Racconti di Simone Marchese


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I giorni
Ci sono giorni in cui lo sfondo dei miei quadri è talmente poetico e le sue gradazioni di colore talmente sfumate da non riuscire a fermare il sorriso e le lacrime. Sono così pieno di gioia e d'eterno da dover pensare al respiro per muovere con coscienza il mio torace. L'acqua in questi giorni è più limpida ed il suo rumore quando viene versata è già sete. Il cielo è una coperta tiepida in grado di rassicurare il mio sguardo e il suo immenso essere è il mio stesso guardarlo. Sono accarezzato dal respiro degli amanti e dal ritornare delle maree, e come la luna guardo la terra, e da essa e dall'infinito stesso, sono guardato. A volte, in alcune immagini e in sperati pensieri, sono io stesso il mio sguardo, l'idea di ciò che sono pensante.
L'alba di questi giorni non è che il tramonto mai spento dei giorni precedenti e il suo bagliore è il saluto materno del sole alle stelle. Le lacrime di Dio si infrangono sul mio viso senza timore ne tristezza. Si moltiplicano, rimbalzano, e dalle mie labbra tornano purificate all'occhio creatore di tanta meraviglia cristallina. Sogno di sognare. L'idea di non provare queste sensazioni è l'unico spiraglio di realtà. Tutto il resto è fantasia dilagante, fiume in piena ed euforia.
In questi giorni rivelatori il mio cuore si apre al mondo. Ringrazio la vita per essersi mostrata e la morte perché anch'essa come sua sorella si mostrerà e mi tenderà la mano. Per alcuni istanti sono il figlio nutrito del essere e dell'esser stato, della vita e della morte.
Quanta riscoperta e quanta vanità nel vedermi dall'alto stupito, nel vedere la mia bocca aperta e partoriente, nell'essere abbagliato dal luccichio dei miei occhi stanchi. Quanta tenerezza, sento, nel vedermi tremante e impaurito.
Come per magia vedo i rumori e sento i colori. Armonioso e melodico diventa il fragore del tuono e la brezza invernale ed il sole d'estate diventano parte di uno stesso pensiero. Rivedo gli amori e le vecchie risate, e la tristezza è chiamata dalla nostalgia a rivivere. Quante parole mi sono state donate, quanti libri si sarebbero potuti scrivere, quanti né avrei potuti rileggere vivendo.
La realtà è fatta d'emozione razionalizzata ma la spontaneità dei gesti, gli amori e gli istanti, vengono filtrati, mescolati e strizzati fino a divenire - in questi giorni - ciò che mai, nell'accadere che li vide, potrebbero essere. Sono lo scoglio, in cui la mia mente collettiva, fa scontrare il mare. Quando poi ricado - in quei giorni - sento il levarsi stanco della mano sulla mia spalla e il posarsi sempre più pesante della giostra dei momenti mancati. Ritorno a sentire i rumori e a vedere i colori ma le sfumature sono meno velate ed i rumori mi danno timore.
Capisco di essere il mio stesso limite e di non avere che questo tra le mani. Lamento di non avere e ciò che posseggo sono infine i soli lamenti. Propongo alla mia mente d'essere diversa per un giorno, le chiedo di poter privare un poco di luce a quei giorni abbaglianti e di portarne anche solo un sospiro nella vita nella quale poi io vivo. Chiedo a me stesso di peccare e di rubare la felicità che sento in quei giorni e di provare a sentirla senza assoluto rapimento ed esaltazione, mentre lavoro, mentre studio, quando parlo con la gente. Potrei in tal modo vivere emozioni gratificanti senza ombre né dubbi, potrei sentirmi completo senza avere completezza materiale e trovare il coraggio di osare l'amore. Potrei buttarmi in un vuoto così pieno d'affetto senza pensare di non essere afferrato da esso. Perché il mio limite è la paura di non essere corrisposto, di non essere riflesso, e da ciò, di non amarmi. Non riesco ad amarmi se non sono amato.
