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Lettera alla senatrice Taverna, del gruppo M5S,
vicepresidente del Senato della Repubblica.

(scritta anni prima del COVID, quando il M5S e l'illuminata Lega di Salvini si scagliarono, in nome della libertà, contro i vaccini obbligatori per i bambini.)

Cara Senatrice Taverna sono estremamente delusa come italiana, come cittadina e come medico, da quello che ha detto in materia di vaccini...
Ha reso questo paese non più libero...ma oppresso dall'ignoranza e dalla cecità.
Ogni anno milioni di volontari sanitari rischiano la vita in giro per il mondo per salvare migliaia di piccole vite da malattie che hanno decimato intere popolazioni.
E noi, del mondo ricco e civile, torniamo indietro di mille anni contro ogni ragione.
I nostri bambini non sono bestiame. Sono solo bambini a cui garantiamo un futuro.
Perché non proibiamo anche tutte le altre scoperte scientifiche che hanno cambiato la sopravvivenza dell'uomo moderno e che hanno comunque possibili complicanze?
Proibiamo TUTTE le chirurgie.
Proibiamo il vaccino anti HPV contro i tumori della cervice uterina.
Proibiamo LE CORONAROGRAFIE CON PCI primarie che ogni giorno salvano la vita a centinaia di persone colpite da infarto.
Proibiamo la trombolisi primaria per tutti i pazienti colpiti da ictus cerebri.
Proibiamo le trasfusioni.
Proibiamo gli antibiotici.
Spegniamo la luce...torniamo nel medioevo.
Ma non ci chieda poi...a noi medici...di fare miracoli che volete distruggere.
Non ci chieda di piangere la morte dei nostri bambini.
La piangiamo da oggi. La piangeremo domani. Impotenti davanti ad una "politica" che riduce a voti politici e twittate la scienza.
Mi vergogno onorevole.
Mi vergogno profondamente.
Mi vergogno di essere rappresentata da lei e chi pensa sia giusto non vaccinare.
Mi vergogno di stare in un paese in cui le decisioni sulla sanità e sicurezza pubblica, perché è di questo che si tratta, vengono prese da persone non preparate sulla materia, non adeguate nemmeno lontanamente al parlarne pubblicamente e criticamente.
Per fare il mio lavoro, il medico anestesista rianimatore, ci vogliono 6 anni di università, 1 anno di abilitazione statale e 5 anni di scuola di specializzazione. Ci occupiamo di vite. È normale. Doveroso. Importante.
Per fare il suo lavoro Senatrice, basta prendere voti. Parlare sui social. Avere fortuna. Essere nel momento giusto con le persone giuste e al posto giusto.
E questo non è giusto.
Perché voi per un voto condannate il nostro paese al ritorno delle malattie che avremmo dovuto debellare.
Condannate bambini al rischio di non poter crescere.
Condannate noi a guardare il vostro irresponsabile scempio con responsabile impotenza.
È un mondo ingiusto il nostro Senatrice.
È un paese ingiusto il nostro.
Ma soprattutto è ingiusto che chi come Lei, accompagnata da cattivi consigli ed ignoranza dovuta al suo non essere competente in immunologia e malattie infettive, non sarà costretta a vedere un bambino morire di morbillo.
Lei non lo farà.
Lei e i suoi colleghi politici amanti dei selfie, dei social, dei video mentre siete al lavoro...non li vedrete.
E quando sarà il momento...darete la colpa qualcun altro.
Dorma bene Senatrice stanotte.
Dorma bene Senatrice sempre.
Lo faccia anche per me. E per tutti i miei colleghi a cui ha tolto il sonno, la speranza, e la serenità.
Vorrei avere la sua ostentata sicurezza.
Vorrei poter credere ancora di poter fare il mio lavoro nel migliore dei modi in questo mio paese che non riconosco più...e di cui mi vergogno.
Dorma bene Senatrice.
E si ricordi sempre che il mio lavoro è un privilegio, e dovrebbe esserlo anche il suo.
Silvia Braccini

Proposta da Piero Colonna Romano

 

INTERVISTA ad ANTONIO SPAGNUOLO

(a cura di Liliana Porro Andriuoli)

Tratta dal 72mo libro del dicembre 2019  “Lettera in versi” di BombaCarta.

Tu appartieni alla cerchia dei medici scrittori: quanto ha influito sulla tua

poesia lesercizio della tua professione?

Sinceramente non amo essere catalogato come medico scrittore, perché nell’arco dei miei

anni sono maturate alla pari le due personalità di medico e di poeta. Senza alcun dubbio

la mia preparazione classica ha influito sulla ricerca della parola in maniera determinante,

specialmente nell’arco del liceo negli anni 45 / 47, quando al nostro Istituto Jacopo

Sannazaro di Napoli si prodigavano professori del calibro del famoso Antonio Altamura.

Il bagaglio della medicina ha infine raffinato la preparazione umanistica, con il suo profilo

deontologico e filantropico, amalgamando il sentimento alla violenza del morbo.

 

Quale importanza ha avuto secondo te il verso libero nella nostra poesia del

900?

Allontanarsi improvvisamente dal ritmo del verso legato ad una rigida metrica, ed alla

rima a tutti i costi, credo che abbia giovato al canto che la poesia “alta” riesce a trasmettere

nel suo svolgersi. A me sembra che gran parte dei versi scritti abbiano però sempre

l’impronta dell’endecasillabo, vuoi nel suo compiersi, vuoi nello spezzettarsi delle sue

componenti. Bene o male la poesia esige l’armonia della musica, specialmente quando

recitata ad alta voce. Per tale motivo non approvo che si appellino “poesia” i tentativi che

attualmente si fanno proponendo delle “prose” senza verso, offrendole come

composizioni poetiche. Allora se la poesia è lo scorrere delle idee compresse nel nostro

sub coscio, conservate gelosamente nelle circonvoluzioni, essa freme per esplodere

improvvisamente nella musica di un componimento. Il luogo della poesia è nel pensiero

che vorticosamente illumina l’istante.

 

In quale corrente del nostro 900 letterario ti inserisci?

R. Domanda alla quale riesce difficile rispondere - É talmente lungo il tragitto, che ho

compito in oltre settanta anni di ricerca poetica, che non posso assolutamente catalogare

il mio operato in una corrente specifica. Ho attraversato tutte le stagioni della scrittura,

dalla poesia semplice e licealista dei miei diciotto anni, plasmata dall’eco di Gabriele

D’Annunzio, alla poesia sperimentale degli anni 60, 80 dello scorso secolo, con il mio

ormai storicizzato volume “Fogli dal calendario”, edito da TAM TAM, alla

rielaborazione del verso di questi ultimi anni. Ora, se mi è concesso un atto di vanagloria,

direi che la mia ultima poesia può essere accostata al grande Pablo Neruda.

 

Qual è secondo te il compito del critico nei confronti del poeta che affronta?

Molto delicato l’interrogativo. Il critico oggi purtroppo non ha più la forza che

caratterizzava l’intervento di molti anni addietro. Oggi la “stroncatura” non la si trova in

nessuna critica e ciò è male, perché si gonfiano del “nulla” moltissimi scrittori che

credono di essere poeti. Oggi il critico si limita a rileggere il testo, sottolineando le varie

angolazioni di riscontro, e cerca di mettere in luce qualche barlume di musica

orecchiabile. Il “saggio” critico su qualche autore è merce abbastanza rara.

 

Esiste una poesia meridionale con caratteristiche proprie?

Esiste una buona e nutrita schiera di poeti meridionali, specialmente nella Campania. Le

nuove generazioni tentano di scalfire l’ardua muraglia che il Nord è stato sempre capace

di innalzare per difendere e valorizzare al massimo il loro prodotto. Avallati dalla grande

editoria. Ma il tempo dovrebbe dare il giusto merito nella storicizzazione di alcuni

scrittori che meritano. Da Ugo Piscopo a Ciro Vitiello, da Franco Cavallo e Franco

Capasso, da Raffaele Urraro a Raffaele Piazza, da Lino Angiuli e Eugenio Lucrezi, per

nominarle solo alcuni si può tracciare una piccola mappa.

 

Hai scritto moltissimi libri di poesia: a quali sei più affezionato?

Molti i miei libri, fortunati e quasi tutti premiati nei vari anni. Non sono legato

particolarmente a qualcuno, perché l’ultima creatura è sempre quella che viene coccolata

essendo il tassello di un percorso sempre ardente e immediato. Un volume in particolare

però rimane come esemplare ed è Candida, edito da Guida nell’ anno 1985, con

prefazione del compianto Mario Pomilio, che mi aprì le porte della Letteratura italiana

curata da Alberto Asor Rosa.

 

Cosa vuoi dirci degli ismicontemporanei

R. Non ho molto da dire. Sono soltanto avvilito e meravigliato di come alcuni poetucoli

si affannano a chiamare “poesia” quella che invece è “prosa poetica”. Io sono convinto

che la vera poesia è sempre e rimarrà sempre quella che è capace di suscitare emozioni

con la sua indiscutibile musicalità. Quella musicalità che l’intramontabile endecasillabo

è stato capace di creare negli anni. Difficile emergere nel marasma che ci circonda.

Abbiamo qui a Napoli e in provincia due o tre rivistucole che appartengono a

conventicole, le quali sfornano testi mediocri e si scambiano favori senza colpo ferire,

rimanendo nel sottobosco.

 

Qual è il poeta emergente che ritieni a te più affine nel moderno Parnaso

italiano?

Non chiederlo! Non riesco a fare un nome perché sono affogato nelle centinaia di poesie

che giungono sulla mia scrivania, vuoi per il mio Blog “Poetrydream”, dedicato alla

poesia contemporanea, vuoi per le innumerevoli richieste di interventi. Purtroppo devo

dire che difficilmente trovo un giovane che possa essere carezzato, mentre alcuni

vanagloriosi si immergono nella gelosia, nell’invidia, nella incultura. Amo alcune

giovanissime poetesse napoletane, che seguo con interesse e spero che riescano a farsi

valere in breve tempo.

 

Quali sono i tuoi progetti per il futuro?

R. Alla mia età il futuro è un’incognita da buco nero. Vorticosamente ingoia il tempo

residuo e lascia il dubbio del compimento. Un mio tentativo in questi mesi è la

realizzazione del premio “L’assedio della poesia 2020”, per una poesia inedita in lingua

italiana. Senza tassa di lettura. Ho avuto la partecipazione di una giuria eccezionale: Carlo

De Cesare, Mauro Giancaspro, Maria Alessandra Masucci, Giorgio Moio, Ugo Piscopo,

Pier Antonio Toma, Maurizio Vitiello, e presidente il sottoscritto. Questa idea nasce

sempre dal desiderio di contrastare alcune consorterie che qui in città e in provincia

gestiscono premiucci con tassa di lettura, scambiano segnalazioni e diplomi tra i membri

delle stesse congreghe.

 

Qual è la funzione del poeta nella società in cui vive?

Il poeta urla al vento, vox clamans! La sua voce si perde nella massa informe che sempre

più decade nella vacuità e nella perdita dei valori e degli ideali. La poesia dovrebbe

accompagnare gli uomini di governo illuminando con le sue folgorazioni, ma a me sembra

che oggi la carenza di preparazione è vincente.

 

Ha ancora un senso la distinzione di Benedetto Croce tra Poesia e non-Poesia?

Benedetto Croce è stato un grandissimo filosofo e un grande escavatore nel virtuale della

scrittura. La sua distinzione tra poesia e non poesia nasce in un periodo politico molto

difficile e la parola poetica indicava una resistente razionalità al divenire dello spirito,

una necessità della persistenza dell’umano nella sua universalità. Non poesia oggi è il

marasma che ci circonda, nella rottura di ogni cultura valida in favore dell’arrivismo e

della caduta nel vuoto.

 

Ti consideri un poeta damore?

Si! L’amore mi ha sostenuto perennemente negli anni. La mia poesia è stata sempre

giudicata come cardine di una battaglia tra Eros e Thanatos, nella illusione di inseguire i

sentimenti alti, sublimi del rapporto amoroso, per sfuggire alla tenaglia rovente della

morte. Gli ultimi due volumi in particolare sono un vero e proprio canzoniere, ispirato dai

ricordi, dagli sprazzi luminosi che la memoria conserva di quello che è stato il rapporto

miracoloso con mia moglie Elena, deceduta improvvisamente sette anni or sono.

 

Proposta da Piero Colonna Romano


 


Solidarietà
Sullo smart ho appena letto la seguente notizia: “Brescia, molotov contro albergo che ospiterà gruppo di profughi” Due molotov sono state lanciate all’interno di un albergo destinato ad ospitare profughi. E’ accaduto a Vobarno (Bs) all’interno dell’albergo Eureka, attualmente chiuso al pubblico. Importanti danni alla struttura che sarebbe stata individuata per dare ospitalità a 35 richiedenti asilo. Sulla vicenda indagano i carabinieri. Il gesto potrebbe essere un intimidazione nei confronti del proprietario dell’albergo. La struttura era chiusa da 4 anni. Secondo i carabinieri di Salò non ci sarebbero feriti: alcune persone, avvicinate alla struttura e, armate di mazze e molotv, avrebbero prima sfondato un vetro, per poi gettare all’interno dell’edificio le bottiglie incendiarie.

Fortunatamente, a bilanciare tale bestialità e a ridarmi fiducia nel prossimo, ricevo una mail, da un mio caro amico palermitano, col racconto di quella che, pur essendo una tragedia della strada, è stata causa di un luminoso esempio d’amore per il prossimo.

Il racconto dell’accaduto è stato scritto dal sig. Daniele Ammoscato che, purtroppo, non ho il piacere e l’onore di conoscere.

Da: Monica Saporetti : Oggetto: Data: 02/07/17 13:44

È martedì 27 giugno e siamo in Sicilia, sull'autostrada A29 che collega Mazara del Vallo a Palermo, nel beve tratto tra le cittadine di Carini e Capaci. Alle ore 18:30 si verifica un grave incidente, nel quale purtroppo perde la vita una giovane donna. Il traffico si paralizza, inspiegabilmente. Nessun veicolo riesce più a muoversi. L'autostrada si trasforma in un lungo serpente di metallo rovente ed inizia un terribile calvario per centinaia di persone che, loro malgrado, rimangono intrappolate in un vero e proprio inferno. Con una temperatura di quasi 40° e nessuna via di fuga, i malcapitati non possono che sperare in un miracolo.

L'autostrada è un luogo dal quale non si può fuggire. Non si può lasciare la macchina lì ed andarsene a piedi, e non si può andare né avanti né indietro, perché davanti e dietro ci sono centinaia di altri automobilisti intrappolati anche loro.

Il calvario inizia alle 19:00 circa e durerà ben cinque ore. Una sofferenza immane, praticamente immobili, con le scorte d'acqua (per chi ne ha) che si svuotano vorticosamente e il terrore di non sapere cosa fare.

Per ore interminabili, il serpente di metallo non avanza, rimanendo lì, come un rettile al sole. Dopo quattro ore la situazione diventa insostenibile. I bambini iniziano ad avere fame e sete, i più piccoli piangono. I genitori sono disperati. È il panico. Un panico diffuso che toglie il fiato. Ci guardiamo attorno terrorizzati, non sappiamo che fare.

Ma siamo in Sicilia, terra di grandi tragedie ma anche di grandi miracoli. E il miracolo, accade.

Un drappello di temerari, composto da alcune persone che vivono nelle case di villeggiatura poste nei pressi dell'autostrada, si avvicina alle reti di protezione che delimitano la carreggiata. I volenterosi, capeggiati da una donna che ha uno sguardo fiero e gentile, iniziano a chiedere  se ci sono bambini e se qualcuno può avere bisogno di acqua o generi di conforto. Dalle vetture si alzano delle disperate richieste d'aiuto. Un padre implora un po' d'acqua "per il mio bambino, vi prego...".Come naufraghi che, risucchiati dalle onde, cercano disperatamente di aggrapparsi ad un legno galleggiante, anche altre famiglie in coda da ore sotto il sole cocente chiedono dell'acqua per i propri bambini. Parte una straordinaria gara di solidarietà. La donna chiama a rapporto i giovani del gruppo, impartisce precise direttive e, all'unisono, un nugolo di "picciotti" sciama verso le rispettive case.

I ragazzotti compiono la missione con determinazione e destrezza. Si precipitano, non esitano un solo attimo. In pochi istanti i frigoriferi e le dispense vengono saccheggiati e una staffetta perfettamente improvvisata fa arrivare sul posto ogni ben di Dio. Le mani dei naufraghi si protendono oltre le barriere di protezione che dovrebbero impedire ai cani randagi di accedere in autostrada, le mani dei soccorritori si protendono verso i bisognosi, porgendo agli automobilisti esausti quello che sembra arrivare dal Cielo. Acqua, prima di tutto, ma anche merendine e gelati

"pi li picciriddi" (per i bambini). Addirittura degli omogeneizzati. Quel papà che aveva chiesto l'acqua per il figlio si commuove, non sa come manifestare la sua gratitudine. Imbarazzato, prende il portafogli... cerca di dire qualcosa che non sia troppo fuori luogo, poi esordisce con un "almeno un caffè vorrei potervelo offrire". Non l'avesse mai fatto. Dal popolo di soccorritori, improvvisati ma efficientissimi, si alza un coro unanime.

Non accetteranno nulla per quel cibo che stanno offrendo. "U beni si fa senza addumannari nenti n'canciu" (il bene si fa senza chiedere nulla in cambio) dice sorridendo la direttrice dei soccorsi. "Si propriu voli, c'addumannu sulu na priera picchì i me figghi truvassiru travagghiu" (se proprio vuole, le domando solo di fare una preghiera per i miei figli, perché trovino un lavoro).

L'uomo è imbarazzato, risponde solo "che Dio la benedica, signora ". Poi prende in braccio quel cibo, come fosse un bambino appena nato, da mostrare a tutti, ed inizia a girare per le macchine, distribuendolo anche agli altri automobilisti. Di macchina in macchina chiede se ci sono bambini e se qualcuno vuole dei gelati e delle merendine. Accanto a lui, il tizio che guidava la macchina che lo precedeva si occupa di distribuire l'acqua.

In pochi minuti, decine di persone possono dissetarsi e i bambini possono mangiare qualcosa. Anche un signore anziano si avvicina timidamente... "potrei avere un gelato per favore...", anche lui trova un po' di ristoro. Una piccola bimba indiana riceve un ghiacciolo e la madre ringrazia imbarazzata. Un ragazzino si avvicina incredulo, c'è un gelato anche per lui. Un giovane uomo di colore riceve l'offerta di un gelato, che rifiuta con grande cortesia, sorride dicendo "grazie ho già mangiato". Una frase che, pronunciata come un automatismo, avrà già ripetuto molte volte, anche quando i morsi della fame gli facevano attorcigliare le budella.

Poi qualcosa si muove. Il serpente di metallo fa un balzo avanti, si riparte. I soccorritori ci salutano con la mano, come si saluta un amico su un treno in partenza.

Bene, questa è la Sicilia. Questa è la Terra che amo. Vivendo questa esperienza ai limiti dell'assurdo, non ho potuto fare a meno di pensare che proprio lì, a poche centinaia di metri dal luogo dove il Giudice Falcone era stato orribilmente assassinato insieme alla moglie e alla sua scorta, per mano di alcuni siciliani, altri siciliani stavano spontaneamente attuando una vera e propria gara di solidarietà verso il prossimo, verso dei perfetti estranei, offrendo loro tutto quello che avevano in casa. Privandosene, senza alcuna esitazione. Così, solo per altruismo. Tutto questo, senza chiedere nulla in cambio e senza chiedersi se chi avrebbe ricevuto quel cibo era italiano o straniero, se era un uomo o una donna, se era amico oppure nemico. 

Perché non è questo, forse, il senso più profondo e vero dell'aiutare il prossimo? Tendere una mano a chi ne ha bisogno, nel momento in cui ne ha bisogno, senza chiedere nulla in cambio.

