Estate 1983
Erano quasi vent’anni che Gaetano non tornava più a Catania, e forse ne
sarebbero passati altrettanti, se non fosse stato per risolvere alcune
grane per un’eredità di un’immobile che non era riuscito a risolvere,
nonostante avesse incaricato un legale. Il comandante dell’aereo, con una
voce gracchiante prima in inglese, poi in tedesco ed in fine un italiano
ancora più incomprensibile delle prime due lingue sconosciute, aveva
annunciato che stava iniziando l’avvicinamento all’aeroporto Fontanarossa
di Catania. Gaetano quasi istintivamente allungo la testa verso il
finestrino per cercare di scorge il suolo, ma ancora erano troppo in alto
e si vedeva solo il bianco delle nuvole. Ma quello che cercava di vedere
Gaetano, se lo portava dentro e nonostante continuasse fissare il bianco
delle nuvole, riusciva a vedere l’azzurro del mare, la sabbia dorata e i
due enormi fanali che capeggiavano al lido CLED. Lo stabilimento balneare
sul lungo mare di Catania, dove aveva passato i momenti più belli che
riuscisse a ricordare, non tanto per la bellezza di quei momenti in se ma
forse, perché all’epoca, non aveva ancora compiuto i vent’anni, non aveva
ancora prestato servizio militare, (perché ancora nell’83 era obbligatorio
il servizio di leva.) e naturalmente, ogni problema in quegl’anni, veniva
rimandato a dopo il servizio di leva la cosiddetta Naja. Quello
stabilimento era particolare già dal nome infatti “CLED” erano le iniziali
dei figli del proprietario un avvocato del foro di Catania,un tipo al
quanto bizzarro ma non una cattiva persona. Ma la cosa che rendeva
veramente speciale quegli anni arano gli amici: c’era Orazio, senza ombra
di dubbio il classico amico del cuore. Abitava nell’appartamento sopra
quello di Gaetano, praticamente se non si può dire che erano nati assieme
senza ombra di dubbio quei due erano cresciuti insieme. Poi c’era
Maurizio, lui abitava in una via vicina, una strada senza sbocco dove le
automobili che transitavano erano solo quelle dei residenti e
naturalmente, tutti i ragazzini della zona si erano appropriati di quella
via facendola diventare il loro campo da calcio personale.
Gaetano, fu ridestato da quei pensieri dallo gracchiare dell’altoparlante
sopra il sedile che, annunciava di allacciare le cinture di sicurezza e di
chiudere i il tavolinetto situato nella poltrona del passeggero anteriore.
Quest’ultima indicazione, non destò nessuna preoccupazione anche perche a
causa di un incidente in moto occorsogli anni prima, era rimasto con la
gamba destra totalmente anchilosata in estensione e a causa di questo, a
bordo dell’aeromobile occupava il primo posto quindi non aveva nessuna
poltrona davanti.
Non passò molto tempo che la discesa iniziò a farsi sentire anche nello
stomaco di Gaetano, per ovviare a quel lieve senso di fastidio che la
discesa gli procurava, volse lo sguardo fuori dal finestrino. Le nubi
bianche cominciavano a diradarsi per lasciare il posto alla vetta
imbiancata dell’Etna. Nonostante fosse già luglio inoltrato, la neve
occupava insolitamente un ampio costone del vulcano. Man mano che si
scendeva si intravedeva la bianca spuma delle onde del mare infrangersi
sulla bionda rena ed eccoli lì, come due carabinieri di guardia alla
caserma i due fari del lido CLED. L’atterraggio era imminente ma mentre la
pancia dell’aeromobile di apprestava a sorvolare la spiaggia, nella mente
di Gaetano il tempo iniziava a tornare repentinamente indietro per
fermarsi all’83. Gaetano, ormai con i suoi pensieri non era più su
quell’aereo ma a cavalcioni del sedile posteriore di una vespa 50 special
comunemente chiamato vespino. Il vespino del suo inseparabile amico
Orazio. Era una domenica ed entrambi non lavoravano; come al solito Orazio
era andato a svegliare Gaetano che non riusciva mai ad essere puntuale
