Racconti e testi di Patrizio Spinelli


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A passo di gambero
Prendo immodestamente a prestito il titolo del nuovo romanzo di Umberto Eco, per svelare urbi et orbi ( ammesso e non concesso che la mia rivelazione possa fregare a qualcuno), che spesso compro il giornale non tanto per le notizie e la cronaca, di cui siamo ampiamente informati dai tanti telegiornali, ma lo compro soprattutto per le pagine culturali.
A mio modesto parere i giornali, sia quelli locali, sia quelli a più ampia diffusione nazionale hanno buone se non ottime pagine dedicate alla cultura.
Aggiornano,stimolano, suscitano interesse, sia che si occupino della cultura popolare, sia di quella a più alti livelli, dalla canzone, alla letteratura, al teatro, al cinema, al costume.
Devo confessare che in questi due ultimi giorni sono rimasto molto deluso dalle notizie che mi giungono dal mio quotidiano preferito che riporta sulle pagine di cronaca e non su quelle culturali, a cui, a mio modesto parere, avrebbero attinenza.
La prima notizia è del tenore Andrea Bocelli, che in una sua intervista, rilasciata al Times, proprio ieri, nel giorno di San Valentino,( ovviamente non pensando di ferire il cuore degli innamorati), in cui il grande cantante lirico dice che nessun giovane autore è capace di scrivere canzoni d'amore.
Secondo il celebre cantante, per quanto riguarda le canzoni d'amore, "siamo nel bel mezzo di una vera crisi creativa". E aggiunge : "sono ormai state scritte milioni di canzoni, e alla fine le note sono solo sette. Prosegue dicendo: mi chiedo perché insistiamo a registrare nuovi brani se non c'è più quell'ispirazione, quell'onestà che riesce a toccare i cuori delle persone?"
L'altra brutta notizia che apprendo oggi, è di quelle notizie che indispongono e che invitano ad una seria riflessione sulle moderne tecnologie.
" Addio scrittura, uccisa da un mouse ", questo il titolo della notizia. Secondo gli esperti, "prima la televisione, poi i computer, infine gli sms e chat, accerchiata dai nuovi mezzi di comunicazione, aggredita dai nascenti alfabeti, la scrittura a mano a mano scompare. Indugiare con una penna su un foglio è diventato un gesto in estinzione e molte attività legate a quel gesto un tempo abituale, naturale, come scrivere una lettera, copiare un indirizzo, sono ormai obsolete o, peggio antiche."
Si menziona anche un'articolista del quotidiano inglese "The Guardian", che si è occupato della stessa questione, e anche quel giornale scrive testualmente: " l'incapacità sempre più diffusa, soprattutto tra i giovani, di scrivere a mano, la perdita dell'uso della scrittura sia come abilità manuale sia come capacità di organizzare pensieri complessi. Lavoriamo pigiando tasti di un computer, scriviamo e-mail e non più lettere, usiamo carte di credito e non assegni, inviamo sms, la materialità e la fisicità della scrittura si sta dissolvendo nello specchio liquido di un display, la complessità del pensiero è ridotto ad un copia-incolla, così, giorno dopo giorno, assistiamo ad un passaggio epocale, ad una regressione generazionale, ad una trasformazione del pensiero."
Faccio un'ultima riflessione: a nessun dei due giornali è venuto di pensare ai tanti poeti e ai tanti scrittori amatoriali e non, che fino a poco tempo avevano le carte, i loro carteggi, o meglio dire i loro "sogni", gelosamente custoditi,come si suol dire dentro i "cassetti", mentre oggi quasi tutti li custodiamo dentro nostri "files" telematici , e volendo esagerare protetti da passwords.   

Essere poeti o poetici???
Apparentemente la domanda che nello stile vagheggia il tormentoso e tormentato dubbio amletico di shakespeariana memoria non parrebbe denotare o demarcare in modo così netto lo spartiacque che divide una sostanziale quanto abissale differenza tra essere poeta o semplicemente poetico. In ultima analisi ciò che fa la differenza è "essere" poeta nell'interezza e nell'essenza di sostantivo, o "poetico" nella sua forma di aggettivo.
Come ha fatto notare in una sua intervista il poeta contemporaneo, quanto apprezzato traduttore di poeti e scrittori angloamericani Alessandro Ceni, che riporto, qui di seguito integralmente:
"La poesia è ed è sempre stata e sarà sempre rara. La poeticità è ed è sempre stata e (purtroppo) sarà sempre diffusa. Il guaio attuale, se ho capito bene cosa intende, è la totale ignoranza della diversità dei due termini: la poeticità è ritenuta poesia (che è come omologare il fuoco di un camino al fuoco di un incendio), la cosa peggiore è l'aspetto, diciamo, culturalmente doloso del fraintendimento; voglio dire che mi pare sia in atto una vera e propria acquisizione consapevole di quell'ignoranza (anche in certe sedi di critica letteraria), cosicché semplicisticamente (e letalmente) la poeticità viene identificata con la poesia. Una volta di più nel nostro mondo si afferma come degna e meritevole l'immediatezza della superficie, il bagliore del traslato, giungendo alla pacificante e asinina equazione: poeticità = poesia. Secondo questa ammiccante democratica mediocrità chiunque, pertanto, è in grado di "esprimersi poeticamente" e, quel che è peggio, di farsi pubblicare. L'importante, per ora, è che non ci obblighino anche a farsi leggere."
Certo per un poeta qual dir si voglia amatoriale o non professionale, questa inconfutabile quanto squisita riflessione, suona sibillina e diciamolo pure, un poco inquietante. Parafrasando il buon Edoardo De Filippo si può dire che per quelli come, gli "Esami non finiscono mai!". Personalmente mi sono già proposto come "writer" alla rinomata ditta cioccolatiera Perugina per scrivere le frasi d'amore da mettere dentro l'incarto dei suoi celebri "baci", confidando nella loro infinita " dolcezza". che perlomeno loro mi trovino abbastanza "poetico" per l'ingaggio, che per me, col cuore, lo confesso, sarebbe più che un apprezzabile traguardo.  