Come quella donna siciliana che martedì sera, senza saperlo, ai miei occhi ha onorato la memoria di Giovanni Falcone e di tutti gli altri caduti per mano mafiosa, nel miglior modo in cui questo poteva essere fatto. Io dono tutto quello che ho, me ne privo per darlo a te, che neanche ti conosco, solo perché tu ne hai bisogno. Onore. Grande.  
Daniele Ammoscato

(proposto da Piero Colonna Romano)


Il grande dittatore
(Charlie Chaplin 1940)

"Mi dispiace, ma io non voglio fare l'imperatore. Non voglio né governare né comandare nessuno. Vorrei aiutare tutti: ebrei, ariani, uomini neri e bianchi. Tutti noi esseri umani dovremmo unirci, aiutarci sempre, dovremmo godere della felicità del prossimo. Non odiarci e disprezzarci l'un l'altro. In questo mondo c'è posto per tutti. La natura è ricca e sufficiente per tutti noi. La vita può essere felice e magnifica, ma noi l'abbiamo dimenticato. L'avidità ha avvelenato i nostri cuori, fatto precipitare il mondo nell'odio, condotti a passo d'oca verso le cose più abiette. Abbiamo i mezzi per spaziare, ma ci siamo chiusi in noi stessi. La macchina dell'abbondanza ci ha dato povertà, la scienza ci ha trasformati in cinici, l'abilità ci ha resi duri e cattivi. Pensiamo troppo e sentiamo poco. Più che macchine ci serve umanità, più che abilità ci serve bontà e gentilezza. Senza queste qualità la vita è vuota e violenta e tutto è perduto. L'aviazione e la radio hanno avvicinato la gente, la natura stessa di queste invenzioni reclama la bontà dell'uomo, reclama la fratellanza universale. L'unione dell'umanità. Persino ora la mia voce raggiunge milioni di persone. Milioni di uomini, donne, bambini disperati, vittime di un sistema che impone agli uomini di segregare, umiliare e torturare gente innocente. A coloro che ci odiano io dico: non disperate! Perché l'avidità che ci comanda è soltanto un male passeggero, come la pochezza di uomini che temono le meraviglie del progresso umano. L'odio degli uomini scompare insieme ai dittatori. Il potere che hanno tolto al popolo, al popolo tornerà. E qualsiasi mezzo usino, la libertà non può essere soppressa. Soldati! Non cedete a dei bruti, uomini che vi comandano e che vi disprezzano, che vi limitano, uomini che vi dicono cosa dire, cosa fare, cosa pensare e come vivere! Che vi irregimentano, vi condizionano, vi trattano come bestie! Voi vi consegnate a questa gente senza un'anima! Uomini macchine con macchine al posto del cervello e del cuore. Ma voi non siete macchine! Voi non siete bestie! Siete uomini! Voi portate l'amore dell'umanità nel cuore. Voi non odiate. Coloro che odiano sono solo quelli che non hanno l'amore altrui. Soldati, non difendete la schiavitù, ma la libertà! Ricordate che nel Vangelo di Luca è scritto: "Il Regno di Dio è nel cuore dell'Uomo". Non di un solo uomo, ma nel cuore di tutti gli uomini. Voi, il popolo, avete la forza di creare le macchine, il progresso e la felicità. Voi, il popolo, avete la forza di fare si che la vita sia bella e libera. Voi che potete fare di questa vita una splendida avventura. Soldati, in nome della democrazia, uniamo queste forze. Uniamoci tutti! Combattiamo tutti per un mondo nuovo, che dia a tutti un lavoro, ai giovani la speranza, ai vecchi la serenità ed alle donne la sicurezza. Promettendovi queste cose degli uomini sono andati al potere. Mentivano! Non hanno mantenuto quelle promesse e mai lo faranno. E non ne daranno conto a nessuno. Forse i dittatori sono liberi perché rendono schiavo il popolo. Combattiamo per mantenere quelle promesse. Per abbattere i confini e le barriere. Combattiamo per eliminare l'avidità e l'odio. Un mondo ragionevole in cui la scienza ed il progresso diano a tutti gli uomini il benessere. Soldati! Nel nome della democrazia siate tutti uniti!"

Proposta da Piero Colonna Romano quale laico messaggio d'amore.


Er Natale in famiglia
Ebbene si, stanno pe arriva' le feste de Natale…sò tutti contenti, sò tutti felici… sò tutti piu' bboni…invece a me me rode er culo! A Natale te se riempie casa de parenti, zii, zie, cugini, cugine, nipoti,nonni, pro-zii, pro-zie, de tutto, tutta gente che vedi solo pè 2 motivi, le feste o i funerali. Tocca mettese i cartellini sur petto
pè ricordasse i nomi.
Insomma se comincia er 24, dala mattina appena me arzo, mi madre parte cò la tiritera….Scenno, manco me siedo pè fa colazione che parte la lagna… 'Ricordate che er 24 e' Vigilia, quindi er 24, PESCE…' me la guardo ancora ner sonno e je dico 'A ma' stò a fà colazione, posso magna' i biscotti o nel latte ce devo inzuppà la spigola??' Insomma a casa ce stà n'armata de affamati, gente che pare che nun magna da naa vita, aspetteno er Natale cor veleno, da metà Novembre stanno a insalatine pè nun rovinasse l'appetito, insomma oramai a casa mia non fanno piu' la spesa ar dettaglio.
L'anno scorso hanno preso 123 mq de mediterraneo e 83 mq de mar baltico…te dico solo che mì nonna stava pè infarinà e frigge er capitan findus, stò cojone stava a passà nello spazio de mare che s'eravamo comprati, lui cò quer cazzo de peschereccio azzurro. C'e' gente che pè magna' conosce i peggio trucchi… de solito a cena dopo un par de portate se slacceno la cinta… mì zio l'anno scorso pè frega' i parenti s'e' presentato in tuta: cosi' non comprime e po magna' de piu'!
La cena score, se finisce de magna' ed e' l'ora dii regali… In tutte le famije ce sta quella che vole fa l'istruita, pure che ha fatto pè puzza la seconda elementare… e allora senti mi zia che da il regalo ar marito della sorella e je dice… 'tieni, un bel CARDIGAN', che mì zio c'aveva paura fosse un cane da riporto del Caucaso, ha aperto cor terore…Poi cò 'n sospiro je fa: 'ah! un majone coi bottoni… m'ero preso nà paura'.
Fiuuu! pericolo scampato! Sempre lei e' quella che fa i regali impegnati ai nipoti, viene e te fa… 'tieni un bel libro, che la cultura e'importante!'.'A zì, sara' pure importante ma si me regali 'I 3 moschettieri' che c'ho 45 anni, che cazzo de cultura voi che me faccio…' Ma la cosa piu' bella, che va contro tutto quello che viene detto in televisione, sò i regali della nonna. Sò anni che sentimo di che co l'euro tutto e' aumentato: quelle che erano 5 mila lire, mò nella nostra mente, sò 5 euro… sì, er cazzo che te se frega…Mì nonna me regalava 50 mila lire prima, mò uno se aspetta 50 euro… e invece no!! Te se presenta co un pezzo da 20, un pezzo da 5 e 50, 20 e 10 centesimi… te verrebbe da daje nà sediata. Mì nonna e' la vera risposta italiana al problema euro!Poi la gente se ne va a casa, ma er peggio deve ancora da venì. Er peggio e'il 25!
La notte io non ce dormo… so' teso… nervoso… I preparativi per il 25 partono dall'Immacolata. Se riuniscono le donne e se mettono a decide… che famo che non famo… agende cò le ricette, puntate registrate della prova del cuoco… poi alla fine se finisce sempre a magna' le stesse cose. Te arzi la mattina, entri in cucina, e le vedi lì, manco stessero a sperimenta' la fusione a freddo. Appena provi a entra' te fanno 'CHE VOI?'… 'niente, che vojo, un bicchiere d'acqua'… 'NO, mò aspetti…'manco i Vietcong ereno cosi'. Poi pare sempre che e' successo qualcosa, so tutte co la faccia disperata…
Te spaventi, ce stai male e domandi 'che e' successo?'… 'lascia stà…' '…come lascia sta? Vojo sape'! Ahò, se so cose della famija, c'ho il diritto de sapello'… Te guardano cò la faccia distrutta…e te dicono '…la besciamella ha fatto i grumi…' MA ANNATEVENE A FANCULO VOI E LI GRUMI!
Da 30 anni, er 25 c'ha er menu fisso… e non solo quello. La cosa peggio che po' succede e' il doppio tavolo: uno pei grandi e uno pei piccoli. Me dava ar cazzo da ragazzino… ma adesso me fa proprio smadonnà… L'anno scorso se semo ritrovati al tavolo che er piu' piccolo c'aveva 25 anni… Gente che e' annata in guerra, gente cò 2 divorzi…pero' sempre relegata al TAVOLO DEI PICCOLI. L'unica cosa e' che da 2 anni a sta parte ce danno pure i coltelli. Poi nel mentre che se magna, noti che er fratello de zio, che er 24 c'aveva la tuta, oggi s'e' presentato co la tunica che ha fregato a un lavavetri al semaforo. Sotto e' rigorosamente nudo, che le mutande segano! E c'ha la faccia contenta. Hai capito sì che stratega, er Bonaparte del colesterolo! Er pranzo finisce, se contano i superstiti, se sparecchia, se lavano i piatti e poi… poi… se gira a tovaja che da bianca diventa verde… se comincia a gioca' a carte! E a che se gioca? a sette e mezzo? NO!
Se gioca a BESTIA! Er gioco dell'infamita', tutti contro tutti. Er tipico momento arriva cò un piatto de na quarantina de euri. Comanda coppe. Te c'hai er 3 secco…. bussi… sei de mano te senti un leone…bussa solo tù nonna. Te dici…. 'nonna me vò bene, m'ha cresciuto, sto tranquillo…', cambi 2 carte. Non t'entrano altre briscole ma t'entra un carico. Un po' de paura ce l'hai, ma ostenti sicurezza. La vecchia non deve intravedere il minimo turbamento in te, sò come i cani… sentono si c'hai paura. Allora parti: lanci er carico a denara. Tù nonna te lo magna col 2 de coppe. Cominci a sudà freddo e te dici 'no, non ce lo pò ave', no, non me po' dì cosi' sfiga….' E invece che fa? Cala er COPPONE…. Poi cò lo sguardo finto dispiaciuto te dice: ' Bello de nonna tua e' er gioco…'Butti er 3 smadonnante e lei non contenta butta er 5 a spade, che te c'avevi er 4. Insomma tù nonna t'ha mannato in bestia… 'cci suaa! A me m'ha fermato mì padre appena in tempo, je la stavo pe da nà lamata…Gia' me fai i regali pidocchiosi poi te li ripii pure… Poi dici li metti all'ospizio!Comunque, giocando giocando se fa ora de cena e parte la domanda retorica:'qualcuno cena?' E c'e' gente che ancora c'ha er coraggio de dì de sì..Poi che vor di' sta divisione cena-pranzo-cena… Io sò sicuro che l'anno scorso mì zio s'e' messo a sede er 24 e s'e' rialzato er 2…Ma alla fine arriva l'ora de salutasse… e la solita manfrina: 'Se vedemo troppo poco. Tocca organizza' piu' spesso…' Vedi tù nonno che se fa du conti e dice… 'Aho' contando che er Natale vie' nà volta l'anno, la prossima occasione deve da esse….' Ed e' allora che parte un sonoro 'ANNATEVENE UN PO' AFFANCULO TUTTI QUANTI!'
Che bello er Natale in famiglia…
Consigliato da Terry Di Vetta    
 

OMELIA DI DON ENRICO NEL FUNERALE DI COCOLO DIEGO .

sabato 21/04/2012 ore 09.00

"Quando tornerò a casa, mi condurrai alla Messa in carrozzella", sono le parole che il nostro carissimo Maresciallo Maggiore Diego rivolse al suo amico Tullio qualche giorno prima di lasciare questo mondo. Diego ha lasciato la sua cara Adriana, la sua amata figlia Tiziana, il suo Don (come era solito chiamarmi), i suoi amici, le persone di Campitello che salutava con devozione e rispetto mentre stringeva tra i denti la sua inseparabile pipa, per entrare in un regno ben più prezioso e affascinante di questo povero mondo; e Diego lo sapeva bene dove si va a finire dopo la morte: tra le braccia misericordiose del Padre, stretti in un abbraccio d’amore che non avrà più fine. Così ce lo ha appena ricordato San Paolo nella lettera ai Romani quando dice: "Nulla mai potrà separarci da quell’amore che Dio ci ha rivelato in Cristo Gesù nostro Signore." (Rom. 8, 39).

Lo sapeva bene Diego questo, perché la sua vita era illuminata dalla luce della fede, che alimentava ogni Domenica alla fonte dell’Eucaristia in questa "affascinante” Chiesa (come lui la definiva spesso), dove si riunisce la comunità cristiana nel giorno del Signore.

Ricordo bene che spesso, quando alla Messa delle ore 11.00 da lui puntualmente frequentata, mentre procedevo nella corsia centrale per la processione introitale, mi batteva la mano sulla spalla e con un cenno di saluto mi sussurrava piano piano: “Non si preoccupi, don Enrico, se c’é poca gente, ci siamo noi! “ Sono le parole di un cristiano che voleva condividere con delicatezza l’ansia pastorale del suo parroco, immaginando il suo dispiacere nel vedere alcuni banchi vuoti.

Non posso dimenticare quel pomeriggio, poco tempo prima di Pasqua, quando mi sono recato a fargli visita presso l’ospedale Carlo Poma nel reparto di Oncologia dopo alcuni giorni dal suo ricovero, come mi accolse con gioia, quasi facendomi capire: "Finalmente sei arrivato" e accennando un abbraccio sottovoce mi disse: "Ha gia preparato il mio sermone? ". Era l’espressione di un uomo che, pur provato e debilitato nel corpo, non era affatto sconfitto e amareggiato

nell’anima, perché era gia preparato per incontrare il suo Signore. Ecco il segreto del suo sorriso pieno di fiducia e di speranza, senza far trasparire nulla della sua sofferenza tisica ed interiore. Anche nella vita dei santi, leggiamo testimonianze che nel momento di lasciare questo mondo ci edificano e ci incoraggiano, ma soprattutto ci fanno capire che non temevano la morte perché sapevano bene cosa li attendeva: il cielo, il Paradiso, la gioia del Signore senza fine. Pochi giorni fa (precisamente Mercoledi 4 Aprile) abbiamo celebrato la memoria del beato Francesco Marto, uno dei tre pastorelli di Fatima, che vide la Madonna il 13 Maggio 1917 insieme alla sorella Giacinta e la cugina Lucia. Fu il primo ad ammalarsi quando nel 1919 scoppio l’epidemia di "febbre spagnola"

che decimo l’Europa. Ma sopporto tutto senza un lamento e, prima di morire, disse a Lucia: “Ormai mi manca poco per andare in cielo. Lassù consolerò molto nostro Signore e la Madonna.” 

Questo continuo riferimento al "cielo" lo ritroviamo spesso anche nelle composizioni di Diego in veste di poeta, le quali riprendono lo stesso slancio e passione tipiche dei santi, un desiderio di comunione profonda con il Signore, una nostalgia della sua pace e della sua consolazione, una fede profonda nella vita oltre la morte. Vi voglio offrire a questo proposito uno stralcio della sua poesia intitolata "Preghiera per la vita", che mi consegnò in quella mia prima visita come augurio

pasquale non solo per me, ma per tutta la comunità cristiana:”L ’amore di Dio é passato attraverso il tuo cuore, o Maria lo so che sei entrata nella nostra tormentata storia ….  Maria, siamo figli della tua sofferenza e noi veniamo a te per riempirla di luce e di speranza. Maria, la tua bontà ci ispira fiducia.. Accompagna benevolmente la nostra preghiera.” 

Non vi sembra questa una testimonianza eroica, per di più avvalorata da una penna che scrive su un letto d’ospedale tra le sofferenze dentro il corpo di un malato grave, che non dispera dell’amore di Dio, ma si affida a lui completamente mediante la Madre Maria, come è raro trovare nelle persone di questo mondo? Negli incontri successivi il grande insegnamento che ricevevo era sempre quello: Diego mi faceva capire, anche col suo silenzio che nascondeva una sofferenza interiore, che non sono le grandi cose che rendono grandi gli uomini, ma le piccole, spesso nascoste e insignificanti agli occhi del mondo, ma non certamente agli occhi di Dio, perché il mondo, lo sappiamo bene, guarda alle apparenze, Dio invece guarda al cuore.

Anche il Vangelo di Matteo (13, 44-47) che abbiamo appena letto, ci ha fatto capire che la meta é Dio, che siamo fatti per Lui, per il cielo. Questo é il tesoro da cercare. La vita e un dono troppo prezioso per essere sciupato e banalizzato e non deve essere ridotta ad emozioni e passioni per spremere più che si può dalle occasioni che di giorno in giorno si presentano; ma la vita per il cristiano e come un pellegrinaggio alla ricerca e alla scoperta del vero tesoro che non finisce

mai, perché il tesoro e l’Amore di Dio che e racchiuso nei nostri cuori.

Ora Diego e pronto per consegnarsi a quel tesoro prezioso che ha cercato nella sua vita e che finalmente ha trovato come ci ricorda lui stesso in questa poesia tra le ultime da lui composte e consegnatami personalmente come testamento spirituale che intende trasmettere e regalare a ciascuno di noi perché lo conserviamo gelosamente: “Ogni sera prima di addormentarmi, guardo il cielo stellato, alla ricerca nel firmamento della mia stella. Ma poi mi addormento con il profumo e il sapore di te. T u sei vicino al mio cuore.” 

La stella che brilla per l’eternità ora ti illumina, caro Diego, e questa stella che sorge dall’oriente (come dice la sacra liturgia),è Cristo, il cui volto che ora tu stai contemplando con gli angeli e i santi é avvolto di una luce che non tramonta mai. E mentre ti immaginiamo con la penna in mano per scrivere la poesia più bella della tua vita dinnanzi a quel volto trasfigurato, ti chiediamo di pregare per la tua cara sposa Adriana, la tua amata figlia Tiziana, per i tuoi famigliari, per don

Enrico, per questa comunità cristiana perché un po’ di quella luce abbagli anche ciascuno di noi e ci faccia provare tanta nostalgia di quel Paradiso che ora ti accoglie per sempre.  

                                                                                                                                          Don Enrico.

Inviato da Tiziana Cocolo

 

Tieni sempre presente che la pelle fa le rughe, i capelli diventano bianchi, i giorni si trasformano in anni...
Però ciò che è importante non cambiare; la tua forza e la tua convinzione non hanno età.
Il tuo spirito è la colla di qualsiasi tela di ragno.
Dietro ogni linea d'arrivo c'è una linea di partenza.
Dietro ogni successo c'è un'altra delusione.
Fino a quando sei viva, sentiti viva. Se ti manca ciò che facevi, torna a farlo.
Non vivere di foto ingiallite... insisti anche se tutti si aspettano che abbandoni.
Non lasciare che si arrugginisca il ferro che c'è in te.
Fai in modo che invece che compassione, ti portino rispetto.
Quando a causa degli anni non potrai correre, cammina veloce.
Quando non potrai camminare veloce, cammina.
Quando non potrai camminare, usa il bastone.
Però non trattenerti mai!
Madre Teresa di Calcutta
Consigliato da Sandra Greggio
 