nonostante i vari richiami di sua madre che lo riprendeva spesso per la
sua scarsa propensione alla puntualità. Orazio era ormai abituato ai
puntuali ritardi e non ci faceva più caso. Poco dopo, con Orazio alla
guida e Gaetano sul sellino posteriore si trovarono a zigzagare tra gli
automobilisti in coda che istericamente strombazzavano tra il sudore e le
imprecazione lungo il viale Kennedy, il viale del lungomare di Catania
dove si trovavano i vari stabilimenti balneari e tra questi il famoso lido
CLED. Solitamente, all’interno del parcheggio del lido i due ragazzi
trovavano l’avvocato (il proprietario del lido) che controllava, come se
questi fosse preoccupato perché ancora non fossero arrivati. Ma la cosa
che rese particolare quell’anno, fu il torneo di “tamburelli” una specie
di “beach volley” con i tamburelli. Gaetano non era per nulla bravo a
giocare con i tamburelli, come d'altronde non lo era neppure a calcio;
infatti quando si organizzava qualche partita in strada, veniva
puntualmente schiaffato in porta, non perché fosse un bravo portiere ma
perché quello era l’unico ruolo dove poteva apportare meno danni, almeno
sino a quando un avversario non riusciva a fare un tiro nella porta dove
era stato piazzato Gaetano e puntualmente faceva goal.
Gaetano, consapevole di non essere un campione e anche in virtù del fatto
che si trattava di un doppio misto, si iscrisse al torneo con una ragazza
molto carina, ma come gioco faceva apparire Gaetano un gran campione di
Tamburelli. Tra i mille difetti di Gaetano un pregio glielo riconoscevano
tutti: lo spirito. Naturalmente arrivò ultimo al torneo ma sapendo di non
avere speranze, ogni partita era un continuo spettacolo comico inscenato
dalla sua consapevole goffaggine e dalla tecnica di gioco non del tutto
impeccabile.
Dopo qualche partita si sparse la voce e negli incontri successivi, quando
giocava Gaetano vi era un folto pubblico con tifo da stadio e con relativi
striscioni. Alla fine del torneo, gli venne assegnata la “targa simpatia”
per lo spettacolo cabarettistico che inscenava ad ogni incontro. Talvolta
effettuando il servizio prima che l’arbitro fischiasse o esultando ad un
punto subito come se fosse stato lui a segnarlo, suscitando l’ilarità del
folto pubblico presente per l’occasione. Naturalmente, per la consegna
della targa influì moltissimo la pressione sugli organizzatori dell’amico
Orazio.
Continuarono quella serata a bordo della vespa di Orazio prima in piazza
Umberto davanti ai chioschi brindando con un dissetante bicchiere si selz
limone e sale per poi finire la serata viaggiando per la città senza meta,
sopra la mitica ed indimenticabile vespa50 special.
Uno scossone fece sobbalzare Gaetano ridestandolo dai suoi pensieri, il
comandante dell’aeromobile informava i passeggeri che erano atterrati a
Catania in perfetto orario, che la temperatura esterna era di circa
ventotto gradi centigradi ed augurava una Buona permanenza.
Gaetano appena messo i piedi a terra per un istante si guardò in giro
sperando di scorgere Orazio con la sua vespa 50 special, poi tornò alla
realtà chiamò un taxi e si diresse verso il suo albergo.
Viva lo sballo
-Gloria, hai trovato le pasticche?- dice Marco. E’ a bordo della sua BMW
in compagnia di due suoi amici.
-Cosa cazzo ci servono le pasticche?- replica la ragazza, ferma sul
marciapiede.
-Ma sei proprio fusa… Mi vuoi far credere che vuoi entrare in discoteca
senza impasticcarti? Ah, capisco, hai tirato prima di uscire di casa.
Eppure, non si direbbe dagli occhi.
-Marco, guarda che non ho toccato né coca né pasticche e non ho
intenzione di farlo.
-Seee, seeee… Dai, monta in macchina- dice Marco guardandola con
sospetto.
-Ma non possiamo fare a meno di quella merda?
-Sentite questa stronza: la chiama merda. Ma chi cazzo ti ha messo queste
stronzate nella testa?- Dicono i tre ragazzi, quasi in coro.
