Metrica 2


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  Sommario degli strumenti              Metrica 1            Figure retoriche             Esempi

La metrica è la disciplina che si occupa della struttura ritmica dei versi e della loro tecnica compositiva. Elementi strutturali di un testo poetico sono: lunghezza del verso, ritmo, Versi italiani, figure metriche, licenze poetiche, rima, strofa, componimenti poetici.


Enjambement
 
Significa scavalcamento. Indica il fenomeno metrico per cui la frase logica del discorso poetico non coincide con il verso, ma prosegue in quello successivo (scavalcando quindi il primo); da Torquato Tasso è stato chiamato inarcatura.


Forse perché della fatal quiete
tu sei l’immago a me sì cara vieni
o Sera! E quando ti corteggian liete
le nubi
estive e i zeffiri sereni
 
e quando dal nevoso aere inquiete
tenebre
e lunghe all’universo meni
sempre scendi invocata, e le secrete
vie
del mio cor soavemente tieni.
 
Vagar mi fai co’ miei pensier su l’orme
che vanno
al nulla eterno; e intanto fugge
questo reo tempo
, e van con lui le torme
 
delle cure
onde meco egli si strugge;
e mentre io guardo la tua pace, dorme
quello spirto
guerrier ch’entro mi rugge.
(U. Foscolo, Alla sera)

 

Verso ipèrmetro e ipòmetro
 
Il verso ipèrmetro ha una sillaba in più del normale, il verso ipòmetro una di meno.
L'ultima sillaba del verso ipermetro si elide con la prima sillaba del verso successivo (episinalefe), oppure viene assegnata al verso seguente, ipometro, avente una sillaba in meno.


Non/ far/ pian/ge/re/ pian/ge/re/ pian/ge/re                    >>> novenario sdrucciolo + sillaba -re
(ancora!) chi tanto soffrì                                               >>> novenario tronco
(G. Pascoli, La voce, 33-34)
L'ultima sillaba -re si elide con an/cora del verso successivo.

Si/ don/do/la/ don/do/la/ don/do/la                               >>> novenario sdrucciolo
senza rumore la cuna                                                    >>> ottonario piano, ipòmetro
nel mezzo al silenzio profondo.                                      >>> novenario piano
(G. Pascoli, Il sogno della Vergine, 49-51)
L'ultima sillaba -la viene assegnata al verso seguente, ipòmetro, che così diventa novenario.
Notare la rima dondo, profondo.

Non un passo, non una voce                                          >>> novenario piano
mai/. Vi/von/, lo/ro/, tran/quil/li                                       >>> ottonario piano, ipòmetro
in/tor/no/ la/ cro/ce.                                                       >>> senario, ipèrmetro
(G. Pascoli, La figlia maggiore, 14-16)
La sillaba -in del verso ipèrmetro viene assorbita dal verso precedente: così si ottengono un quinario e un novenario.

E', quella infinita tempesta,                                             >>> novenario piano
finita in un rivo canoro.                                                   >>> novenario piano
Dei/ ful/mi/ni/ fra/gi/li re/sta/no                                        >>> novenario sdrucciolo
cir/ri/ di/ por/po/ra e/ d'o/ro.                                           >>> ottonario piano, verso ipòmetro
(G. Pascoli, La mia sera, 17-20)
L'ultima sillaba -no viene assegnata al verso seguente che diventa novenario.
Notare la rima tempesta, resta.

 

Versi piani, sdruccioli, tronchi
 
Il verso si dice piano, se termina con una parola piana (accento tonico sulla penultima sillaba); sdrucciolo, se termina con una parola sdrucciola (accento tonico sulla terzultima sillaba); tronco, se termina con una parola tronca (accento tonico sull’ultima sillaba).