Il gigante egoista
Tutti, i giorni, finita la scuola, i bambini andavano a giocare nel giardino del gigante.
Era un giardino grande e bello coperto di tenera erbetta verde. Qua e là sulla erbetta, spiccavano fiori simile a stelle; in primavera i dodici peschi si ricoprivano di fiori rosa perlacei e, in autunno, davano i frutti. Gli uccelli si posavano sugli alberi e cantavano con tanta dolcezza che i bambini sospendevano i loro giochi per ascoltarli.
-Quanto siamo felici qui!- si dicevano.
Un giorno il gigante ritornò. Era stato a far visita al suo amico, il mago di Cornovaglia, e la sua visita era durata sette anni.
Alla fine del settimo anno, aveva esaurito quanto doveva dire perché la sua conversazione era assai limitata, e decise di far ritorno al castello. Al suo arrivo vide i bambini che giocavano nel giardino.
-Che fate voi qui?- esclamò con voce berbera, e i bambini scapparono.
-Il mio giardino è solo mio! -disse il gigante- lo sappiano tutti: nessuno, all'infuori di me, può giocare qui dentro. Costruì un alto muro tutto intorno e vi affisse un avviso:
GLI INTRUSI SARANNO PUNITI
Era una gigante molto egoista.
I poveri bambini non sapevano più dove giocare. Cercarono di giocare sulla strada, ma la strada era polverosa e piena di sassi, e non piaceva a nessuno. Finita la scuola giravano attorno all'alto muro e parlavano del bel giardino.
-Com'eravamo felici!- dicevano tra di loro.
Poi venne la primavera, e dovunque, nella campagna, v'erano fiori e uccellini.
Soltanto nel giardino del gigante regnava ancora l'inverno.
Gli uccellini non si curavano di cantare perché non c'erano bambini e gli alberi dimentica- rono di fiorire.
Una volta un fiore mise la testina fuori dall'erba, ma alla vista dell'avviso provò tanta pietà per i bambini che si ritrasse e si riaddormentò. Solo la neve e il ghiaccio erano soddisfatti.
-La primavera ha dimenticato questo giardino -esclamarono- perciò noi abiteremo qui tutto l'anno.
La neve copriva l'erba con il suo grande manto bianco e il ghiaccio dipingeva d'argento tutti gli alberi.
Poi invitarono il vento del nord. Esso venne avvolto in una pesante pelliccia e tutto il giorno fischiava per il giardino e abbatteva i camini.
-E' un posto delizioso -disse- dobbiamo invitare anche la grandine.
E la grandine venne. Tre ore al giorno essa picchiava sul tetto del castello finché ruppe le tegole; poi, quanto più veloce poteva, scorrazzava per il giardino.
Era vestita di grigio, e il suo fiato era freddo come il ghiaccio.
-Non riesco a capire perché la primavera tardi tanto a venire -disse il gigante egoista mentre, seduto presso la finestra, guardava il suo giardino gelato e bianco:
-Mi auguro che il tempo cambi.
Ma la primavera non venne mai e nemmeno l'estate. L'autunno diede frutti d'oro a tutti i
giardini, ma nemmeno uno a quello del gigante.
Era sempre inverno laggiù e il vento del Nord, la Grandine, il gelo e la Neve danzavano tra gli alberi.
Una mattina il gigante udì dal suo letto: una dolce musica, risuonava tanto dolce alle sue orecchie che pensò fossero di musicanti del re che passavano nelle vicinanze. Era solo un merlo che cantava fuori dalla sua finestra, ma da tanto tempo non udiva un uccellino cantare nel suo giardino, che gli parve la musica più bella del mondo.
La Grandine cessò di danzare sulla sua testa, il Vento del Nord smise di fischiare e un profumo delizioso giunse attraverso la finestra aperta.
-Credo che finalmente la primavera sia venuta- disse il gigante; balzò dal letto e guardò fuori della finestra.
Che vide? Una visione meravigliosa. I fanciulli entrati attraverso un'apertura del muro e sedevano sui rami degli alberi.
Su ogni albero che il gigante poteva vedere c'era un bambino. Gli alberi,felici di riavere i fanciulli, s'erano ricoperti di fiori e gentilmente dondolavano i rami sulle loro testoline.
Gli uccellini svolazzavano intorno cinguettando felici e i fiori sollevavano il capo per guardare di sopra l'erba verde e ridevano. Era una bella scena. Solo in un angolo regnava ancora l'inverno.
Era l'angolo più remoto del giardino, e vi stava un bambinetto. Era tanto piccolo che non riuscire a raggiungere il ramo dell'albero e vi girava intorno piangendo disperato.
Il povero albero era ancora coperto dal gelo e dalla neve e sopra di esso il vento del nord fischiava.
-Arrampicati piccolo- disse l'albero e piegò i suoi rami quanto più poté: ma il bimbetto era troppo piccino.
A quella vista il cuore del gigante si intenerì.
-Come sono stato egoista!- disse.-Ora so perché la primavera non voleva venire.
Metterò quel bambino in cima all'albero poi abbatterò il muro e il mio giardino sarà, per sempre, il campo di giochi dei bambini. -
Era veramente addolorato per quanto aveva fatto.
Scese adagio le scale e aprì la porta d'ingresso. Ma quando i bambini lo videro, si spaventarono tanto che scapparono, e nel giardino regnò di nuovo l'inverno. Soltanto il bambinetto non scappò; i suoi occhi erano così colmi di lacrime che non vide venire il gigante.
E il Gigante giunse di soppiatto dietro a lui, lo prese delicatamente nella sua mano e lo mise sull'albero. E l'albero fiorì, gli uccellini vennero a cantare e il bambino allungò le braccine, si avvicinò al collo del gigante e lo baciò.
Non appena gli altri bambini videro che il gigante non era più cattivo, ritornarono di corsa e con essi venne la primavera. -Ora questo è il vostro giardino, bambini - disse il gigante e, presa una grande ascia, abbatté il muro.
A mezzogiorno la gente che andava al mercato vide il gigante giocare con i bambini nel giardino più bello che avessero mai veduto. Giocarono tutto il giorno e la sera i bambini salutarono il gigante.
-Dov'è il vostro piccolo amico? - disse: -Il bambino che io ho messo sull'albero?-
Il gigante l'amava più di tutti perché l'aveva baciato.
-Non lo sappiamo -risposero i bambini- se n'è andato.
-Dovete dirgli che domani deve assolutamente venire- disse il gigante.
Ma i bambini risposero che non sapevano dove abitasse e che prima non l'avevano mai veduto, e il gigante si sentì molto triste.
Ogni pomeriggio, finita la scuola, i bambini venivano a giocare con il gigante. Ma il bambinetto che il gigante prediligeva non si vide più.
Il gigante era molto buono con tutti, ma desiderava il suo piccolo amico e spesso parlava di lui.
-Quanto mi piacerebbe vederlo-diceva sovente.
Gli anni passarono, e il gigante divenne vecchio e debole. Non poteva più giocare; sedeva in una grande poltrona e osservava i bambini mentre giocavano e ammirava il suo giardino.-Ho molti bei fiori- diceva- ma i bambini sono i fiori più belli.
Una mattina d'inverno, mentre si vestiva,guardò fuori dalla finestra. Ora non odiava più l'inverno perché sapeva che era soltanto la primavera addormentata e che i fiori si riposavano.
Ad un tratto si fregò gli occhi sorpreso e si mise a guardare intensamente.
Era una cosa veramente meravigliosa. Nell'angolo più remoto del giardino v'era un albero interamente ricoperto di fiori bianchi. Dai rami d'oro pendevano frutti d'argento, e sotto di essi stava il bambinetto ch'egli aveva amato.
Il gigante scese di corsa e, tutto acceso di gioia, uscì nel giardino. Si affrettò sull'erba e s'avvicinò al bambino.
Quando gli fu vicino si fece rosso di collera e disse:
-Chi ha osato ferirti?- perché il bambino aveva il segno di due chiodi sul palmo delle mani e sui piedi.
-Chi ha osato ferirti?- esclamò il gigante- dimmelo e io prenderò la mia grossa spada e l'ammazzerò.
-No- rispose il bambino- queste sono soltanto le ferite dell'amore.
-Chi sei?- chiese il gigante, e uno strano stupore s'impadronì di lui e s'inginocchiò dinanzi al bambino.
Il bambino gli sorrise e disse:
-Un giorno mi lasciasti giocare nel tuo giardino, oggi verrai a giocare nel mio giardino, che è il Paradiso.
Quando nel pomeriggio i fanciulli entrarono di corsa nel giardino trovarono il gigante morto, ai piedi dell'albero tutto coperto di fiori candidi.
Oscar Wilde
Racconto consigliato da Salvatore Armando Santoro
 

La malattia di cui oggi soffre gran parte dell'umanitàè inafferrabile, non definibile. Tutti si sentono più o meno tristi, sfruttati, depressi, ma non hanno un obbiettivo contro cui riversare la propria rabbia o a cui rivolgere la propria speranza. Un tempo il potere da cui uno si sentiva oppresso aveva sedi, simboli, e la rivolta si dirigeva contro quelli. [...]
Ma oggi? Dov'è il centro del potere che immiserisce le nostre vite?
Bisogna forse accettare una volta per tutte che quel centro è dentro di noi e che solo una grande rivoluzione interiore può cambiare le cose, visto che tutte le rivoluzioni fatte fuori non han cambiato granché.
Tiziano Terzani
Consigliato da Sandra Greggio
 

Gli insegnamenti di Rabbi Nachman
Per Rabbi Nachman, vivere in armonia significava essere consapevoli, consapevoli della natura passeggera di questo mondo e dell'eternità di quello futuro.
Dalla sua finestra che si affacciava sulla piazza del mercato, Rabbi Nachman vide passare in fretta uno dei suoi discepoli.
"Hai guardato il cielo stamattina?", chiese il Rabbi.
"No, Rabbi, non ne ho avuto il tempo".
"Credimi, fra cinquant'anni tutto ciò che vedi qui oggi sarà scomparso. Ci sarà un altro mercato, con altri cavalli, altre carrozze, persone diverse. Allora io non ci sarò più e neppure tu. Perciò, cosa devi fare di così importante da non avere il tempo di guardare il cielo?!"

Rabbi Nachman di Breslav insegnava:
Impara ad aspettare. Se non ti sembra di riuscire a raggiungere i tuoi obiettivi, malgrado tutti i tuoi sforzi risoluti, sii paziente. Fra l'accettazione e l'ansia, scegli l'accettazione.

Sei avvisato: l'uomo e il denaro non possono restare insieme per sempre. O il denaro viene portato via dall'uomo, o l'uomo viene portato via dal denaro.

Rispondi agli insulti con il silenzio.
Quando qualcuno ti ferisce, non ripagare con uguale moneta. Allora sarai degno di stima autentica, una stima che è stima interiore, una stima che viene dal cielo.

Tratto da: "La sedia vuota. Come trovare la speranza e la gioia"
Di Nachman di Breslav (1772 - 1810).
Consigliato da Sandra Greggio
 

Non potevo restare indifferente di fronte ad una frase come questa, citata da Piero Colonna Romano in uno dei suoi splendidi commenti. L’ho fatta mia e, scusandomi, ma, nello stesso tempo, pensando di fargli piacere, ho pensato di proporla all’attenzione di tutti. La frase è di Gandhi.

 “Questo messaggio lo dedichiamo ai folli. A tutti coloro che vedono le cose in modo diverso.
Potete citarli. Essere in disaccordo con loro, potete glorificarli o denigrarli, ma l'unica cosa che non potete fare è ignorarli. Perché riescono a cambiare le cose.
E mentre qualcuno potrebbe definirli folli, noi ne vediamo il genio. Perché solo coloro che sono abbastanza folli da pensare di poter cambiare il mondo, lo cambiano davvero.”
Consigliato da Sandra Greggio
 

Una “perla” di Tiziano Terzani
Mi piaceva pensare che i problemi dell'umanità potessero essere risolti un giorno da una congiura di poeti: un piccolo gruppo si prepara a prendere le sorti del mondo perché solo dei poeti ormai, solo della gente che lascia il cuore volare, che lascia libera la propria fantasia senza la pesantezza del quotidiano,è capace di pensare diversamente. Edè questo di cui avremmo bisogno oggi: pensare diversamente.
Consigliato da Sandra Greggio
 

Spero serva per rinfrescare la memoria. Attualissimo oggi come allora:

Francois-Marie Arouet
Voltaire


Trattato sulla tolleranza (1763)
Capitolo VI

Il diritto naturale è quello che la natura indica a tutti gli uomini.
Avete allevato vostro figlio: egli vi deve dunque rispetto perché siete suo padre, riconoscenza perchè siete suo benefattore.
Avete diritto ai frutti della terra che avete coltivato con le vostre mani.
Avete fatto e ricevuto una promessa: essa deve essere mantenuta.
Il diritto umano non può essere fondato, in nessun caso, che su questo diritto di natura; il fondamentale principio, il principio universale di entrambi i diritti è, su tutta la terra: "Non fare agli altri ciò che non vorresti fosse fatto a te".
Ora non si vede come un uomo, se si segue questo principio, possa dire ad un altro: "Credi quello che credo io e che tu non vuoi credere, altrimenti morrai".
E' quello che si dice in Portogallo, in Spagna, a Goa. In qualche altro paese, oggi, ci si accontenta di dire : "Credi o avrai tutto il mio odio; credi o ti farò tutto il male che potrò; mostro, tu non segui la mia religione, dunque hai nessuna religione; bisogna che tu sia guardato con orrore dai tuoi vicini, dalla tua città, dalla tua provincia".
Se tale comportamento fosse conforme al diritto umano, bisognerebbe che il giapponese detestasse il cinese, che, a sua volta, dovrebbe odiare il siamese; costui perseguiterebbe i gangaridi, che si getterebbero sugli abitanti dell'Indo; un mongolo strapperebbe il cuore al primo malabaro che incontrasse; il malabaro potrebbe sgozzare il persiano, che potrebbe massacrare il turco.
E tutti insieme si precipiterebbero sui cristiani, che si sono così a lungo divorati l'un con l'altro.
Il diritto all'intolleranza è dunque assurdo e barbaro:è il diritto delle tigri, più orribile anzi, perché esse non sbranano che per mangiare.
Ma noi ci siamo sterminati per dei paragrafi.


NOTA: Voltaire scrisse "Il trattato" a seguito d'una sentenza di morte comminata, per ragioni religiose, ad un cittadino di Tolosa. Sono passati circa 300 anni da allora. E da allora non ci siamo evoluti, anzi. Siamo riusciti a rendere scientifico l'odio, sia livello mondiale, sia a livello regionale. Inutile fare elenchi, sono sotto gli occhi di tutti.
Consigliato da Piero Colonna Romano

Vi propongo un esempio di bello scrivere in italiano. Leonardo Sciascia ha usato la nostra lingua con maestria difficilmente eguagliabile. Leggerlo è musica per l'anima:

"Il benedettino passò un mazzetto di penne variopinte sul taglio del libro, dal faccione tondo soffiò come il dio dei venti delle carte nautiche a disperdere la nera polvere, lo aprì con ribrezzo che, nella circostanza, apparve delicatezza, trepidazione.
Per la luce che cadeva obliqua dall'alta finestra, sul foglio color sabbia i caratteri presero rilievo: un grottesco drappello di formiche nere spiaccicato, secco.
Sua eccellenza Abdallah Mohamed ben Olman si chinò su quei segni, il suo occhio abitualmente languido, stracco annoiato, era diventato vivo ed acuto. Si rialzò un momento dopo, a frugarsi con la destra sotto la giamberga: tirò fuori una lente montata, oro e pietre verdi, a fingerla un fiore o frutto su esile tralcio.
-Ruscello congelato- disse mostrandola. Sorrideva: ché aveva citato Ibn Hamdis, poeta siciliano, per omaggio agli ospiti.
Ma, tranne don Giuseppe Vella, nessuno sapeva d'arabo: e don Giuseppe non era in grado di cogliere il gentile significato che sua eccellenza aveva voluto dare alla citazione, né di capire che si trattava di una citazione. Tradusse perciò invece che le parole, il gesto -La lente, ha bisogno della lente-; il che monsignor Airoldi, che con emozione aspettava il responso di sua eccellenza su quel codice, aveva capito da sé
Sua eccellenza era di nuovo chino sul libro, muoveva la lente come a disegnare esitanti ellissi.
Don Giuseppe vedeva i segni balzare dentro la lente e, prima che avesse il tempo di coglierne uno solo, sfrangiati ricadere sulla pagina.
Sua eccellenza voltò il foglio, ancora si attardò nell'esame. Mormorò qualcosa. Voltò altri fogli velocemente scorrendoli con la lente, sull'ultimo che guizzava di piccoli vermi d'argento si soffermò.

Leonardo Sciascia "Il consiglio d'Egitto"

(il romanzo narra di un'impostura, ideata da don Giuseppe Vella che aveva falsificato un antico codice arabo, per trarne guadagno nel suo utilizzo.
Si svolge nella Palermo del 1783, essendo vicerè di Sicilia il Caracciolo, ed il codice, così falsificato, sarebbe divenuto documento di tale importanza da far giustizia di tutti i privilegi baronali, restituendo al Regno la piena potestà sull'isola. Ed al Vella ne sarebbe derivata una pingue abazia che gli avrebbe consentito l'agiatezza.
La parte proposta narra dell'analisi che un profondo conoscitore della lingua araba -sua eccellenza- effettua sul codice, alla presenza del Vella e dell'arcivescovo di Palermo, mons . Airoldi)
Consigliato da Piero Colonna Romano
 

Carissimi sitani,
per il vostro diletto desidero proporvi un racconto, tratto dal romanzo “I dodici abati di Challant”  della preziosa Laura Mancinelli, edito per la prima volta da Einaudi nel 1981.Prima vorrei darvi, per meglio intenderne l’atmosfera, qualche informazione sui personaggi che vi compaiono:

Eleonora d’Aquitania nacque a Poitiers nel 1122. Donna bellissima dalle eccezionali qualità, colta e mecenate, protettrice dei trovadori dell’epoca. Due volte regina (di Francia prima e successivamente d’Inghilterra) ebbe notevole peso ed influenza politica. Propugnò, assieme a Bernardo di Chiaravalle , un paio di crociate Ma…., come la Mancinelli la descrive, ardente di gioia e di passione. Otto figli dai suoi due mariti, ma anche ripudiata da Luigi VII (re di Francia) “per la sua indomabile propensione alla lussuria”.
Bernardo di Chiaravalle nacque a Fontaine lè Dijonne nel 1090,morì nel 1153. Monaco cistercense, ampliò notevolmente il numero dei monasteri dell’ordine in terra di Francia ed altrove. D’un rigore morale assoluto, propugnò più crociate (?) predicando l’estrema violenza. A lui si attribuisce la fondazione dei cavalieri templari. Ma il suo merito principale (forse per questo fu santificato !!) fu la coltivazione della vite e la produzione del vino. Per un errore nella vinificazione, il vino bianco, ahimè, continuava a fermentare anche in bottiglia. Bernardo passò gran parte della sua vita nel tentativo di correggere questo errore. Morì prima di riuscirvi, fortunatamente, perché (veramente santo!!) era nato lo champagne.
Pietro Abelardo: filosofo (non quello di Eloisa) e teologo era del parere che la fede fosse una semplice opinione. Cosa che fece molto incavolare Bernardo che nel relativismo (udite, udite) vedeva la metastasi dell’umanità, ben prima del pastore tedesco.

Ed ora, carissimi, godete di questa “cronaca di provenza” debitamente ammodernata nel linguaggio, come ci avverte la Mancinelli.

“In quel tranello invero cadde Bernardo il dì che si recò ad Acque Seste, ove i fanghi tepidi o bollenti sempre han curato artrosi e reumatismi molcendo col calore le giunture, sciogliendo nodi e vari indurimenti, accarezzando col calor le membra. S’era Bernardo ridotto a tali cure per un dolor che aveva alla cervice, venuto forse dalla fredda cella in cui Seneca studiava e Cicerone e Girolamo il traduttore ed Agostino e Platone e Aristotele e Plotino. La mano destra pure gli doleva e gli era nato per questo un gran timore che più non potesse scrivere sermoni che fustigassero le colpe delle genti che amano il corpo ed i piacer carnali. Solo per questo infine s’era indotto a sottoporsi a quelle cure ardenti, disteso nudo sopra un picciol letto, mentre donne vecchie vestite di nero, versavano il fango in gran silenzio sopra le membra dolenti e irrigidite. E poi che s’era fatto freddo e duro, via lo lavavan con pura acqua di fonte. Ma udite, del diavolo maligno, bieca impresa e turpe ingannamento. Qui s’avvide un giorno il santo frate che la donna velata e vestita di nero, vecchia non era e il velo si toglieva e scopriva il volto ridente et amoroso sguardo. Mentre il fango già si rapprendeva, divenuto all’istante troppo duro, la bella donna sulla bocca lo baciava e trascorrer gli faceva per le vene quel fuoco dell’inferno maledetto che tanto aveva dal pulpito annunciato. Mentr’ella, il capo coronato di perle sollevava sopra il suo misfatto, perché il santo non proferisse verbo, altro fango gli poneva sulla bocca chiudendola al sacro sdegno prorompente. Allora il frate, quale guerriero audace, pronto a morire senza cedere al demonio, tentò di levarsi per fuggir la peccatrice; ma a costei, aveva appreso il diavolo in persona, le trappole perverse dell’inferno. Costei il suo corpo non col fango buono, ma con vile calcestruzzo avea coperto, che, raffreddando, s’era ormai indurito e come una corazza lo stringeva, inerme ed esposto ad ogni offesa. Nulla poteva se non rotear gli occhi ardenti di fiamme sacrosante, mentre china su di lui la peccatrice, con mani audaci ed impudiche già andava carezzando la fredda rigida corazza. E il santo, conscio del martirio, già presentiva la ferita aperta, la crosta vulnerata, gli rapinava virtute e continenza. Quasi avrebbe accettato in quel momento che fosse giusta la voce d’Abelardo, il frate spocchioso e peccatore, che predicava da un pulpito d’inganni che l’intenzione sola può peccare. E, con tal dottrina, lui non peccherebbe, che intenzione carnale non aveva quando, vestito dell’umile saio, era venuto a chiedere sollievo a quel dolore che gli insidiava gli arti. Ma l’immagine del monaco rivale già si sfaceva come nebbia al sole, sotto lo sguardo di quegli occhi che parevan penetrarlo fin dove non giunge sguardo umano. Già gli pareva che si sciogliesse il fango e la mano bianca trascorresse sulla pelle nuda, voluttuosamente.”

Agli amanti degli ottonari propongo un esercizio: leggetelo con quella metrica. E’ delizioso. Un caro saluto a tutti ed un grazie a Lorenzo De Ninis.

Tratto da “I dodici abati di Challant” di Laura Mancinelli
Consigliato da Piero Colonna Romano

Raccontami la notte in cui sono nato.

