
- Non è facile ingannare un occhio esperto come il suo. Ebbene sì, esso è appartenuto alla moglie di un grande faraone. Alcuni mercanti egizi, che io conosco assai bene, me lo hanno portato insieme a parecchi altri oggetti preziosi. Questo però è rimasto invenduto e io voglio disfarmene…-
- E perché vuole disfarsene?-
- E' una questione personale che non interessa sicuramente a un acquirente come lei. Per chi è? Forse per sua moglie?-
- No, sono servo del sommo Cesare ed egli mi ha incaricato di comprare un regalo per la sua consorte-
- Sono sicuro che questo gingillo starebbe d'incanto addosso a quella splendida donna. E' appartenuto a una donna egizia e apparterrà ora ad una donna romana ben superiore sia per fascino che intelligenza. Non la pensa anche lei così?-
Rifletté per un momento e pensò che era veramente un'occasione, così, nonostante egli si fidasse poco dei mercanti, rispose:
- Va bene, penso che sia un affare. Lo prendo-
- Bene! L'avevo capito subito che era un uomo ragionevole.-
Il servo diede al mercante il danaro e si allontanò soddisfatto.

La sera stessa l'uomo mostrò ciò che aveva acquistato a Cesare.
- Bravo! Grazie Tiberio, era proprio ciò che immaginavo e la tua fedeltà sarà ricompensata a dovere. Ora però và e fa chiamare mia moglie, voglio mostrarle subito questo splendore.- disse egli al servo.
- Va bene signore, la faccio subito chiamare -
Si inchinò e uscì.
Cesare rimase solo nell'ampia stanza, era semisdraiato su un letto triclinare rosso e attorno a lui alcune lampade ad olio stagliavano lunghe ombre sulle pareti dipinte e decorate con stucchi preziosi. Era un uomo ben proporzionato, con un particolare fascino e aveva incantato centinaia di donne grazie ai suoi occhi: neri, profondi e intelligenti.
Il pavimento della stanza era in mosaico e disegnava figure fitomorfe.
Colonne tuscaniche reggevano il soffitto affrescato.
Egli sentì i delicati passi che attraversavano le stanze e si facevano sempre più vicini.
Come sempre, l'uomo sentì il cuore più leggero perché il solo pensiero di vederla lo riempiva di una felicità sempre nuova.
Entrò nella stanza seguita da due ancelle, riempiendo l'aria di un dolce profumo.
La sua figura era sottile ma ben proporzionata, indossava una tunica chiara sopra la quale portava un mantello. La cintura era annodata sotto il seno, secondo la moda del tempo, e evidenziava le belle forme pulite e le lunghe gambe sottili. Il mantello era di fine seta, che Cesare acquistava dai mercanti che avevano rapporti con l'Asia , convinto che una bella donna doveva ornarsi di oggetti e stoffe lussuose. Il viso era di un ovale perfetto incorniciato dai capelli raccolti in un'acconciatura estremamente elaborata. Le labbra fresche e carnose si aprirono in un dolce sorriso, quando i suoi stupendi occhi incontrarono quelli del marito.
Egli la guardava amorevolmente, parlandole con gli occhi. Nessuno mai aveva visto Cesare, uomo solitamente duro e deciso, come lo vedeva la moglie nell'intimità.
Impaziente fece lasciare la stanza alle ancelle e si ritrovarono soli.
Fece un cenno ed ella gli fu vicino, la fece sedere accanto a lui abbracciandola.
- Chiudi gli occhi- le disse in un orecchio
e le lunghe ciglia scure si socchiusero lentamente mentre egli le infilava l'orecchino.
Lo ammirò per un istante: esso pendeva dall'orecchio e arrivava a metà del bel collo ed era come se il suo posto fosse stato quello, da sempre.
Per un attimo una nube scura gli attraversò la mente, aveva già visto un orecchino simile in una terra lontana, su un orecchio che non era quello di Calpurnia ma di una donna che, in quanto a sensualità, le era superiore. Quella donna era Cleopatra.
Non volle più pronunciare quel nome tanto era seriamente addolorato per aver osato tradire l'amore di sua moglie. Infatti, dopo essere tornato dall'Egitto con rimorsi e sensi di colpa, aveva deciso di dimenticare ogni cosa.
A toglierlo dai suoi pensieri fu la voce calma di Calpurnia.
- E' stupendo- disse e si levò per prendere il suo piccolo specchio manuale, costituito da una lastra tonda di metallo che terminava con un manico finemente lavorato.
Rimirò il piccolo gioiello più e più volte e poi rivolse un largo sorriso al marito e lo ringraziò.
- Ha molto valore, apparteneva alla moglie di un faraone, ora è tuo e ti sta divinamente - disse egli felice
- E' vero! Mi piace molto e inoltre i gioielli egiziani sono molto in voga in questo periodo. Sai parlavo con le ancelle poco fa di una donna di alto rango con al collo una stupenda collana egizia. Dicevo appunto che mi sarebbe piaciuto possedere un gioiello così, ed eccolo qua. Tu mi leggi nel pensiero-
Egli rise gaiamente e le disse di salire in camera poiché l'avrebbe raggiunta presto.

Le lampade si erano ormai spente e dalla piccola finestra entrava la forte luce della luna piena. Era il 14 Marzo dell'anno 44 e il clima si andava già mitigando. C'era infatti un'aria tiepida che faceva ben sperare l'imminente arrivo della primavera. Calpurnia osservava le stelle che punteggiavano il cielo. Non riusciva a prendere sonno.
Roma dormiva e l'aria muoveva dolcemente le chiome degli alberi, si voltò verso Cesare. Egli dormiva profondamente, poi il suo sguardo si posò sul tavolino di avorio sul quale era posato l'orecchino.
Per un momento le sembrò che la lastra d'oro emanasse un fioco bagliore e un brivido gelido le attraversò tutta la schiena.
All'improvviso sentì un'angoscia che la fece sentire madida e avvertì di aver paura ma non ne sapeva il motivo.
Si sdraiò accanto al marito e sentendo il suo respiro su di lei si sentì più tranquilla e si abbandonò a un sonno tormentato e pieno di incubi.
La mattina seguente, quando si svegliò, il suo primo sguardo fu per l'orecchino. Esso era là, splendido esattamente come la sera prima.
Si alzò e cercò Cesare nella stanza dove egli soleva vestirsi. Lo trovò mentre si infilava la tunica.
Aveva una grande angoscia dentro e non poteva nasconderla.
- Ben svegliata - disse lui ma la sua voce era un po' stanca, non si sentiva molto bene.
- Ho dei brutti presentimenti, perché oggi non fai a meno di andare in senato? Sai, ieri sera ho avuto delle sensazioni non molto simpatiche, per non parlare di quello che ho sognato stanotte -
- Saranno state un effetto della stanchezza… e poi oggi penso che sia proprio impossibile non andarci. Oggi è il giorno delle Idi. -
- Ma perché? Tutto può essere rimandato! Ti supplico, fallo per me. - pregò lei.
- E va bene, vorrà dire che manderò Marco Antonio ad annullare la seduta in Senato-
E così fece.

Nel frattempo, non molto lontano da li, Cassio si stava recando in Senato. Era finalmente giunto il giorno in cui avrebbe realizzato i suoi oscuri progetti.
Lui e i congiurati avevano riflettuto a lungo se trucidare Cesare in Campo Marzio mentre faceva l'appello delle tribù in occasione delle votazioni o se aggredirlo sulla via Sacra.
Ma quando seppero che il Senato era stato convocato per le Idi di Marzo pensarono che quello era il luogo più adatto.
Era quasi arrivato quando vide Marco Antonio che veniva correndo verso di lui. Appena gli fu vicino egli disse a Cassio ciò che Cesare gli aveva ordinato di riferire.
Cassio vide i suoi progetti sfumati e non sopportandone l'idea, raggiunse ben presto gli altri coinvolti nella congiura che proposero di inviare Decimo Bruto per esortare Cesare a presentarsi in Senato.