 
E / vi / ri / ve / do, o / gat / ti / ci / d’ar / gén / to,                              (endecasillabi piani = 11 sillabe)
brulli in questa giornata sementìna:
e pigra ancor la nebbia mattutìna
sfuma dorata intorno ogni sarménto.
(G. Pascoli, I gattici, vv 1-4)
 
I cipressi che a Bolgheri alti e schiétti          
van / da / San / Gui / do in / du / pli / ce / fi / làr,                               (endecasillabo tronco = 10 sillabe)
quasi in corsa giganti giovinétti
mi balzarono incontro e mi guardàr.
(G. Carducci, Davanti San Guido, vv 1-4)
 
Ec / co / l’ac / qua / che / scro / scia e il / tuon / che / brón / to / la:     (endecasillabi sdruccioli = 12 sillabe)
porge il capo il vitel da la stalla ùmida,
la gallina scotendo l’ali strèpita,
profondo nel verzier sospira il cùculo
ed i bambini sopra l’aia sàltano.
(G. Carducci, Canto di Marzo, vv 21-25)
 
Spar / sa / le / trec / ce / mór / bi / de                                               (settenario sdrucciolo = 8 sillabe)
sul / l’af / fan / no / so / pèt / to,                                                      (settenario piano = 7 sillabe)
lenta le palme, e rorida
di morte il bianco aspetto,
giace la pia, col tremolo
sguar / do / cer / can / do il / ciél.                                                      (settenario tronco = 6 sillabe)
(A. Manzoni, Morte di Ermengarda, vv 1-6)
 
Quan / do / rit / to il / do / ge an / tì / co                                            (ottonario piano = 8 sillabe)
su / l’an / ti / co / bu / cen / tà / u / ro                                                (ottonario sdrucciolo = 9 sillabe)
l’a / nel / d’o / ro / da / va al / màr,                                                   (ottonario tronco = 7 sillabe)
e vedeasi, al fiato amico
de la grande sposa cerula,
il crin bianco svolazzar;
(G. Carducci, Le nozze del mare, vv 1-6)

 

Rima
 

La rima è un altro elemento importante nella poesia, anche se non indispensabile. Essa unisce due o più versi che terminano con parole identiche a partire dall’ultima vocale accentata.
I versi possono rimare secondo schemi che vengono indicati con le lettere maiuscole dell’alfabeto (AA, AABB, ABAB, ABBA,…)


Vi sono vari tipi di rime:
Rima baciata
Rima alternata
Rima chiusa o incrociata
Rima incatenata
Rimalmezzo o interna
Rima equivoca
Assonanza
Consonanza
Versi sciolti

 

Rima baciata
 
Due versi successivi rimano tra loro, presentando lo stesso suono (AA, BB…)

 

Una donna s’alza e cànta  A
La segue il vento e l’incànta      A
E sulla terra la stènde                B
E il sogno vero la prènde.         B
 
Questa terra è nùda                   C
Questa donna è drùda                C
Questo vento è fòrte                  D
Questo sogno è mòrte                D
(G. Ungaretti, Canto beduino)

 

Rima alternata
 
Rimano i versi alterni ( ABAB, CDCD…)
 
Lo stagno risplende. Si tàce              A
la rana. Ma guizza un baglióre          B
d’acceso smeraldo, di bràce              A
azzurra: il martin pescatóre…          B
 
E non sono triste. Ma sóno                C
stupito se guardo il giardìno…          D
Stupito di che? non mi sóno             C
sentito mai tanto bambìno…             D
(G. Gozzano, L’assenza, vv 21-28)

 

Rima chiusa (o incrociata)
 
Il primo verso rima con il quarto e il secondo con il terzo (ABBA, CDDC…) e così via.
 
Non pianger più. Torna il diletto fìglio            A
a la tua casa. È stanco di mentìre.                   B
Vieni; usciamo. Tempo è di rifiorìre.              B
Troppo sei bianca: il volto è quasi un gìglio.   A
 
Vieni; usciamo. Il giardino abbandonàto          C
serba ancora per noi qualche sentièro.              D
Ti dirò come sia dolce il mistèro                       D
che vela certe cose del passàto.                         C
(G. D’Annunzio, Consolazione, vv 1-8)

 

Rima incatenata
 
Il primo verso rima con il terzo, mentre il secondo rima con il primo e terzo della terzina seguente (ABA, BCB, CDC...),
e così via.
 