Basta! Ad un certo punto abbiamo detto "basta", lo adotteremo.Ci abbiamo messo un anno per convircerci, per convincermi.Nel frattempo ci siamo sposati. Adesso la casa è invasa da giochi:sembra che ci vivano sei bambini, non una bambina, Natalia.Ogni angolo della casa è occupato.La settimana scorsa , mentre le facevo il bagno, mi ha chiesto perchè io non l'ho tenuta nella pancia, e allora,la sua vera mamma chi è?Le ho detto che di mamme ne ha due:una mamma di pancia e una mamma di cuore, proprio come dice quel libro.Mi si piegavano le ginocchia intanto.Allora l'ho portata in camera sua, l'ho vestita e ci siamo messe a leggere una storia che avevo tenuto da parte per questo momento, s'initola "raccontami ancora la notte che sono nato".Comincia così,è il bambino che parla:"Raccontami ancora la notte che sono nato.Raccontami ancora che tu e papà stavate dormendo e papà russava, raccontami ancora che è suonato il telefono nel mezzo della notte e vi hanno detto che ero nato.Raccontami di come ti sei messa a gridare:raccontami ancora di quando hai chiamato i nonni mentre ti vestivi, ma loro non hanno sentito il telefono perchè dormivano come ghiri. Raccontami ancora di quando avete preso l'areeo con il mio orso di pezza,raccontami di come tu non potevi fare un figlio con la tua pancia, e una altra donna mi ha fatto con la sua, di pancia ma era troppo giovane per prendersi cura di me.Raccontami ancora di quando mi avete visto, che tu e papa vi tenevate per mano e non potevate credere che una cosa così piccola vi facesse ridere tanto.Raccontami ancora della prima volta che mi hai preso in braccio e mi hai detto "amore"di come piangevi di felicità. Raccontami ancora della prima sera che sei stata mia madre e mi hai cantato la canzone che ti cantava tua madre.Raccontami di quando mi hai messo nel letto.Dai mamma, racconta un'altra volta da capo la notte in cui sono nato."
Vedi Bambina mia, la mia pancia era rotta ed io soffrivo per questo:la tua mamma non poteva tenerti e tu soffrivi per quello.Abbiamo messo insieme i nostri dolori per provare a farne una felicità:alla pari.Quando mi viene da piangere mentre leggo questa storia,sento che la mia bambina mi stringe un po',se ne accorge benissimo e poi, quando il libro finisce,mi dice"ancora, ricomincia ,leggilo ancora".

Da "Una madre lo sa"di Concita di Gregorio
Racconto consigliato da Tinti Baldini

Il Principe felice - Oscar Wilde (1888)
Alta sopra la città, su una lunga, esile colonna, sporgeva la statua del Principe Felice. Era tutto dorato di sottili foglie d'oro fino, i suoi occhi erano due lucenti zaffiri, e un grande rubino rosso luccicava sull'elsa della sua spada. Tutti lo ammiravano. "È bello come una bandierina mossa dal vento," osservò un giorno uno degli assessori di città che ambiva farsi una reputazione d'uomo di gusto "peròè meno utile", si affrettò a soggiungere, per timore che la gente lo giudicasse privo di senso pratico, il che non era affatto vero.
"Perché non sai comportarti come il Principe Felice?" chiese una madre piena di buon senso al suo bambino che piangeva perché voleva la luna. "Il Principe Felice non si sogna mai di piangere per nulla". "Sono contento che a questo mondo ci sia qualcuno veramente felice", borbottò un uomo disilluso ammirando la splendida statua. "Assomiglia un angelo", dissero i Trovatelli uscendo dalla cattedrale nei loro lucenti mantelli scarlatti e nei loro lindi grembiulini candidi. "Come fate a dire questo?" osservò il professore di matematica, "se non ne avete mai veduti!". "Oh, sì, che ne abbiamo visti, nei nostri sogni!" risposero i bambini, e il professore di matematica aggrottò la fronte e fece la faccia scura, perché non trovava giusto che i bambini sognassero.
Una sera volò sulla città un Rondinotto. I suoi amici se n'erano andati in Egitto sei settimane innanzi, ma egli era rimasto indietro perché si era innamorato di una bellissima Canna. L'aveva conosciuta al principio di primavera mentre volava giù per il fiume in caccia di una grossa falena gialla, ed era stato talmente attratto dalla sua vita sottile che si era fermato a parlarle. "Vuoi che m'innamori di te?" le aveva chiesto il Rondinotto, cui piaceva venir subito al sodo, e la Canna gli aveva fatto un profondo inchino. Così egli le volò più volte intorno, sfiorando l'acqua con le ali, e increspandola di cerchi argentei. Questa fu la sua corte, e durò tutta l'estate. "È un attaccamento ridicolo", garrivano le altre Rondini, "È senza un soldo, ma in compenso ha un sacco di parenti", e a dire il vero il fiume era zeppo di Canne. Poi, non appena venne l'autunno, le Rondini volarono via tutte. Quando se ne furono andate il Rondinotto si sentì solo, e incominciò a stancarsi della sua bella. ' Non sa conversare, ' si disse ' e temo sia una civetta poiché seguita a frascheggiare col vento '. E infatti, ogni volta che il vento spirava, la Canna si piegava con inchini graziosissimi. "Riconosco che è casalinga," proseguì il Rondinotto "ma a me piace viaggiare e di conseguenza anche a mia moglie dovrebbero piacere i viaggi". "Vuoi venir via con me?" le chiese infine, ma la Canna scosse la testa, era troppo affezionata alla sua casa. "Tu mi hai preso in giro!" gridò il Rondinotto. "Me ne vado alle Piramidi. Addio!" e volò via.
Volò tutto il giorno, e a sera giunse alla città. ' Dove alloggerò? ' si disse. ' Spero mi abbiano preparato dei festeggiamenti. ' Ma poi notò la statua sull'alta colonna. "Andrò ad abitare lì", esclamò. "La posizione è bellissima, e ci si deve respirare dell'ottima aria fresca". Così si posò proprio tra i piedi del Principe Felice. "Ho una camera da letto tutta d'oro", mormorò sottovoce tra sé e sé, guardandosi attorno e preparandosi per la notte, ma giusto mentre stava mettendo la testa sotto l'ala gli cadde addosso una grossa goccia d'acqua. "Che cosa strana!" esclamò. "In cielo non c'è neanche la più piccola nuvola, le stelle sono chiare e luminose, eppure piove. Il clima del Nord Europa è semplicemente spaventoso. Alla Canna la pioggia piaceva, ma questo era dovuto unicamente al suo egoismo". In quella cadde un'altra goccia. "A che serve una statua se non riesce a riparare dalla pioggia?" brontolò; "bisogna che mi cerchi un buon comignolo", e fece per volarsene via. Ma proprio mentre stava per aprire le ali una terza goccia cadde, ed egli allora alzò gli occhi e vide... ah, che cosa vide? Gli occhi del Principe Felice erano gonfi di lagrime, e lagrime rigavano le sue guance dorate. Il suo viso era così bello sotto la luce della luna che il piccolo Rondinotto si sentì invadere da una profonda pietà. "Chi sei?" chiese. "Sono il Principe Felice". "Perché piangi, allora? Mi hai inzuppato tutto". "Quando ero vivo e avevo un cuore umano," rispose la statua "non sapevo che cosa fossero le lagrime, perché abitavo nel Palazzo di Sans-Souci, dove al dolore non è permesso di entrare. Durante il giorno giocavo coi miei compagni nel giardino, e la sera guidavo le danze nella Grande Sala. Intorno al giardino correva un muro altissimo, ma mai io mi curai di sapere che cosa si stendesse al di là di esso, ogni cosa intorno a me era così bella! I miei cortigiani mi chiamavano il Principe Felice, e se il piacere è felicità, io ero veramente felice. Così vissi, e così morii. E ora che sono morto mi hanno messo qui tanto in alto che adesso vedo tutta la bruttezza e tutta la miseria della mia città, e sebbene il mio cuore sia di piombo altro non mi resta che piangere". "Come mai? Non è d'oro massiccio?" si chiese mentalmente il Rondinotto, perché era troppo educato per rivolgere ad alta voce domande di carattere personale. "Lontano lontano," proseguì la statua con la sua dolce voce musicale "lontano in una stradina c'è una povera casa. Una finestra di questa casa è aperta e attraverso vi vedo una donna seduta a un tavolo. Ha il viso magro e sciupato, e le sue mani sono rosse e ruvide e tutte bucherellate dall'ago, poiché fa la cucitrice. Sta ricamando passiflore su un abito di raso che la più bella tra le damigelle d'onore della Regina indosserà al prossimo ballo di Corte. A letto, in un angolo della stanza, il suo bambino giace ammalato. Ha la febbre e vorrebbe mangiare delle arance, ma sua madre non ha nulla da dargli, fuorché acqua di fiume, perciò il bambino piange. Rondinotto, piccolo Rondinotto, non gli porteresti il rubino che luccica sull'elsa della mia spada? I miei piedi sono attaccati a questo piedistallo e io non mi posso muovere". "Sono aspettato in Egitto", rispose il Rondinotto. "I miei amici in questo momento volano sul Nilo, e discorrono con i grandi fiori di loto. Tra poco andranno a dormire nella tomba del gran Re, dove il Re stesso riposa nel suo sarcofago dipinto.è avvolto in gialli lini e imbalsamato con aromi. Ha il collo adorno di una collana di giada verde pallida, e le sue mani assomigliano a foglie avvizzite". "Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto," disse il Principe "non vuoi restare con me per una notte soltanto, ed essere il mio messaggero? Il bambino ha tanta sete, e la madre è così triste!" "Non credo che mi piacciano i bambini", replicò il Rondinotto. "L'estate scorsa, quando stavo sul fiume, c'erano due ragazzi maleducati, i due figliuoli del mugnaio, che mi tiravano sempre sassi. Naturalmente non mi hanno mai preso, si capisce: noi rondini voliamo troppo bene per lasciarci colpire, e del resto io vengo da una famiglia famosa per la sua agilità; comunque però era una grave mancanza di rispetto". Ma il Principe Felice aveva un viso così doloroso che il Rondinotto ne provò pena. "Qui fa molto freddo," disse "ma per farti piacere resterò ancora una notte e sarò tuo messaggero". "Grazie, piccolo Rondinotto", disse il Principe.
Così il Rondinotto colse il grande rubino che ornava la spada del Principe e volò sopra i tetti della città, tenendo stretto il gioiello nel becco appuntito. Passò accanto alla torre della cattedrale, su cui erano scolpiti i grandi angeli di marmo. Passò accanto al palazzo e udì un suono di danze. Una fanciulla bellissima si affacciò al balcone col suo innamorato. "Guarda che stelle meravigliose," egli le disse, "e come è meraviglioso il potere dell'amore!". "Spero che il mio vestito sarà pronto per quando ci sarà il ballo di Stato", rispose la fanciulla. "Ho ordinato che sia ricamato a passiflore, ma le cucitrici sono talmente pigre!".
Passò sopra il fiume, e vide le lanterne appese agli alberi delle navi. Passò sul Ghetto, e vide i vecchi Ebrei che contrattavano tra di loro, e pesavano il danaro su bilance di rame. E finalmente giunse alla povera casa e vi guardò dentro. Il bambino si agitava febbrilmente sul letto, mentre la madre si era addormentata: era tanto stanca! Saltellò nella stanza e posò il grosso rubino sul tavolo, accanto al ditale della donna. Poi volò piano attorno al letto, e accarezzò con le sue ali la fronte del piccolo, facendogli vento dolcemente. "Come mi sento fresco!" disse il bambino. "Forse incomincio a star meglio", e si addormentò di un sonno tranquillo. Allora il Rondinotto rivolò dal Principe Felice e gli raccontò quello che aveva fatto. "Strano," osservò "ma benché faccia un freddo cane adesso ho caldo". "Perché hai compiuta una buona azione", gli disse il Principe: il piccolo Rondinotto incominciò a pensare, ma subito si addormentò: il pensare gli metteva sempre addosso un gran sonno.
Quando il giorno spuntò, volò giù al fiume e prese un bagno. "Che fenomeno straordinario!" esclamò il Professore di Ornitologia che passava in quel momento sul ponte. "Una Rondine d'inverno!" E mandò al giornale locale una lunga lettera in proposito. Tutti la citarono: era costellata di un sacco di vocaboli che nessuno capiva.
"Questa sera parto per l'Egitto", disse il Rondinotto, e questa previsione lo mise di ottimo umore. Visitò tutti i monumenti pubblici, e rimase a lungo seduto in cima al campanile della chiesa. Dovunque andava i Passeri cinguettavano e pispigliavano tra di loro: "Che forestiero distinto!", cosicché il Rondinotto si divertì un mondo. Quando la luna sorse rivolò dal Principe Felice. "Hai qualche commissione da darmi per l'Egitto?" disse. "Sono di partenza". "Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto," disse il Principe "non vuoi restare con me ancora una notte?" "In Egitto mi aspettano", rispose il Rondinotto. "Domani i miei amici voleranno fino alla Seconda Cateratta. Laggiù tra i giunchi, se ne sta accovacciato l'ippopotamo, e su un grande trono di granito siede il Dio Memnone. Tutta la notte egli contempla le stelle, e quando risplende la stella del mattino proferisce un unico grido di gioia, e poi tace. A mezzogiorno i leoni fulvi scendono a bere all'orlo dell'acqua. Hanno occhi simili a verdi berilli, e il loro ruggito è più forte del ruggito della cateratta". "Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto," disse il Principe "lontano lontano, dall'altra parte della città, vedo un giovane in una soffitta, appoggiato a una scrivania ingombra di carte, e in un boccale accanto a lui c'è un mazzolino di viole appassite. Ha i capelli bruni e crespi, le sue labbra sono rosse come una melagrana, e i suoi occhi sono grandi e sognanti. Sta sforzandosi di terminare una commedia per il Direttore del Teatro, ma ha troppo freddo per poter seguitare a scrivere. Non c'è fuoco nel suo camino, e la fame lo ha fatto svenire". "Va bene, aspetterò presso di te un'altra notte", disse il Rondinotto, che aveva proprio un cuore d'oro. "Devo portargli un altro rubino?" "Ahimè, non ho più rubini, ormai," disse il Principe, "tutto ciò che mi è rimasto sono i miei occhi, ma sono fatti di zaffiri rari, e furono portati dall'India più di mille anni fa. Strappane uno e portaglielo. Lo venderà al gioielliere, e si comprerà legna da ardere, e finirà la sua commedia". "Caro Principe," disse il Rondinotto "io non posso fare questo", e incominciò a piangere.
"Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto," disse il Principe "ubbidiscimi".
Così il Rondinotto strappò l'occhio del Principe e volò fino alla soffitta dello studente. Era facile entrarvi, perché nel tetto c'era un buco. Il Rondinotto vi sfrecciò attraverso, e penetrò nella stanza. Il giovane aveva il capo affondato tra le mani, perciò non avvertì il frullio d'ali dell'uccello, e quando alzò gli occhi vide il bellissimo zaffiro adagiato in mezzo alle viole appassite. "Incominciano ad apprezzarmi!" gridò; "certo me lo manda qualche grande ammiratore. Adesso potrò finalmente terminare la mia commedia!". Ed era tutto felice.
Il giorno dopo il Rondinotto volò giù al porto. Si posò sull'albero di una grossa nave e stette a osservare i marinai che a forza di funi alavano su dalla stiva pesanti casse. "Issa-oh!" si gridavan l'un l'altro a mano a mano che le casse salivano. "Io vado in Egitto!" garrì il Rondinotto, ma nessuno gli badò, e quando spuntò la luna volò ancora una volta dal Principe Felice. "Sono venuto a salutarti", gli disse. "Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto," disse il Principe "non vuoi rimanere con me ancora per questa notte?" "È inverno ormai," rispose il Rondinotto "e fra poco arriverà la fredda neve. In Egitto il sole è caldo sulle verdi palme, e i coccodrilli riposano nel fango e si guardano attorno con occhi pigri. I miei compagni stanno costruendo un nido nel Tempio di Baalbec, e le colombe rosee e bianche li guardano, e tubano tra loro. Caro Principe, debbo lasciarti, ma non ti dimenticherò mai, e la prossima primavera ti porterò due gemme bellissime, al posto di quelle che tu hai regalate. Il rubino sarà più rosso di una rosa rossa, e lo zaffiro sarà azzurro come il vasto mare". "Nella piazza qua sotto," disse il Principe Felice, "ci sta una piccola fiammiferaia. I fiammiferi le sono caduti nella cunetta del marciapiedi, e si sono tutti bagnati. Suo padre la picchierà se non porterà a casa un pò di danaro, e perciò la piccola piange. Non ha né calze né scarpe, e la sua testolina è nuda. Strappa l'altro mio occhio e portaglielo, così suo padre non la batterà". "Resterò con te ancora per questa notte," disse il Rondinotto "ma non posso strapparti l'altro occhio. Rimarresti completamente cieco". "Rondinotto, Rondinotto, piccolo Rondinotto," disse il Principe "fà come ti dico". Così il Rondinotto strappò l'altro occhio del Principe e sfrecciò giù nella piazza. Passò roteando accanto alla piccola fiammiferaia e le fece scivolare il gioiello nel palmo della mano. "Che bel pezzettino di vetro!" esclamò la bambina, e corse a casa ridendo. Poi il Rondinotto ritornò dal Principe. "Adesso sei cieco," disse "perciò io resterò con te per sempre". "No, piccolo Rondinotto," mormorò il povero Principe "tu devi andare in Egitto". "Resterò con te per sempre", ripeté il Rondinotto, e dormì ai piedi del Principe.
Poi tutto il giorno seguente se ne stette appollaiato sulla spalla del Principe, e gli raccontò quello che aveva veduto in paesi lontani. Gli parlò dei rossi ibis, che sostano in lunghe file sulle rive del Nilo e col becco acchiappano pesciolini dorati; gli parlò della Sfinge, che è vecchia quanto il mondo, e vive nel deserto, e conosce ogni cosa; gli parlò dei mercanti che viaggiano piano al fianco dei loro cammelli e recano tra le mani rosari d'ambra; gli parlò del Re della Montagna della Luna, che è nero come l'ebano, e adora un enorme cristallo; gli parlò del grande serpente verde che dorme in un palmizio edè nutrito da venti sacerdoti con focacce di miele; gli parlò infine dei pigmei che veleggiano su un grande lago sopra larghe foglie piatte e sono sempre in guerra con le farfalle. "Caro Rondinotto," disse il Principe "tu mi parli di cose meravigliose, ma più meraviglioso di qualsiasi cosa è il dolore degli uomini e delle donne. Non vi è Mistero più grande della Miseria. Vola sulla mia città, piccolo Rondinotto, e raccontami quello che vedi".
Così il Rondinotto volò sopra la grande città, e vide i ricchi gozzovigliare nelle loro splendide dimore, mentre i poveri sedevano fuori, ai cancelli. Volò in bui vicoli, e vide i visi bianchi dei bambini affamati che fissavano con occhi assenti le strade oscure. Sotto l'arcata di un ponte due ragazzini si stringevano l'uno all'altro cercando di riscaldarsi a vicenda. "Che fame, abbiamo!" dicevano. "Non potete dormire laggiù", gridò la guardia, e i due bambini si allontanarono sotto la pioggia. Allora il Rondinotto tornò indietro e raccontò al Principe quello che aveva veduto. "Sono tutto ricoperto d'oro fino," disse il Principe "tu devi togliermelo di dosso, foglia per foglia, e darlo ai miei poveri: i vivi credono che l'oro possa renderli felici". Il Rondinotto piluccò via foglia dopo foglia del fine oro, finché il Principe Felice divenne tutto opaco e grigio. Foglia per foglia del fine oro egli portò ai poveri, e le facce dei bambini si fecero più rosate, ed essi risero e giocarono giochi infantili nelle strade. "Abbiamo pane, adesso!" gridavano.
Poi venne la neve, e dopo la neve venne il gelo. Le strade sembravano pavimentate d'argento, tanto erano lucide e scintillanti; lunghi ghiaccioli, simili a lame di cristallo, pendevano dalle gronde delle case; tutti giravano impellicciati e i ragazzini indossavano cappucci scarlatti e pattinavano sul ghiaccio. Il povero piccolo Rondinotto aveva sempre più freddo, ma non voleva lasciare il Principe; gli voleva troppo bene. Raccoglieva briciole fuor dell'uscio del fornaio quando questi aveva la schiena voltata, e cercava di scaldarsi battendo le ali. Ma alla fine capì che era prossimo a morire. Ebbe giusto la forza di volare un'ultima volta sulla spalla del Principe. "Addio, caro Principe," mormorò "mi permetti che ti baci la mano?". "Sono contento che tu vada in Egitto, finalmente, piccolo Rondinotto," disse il Principe "sei rimasto qui anche troppo tempo, ma tu devi baciarmi sulle labbra, perché io ti amo". "Non è in Egitto che io vado," disse il Rondinotto "vado alla Casa della Morte. La Morte non è forse la sorella del Sonno?". E baciò il Principe Felice sulle labbra, e cadde morto ai suoi piedi. In quel momento si udì nell'interno della statua uno strano crac, come se qualcosa si fosse rotto. Il fatto è che il cuore di piombo si era spaccato netto in due. Certo faceva un freddo cane.
Il mattino seguente per tempo il Sindaco andò a passeggiare nella piazza sottostante in compagnia degli Assessori. Nel passare dinanzi alla colonna alzò gli occhi verso la statua: "Dio mio! Com'è conciato il Principe Felice!", esclamò. "Davvero! Com'è conciato!" esclamarono gli Assessori che ripetevano sempre quel che diceva il Sindaco, e andarono tutti su per vedere meglio. "Gli è caduto il rubino dall'elsa della spada, gli occhi non ci sono più, e la doratura è scomparsa," disse il Sindaco "insomma, sembra poco meno che un accattone!". "Poco meno che un accattone", ripeterono in coro gli Assessori civici. "E qui, ai piedi della statua, c'è persino un uccello morto!" proseguì il Sindaco. "Dobbiamo assolutamente emanare un'ordinanza che agli uccelli non sia permesso di morire qui!". E lo Scrivano Pubblico prese appunti per la stesura del decreto. Così tirarono giù la statua del Principe Felice. "Dal momento che non è più bello non è nemmeno più utile" osservò il Professore di Belle Arti dell'Università. Quindi fusero la statua in una fornace e il Sindaco indisse un'adunanza della Corporazione per decidere quel che si doveva fare del metallo. "Dobbiamo costruire un'altra statua," disse "e sarà la mia statua". "La mia", ripeté ciascuno degli Assessori, e litigarono. L'ultima volta che ebbi loro notizie stavano ancora litigando. "Che cosa curiosa!" disse il sorvegliante degli operai della fonderia. "Questo rotto cuore di piombo non vuole fondersi nella fornace. Bisogna che lo gettiamo via". E 1o gettarono infatti su un mucchio di spazzatura dove avevano buttato anche il Rondinotto morto.
"Portami le due cose più preziose che trovi nella città", disse Dio a uno dei Suoi Angeli; e l'Angelo Gli portò il cuore di piombo e l'uccello morto. "Hai scelto bene," gli disse Dio "poiché nel mio giardino del Paradiso questo uccellino canterà in eterno, e nella mia città d'oro il Principe Felice mi loderà".
-Consigliato da Claudio Agostini-