- Sommo Cesare, i senatori sono già da tempo arrivati e la stanno aspettando. Se la seduta verrà annullata i magistrati si offenderanno e questo non è consigliabile - affermò pochi minuti più tardi Decimo Bruto
- E' proprio necessario? Non sono in ottima forma oggi - replicò Cesare con apprensione, più che altro per gli occhi preoccupati della moglie
- Assolutamente indispensabile! - affermò deciso l'altro.
Allora Cesare si convinse, grazie alla fiducia che riponeva in Decimo Bruto, e gli disse di precederlo, lui l'avrebbe poi raggiunto in Senato.
Dopo che se ne fu andato, Cesare chiese a Calpurnia di aiutarlo a indossare la toga.
Ella la prese in mano, era di lana bianca ed era ornata dal tipico laticlavio.
Sistemò una serie di pieghe parallele lungo il bordo diritto e gliela posò sulla spalla sinistra con il gruppo di pieghe contro la gola e il resto della stoffa la fece ricadere lungo il braccio.
Lasciò che egli fece il resto mentre gli raccomandava di essere prudente anche se sentiva in cuor suo che le sue parole non potevano servire a nulla.
- Non ti preoccupare, tutto andrà bene, ci vediamo questa sera- detto questo, la baciò e uscì.
Erano circa le undici del mattino e Cesare si affrettava a raggiungere il senato. Quando egli fu nelle vicinanze vide il console Marco Antonio e Trebonio.
Salutatisi, Cesare entrò e si sedette.
I congiurati lo attorniarono come se volessero rendergli onore; uno di loro, Cimbro Tillio, iniziò a parlare perorando una sua causa.
Cesare, che non aveva molta voglia di discutere in quel momento, fece un gesto per allontanarlo. Fu allora che Tillio lo afferrò per la toga. Era il segnale.
In una manciata di secondi, Publio Servilio Casca estrasse il pugnale e lo colpì alla gola, Cesare reagì e trapassò il braccio del suo attentatore con lo stilo.
Tentò di alzarsi in piedi ma non ci riuscì perché venne colpito un'altra volta. Vide i pugnali avvicinarsi da ogni parte e si coprì il capo con la toga, e con la mano sinistra la distese fino ai piedi.
Voleva che la morte lo cogliesse dignitosamente coperto.
I pugnali squarciarono ventitrè volte la bianca toga che si intrise di sangue. Sotto di essa, senza un lamento né un gemito, moriva il grande Cesare.
Sentiva i colpi che affondavano nella carne e gli procuravano un dolore atroce ma pian piano i suoi occhi si velarono e iniziò a vedere delle sagome offuscate. Improvvisamente gli comparvero davanti due occhi che conosceva molto bene… erano quelli di sua moglie che lo supplicavano di non recarsi in Senato.
Gli ultimi suoi pensieri furono per lei, prima che la morte prendesse il sopravvento.
I senatori fuggirono in preda al panico e tre schiavi deposero il cadavere su di una lettiga per riportarlo a casa.

Calpurnia era turbata, ella sapeva, sentiva che quel giorno era funesto. Aveva passato alcune ore presso i lari familiari per chiedere protezione, anche se dentro di sè, intuiva che tutto era già stato deciso dagli dèi. Era immersa in questi pensieri, quando udì il tintinnio delle cavigliere delle ancelle accompagnato da grida e pianti. Si precipitò subito fuori dalla stanza e le seguì fino all'ingresso dove i tre schiavi avevano deposto il cadavere.
Vedendolo, la donna impallidì e lanciò un grido straziante che risuonò per tutta la casa. Si avvicinò al corpo esanime e iniziò a piangere sommessamente. Le lacrime cadevano calde e leggere, con fatica perché lo strazio le invadeva il corpo e la faceva tremare di dolore. Le persone che assistevano provavano una grande compassione per quella donna vittima di un triste destino.
Lei era quella che pativa di più ora, nessuno aveva mai pensato a quello che poteva provare o sentire lei. Per il mondo e per Roma era solo una figura, una statua. Era la moglie di Cesare e come tale non poteva permettersi di vacillare, l'avevano sempre considerata incapace di farsi trascinare dalle passioni, una donna ferma e da prendere in esempio. E invece eccola lì, sola, accasciata sulla sua unica ragione di vita, incapace di reagire al triste susseguirsi degli avvenimenti. Nessuno l'aveva mai ascoltata, la sua voce era sempre calma, sommessa, ma piena di saggezza e nessuna persona al mondo, neppure Cesare, aveva saputo comprenderlo.
Tutti avrebbero ricordato nei secoli quel giorno come la morte di un grande personaggio ma mai avrebbero capito quanto immenso dolore si celava dietro la freddezza del racconto storico.
Le ancelle la scostarono dolcemente per permettere che gli schiavi portassero via il cadavere in attesa del suo seppellimento.
A quel punto la donna, rendendosi conto di doversi staccare materialmente dalla persona che più amava, urlò, si dimenò e arrivò persino a graffiare le braccia e le mani delle ancelle che cercavano di portarla via.
Un uomo accorse e aiutò le ancelle a portarla nella sua stanza. Ella sembrava come impazzita, si buttava sul pavimento e piangeva rumorosamente.
La posarono sul letto e le diedero delle erbe che la tranquillizzarono, e si abbandonò a un sonno profondo, senza sogni.

Quando riaprì gli occhi, la stanza era buia, una lampada ad olio era posata sul tavolino ed emanava una luce fioca. Non giungeva al suo orecchio alcun rumore e la sua testa era pesante come un macigno.
Per un attimo non riuscì a capire cosa fosse successo ma, dopo pochi secondi. La memoria le tornò di botto.
Rimase immobile per molto tempo, sdraiata sul letto nella penombra, piangendo silenziosamente. Non riusciva a pensare che fosse successo veramente, sembrava che si fosse destata da un incubo, ma non era così; Cesare non c'era. Non perché era impegnato in un viaggio o una battaglia, se ne era andato e non sarebbe mai più tornato. Mai.
Si alzò sentendosi stanca e avvilita e si avvicinò alla finestra. Roma era silenziosa, un silenzio di dolore ma soprattutto di paura e di terrore, solo in lontananza, verso il Foro c'era del movimento, poiché Lepido lo aveva occupato con i soldati.
Guardò il cielo per un momento e, sopraffatta dal grande dolore, lasciò la stanza cercando il conforto delle sue schiave più fidate.
Poiché Calpurnia non riusciva a calmarsi continuò a parlare con le ancelle per tutta la notte, che sembrò interminabile, finché venne finalmente l'alba del giorno dei funerali.