 
C’è qualcosa di nuovo oggi nel sóle, A
anzi d’antico: io vivo altrove, e sènto B
che sono intorno nate le viòle. A
 
Son nate nella selva del convènto B
dei cappuccini, tra le morte fòglie C
che al ceppo delle quercie agita il vènto. B
 
Si respira una dolce aria che sciòglie C
le dure zolle, e visita le chièse D
di campagna, ch’erbose hanno le sòglie: … C
(G. Pascoli, L’aquilone, vv 1-9)

 

Rimalmezzo (o interna)
 
La rima cade in fine di emistichio (a metà verso) o all’interno del verso.
 
Odi greggi belar, muggire arménti;
gli altri augelli contènti, a gara insieme
per lo libero ciel fan mille giri,
(G. Leopardi, Il passero solitario, vv 8-10)
 
Un poco, tra l'ansia crescente
della néra vaporiera,
l'addio della séra si sente
seguire come una preghiera,...
(G. Pascoli, In viaggio, vv 7-10)
 
Tra bande verdigialle d’innumeri ginèstre
la bella strada alpèstre scendeva nella valle.
Ecco, nel lento oblio, rapidamente in vìsta,
apparve un ciclìsta a sommo del pendio.
(G. Gozzano, Le due strade, vv 1-4)
 
le piccole fioraie
che strillano gaie nelle maglie.
Come rondini alle grondaie...
(L. Sinisgalli, San Babila, vv 3-5)

 

Rima equivoca
 
Si ha quando la rima è formata da parole di uguale suono e di significato diverso.
 
Il pennato porto, ché odo
già la prima voce del cucco...
cu... cu... io rispondo a suo modo:
mi dice ch'io cucchi, e sì, cucco.
(G. Pascoli, La vite, vv 5-8)
 
Non vogliamo ricordare
vino e grano, monte e piano,
la capanna, il focolare
mamma, bimbi... Fate piano!
(G. Pascoli, L'or di notte, vv 21-24)
 
Vanno. Tra loro parlano di morte.
Cadono sopra loro foglie morte.
Sono con loro morte foglie sole.
Vanno a guardare l'agonia del sole.
(G. Pascoli, Diario autunnale, II, vv 5-8)

 

Assonanza
 

Rima imperfetta nella quale le vocali sono uguali e le consonanti diverse. Può essere interna.

 

Carnevale vecchio e pàzzo   
s’è venduto il materàsso      
(G. D’Annunzio, Carnevale, vv 1-2)
 
Io non so che cosa sia,
se tacendo o risonàndo
vien fiducia verso l’àlto
di guarir l’intimo piànto,
(C. Rebora, Campana di Lombardia, vv 5-8)          
 
e il tuono mùglia, e il vento urla più forte,
e l'acqua frùscia, edè già notte oscura...
(G. Pascoli, In ritardo, vv 46-47)

 

Consonanza
 
Rima imperfetta nella quale le consonanti sono uguali e le vocali diverse. Può essere interna.
 
Qual è quel cane ch'abbaiando agógna,
e si racqueta poi che 'l pasto morde,
ché solo a divorarlo intende e pùgna,...
(Dante, Inferno, VI, 28-30)
 
Leggiadro vien nell’onda della sera
un solitario palpito di stèlla:
a poco a poco una nube leggera
le chiude sorridendo la pupìlla;
(C. Rebora, Stella mia, vv 1-4)
 
Nello splendore del tiepido sòle
eran tre vergini e una grazia sòla
(D. Campana, Tre giovani fiorentine camminano, vv 3-4)
 
E pare una tremula bolla
tra l'odore acuto del fieno,
un mòlle gorgoglio di pólla,
un lontàno fischio di trèno...
(G. Pascoli, Il poeta solitario, vv 9-12)

 

Versi sciolti
 
In una poesia sono versi che non rimano tra di loro.
 
Volata sei, fuggita
come una colomba
e ti sei persa là, verso oriente.
Ma son rimasti i luoghi che ti videro
e l’ore dei nostri incontri.
Ore deserte,
luoghi per me divenuti un sepolcro
a cui faccio la guardia.
(V. Cardarelli, Abbandono)

 

Strofe
 
I versi italiani si raggruppano secondo regole determinate, ma non rigide, per formare le strofe.


