Racconti di Virgilio Marrone


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Il pizzaiolo di Londra

- Itiarorteikaway? -

Glielo chiese mentre tagliava una ruota di pizza già pronta.

Valerio ignorò la parola del piazzaiolo per chiedergli quanto doveva pagare.

Finito di tagliare il pezzo che gli era stato ordinato, il pizzaiolo chiese di nuovo:

- Itiarorteikaway? -

Erano in due nella pizzeria, una di quelle piccole, gestite da giovani orientali arrivati da poco nel paese e che non hanno ancora trovato di meglio da fare: uno, il pizzaiolo, un ragazzo in piedi al di là del bancone; l'altro, un professore italiano, da poco abilitato ad insegnare inglese.

Il luogo? Londra, come s'è capito dal titolo.

Londra, dove? Londra è grande quanto un continente.

Londra, nei pressi di Victoria, Victoria Station, la stazione Vittoria.

E allora?

La pizzeria era collocata in un piccolo negozio, come quelli dove si usavano vendere i fish'n'chips (fish and chips: pesce e patatine fritti) che di solito venivano incartati in fogli di giornale – quando i giornali non erano ancora stampati elettronicamente per cui poteva accadere che pesce e patate sapessero di inchiostro e del piombo dei caratteri – per essere mangiati in piedi nei pressi della bottega o allontanandosene.

Non c'era nessun altro avventore in quella pizzeria nei pressi della Victoria Station, una delle stazioni ferroviarie di Londra, una città nella città in cui era possibile tutto, anche smarrirsi. La domanda, quindi, non poteva che essere rivolta a lui.

Due cose gli erano chiare e certe: il pizzaiolo gli stava facendo una domanda e la domanda era rivolta a lui.

Guardò il piazzaiolo: era cinese o era coreano? forse giapponese, chissà, certo non era napoletano, il dialetto napoletano, per quanto parlato stretto, l'avrebbe capito.

Per la terza volta il pizzaiolo chiese:

- Itiarorteikaway? -

Accertato dunque che la domanda era rivolta a lui, cercò – e trovò immediatamente – nella mente come si fa a chiedere di ripetere, peraltro in modo formale, educato, come viene suggerito dalle grammatiche usate a scuola e come si insegna a scuola.

- I beg your pardon, please? -

Più sbrigativo sarebbe stato dire

- Pardon? - o, tutt'al più

- Pardon, please? -

Comunque, il piazzaiolo capì quel che gli era stato chiesto e ripeté ancora

- Itiarorteikaway? -

Niente, nemmeno la quarta ripetizione lo aiutò a capire cosa il tizio gli stesse chiedendo: il contesto non diceva niente. La cosa certa era che si trattava di una domanda, come aveva già accertato; l'altra certezza era che bisognava rispondere. Era una breve stringa di suoni che entrava nell'orecchio e che il patrimonio linguistico inglese che possedeva non metteva in grado il suo cervello di elaborare. Peraltro, essendo breve, non c'era tanto da perdere il segno, come quando si legge una frase e si ha qualche incertezza, per cui si può provare a seguire il testo scritto con il dito. Il suono entrava nell'orecchio, ma non arrivava al cervello.

Il neo-professore di inglese era arrivato a Londra qualche giorno prima per seguire un corso di lingua e letteratura per insegnanti di inglese, appunto. La stessa scuola dove si tenevano le lezioni gli aveva trovato anche l' alloggio, in verità molto economico nei pressi della Victoria Station, per l'esattezza in Ecclestone Square, la piazza dove era ubicata anche la scuola. Dormiva in una stanza a quattro letti: gli altri clienti erano tre studenti, un inglese di Bristol, uno francese ed uno spagnolo: non si incontravano quasi mai.

Quindi, qualche contatto con l'inglese vero, quello autentico parlato da persone che avevano un bisogno reale di comunicare, l'aveva avuto. Non tanto importanti potevano essere stati gli scambi comunicativi con il personale della segreteria della scuola e con gli insegnanti, il cui inglese era, per accento, lessico e stile, come dire, di carattere internazionale e quindi più facile da capire; innegabile che quegli scambi qualche beneficio alle abilità audio-orali dovevano averlo apportato. Qualche utilità, ma certamente minore, potevano aver avuto anche gli scambi con i colleghi di corso e con gli studenti non inglesi incontrati nella canteen della scuola.