-" E io ne avrei salvati tanti per conservare chi perdesse me?"- cantava un uomo in tono drammatico, mentre si stavano svolgendo i ludi funerari.
Su di un cataletto coperto di porpora e oro, portato a spalla dai magistrati, era posto il corpo di Cesare, che venne poi sistemato all'interno dell'edicola.
Calpurnia non staccava gli occhi dal marito. Il viso le pizzicava, poiché faceva di tutto per non versare nemmeno un lacrima. Nessuno la vide scomporsi e la giudicarono perciò una donna fredda, priva di sentimenti, ma non potevano immaginare neppure la tempesta che provava ella nel suo animo.
Antonio fece leggere il senatoconsulto con cui i senatori si erano impegnati per la salvezza di Cesare e poi tenne il discorso funebre.
Dopo la cerimonia alcune persone discutevano sul luogo più adatto per cremare il corpo ma improvvisamente due uomini, con la spada al fianco e armati di giavellotto, gettarono due ceri accesi sul cataletto.
Immediatamente il popolo alimentò il fuoco portando fascine e distruggendo le tribune di legno che erano state innalzate per la cerimonia.
I veterani delle legioni gettarono nelle fiamme le loro armi, le matrone i gioielli, i musicisti e gli attori, che avevano rappresentato gli antenati del defunto, le vesti indossate per l'ultimo trionfo di Cesare.
Si strinsero intorno al rogo anche gli stranieri, soprattutto i Giudei riconoscenti verso il defunto per averli liberati dall'oppressione di Pompeo.
Alcuni, accecati dalla rabbia, presero dei tizzoni ardenti e si diressero verso le case di Bruto e di Cassio,con l'intenzione di incendiarle.
L'esercito si mobilitò per fermarli e una buona parte delle persone che aveva partecipato ai ludi funerari lo seguì.
Erano rimaste poche persone oramai e, quando se ne andarono, rimase solo lei, gli occhi gonfi fissi all'edicola, il pensiero rivolto al mondo che le crollava addosso.
Non poteva continuare senza una spiegazione, doveva sapere, capire perché era successo. Prese quindi la sua decisione e uscì dal foro per avviarsi su una stradina angusta.
Era il crepuscolo e iniziavano a spuntare piccole stelle, l'aria si faceva più fresca.
Imboccò quindi la viottola e, mentre la percorreva, guardava le umili domus: erano piccole, con le stanze indispensabili. Si fermò di colpo per osservare una donna che attendeva sull'uscio di casa. Dalla parte opposta alla sua arrivava un uomo robusto, dalla pelle bronzea a causa del sole dei campi. Egli correva e, quando fu presso la donna, la abbracciò e la baciò, ella sorrideva contenta. Era vestita di stoffe lacerate e Calpurnia intuiva che quella donna non conosceva l'esistenza del pettine poiché aveva i capelli arruffati e crespi.
Guardò le sue vesti, passò la mano sulla fine seta e il suo sguardo cadde sui sandali che portava ai piedi, ornati di pietre dure. Sentì il tintinnio dei fini bracciali doro che portava ai polsi e toccò la sua pettinatura estremamente raffinata. Lei, così perfetta, così ricca e potente eppure così infelice.
Ora comprendeva che tutto ciò che aveva, la casa, le ricchezze, il lusso, i cibi raffinati, nulla valevano senza una persona accanto con cui condividerli.
E soprattutto capiva che nessun oggetto poteva essere paragonato ad un amore e non poteva di conseguenza sostituirlo.
Proseguì il suo cammino sempre con una grande tristezza dentro che niente e nessuno avrebbe potuto mutare in gioia.
Arrivò finalmente ad una piccola casa, esternamente uguale a tutte le altre, con una tenda color porpora alla porta.
La finestrella, collocata abbastanza in alto dal suolo per non vedere quello che vi era all'interno, era illuminata.
Ella entrò e fu invasa subito da un forte profumo di incenso che le fece lacrimare gli occhi. La stanza era angusta e sulle pareti laterali vi erano due torce.
Al centro era collocato un tavolino rettangolare di legno coperto da una stoffa simile a quella dell'entrata.
Da una porta comparve un uomo curvo, calvo, vestito con una tunica e dal viso raggrinzito come una prugna secca.
Le rivolse un sorriso enigmatico e la osservò con due piccoli occhi neri indagatori.
La fece accomodare su uno sgabello e scomparve per tornare poco dopo con alcune boccette e flaconi. Li mise sul tavolo e si sedette.
- Sono venuta per…- cominciò Calpurnia, decisa a spiegare ogni cosa.
- So già cosa desideri sapere, sono un indovino, sono a conoscenza di quello che è successo e dei quesiti che ti poni.-
- Mi sono rivolta a te perché so che mi posso fidare e che quello che mi dirai non è falso. Ti chiedo però la massima riservatezza e che nessuno venga a sapere che sono stata qui. Potrebbero condannarmi per non essermi rivolta al sacerdote che cura i riti religiosi ufficiali.-
- Certamente, con un piccolo sovrapprezzo…-
- Va bene, sai che non ho problemi di denaro, Ti darò quello che vuoi -
- Siamo d'accordo. Diamo inizio al rito -
Fece portare da un giovane le interiora di un animale sacrificato la mattina stessa e in silenzio iniziò a toccarle recitando formule magiche. Dopo un buon quarto d'ora il ragazzo tornò portando con sé una bacinella che sarebbe servita al vecchio per lavarsi le mani.
Dopo che tutto fu ripulito, l'indovino guardò la donna e cominciò:
- Questo è il responso degli dei: la morte del tuo consorte è stata causata da un oggetto prezioso da te posseduto e che porta con sé una antica maledizione. Si tratta di un oggetto che proviene dal lontano Egitto, maledetto perché trafugato dalla tomba di un grande faraone. Devi disfartene al più presto se non vuoi che ti provochi altre sciagure. -
Calpurnia capì immediatamente a quale oggetto si riferiva e presa da un'improvvisa paura chiese subito quale era la soluzione migliore per disfarsene. Non poteva certo donarlo, avrebbe avuto per tutta la vita il rimorso della sua coscienza.
- Il mio consiglio è di seppellirlo a una elevata profondità in modo che nessuno possa avere mai più niente a che fare con esso.- disse tranquillamente il vecchio.-
- E' una buona idea - commentò la donna - lo farò immediatamente, così sarò tranquilla.-
Detto questo diede all'uomo il compenso pattuito, ringraziò e uscì.
Era ormai buio, le stelle splendevano come piccoli brillanti e credette di sentire in un alito di vento il respiro di Cesare. Per un momento lo sentì accanto a lei, forse per darle un ultimo saluto, quello negato dalla disumanità dei congiurati.
La luna, piena, candida, emanava una luce bianca, romantica e spettrale allo stesso tempo.
Affrettò il passo per arrivare più velocemente a casa e seppellire per sempre quell'oggetto che le aveva dato una tal gioia ma che aveva causato anche un fatto terribile che aveva sconvolto la sua vita.
Quando fu davanti alla porta d'ingresso entrò di soppiatto; nessuno doveva venire a sapere della maledizione, ella avrebbe portato il suo segreto nella tomba e per quanto riguardava l'indovino
era sicura che non avrebbe aperto bocca.
Se qualcuno le avesse chiesto dell'orecchino lei avrebbe sicuramente detto di averlo perso.
Pregando di non incontrare nessuno per i corridoi, li attraversò e arrivò finalmente in camera sua.
Era lì, così ricco e splendido eppure così pericoloso e terribile, era posto sul tavolino poiché non l'aveva mai spostato da quel luogo.
Ebbe timore di avvicinarsi e di toccarlo, il cuore le batteva all'impazzata e le mani, che si avvicinavano lentamente al gioiello, tremavano.
Finalmente lo toccò ma chiuse gli occhi temendo il peggio, invece non capitò nulla, tutto era come un istante prima di toccarlo.
Lo prese tra le sue mani e lo guardò, ma lo fece con occhi diversi da quando Cesare glielo aveva regalato.
- Come è possibile che una cosa tanto piccola possa fare così tanto male? - si chiese tra sé.
- Come è possibile? Sembra così innocuo.-
Un istante dopo che ella ebbe pensato queste cose, le mani le si scaldarono al punto che ella sentì un dolore atroce, quel calore veniva dall'orecchino, e accortasi di ciò, lo buttò per terra. Era diventato rosso e tremendamente bollente, come l'oro appena forgiato.
Si guardò le mani, erano rosse. Era tutto vero. Anche se ne aveva dubitato, l'orecchino era veramente controllato da qualche forza oscura e ora era presa da un terrore che la faceva tremare.
Inoltre la spaventava il compito di dover tenere quel segreto senza raccontarlo a nessuno.
Pensò però alle conseguenze e, vedendo che l'orecchino non emanava più bagliori, si chinò per raccoglierlo: era divenuto freddo, ghiacciato proprio come la morte.
Con fretta prese una delle torce e percorse di nuovo i corridoi per uscire. Passò dalle baracche dei servi addetti ai poderi e prese una vanga. Quando fu fuori si diresse verso i campi collocati in periferia.
Aveva paura, ogni fruscio la faceva sobbalzare e, man mano che andava verso gli agri, le case si facevano più rade e aumentava la sua angoscia.
In un angolo di un prato incolto, iniziò a scavare.
La terra morbida cedeva sotto la forza del badile e lei vacillava per il peso dell'attrezzo, non era abituata a quel genere di lavori.
Con non poca fatica era riuscita a fare una buca abbastanza profonda e senza esitare vi gettò l'orecchino.
Prima di ricoprirlo gli diede un'ultima occhiata ed ebbe la stessa sensazione di quella sera prima dell'uccisione del marito.
Il gioiello emanò un bagliore, quasi come volesse sorridere beffardamente, prima di essere sottratto alla pallida luce della luna da cui sembrava prendere l'energia.

* * *

Vide qualcosa che luccicava in mezzo alla terra scura.
Si chinò e lo raccolse, lo pulì con il lembo della manica del farsetto, e il gioiello tornò velocemente al suo antico splendore.
Lasciò cadere la zappa, per osservare più da vicino l'oggetto: era un orecchino d'oro con delle pietre dure incastonate. Era stupito. Chi poteva aver perso un simile ornamento? Sembrava prezioso e guardandolo gli venne in mente la donna per cui avrebbe dato la vita. Egli era innamorato di una donna che per lui era irraggiungibile a causa di vertiginose differenze di rango. Era bellissima, ma un contadino poteva solo sognare di poter sposare niente meno che donna Lucrezia ,della famiglia dei Borgia.
Sorrise felice. Forse con quel dono, avrebbe potuto fare breccia nel cuore della giovane o almeno farsi notare.
Lasciò tutto quello che stava facendo e tornò a casa.
Continuava a fissare l'orecchino. Egli non era mai stato ricco e, di conseguenza, non aveva mai avuto tra le mani un simile gingillo.
Camminava con una nuova speranza. Fin da quando aveva visto Lucrezia, il suo cuore si era invaghito di lei, e ora aveva una grande occasione per farsi conoscere.
Quando fu tra le mura domestiche, si sedette ad un tavolino e lo pulì accuratamente con l'aceto.
Più sfregava il panno sul gioiello, più esso riacquistava luminosità ed egli era sempre più contento.
Quando finì ,si ripromise che la mattina seguente avrebbe portato il gioiello a Lucrezia e magari chissà, le avrebbe parlato di persona.
La giornata passò tranquilla, e la sera si coricò sognando qualcosa che sapeva , non si sarebbe mai avverato.
L'indomani si alzò di buon ora, e si preparò con estrema cura per presentarsi in Vaticano, nella speranza di essere ricevuto.
Infilò l'orecchino in un elegante sacchettino di velluto rosso e lo chiuse con un cordoncino di raso bianco.
Con il suo mulo si diresse verso il palazzo dove viveva Lucrezia.
Non era così semplice entrare nei Palazzi Vaticani, egli aveva però escogitato uno stratagemma per poter agire inosservato.
Aveva chiesto ad un amico che serviva le cucine vaticane di poterlo sostituire in una consegna alimentare.
Arrivato quindi alle entrate della servitù, bussò. Una donna anziana, con un vestito sgualcito, gli aprì l'uscio.
- Che vuoi?- chiese ella con voce sgarbata.
- Sto sostituendo il tale che porta le verdure e i viveri. Posso entrare?-
- Puoi benissimo lasciarli a me - ribattè seccata. Non faceva entrare gli sconosciuti.
- Ma, vede signora, devo portare dentro delle casse molto pesanti, non vorrà farsi male vero? Tengo alla salute dei clienti, lasci fare a me. Vedrà che non le darò alcun disturbo.-
- D'accordo - disse la donna, rabbonita dalle gentilezze del giovane.
Egli entrò e una zaffata di aglio gli invase le narici, un forte odore di minestra e altre pietanze impregnavano l'aria.
La donna che gli aveva aperto bisbigliò qualcosa all'orecchio di una ragazza che gli si avvicinò e lo guidò in una stanza dove vi erano tutte le provviste . L'uomo approfittò del fatto che si trovavano soli e disse: - Mi scusi gentil donzella, dal suo bel viso noto che ella è una persona degna di fiducia. Volevo perciò domandare se potreste far avere questo a donna Lucrezia.- e le porse il sacchettino - le dica che lo manda un giovane che, di lei, si è perdutamente innamorato. Vi prego, per me è assai importante.-
La ragazza, che aveva ascoltato sorrise: - Molti si innamorano di donna Lucrezia anche se ella è un po' perfida, alle volte. Comunque sia, le farò avere il dono. Qual è il vostro nome? Così se vorrà ringraziarvi saprà dove trovarvi.-
Dopo che si fu presentato e raccomandato con la giovane, egli se ne andò.