La società di apprezzamento delle nuvole
Ho letto ieri sulle pagine di cronaca di un noto quotidiano nazionale, che in Inghilterra un eccentrico signore, tal Gavin Pretor-Pinney , è l'ideatore e curatore di un Sitoweb per gli estimatori della forma delle nuvole e che questo suo particolarissimo Sito, che risponde all' URL www.cloudsappreciationsociety.com,  è visitato mensilmente da almeno sette milioni di persone, portandolo così a essere uno dei siti più visitati del Regno Unito e ovviamente non per le previsioni meteorologiche, così care agli inglesi, da diventare i loro proverbiali e principali argomenti di conversazione.
E' inutile che vi confessi, che io sono rimasto positivamente colpito da questa inattesa quanto bellissima notizia, a dimostrazione del fatto che fortunatamente nel mondo ci sono ancora molti sognatori, gente che a pieno titolo può letteralmente dire di "avere la testa fra le nuvole", senza per questo sentirsi poco realista o distratta, come vuole significare nell'accezione comune quando si apostrofa qualcuno con quel termine.
Ritengo che inventarsi la "professione" di nimbologo per passione e non per lavoro come ha fatto Sir Gavin Pretor-Pinney, meriti tutto il nostro plauso e il nostro riconoscimento, se non altro per la grande riserva di "risorse" fantastiche riesce a liberare, attraverso l'attenta, appassionata estrema osservazione delle masse nuvolose che riesce a classificare; e per effetto domino immaginiamoci quante persone riesce a far sognare sulle belle immagini fotografiche delle nuvole riprese dall'alba al tramonto mentre affollano così abbondantemente i plumbei cieli inglesi nell'arco delle stagioni.
Mi permetto ancora di osservare che se le nubi hanno sempre ispirato i poeti e in particolar modo i poeti inglesi da W. Wordsworth , a S.T. Coleridge, indubbiamente anche Sir Gavin Pretor-Pinney è un poeta senza saperlo di essere, e m'azzardo a dire che forse solo per questo motivo può spiegarsi il grande successo che sta ottenendo il suo Sito. Leggere, apprezzare e fantasticare sulle forme delle nuvole che scrivono la loro storia sulla "lavagna del cielo" richiede doti di grande sensibilità e di una dinamica e straordinaria fantasia  

Sulla letteratura in genere,  pensieri e citazioni  in ordine sparso
Se c’erano dubbi, ora in piena era internettiana, questi sono del tutto fugati. Gli italiani si riconfermano essere un popolo di poeti e scrittori in crescita esponenziale.  Sul Web ci sono centinaia o forse migliaia di siti poetici della cosiddetta poesia amatoriale, cadetta o non professionale o nazional-popolare e tendono a crescere ogni giorno che passa.  I pochi autori, ( si potrebbe tranquillamente dire i soli prosatori, perché la poesia tuttora non da pane), che sono riusciti a raggiungere i traguardi del successo per propri meriti  e anche quelli che l’hanno raggiunto grazie alle lobby dei grossi gruppi editoriali per motivi meno nobili e inconfessabili, tendono a fuoriuscire da questi siti, che non sono più convenevoli e adeguati al loro nuovo status letterario, se mai vi avevano fatto prima, la loro comparsa, rovesciando una delle più famose citazioni latine, in “ubi minor major cessat” e se ne fanno uno proprio, dove più che pubblicare, fanno vetrina delle loro opere elargite in dosi d’assaggio e aprono blog e campagne di fidelizzazione con i propri lettori e estimatori. 
Parliamo ora della grande letteratura. Angelo Guglielmi ex direttore di Rai Tre, critico e infaticabile recensore letterario, in sua intervista apparsa su un settimanale l’estate scorsa dice testualmente : “Nessuno oggi apre nuovi campi dell’immaginazione. Arte e letteratura producono opere tutte uguali, fatte con maestria ma piatte: non dicono nulla che si sappia già.  E continua :  Da noi il Duemila non è iniziato, perché non ha ancora mostrato quale sarà il suo volto. Al contrario dei secoli precedenti, che si erano dichiarati fin dai primi anni. L’Ottocento partì sull’abbrivio illuministico e nazionalistico messo in moto dagli ideali della Rivoluzione francese. Il  Novecento debuttò contro il verismo e il naturalismo ottocenteschi, imponendosi in fretta come il secolo delle avanguardie, del rifiuto della razionalità come unica guida del mondo. Futurismo, Pirandello, Svevo….ma anche la relatività di Einstein, a provare che alcune certezze non c’erano più.  
Il Duemila non ha volto. Continua a riproporre stancamente il postmoderno, che da anni rimastica l’esistente. La vitalità della cultura nasce dalla contraddizione, dal rifiuto di ciò che è avvenuto prima. E invece continua a trionfare la tolleranza verso il passato”.   
Certo qualcuno obietterà che Guglielmi non è un critico letterario di spessore, che fa la diagnosi, ma non da consigli per la cura, nè indica verso quali orizzonti, la letteratura dovrebbe a suo avviso  muovere. Ma non è questo, il nocciolo della questione che oggi intendo sviscerare, impresa peraltro molto ardua, se non impossibile.
Altri potrebbero discettare che di fronte a una bella prosa o una bella poesia di autori contemporanei, che prendono a riferimento modelli poetici e stilistici del passato, non troverebbero niente da eccepire, perché un classico è sempre un classico. Un discorso accettabile, ma francamente non si può fare a meno di  avvertire un senso di  contrasto e di inadeguatezza al linguaggio dei tempi moderni o postmoderni che dir si voglia.  
Il fatto Guglielmi  sia uno dei pochi a rilevare e a denunciare questo dato oggettivo, (perlomeno secondo il suo autorevole punto di vista ),  in cui versa l’odierna letteratura potrebbe essere da stimolo a trovare effettivi sbocchi e nuove mete per chi la letteratura la  pratica.
Potrebbe essere utile per tentare di  esperire l’ auspicata ricerca a cui lo stesso Gugliemi invita,  citare al riguardo anche Umberto Eco: Il poeta contemporaneo se pur compie la stessa operazione del poeta antico ( organizzando in particolare rapporto contenuti semantici, materiale sonoro, ritmi) persegue evidentemente una intenzione diversa: non riconferma in modo “bello”, in modo “piacevole” un linguaggio accettato e i consueti moduli di concatenamento delle idee, per proporre un uso inopinato del linguaggio e una logica non consueta delle immagini, tale da dare al lettore un tipo di informazione, una possibilità di interpretazioni, una rosa di suggestioni, che sono al polo opposto del significato come comunicazione di un messaggio univoco.”
Per oggi basta così. Buona lettura a tutti.         

Uso impudico e menzognero del linguaggio poetico nella pubblicità
Chi di noi entrando in un supermercato, o ascoltando qualche spot pubblicitario, non è stato affascinato, ammaliato dal marchio o dal nome altamente suggestivo, evocativo di una qualsiasi zuppa del casale, o di un minestrone della valle degli orti o dal prodotto di un qualsiasi mulino?
Chissà quante persone sono state rimaste suggestionate e toccate a livello “subliminale” da nomi o marchi a così alto “contenuto” poetico?
I pubblicitari hanno fatto uso di “simboli” per ovvi motivi e strategie di comunicazione. Quei determinati simboli dovevano trasmettere un’infinità di messaggi al consumatore. Messaggi a livello diretto, o subliminale, comunicativi di una vasta di significati di bontà, genuinità, solarità ecc.ecc.
Mi ricordo di un emblematico quanto singolare episodio occorso a una simpatica e romantica vecchietta incontrata anni fa in un supermercato, forse vittima della cosiddetta “sindrome compulsiva” degli acquisti”, o dell’efficace azione “sub-limine” della pubblicità, si era riempita due interi carrelli giganti stracolmi di questi prodotti e se ne andava trasognante verso la casse .Le si leggeva sul volto che le stava venendo l’acquolina in bocca e che stava sognando ad occhi aperti già pregustandosi la loro bontà, o forse era inconsciamente la sua “stuzzicata” immaginazione a riportarla indietro col tempo, agli antichi sapori e amori vissuti tra belle valli degli orti e tavoli imbanditi dentro antichi casali per pantagrueliche e goderecce feste paesane del bel tempo andato?
I pubblicitari lo sanno bene che basta evocare l’immagine di una qualsiasi “valle degli orti”, per fare percorrere alla nostra fantasia una miriade di percorsi suggestivi e affascinanti, densa di significati e significanti , che ci riportano con la mente ai bei tempi di un mondo rurale e genuino affaccendato nella cura dei sani prodotti della terra, per indurci guidati e orientati nell’acquisto.
Soltanto se usciamo dall’alone dello “straniamento” in cui siamo stati indotti, e ritorniamo a ragionare con la nostra mente, e assai facile capire il “giochetto” , e renderci conto che i prodotti pur genuini che siano vengono da coltivazioni di serra e che sono stati lavorati in un generico capannone di una qualsiasi zona industriale delle nostre città.
Al pubblicitario che è per natura un “creativo”, possiamo solo rimproverare di aver abusato in modo impudico e “menzognero” delle infinite possibilità offerte dal linguaggio poetico per operazioni commerciali, non essendo previste per queste “ingerenze” azioni in termini di legge.       