Waunsilapi (Compassione)
A qualche anziano Lakota piace raccontare come il suo popolo sia emerso da una fenditura nella terra, nella parte meridionale delle Black Hills. Questo è un racconto della creazione.
Quello che sto per riferire è un racconto della ri-creazione e non avrebbe avuto un lieto fine se non ci fosse compassione nel mondo.
Tanto tempo fa un popolo viveva in una terra dai tanti laghi. Nelle foreste c'erano molti animali, come caprioli e alci, da cacciare per ottenerne cibo e vestiti. I laghi erano pieni di pesci di ogni tipo, di anatre e oche. Quel popolo era forte, i suoi nemici lo temevano e quindi regnava la pace. La vita era piacevole. Poi arrivò un inverno particolarmente duro. La neve era profonda. Arrivò presto e durò a lungo. Finalmente tutta la neve si sciolse in maggio, "la luna delle bacche mature". L'estate portò molta pioggia ed i laghi e i fiumi cominciarono a straripare- La pioggia continuava a cadere. La gente sapeva che la stagione umida passa sempre. Rattopparono le loro abitazioni rotonde fatte di corteccia e paglia per evitare che filtrasse l'acqua e aspettarono che la pioggia diminuisse. Ma non successe. I laghi ed i fiumi si riempivano sempre di più sino a rompere gli argini e la pioggia continuava a cadere. Il cielo continuava ad essere scuro e nuvoloso. Le acque continuavano a salire sempre di più, cacciando via le persone dalle loro case. Trovarono terreni più elevati e costruirono nuove case, ma l'acqua continuava ad arrivare. Presto non ci fu più riposo dalla grande alluvione, la gente dovette continuare a muoversi verso le colline e le creste più alte. Anche gli animali fuggivano dalle acque. Il cibo divenne scarso perché i cacciatori non potevano cacciare. Molti beni furono abbandonati alle acque che aumentavano. La gente pativa il freddo perché non si trovava legna secca per accendere il fuoco.
I primi a morire furono gli anziani, troppo deboli per affrontare il freddo e la fame. Presto molte persone si ammalarono di polmonite. Molti si indebolirono ancora di più e morirono perché non c'erano medicine per aiutarli. Poi arrivarono i venti. Dal nord arrivarono venti fortissimi, furiosi. Trasformarono le acque in un essere scuro e meschino che scovava la gente ovunque provasse a fuggire, trascinando le creature nelle sua fredde tenebre. In pochi giorni tutte le persone tranne una furono morte. Una giovane donna aggrappata alle rocce di un'alta collina.
Aveva cominciato ad arrampicarsi con la sua famiglia, ma la piena guidata dai venti aveva travolto tutti. Ora era rimasta sola, affamata e infreddolita, presa da una vertigine di dolore, raggomitolata sulle rocce in attesa di morire. Indebolita dalla fame e dalla tristezza si addormentò e dormì per molti giorni. I venti che avevano trasformato la piena in un parossismo dispersero anche le nubi temporalesche. Per la prima volta dopo quasi un mese il sole inondò la terra con il suo calore curativo e rasserenante. I forti venti lasciarono il posto a gentili brezze che carezzarono la terra con il loro dolce soffio. La grande inondazione era finita ma il suo passaggio aveva lasciato morte. Sul suo tragitto alberi spezzati e sradicati, colline devastate pascoli e cespugli divelti. Dall'alto della collina la giovane poteva osservare ciò che la piena aveva causato. Non avrebbe mai dimenticato che le aveva portato via padre, madre, fratello e sorella.
Per lei ormai non aveva più senso che il sole splendesse di nuovo e che cominciassero a riapparire gli animali. Era sola. Il suo lamentoso gemito di dolore si levò sulla terra costringendo i quadrupedi e gli alati a fermarsi e ascoltare. La giovane donna non abbandonò la collina. Giorno dopo giorno, notte dopo notte sedeva sopraffatta da dolore, disperazione e solitudine, diventando sempre più debole per mancanza di cibo e di acqua. Un pomeriggio si riscosse, accorgendosi di una grande aquila appollaiata su una roccia non distante. Era molto grande, con le penne di un marrone scuro, quasi nero. La giovane si impaurì perché sapeva che le aquile sono grandi predatori, con potenti artigli che avrebbero potuto squarciare la sua carne, e lei non aveva alcun modo per difendersi. La giovane donna fu attratta dai miti occhi marroni dell'aquila. La stava guardando con curiosità. La giovane aspettò, percependo improvvisamente che non c'era pericolo. Quindi l'aquila parlò.
"Mi sono accorto che sei sola" disse.
Lei iniziò a singhiozzare sommessamente, poi smise. "Si" rispose. "La piena ha trascinato via la mia famiglia, tutta la mia gente, i bipedi. Sono sola".
"Sei triste. Ho sentito che piangevi".
"La mia famiglia è sparita. La mia gente è sparita. Sono rimasta io sola e tutto ciò che mi è rimasto è la tristezza. E' con me giorno e notte".
"Allora diventerò tuo amico" disse l'aquila "dimmi cosa posso fare per te".
"Tu non puoi far nulla" si lamentò lei." Io sono sola. Io morirò sola".
"Questo non è vero" replicò l'aquila "guardati intorno. I tuoi parenti, i quadrupedi, gli alati come me e coloro che strisciano. Loro sono qui. Siamo tutti qui."
"Ma la mia gente è sparita. Io sono l'ultima" singhiozzò " non c'è rimasto nessun altro uguale a me. Quindi sto aspettando di morire per raggiungere la mia gente."
"Se tu muori, non resterà più nessuno come te sulla Terra" Non ci sarà altro che il vuoto dove la tua specie viveva una volta. Questo non può essere. Tu devi vivere." Allargò le ali e si alzò nell'aria.
"Dove vai?" chiese la giovane " stai andando via?"
"Solo per portarti del cibo" disse "Ritornerò"
E così fece, portandole un grande pesce.
"Devo accendere un fuoco" lei disse "non posso mangiarlo senza cucinarlo"
"Di cosa hai bisogno per il fuoco?" chiese l'aquila
"Legna" rispose "Legna secca"
L'aquila, ovviamente, può volare molto velocemente e dopo parecchi voli nella foresta aveva accumulato per lei una grande catasta di legna.
Per prima cosa la giovane preparò un'esca per il fuoco, di legno e fune, quindi accese il fuoco e cucinò il pesce. Perfino un piccolo morso le sembrò ridarle forza; poteva sentirla circolare dentro di lei. Per tutto il tempo l'aquila stette appollaiata dietro, perché aveva paura del fuoco.
"Voi bipedi avete il potere di fare una cosa veramente straordinaria" Disse " Potete accendere il fuoco. Ma, ovviamente, noi alati e i quadrupedi non abbiamo bisogno di una tale abilità".
"Si, il fuoco cuoce il nostro cibo così che noi possiamo mangiarlo. Ci tiene caldi. Non c'è nient'altro come un fuoco caldo per cacciare via le tenebre. Un buon fuoco è come un buon amico."
L'aquila portò ancora della legna così che la giovane potesse tenere il fuoco acceso durante la notte e rimanere al caldo. Al mattino, quando lei si svegliò l'aquila se n'era andata ma il fuoco stava ancora mandando fumo. Ravvivò il fuoco e si chiese dove potesse essere l'aquila. Per un momento aveva alleviato la sua solitudine e lei gliene era grata. Quando si fece giorno e l'aquila non era ancora tornata pensò che fosse stato solo un sogno. Tuttavia c'era il fuoco e c'erano gli avanzi di pelle rinsecchita del pesce.
La giovane donna fu lieta del ritorno dell'aquila. Spellò il coniglio, lo cucinò. Lo mangiò mentre l'aquila la osservava con grande interesse.
" C'è una bellissima valle nella direzione verso cui tramonta il sole- un buon posto dove costruire un riparo. C'è acqua edè riparata dai forti venti invernali. Forse potresti andare lì" disse.
"No" replicò lei "Sono qui e rimarrò qui. Potrei costruire un riparo qui se lo volessi."
L'aquila poteva percepire la sua grande tristezza. Sapeva anche che sarebbe sempre stata triste perché lei era l'ultima della sua specie.
L'aquila aveva volato per lunghe distanze, sopra laghi e valli ma non aveva trovato altri bipedi. Lei sarebbe invecchiata e morta da sola.
Continuò a portarle cibo e legna per il fuoco giorno dopo giorno. E avrebbe sorvolato in circolo la sua collina per preservarla da ogni pericolo. Una volta riuscì ad allontanare un orso dalla collina scendendo in picchiata su di lui più volte.
La giovane donna diventava più forte giorno dopo giorno e cominciò a preoccuparsi del suo aspetto. Si spazzolò l'abito e fece un pettine per pettinarsi i capelli. Prima dell'inondazione era stata la giovane donna più incantevole tra quelle di tanti villaggi e i giovani venivano da ovunque per corteggiarla. Ora, ovviamente era rimasta in assoluto la più bella giovane donna.
Un giorno, mentre stava aspettando l'aquila, si arrampicò fino alla cima più alta della sua collina. Da lì potè vedere una vasta vallata e vari laghi. C'era bellezza ovunque. Con il tempo le ferite lasciate dalla grande inondazione sarebbero scomparse. Ma cosa poteva fare lei da sola? Come ogni donna giovane aveva sognato di sposare un bravo e bel giovane e di avere dei bambini. Sarebbero vissuti non lontano dall'abitazione di sua madre e suo padre, nel loro villaggio vicino al lago. Lui sarebbe andato a caccia e lei si sarebbe occupata della loro abitazione, e sarebbero invecchiati insieme. Ora lei si trovava su una collina, una gelida, terribile verità dentro di lei. Era l'ultima della sua specie. Che cosa poteva fare?
Una delle sottili macchioline nel cielo sopra di lei iniziò a diventare sempre più grande e presto sentì la corrente di vento sotto le grandi ali dell'aquila. L'aquila atterrò. La giovane si meravigliò per l'estensione delle sue ali potenti e della loro forza. Ma l'aquila aveva anche un altro potere, il potere di scacciare la sua solitudine.
La donna chiese " Che potrei fare? Senza te non avrei nulla. Se solo fossi un'aquila. Volerei con te. Potrei vedere ciò che tu vedi da così tanto in alto nel cielo. E non sarei l'unica della mia specie."
"Vieni" disse l'aquila " noi voleremo. Aggrappati alle mie zampe e io salirò in aria"
Fece così e si alzarono sopra la collina. All'inizio la donna aveva paura e si aggrappò stretta stretta. Ma appena volarono ancora più in alto vide la terra come non l'aveva mai vista prima e tremò dal timore. Si sentì più forte man mano che ogni cosa sulla terra si rimpiccioliva. Si trattava di una vista che non avrebbe mai immaginato. Sebbene tutto sulla terra - alberi, colline, laghi e fiumi - divenissero più piccoli al loro allontanarsi, la terra stessa diventava più grande e si sentì umile a quella vista straordinaria. Volarono fino a che ebbe stanche le braccia ma era riluttante a tornare sulla collina.
"Grazie" gli disse " Invidio ciò che sei."
"Sono tuo amico e lo sarò sempre" replicò l'aquila.
La loro amicizia divenne più forte. L'aquila le portava il cibo e lei incideva sue immagini sulle rocce. Ogni giorno lei si allontanava sempre più dal suo campo e presto iniziò a parlare di costruire un riparo da qualche parte, forse sulla cima più alta della collina. L'aquila vedeva la giovane donna sorridere più spesso. Tuttavia poteva notare la tristezza nei suoi occhi.
In un bel giorno di tarda estate l'aquila volò in alto sulla scia dei venti, alta sopra la collina della giovane donna. L'autunno era in arrivo e l'inverno non avrebbe tardato. Già arrivavano brezze gelate dal nord. La giovane donna avrebbe avuto bisogno di prepararsi per affrontare l'inverno o non sarebbe sopravvissuta. L'aquila era preoccupata.
"Grandfather" invocò " Tu che sei il più potente, perché non ti sei preoccupato del suo benessere?" chiese.
"L'ho fatto" rispose una voce"ho mandato te a lei"
"L'ho aiutata perché ne aveva necessità edè una buona creatura" replicò l'aquila" Posso solo portarle del cibo. Non posso darle ciò di cui ha veramente bisogno. Ha bisogno di altri della sua specie".
"C'è un modo" la voce replicò.
"Dimmi Grandfather" disse l'aquila "l'aiuterò in ogni modo possibile".
"Anche tu sei una buona creatura, hai un cuore gentile e meriti il posto che occupi nel Grande Cerchio della Vita" disse la voce "Pochi hanno il tuo potere. Potrebbe essere difficile lasciare il tuo posto, perché questo è ciò che deve accadere se realmente vuoi aiutare i bipedi."
"Non capisco, Grandfather"
"Per aiutarla tu devi diventare un bipede. Se lo farai non potrai più cavalcare i venti. Non vedrai più la Terra dall'alto delle montagne più alte. La scelta è tua. Puoi diventare un bipede e come maschio e femmina insieme potete dare alla terra più esseri della sua specie. O puoi rimanere quale sei."
L'aquila rimase molto quieta quella notte mentre sedeva con la giovane donna, era preoccupata. Lei si rese conto che i suoi occhi bruni avevano perso il loro usuale scintillio. " Hai qualcosa in mente?" chiese lei.
"Sì" replicò "Devo andare via. C"è molto a cui devo pensare "
"Ritornerai?" chiese lei " Non potrei sopportare tutto questo se ti perdo"
"Tornerò" promise "Non importa cosa può accadere, sarò sempre tuo amico. Ti porterò del cibo prima di partire. Rimani sulla collina; non allontanarti. " ammonì.
Il giorno successivo la giovane donna si arrampicò sulla cima della collina e osservò il cielo. C'erano alcuni falchi e qualche aquila. Si domandò quale tra quelle alte, nere macchioline fosse il suo amico. Il giorno successivo fu lo stesso e così il giorno dopo. Era impaziente per il suo ritorno perché la solitudine la perseguitava come un nemico nella notte.
L'aquila salì più in alto di quanto non avesse mai volato e vide più cose della terra di quanto non avesse mai veduto. Era una visione che non avrebbe mai voluto dimenticare.
"Grandfather " invocò "Sono qui",
"Grandson" replicò la voce "So cosa c'è nel tuo cuore. Sei stato angustiato per tutti questi giorni, Ora hai fatto una scelta.
"Si" disse l'aquila. "So cosa devo fare".
"La scelta che farai è una strada dalla quale non potrai mai tornare indietro" Disse la voce.
"Ci sono molte creature della mia specie" disse l'aquila. "Lei è solo una e non può rimanere l'unica della sua specie. La Terra e ogni cosa su di essa ne sentirà la mancanza. Non vedo altro modo"-
"Allora sia" disse la voce "Ti dico questo: I bipedi troveranno un posto nei loro cuori per la tua specie. La terranno in alta considerazione".
L'estate stava finendo, la giovane donna lo sapeva. Dal nord soffiavano venti gelidi. Percorse la collina per raccogliere legna per il suo fuoco. Di quando in quando guardava il cielo, il suo amico non aveva fatto ritorno.
"Stai cercando qualcuno?" Disse una voce dietro di lei.
Era una voce familiare, una che conosceva molto bene. Aveva fatto ritorno. La giovane donna si girò con un sorriso che divenne una smorfia. Non poteva vedere nessuno.
"Sono qui" disse la voce familiare. La giovane donna quasi svenne quando un bel giovane alto comparì da dietro una roccia.
"Come può essere" gridò " Ho pensato che tutti fossero stati travolti dall'inondazione al di fuori di me!"
"E' vero" disse il giovane uomo.
"Allora da dove vieni?"
"Dal cielo" replicò il giovane.
La giovane donna rimase shockata in silenzio e incredula. Eppure la voce del giovane era familiare: era la voce dell'aquila. Allontanando confusione e paura fece qualche passo per avvicinarglisi. C'era qualcosa di familiare in quei profondi occhi bruni.
"Ricordi il giorno in cui abbiamo volato insieme?" Domandò lui." Ti ho condotta in alto distante dalla Terra"
"Non può essere! " gridò "Sei tu!"
"Ho promesso che sarei tornato e l'ho fatto . Non sei felice di vedermi?"
La giovane donna corse tra le sue braccia, provando qualcosa che non pensava potesse esistere. E sentì anche qualcos'altro: ogni volta che si avvicinava più a lui si sentiva come se spiccassero il volo.
Prima dell'inverno costruirono un riparo alla base della foresta e in breve divennero padre e madre di vari bimbi, e di una nuova razza di bipedi. Lei raccontò ai suoi figli chi fosse il loro padre e chi fosse stato.
Avrebbero guardato il cielo ogni volta che ci fossero state in volo le aquile. Ovviamente avrebbero osservato i loro parenti. Insegnarono ai loro figli a fare lo stesso e questi a loro volta lo insegnarono ai loro figli e così via…
Forse ora puoi comprendere perché le penne d'aquila per noi sono sacre. Da quel giorno e sino ad oggi noi Lakota proviamo reverenza per le penne dell'aquila, e ogni volta che ne vediamo una in cielo ci fermiamo per rendere grazie a questi nostri parenti per la loro compassione.
Tratto da "The Lakota way " di JOSEPH M. MARSHALL III
-Consigliato da Massimo Reggiani-

Questa leggenda araba è riportata sul romanzo “Appuntamento a Samarra” di John O’ Hara;è stata raccontata da Tiziano Terzani nel suo libro “Un altro giro di giostra” e infine ( per quanto ne so io) ripresa da Roberto Vecchioni nella canzone “Samarcanda”.
Parla la Morte: C’era a Bagdad un mercante che mandò il suo servo al mercato per far provviste. E il servo ritornò ben presto, pallido e tremante, e disse:”Padrone, poco fa, mentre ero al mercato, fui urtato da una donna nella folla, e quando mi volsi mi accorsi che era stata la Morte a urtarmi. Mi guardò e fece un gesto minaccioso. Te ne supplico, prestami il tuo cavallo ed io abbandonerò questa città per sfuggire al mio destino. E andrò a Samarra, dove la Morte non potrà trovarmi”. Il mercante gli prestò il suo cavallo, e il servo montò in sella e, spronando a sangue l’animale, partì al galoppo. Allora il mercante si recò alla piazza del mercato e mi scorse tra la folla. “ Perché hai fatto un gesto minaccioso al mio servo, stamani ? ”, mi chiese, avvicinandosi. “ Il mio gesto non era di minaccia, bensì di sorpresa”, risposi. “ Fui stupita di vederlo a Bagdad poiché avevo appuntamento con lui questa sera a Samarra”.
W. Somerset Maugham, Sheppey
-Consigliato da Arcangela Cammalleri-

Twaktrie, il dio “Vulcano” della mitologia indù, ha preso la leggerezza della foglia e lo sguardo del cerbiatto, la gaiezza dei raggi del sole e le lacrime della rugiada, l’incostanza del vento, la vanità del pavone e la morbidezza delle piume della rondine. Vi aggiunse, poi, la durezza del diamante, il dolce sapore del miele, la crudeltà della tigre, il calore del fuoco e il freddo della neve. Ha aggiunto, ancora, il cinguettio della cingallegra e il tubare della colomba. Ha fuso tutto questo ed ha formato la donna. Poi, l’ha regalato all’uomo e l’uomo ha detto: “ Ringrazio te, o Signore, che mi hai fatto questo magnifico regalo”.
Autore anonimo
-Consigliato da Arcangela Cammalleri-