Inoltre, aveva anche trascorso un paio di serate in un pub nei pressi della scuola e un po' di cockney l'aveva sentito, sia pure senza capirci nulla, trattandosi di un dialetto che nessun insegnante italiano aveva mai osato utilizzare nell'insegnamento e che alcun libro di grammatica si sarebbe mai sognato di illustrare, almeno in quegli anni.

Nonostante tutto ciò, l'irritazione per non riuscire a capire quello che il pizzaiolo gli stava dicendo prese a crescere. Possibile, con tutta la lingua e la letteratura studiate non riuscire a decrittare quella stringa, breve, di suono.

Era quasi la fine degli anni Sessanta. Qualche tempo prima Valerio, il neo professore di inglese, si era sentito inserito nel mondo. Aveva sostenuto l'esame per essere autorizzato ad insegnare lingua e letteratura inglese nelle scuole e l'aveva superato con risultati non brillanti, ma più che soddisfacenti, e non solo perché garantivano l'accesso all'insegnamento. Era necessaria quella autorizzazione, tecnicamente chiamata abilitazione all'insegnamento, anche perché la laurea della quale lui era in possesso era una di quelle definite non specifica. Il percorso per arrivare all'abilitazione era stato un po' lungo.

Inizialmente aveva provato a prepararsi da solo, sfogliando libri vari, ma non riuscendo a definire un percorso adeguato, s'era poi rivolto alla sua insegnante di inglese della scuola secondaria, che stava temporaneamente insegnando all'università. La risposta era stata, come dire, poco o niente (più niente, in verità, che poco) incoraggiante per Valerio: era emersa immediatamente la poca stima che l'insegnante aveva avuto e continuava ad avere di lui, per almeno due ragioni: anzitutto, a causa della laurea 'non specifica', appunto; in secondo luogo perché non era stato alunno che si fosse particolarmente distinto nella sua materia, secondo quanto lei ricordava.

Questa seconda ragione era stata particolarmente pungente per Valerio che da tempo, da quando aveva completato la scuola secondaria, aveva cercato di approfondire lo studio delle lingue in vario modo: tentando di iscriversi ad una scuola interpreti e traduttori, prima (tentativo abbandonato per ragioni economiche), seguendo corsi di inglese presso scuole private, poi. Ma tutto questo non era noto alla insegnante, né poteva esserlo e, in ogni caso, non le interessava a cagione della poca stima che aveva di Valerio com studente di inglese.

Valerio si era rivolto a lei con un duplice obiettivo: essere in qualche modo guidato nella preparazione all'esame di abilitazione (in tempi inevitabilmente brevi, approfondire il possesso della lingua inglese e impadronirsi della letteratura inglese per essere in grado di insegnarle, il che significava imparare quanto meno a destreggiarsi in due oceani per poi poter fronteggiare classi variegate di alunni, che avrebbero potuto essere di scuola media e/o di scuola secondaria superiore) e, allo stesso tempo, tentare di aprire uno spiraglio, per poter eventualmente accedere, in un secondo momento, all'insegnamento nella facoltà dove si era laureato e dove la insegnante stava prestando servizio. La professoressa non riuscì a superare il senso di avversione che provava nei confronti di Valerio. Inoltre, probabilmente intuì il progetto sotteso alla richiesta, progetto per lei non tollerabile, né sostenibile per evitare qualsiasi contaminazione fra economia commercio lingua e letteratura inglese: la contaminazione poteva essere possibile solo se avveniva partendo da lingue e letterature. La risposta fu drastica: non le andava di impegnarsi in una attività del genere.

Ricco di inesperienza e di ingenuità, Valerio aveva, da un lato, trascurato di informarsi sui meccanismi di assunzione dei docenti nelle università, dall'altro ignorato che la stessa docente era in quella facoltà in una situazione di precarietà: suppliva un altro docente; essendo lei stessa precaria nell'incarico universitario - dopo qualche tempo dovette ritornare ad insegnare nella scuola secondaria – avrebbe avuto scarso o, meglio, nessun potere di farlo entrare.