"Riappropriarsi della parola attraverso la rete" di Salvatore Armando Santoro

Mi permetto di fare un breve commento a quanto esposto da S.A. Santoro, e nella replica di R. Montagnoli, alla crescente diffusione e successo della cosiddetta poesia e prosa "amatoriale" attraverso la Rete.
Anch'io concordo con ambedue gli amici, sul fatto che un esercito di persone senta il bisogno di "esibirsi" o meglio di "comunicare" attraverso il medium della Rete, e lo faccia con la massima spontaneità e liceità possibili, senza sentirsi vincolati a nessun "canone" o "regola" letteraria qual dir si voglia , in quanto come giustamente asserisce Santoro, probabilmente molti degli aspiranti poeti o scrittori cosiddetti "amatoriali", (termine di cortesia ampiamente e/o ingiustamente abusato), possono candidamente ignorare della "poetica del fanciullino" del Pascoli o della metrica delle Odi Barbare del Carducci, senza sentirsi depauperati o declassati nella loro produzione "pseudo letteraria". Mi permetto solo di aggiungere, in quanto Santoro nella sua lunga e dotta disquisizione non lo sottolinea, o forse , a me pare, non lo evidenzia abbastanza, purchè davvero si rimanga all'interno dei "territori protetti " di questo tipo di prosa o di poesia "non professionale", che può sinceramente e indiscriminatamente infischiarsene del giudizio della Critica o degli Accademici, qualora questi ultimi abbiano l'interesse o la voglia di occuparsi di questi multiformi autori internettiani, cosa che personalmente ne dubito. Un altro discorso a mio parere, è di vedere chi, nella sconfinata giungla della Rete ha le doti e le possibilità di emergere, per fare il salto di qualità verso l'Olimpo dove banchettano i Grandi e le Muse, e qui davvero non si può scherzare, né improvvisare, nè affidarsi alla diagnosi di apprendisti stregoni. Qui "hic et nunc", l'aspirante poeta o scrittore, non può affidarsi solo al successo decretato dal "populismo" o dalle acclamazioni del popolo della Rete, anche se fossero significative, come numero, ma deve sottoporsi allo "screening", e alle valutazioni più complete e qualificate della Critica e dell' Accademia che indaghi sui reali valori letterari di un'opera, in modo "super partes", altrimenti davvero si rischia di trovare, come dice Montagnoli, opere come il Codice da Vinci in testa alle classifiche delle vendite per settimane, pur restando opere di scarso valore letterario. Certo che, se si intende fare un'operazione meramente commerciale in grande stile, non c'è critica o accademia che tenga, basta essere, non degli scrittori ma buoni scrivani con doti affabulatorie, imbastire una "fabula" avvincente e il resto lo fa il battage pubblicitario dell'editore, l'opinionista prezzolato e il resto vien da sé, basta essere del "giro" che conta.
Saluti e buone vacanze a tutti.
        