Mio Figlio
Erano tutti molto gentili. Quando sono arrivato una giovane ragazza, un’infermiera, credo, mi ha accompagnato da Daniele prendendomi sottobraccio. A dir la verità mi stringeva un po’ troppo, così mi è sembrato, come se avesse paura che scappassi via, o che cadessi. Certo ormai non cammino più tanto bene e si vede, ma non ho certo bisogno che qualcuno mi sostenga, a meno che non ci sia un pericolo. Ad ogni modo mi ha portato da lui. Mio figlio era in un letto particolare, che non avevo mai visto. Era grande e con un sacco di comandi elettrici a fianco, sapete no? Con quei comandi che fanno di tutto: alzano, spostano di lato, solo la schiena, ora la testa e così via. Poi aveva un monitor, (mi pare si chiami così) sopra la testa che faceva il tipico rumore del cuore. Daniele sembrava dormire. Infatti non si è accorto che ero arrivato. Ho capito subito che era per le medicine che stava così. Ho fatto l’infermiere sotto le armi e qualcosa ne so. Certo non ero veramente infermiere. Io aiutavo soltanto, ma certe situazioni, certe facce, certi momenti me li ricordo ancora, anche se sono passati…sono passati…beh, accidenti! Sessantasei anni? Dio mio! Comunque me li ricordo ancora, sì. Per questo mi sono un po’ preoccupato quando la signorina, sì insomma, l’infermiera giovane e carina, gli si è avvicinata e, scuotendo la testa, ha interrotto il flusso della flebo. Ma che ne so io, in fondo faccio il falegname, cio è, lo facevo, e quindi, mi sono detto che non era certo perché non ce ne era più bisogno. Forse, mi sono detto, era perché dovevano cambiargliela. Comunque Daniele dormiva. Mi sono avvicinato e gli ho detto “Dani, papàè qui con te, va tutto bene, mi senti Dani?” Era per le medicine che stava così, infatti non mi ha risposto. E’ rimasto immobile. Allora mi sono ricordato di quando giocavamo insieme alla guerra. Lui faceva il nemico ed io quello che gli aveva sparato. Lo so che di solito un padre e un figlio non giocano a queste cose, ma a Dani piaceva tanto. Così lui si lasciava cadere a terra e io gli urlavo “alzati sporco tedesco, alzati che voglio ucciderti di nuovo” ma lui rimaneva immobile, fino a che non gli veniva da ridere e si alzava. Ecco. A un certo punto peròè arrivato un dottore anziano. Non come me, più giovane certo. Avrà avuto una sessantina d’anni. Mi prende per un braccio e mi fa “Signor Clementi, venga, venga con me.” Io volevo restare con Dani, volevo essere lì quando si risvegliava, ma lui mi voleva per forza portare via da lì. Alla fine gliel’ ho detto “no dottore, io resto qui, con mio figlio. Voglio essere vicino a lui quando si sveglia. Vede dottore è lui che pensa a me ormai, da quando la mia Ester se n’è andata,è lui che mi è sempre vicino. Mi coccola come fossi un bambino. E’ tanto caro e perciò ora voglio stargli vicino. Se si sveglia e non mi vede si sente solo, ne sono sicuro, certo lo so che non è più un bambino. Ha quasi cinquantanove anni, ma non vuol dire sa? Siamo rimasti solo lui ed io ormai. Non abbiamo più nessuno che badi a noi.” E quel dottore mi sorride, un po’ tristemente, e mi dice che ormai Dani non ha più bisogno di niente. “Vede?” mi fa “vede il monitor?” e io vedo che non c’è che una linea e il battito del suo cuore…ma sono le medicine…”sono le medicine vero dottore?”
Sono tornato a casa. L’infermiera, tanto cara, oltre che carina, mi ha voluto a tutti i costi accompagnare e, non ci crederete, ha voluto addirittura farmi la camomilla, quella che Dani mi preparava tutte le sere prima di mettermi al letto. Ero tanto stanco e così ho subito chiuso gli occhi. Prima di addormentarmi però ho pensato che sono davvero tutti molto gentili in quell’ospedale, tanto. Ma domani vado a riprendermi il mio Dani. Ora basta tenerlo lì. Sta bene ormai edè ora che esca. Ce ne andremo via insieme e magari, perché no? Lo convinco ad andarcene al mare, a vedere le barche al molo, come piace a lui e come piace anche a me. Sì: domani vado e me lo porto via…me lo porto via…con me!
E’ veramente un gran bravo ragazzo Dani, credetemi, edè… mio figlio!
Sandro Orlandi
-Racconto consigliato da Maristella Angeli-

Le pietre preziose
Tempo fa, un uomo camminò sulla spiaggia in una notte di luna piena...
Pensò che se avesse avuto una macchina nuova sarebbe stato felice,
se avesse avuto una grande casa sarebbe stato felice
Se avesse avuto un lavoro eccellente sarebbe stato felice
se avesse avuto una donna perfetta sarebbe stato felice...
In quel momento inciampò in una borsa piena di pietre.
Cominciò a giocare con le pietre, gettandole nel mare, una per ogni volta che aveva pensato:
Se avessi...sarei felice...
Finchè rimase solo con una pietra nella borsa e decise di tenerla
Quando arrivò a casa notò che quella pietra era un diamante molto prezioso
Ripensò a quanti diamanti aveva gettato per gioco nel mare, senza accorgersi che erano pietre preziose
Così fanno le persone...
Sognano quello che non hanno senza dare valore a quello che hanno vicino
Se osservassero meglio, noterebbero quanto sono fortunati...
La felicitàè molto più vicina di quello che si pensa...
Ogni pietra dovrebbe essere osservata meglio...
Ogni pietra potrebbe essere un diamante prezioso!
Ogni nostro giorno potrebbe essere un diamante prezioso e insostituibile. ..
Ognuno di noi può decidere se apprezzare ogni pietra o gettarla in mare...
E tu, stai giocando con le pietre?
Amici, famiglia, lavoro e sogni?
La morte non è la più grande perdita della vita.
La più grande perdita della vita è morire dentro mentre viviamo.

Vivi pienamente ogni giorno...
E soprattutto sii felice per quello che hai…
Buon fine settimana
Un abbraccio dal Cuore
Giuseppe Bufalo http://lucideimaestri.altervista.org
-Racconto consigliato da Ida Guarracino-

Il cappellino
Se non me lo lasci fare non potrò andare a scuola! Mi vergognerei troppo...
è terribilmente importante, mamma!".
Elena scoppiò a piangere. Era la sua arma più efficace.
"Uffa, fa' come vuoi..." brontolò la madre, sbattendo il cucchiaino nel lavello.
"Sembrerai un mostro. Peggio per te!".
In altre 23 famiglie stava avvenendo una scenetta più o meno simile.
Erano i ragazzi della Seconda B della Scuola Media "Carlo Alberto di Savoia".
Per quel giorno avevano preso una decisione importante. Ma gli allievi della Seconda B erano 25.
In effetti, solo nella venticinquesima famiglia, le cose stavano andando in un modo diverso.
Elisabetta era un concentrato di apprensione, la mamma e il papà cercavano di incoraggiarla.
Era la quindicesima volta che la ragazzina correva a guardarsi allo specchio.
"Mi prenderanno in giro, lo so. Pensa a Marisa che non mi sopporta o a Paolo che mi chiama "canna da pesca! Non aspetteranno altro!".
Grossi lacrimoni salati ricominciarono a scorrere sulle guance della ragazzina.
Cercò di sistemarsi il cappellino sportivo che le stava un po' largo.
Il papà la guardò con la sua aria tranquilla:
"Coraggio Elisabetta. Ti ricresceranno presto. Stai reagendo molto bene alla cura
e fra qualche mese starai benissimo".
"Sì, ma guarda!".
Elisabetta indicò con aria affranta la sua testa che si rifletteva nello specchio,
lucida e rosea.
La cura contro il tumore che l'aveva colpita due mesi prima le aveva fatto cadere tutti i capelli.
La mamma la abbracciò:
"Forza Elisabetta! Si abitueranno presto, vedrai...".
Elisabetta tirò su con il naso, si infilò il cappellino, prese lo zainetto e si avviò.
Davanti alla porta della Seconda B, il cuore le martellava forte.
Chiuse gli occhi ed entrò.
Quando riaprì gli occhi per cercare il suo banco, vide qualcosa di strano.
Tutti, ma proprio tutti, i suoi compagni avevano un cappellino in testa!
Si voltarono verso di lei e sorridendo si tolsero il cappello esclamando:
"Bentornata Elisabetta!"
Erano tutti rasati a zero, anche Marisa così fiera dei suoi riccioli, anche Paolo, anche Elena e Giangi e Francesca...
Tutti! Ma proprio tutti!
Si alzarono e abbracciarono Elisabetta che non sapeva se piangere o ridere e mormorava soltanto:
"Grazie...".
Dalla cattedra, sorrideva anche il professor Donati, che non si era rasato i capelli,
semplicemente perché era pelato di suo e aveva la testa come una palla da biliardo.
La com-passione (soffrire-insieme a)è amare gli altri con il cuore di Dio...
-Tratto da www.qumran2.net.-  
-Racconto consigliato da Ida Guarracino-

La vita
Era caldo, le fronde degli alberi riparavano il sentierino di campagna dai raggi del sole che, con la loro irruenza, tentavano in ogni modo di penetrare ed invadere il sottobosco.
Io e la nonna camminavamo con estrema tranquillità, gustando ad ogni passo l'aria pulita e sgomberando la mente da tutti i pensieri che s'impegnavano con ogni mezzo a rompere quella splendida atmosfera che la circostanza aveva fatto nascere dal nulla.
Parlavamo dell'estate, dei progetti e dei lavori che ci attendevano nell'orto, dei cambiamenti nelle zone da semina e di quante uova le galline avessero fatto durante la giornata.
Ciuffi d'erba corposissima sbucavano fra le radici degli abeti e, tra i delicati steli color smeraldo, si facevano spazio dei piccoli e coloratissimi fiori di bosco.

"Tu devi essere come questi fiori; devi crescere solo dove trovi il terreno buono. Se il tuo seme casca in un posto inadatto, non ti devi lasciar morire, ma devi avere pazienza e soprattutto determinazione così, appena un soffio di vento accarezzerà la punta del tuo involucro, ti lascerai trasportare via, finchè troverai il luogo adatto per crescere e sbocciare…."

Era bellissimo esprimere le proprie idee, esternare le angosce, un poco alla volta, così da poter rendere più intenso e costruttivo quel dialogo che si dilungava, senza mai però diventare scomodo o pesante.
Tuttavia quel silenzio, il caldo torpore reso insostenibile dal ronzio interminabile degli insetti, non mi lasciavano scampo, così cominciavo a pensare…
- Che peccato! Fra qualche mese tutto questo sarà finito….perché l'estate non dura per sempre?!…
Potremmo fare queste chiacchierate ogni giorno; invece ricomincerà la scuola ed io sarò costretto a scendere tutte le mattine in città.
Solo qui mi sento a mio agio, fra gli alberi e l'erba, con tutte le creature che mi hanno fatto compagnia fin da quando ero piccolo.
Non sono abituato a convivere con tanta gente estranea o che conosco a malapena; per strada non ci si guarda in faccia, tutto intorno si pensa solo a non tardare e a non farsi stirare da qualche automobilista impazzito.
Qui nel nostro paesino invece è tutto diverso; tutti si conoscono, ogni volta che si incontra qualcuno lo si saluta con affetto e l'atmosfera che si respira riempie tutto e tutti di tranquillità - .

"L'inverno viene per tutti, per noi, per gli animali e anche per le piante.
Questi sopraggiunge ogni anno non per cattiveria, ma per mettere alla prova.
In natura seleziona gli animali e le piante più resistenti, ma anche noi siamo sottoposti agli effetti forse non sempre piacevoli di questa dura stagione.
L'inverno di cui ti parlo lo puoi vedere in quella città che non riesci a sopportare, in quelle persone che non mandi giù, in tutte le difficoltà che ogni giorno ti si presentano davanti; e la prova che devi superare sta nel cercare di mitigare queste circostanze.
Ti assicuro che, se ti ci metterai d'impegno e riuscirai nel tuo intento, tutto diventerà più allegro…"

Seduti su una panchina a riposare e quasi accecati dall'intenso bagliore del sole, scrutavamo un prato racchiuso all'interno del bosco e ammiravamo le coppie di passeri che, di tanto in tanto, facevano capolino fra i lunghi steli per nutrirsi dei semini caduti a terra.
Chiudendo gli occhi sentivo meglio tutti i suoni del bosco: le cortecce degli alberi che scricchiolavano rinsecchite dal calore, il frusciare di qualche foglia secca mossa dai merli e le rondini con i rondoni che garrivano nel cielo.
Ma perché litigano in una così bella giornata quelle rondini?! Con tutto il cibo a disposizione devono per forza rovinarsi il pomeriggio?! -

"Non stanno litigando! Stanno soltanto cercando di sopravvivere. Tuttavia esse, a differenza di noi uomini, aspettano solo ciò che serve loro per condurre avanti la propria esistenza; una volta trovatolo dedicano l'intera giornata ai loro simili, allevandoli e mettendoli in volo.
L'uomo, invece, non sempre si accontenta di vivere una vita dignitosa, ma va alla ricerca di continui accessori, piaceri e comodità per avere, avere ed avere sempre di più.
Non si dà preoccupazione se qualcun altro dovrebbe "crescere ed imparare a volare" ma non ne ha la possibilità. Edè così che nascono ingiustizie, discordie, egoismi che sfociano poi in proteste, vendette e guerre.
Tutto questo in natura non esiste. Se tutti si comportassero come queste rondini e questi rondoni, ogni persona riuscirebbe a volare in cielo, disporrebbe di cibo e nessuno soffrirebbe più di qualsiasi male…"

Un aereo passa sopra le nostre teste e il suono incompatibile con il resto degli elementi mi fa arrivare con la mente all'interno della mia classe durante una lezione di filosofia.
Mi sento strano, perché avrei tanta voglia di svegliarmi da quella sorta di stato d'incoscienza che mi assale, ma qualcosa di più forte me lo impedisce.
Un finissimo strato di tensione ricopre le pareti del mio animo e riesco a calmarne i fastidiosissimi effetti soltanto per un attimo, pensando al mio paesino che mi aspetta, al suono dell'ultimo campanello.
- Chissà cosa starà succedendo a Vattaro, probabilmente il nonno sta andando a prendere una cesta di legna, indossando il suo cappello e la giacca di velluto blu; la nonna sta preparando il pranzo e una signora suona al loro campanello per comperare le solite 10 uova.
Ogni mezz'ora la campana della chiesa rintocca e diffonde nell'aria che comincia a profumare di polenta un suono allegro e felice.
Quanta nostalgia…..quando finirà questa lezione? -
Sento nuovamente il sole che colpisce il mio viso e mi rendo conto di essere "ritornato" sulla panchina.
Nonna, ho appena sognato di trovarmi improvvisamente a scuola, a Trento. Non ero felice e non voglio tornarci veramente a settembre….sentirò di nuovo nostalgia di tutto ciò che in questo momento mi sta attorno, compresa te. -

"Stai rovinando tutto! Continui a pensare al futuro e alle cose brutte che ti aspettano, così in compenso non riesci a goderti questi momenti che io e te stiamo vivendo adesso!
Che cosa ti resterà al termine della vita se pensi solo al domani e non vivi il presente?!
I tassi costruiscono la tana non per possedere una casa il prossimo anno, ma per proteggere se stessi ed i loro piccoli questa notte.
In questo modo quando lasceranno questa loro vita avranno fatto nascere tanti cuccioletti e li avranno fatti crescere belli e forti; se anche tu non rivolgerai lo sguardo al presente e non ti sforzerai di viverlo intensamente e con razionalità, non farai mai né nascere, né crescere nulla e tutto il tuo cammino non sarà servito a niente!…"

Il sole è ormai alto nel cielo e i suoi raggi hanno già occupato il loro posto; attraverso i rami del boschetto che circonda il sentierino ciottoloso si sentono dei passi che da subito fanno battere il cuore con un ritmo diverso.
L'emozione, che è già arrivata agli eccessi, si blocca quanto io e la nonna scopriamo che quel rumore spaventoso, ma soprattutto misterioso, non è altro che il passo di Chiara, una nostra conoscente.
Giusto te, Michele! L'altro giorno ho trovato questo giornalino,è un concorso organizzato qualche anno fa da Madre Teresa di Calcutta e penso tu possa farci un pensierino, dal momento che sei in vacanza…. Il tema che dovresti sviluppare è incentrato sul significato della vita di noi giovani; fammi sapere! -

L'incontro inaspettato aveva steso un velo di curiosità e strana, ma piacevole effervescenza.
Qualcosa di nuovo, un'avventura misteriosa, una sfida, si erano sistemate davanti a quella panchina. Era come l'inverno che la nonna poco prima mi aveva descritto: una messa alla prova per crescere ed imparare a volare nel cielo della vita. Stava a me prendere l'iniziativa per affrontarla.

Sai, nonna, questa passeggiata mi è servita….la vita è una sfida che va affrontata come lo fanno i semi dei fiori; bisogna lasciarsi trasportare dal vento fino a trovare il giusto posto dove mettere radici e fiorire. Prima o poi arriverà l'inverno, una due e più volte, ma l'importante è essere forti ed avere speranza per superare questa dura prova.
Non sempre però ci si riesce da soli edè proprio per questo che è necessario affidarsi agli altri per trovare aiuto e conforto proprio come i pulcini nel nido. Ma se non si trovasse qualcuno disposto a dare una mano, nessuno riuscirebbe più a imparare a volare, quindi ci deve essere lo sforzo da parte di tutti, così da creare quelle condizioni per cui tutti dispongano di uguali risorse.
Nella foresta della vita l'albero della gioia è grande e molti i suoi frutti, ma se non si prende una scala e non si comincia a percorrerne la salita per raccoglierli aspettando inermi l'occasione in cui essi caschino da soli e in gran quantità ai nostri piedi, così da non fare fatica, non ci resterà nulla perché la felicità va conquistata, come le rondini garriscono e si inseguono per assicurarsi il cibo necessario.
La vita è ovunque, ma la frenesia e l'egoismo la offuscano, facendoci chiudere in un cubo di vetro scuro.
Essa si trova nelle piccole cose, anche nei piccoli paesi come il mio.