-Ieri, mi sono sentita male e non ho intenzione di prendere più quella
merda. Anzi, me ne torno a casa e fatti fottere tu e tuoi amici.
Gloria si allontana senza salutare.
I due amici, seduti nei sedili posteriori, scendono dalla macchina,
sbattendo violentemente le portiere.
-Lasciala perdere quella stronza, che vada a fare in culo.
-Avete ragione. – Si sporge dal finestrino e le urla:- VAFFANCULO!
Gloria, già lontana, non risponde.
- Andate da Mustafà che ha la roba buona, che stasera ci sconvolgiamo
alla grande. Chi ci ammazza a noi? – dice Marco.
-Si, hai ragione Chi ci ammazza?- E ridendo, i due ragazzi si
allontanarono a piedi.
Erano le cinque del mattino e Gloria non riusciva a prendere sonno.
Accese la TV. Al telegiornale locale stavano dando una notizia: una BMV
con a bordo tre ragazzi e una ragazza, era uscita fuori strada al rientro
dalla discoteca. La giornalista continuò dicendo che i ragazzi, al
momento dell’incidente, erano sotto l’effetto di alcol e droghe. Subito
dopo, passarono le loro foto.
Gloria urlò:-Cosa cazzo dice quella stronza! Io, sono rimasta a casa, non
sono andata in discoteca con quei tre sfigati.- E mentre pronunciava
quelle parole, la sua stanza cominciò a diventare estranea. Non
riconosceva più i mobili, le pareti rosse e gialle, il poster degli U2.
Tutto era di un bianco accecante. La TV, era diventata un monitor su cui
c’era l’animazione irregolare di un elettrocardiogramma. Gloria aveva gli
occhi chiusi.
Dopo qualche istante, i suoni si stabilizzarono in un unico fischio
continuo, interrotto solo dal trambusto di medici e infermieri e dal
pianto di sua madre.
Voglio scusarmi: innanzitutto per il turpiloquio
presente in alcune fasi del racconto (che non è mio solito adoperare), ma
credo, che la situazione del racconto lo richieda.
I personaggi del racconto, sono pura opera della fantasia dell'autore ed
ogni riferimento a persone, luoghi o fatti realmente accaduti è da
ritenersi puramente casuale
3 Maggio 2005
l’inferno
(I parte)
Lucifero, con il suo tridente, pizzicava le persone in fila appena
arrivate alle porte dell’inferno, proferendogli gli improperi più
impronunciabili.
Quelle persone, a mani giunte lo pregavano chiedendo clemenza, cosa che
faceva ulteriormente imbestialire il demone.
Gaetano era in fila, ma a differenza di quella moltitudine di persone, non
implorava anzi, attendeva con mesta pazienza il suo destino. Cosa al
quanto strana perché, anche se in vita non era stato un santo, non poteva
essere considerato una persona cattiva, meritevole di quel destino.
Nonostante questo, Gaetano, (stupito per la presenza di Lucifero su quel
pulpito, che di diritto, secondo la versione Dantesca doveva essere di
“Minosse”), attendeva impassibile, ascoltando e guardando con distacco
l’interrogatorio al quale il demone sottoponeva quelle persone,
sicuramente ree di chissà quali nefandezze.
La sentenza che seguiva l’interrogatorio, era sempre di condanna ai
supplizi più disparati e alle più bizzarre crudeltà.
-Neghi di aver ucciso persone innocenti?- Lucifero urlava alla volta di un
uomo grasso, con il volto sformato dalla paura, livido per tutte le
punture di insetti e per le copiose dosi di bastonate ricevute nel lungo
tragitto sino a quella porta.
L’alito pestilenziale del demone, arriva sino alle ultime persone,
rendendo l’aria irrespirabile, come se in quella condizione respirare
contasse ancora qualcosa.
-No! Non ho mai ucciso nessuna persona in vita mia, lo giuro.- Replicava
quell’essere ormai informe, privo di ogni sembianza umana.
-Neghi di essere stato un politico? Il demone dal suo pulpito infuocato lo
incalzava
-No non lo nego!
-Neghi di esserti impossessato del danaro che gestivi per il pubblico e,
con questo esserti costruito ville e vari agi arricchendoti?