Il Caffè delle "Giubbe Rotte"
Il Caffè delle "Giubbe Corte", è un caffè letterario un po' spartano, campagnolo, un locale dove si respira una soffusa e villica atmosfera tardo-bohemienne , che un gruppo di artisti di provincia, o come si diceva una volta, del contado toscano, ha eletto quasi a loro esclusivo e mitico punto di ritrovo. Ha un'altra particolarità di non poco conto: è un luogo "irreale", in quanto non esiste nella realtà, ma è solo frutto della fantasia dello scrivente, che candidamente lo ammette e confessa, gli piacerebbe tanto esistesse.
Nelle intenzioni dunque dell'autore di questo racconto surrealista e degli immaginari frequentatori, dovrebbe fare da contraltare al mitico e aristocratico Caffè Letterario, le "Giubbe Rosse" della Firenze colta e letteraria, dove per quasi tutto il Novecento sono passati e si sono incontrati una folta schiera di scrittori, poeti e altri innumerevoli artisti, e che tuttora esiste, anche se non è più il tempio dell'intellighentia", o dell'arte e ha perso molto del suo passato charme e splendore
Alle "GiubbeRotte" invece, sfilano sotto le luci dei riflettori del locale, una eterogenea ed eterodossa genìa di artisti e di talenti o perlomeno di sedicenti tali personaggi, di diverse discipline e generi artistici , di un limitato e ben delimitato territorio che popolano il sottobosco della grande foresta dell'Arte, quella con la A maiuscola, alla spasmodica e chimerica ricerca di balzare alle luci della ribalta e di imboccare la via giusta per spiccare il volo verso la gloria e il successo, ingraziandosi con riti e rituali anche i buoni uffici della "dea bendata". Vi incontri pittori avanguardisti e neoavanguardisti, surrealisti, astrattisti, figurativi, figurinisti, pittori "della domenica" e anche del sabato, illustratori, vignettisti, scultori e scalpellini, galleristi, faccendieri affaccendati a curare i loro artisti e i loro interessi, poeti, poetesse, poetucoli , poeti principianti, amatoriali, stornellatori , rimatori d'ottava rima , trovatori della poesia cortese e provenzale, critici letterari, dell'arte figurativa e scultorea, critici teatrali e della cinematografia, editori e edicolanti, eruditi, intellettuali, pensatori pensierosi o spensierati e moderni clerici vagantes con goliardici, irriverenti e inediti "Carmina Burana". Vi incontri scrittori, scribacchini, romanzieri , novellieri, scrittori di fiabe e di favole, giornalisti e giornalai , cantanti, musici, ugole d'oro, solisti insolenti e cinguettanti, cantautori, melodrammatici, filodrammatici , operettisti, teatranti, commedianti della commedia dell'arte, drammaturghi, demiurghi, monologhisti, saltimbanchi. giocolieri, prestidigitatori, illusionisti, maghi, gente dello spettacolo e dell'avanspettacolo, veline e velone, ballerine , stilisti di moda, mannequins, gourmets, sommeliers e vinattieri cantinieri, e degustatori tutti indistintamente circondati da un altro ricco e folto entourage di fauna umana , di altri pseudo artisti squinternati e stravaganti o cani sciolti adulatori e adulanti e ossequienti.
I più assidui frequentatori di questo esclusivo circolo artistico, hanno fondato perfino delle riviste, per diffondere nel mondo la loro voce, il loro credo, i loro riverberi di luce, le loro idee originali, concettuali, strutturali, illuminanti, autoreferenziali, le loro opinioni, le loro prospettive, le loro logiche, le loro politiche, le loro aspettative. Una di queste dal taglio decisamente minimalista , irriverente e dissacratoria, è "La ciuca letteraria", e poiché come dicevano gli antichi latini "nomen omen", fa presagire, per la rivista un futuro più che modesto e forse capace di ritagliarsi appena uno spazio esiziale sotto la grande chioccia dell'arte e della letteratura. Fa da controcanto per gli artisti delle arti figurative, pittoriche e della grafica la rivista "La Porcilaia Gratia Artis " Su ambedue le riviste, nelle reciproche discipline vi si pubblicano recensioni e poesie, racconti, novelle, fiabe, con tutti i crismi e gli onori e i salamelecchi del caso, mentre la rivista delle arti pittoriche e scultoree sciorina recensioni e presentazioni di "vernissages" di pittura, scultura e cosi via, commenti e ampie dissertazioni della critica militante, che scende in campo a presentarci con raffinata eloquenza e magniloquenza le opere, la stoffa, la personalità i più reconditi pensieri e sfrucuglia nell'anima dell'artista portando alla luce la sua realtà oggettiva e soggettiva
Ma quel che più personalmente mi attrae e mi fa sognare di questa riviste , o di simili riviste che spesso abbondano nelle gallerie d'arte e negli spazi espositivi sono appunto le accurate, particolareggiate, enfatizzanti, sublimi e sublimizzanti recensioni, spesso molto più belle delle opere stesse, sia che si tratti di poesie, racconti, opere pittoriche, sculture, etc, etc; dove la critica o i laudatores di turno sfoderano tutte le loro armi segrete e palesi per farci immaginare e vedere quello che non c'è, ciò che non esiste, con linguaggi apparentemente seduttivi e seducenti ma astrusi capaci soltanto di farci sognare portandoci con le parole nell'assoluto del nulla, con forse l'unico e incoffessabile intento di far fuorviare o dirottare il nostro sguardo da quell' obbrobrio che secondo lorsignori dovrebbe essere un capolavoro dell'arte, cimelio d'unicità. E' singolare e stupefacente come delle volte per degli " imbrattatele ", tanto per fare un esempio, senza per questo voler criminalizzare anche gli artisti seri, la critica riesca a scomodare le leggi che regolano l'Universo, tutta la psicanalisi freudiana o a disquisire sui Massimi Sistemi, per convincerci della nullità artistica che inoppugnabilmente traspare e trasuda da simili sconcerie e mostri che assai spesso hanno l'insolente opportunità di deturpare o devastare spazi espositivi e gallerie e quel che è peggio talvolta di prendere la strada per arrivare ai soggiorni delle nostre abitazioni o come arredi urbani di piazze cittadine.
Non si salvano neppure tanti poeti e tanti scrittori, narratori e una pletora di artisti delle diverse discipline, per i quali vale lo stesso teorema, ma per ragioni di spazio e per non annoiare ulteriormente chi ha la bontà di leggermi chiudo qui il discorso,
scusandomi se qualcuno si sente offeso dalle mie parole, ma giuro la mia intenzione era ed è solo di fare un po' di satira, e come si legge nei titoli di coda dei films, anch'io scrivo: ogni riferimento a fatti, cose e persone è puramente casuale.    

L'incantatore di quadrifogli
Mizi, ex sessantottino, ex contestatore sociale, ex hippy , reduce e nostalgico di quella che ormai si può considerare la "fortunata" generazione dei cosiddetti "figli dei fiori", sembra portare testardamente avanti un suo intimo, personalissimo nonchè utopistico "progetto di vita ", in questo neonato terzo millennio, che per tante generazioni di giovani, qui nell'Occidente, appare oggi privo di quei valori e di quegli stimoli a cui tenevano e con i quali sognavano la generazione degli odierni cinquantenni. Mizi, vive alla periferia di Firenze, ma non è un emarginato; anzi fa di tutto per rendersi "attivo" con sue personali "iniziative culturali", che lo portano a cercare il contatto con la gente. Abita in una misera casetta e campa con una una misera pensione di'invalidità, ma è ricco di cuore e di fantasia. Non è un artista di strada, anche se avrebbe tutti i vezzi e le qualità per esserlo. Scrive ministorie e favole, ma non si considera uno scrittore né un poeta, anche se ne ha stoffa da vendere. E' il più grande cercatore e collezionista al mondo di quadrifogli, e di questo ne va orgoglioso e se ne vanta. Sa di possedere seconda un'antica credenza popolare che attribuisce ai quadrifogli le proprietà della buona sorte, una "miniera della fortuna" e si bea di poterla regalare indiscriminatamente a chiunque lo conosca o lo avvicini o rientri nelle sue grazie. Le sue scelte di vita lo hanno indubbiamente aiutato a essere un personaggio di quelli che non puoi fare a meno di notare, quando li incontri. Ha passato da qualche anno la cinquantina; è alto e grosso con una folta barba brizzolata da filosofo ottocentesco, o forse meglio dire con un look da mago, tentati come siamo, ad attribuirgli poteri paranormali e di fare magie a fin di bene. A ben guardarlo dall'aspetto, sembra veramente un folletto, un " folletto metropolitano", come lo hanno più volte ribattezzato i giornali che via via si sono interessati a seguire le sue stravaganze di vita e "artistiche". Lo racconta e divertito lo ammette lui stesso di essere un folletto in quanto semanticamente dice la parola folletto è un diminutivo di folle, pazzo, squinternato, come sente un po' di essere. Racconta faceto che da quando è diventato così alto e grosso è dovuto uscire dal libro delle favole perché non ci stava più dentro.
Mizi, è il più grande cercatore e collezionista al mondo di quadrifogli. Lui sa da tanti anni, che la tarda primavera o gli inizi dell'autunno, sono i due periodi dell'anno in cui germoglia il trifoglio. E' in questi due periodi di grandi cambiamenti nei cicli vitali della natura che lui si dedica anima e corpo, presto di buon'ora al mattino a perlustrare a passi lenti i grandi prati ancora bagnati dalla guazza, che a Firenze circondano il Parco delle Cascine, alla ricerca dei suoi amati quadrifogli. E di quadrifogli ne trova davvero tanti; sembra quasi succedere come lui dice, che i quadrifogli cerchino lui. Come sappiamo il quadrifoglio non è una specie di pianta che non esiste in natura, ma è figlio di un fenomeno eccezionale, di un' "anomalia", simile ad un parto gemellare o plurigemellare della pianta del trifoglio. Questa caratteristiche e proprietà davvero rare hanno portato il quadrifoglio ad essere considerato sacro già alla dea Iside, in Egitto, al tempo dei Faraoni, e presso anche gli antichi popoli celtici. Dunque il quadrifoglio si è guadagnato la fama di pianta portafortuna sin dalla notte dei tempi. Mizi, nella sua lunga "carriera", ha finora trovato più di quarantamila quadrifogli, oltre cinquemila pentafogli, quattrocento esafogli, una sessantina di eptafogli, tre octofogli e un esemplare veramente unico di enafoglio, che è stato per la sua rarità e forse unicità, oggetto di studi da parte di botanici. Dopo averli con cura raccolti, li plastifica con un marchingegno di sua invenzione, li classifica, li numera e li conserva in scatole, su scaffali di legno nella sua modesta casa, che è diventata quasi un magazzino di stoccaggio della sua strabiliante e veramente unica al mondo collezione . Per usare una metafora senza abusare, si potrebbe dire che Mizi, dorme su due cuscini di quadrifogli. Se lo volesse, potrebbe essere già finito sul grande libro dei Guinness dei primati, come maggiore collezionista al mondo di quegli esemplari ; ma poiché dovrebbe bloccare la sua collezione ad un ben determinato ed ufficializzato numero di quadrifogli da lui trovati, per non precludersi la possibilità di aggiungere ogni anno altri, ha deciso di rinunciare a entrare nel libro dei Guinness.
Oltre a questa sua grande passione, lui scrive delle belle favole e delle ministorie e poi ne elabora personalmente la stampa e la grafica con un vecchio computer, facendone delle edizioni mignon che poi lui regala ai piccini e ai grandi, fermo a qualche angolo delle vie del centro di Firenze, senza chiedere né volere in cambio niente, anzi la gente, al primo approccio nutre diffidenza e forse infondati sospetti verso di lui, ma dopo averci scambiato qualche parola, lo apprezza per la sua bontà d'animo e la sua generosità, perché come ha scritto lui stesso in una favola, " Viviamo in un mondo dove abbiamo quasi tutto, ma la cosa che più manca è un po' d'amore, e l'amore può essere solo regalato!".   