Tipi di strofa:

Distico
Terzina
Quartina
Sestina
Ottava
Stanza
Libera

 

Distico
 
Strofa di due versi per lo più in rima baciata (AA, BB...) o alternata (AB, AB...).
 
Erano in fiore i lillà e l’ulivelle; A
ella cuciva l’abito di sposa; B
   
né l’aria ancora apria bocci di stelle, A
né s’era chiusa foglia di mimosa: B
   
quand’ella rise; rise, o rondinelle A
nere, improvvisa: ma con chi? Di cosa? B
   
rise, così, con gli angioli; con quelle A
nuvole d’oro, nuvole di rosa. B
(G. Pascoli, Con gli angioli, Myricae)  

 

Terzina
 
Strofa di tre versi a rima incatenata (ABA, BCB, CDC...).
 

Cerbero, fiera crudele e diversa,

A

con tre gole caninamente latra

B

sovra la gente che quivi è sommersa.

A

 

 

Li occhi ha vermigli, la barba unta e atra,

B

e‘l ventre largo, e unghiate le mani;

C

graffia li spirti, ed iscoia ed isquatra.

B

 

 

Urlar li fa la pioggia come cani;

C

de l’un de’ lati fanno a l’altro schermo;

D

volgonsi spesso i miseri profani.

C

 

 

Quando ci scorse Cerbero, il gran vermo,

D

le bocche aperse e mostrocci le sanne;

E

non avea membro che tenesse fermo.

D
(Dante, Inferno, Canto VI, vv 13-24)

 

Quartina
 
Strofa di quattro versi a rima alternata (ABAB...) o incrociata (ABBA...).
 
Forse perché della fatal quiete A
tu sei l’immago a me sì cara vieni B
o Sera! E quando ti corteggian liete A
le nubi estive e i zeffiri sereni B
   
e quando dal nevoso aere inquiete A
tenebre e lunghe all’universo meni B
sempre scendi invocata, e le secrete A
vie del mio cor soavemente tieni. B
(U. Foscolo, Alla Sera, vv 1-8)
 

 

Sestina
 
Strofa di sei versi con rime varie.
 
Signorina Felicita, a quest’ora A
scende la sera nel giardino antico B
della tua casa. Nel mio cuore amico B
scende il ricordo. E ti rivedo ancora, A
e Ivrea rivedo e la cerulea Dora A
e quel dolce paese che non dico. B
(G. Gozzano, La Signorina Felicita ovvero La Felicità, vv 1-6)

 

Ottava
 
Strofa di otto versi endecasillabi: i primi sei sono a rima alternata (AB, AB, AB), gli ultimi due a rima baciata (CC).
 
Su la riviera Ferraù trovosse A
di sudor pieno e tutto polveroso. B
Da la battaglia dianzi lo rimosse A
un gran disio di bere e di riposo; B
e poi, mal grado suo, quivi fermosse, A
perché, de l’acqua ingordo e frettoloso, B
l’elmo nel fiume si lasciò cadere, C
né l’avea potuto anco riavere. C
(L. Ariosto, Orlando Furioso, Canto I, ottava XIV)

 

Stanza
 
È la strofa della canzone. Si compone di due parti: la fronte (che si divide in due piedi) e la sìrima o sirma (che può essere divisa in due volte).
Fronte e sirima sono collegate da un verso, chiamato chiave. I versi usati sono il settenario e l’endecasillabo.
 
Chiare, fresche e dolci acque, |
ove le belle membra 1° piede |
pose colei che sola a me par donna; |
  | fronte
gentil ramo ove piacque |
(con sospir’ mi rimembra) 2° piede |
a lei di fare al bel fiancho colonna; |
 
herba et fior’ che la gonna | chiave
 
leggiadra ricoverse |
co l’angelico seno; 1ª volta |
aere sacro, sereno, |
  | sìrima
ove Amor co’ begli occhi il cor m’aperse: |
date udienzia insieme 2ª volta |
a le dolenti mie parole extreme. |
(F. Petrarca, Chiare, fresche et dolci acque, vv 1-13)

 

Strofa libera
 
Il numero dei versi non è fisso e varia.
Poi quando intorno è spenta ogni altra face,
e tutto l’altro tace,
odi il martel picchiare, odi la sega
del legnaiuol, che veglia
nella chiusa bottega alla lucerna,
e s’affretta, e s’adopra
di fornir l’opra anzi il chiarir dell’alba.
 