L'unico strappo che la docente poté fare alle sue convinzioni e ai suoi sentimenti fu di dirottarlo verso un collaboratore, un assistente, come all'epoca veniva chiamato quel genere di collaboratori.

Valerio si era molto impegnato nella preparazione. Il primo scoglio da superare era stato rappresentato dalla prova scritta: traduzione dall'italiano in inglese di un brano – in genere un testo letterario – e scrittura dio un testo inglese (letterario o di altro registro linguistico) sotto dettatura della commissione d'esame. Per la prova orale, aveva fatto da sé, aveva saputo individuare un criterio di preparazione e, nonostante tutte le incertezze, le crisi di fiducia nelle sue capacità di sintesi, e la strenua lotta con il desiderio di abbandonare la partita, aveva superato anche la prova orale con successo.

- Itiarorteikaway? -

Chiese ancora una volta il ragazzo, senza spazientirsi, ma non rallentando il ritmo con cui emetteva quella piccola catena sonora. La cosa che, se possibile, ancor più irritava Valerio era che chiaramente si trattava di uno straniero che si stava esprimendo in inglese, situazione che, di solito, rende meno difficoltosa la comprensione reciproca. Per chi non ha un possesso sicuro della lingua, un madre lingua dà l'impressione di mangiarsi le parole, di fondere i suoni, rendendo in tal modo difficile, se non impossibile la comprensione.

Fino all'entrata in quella pizzeria, da quando era arrivato a Londra, Valerio era riuscito a capire tanti nativi, alcuni anche londinesi che non parlavano certo l'inglese limpido e chiaro della BBC e, ancor meno l'inglese, per così dire, neutro dei libri di grammatica che aveva studiato. Nel pub che aveva cominciato a frequentare aveva saputo dialogare con alcuni avventori, notando persino qualche errore che, rispetto alla “grammatica” imparata a scuola e descritta nei libri per gli stranieri, qualcuno di loro faceva. C'era quello che diceva spesso we was, invece di we were. Era anche riuscito a capire un altro londoner che, parlando con quella che sembrava sua moglie, aveva detto in perfetto cockney:

Would you Adam and Eve it? (Che voleva dire: ci crederesti?)

espressione pronunziata tutta d'un fiato, senza pause fra l'uno e l'altro.

Valerio cominciava a spazientirsi. Il pizzaiolo, lui, aveva tempo. Non c'erano altri clienti nel locale. Poteva tranquillamente continuare ad occuparsi di quell'unico avventore. Tra l'altro, gli dava modo di passare il tempo facendo qualcosa, cercando di far capire al professore italiano di inglese quello che stava dicendo e di avere la risposta, dalla quale dipendeva il modo in cui servire il trancio di pizza.

Intanto il trancio di pizza giaceva sul foglio di carta sul bancone, al di là del quale il ragazzo, evidentemente sollevato da una pedana, guardava l'avventore dall'alto in basso.

- Itiarorteikaway? -

Ma che dice? pensò Valerio.

- Itiarorteikaway? - ripeté ancora, alzando un po' il tono della voce, come se ciò potesse facilitare la comprensione.

Per porre fine alla immobilità della situazione, Valerio si decise a chiedere

- Please, say it again -

- Itiarorteikaway? -

- Once more, please, slowly -

- Eat here or take away? -

Voleva sapere se la pizza la mangiava lì o la portava via.

Quello che mancava a Valerio per capire quella breve stringa sonora era che in Inghilterra si stavano diffondendo i take-away, quei piccoli negozi nei quali si vendono solo o prevalentemente tranci di pizza, da consumare in piedi in loco ovvero da portare via.

Dette la risposta:

- Take away -

Il piazzaiolo avvolse il trancio nel pezzo di carta bianca e glielo consegnò.

Nelle botteghe dei fish'n'chips non si poneva il dilemma, se mangiarli lì o portarli via: l'addetto consegnava il cono fatto con il foglio di giornale, e chiedeva, al massimo, se doveva aggiungere l'aceto e quanto sale. E i professori italiani di inglese non facevano brutte figure.  

Virgilio Marrone


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