La ragazza salì due piani di scale e attraversò un lungo corridoio, per arrivare all'ultima stanza.
Bussò e un'imperiosa voce dall'interno le ordinò di entrare. Aprì lentamente la porta ,e si ritrovò in una grande stanza dove il lusso era ostentato. Appoggiata ad una parete vi era una pregiata credenza toscana di impianto architettonico,decorata da una cornice a dentelli,il cui basamento era di forma classica e i piedi erano zoomorfi.
Al centro della camera c'era un tavolo. Sui sostegni di quest'ultimo, terminanti con un piede a zampa di leone, era finemente inciso lo stemma della famiglia Borgia.
Su un elegante letto era sdraiata lei: Lucrezia. Indossava un vestito di broccato ricamato in oro e argento. Il corpetto era chiuso da una cintura allacciata appena sotto il seno e aveva una scollatura molto evidente di taglio quadrato. Dalle spalle partiva un mantello in velluto di una tonalità di rosso più scura.
I lunghi capelli chiari,sciolti, erano adornati da perle, la fronte era libera e quando la serva entrò, quel viso d'angelo, che non era proprio tale, si volse verso di lei. Aveva occhi celesti, naso allungato, labbra rosso sangue, che contrastavano sulla pelle bianca come porcellana.
- Vieni cara, cosa desideri?- le disse con tono gentile. Ella era infatti la sua preferita, aveva una speciale simpatia per lei.
La giovane si avvicinò e disse:
- Mia signora, uno spasimante vi manda questo…- e mostrò a Lucrezia il sacchettino.
- Interessante…- mormorò afferrandolo.
Lo aprì con le belle mani affusolate. Vi trovò l'orecchino e i suoi occhi si illuminarono. Lo provò, e si rimirò a lungo allo specchio: sorrideva ,e più rimaneva davanti allo specchio, più si crogiolava nel constatare che era bellissima. Posò gli occhi sull'orecchino, era veramente stupendo, ma poi guardò il suo decolletè e rise di gusto.
- Lo trasformerò in una collana - annunciò- metterà in evidenza la mia scollatura, e la impreziosirà!- sorrise con malizia ai suoi propositi.
La serva scosse la testa. Lucrezia, era ormai risaputo da tutti, era figlia di Rodrigo Borgia, nonché papa Alessandro VI e di Vannozza Cattanei, una delle sue amanti.
Di per sé, questo doveva essere un segreto ,ma tutti quanti sapevano ,e facevano finta di nulla nonostante il comportamento del papa fosse scandaloso.Oltre a lei, il papa aveva avuto altri sei figli, di cui i più amati erano appunto Lucrezia, Cesare, Juan e Jofrè.
La giovane era l'incarnazione della lussuria, perversa frequentatrice di orge nei palazzi del Vaticano.
D'altronde il padre l'aveva usata, fin dai dodici anni, come pedina per realizzare i suoi progetti ambiziosi. Al momento era sposata con Alfonso D'Aragona da cui aveva da poco avuto un figlio.

- Non vi interessa sapere chi ve l'ha regalato?- chiese la serva.
- E perché dovrebbe? Sarà qualche poveraccio, che avrà speso tutta la sua fortuna per acquistarlo e sicuramente non è degno neanche di guardarmi negli occhi. È vantaggioso essere belli… omaggiano la tua qualità in qualsiasi modo! Non è così mia cara?-
La serva non rispose, mentre Lucrezia canticchiava felicemente, lei pensava al cuore di ghiaccio di quella donna. Le faceva tanta compassione, così legata alle passioni carnali ,e alle cose materiali. Era pur vero che,non avendo mai ricevuto amore dai genitori, fosse incapace di donarlo.
I suoi pensieri andarono anche al pover'uomo innamorato ,che si era tanto dato da fare per recapitare l'orecchino.
Si congedò, lasciando Lucrezia alle sue congetture.
Rimasta sola nella stanza, la giovane continuava a giocherellare con l'orecchino davanti allo specchio come una bambina.

Il giorno seguente, Lucrezia chiamò i migliori orafi che ella aveva al suo servizio e ordinò loro di fare dell'orecchino una collana. Non lo voleva cambiato nell'aspetto, semplicemente desiderava indossarlo al collo, piuttosto che all'orecchio.
E siccome era una donna molto impaziente, voleva tutto il lavoro completo entro l'indomani stesso.

Come promesso, il pomeriggio del giorno dopo, il gioiello fu pronto per essere indossato.
Lucrezia era così felice del suo nuovo, preziosissimo gingillo che andò a mostrarlo al marito che era da poco tornato a Roma.
- Hai visto che splendore?- disse orgogliosa ad Alfonso, mostrando il pendente che era sollevato dalla prominenza del seno.
- È molto bello. Anche se la donna che lo porta è assai più splendida.-
- Grazie - rise soddisfatta e orgogliosa di sé, rimirandosi di nuovo negli specchi di cui le stanze erano piene per soddisfare la sua vanità.

Quella sera ella si coricò presto. Nelle stanze Vaticane non vi erano divertimenti e si annoiava.
Stava per togliere la collana, ma era talmente bella che se ne era invaghita. La tenne perciò anche durante il sonno. Si era appena sdraiata che dal petto sentì un forte calore che si diffondeva per tutto il corpo. Si toccò il pendente: era bollente. Dopo pochi istanti però, tornò freddo, quasi gelido.
Strinse le spalle e chiuse gli occhi. Non era una persona che si spaventava facilmente.
In quel momento Alfonso si recava alla basilica di S. Pietro.
Era sul ventesimo gradino della scalinata principale quando, dal buio apparve un gruppo di uomini con vestiti scuri. Lo attorniarono e uno di loro lo aggredì. Sentì una lama conficcarsi nello sterno e poi ancora tante e tante altre in punti diversi. Ben presto l'uomo fu a terra in un lago di sangue e i sicari, credendolo morto, fuggirono.
Era il 15 luglio del 1500.
Le prime persone che si accorsero del poveretto furono dei soldati di guardia che si affrettarono a soccorrerlo e a riportarlo in Vaticano.
L'unica che non fu avvisata fu Lucrezia, che si svegliò tranquillamente alle prime luci dell'alba. Appena aprì gli occhi guardò la collana, come per controllare che fosse ancora lì. Quando ebbe constatato la sua presenza, chiamò le serve per farsi vestire. Esse però, stranamente, non risposero. Chiamò di nuovo ma niente, nessuno accorreva. Questo la fece infuriare non poco e scese per vedere dove erano finiti tutti quanti.
Le venne incontro un servitore che, allarmato, le raccontò cosa era successo quella notte.
Lucrezia si spavento non poco e chiese all'uomo dov'era suo marito e per quale motivo non l'avevano svegliata per avvisarla.
L'uomo si giustificò, arrabattandosi tra scuse poco credibili ma ella era già corsa via.
Arrivò ansimante nella stanza di Alfonso. Egli era sdraiato sul letto, era vivo, ma con moltissime ferite in tutto il corpo.
Chiese alle persone che gli erano intorno come stava e le venne risposto che la condizione era abbastanza grave ma che con molte cure e attenzioni poteva salvarsi. Ella si avvicinò al letto.
- Mi dispiace di non essere venuta prima, non mi hanno avvertito… ti starò vicina per tutta la tua convalescenza, non ti lascerò nemmeno un minuto. Te lo prometto! Vedrai, guarirai presto grazie alle mie cure!- detto questo gli sorrise teneramente e gli prese la mano. Egli, con difficoltà e non potendo parlare, ricambiò il sorriso.
Lucrezia si incaricò personalmente di andare ad acquistare i medicinali per essere sicura che tutto fosse rigidamente controllato. Era chiaro infatti, che qualcuno voleva la morte di suo marito.
Mentre si recava dallo speziale, ben nascosta da un mantello per non farsi riconoscere venne fermata per la strada da una giovane zingara. La ragazza era molto bella, di carnagione scura, con dei lunghi capelli neri. Alle orecchie aveva grossi pendenti e sui suoi polsi tintinnavano molti bracciali variopinti. Portava una gonna ampia e colorata e camminava a piedi scalzi.
Le volteggiò intorno sorridendo e le disse:
- Vuoi che ti legga la mano e ti predica la buona sorte, bella signora? Ti racconterò il futuro per pochi danari.-
Lucrezia ritrasse istintivamente la mano, quasi avvertisse un pericolo incombente. Ma la ragazza riuscì a convincerla. Le porse così il palmo aperto e la zingara lo osservò per qualche istante. All'improvviso il suo sguardo, prima ridente, divenne spaventato. Lucrezia accortasi, chiese spiegazioni ed ella rispose:
- Vedo un grosso pericolo di vita, ma non è per te. È qualcuno che tu ami.-
- E' già successo quello che mi dici! Fortunatamente mio marito è scampato al pericolo…-
- No, mia signora, il pericolo è imminente! Il fatto si ripeterà, se terrai ancora con te un oggetto che io vedo maledetto.-
- Dimmi subito di quale oggetto si tratta!-
- È un gioiello molto bello e antico che è stato trafugato e porta con sé gravi sventure.-
Lucrezia intuì subito a quale gioiello si riferiva. Per un momento rimase turbata ma poi decise, tra sé, di non credere alle parole della zingara. La collana le piaceva troppo e non aveva nessuna intenzione di privarsene.
Diede il compenso alla ragazza ringraziandola e la salutò, riprendendo il cammino.

