Poesie di Giuseppe Pucci


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A mio zio
Non è in un'auto - cattivo effetto ottico! -
che arriva, ma in groppa al suo bardotto,

e in groppa al suo bardotto trotta via,
con muti titoli di coda, ché lieta follia

di estro assecondare non sa la colonna sonora,
né quel suo saluto brusco che la viuzza indora…

(quel "ciao" secco, deludente, scandalizzante
la misera mia disposizione d'animo contingente,
echeggiante giorni interi per viscido compiacimento
intellettuale di un infante che impara il mondo
- eppure innesto su un virgulto d'anima...)

… E lui trotterellando va, lasciando un alito
di melanconia, di non detto.

E non vedi l'ora che ritorni,
cavaliere viola e giallo sull'aurea scia,

con l'esile armatura - senza elmetto in testa
ove gentil visione ciarliero fuoco gli ridesta -

con lo scudo alto se ciccò la lancia in resta,
un po' impacciato, ma tanto bello,

a salvarti di nuovo.

L'ultimo calabrese
Lo senti questo silenzio, corrotto ed ansante,
come già anela un miraggio di pena
che allevi l'anima dalla crisi imbarazzante?

Avverse, le parole svengono in un tetro
vuoto. Ossigeno, poi, il colpo di reni
della coscienza: <<che tempo fa a Cutro?>>

Eppure una volta parlavamo la stessa lingua…
Ero bambino e amavo sfogliarti, conoscerti.
Venerarti, "da lungi", come fossi una statua,

un idolo (o un ideale) era un non-fatto,
intangibile idea di nientità di futuro.
Ti crede invecchiato chi non si avvede

ormai più del proprio stato di salute.
E di noialtri si prendono a ragione
giuoco i tuoi occhi ridenti - io li so così consci!

- e quei quattro denti che è la stessa festa
di fanciullo vedere incorniciati da quel sorriso
- proteso su viso corpo braccia di carne, di terra -

che dà gioia solleticante, e luce,
e tepore vernacolare alla stanza.
Tu ascolti, tu sai!, e mi trai d'impaccio:

greve come un'incudine, è un dolente
sollievo il tuo congedo improvviso.
Giaccio, inerte, seduto in un angolo scuro,

di risaputa uggia, desiderando riviverti.
Ma è mai possibile riviverti? O forse
è un tentativo patetico, tutto retorico,

affinché possa rilegarti in chissà
quale posto del mio Ego storico?
E dovrei pure dedurne una coscienza

più pura?! Ma conosco abbastanza - o forse
sono troppo presuntuoso o forse troppo sciocco -
la scienza delle mie interiora, da sapere

irrisolvibile questo male, che, per diktat
di me su me, di me si nutre di ora in ora.
Sarebbe un funesto idiota esponenziale tradirmi.

Non mi resta che il muto ascoltarti dal telefono.
Cantami allora quel ballo, che da sempre io seppi.
Cantami, ti prego, Nonno, <<cumpari Peppi, cumpari Peppi…>>



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