Questo di sette è il più gradito giorno,
pien di speme e di gioia:
diman tristezza e noia
recheran l’ore, ed al travaglio usato
ciascuno in suo pensier farà ritorno.
 
Garzoncello scherzoso,
cotesta età fiorita
è come un giorno d’allegrezza pieno,
giorno chiaro, sereno,
che precorre alla festa di tua vita.
Godi, fanciullo mio; stato soave,
stagion lieta è cotesta.
Altro dirti non vo’; ma la tua festa
ch’anco tardi a venir non ti sia grave.
(G. Leopardi, Il sabato del villaggio, vv 31-51)

 

Componimenti poetici
 

Un componimento poetico è formato da strofe, che possono seguire uno schema fisso, come nella poesia tradizionale, o uno schema libero, come nella poesia moderna.

Sonetto
Canzone
Ode


Sonetto
 

È un componimento di 14 versi endecasillabi, composto da due quartine, a rima alternata o chiusa, e due terzine, con
schema metrico vario.

Dante il mover gli diè del cherubino

Dante diede al sonetto il movimento di un angelo
e d’aere azzurro e d’òr lo circonfuse: e lo circonfuse di immagini luminose e calde;
Petrarca il pianto del suo cor, divino Petrarca gli infuse la malinconia del suo amore,
rio che pe’ versi mormora, gl’infuse. divino ruscello che mormora per i versi.
 
La mantuana ambrosia e ‘l venosino Torquato (Tasso) ottenne che dalle muse di Tivoli (laziali)
miel gl’impetrò da le tiburti muse fossero date al sonetto la soavità di Virgilio e la dolcezza di Orazio;
Torquato; e come strale adamantino e (Vittorio) Alfieri lo scagliò come freccia dura
contra i servi e’ tiranni Alfier lo schiuse. e tagliente contro i servi del potere e i tiranni.
 
La nota Ugo gli diè de’ rusignoli Ugo (Foscolo) gli diede il canto degli usignoli
sotto i ionii cipressi, e de l’acanto sotto i cipressi della Ionia, e lo cinse di acanto
cinsel fiorito a’ suoi materni soli. fiorito al sole della sua terra materna (la Grecia).
 
Sesto io no, ma postremo, estasi e pianto Non sono io sesto, ma ultimo, e col ricordo rinnovo nella mia solitudine
e profumo, ira ed arte, a’ miei dì soli l’estasi (di Dante) e il pianto (di Petrarca) e il profumo (del Tasso),
memore innovo ed a i sepolcri canto. l’ira (dell’Alfieri) e l’arte (del Foscolo) e canto alla memoria dei grandi.
(Giosuè Carducci, Il sonetto) (Traduzione: Lorenzo De Ninis)



Canzone

La canzone antica o petrarchesca è un componimento di varia lunghezza composto da cinque o più stanze, chiuse da un congedo. I versi utilizzati sono i più nobili della tradizione, cioè endecasillabi e settenari. Dal Cinquecento ha subito delle modifiche e nell’Ottocento si è evoluta in canzone libera o leopardiana, dove endecasillabi e settenari si alternano senza schemi fissi.

Canzone petrarchesca
Chiare fresche e dolci acque
ove le belle membra
pose colei che sola a me par donna;
gentil ramo, ove piacque,
(con sospir mi rimembra)
a lei di fare al bel fianco colonna;
erba e fior che la gonna
leggiadra ricoverse con l’angelico seno;
aere sacro sereno
ove Amor co’ begli occhi il cor m’aperse:
date udienza insieme
a le dolenti mie parole estreme.