Passarono alcuni giorni che Lucrezia trascorse al capezzale del marito. Non pensava più alla profezia della zingara, anche perché il marito era in via di guarigione.
Un giorno si trovarono, nella camera di Alfonso, anche Cesare Borgia, il fratello di Lucrezia e alcuni parenti. Il malato era in buone condizioni ormai, si sarebbe ripreso presto.
Ma il pericolo era in agguato, infatti il fratello Cesare bisbigliò all'orecchio di un amico: "ciò che non è stato compiuto a pranzo, può essere fatto a cena."
Era passato più di un mese dall'aggressione e il diciotto di agosto, Alfonso D'Aragona venne trovato misteriosamente strangolato nel suo letto. Probabilmente fu ad opera di Micheletto, uomo di fiducia di Cesare Borgia.
La disperazione di Lucrezia fu grande, la sua speranza di vedere il marito guarito era stata stroncata. E il suo dolore si era fatto più intenso quando capì di aver fatto un grosso errore: non aveva creduto alla zingara.
La collana era la vera responsabile di tutto. Voleva liberarsene al più presto e pensò alla cosa più semplice: afferrò dal cassettone dei gioielli a caso, li mise in un bauletto insieme alla collana e li fece portare alla stazione di partenza delle carrozze per il nord, comandando al suo servo di mettere il baule insieme ai bagagli della prima carrozza in partenza.
Quando se ne fu liberata, la sua coscienza fu più leggera. Non le importava dove potesse andare a finire e quali altre avversità avrebbe potuto provocare…


La carrozza correva veloce. Il cocchiere era in serio ritardo perché degli imprevisti avevano allungato i tempi.
Aveva ormai attraversato, a nord, il confine italiano ed era entrato nel territorio dell'imperatore Massimiliano I d'Asburgo.
Erano i primi giorni di settembre dell'anno 1500, il sole era ancora caldo e il trottare degli zoccoli dei cavalli sulla terra battuta scandiva le lunghe ore di viaggio.
Tutto attorno si estendevano infinite distese di campi ancora verdi, non vi era anima viva, tutto era immerso in un naturale silenzio. Di tanto in tanto, passavano nel cielo terso, stormi di corvi.
L'uomo, inconsapevole di quello che sarebbe successo di lì a poco, era tranquillamente assorto nei suoi pensieri.
Vide, all'orizzonte, apparire alcuni alberi che segnavano l'inizio di un boschetto, vi si inoltrò e il rumore degli zoccoli si attenuò per la terra più morbida e umida.
La luce del sole penetrava dagli alberi e i sassi rendevano difficile il tragitto alle ruote della carrozza.
Ad un certo punto, una ruota si incastrò tra due sassi e il cocchiere dovette fermarsi per rimetterla nel suo giusto asse.
Proprio nel momento in cui era chino per sistemarla, cinque uomini che sembravano apparsi dal nulla lo attorniarono, e due di loro, con gesti rapidi e esperti lo legarono con forti corde, aprirono la carrozza e presero tutto quello che era possibile portare via.
L'uomo continuò a urlare ma, si accorse che era inutile, perché non aveva visto nessuno per la strada da quando aveva attraversato il confine italiano; nessuno perciò poteva accorrere in suo aiuto.
Si arrese. Anche perché lui, esile e smilzo, non poteva certo affrontare cinque uomini, di cui due di loro alti e possenti.
Dopo aver fatto razzia, fuggirono e lasciarono il pover'uomo a terra, legato.
Poco dopo, i furfanti si spartirono il bottino. Erano seduti su dei massi. Intorno a loro, gli alberi li nascondevano da occhi indiscreti.
Uno fra loro, quello meno aitante, aveva afferrato lo scrigno che racchiudeva, insieme agli altri gioielli, anche il monile.
Lo aprì e, tra tutti i gioielli che il bauletto conteneva, i suoi avidi occhi si posarono sulla collana, che gli sembrava di immenso valore.
Egli capì subito avrebbe litigato con i suoi compari per possederlo e, ormai invaghito, lo prese e scaltramente lo infilò nella bisaccia.
- guardate qui, quante belle cose!- disse con indifferenza agli altri.
- Bene, bene - risposero - chissà da dove viene tutto questo ben di Dio!!
Dopo che ognuno ebbe ricevuto la sua parte, si avviarono verso il villaggio per rivendere gli oggetti al mercato. Tutti, meno uno. L'uomo spiegò ai compagni che li avrebbe raggiunti più tardi poiché voleva mostrare alla moglie cosa aveva rimediato.
Essi lo salutarono e si allontanarono.
Rimasto solo, si inoltrò di nuovo nel bosco per raggiungere un posto, da lui ben conosciuto, dove avrebbe nascosto la collana.
Camminava curvo e quando si sentì abbastanza lontano, tirò fuori avidamente il gioiello, lo osservò con i suoi occhi infossati e assetati di ricchezza, vide riflesso, nella splendida barra d'oro che era al centro, il suo grosso naso aquilino.
La bocca si aprì in un ghigno soddisfatto, si crogiolava nella soddisfazione di aver tratto in inganno i suoi compagni e di aver così guadagnato l'oggetto più prezioso che aveva mai visto.
Arrivò ad una piccola grotta e vi entrò, sul lato destro spostò alcuni massi e si formò un anfratto.
Con estrema delicatezza, vi depose il gioiello e rimise tutto com'era.
Tornò sui suoi passi sfregandosi le mani, l'aveva nascosto in un posto sicuro, nessuno avrebbe mai pensato di guardare là. Così, al momento opportuno, l'avrebbe rivenduto e ne avrebbe ricavato una fortuna.
Più rifletteva e più il suo cuore si riempiva di cupidigia. Improvvisamente, il sangue che correva nelle sue vene si fermò, il cuore tronfio di bramosia cessò di battere e l'uomo cadde a terra esanime.
Rimase immobile, gli occhi spalancati e la bocca leggermente aperta in un sorriso, come in un beffardo scherzo del destino.

* * *

Il cane abbaiava rumorosamente.
L'uomo, infastidito, si avvicinò all'animale che era entrato in una grotta lì vicino.
- che c'è amico mio? Hai trovato qualcosa?- chiese in tono affettuoso.
Il cane continuava ad abbaiare fissando una parete della grotta.
Egli pensò che la bestia fosse fuori di sé e stava per tornare al suo lavoro quando dalle fessure della roccia uscì un debole bagliore.
Un poco spaventato, l'uomo si avvicinò e, incuriosito, iniziò a togliere delle pietre nella zona dove aveva visto il bagliore. Il suo stupore fu grande quando si trovò davanti un piccolo anfratto nel muro che all'interno celava un gioiello d'oro.
Lo prese in mano, era di manifattura molto fine e, anche se non era un esperto, gli sembrava un oggetto di valore.
Riguardo alla luce che aveva visto prima, pensò di spiegarsi il mistero con il fatto che i raggi del sole erano entrati in una delle fessure, ed erano arrivati a riflettersi sulla lamina d'oro del pendente.
Lo guardò ancora, e pensò alla sua famiglia: quello che aveva in mano doveva sicuramente valere qualche scellino. E questi ultimi sarebbero serviti per sfamare sua moglie e i suoi tre figlioletti.
Sorrise felice e si chinò ad accarezzare il cane, come per ringraziarlo di aver trovato la collana.
Tornò accanto all'albero che aveva lasciato a metà, prese la scure e si avviò verso casa fischiettando.
Era ottobre, e l'autunno si preannunciava dorando le chiome degli alberi. La luce tiepida del sole filtrava tra gli alberi giocando con i colori delle foglie, alcune ancora verdi, altre già rossicce o gialle.
Era da poco uscito dal bosco, quando apparve, a lato della strada sterrata, una casupola in mattoni con appena due finestrelle. Il taglialegna e il cane entrarono. Una donna dai capelli raccolti in una crocchia gli venne incontro e lo salutò teneramente mentre due bambini, che sembravano della medesima età, gli si aggrapparono alle gambe robuste.
Egli si sedette al tavolo di legno massiccio che stava al centro della stanza, e disse subito alla moglie che quella sera avrebbero dovuto parlare.
Proprio in quel momento entrò una giovinetta sui diec'anni che teneva in mano una cesta piena di insalata. Indossava una lunga gonna di lana con un grembiule bianco sporco di fango.
I capelli erano scompigliati attorno al delicato visino, esaltato da due splendidi occhi verdi.
Con un sorriso salutò il padre, e posò il cesto di insalata che aveva colto.
La madre sorrise vedendo che nella cesta spiccavano anche alcuni pomodori, significava che qualche contadino generoso glieli aveva regalati.