Il paese sommerso
C'era una volta in Garfagnana, un paesino di poche anime di nome Fabbriche di Careggine. Così inizierebbe una fiaba, per portarci nel meraviglioso mondo della fantasia. Ma qui non si tratta di una fiaba, anche se ha tutti gli ingredienti per esserlo. Il paesino c'era e c'è ancora oggi, ma è sommerso dall'acqua. Se non sei del posto e non conosci la sua storia, non potresti mai sapere o sospettare della sua esistenza.
E' un paesino medievale, e si trova ai piedi delle Alpi Apuane a ridosso delle superbe pareti del Roccandagia e del Sumbra, due vette importanti che toccano i 1700 metri, e forse, uno dei due li supera. Fu fondato, a quanto ne sappiamo in pieno Medioevo, da una colonia di fabbri provenienti dalla zona di Brescia che si erano trasferiti in quella zona per la lavorazione del ferro. Nelle forre di quelle remote e selvagge montagne scorreva e scorre ancora oggi l'Edron, un tumultuoso torrente che veniva sfruttato per azionare i magli di quegli antichi e rudi fabbri.
Fitte foreste coprivano quelle montagne e costituivano un' altra importante e preziosa risorsa, il legname per alimentare il fuoco delle fucine. Acqua e fuoco, i due primordiali elementi della Natura erano abbondanti e a disposizione delle rozze e chiassose botteghe di quegli operosi adepti del dio Vulcano, le cui fumanti fucine forgiavano e sfornavano zappe, vanghe, badili, falci, e altri attrezzi agricoli molti richiesti nelle campagne a quei tempi, riempiendo ogni giorno il paese e la valle dei vigorosi e assordanti colpi dei magli.
A testimonianza e a riprova di ciò, esiste tutt'oggi una località immediatamente a valle dell'attuale paesino sommerso che porta il toponimo di Ferriera. L'attività fabbrile fu la secolare risorsa economica del paese, ma è nel Settecento, secolo in cui fu costruita la via Vandelli che attraversava il centro del paese e congiungeva la Garfagnana, "aspra e selvaggia", a Massa e a Modena, ad imprimergli il massimo sviluppo. Ma via via che si consumava il declino di quella antica strada, anche l'attività di quel paesino di fabbri si esaurì. Poiché dovevavano campare e andare avanti, gli antichi artigiani dell'arte febbrile, di quel minuscolo paese, ritornarono a fare gli atavici mestieri di agricoltori e pastori, patendo molto spesso la fame in quella terra poco ospitale e feconda per le attività agricole. Agli inizi del Novecento, molti emigrarono verso l'Inghilterra, verso l'America e anche verso la lontana Australia, seguendo un po' le orme di altri abitanti dell'impervia Garfagnana, dando così origine alla leggenda, che perfino Cristoforo Colombo quando arrivò nelle Americhe, vi trovò un lucchese che vendeva statuine di gesso, in ossequio ad un'altra gloriosa attività, quella della produzione di statuine di gesso per i presepi, un tempo ampiamente diffuse in quelle povere zone garfagnine. Gli altri pochi che non se la sentirono di andare via, in cerca di fortuna per le strade del mondo, tirarono avanti con la scoperta di una nuova risorsa, le cave di marmo del bacino marmifero di Vagli. Ci fu conseguentemente una ripresa delle attività produttive di quella martoriata zona. Per la lavorazione del marmo fu opportunamente decisa la costruzione di una prima e piccola centrale elettrica che portò ben presto il paese a godere di una rinascita economica, fino alla meta del secolo scorso. Proprio in quegli anni a metà del Novecento, la società dell'energia elettrica, che allora si chiamava Valdarno decise di costruirvi un'imponente diga, alta quasi cento metri. Fu sbarrato il corso del fiume Edron, e le persone che ancora vi abitavano, circa 150 anime, furono costretti a malincuore a lasciare le loro povere case di pietra ed evacuare il loro paesino, ai piedi delle verdi montagne. In poco tempo l'acqua sommerse completamente il paese e la vallata, formando il lago artificiale di Vagli.
Ora il lago viene svuotato per manutenzione circa ogni dieci anni. E' l'occasione buona per essere visitato, ed infatti l'ultima volta che ciò accadde, fu nel 1994, e l'evento richiamò un sorprendente afflusso di visitatori. Lo visitai anch'io e fu davvero un'esperienza indicibile e toccante, quasi magica. Era una calda e afosa giornata estiva in quella valle, e ricordo che il sole e l'aridume avevano crepato il fango che si era depositato dappertutto, dando a tutta la zona un aspetto desertico e lunare. Le povera mura di pietra locale delle case, di quel minuscolo paesino, seppur coi tetti scoperchiati erano tutte in piedi, scarnificate, ed essenziali senza più porte e finestre ma ricoperte di uno spesso strato di fango, che dava loro un color terra con scalature dal beige al marroncino, a secondo della loro esposizione al sole. Dappertutto sembrava regnasse un'aura di magia, irreale, spettrale, al di fuori del tempo. Sembrava di essere in mezzo a un sogno o forse ad un incubo. Vicino alla chiesetta con l'abside e il campanile ancora intatti, incontrai un vecchietto, seduto sulla soglia della porta di quella che doveva essere stata un tempo la sua casa, che aveva le lacrime agli occhi. Si vedeva da come guardava dentro quelle vuote stanze, seppur piene di luce solare che filtrava piena dall'alto delle mura senza più tetto, che la sua mente era tutta rivolta ai ricordi della sua vita legata a quel posto. Mi soffermai e gli chiesi conferma, come avevo già capito, se fosse stato un vecchio abitante di quel paese. Il vecchio, degnandomi del suo mesto sguardo, in silenzio annuì. Compresi che non aveva voglia di parlare, e subito lo salutai.
Mi parve di leggere nei suoi occhi e sul suo volto lo strazio di chi deve rinunciare a vedere i propri ricordi, la casa, il paese, l'ambiente, i volti, i sapori, gli odori, i colori dove nei suoi più giovani anni, chissà, aveva vissuto le sue più intense emozioni e forse i suoi momenti di vita più belli della sua vita. Sembrava il volto di un uomo a cui erano venuti a mancare dei riferimenti, delle certezze e che si stava trattenendo lì il più a lungo possibile per fare un pieno di gioia prima che l'acqua ritornasse a coprire di nuovi i sui ricordi ed un pezzo della sua vita.    