S’egli è pur mio destino,
e ’l cielo in ciò s’adopra,
ch’Amor quest’occhi lagrimando chiuda,
qualche grazia il meschino
corpo fra voi ricopra,
e torni l’alma al proprio albergo ignuda;
la morte fia men cruda
se questa spene porto
a quel dubbioso passo,
ché lo spirito lasso
non poria mai più riposato porto
né in più tranquilla fossa
fuggir la carne travagliata e l’ossa.

Tempo verrà ancor forse
ch’a l’usato soggiorno
torni la fera bella e mansueta,
e là ’v’ella mi scorse
nel benedetto giorno,
volga la vista disiosa e lieta,
cercandomi; ed o pietà!
già terra infra le pietre
vedendo, Amor l’inspiri
in guisa che sospiri
sì dolcemente che mercé m’impetre,
e faccia forza al cielo
asciugandosi gli occhi col bel velo.

Da’ be’ rami scendea,
(dolce ne la memoria)
una pioggia di fior sovra ’l suo grembo;
ed ella si sedea
umile in tanta gloria,
coverta già de l’amoroso nembo;
qual fior cadea sul lembo,
qual su le treccie bionde,
ch’oro forbito e perle
eran quel dì a vederle;
qual si posava in terra e qual su l’onde,
qual con un vago errore
girando perea dir: "Qui regna Amore".

Quante volte diss’io
allor pien di spavento:
"Costei per fermo nacque in paradiso!".
Così carco d’oblio
il divin portamento
e ’l volto e le parole e’l dolce riso
m’aveano, e sì diviso
da l’imagine vera,
ch’i’ dicea sospirando:
"Qui come venn’io o quando?"
credendo esser in ciel, non là dov’era.
Da indi in qua mi piace
quest’erba sì ch’altrove non ò pace. 

Se tu avessi ornamenti quant’ai voglia,
poresti arditamente
uscir del bosco e gir infra la gente.
(Francesco Petrarca, Chiare, fresche e dolci acque)

Canzone leopardiana
A Silvia
Silvia, rimembri ancora
quel tempo della tua vita mortale,
quando beltà splendea
negli occhi tuoi ridenti e fuggitivi,
e tu, lieta e pensosa, il limitare
di gioventù salivi?
 
Sonavan le quiete
stanze, e le vie d’intorno,
al tuo perpetuo canto,
allor che all’opre femminili intenta
sedevi, assai contenta
di quel vago avvenir che in mente avevi.
Era il maggio odoroso: e tu solevi
così menare il giorno.
 
Io gli studi leggiadri
talor lasciando e le sudate carte,
ove il tempo mio primo
e di me si spendea la miglior parte,
d’in su i veroni del paterno ostello
porgea gli orecchi al suon della tua voce,
ed alla man veloce
che percorrea la faticosa tela.
Mirava il ciel sereno,
le vie dorate e gli orti,
e quinci il mar da lungi, e quindi il monte.
Lingua mortal non dice
quel ch’io sentiva in seno.
 
Che pensieri soavi,
che speranze, che cori, o Silvia mia!
Quale allor ci apparia
la vita umana e il fato!
Quando sovviemmi di cotanta speme,
un affetto mi preme
acerbo e sconsolato,
e tornami a doler di mia sventura.
O natura, o natura,
perché non rendi poi
quel che prometti allor? perché di tanto
inganni i figli tuoi?
 
Tu pria che l’erbe inaridisse il verno,
da chiuso morbo combattuta e vinta,
perivi, o tenerella. E non vedevi
il fior degli anni tuoi;
non ti molceva il core
la dolce lode or delle negre chiome,
or degli sguardi innamorati e schivi;
né teco le compagne ai dì festivi
ragionavan d’amore.
 