Il vento sibilava, il taglialegna sbarrò la porta con l'asta in legno, e si sedette su una sedia vicino al camino dove ardeva un bel fuoco. Sua moglie gli si avvicinò con alcuni vestiti da rammendare. Quando ella iniziò a lavorare, l'uomo raccontò cosa era successo nel pomeriggio.
I bambini dormivano tranquillamente, il cane, sdraiato davanti al fuoco, ascoltava attento ciò che il suo padrone narrava.
Dopo che ebbe spiegato ogni cosa, la donna stupita chiese: - Ma ora dov'è il gioiello? Voglio vederlo.-
- Eccolo - disse, cercando nella tasca ed estraendo la collana - non è stupendo? Penso che ci potremmo ricavare un po' di denaro.-
- È veramente bello, sembra antico, non ho mai visto niente di simile qui a Vienna -
- Hai ragione, domani stesso pensavo di portarlo dall'orefice, che ne dici? E' stata veramente una fortuna non credi?
- Sì, mi chiedo solamente chi possa averlo lasciato in quel luogo…-
- Non lo so… comunque sia, ora è nostro, e di certo non sperpereremo i soldi che ne ricaveremo -
- Puoi starne certo - concluse la donna con un sorriso. Dopodichè si alzarono e spenta la lampada ad olio che stava sul tavolo, si coricarono entrambi.


La mattina seguente il boscaiolo andò in città per portare la collana all'orefice.
- Buongiorno. Posso aiutarla?- chiese un uomo sulla cinquantina.
- Si. Vorrei sapere quanto vale questo oggetto… -
L'uomo prese nelle sue mani il pendente e si diresse verso il banco. Lo rimirò più e più volte e pensò che non aveva mai visto niente di simile: era un oggetto sicuramente molto antico, ed era stato rimaneggiato pochissime volte. Grazie a questo si poteva vedere abbastanza chiaramente a che epoca risaliva. Non ne era sicuro, ma probabilmente era del periodo egizio, infatti al centro della lamina vi era un delicato fiore di loto in avorio. Proprio quest'ultimo era molto amato dagli egiziani che lo rappresentavano in molte pitture e anche sui gioielli funerari.
Calcolò un valore molto alto e riflettè che poteva benissimo imbrogliare sulla cifra e dare all'uomo qualche scellino, guadagnando un pezzo estremamente prezioso. Ma, impietosito, probabilmente dalla condizione in cui doveva trovarsi il taglialegna disse: - venga con me.-
L'uomo lo seguì e quando furono nel retrobottega cominciò:
- senta, io le dirò la verità sul vero valore di questo oggetto. Lei, in cambio, dovrà solo promettere di tenere la bocca chiusa.-
- D'accordo - disse il boscaiolo titubante - ma non ne capisco il motivo.
- Stia calmo. Ora le spiego. Questo monile è un pezzo raro, ed è strabiliante come si sia conservato perfettamente, nonostante la sua antichità. Non è nei miei interessi sapere come ne è venuto in possesso, ma certo è che vale molto più di qualche misero scellino. Io le darò in denaro ciò che vale il gioiello, ma lei non dirà niente a nessuno riguardo la sua esistenza perché se lo venissero a sapere le persone competenti ai musei e alle antichità, me lo porterebbero via, e io non ci guadagnerei un bel niente. Capisce?-
- Comprendo perfettamente.-
L'orefice diede all'uomo il compenso e quest'ultimo si meravigliò dell'enorme cifra che si era per caso trovato tra le mani.
Tornò verso casa felicissimo perché non solo con quei soldi avrebbe potuto pagare da mangiare ai suoi figli per qualche giorno ma poteva addirittura dare alla sua famiglia una vita di gran lunga migliore di quella vissuta in precedenza.
Nel frattempo nella bottega dell'orefice l'uomo pensava a come poteva risistemarlo per poterlo mettere in vendita. Pensava che all'imperatore Francesco Giuseppe sarebbe sicuramente piaciuto, per la sua adorata Sissi, che tutti sapevano di ritorno a Vienna per il prossimo dicembre.
Egli veniva spesso ad acquistare nel suo negozio, perché sapeva di trovare pezzi unici.
Questo era veramente tale e nessuno ne avrebbe trovato uno uguale in tutto il mondo.
La manifattura era però un po' antica e si chiese come poteva fare per ricavarne un gioiello moderno che conservasse però un leggero sapore egizio.


Erano i primi giorni di Dicembre dell'anno 1888 quando una carrozza trainata da cavalli bianchi si fermò davanti alla bottega.
Quando la porta si aprì, scese un uomo alto, distinto, vestito con l'uniforme imperiale: era Francesco Giuseppe.
Entrò nel locale seguito da due uomini.
L'orafo salutò con un ampio inchino l'imperatore, e chiese in che cosa poteva aiutarlo.
- Come penso tutti sanno, tra poco Elisabetta tornerà dai suoi viaggi per passare il Natale qui a Vienna. Vorrei donarle un gioiello veramente bello, che possa ricordarle il mio amore. Un oggetto stupendo che possa adattarsi alla sua infinita bellezza-
- Penso proprio di avere quello che sua Maestà desidera - disse prendendo da un cofanetto una spilla. Era incantevole. Alla lamina dorata con il fiore di loto in avorio, erano stati applicati dei diamanti che la illuminavano, aveva sul retro uno spillone in modo da poterla applicare ai vestiti. Il apislazzuli e le barrette dorate erano sparite ma i pendenti con le pietre dure erano rimaste insieme alle decorazioni che l'orefice si era ingegnato di aggiungere.
Francesco Giuseppe rimase sedotto dallo splendore dell'oggetto e, prendendolo tra le sue mani, immaginava Sissi con il vestito che più amava e quella spilla addosso.
Le sarebbe stata meravigliosamente bene e accecato dalla bellezza di quel gioiello, lo acquistò senza esitazioni.
Tornando al palazzo si accorse di attendere impazientemente il ritorno della sua adorata per poterle mostrare il proprio regalo.


Non dovette attendere molto, perché il ventidue di quello stesso mese Sissi arrivò in città.
Scese dalla carrozza con un vestito chiaro. Un bustino le cingeva la vita, e accentuava la prominenza del seno. Grandi drappeggi caratterizzavano la tunica e l'ampia gonna di seta era decorata da pizzi. Essa continuava con un lungo strascico. Due trecce partivano dalle tempie e si univano dietro la nuca, il resto dei capelli, che arrivavano quasi fino ai piedi, erano sciolti in delicati boccoli.
Nel viso, delicato e perfetto, risaltavano le labbra fresche e gli occhi scuri. Era, la sua, una bellezza naturale, niente in lei era falsato, truccato. La figura era snella, da ragazzina poiché si sottoponeva a continui digiuni per mantenere la fama di essere una delle donne più belle al mondo.
Con un po' di fatica scese dalla carrozza e, sfoggiando un candido sorriso, si diresse felice verso il marito. Questi allargò le braccia per accoglierla e le disse: - Bentornata cara, come stai? È una gioia averti qui -
- grazie, sto bene anche se sono un po' stanca. I viaggi sono belli ma snervanti… tu come stai?-
- Bene, ora che tu sei qui. Ma adesso vorrei che tu andassi a riposare un po'. Parleremo dopo con più calma. Abbiamo molto tempo…-
Detto questo chiamò le domestiche che la accompagnarono nelle sue stanze.