Aspettare che suoni l'ultimo campanello a scuola, la gioia provata nel pensare al nonno che raccoglie la legna, la nonna che cucina e le sue amiche che vanno a comprare le uova; la campana della mia chiesa ed il gruppo di amici del coretto che il sabato sera cantano la messa, questa è la vita.
La vita è la gioia che all'improvviso si prova nel vedere un albero che ricorda quelli di casa, questa è la vita.
La vita è l'abbraccio che sto per darti, nonna….-

……….Era caldo, le fronde degli alberi
riparavano il sentierino di
campagna dai raggi del sole;
io e la nonna camminavamo
con estrema tranquillità
stretti in un abbraccio…..
Michele C.
-Racconto consigliato da Fata Morgana-

Ho appreso ieri
Ho saputo ieri
(ci sarebbe da credere che sia rimasto indietro, o è una falsa voce, uno di
quegli immondi pettegolezzi che si propagano tra lavandini e latrine nel momento
in cui si svuotano le tinozze dei pasti una volta di più ingurgitati),
ho saputo ieri
di una delle più sensazionali pratiche ufficiali
delle scuole pubbliche americane
che fanno sì che questo paese si creda all'avanguardia del progresso.
Sembra che, tra gli esami e le prove che si impongono a un bambino che per la
prima volta entra in una scuola pubblica, abbia luogo la prova detta del liquido
seminale o dello sperma,
che consiste nel chiedere a questo bambino un po' del suo sperma per inserirlo
in un boccale
e preparalo in questo modo per ogni tentativo di fecondazione artificiale che
potrebbe in seguito aver luogo.
Poiché sempre più gli americani pensano di non aver abbastanza braccia e
bambini,
non operai,
ma soldati
e vogliono con tutta la forza e con tutti i mezzi possibili fabbricare soldati
in vista di tutte le guerre planetarie che potrebbero in futuro aver luogo,
e che sarebbero destinate a dimostrare attraverso
le virtù schiaccianti della forza
la sovraeccellenza dei prodotti americani,
e dei frutti del sudore americano su tutti i campi dell'attività e del possibile
dinamismo della forza.
Perché bisogna produrre,
bisogna con tutti i mezzi d'attività possibili sostituire la natura ovunque
possa essere sostituita,
bisogna trovare all'inerzia umana un campo maggiore,
bisogna che l'operaio abbia di cosa occuparsi,
che siano creati nuovi campi d'attività,
questo duventerà nfine il regno di tutti i falsi prodotti fabbricati,
di tutti gli ignobili surrogati sintetici,
con cui nulla ha a che fare la natura bella e vera,
e deve cedere una volta per tutte e vergognosamente il posto ai trionfanti
prodotti di sostituzione,
dove lo sperma delle fabbriche di fecondazione artificiale
farà miracoli
per produrre eserciti e corazzate.
Niente più frutti, né alberi, né legumi, né piante farmaceutiche o no, né di
conseguenza alimenti,
ma prodotti di sintesi a sazietà,
nei vapori,
negli umori insoliti dell'atmosfera, su particolari assi delle atmosfere
strappate con la forza e la sintesi dalle resistenze di una natura che della
guerra non ha conosciuto altro che la paura.
Evviva la guerra, non è così?
Perché , in questo modo,è la guerra che gli americani hanno preparato e
preparano senza sosta.
Per difendere questa fabbricazione insensata da tutte le resistenze che si
solleverebbero per ogni dove,
occorrono soldati, eserciti, aerei, corazzate,
da tutto ciò lo sperma
al quale sembrerebbe che i governi dell'America abbiano avuto la faccia di merda
di pensare.
A. Artaud (scritto per spettacolo per la radio del 1946)
-Scritto consigliato da Esilio Campostorto-

Sorelle
In un giorno molto caldo una giovane donna sposata andò in visita a casa di sua madre e, insieme, si sedettero su un sofà a bere the ghiacciato.
Mentre parlavano della vita, del matrimonio, delle responsabilità e degli obblighi, dell'età adulta la madre pensosa fece tintinnare i suoi cubetti di ghiaccio nel bicchiere e lanciò un'occhiata serena e intensa alla figlia: "Non dimenticare le tue Sorelle!" raccomandò, facendo turbinare le sue foglie di the sul fondo di vetro "Esse saranno sempre più importanti man mano che invecchierai.
Non importa quanto amerai tuo marito,né quanto amerai i bambini che potrai avere: avrai sempre bisogno di Sorelle. Ricordati di viaggiare con loro ogni tanto:ricordati di fare delle cose con loro... ricordati che 'Sorelle' significa TUTTE le donne... le tue amiche, le tue figlie, e tutte le altre donne che ti saranno vicine.
Tu avrai bisogno di altre donne, le donne ne hanno sempre bisogno.
"Ma che strano consiglio!" pensò la giovane donna "Non mi sono appena sposata? Non sono appena entrata nel mondo del matrimonio? Adesso sono una donna sposata, per fortuna! Sono adulta! Sicuramente mio marito e la famiglia cui stiamo dando inizio saranno tutto ciò di cui ho bisogno
per realizzarmi!".
Ma la giovane donna ascoltò sua madre e mantenne contatti con altre donne ed ebbe sempre più 'sorelle' ogni anno che passava.
Un anno dopo l'altro venne gradualmente a capire che sua madre sapeva molto bene di cosa stava parlando: stava parlando di come, mentre il tempo e la natura operano i loro cambiamenti e i loro misteri sulla vita di una donna, le sorelle sono il suo sostegno.
Dopo più di cinquanta anni vissuti in questo mondo, questo è tutto ciò che ha imparato,è TUTTO QUI:
Il tempo passa.
La vita avviene.
Le distanze separano.
I bambini crescono.
I lavori vanno e vengono.
L'amore scolorisce o svanisce. Gli uomini non fanno ciò che speriamo.
I cuori si spezzano.
I genitori muoiono.
I colleghi dimenticano i favori.
Le carriere finiscono.
MA...le Sorelle sono là! Non importa quanto tempo e quante miglia ci siano fra voi.
Un'amica non è mai così lontana da non poter essere raggiunta.
Quando dovrai camminare per quella valle solitaria - e dovrai camminare da sola - le donne della tua vita saranno sull'orlo della valle,incoraggiandoti, pregando per te, tenendo per te, intervenendo a tuo favore ed attendendoti con le braccia aperte all'estremità della valle.
A volte, infrangeranno persino le regole e cammineranno al tuo fianco.
O entreranno e ti strapperanno da lì.
Amiche, figlie, nuore, sorelle, cognate, madri, nonne, zie, nipoti,
cugine e famiglia estesa, tutte benedicono la tua vita!
Il mondo non sarebbe lo stesso senza donne.
Quando abbiamo cominciato questa avventura denominata femminilità
non avevamo idea delle gioie o dei dispiaceri incredibili che avremmo
avuto davanti, né sapevamo quanto avremmo avuto bisogno le une delle altre.
Ogni giorno, ne abbiamo ancora bisogno.
-Racconto consigliato da Ida Guarracino-

E il gufo disse:
Un uomo saggio camminava per un sentiero di campagna,
quando sul margine di esso, tra l'erba, scorse qualcosa,
forse un sasso, dalla forma strana.
«È un serpente», pensò.
TI serpente si srotolò, scattò e lo morse a morte.
Un altro uomo saggio camminava per quel sentiero,
anche lui scorse il sasso dalla forma strana.
«È un uccello», pensò.
In un frullo d'ali, l'uccello volò via.

Ti piaccia o no, sono i tuoi pensieri a tracciare la rotta del viaggio che si chiama vita.
Se hai in mente la depressione e il fallimento,è lì che ti troverai.
Se pensi di essere goffo e sgradevole, così ti comporterai.
Se pensi di potercela fare ce la farai...
(dal sito web i pensieri del gufo)
-Racconto consigliato da Ida Guarracino-

Donne in rinascita
Più dei tramonti, più del volo di un uccello, la cosa meravigliosa in assoluto è una donna in rinascita.

Quando si rimette in piedi dopo la catastrofe, dopo la caduta.

Che uno dice:è finita.

No, non è mai finita per una donna.

Una donna si rialza sempre, anche quando non ci crede, anche se non vuole.

Non parlo solo dei dolori immensi, di quelle ferite da mina anti-uomo che ti fa la morte o la malattia.

Parlo di te, che questo periodo non finisce più, che ti stai giocando l'esistenza in un lavoro difficile, che ogni mattina è un esame, peggio che a scuola.

Te, implacabile arbitro di te stessa, che da come il tuo capo ti guarderà deciderai se sei all'altezza o se ti devi condannare.

Così ogni giorno, e questo noviziato non finisce mai.

E sei tu che lo fai durare.

Oppure parlo di te, che hai paura anche solo di dormirci, con un uomo; che sei terrorizzata che una storia ti tolga l'aria, che non flirti con nessuno perché hai il terrore che qualcuno s'infiltri nella tua vita.

Peggio: se ci rimani presa in mezzo tu, poi soffri come un cane.

Sei stanca: c'è sempre qualcuno con cui ti devi giustificare, che ti vuole cambiare, o che devi cambiare tu per tenertelo stretto.

Così ti stai coltivando la solitudine dentro casa.

Eppure te la racconti, te lo dici anche quando parli con le altre: "Io sto bene così. Sto bene così, sto meglio così".

E il cielo si abbassa di un altro palmo.

Oppure con quel ragazzo ci sei andata a vivere, ci hai abitato Natali e Pasqua.
In quell'uomo ci hai buttato dentro l'anima edè passato tanto tempo, e ne hai buttata talmente tanta di anima, che un giorno cominci a cercarti dentro lo specchio perché non sai più chi sei diventata.

Comunque sia andata, ora sei qui e so che c'è stato un momento che hai guardato giù e avevi i piedi nel cemento.

Dovunque fossi, ci stavi stretta: nella tua storia, nel tuo lavoro, nella tua solitudine.

Edè stata crisi, e hai pianto.
Dio quanto piangete!
Avete una sorgente d'acqua nello stomaco.

Hai pianto mentre camminavi in una strada affollata, alla fermata della metro, sul motorino.

Così, improvvisamente. Non potevi trattenerlo.

E quella notte che hai preso la macchina e hai guidato per ore, perché l'aria buia ti asciugasse le guance?

E poi hai scavato, hai parlato, quanto parlate, ragazze!
Lacrime e parole. Per capire, per tirare fuori una radice lunga sei metri che dia un senso al tuo dolore.

"Perché faccio così? Com'è che ripeto sempre lo stessoschema? Sono forse pazza?"
Se lo sono chiesto tutte.

E allora vai giù con la ruspa dentro alla tua storia, a due, a quattro mani, e saltano fuori migliaia di tasselli. Un puzzle
inestricabile.
Ecco,è qui che inizia tutto. Non lo sapevi?

E' da quel grande fegato che ti ci vuole per guardarti così, scomposta in mille coriandoli, che ricomincerai.

Perché una donna ricomincia comunque, ha dentro un istinto che la trascinerà sempre avanti.

Ti servirà una strategia, dovrai inventarti una nuova forma per la tua nuova te.

Perché ti è toccato di conoscerti di nuovo, di presentarti a te stessa.
Non puoi più essere quella di prima. Prima della ruspa.

Non ti entusiasma? Ti avvincerà lentamente.
Innamorarsi di nuovo di se stessi, o farlo per la prima volta,è come un diesel.
Parte piano, bisogna insistere.
Ma quando va, va in corsa.

E' un'avventura, ricostruire se stesse. La più grande.

Non importa da dove cominci, se dalla casa, dal colore delle tende o dal taglio di capelli.

Vi ho sempre adorato, donne in rinascita, per questo meraviglioso modo di gridare al mondo "sono nuova" con una gonna a fiori o con un fresco ricciolo biondo.

Perché tutti devono capire e vedere: "Attenti: il cantiere è aperto, stiamo lavorando anche per voi.

Ma soprattutto per noi stesse".

Più delle albe, più del sole, una donna in rinascita è la più grande meraviglia.
Per chi la incontra e per se stessa.

è la primavera a novembre.

Quando meno te l'aspetti...
Jack Folla
- Testo consigliato da Ida Guarracino -

L'antifascismo dell'anima
A rafforzare, in me e in tanti amici e colleghi, quel nostro connaturato individualismo borghese contribuì, negli anni Venti e Trenta, il fascismo.
Se qualcuno mi avesse domandato allora che cosa ero politicamente, avrei risposto che ero antifascista, e la stessa risposta avrebbero data i miei genitori e fratelli, la stessa gli amici: quelli di Reggio prima, di Alba e Venezia più tardi. Eravamo insofferenti del regime, estranei ai suoi principi, sprezzanti dei suoi miti. Solo nel '33, quando scrissi un saggio sulla nostra cultura a un terzo di secolo, la mia prima acerba analisi della poesia più recente, pensai che il fascismo fosse ormai così radicato nella vita italiana che sarebbe stato necessario, in futuro, fare i conti con esso: non negarlo solo, ma prenderne atto, e tentare, collaborando criticamente, di condizionarlo. Era stato firmato il cosiddetto Patto a Quattro, si era concluso un accordo con il Vaticano, Mussolini si era fatto, pareva essersi fatto, banditore di pace... Ma fu la tentazione di un'ora, e presto tornai al mio rifiuto. Poi venne la guerra d'Abissinia, poi quella di Spagna; poi vennero le più stolte e sciagurate "campagne", le polemiche grossolane contro l'Inghilterra e la Francia, l'alleanza con la Germania nazista, i provvedimenti razziali... Il tragico si mescolava al ridicolo: il divieto della stretta di mano e del lei; le veline che mettevano al bando Greta Garbo e Charlot, il dialetto e le parole straniere; i gerarchi che saltavano il cerchio di fuoco; Mussolini che a torso nudo mieteva il grano a Pontinia... L'insofferenza si mutò in sdegno, in astratti furori, avrebbe detto presto Vittorini.
Ma in nome di che? Rifiutavo, rifiutavamo, il fascismo e il regime perché limitavano la nostra libertà di intellettuali borghesi, o, semplicemente, di intellettuali, grandi o piccoli che fossimo, e pretendevano di imporci miti e riti ridicoli. Ci ripugnava il conformismo servile che si richiedeva da noi: l'iscrizione al partito, la camicia nera, il distintivo all'occhiello, le cartoline-precetto, le adunate: un misto di chiesa e caserma. Ci offendevano il culto del Duce, sbandierato in ogni occasione, e il suo magistero esteso a ogni questione; lo sprezzo per le convinzioni nelle quali eravamo stati educati, il ripudio grossolano di una tradizione di cultura - l'Illuminismo, certo Risorgimento - in cui credevamo. Ma in nome di chi e di che ci opponevamo? Che sognavamo la domenica mattina, quando al liceo Marco Polo a Venezia ci incontravamo il preside e sei o sette colleghi? Quando ci radunavamo la sera in casa dell'uno e dell'altro - i Necco, i Trombatore, Dazzi, i Grimaldo, i Baratto - e discutevamo di letteratura e politica, ci scambiavamo le ultime barzellette sul regime e sul Duce? Del resto, anche Croce (quel Croce di cui ogni due mesi ci contendevamo al liceo il fascicolo della "Critica" appena arrivava, fresco di stampa) che alternative ci offriva se non il miraggio di una libertà alta ma astratta, che trascurava, o ignorava, gli aspetti concreti della vita associata: le distinzioni fra le classi, la distribuzione ineguale della ricchezza, le scienze e la tecnica? Che ci insegnava l'altro Maestro, quel Giovanni Gentile da cui, ora che si era fatto ideologo del regime, ci tenevamo lontani, ma da cui pure, una volta, eravamo stati attirati? Non ci ripeteva, anche lui, che la cultura è un privilegio di pochi, inutile, diceva, per i tanti fruges consumere nati: nati a consumare granaglie? Così tutti e due, maestri discordi e nemici, nel momento stesso in cui proponevano mete alte di cultura e di vita morale, dissuadevano concordi dalla vita reale, inducevano a rinchiudersi negli studi e nelle biblioteche, quasi che fuori non ci fossero uomini, e lotte in cui fosse bello e doveroso impegnarsi.
Io, da ragazzo mi ero creduto e detto socialista. Nel primo dopoguerra, fra le agitazioni sociali e il fascismo nascente, avevo scoperto il socialismo: su un giornaletto per ragazzi, che per qualche tempo mi sostituì il "Corriere dei piccoli", nelle cronache dei giornali che divoravo con interesse precoce. Ma "socialismo" era allora, per me, una parola, affascinante ma vaga; un'aspirazione generica, propria degli anni in cui, senza sapere perché, ci si fa un idolo di Robin Hood e Sandokan, del conte di Montecristo e Gavroche, in un fermentare confuso di vagheggiamenti di giustizia e in una sentimentale solidarietà con i deboli e i poveri, per chiunque insorga e combatta. Io ne parlavo e parlavo con mia madre, e lei mi obiettava che i poveri ci sono stati e ci saranno sempre, che il mondo è andato e andrà sempre così, e cambiarlo è impossibile: il credo malinconico di chi, frustrato, si consola difendendo i suoi magri privilegi di classe e di casta, cercando qualcuno che stia, e debba stare, più in basso di lui. Io mi sforzavo di confutarla come potevo, e mi accendevo. Ma era, la mia, l'accensione passionale, più che razionale, tipica dell'adolescenza, quando inclinazioni native, credi domestici, suggestioni di libri, brandelli di conversazioni raccolti qua e là, confluiscono insieme senza comporsi in un organismo unitario. Eppure, quel mio "socialismo" era la spia di un qualcosa che era una parte di me; le scelte che un giovane compie rivelano, nel loro tumultuare confuso, tendenze profonde, germi che possono restare a lungo sepolti ma continuano a vivere sotto la neve, e ne erompono un giorno con primaverile rigoglio.
Lontano, intanto, il primo dopoguerra infuriava, sconvolgendo l'Italia. Ma Reggio era abbastanza appartata, e noi ne seguivamo le vicende da un angolo relativamente tranquillo. Anche se le seguivamo con passione, e qualche volta vi eravamo coinvolti anche noi. Mio padre, per il suo ufficio, aveva diritto al telefono a casa. Un pomeriggio, nei giorni della Marcia su Roma, un gerarca fascista chiamò, pretendendo non so più quale adesione collaborante. Gli ero vicino mentre rispondeva, e lo vedo ancora, minuto, la gamba malferma, addossato alla parete (era un telefono a muro, con manovella e cornetta, come si vedono ancora nei film in costume) mentre teso ma fermo, con il suo eloquio forbito dei grandi momenti, ribatteva che lui era un funzionario dello Stato, e non poteva ubbidire che alle autorità dello Stato.
Poche volte, credo, mi sono sentito così orgoglioso di lui.
Poi fu il delitto Matteotti, e furono mesi di febbre. Nel giugno del '24 era stato eletto alla Camera, per i socialisti, il fratello di un mio compagno di scuola, e Mario e io eravamo tra la folla che lo acclamava sotto il balcone. A dicembre nacque a Messina e si divulgò rapidamente anche a Reggio il movimento che dicevano "del soldino": quale muta protesta contro il fascismo si portava all'occhiello, come un distintivo, una monetina di rame da un soldo, fissata con stagno fuso a una spilla. Ce ne costruimmo uno anche noi, Mario ed io, e lo ostentavamo per strada come una professione di fede. Una sera, quando più acute erano tensioni e passioni, mi cercai un'antologia di Mazzini che avevo fra i miei libri, e rilessi, fremendo, la lettera del '32 a Carlo Alberto: nella mia immaginazione una lettera che indirizzavo io a Vittorio Emanuele. Ho ancora il libro; l'ho ripreso, e con commozione vi ho ritrovato le sottolineature nervose a matita, e sbiadite, nei margini, parole esaltate di esecrazione e speranza.
Poi fu la dittatura, e nessuno di noi, familiari e amici, fu "fascista", né, si diceva allora, militante né simpatizzante. Poi ero cresciuto; avevo preso la licenza liceale, ero stato studente a Napoli e a Roma, avevo vinto il concorso, avevo insegnato ad Alba e a Venezia, mi ero sposato; sempre ostile al regime, e tuttavia sempre più estraneo alla politica. In quegli anni, il problema economico e quello della carriera (ma erano un solo problema) mi avevano impegnato in pieno, sbiadendo qualsiasi altro interesse. Nel '25, l'anno che si instaurò la dittatura, decisi di saltare, come si diceva in gergo scolastico, una classe, e presentarmi alla maturità con un anno di anticipo. Perciò mentre frequentavo la seconda liceale svolsi a casa da solo, senza l'aiuto di lezioni private, il programma di terza. Fu dura, ma ce la feci, avvicinando di un anno la laurea e l'accesso alla cattedra, anche se, finiti gli esami, mi ritrovai con un forte esaurimento nervoso, che per tutta l'estate mi tenne lontano dai libri, in una inerzia accidiosa.
Poi furono i quattro anni di università, vissuti anch'essi sotto l'incubo del fare presto, del laurearmi quanto prima potevo. Laureatomi, fu l'incubo del concorso da vincere il prossimo anno. E durante l'estate, ma non solo l'estate, c'erano lezioni private... Tempo per altro, tranne che per le mie fantasie di arte e di amore, non ce n'era.
Ma ce ne fosse stato? La mia cultura e l'ambiente cospiravano, assieme al fascismo, a rinchiuderci, me e tanti altri, in un distacco dalla vita pubblica, riottosi ma inerti; una rassegnazione sterile che si sfogava in mute rivolte interiori e in mugugni irridenti, e ci rinserrava ognuno in se stesso, nei suoi interessi privati, nel suo lavoro solitario. A questo stato d'animo contribuivano tutti e tutto: la struttura stessa del mondo in cui vivevamo. Ignoravamo quasi tutto di ciò che succedeva fuori d'Italia, e se ne venivamo a conoscenza era nelle versioni distorte della stampa e della radio, manipolate dal regime. E ignoravamo tanto di ciò che accadeva in Italia. E ignoravamo quasi del tutto l'esistenza - l'esistenza concreta, vissuta - di quel mondo di contadini e operai da cui la storia tutta del nostro Paese ci teneva lontani. C'erano contadini e operai, ma chi erano? Quali erano la loro vita, i loro bisogni, il loro sentire? Finché abitammo in baracca, stemmo gomito a gomito con un piccolo mondo di proletariato borghese; passati in via Ventiquattro Maggio, nella Reggio bene, unico nostro rapporto col "popolo" erano le donne di servizio inurbatesi dalla campagna e i contadini al mercato: "villani", a cui guardavamo con sufficienza, superbi della nostra cultura, del nostro parlare italiano, delle nostre abitudini tanto diverse.
Di socialismo, di questione operaia, di problemi del Sud, non se ne parlava più; nessuno dei miei professori ce ne fece parola, tranne uno, un avvocato fallito, chiamato ogni tanto per qualche breve supplenza. Alto, robusto, una bionda barba fluente, il vocione tonante. Intelligente e colto ma poco interessato a quelle lezioni episodiche, ci tenne qualche discorso confuso di economia politica, e fece anche il nome di Marx; ma non era il nostro insegnante, non sapeva mantenere la disciplina: non lasciò traccia. Per il resto, il liceo trasmetteva, ormai stancamente, valori astratti, senza rapporti con la vita reale: un carattere che la riforma Gentile aveva consapevolmente ribadito.
Della letteratura contemporanea, al liceo ma anche all'università, appresi poco, quasi niente: Verga e Pirandello erano più o meno dei nomi; Saba e Svevo non esistevano. Ad Alba, e soprattutto a Venezia, cominciai a interessarmene, Verga mi diventò presto un tema appassionante di studio, misi assieme dei saggi sui Crepuscolari, allora quasi dei contemporanei, li pubblicai su una rivista parecchio diffusa e li raccolsi in volume. Nel '32 passammo, Dazzi ed io, qualche settimana a leggere assieme Ungaretti, cercando di interpretare quei testi composti in un codice che ci era straniero. Svevo, Saba, Gadda, Montale, "Solaria", le riviste e le opere che oggi paiono essere state la letteratura italiana di quegli anni, ci erano sconosciuti; leggevamo, io e i miei amici, scrittori di minore tensione intellettuale e stilistica, oppure altri già più o meno arrivati alla fama: Alvaro, Moravia, Gatti, Viani, o quelli che oggi diremmo di consumo borghese: Zuccoli, D'Ambra, narratori stranieri, i grandi dell'Ottocento, gli americani contemporanei, certi ungheresi allora di moda, tedeschi e austriaci che Necco traduceva o ci indicava. Io per mio conto, portato come ero a ciò che genericamente potrei dire realismo, ebbi una cotta per Bontempelli e per Betti. Ma erano scelte o rifiuti confusi, e non c'era, dietro, un gusto sicuro. Negli anni Trenta leggemmo anche scrittori che in un modo o nell'altro cercavano di dire con linguaggio nuovo i loro e i nostri problemi; quelli che oggi consideriamo i "grandi" di quell'età, gli interpreti di una crisi storica che in essi però, come in tanti altri, assumeva i tratti di una crisi esistenziale. Erano, quegli scrittori, italiani o stranieri, narratori o poeti, le voci di un disagio diffuso di cui partecipavamo anche noi; ma essi pure, se ci dicevano parole alte e umane, persuadevano a rassegnazione, non a ribellione. Parlavano della pena dell'uomo, del male di vivere, dell'illusione che basta a dare coraggio, della divina indifferenza che può essere l'unico bene; nessuno suggeriva che il mondo si potesse cambiare, e che spettasse a noi, intellettuali, contribuire a cambiarlo. Chiusi nelle loro torri di avorio, non potevano che indurre a isolarci, con sterile orgoglio, nel nostro lavoro accademico, e a me, quando la sera tentavo di mettere assieme versi, novelle, romanzi, suggerivano temi e toni di malinconia rassegnata.
Era un limite, e presto, scoppiata la guerra, lo capimmo; ma fu anche, per alcuni anni, una forza; contribuirono, quegli scrittori e quei libri, a dare un senso al nostro antifascismo istintivo e al nostro rifiuto, egualmente istintivo, di tanta cultura del tempo. E quel programma di vita che mi ero costruito nella prima giovinezza (vivere da borghese, pensare da semidio) si sostanziò allora, in me e negli amici, di una sua dignità: insegnare, fare critica, scrivere, potevano, pensavamo, surrogare quell'attività pubblica che il destino ci aveva negata, e se svolti con serietà laboriosa, potevano giustificare, davanti agli altri e a noi stessi, il nostro essere uomini.
C'era poi Croce, maestro ambiguo anche lui, che (può parere, ma non è un paradosso) ci affascinava proprio per i suoi limiti: per quelli che più tardi riconoscemmo suoi limiti.è che essi erano anche i nostri, e lui era, al livello più alto, il rappresentante di un'Italia colta e pulita ma provinciale, provinciale anche lui nonostante l'orizzonte europeo delle sue sterminate letture, fermo ai valori risorgimentali, e perciò umorosamente antifascista, antiavanguardista, antimodemo, chiusamente borghese, sordo e cieco ai problemi sociali, incline per natura, interessi, cultura, a guardare non avanti ma indietro.
Da ciò il suo antifascismo fermo ma astratto, e, in letteratura come in politica, la sua funzione ambigua: una lezione di dignità, di riserbo, di rifiuto delle camevalate chiassose, degli slogan verbosi, della retorica asmatica che era il fascismo, ma una lezione però che mitizzava "il mondo di ieri", come presto lo avrebbe detto un altro Maestro, Stefan Zweig. Da ciò la necessità, a un certo momento, di liberarcene, con una insofferenza ingenerosa, quasi con rabbia.
Da ciò, anche, un altro apparente paradosso. Oggi, a tanti anni di distanza, dopo tante esperienze, io sono convinto che proprio l'essere stati "crociani" abbia favorito più tardi, e reso meno traumatico, il nostro approdo a Marx e a Gramsci. Questi infatti ci offrivano una visione del mondo e tavole di valori del tutto diverse, ma erano anch'essi uomini della nostra cultura, eredi della civiltà del passato: la "filosofia classica tedesca", sensibili alla grande poesia di ogni età. Erano dunque l'antitesi dei piccoli borghesi fascisti, beceri e incolti, ma anche dei tanti intellettuali chiassosi - i futuristi, i Papini, gli avanguardisti senza passato - che noi per istinto disprezzavamo e odiavamo. E, credo, fu anche per quella reduplicata lezione, per quell'innestarsi di Marx e di Gramsci sul tronco di Croce, che tanti di noi sono stati preservati, ancora più tardi, da altri avanguardismi egualmente chiassosi e cafoni, egualmente negatori della ragione, egualmente sordi alla storia.
Da questo grigiore si usciva solo per caso: se il destino metteva sulla nostra strada qualcuno o qualcosa - una persona, un libro, un evento - da cui si capisse che c'erano anche altre prospettive. Fu questa la storia di tanti fra i giovani della nostra generazione e di quella che seguiva la nostra; ma noi, io e i miei amici, non avemmo questa sorte, forse non sapemmo meritarcela. Anche se già c'erano in noi germi che si sarebbero schiusi, ma più tardi, in circostanze diverse.
Giuseppe Petronio, tratto da: G. Petronio, Le baracche del Rione Americano, Edizioni Unicopli, Milano 2001.
- Brano consigliato da Salvatore Armando Santoro -