L'uomo che scolpiva le radici
Dedo era un uomo di bassa statura, ma dal fisico robusto. Giunto all'età della pensione dopo una vita di lavoro come artigiano muratore, aveva scoperto di avere una grande passione per la scultura su legno. Una scoperta tardiva di un'arte che col passare degli anni si rilevò per lui feconda di opere e di personali soddisfazioni come artista.
Aveva l'abitudine di passare per un paio di mesi le vacanze estive insieme alla moglie in un bel campeggio vicino all'Argentario, dove piazzava la sua roulotte e lì andava alla ricerca di radici di piante sradicate e portate sul litorale dalle onde del mare. Solitamente erano radici di piante di macchia mediterranea come l'erica , una pianta molta pregiata, un tempo molta richiesta dai "ceppaioli", nelle zone costiere della Maremma per fare i fornelli delle pipe. Altre piante che lui trovava e che riteneva di un certo pregio per i suoi lavori erano le radici di lillatro e di mortella meglio conosciuto col nome di mirto, la pianta che secondo la mitologia era molto cara a Venere, e con la quale si usava cingere nei convivi la testa dei poeti. Dedo, aveva un vero e proprio fiuto a scovare negli anfratti degli scogli, o quand'era più fortunato nella ricerca di trovare sulla battigia, le radici di queste piante, dalle forme bizzarre e polimorfe che avevano già "tirato" la salsedine, o che avevano già un certo "movimento", come lui diceva, e che sapeva sfruttare al meglio quando le lavorava.
Al mare, dunque iniziò a dare sfogo a questa sua irresistibile passione. Cercava le radici e subito si metteva al lavoro, richiamando il più delle volte intorno a sé, uno stuolo di curiosi che si fermavano incantati a guardarlo mentre scolpiva, Essi rimanevano sorpresi da quello che Dedo riusciva a tirar fuori da quei pezzi di legno. Dopo qualche anno, nel campeggio dove era solito passare le vacanze, era diventato un'attrazione e una celebrità raggiungendo una fama che oltrepassava i confini nazionali, in ragione del fatto che il campeggio era frequentato da tedeschi, svizzeri, scandinavi, olandesi e altri vacanzieri europei. Per soddisfare le richieste dei campeggiatori, che ormai le riconoscevano le doti di apprezzato e fantasioso scultore, il direttore del campeggio che era diventato un suo caro amico, gli organizzava tutte le estati un minirassegna personale delle sue sculture, facendo diventare la mostra estemporanea allestita, come l'evento culturale del campeggio. La mostra che per i primi due anni era partita in sordina, senza grandi clamori, dopo qualche anno , grazie anche all'interesse suscitato tra i vacanzieri , richiamò l'attenzione e l'interesse di qualche critico d'arte, in vacanza da quelle parti. Uscirono articoli sui giornali locali che parlavano delle sue sculture in termini di grande favore e apprezzamento. Erano i segni indicatori che la sua arte aveva imboccato la giusta direzione verso gli onori e i successi futuri. Dedo, fu ben presto contattato da persone che facevano parte dell'entourage di alcuni galleristi fiorentini e gli proposero una sua mostra personale presso i locali di una famosa galleria fiorentina. Il catalogo fu firmato da un noto critico d'arte di un giornale che senza esagerare, ne sono anch'io convinto ne tesseva le giuste lodi riconoscendogli l'insolita maestria nell'arte di sapere interpretare la natura, in quanto le sue opere erano il risultato di un "semilavorato" naturale. I suoi lavori, o meglio le sue opere che ho avuto occasione di vedere sono veramente fantastiche. Sono sculture antropomorfe, zoomorfe, biomorfe che partono dai suggerimenti già "scritti" nella materia, in questo caso come già detto, nei pezzi di legno morti e che Dedo, riesce a interpretare in modo magistrale, restituendoli a nuova vita attraverso la sua sublime arte. Ecco allora presentarsi ai nostri occhi, volti dalle sembianze orientali, gabbianelle, aironi, pesci, gnomi, draghi, angeli, mostri e un infinità di altri esseri, dando l'impressione come gli ha lasciato scritto una sua ammiratrice francese in occasione di una mostra che con lui "la materia muore solo per un istante".   