Più tardi i due si trovarono nello studio, dove Francesco Giuseppe soleva passare molto tempo a esaminare tutti gli atti che doveva firmare.
Egli era seduto su un divanetto con imbottitura a capitonnè e montanti in legno dorato, un enorme luminiera, con parecchie fiamme in cristallo opalizzato, era appesa al soffitto decorato da stucchi e ori. Il tappeto caucasico, che occupava quasi tre quarti del pavimento, aveva il classico impianto a tre medaglioni e nel bordo principale vi erano delle decorazioni a foglie dentellate e fiori stilizzati.
Sulle pareti troneggiavano due arazzi con scene di caccia e un quadro dalla cornice in legno dorato.
Sissi le era seduta accanto e gli stava raccontando dei suoi ultimi viaggi. Quando ebbe terminato, lui disse: - Non vedo l'ora che sia Natale, ho in serbo una bella sorpresa, vedrai tu stessa-
- Davvero? Sai però che il regalo più bello è passare il Natale con te-
- Grazie. Anche per me è meraviglioso avere la mia dolce Sissi qui, accanto a me-
Ella rise e lo baciò.

L'impazienza di Francesco Giuseppe si placò quando arrivò finalmente Natale.
La tavola nella sala da pranzo era addobbata da centrotavola adorni di fiori, frutta e confetteria.
L'imperatore era seduto a capotavola e di fianco era seduta Elisabetta che rideva e scherzava con il figlio Rodolfo, che le era vicino. Le portate venivano servite in eleganti zuppiere d'argento cesellato.
Dopo la cena, Rodolfo diede alla madre, come dono di Natale, delle poesie manoscritte di Heine. Ella si commosse, amava profondamente quel suo unico figlio maschio; a volte era presa dai rimorsi per non avergli fatto sentire la sua presenza come madre, poiché era quasi sempre impegnata in viaggi all'estero. Su questo non poteva farci nulla, anche se il suo amore per Franz era indescrivibile, non poteva sopportare a lungo le rigide regole di palazzo.
Le dispiaceva che Rodolfo aveva avuto dal padre, fin dai quattro anni, un'educazione rigida e severa. Egli era intelligente, colto, amico di tanti intellettuali. A ventitrè anni aveva sposato Stefania, figlia del re del Belgio da cui, dopo due anni, ebbe una figlia, che fu l'unica per l'impossibilità della moglie di avere altri figli.
Non andava d'accordo con il padre e non apprezzava la sua politica troppo autoritaria e ottusa.
Quella sera, rimasti soli, Franz le diede il gioiello. Elisabetta aprì il piccolo cofanetto d'oro e dentro vi trovò una meravigliosa spilla. Le uscì un gridolino di gioia e si diresse subito verso l'enorme specchio che troneggiava su una parete della stanza. Apparve nello splendore del suo vestito nuovo: era in tulle avorio con piccoli ricami dorati e il bustino che le lasciava scoperte le spalle. Una cintura dello stesso tessuto le stringeva la vita mentre la gonna si apriva come una vaporosa corolla.
Infilò la spilla un po' sopra l'altezza del seno e si guardò a lungo. Era un gioiello molto raffinato, pregiato. Le piaceva moltissimo. Si diresse verso di lui e lo abbracciò, stette a lungo fra le sue braccia mentre lui le accarezzava la folta chioma, poi si coricarono.
I giorni seguenti passarono tranquilli e Franz era felice di avere accanto Sissi che rallegrava l'atmosfera cupa di palazzo.
I guai cominciarono il ventuno di gennaio dell'anno 1889, quando Sissi, ancora all'oscuro di quello che sarebbe accaduto, camminava tranquilla per i corridoi del palazzo di Schonbrunn.
Franz era uscito, era pomeriggio e la servitù aveva qualche ora di libertà. L'ampio corridoio era tappezzato di quadri e arazzi e alle finestre vi erano pesanti tende rosse.
Arrivò ad una porta e lentamente la aprì abbassando la maniglia dorata. La scena che vide quando entrò la sconvolse: su un lussuoso divano era seduto Rodolfo che abbracciava una ragazza che, a vista d'occhio, doveva essere sui diciott'anni. Ella fu la prima che si accorse della presenza di Elisabetta, diventò livida e poi una vampa di rossore invase le sue guance. Rodolfo si volse e la vista della madre lo rese bianco come il marmo.
Sissi era rimasta sulla soglia, ferma, anche lei pallidissima e gli occhi fissi ai due giovani.
La tempesta di sentimenti che aveva dentro era indescrivibile: la fiducia che poneva nel figlio tanto amato era svanita in un lampo e la rabbia che provava ora nei suoi confronti era immensa.
Da quando Rodolfo aveva sposato Stefania, Elisabetta aveva imparato a volerle bene, proprio come una figlia. E ora si sentiva offesa per il tradimento di suo figlio nei riguardi di una persona che era come carne della sua carne. Era una situazione orribile e incredibile.
- Come ti permetti di fare una cosa simile a me, a tuo padre ma soprattutto a tua moglie? E per giunta qui, in questo palazzo, dove tu sei stato desiderato, concepito e cresciuto! Non provi vergogna?- urlò furibonda
- Madre, lasciate che io vi spieghi…- disse, alzatosi, il giovane.
- Non ho bisogno di nessuna spiegazione, ho capito perfettamente! Avevo fiducia in te, ti credevo un figlio intelligente, non pensavo che anche tu ti saresti lasciato trascinare dalle passioni! Ti pensavo più che adatto al trono ma dopo che ti ho visto insieme a una ragazzina, la tua serietà, per conto mio, è calata a zero.-
- Madre, vi prego, lasciate che vi spieghi, poi potrete fare quello che riterrete più giusto- implorò ancora Rodolfo.
- Come vuoi.- rispose seccata. Poi chiuse la porta e si sedette.
Il giovane cominciò:
- Vedete madre, questa ragazza si chiama Mary Vètzera, ha diciassette anni ed è figlia di un barone ungherese. La prima volta che la incontrai, decenne, fu a Dresda e quando la rividi nuovamente a tredici anni a Costantinopoli mi convinsi definitivamente del mio immenso amore per lei. Da qualche mese ci siamo ritrovati e abbiamo capito che non possiamo vivere lontani o separati. So che vi sembrerà un'offesa per la mia cara Stefania ma io amo Mary più di ogni altra creatura in questo mondo-
La ragazza che fino a quel momento era rimasta muta e immobile proclamò:
- E anch'io lo amo più della mia stessa vita. Perdonate Maestà se oso ma il mio amore per vostro figlio è infinito -
Elisabetta la guardò con tenerezza, non sapeva perché, ma non riusciva a odiarla, nonostante avesse portato suo figlio sulla via della perdizione. Quel visino delicato e quegli occhi bellissimi le suscitavano una grande pena. Era pur sempre innamorata di suo figlio. Allo stesso tempo pensava a Stefania e a Franz. Cosa avrebbero detto? Come avrebbero reagito? Non osava pensarlo.
- Madre, - continuò titubante il giovane - io ho sempre pensato a voi come una mamma comprensiva e buona, vi prego, se qualcuno verrà a sapere di questo fatto saranno guai per tutti. Perciò non potreste far finta di nulla? Io continuerò ad amare Mary nel segreto e tutto rimarrà come è sempre stato.-
Elisabetta fu presa da gran furore. Non voleva essere una loro complice. Poi pensò a quello che sarebbe accaduto, se lei lo avesse detto a Franz. Era di fronte a un bivio. Attese, riflettendo, per qualche minuto mentre i giovani aspettavano titubanti una sua risposta.
- Va bene - disse con rammarico- ma sia ben chiaro che io reggerò il vostro giochino solo per il bene di molte persone e del quieto vivere. Purtroppo non mi resta altra scelta-
- Grazie Madre. Ma quello mio e di Mary non è un gioco, noi ci amiamo-
- L'avevo capito… - disse. E prima di andarsene guardò per un'altra volta quella ragazza con gli occhi da cerbiatto. E nel suo cuore capiva perché Rodolfo se ne era innamorato: negli occhi c'è sempre l'anima della persona e quella ragazza, nonostante tutto, aveva un anima bellissima e sognatrice. Proprio come quella di suo figlio.