Esule da ogni azione e vittima della mia stessa indifferenza rimango immobile e mi limito a sognare. Vivo i miei stessi sogni senza tentare di afferrarli. Ipocrita se penso poi di voler essere afferrato.
Sono diventato io stesso il desiderio delle mie fantasie non potendo aspirare in esse d'essere altro. Una statua ossidata in un cortile abbandonato.
Cosa fare allora? Come poter essere migliori? Come potersi amare? Potrei alzarmi e correre lungo la strada che si stende davanti a casa mia, oppure potrei chiamare gli amici ed uscire e svagarmi ebbro ormai dei miei pensieri. Potrei chiamare lei ma non ho mai avuto il coraggio di dirle che la pensavo, e nemmeno ho avuto l' accuratezza di aspettare. Piuttosto che provare l' ho dimenticata. Ed ora mi nutro dei ricordi, che come bambini spensierati, mi passano davanti agli occhi dondolando lungo le sfarzosità della giostra dei momenti mancati.
Come giovani mondine i miei proponimenti. Chinati al sole nella ricerca. Navigatore e naufrago mi guardo attorno ma ciò che vedo è materialità inanimata. Rocce, sabbia e sofferenza.
La testa levata al nuovo si ostina a cercar lo sconosciuto sperando con ciò di ritrovare ciò che non è mai stato. L'ironia e la beffa di un mondo in solitudine. In queste righe mi rendo conto che la mia è una vita osservativa, come se in un futuro ci fosse il posto per una poesia d'azione che si riferisca all'esperienza ormai vissuta dell'aver osservato prima, in più semplici parole, come se ci fosse un'altra vita in cui poter mostrare ciò che precedentemente si è esperito. L'occhio sostituisce il cuore. Ma niente mai potrà toccarmi, né rapirmi, travolgermi o affliggermi. Tutto mi passerà accanto e sarà soggetto al mio sguardo d'indagine. Sguardo sempre meno vero, meno caldo, fino alla morte. E non potrò così mai dire di aver potuto, di aver amato e nemmeno potranno dire ch'io mai sia stato. Fino a che nemmeno avrò vissuto. Diventerò il mio stesso sguardo, potrò in tal modo gioire e nutrirmi dell'emozione estetica per la quale vivo, ma mai potrò viverla. Guarderò i miei sogni passarmi davanti, abbandonati, e sarò loro stessi nel mio passare.
Sono l'attore impaurito, il copione mai recitato. Le gambe faticano a reggere il peso di tanta angoscia, e tremano e gridano nel vedermi tradito da me stesso. Ci sono giorni in cui sono solo tra la gente. In questi giorni il mio corpo alberga dietro ad uno specchio dal quale ricevo solo l'immagine sporcata del mio volto di profilo.
Ci sono attimi d'attesa, ma le mie, sono attese di attimi. Osservo e rifletto ma infine niente vedo ne capisco. Sono la traccia lasciata sulla sabbia di un isola mai conosciuta.
Di solitudine vivo e da essa fuggo precipitandovi.
Prego e piango Ch'io venga aiutato da un Dio che non ripago in alcun modo. La mia fede è il mio volere che assurdamente antepongo alle azioni. Voglio che mia sia dato tutto e subito, senza alcuna complicazione che mi porti a recitare la mia vita e perciò sono costantemente in tensione allorquando mi ritrovo costretto ad essere e ad ottenere. Quanta ilare contraddizione nelle mie parole e quanta vanità nei miei proponimenti. Forse nel silenzio troverò risposta. Forse il silenzio, invisibile e caldo, sarà la mia risposta.   