Il rabdomante e la figlia della felicità
Era un contadino robusto, tarchiato e sanguigno di mezza età ,d'origine marchigiana. Poi si era trasferito in Toscana, e si era acquistato un bel podere per tutta sua famiglia su una bella collina che per la sua discreta altitudine era chiamata "Poggio al Cielo". La mia famiglia, quand'ero poco più che un bambino di cinque anni, aveva un podere che confinava con quello del rabdomante.
In campagna, nella nostra zona, quell'uomo, era riuscito a poco a poco a farsi un nome ed una fama come "cercatore d'acqua". I contadini dicevano che non sbagliava mai, e che aveva la rara dote di trovare vene sotterranee d'acqua di grossa portata. E 'fin troppo facile capire che per la campagna, per le piantagioni , per le coltivazioni, per gli animali da lavoro, da ingrasso, per gli animali da cortile l'acqua è vita. Per questo sue capacità , a detta di alcuni soprannaturali e per altri confinanti con la magia si parlava di lui come di un personaggio avvolto da un'aura di magia e di mistero. Era molto richiesto, perché tanti contadini, temendo e non a torto estati torride e asciutte, volevano avere a disposizione del proprio podere, il pozzo artesiano per irrigare. Avvenne che una famiglia delle nostre zona, che abitava poco distante da noi, decise di fare un pozzo e chiamarono proprio lui per la ricerca dell'acqua. Era una calda estate di tanti tanti anni fa, e avendo saputo della cosa, ero curiosissimo di vedere come facesse quell'uomo a cercare l'acqua e chiesi a mio padre il permesso di andare a vederlo. Ero ancora troppo piccolo per poterci andare da solo, se si pensa che per raggiungere quel posto, senza dover fare un lungo cammino si prendeva una stradina, o meglio dire un viottolo che faceva da scorciatoia e attraversare un torrente, dove l'acqua faceva una cascatella con un stretto ponte di legno senza sponde ritenuto molto pericoloso. Mio padre, vista la mia insistenza, decise per non dovere subire una mia bizza, di accompagnarmi lui stesso. Il posto dove quella famiglia intendeva costruire il pozzo era a valle di una bella collina ricoperta di ulivi secolari. Noi arrivammo presto di buon mattino, e ricordo che l'aria era ancora fresca. C'erano già l'anziano contadino e i suoi figli, proprietari del podere , seduti sotto una pianta ad attendere il rabdomante. Erano vecchi amici , della mia famiglia e quando ci videro arrivare rimasero un po' sorpresi. Dopo aver capito il motivo della nostra visita ci accolsero ben volentieri e con parole di grande entusiasmo. Poco dopo, dalla stradina che avevo percorso insieme a mio padre, si vide passo passo venire verso di noi il cercatore d'acqua, che da lì a poco ci raggiunse. La prima cosa che notai è che teneva in mano una forcella di legno. Seppi poi da lui che era una forcella tagliata da una fronda di una pianta di olmo. Dopo alcuni convenevoli e dopo aver chiesto ai proprietari del podere in quale punto del terreno intendevano fare il pozzo, impugnò con le ambedue le mani le biforcazioni della forcella, e tenendola con la punta rivolta verso terra e iniziò a camminare lentamente in diverse direzioni. Ad certo punto si vide la forcella impennarsi piano piano tra le sue mani. eppoi con vigore e slancio tendere e puntare verso l'alto. Il rabdomante si fermò, ci guardò, e un lampo di gioia parve balenare nei suoi occhi; poi rivolto a tutti quanti noi, esclamò: -è qui!-. L'acqua fu trovata proprio in un punto del terreno vicino a quello desiderato dal padrone del podere. Immaginatevi che gioia per lui, e lo si vedeva bene dalla sua espressione di contentezza. Poi per avere maggiore certezza, il rabdomante, tirò fuori dalla sua tasca dei pantaloni piuttosto lisi un vecchio orologio da tasca detto da noi a "cipolla" e tenendolo per la catenella, l'orologio cominciò a oscillare con un moto regolare. Questa è la prova del nove, soggiunse il cercatore d'acqua. L'acqua è qui, e ce n'è in abbondanza! Non vi resta che fare la prova di saggio, con la trivella. L'acqua dovrebbe essere a meno di dieci metri di profondità confidò ancora con un'espressione convinta ai contadini che lo avevano chiamato, poi si riposò sedendosi a terra. Io mi avvicinai a lui e le chiesi incuriosito dove avesse imparato a cercare l'acqua. Lui mi prese sulle sue ginocchia e mi raccontò che tanto tempo fa , quando anche lui era piccolino come me, e abitava nella sua bella terra marchigiana, un giorno mentre ritornava dal lavoro dei campi in una caldissima estate, aveva tanta, tantissima sete, che non ce la faceva più a proseguire nel cammino e dovette sedersi all'ombra di un cespuglio. Qui gli apparve una fatina, una fatina bella come la Fata Turchina di Pinocchio, ma non era lei . Gli disse che era la figlia della felicità e che gli avrebbe insegnato a trovare l'acqua per dissetarsi lui stesso e per il bene di tutte le persone che nel corso della sua vita gli avessero richiesto i suoi servigi. La fatina che si era presentata a lui come la figlia della felicità, gli raccomandò di non rifiutare mai le sue facoltà a chiunque nel bisogno gli avesse richiesto i suoi favori , altrimenti lei, gli avrebbe tolto la dote di cercare l'acqua che magicamente gli aveva donato quel giorno quando si era trovato senza forze stanco ed assetato. Ebbene, mi disse il rabdomante, tu non ci crederai, ma io ho imparato l'arte di trova l'acqua proprio grazie a lei! Io pur essendo un bambino. sentivo che ciò che mi raccontava era una favola, una bellissima favola come quelle inventate e sentite tante volte raccontare da mia nonna o da mia mamma, ai tempi della culla nell'ora della ninna nanna , ma lì per lì non sapendo che altro dire accettai di buon grado di crederci , lo ringraziai e me ne tornai a casa contento di aver conosciuto il cercatore d'acqua.   