Un monaco, disturbato nella sua preghiera dal gracidare di una rana, le intimò di tacere.
Poiché era un santo, la rana tacque.
Ma nel profondo silenzio una voce sussurrò al monaco:
"E chi può mai dire se il gracidio della rana non sia gradito a Dio quanto il tuo salmodiare?".
Pentito, il monaco invitò allora la rana a riprendere il canto e, per la prima volta, il monaco si sentì in armonia con l'intero universo: capì finalmente che cosa significasse pregare
Saggezza dell'Oriente
- Racconto consigliato da Ida Guarracino -

La luna sul lago
C’è la luna sul lago stanotte.
Il vento che lievemente increspa la superficie, ormai priva di luce, dello specchio fra i monti, divide il pallido astro celeste in mille lamelle che danzano sull’acqua, immerse in un argenteo scintillio.
Chiudo gli occhi e sovrappongo il tuo volto all’immagine della luna danzante e indugio a guardarti consapevole che il riportarti alla mente mi avrebbe recato ancora un misto di gioia e sofferenza.
Desidero accarezzarlo quel volto, posare le mie labbra su quelle labbra dischiuse in un sorriso e respirare il tuo soffio vitale; voglio quegli occhi dentro la mia anima perché riescano a leggere quanto è stato scritto dall’illusione di un sogno; vagheggio di tuffarmi fra quei capelli e inanellarmeli fra le dita lentamente mentre, accostando la mia guancia alla tua ti sussurro la storia di un fiore che all’improvviso è nato tra le rocce in mezzo ad una pietraia desolata là dove non c’era terra per accoglierlo né raggi di sole per riscaldarlo.
A volte un semino, sfuggendo alla sorveglianza del vento, durante la migrazione verso i giusti terreni, finisce per cadere in un luogo che mai avrebbe pensato di essere abbellito da un fiore, troppo impervio ed inospitale per una simile grazia del creato.

Me ne accorsi all’improvviso durante una di quelle mie escursioni in montagna alla ricerca, attraverso un contatto con la natura non contaminata da sovrastrutture che finiscono per falsarne i contorni, di pace e silenzio, di solitudine e pensiero per cercare di ritrovare un po’ di me che mi desse la forza di proseguire lungo il cammino di questa mia assurda esistenza.
C’era già ieri?
Forse sì.
Ma ancora non era venuto fuori con tutta la sua prepotenza di vita.
Passando infatti non me ne ero accorta.
Ma oggi eccolo mostrarsi in tutta la sui rigogliosa bellezza, i suoi petali di quella sfumatura d’azzurro che assume il cielo qualche attimo prima di essere ingoiato dal buio, si protendono verso il sole, come a reclamare il loro diritto a vivere, lo stelo di un verde intenso, ritto e immobile s’innalza, sfidando l’infinito.
E’ bellissimo ma non vivrà.
Lui lo sa.
Lo sanno le pietre che non possono offrirgli nutrimento, lo sa il sole che non trova spiraglio per raggiungerlo, lo sa il cielo che non ha decretato la sua nascita, lo sa il vento che cerca di fare piano, passandogli accanto.
Ma non serve.
Era divelto e morto quando passai il giorno dopo.
Non volli più fare quel percorso.
C’eri già ieri?
Forse sì.
Ma ancora non conoscevo tutta la forza del mio amore.
Poi un semino, sfuggendo al controllo della ragione, durante la migrazione verso il logico e il sensato era finito nel mio cuore con una sorprendente voglia di germogliare.
Non mi accorsi quando entrò.
Soltanto quando il fiore dai petali dell’azzurro che ha il cielo prima di diventare il custode della notte, esplose verso il sole, per reclamare il suo diritto all’amore, mi accorsi della tua presenza, della tua invasione, del tuo significato.
E’ un fiore bellissimo ma non vivrà.
Lui lo sa.
Lo sa il mio cuore che non vuole arrendersi, lo sa la mia anima che ascolta i tuoi silenzi, lo sa la mia pelle che respira la tua assenza, lo sa la mia solitudine che uccide la follia.
Cerco ancora il tuo volto sovrapposto alla luna.
M’incammino nell’acqua: voglio raggiungere il tuo volto,è troppo forte e intensa la voglia di accarezzarlo, di sentirlo vivo sotto le mie dita….chissà, l’acqua del lago riuscirà a ricoprirmi tutta, sono tanto stanca, riuscirei a riposare il cuore accanto al tuo volto.

Ora sul lago c’è solo la luna danzante, scomposta in mille lamelle argentate, che custodisce il segreto di un fiore che non poteva vivere.
Diana 3 settembre 2004
- Racconto consigliato da Ida Guarracino     

Parabola insegnata dal Buddha
(dedicata a tutti coloro che credono nella fortuna e nella sfortuna, nella positività e nella negatività, nel bene e nel male e in tutte le altre concezioni dualiste dell'esistenza.)

Un contadino possedeva un cavallo. Era tutto ciò che aveva, oltre alla sua modesta capanna.
Un giorno questo cavallo fuggì. Tutti gli abitanti del villaggio vollero andare da questo contadino per consolarlo: in quei tempi, perdere l'unico cavallo che si possedeva era una vera tragedia. Ma a coloro che gli
dicevano "che tremenda sfortuna ti ha colpito" lui rispondeva: "può darsi".
Il cavallo fuggito si unì ad un branco di cavalli selvaggi. Venne l'inverno, con l'inverno venne la neve, e per i
cavalli allo stato brado diventò difficile trovare da mangiare.
Il cavallo fuggito si ricordò del cibo che ogni giorno mangiava presso il suo padrone e decise di tornare.
Il branco lo seguì.
Il contadino si ritrovò proprietario di un branco di ben dodici cavalli. Praticamente era diventato il più ricco
del suo villaggio. Tutti vennero a  complimentarsi per questa grande fortuna, ma ancora una volta lui rispose a chigli domandava se non si ritenesse fortunato: "può darsi".
Passarono alcuni anni, il figlio del contadino divenne un giovane forte ed esuberante.
Essendo figlio di un proprietario di cavalli volle imparare a cavalcare e si divertiva a galoppare a tutta velocità. In una delle sue cavalcate, cadde da cavallo,  le gambe rimasero paralizzate.
Era l'unico figlio maschio del contadino, e questo rendeva la disgrazia ancora più terribile: chi avrebbe mandato avanti la casa quando i genitori fossero diventati troppo vecchi per lavorare nei campi?
Tutto il villaggio tornò dal contadino per consolarlo per questo terribile avvenimento, ma a chi affermava "che grande disgrazia ti ha colpito!" lui rispondeva con il solito "può darsi...."
L'anno seguente passarono dal villaggio le guardie dell'Imperatore per reclutare soldati da mandare in guerra. Tutti i giovani furono portati via, tranne naturalmente il figlio del contadino, dato che non poteva
camminare.
Solo dopo alcuni anni si seppe che erano morti tutti.
Il contadino era dunque l'unico padre del villaggio ad avere ancora un figlio vivo, sebbene invalido. Inoltre, non dovette soffrire per anni in attesa di notizie del proprio figlio, come gli altri padri del  villaggio.
Uno di questi padri gli fece visita per dirgli: in fondo è stata una fortuna che tuo figlio sia diventato invalido: ha evitato una morte quasi certa. Il contadino rispose: "può darsi".
- Racconto consigliato da Ida Guarracino -

I tre filtri
Nella Grecia antica Socrate era apprezzato da tutti per la sua saggezza.
Si racconta che un giorno incontrasse un conoscente che gli disse:
"Socrate, sai che cosa ho appena sentito di un tuo studente?
"Aspetta un momento," rispose Socrate. "Prima che tu me lo dica vorrei che tu sostenessi un piccolo esame che è chiamato "Esame dei tre filtri".
"Tre filtri?"
"Esatto," continuò Socrate. "Prima che tu mi parli del mio studente, filtriamo per un momento ciò che stai per dire.
1° filtro, Filtro della Verità: Ti sei accertato al di là di ogni dubbio che ciò che stai per dirmi è vero?"
"No" disse l'uomo "in effetti me lo hanno raccontato."
"Bene," disse Socrate. "Quindi tu non sai se sia vero o meno.
2° filtro, Filtro della Bontà : Ciò che stai per dirmi sul mio studente è una cosa buona?"
"No, il contrario"
"Allora" Socrate continuò "tu vuoi dirmi qualcosa di male su di lui senza esser certo che sia vero?"
L'uomo si strinse nelle spalle un po' imbarazzato.
Socrate proseguì:" Puoi ancora passare l'esame perché c'è il 3° filtro, il Filtro dell'Utilità: Ciò che vuoi dirmi circa il mio studente mi sarà utile?"
"Veramente…… non credo "
"Bene," concluse il Saggio , "se ciò che vuoi dirmi non è Vero, non è Buono e neppure Utile, perché me lo vuoi dire?"
- Racconto consigliato da Ida Guarracino -

Per comprendere bisogna mostrarsi comprensivi
Mi ha incuriosito apprendere che il derivato del verbo inglese to understand, “comprendere”è letteralmente “osservare stando in piedi, da sotto in su”. Mi sembra che questo sia molto sensato. Per comprendere davvero qualcosa, occorre conoscerlo a fondo, scrutandolo dal basso verso l’alto.
A noi esseri umani piace moltissimo correre alle conclusioni. Abbiamo opinioni su tutto, anche quando di un argomento siamo affatto digiuni. Sprechiamo un sacco di tempo a prevedere, reputare, congetturare, criticare, decretare, per lo più con scarsi fondamenti o addirittura senza elementi di sorta. Ciò si verifica per solito in quanto siamo confinati entro la nostra comprensione dei fenomeni da ciò che sappiamo di noi stessi, il che molto spesso si riduce a ben poco.
Ne consegue che una miglior comprensione di noi sfocerà in una maggior comprensione degli altri. Se saremo in grado di accettare le vie non di rado imprevedibili che ci inducono a pensare e a comportarci in un certo modo, potremo intendere il motivo per cui altri pensano ciò che pensano, fanno ciò che fanno.
Un antico adagio indo-americano dice che non possiamo capire nessuno se prima non abbiamo trascorso un mucchio di tempo nei suoi mocassini. A questo vorrei aggiungere che dovremmo sforzarci di sentirci a nostro agio dentro i nostri mocassini prima di tentare d’infilarci in quelli altrui.
Accingerci a risollevare qualcuno da terra:
è il solo motivo che ci autorizzi a guardare qualcuno dall’alto in basso.
(Jesse Jackson)
- Testo consigliato da Ida Guarracino -

Ballate come se nessuno vi guardasse
Siamo convinti che la nostra vita sarà migliore quando saremo sposati, quando avremo un primo figlio o un secondo.
Poi ci sentiamo frustrati perché i nostri figli sono troppo piccoli per questo, o per quello,
e pensiamo che le cose andranno meglio quando saranno cresciuti.
In seguito siamo esasperati per il loro comportamento di adolescenti. Siamo convinti che saranno più felici quando avranno superato questa età. Pensiamo di sentirci meglio quando il nostro partner avrà risolto i suoi problemi, quando cambieremo l'auto. Quando faremo delle vacanze meravigliose, quando non saremo più costretti a lavorare.
Ma se non conduciamo una vita piena e felice ora, quando lo faremo?
Dovrete sempre affrontare delle difficoltà di qualsiasi genere. Tanto vale accettare questa realtà e decidere di essere felici, qualunque cosa accada.
Una delle mie citazioni preferite ha per autore Alfred Souza : Per tanto tempo, dice, ho avuto la sensazione che la vita sarebbe presto cominciata, la vera vita! Ma c'erano sempre ostacoli da superare strada facendo, qualcosa di irrisolto, un affare che richiedeva ancora del tempo , dei debiti che non erano stati ancora regolati. In seguito la vita sarebbe cominciata. Finalmente ho capito che questi ostacoli erano la mia vita.
Questo modo di percepire le cose mi ha aiutato a capire che non c'è un mezzo per essere felici, ma che la felicitàè il mezzo. Di conseguenza, gustate ogni istante della vostra vita, e gustatelo ancora di più perché lo potete dividere con una persona cara, una persona molto cara per passare insieme dei momenti preziosi della vita, e ricordatevi che il tempo non aspetta nessuno.
Allora smettete di aspettare di finire la scuola, di tornare a scuola, di perdere cinque chili, di prendere cinque chili, di avere dei figli, di vederli andare via di casa.
Smettete di aspettare di cominciare a lavorare, di andare in pensione, di sposarvi, di divorziare. Smettete di aspettare il venerdì sera, la domenica mattina, di aver una nuova macchina o una casa nuova. Smettete di aspettare la primavera, l'estate, l'autunno, l'inverno?.
Smettete di aspettare di lasciare questa vita, di rinascere nuovamente, e decidete che non c'è momento migliore per essere felici che il momento presente.
La felicità e le gioie della vita non sono delle mete, ma un viaggio.

Un pensiero per Oggi: Lavorate, come se non aveste bisogno di soldi,
Amate, come se non doveste mai soffrire,
Ballate, come se nessuno vi guardasse "Daisaku Ikeda"
- Testo consigliato da Ida Guarracino -

La piccola fiammiferaia
Era la fine dell'anno faceva molto freddo. Una povera bambina camminava a piedi nudi per le strade della città.
La mamma le aveva dato un paio di pantofole, ma erano troppo grandi e la povera piccola le aveva perdute attraversando la strada.
Un monello si era precipitato e aveva rubato una delle pantofole perdute.
Egli voleva farne una culla per la bambola della sorella.
La piccola portava nel suo vecchio grembiule una gran quantità di fiammiferi che doveva vendere. Sfortunatamente c'era in giro poca gente: infatti quasi tutti erano a casa impegnati nei preparativi della festa e la poverina non aveva guadagnato neanche un soldo.
Tremante di freddo e spossata, la bambina si sedette nella neve: non osava tornare a casa, poiché sapeva che il padre l'avrebbe picchiata vedendola tornare con tutti i fiammiferi e senza la più piccola moneta. Le mani della bambina erano quasi gelate. Un pochino di calore avrebbe fatto loro bene!
La piccola prese un fiammifero e lo sfregò contro il muro. Una fiammella si accese e nella dolce luce alla bambina parve di essere seduta davanti a una grande stufa!
Le mani e i piedi cominciavano a riscaldarsi, ma la fiamma durò poco e la stufa scomparve.
La piccola sfregò il secondo fiammifero e, attraverso il muro di una casa, vide una tavola riccamente preparata. In un piatto fumava un'oca arrosto....
All'improvviso, il piatto con l'oca si mise a volare sopra la tavola e la bambina stupefatta, pensò che l'attendeva un delizioso pranzetto.
Anche questa volta, il fiammifero si spense e non restò che il muro bianco e freddo.
La povera piccola accese un terzo fiammifero e all'istante si trovò seduta sotto un magnifico albero di Natale. Mille candeline brillavano e immagini variopinte danzavano attorno all'abete. Quando la piccola alzò le mani il fiammifero si spense.
Tutte le candele cominciarono a salire in alto verso il cielo e la piccola fiammiferaia si accorse che non erano che stelle.
Una di loro tracciò una scia luminosa nel cielo: era una stella cadente.
La bambina pensò alla nonna che le parlava delle stelle.
La nonna era tanto buona! Peccato che non fosse più al mondo.
Quando la bambina sfregò un altro fiammifero sul muro, apparve una grande luce. In quel momento la piccola vide la nonna tanto dolce e gentile che le sorrideva. -Nonna, - esclamò la bambina -
portami con te! Quando il fiammifero si spegnerà, so che non sarai più là.
Anche tu sparirai come la stufa, l'oca arrosto e l'albero di Natale!
E per far restare l'immagine della nonna, sfregò uno dopo l'altro i fiammiferi.
Mai come in quel momento la nonna era stata così bella.
La vecchina prese la nipotina in braccio e tutte e due, trasportate da una grande luce, volarono in alto, così in alto dove non c'era fame, freddo né paura.
(Hans Christian Andersen)
- Racconto consigliato da Elisabetta Robert -





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