La sera del ventisei gennaio, Francesco Giuseppe e la moglie erano nello studio, quando Rodolfo bussò alla porta.
Entrò e si rivolse al padre: - Padre, volevo informarvi di una mia decisione-
L'imperatore alzati gli occhi dai suoi documenti, prestò orecchio alla voce del figlio mentre a Sissi, seduta su una sedia, le si strinse il cuore in una morsa dolorosa.
- Era mia intenzione chiedere, tra pochi giorni, a papa Leone XII di annullare il mio matrimonio-
- Che cosa? - urlò Francesco Giuseppe- vorrai scherzare, spero, e per quale motivo, di grazia?-
- Per la sterilità di Stefania! Voi sapete che non potrà più avere figli-
- Lo so e la tua motivazione è estremamente insulsa!- disse, rabbioso, il padre.
Sissi era immobile, rigida con gli occhi fissi nel vuoto. Sapeva bene per quale motivo Rodolfo chiedeva l'annullamento del matrimonio, e non era certo per la sterilità della moglie.
Urlavano incolleriti, ma lei non sentiva niente, presa dai suoi pensieri. Una frase sola la colpì come un proiettile: - Mi ucciderò!-. L'aveva pronunciata Rodolfo me Franz era rimasto irremovibile.
Elisabetta non lo credeva capace di un gesto simile, ma nel suo cuore aveva paura di questa situazione e della testa dura del figlio.
Il giorno dopo, al ballo dell'Ambasciata, Sissi rivide gli occhi di Mary. In quell'occasione ella fu presentata in società.
Quando entrò la principessa Stefania, Mary non si inchinò nemmeno di un millimetro. La guardò in faccia con occhi pieni di rancore. La madre intervenne, furibonda, e la portò via immediatamente.
Sissi aveva seguito la scena. Comprese entrambi le situazioni e ne ebbe pietà: Stefania era una donna umiliata, anche se non lo sapeva, mentre Mary provava odio per la persona che inconsciamente le impediva di sposare l'uomo che amava. Quella notte, per Elisabetta, fu piena di incubi. Appena chiuse gli occhi, iniziò un sogno angosciante: da principio le immagini non erano nitide. Poi le apparve, con una luce abbagliante, la stupenda spilla che le aveva regalato Franz. Era più bella che mai ma, ad un tratto, nel suo riflesso vide due figure: una femminile e una maschile. Quando i visi si fecero più chiari riconobbe nella figura femminile gli occhi di Mary e in quella maschile i tratti di suo figlio. Subito iniziò un vortice confuso di immagini, colori, figure. Vide di nuovo la spilla, persone che non aveva mai visto, piramidi, faraoni e l'ultima immagine, più chiara di tutte le altre fu quella dei due giovani innamorati esanimi, in un lago di sangue.
Si svegliò madida, tremava e l'incubo l'aveva terrorizzata non poco. Si diresse verso la specchiera che stava a lato della finestra. Lì era appoggiata la spilla, la guardò e si pietrificò quando essa emanò un bagliore fioco che non poteva essere un effetto della luce, poiché la stanza era buia.
D'impeto prese il cofanetto dentro il quale era racchiuso in origine, e lo sigillò al suo interno. Poi, ancora tremante tornò a letto per lasciare posto a un sonno nuovamente tormentato da sogni angosciosi.

Il giorno seguente Rodolfo partì per Mayerling, dove aveva una residenza di caccia e la contessa Maria Larisch, cugina del principe, aiutò Mary a raggiungerlo.
La mattina del trenta gennaio 1889 Loschek,un valletto, correva per i corridoi per andare a svegliare il principe Rodolfo. Arrivato alla porta della stanza da letto, bussò più volte. Dall'interno non proveniva nessun rumore. Bussò di nuovo con più insistenza ma non rispondeva nessuno.
Allora, sempre più preoccupato forzò la maniglia e lo spettacolo che si presentò davanti agli occhi del poveretto era raccapricciante: il principe era accasciato per terra, ormai esanime. Insieme a lui una donna molto giovane alla quale neanche la morte aveva saputo portare via la bellezza.
Entrambe le loro tempie erano trapassate da un colpo di pistola. Accanto al cadavere dell'uomo vi era uno specchio, il valletto pensò subito ad un suicidio.
L'orribile notizia si diffuse a Mayerling e Giuseppe Emanuele Hoyos si recò di gran fretta a Vienna per informare l'imperatore Francesco Giuseppe.

Stava firmando alcune carte, di tanto in tanto si sentiva turbato dagli occhi di Sissi che lo fissavano dalla foto che aveva sullo scrittoio. Era così bella ed era un vero angelo.
La porta si spalancò e Giuseppe Emanuele Hoyos gridò: - Maestà! Si è ucciso!-
- Cosa stai blaterando? Chi si è ucciso?- disse inconsapevole della risposta.
- Vostro figlio…Mayerling…con un'amante…- rispose agitato
A quella frase l'imperatore diventò di sasso e gli cadde tutto ciò che aveva in mano.
La prima reazione fu dettata dal dolore e dalla rabbia: si scagliò contro l'uomo che gli aveva dato la notizia prendendolo alla gola.
Gli ordinò di dirgli tutti i particolari e di far preparare una carrozza. Destinazione: Mayerling.
Corse nella stanza dove Sissi si dedicava alla toeletta. Spalancò la porta, le serve stavano pettinando accuratamente i lunghi capelli di Elisabetta, urlò furibondo: - Me l'ha ucciso! Quella svergognata!-
Urlava e imprecava contro la ragazza, era rosso in viso e faceva paura.
Sissi, spaventata, gli chiese cosa era successo. Quando il suo orecchio captò, tra i discorsi confusi, la notizia della tragica morte del figlio, non senti più nulla, un vortice le assalì la testa, illividì e svenne.
Quando riprese i sensi, accanto a lei, il marito era scoppiato in un pianto straziante. Si sentiva tremendamente in colpa, era un fallito come padre.
Ella accarezzò i capelli di Franz con tenerezza mentre anche a lei cominciavano a scendere lacrime bollenti sul viso. Il dolore le lacerava il cuore. In un attimo la sua mente si ricordò dell'incubo di quella notte, il terrore la assalì. Era un sogno premonitore! Lei lo sapeva, era a conoscenza di ogni cosa fin dall'inizio, e avrebbe potuto impedire la tragedia. Cominciò a sentire un greve senso di colpa. Se lei avesse subito informato Franz della questione di Mary, di certo le cose sarebbero andate diversamente. Certo, lo scandalo non si sarebbe potuto evitare, ma almeno Rodolfo sarebbe stato ancora in vita. Dopo queste riflessioni, come un lampo, comprese il significato del sogno: la spilla… Rodolfo e Mary… un faraone… era una maledizione.
D'impeto ella si alzò, e stava per correre in camera sua quando Franz le disse che egli partiva per Mayerling.
- Vuoi venire?-
- No! - rispose angosciata lei- non ce la faccio, non posso vederlo in quelle condizioni.-
- Non vuoi restare ancora un poco vicino a lui, prima di non rivederlo mai più?- rispose Franz - pensaci bene..-
- Hai ragione… verrò, ma tu starai sempre accanto a me-


Arrivarono a Mayerling verso mezzogiorno e i domestici li accolsero in una sala dove i due erano adagiati, insieme, su un letto. Francesco Giuseppe era addolorato, Rodolfo era il suo unico figlio maschio, e di conseguenza l'unico erede. Quello che lo faceva infuriare era il fatto che la sua morte era stata procurata da una stupida ragazzina, neanche diciottenne.
I sentimenti che provava Elisabetta erano estremamente differenti: provava pena, infinita pena. Non vedeva suo figlio come un principe ma come un semplicissimo uomo, intrappolato in un vortice di amore così forte e senza speranza da trascinarlo fino alla morte.
Erano vicini, finalmente allo scoperto, agli occhi di tutti.
Si accostò al letto, mentre Franz parlava con alcuni uomini.
Mentre guardava i due corpi esanimi, con le lacrime agli occhi, si accorse di un anello d'oro al dito di Mary. Franz era occupato a parlare e lei, lentamente, prese quella piccola mano gelida e lo sfilò.
C'era inciso una frase: In liebe vereint bis in den Tod (insieme nell'amore fino alla morte).
Le lacrime le salirono si nuovo agli occhi, la commozione prese il sopravvento sul dolore, e non volendo intaccare nulla di quell'amore che, pur sembrando folle, era così immenso e profondo che neanche la morte poteva fermare, rimise l'anello dove l'aveva trovato.
Poi i suoi occhi si posarono su quelli chiusi di Mary. Era così triste vedere le palpebre che ormai celavano per sempre quegli occhi così belli, così giovani che non avrebbero più rivisto la vita.
La fissò ancora per un istante poi, tornò da Franz.
I giorni seguenti furono pieni di impegni burocratici, e non le diedero tempo di tornare a palazzo.
Quando finalmente potè tornare a Vienna, la prima cosa che fece fu di liberarsi della spilla. Non poteva tenere con sé un oggetto così terribile, che le aveva causato tanto dolore.
Si alzò al mattino presto, prese la spilla e si infilò un ampio mantello nero con il cappuccio.
Attraversò gli ampi corridoi per arrivare all'uscita e di soppiatto uscì dal palazzo.
Per la strada non c'era anima viva, era quasi l'alba, ed ella si dirigeva a passo deciso verso la riva del Danubio.
Quando fu arrivata, dalla tasca, tirò fuori la spilla.
La osservò. Le parve, come in un flash back, di vedere Mary e Rodolfo, nel riflesso della spilla. Si sentì terrorizzata, tremante, quella era la conferma che la spilla era maledetta.
Il sole stava sorgendo in quel momento, e disegnava i profili delle case. Senza esitare ella gettò la spilla nell'acqua.
Con un leggero tonfo sprofondò nell'acqua scura, e il sole sorse in tutto il suo splendore, illuminando il viso di Elisabetta.
Il gioiello maledetto era sul fondo del Danubio, ormai nessuno avrebbe mai pensato di andarlo a prendere.
La sua esistenza veniva così cancellata e la sua storia sarebbe rimasta nei fondali segreti del fiume. Per sempre.

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