L'Orlando Innamorato e le veglie sull'aia
Sembra che sia passato un millennio, è infatti lo è realmente, da quando ero piccolo e nella mia cara e bella terra di Toscana, in tante parti della campagna, nelle belle e calde sere d'estate si usava fare le veglie sull'aia. Veglie a base di balli, canti, recite e racconti orali. Era lo scomparso mondo colorato, saporito, verace, povero ma autentico, ricco di solidarietà e di valori dell'Italia contadina e rurale. L'aia era il luogo ideale, "l'agorà" di ogni casa, di ogni casolare. Un' ampio spazio, uno slargo di fianco o di fronte alla grande casa colonica, utilizzato di solito per fare la grande massa dei covoni di grano, o altre granaglie pronte per la trebbiatura, e per allestirvi dopo la trebbiatura i pagliai, quegli eleganti ammassi di paglia di forma circolare e semiovale con il palo centrale, che ormai vediamo solo in alcuni quadri dei pittori paesaggisti o impressionisti del Sette-Ottocento. I grandi amassi di covoni di grano venivano localmente chiamati dai contadini delle mie zone le " barche", perché nella loro forma sembravano dei grandi bastimenti pronti in cantiere per il varo. L'aia nelle chiare e lunghe sere d'estate si animava e vi si riuniva dopo una frugale cena, un'allegra combriccola di gente che aveva ancora la voglia di fare quattro chiacchiere, qualche risata, o di ritagliarsi l'occasione di un momento ricreativo e di svago dopo una lunga giornata di duro lavoro trascorsa sui campi sotto il sole o il solleone.
Nel casolare dove abitavo quand'ero bambino con tutta la mia famiglia e stretta parentela, una tipica e famiglia patriarcale contadina "allargata", non nell'accezione negativa che intendiamo oggi, ma nel senso che era una famiglia numerosa in quanto composta dai nonni paterni e dagli zii e dai loro figli che vivevamo insieme sotto lo stesso tetto, che costituiscono tutt'ora per la mia mente e per il mio cuore un patrimonio prezioso ed inesauribile di ricordi di un'infanzia e un'adolescenza spensierata e gioiosa.
Fra i primi a scendere sull'aia, c'era quasi sempre mio nonno paterno, il "capoccio", ovvero il capofamiglia, quasi un "icona sacra" del nostro focolare domestico. Poi scendevano a turno chi prima chi dopo, mio padre, mio zio e via via un po' alla spicciolata gli altri uomini del vicinato e si sedevano sulle dure panche di legno sistemate sotto il grande pino che nelle ore pomeridiane dava la sua generosa ombra alla casa e all'aia, il posto preferito dai noi ragazzi per inventare i nostri giochi. Per ultime, dopo aver finito di fare le faccende di casa, arrivavano le donne, con qualche lavoretto femminile fra le mani, di solito lavori di calza o d'uncinetto, per non vegliare a "omo", vale a dire senza far niente come facevano gli uomini, che in base a una tacita e comunemente accettata usanza contadina dei miei posti, si riteneva che avessero lavorato più intensamente e faticosamente delle donne e potevano pertanto permettersi il meritato ed effettivo riposo, anche se questo non era sempre vero, mentre appariva sconveniente se non addirittura imbarazzante per una donna stare a veglia con le mani in mano.
Ad un certo punto quando si capiva che mio nonno, avrebbe da lì a poco iniziato a declamare in ottava rima, con voce dal tono cantilenante, alcuni canti dell' Orlando Innamorato, nella versione del poeta toscano cinquecentesco Francesco Berni, che aveva rifatto e riscritto in modo strutturale e radicale l'Orlando Innamorato del conte di Scandiano Matteo Maria Boiardo, pur lasciandone sostanzialmente invariati i personaggi.
Nonno ci metteva tutta la passione che aveva in corpo, nel "cantare" le gesta dei grandi paladini e lo si capiva da come accompagnava i canti con le ampie gesta delle mani, proprio come un grande attore, da come li sentiva, da come ci si immedesimava. Intorno regnava il silenzio assoluto e tutti erano presi in modo accorato , estasiati, quasi a bocca aperta, a seguire passo passo con un magico trasporto parola parola lo sferragliare delle spade di Orlando e Rinaldo, le imprese di Ferraù , di Argalia, del mago Malagigi, delle fontane dell'amore e del disamore. Tutti parevano trasognare, quando il canto tratteggiava o penetrava nelle lodi alla bellissima Angelica, la più amata, la "principessa" di tante sfide, di tante tenzoni, la "sciupafamiglie" e leggendaria figlia del re del Cataio. E via via man mano che proseguiva il canto delle "gesta" si poteva assistere a scene di autentica commozione da parte delle donne, sia quelle anziane, sia quelle più giovani. Ad una cert'ora, comunque non più tardi della mezzanotte, con un applauso a mio nonno "il cantore", "l'aedo contadino" e con un brindisi con del buon vin santo, si chiudeva lo spettacolo e la serata e si andava tutti a nanna, stanchi ma sereni. E con buona pace per chi non è d'accordo con me, devo dire che le veglie sull'aia rimangono e rimarranno nei miei ricordi come le sere emotivamente più intense della mia vita. Altro che fictions televisive e telenovalas!!!   

Il cavaliere della solitudine
Il sole ce la metteva tutta per bruciare al meglio alto allo zenith di quella calda e limpida giornata di mezza estate. Il cri-cri ininterrotto delle cicale pareva grattare il silenzio che si spandeva nella vasta campagna. L'aria bolliva densa sulle stoppie delle piagge ancora di un bel colore dorato, dopo la recente mietitura. Il cavaliere della Solitudine, nella sua dimessa e acromatica vestitura, si era da poco incamminato lungo la stradina bianca e polverosa che divideva in due la collina, sulla cui cima spiccavano eleganti come pennelli due bei cipressi. La stradina dapprima scendeva eppoi risaliva verso l'alto della collina retrostante fino a perdersi nell'infinito, dando l'illusione ottica nel suo saliscendi di salire fino al cielo. Più in là in lontananza lo sguardo coglieva il profilo di un turrito e possente castello dove secondo un'antica leggenda del posto si diceva vivesse I-dea Bellezza , una fata che aveva il potere di togliere le malìe, di angelica bellezza.
Il cavaliere della Solitudine, sapeva di questa antica leggenda di cui si favoleggiava in quei luoghi, e non so quanto inconsciamente aveva intrapreso il cammino per raggiungere la bella I-dea, leggiadra fata e castellana nel suo castello. Non lo avrebbe mai ammesso, ma sicuramente in qualche recondito angolo della sua mente accarezzava il desiderio di voler conoscere la magica e stupenda fanciulla. Il sole abbacinava e lunga era la strada . Il silenzioso cavaliere in sella al suo bel cavallo bianco, procedeva con una leggera andatura , pensando e rimirando i profili di quel bel paesaggio che seppur disadorno e solitario era per lui il più bello del mondo. Era quasi l'ora del tramonto,e il sole sembrava divampare nell'occaso di un bel rosso porporino, quando il Cavaliere raggiunse le porte del Castello. Le possenti porte si spalancarono e sul selciato rintoccavano lenti i passi del suo bel cavallo bianco. Il cavaliere ormai all'interno del castello, sentendo dischiudersi una finestra, arrestò il suo cavallo, e balzò a terra. Si tolse il suo copricapo , poi alzò gli occhi verso l'alto e vide una bellissima fanciulla affacciata ad una finestra del castello. Era I-dea nella sua più sublime e travolgente bellezza. I suoi occhi erano azzurri come il cielo, biondi i capelli, bionde le sue trecce. Rivolse un accenno di sorriso al Cavaliere, ma soprattutto parvero sorridergli i suoi luminosi occhi. Sali ti prego, le disse rivolgendosi al Cavaliere, è da molto tempo che ti aspetto! Egli era rimasto stregato, ammaliato da quella stupenda figliola. Sentì dentro di sé come rompersi l'incantesimo che lo avevo tenuto strettamente e tenacemente legato alla solitudine. S'incamminò trasognante verso l'androne che lo portava verso una scala per salire verso il salone dove si trovava la bella fanciulla ed ad ogni passo, ad ogni scalino gli sembrava di sentire cadere dalle sue membra la solitaria malìa come a pezzi.
Arrivò di fronte a lei nell'ampio salone arredato con meravigliosi arazzi e damaschi e altre squisite suppellettili e cavallerescamente con un gesto di folgorazione e di meraviglia, rapito dalla sua struggente bellezza il cavaliere s'inginocchiò ed esclamò rivolgendosi a lei : -oh mia sublime e meravigliosa fanciulla, sono qui per affidarmi alle tue meravigliose arti, e al tuo sapere affinché io possa ritrovare l'armonia e riconciliarmi con me stesso e il mondo dal quale mi ero estraniato con la mia solitudine-. La fanciulla le sorrise di nuovo, lo fissò nei suoi timidi occhi e gli disse: da oggi mio bel cavaliere la solitudine sarà per te solo un ricordo e l'abbracciò teneramente. La luna piena a poco a poco s'impossessò del cielo, rischiarando la notte. Si spandeva nelle vaste lande che circondavano il meraviglioso luogo il canto melodioso dei grilli. Da lontano si vedeva la possente sagoma del turrito castello e una luce illuminare le ampie vetrate della finestra della camera da letto della bella fanciulla.

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