Amore d'argilla
Su di un altare ho posato le mie mani. La superficie calda in una notte fredda e troppe foglie nel vento e per strada. L'invito ad entrare fu un invito a restare e le porte si aprirono come braccia davanti alle mie paure. Restai immobile, vittima di una invisibile richiesta, forse inconsapevole di ciò che stava avvenendo e di ciò che forse, nella mente e nello spirito, era già avvenuto. Forse consapevole di ciò che mi ha portato - entrando - a non sapere poi cosa sarei stato e cosa avrei pensato, uscendo. L'aria penetrava attraverso la mia bocca e pesante s'infilava lungo la laringe e poi nei bronchi. Infine un tuffo nei polmoni. Una caduta quasi soffocata. Un respiro malinconico. Non era però la tristezza ad attraversare, bocca, laringe, bronchi e polmoni. Non si trattava nemmeno di amarezza o delusione. Era solo un lento crearsi e un ancor più lento disperdersi. Senza un solo pensiero. Non una cicatrice.
Le porte seguendo il mio respiro si chiusero ed il suono che ne nacque fu il suono che poi ne morì. I battenti tacquero nel loro lento disperdersi. E allora fui completamente avvolto, abbracciato. Divenni come amore d'argilla. Figlio delle mura che in quel momento mi davano alloggio e sguardo. Sentivo d'essere protetto e volevo a tutti costi proteggere questo mio sentire. Allora chiusi gli occhi. Cominciai a dare luce alle stanze buie che incontravo e il bagliore e lo stupore mi portò a lacrimare. Le lacrime calde sul mio viso freddo e troppe foglie nel vento e per strada. Sentii infrangersi quelle piccole anime salate sul pavimento. Un suono leggero e nuovo. Asciugai le tracce della mia fragilità e continuai ad aprire le porte e le finestre che incontravo nel mio vagare ad occhi chiusi. Ancora stupore. Ancora suoni leggeri. Splendido. Passarono diversi momenti, difficile dire quanto. Sentivo il vento gridare fuori dalla porta. Urlava e violentava le foglie che aveva in precedenza rapito. Ma l'aria al di qua della porta era calma e tiepida, silenziosa e sognante. Non vi era paura alcuna. Non più. Ma in fondo, più in fondo alla stanza vidi una vecchia chinata in preghiera. Le sue mani giunte. Le sue bianche e magre mani come a cercar di trattenere il sapiente e utile rosario. Sapiente e utile mezzo. Fui trascinato da quella visione e attraversai la navata scavalcando quei suoni leggeri e nuovi che - per via di quelle mani giunte - non sentivo ne ricordavo più. Mi avvicinai fino a che le fui accanto. Non un'occhiata da parte di quelle mani. La guardai ancora e poi, senza decidere, mi sedetti. Le gambe si piegarono, e le forze si spensero nel loro lento disperdersi. Feci finta di pregare anch'io ma mi accorsi ben presto che quella vicinanza era ingiustificabile. La mia gamba sinistra sfiorava il suo fianco, su quelle panche vuote e fredde. E fuori ancora vento. Ancora foglie. Diedi un colpo di tosse affinché la donna mi vedesse, mi sentisse. Ma nulla. Le mani restavano immobili e unite. A quel punto mi inginocchiai. Chinato il capo ella s'alzo ed io rimasi solo e senza parole. Poi decisi di pregare. Non sapevo come si facesse per cui cominciai ad elencare. Padre Nostro. Vorrei non essere costretto a chiederti aiuto. Padre Nostro. Sono qui per un errore. Padre nostro. Pensavo di doverti chiedere qualcosa. Padre nostro. Non ricordo. C'era una vecchia seduta al mio fianco. Ho tentato di dirle qualcosa ma lei non mi vedeva. Non mi sentiva. Vedeva e sentiva solo Te. Per un attimo ho pensato di non piacerle. Ma non l'avevo mai vista quindi perché fuggire? Tra le foglie e nel vento si è gettata.
Tra quelle braccia fredde, quell'animo caldo s'è gettato. Perché?