Anche perìa fra poco
la speranza mia dolce: agli anni miei
anche negaro i fati
la giovinezza. Ahi come,
come passata sei,
cara compagna dell’età mia nova,
mia lacrimata speme!
Questo è il mondo? questi
i diletti, l’amor, l’opre, gli eventi,
onde cotanto ragionammo insieme?
questa la sorte delle umane genti?
All’apparir del vero
tu, misera, cadesti: e con la mano
la fredda morte ed una tomba ignuda
mostravi di lontano.
(Giacomo Leopardi, A Silvia)


Ode

Componimento poetico di contenuto nobile e profondo, privo di uno schema metrico preciso e vario nei tipi di versi che possono essere settenari, ottonari, decasillabi, doppi quinari, doppi senari. Si sviluppò nel Cinquecento ad imitazione dei classici greci e latini: Anacreonte, Pindaro, Saffo, Orazio. È stata molto utilizzata dai nostri poeti: Parini, Foscolo, Manzoni, Carducci, Pascoli, D’Annunzio. Se tratta di argomenti civili o religiosi, prende il nome di inno.

Ei fu. Siccome immobile,

dato il mortal sospiro,

stette la spoglia immemore

orba di tanto spiro,

così percossa, attonita               

la terra al nunzio sta,

 
muta pensando all’ultima
ora dell’uom fatale;
né sa quando una simile
orma di pie’ mortale                  
la sua cruenta polvere
a calpestar verrà.
 
Lui folgorante in solio
vide il mio genio e tacque;
quando, con vece assidua,             
cadde, risorse e giacque,
di mille voci al sònito
mista la sua non ha:
 
vergin di servo encomio
e di codardo oltraggio,               
sorge or commosso al sùbito
sparir di tanto raggio;
e scioglie all’urna un cantico
che forse non morrà.
 
Dall’Alpi alle Piramidi,           
dal Manzanarre al Reno,
di quel securo il fulmine
tenea dietro al baleno;
scoppiò da Scilla al Tanai,
dall’uno all’altro mar.
               
Fu vera gloria? Ai posteri
l’ardua sentenza: nui
chiniam la fronte al Massimo
Fattor, che volle in lui
del creator suo spirito               
più vasta orma stampar.
 
La procellosa e trepida
gioia d’un gran disegno,
l’ansia d’un cor che indocile
serve, pensando al regno;             
e il giunge, e tiene un premio
ch’era follia sperar;
 
tutto ei provò: la gloria
maggior dopo il periglio,
la fuga e la vittoria,                
la reggia e il tristo esiglio;
due volte nella polvere,
due volte sull’altar.
 
Ei si nomò: due secoli,
l’un contro l’altro armato,           
sommessi a lui si volsero,
come aspettando il fato;
ei fe’ silenzio, ed arbitro
s’assise in mezzo a lor.                         continua
E sparve, e i dì nell’ozio        
chiuse in sì breve sponda,
segno d’immensa invidia
e di pietà profonda,
d’inestinguibil odio
e d’indomato amor.
                   
Come sul capo al naufrago
l’onda s’avvolve e pesa,
l’onda su cui del misero,
alta pur dianzi e tesa,
scorrea la vista a scernere           
prode remote invan;
 
tal su quell’alma il cumulo
delle memorie scese.
Oh quante volte ai posteri
narrar se stesso imprese,             
e sull’eterne pagine
cadde la stanca man!
 
Oh quante volte, al tacito
morir d’un giorno inerte,
chinati i rai fulminei,               
le braccia al sen conserte,
stette, e dei dì che furono
l’assalse il sovvenir!
 
E ripensò le mobili
tende, e i percossi valli,            
e il lampo de’ manipoli,
e l’onda dei cavalli,
e il concitato imperio
e il celere ubbidir.
 
Ahi! forse a tanto strazio        
cadde lo spirto anelo,
e disperò; ma valida
venne una man dal cielo,
e in più spirabil aere
pietosa il trasportò;
                
e l’avviò, pei floridi
sentier della speranza,
ai campi eterni, al premio
che i desideri avanza,
dov’è silenzio e tenebre              
la gloria che passò.
 
Bella Immortal! benefica
Fede ai trionfi avvezza!
Scrivi ancor questo, allegrati;
ché più superba altezza              
al disonor del Gòlgota
giammai non si chinò.
 
Tu dalle stanche ceneri
sperdi ogni ria parola:
il Dio che atterra e suscita,        
che affanna e che consola,
sulla deserta coltrice
accanto a lui posò.
(Alessandro Manzoni, Il Cinque Maggio)

Autore dei testi: Lorenzo De Ninis

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