Padre Nostro. Ho solo domande da porti. Perché? Ho solo richieste da farti. Perché? Guarda queste mani. Sono giovani e bencurate, ma non hanno la forza per stringersi e pregare come le bianche e magre mani che ho visto. Nemmeno hanno il coraggio di disgiungersi. Padre nostro. Osserva queste mani che io ora ti offro. Osserva questo fragile, ma ritrovato uomo. Nell'animo tuo cerca di ascoltare i suoni leggeri e nuovi dei tuoi figli. E non servono risposte. Non servono aiuti. Solo mani giunte e foglie.   

La lama
Le parole faticano a levarsi ed il fremito che si coglieva e pareva così evidente e poetico, in passato, ora, nell’oblio del tempo sta sfumando ridente. Ormai, degli anni delle frivolezze e della speranza illusoria, sono rimasti solo i ricordi. È trascorso l’attimo del desiderio e nel cuore si avvia al termine l’attesa. Dalle ferite non più sangue sgorga di notte. Dagli occhi non più lacrime cadono coprendo le gote. I sogni sono svaniti al calar delle stelle e la vita a suo tempo svanirà con essi. E allora non più dolore o trepidazione e nemmeno più delusione e amore. Non più speranza e perdita. Solo la notte a vegliare sul corpo, solo il silenzio a gridare il suo volere. Nessun pensiero più graverà sull’azione, e nessun azione, poi, porterà con sé pensiero alcuno. Perché mai più potrà esserci azione né pensiero. Solo sonno e riposo. Solo ricordo e morte. Le mani nulla cercheranno d’afferrare e l’aria darà tregua al timore d’esser rapita, sventrata e abbandonata morente. Il cuore diverrà un monumento ai caduti, in esso e per esso molti o pochi piangeranno il ritorno alla vita. Ma lui, il cuore, statua ossidata dal sorriso arcaico, non vedrà né sentirà il richiamo dei molti o dei pochi che né grideranno il ritorno. Non ci saranno note né nostalgia. Non più battito né perdita. Gli occhi che tanto hanno potuto e desiderato si coprono del grigiore del cielo e le palpebre, ora riposano deboli. E poi ancora silenzio e poi solo l’eterno silenzio. Pensare che la vita non fu poi così diversa. Il silenzio era lo stesso ma era difficile comprendere in mezzo a tutto quel mormorare. Il cuore sì, batteva e sognava e piangeva ma di notte le palpebre stanche, le mani vuote, il respiro lento e gli occhi spenti precludevano nel loro mutare l’inevitabile. Ciò che mai avrei pensato e che la cessazione fosse così rapida e a-selettiva così affilata e ceca, così fredda e impaziente. Se potessi ora anche solo pensare o provare emozioni, direi che rimpiango d’essermi arreso, di aver ceduto il passo al silenzio. Direi e griderei tutto il mio dolore, cercherei anche inutilmente d’essere ascoltato e, nel caso in cui trovassi sguardo nella mente e nel cuore di molti o di pochi, ringrazierei me stesso per non essermi chinato all’inevitabile e loro perché senza saperlo hanno impedito ch’io fossi per la vita mia il boia saccente. Se solo potessi ritornare a ridere o a piangere, riderei per i lieti e magici momenti di gioia e piangerei per quegli insostenibili attimi di tristezza. Ritornerei a sognare se solo potessi. Continuerei ad amare e a sperare se solo non avessi già scelto. La lama era affilata ed io, al tempo in cui passai il limite, non sapevo. Nessuno prima me lo poté descrivere perché qui, nel silenzio, non c’è spazio per la parola, figuriamoci per i moniti. E da allora l’unica melodia che sento, graziosa come una ninna nanna materna ma veritiera e agghiacciante come un vociare demoniaco, è SE. Cosa mai voglia dire io non so, cosa possa in sé significare io non intuisco, poiché, da quando ho passato il limite – ripeto – nulla più mi affligge, non un solo attimo di paura né tristezza, amore o gioia. Allora cosa SE? Quale la natura di questo assurdo e continuo sillabare? Quali i riferimenti al mio precedente stato? A chi chiedere? Forse al silenzio. Ma perché sapere? Qui nulla è più indispensabile né possibile.


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