-No! Non lo nego, ma non ho mai ucciso nessuno.- Replicò, quasi sentendosi
sollevato, sia per la confessione, sia perché credeva di potere scampare a
quel perpetuo destino.
-Guarda,- impose il demone.
-Vedi, quelle persone?- E, sotto i suoi piedi, si aprì come una parete
trasparente che lasciava intravedere la scena di un incidente con due
persone riverse a terra, rispettivamente in una pozza di sangue.
-E cosa centro io?- Replicò l’uomo alzando la voce. E, subito venne
colpito da una scarica di bastonate, da parte dei demoni che gli stavano
intorno.
-Cosa centri tu?- Ricominciò Lucifero ancora più adirato di prima, facendo
uscire fumate sulfuree dalle sue larghe nari dal viso di capro.
-Il danaro che ti sei intascato, era destinato a mezzi sanitari per la tua
città, senza quei mezzi, quelle persone moriranno e tu ne sei l’artefice.-
L’uomo a quelle parole impallidì, allora Lucifero continuò:
-Che sia gettato nella fosse delle vespe.
-Al ché l’uomo urlo e svanì fra le fiamme.
Quanto fu giunto il turno di Gaetano, il demone lo guardò negli occhi e
inespressivo, senza pronunciare alcunché, strinse il tridente nella pelosa
mano destra, facendo stridere al contatto le lunghe e acuminate unghie, e
con forza, glielo conficcò nella gamba destra.
Gaetano, urlò per il dolore e poi svenne.
Quando Gaetano riaprì gli occhi, si ritrovò riverso sull’asfalto con un
forte dolore al braccio destro, tentò di alzarsi ma non vi riuscì, si
guardò la gamba destra e vide che sui Jeans all’altezza del ginocchio, vi
era qualcosa di un bianco accecante, allungò la mano cercando di toglierlo
ma appena l’afferrò, un dolore lancinante che mai aveva provato prima gli
pervase la gamba per poi diffondersi in tutto il corpo. Quel qualcosa di
bianco, altro non era che il suo ginocchio uscitogli dalla gamba.
Allora, tutto gli fu chiaro, si ricordò di qualche istante prima sulla
moto del suo amico Massimiliano, poi un pullman e il tremendo impatto.
Sotto la sua gamba, si allargava copiosa una chiazza di sangue, il suo
amico Massimiliano non rispondeva e il freddo iniziava ad insinuarsi nel
suo corpo.
Giunse un’autoambulanza, gli infermieri gli misero velocemente un telo
argentato sopra per ripararlo dal freddo, ma non lo caricarono a bordo,
dicendo che: al momento era disponibile solo un’autoambulanza ed il suo
amico riverso a terra poco distante era più grave di lui.
Allora Gaetano chiuse gli occhi e non sentì più dolore…
3 Maggio 2005
L’inferno
(II parte)
…Gaetano, era immobile con il tridente di Lucifero infilzato nella gamba
destra che gli procurava tremendi dolori. Lucifero, lo guardava con
l’espressione adirata, dei suoi occhi verdi e rossi da rettile, senza
pronunciare alcunché.
Gaetano,era stupito, si aspettava il rituale interrogatorio, al quale
aveva assistito per tutti quelli che lo avevano preceduto e con le
successive atroci sentenze.
Quando all’improvviso, il demone, sempre fissandolo con la solita
espressione, esordì dicendo:
-Cosa aspetti? Non è questo il tuo luogo e non è questo il momento, vai
adesso non ho tempo da perdere.-
A quelle parole, senza dire nulla, cercò di sfilarsi il tridente ancora
conficcato nella gamba destra, al ché Lucifero, con un balzo scese dal suo
pulpito e fermandosi davanti a Gaetano, impugnò il manico del forcone e
glielo conficcò ancora più in profondità, facendolo gemere ulteriormente.
Gaetano, continuò ad urlare più forte per il dolore che quei ferri gli
procuravano.
-Ascoltami bene- cominciò il demone, mentre perseverava in quell’atroce
tortura, -Ho detto: che non è né il tuo luogo né il tuo momento, ma questo
mio “regalo”, dovrai portarlo sino a quando non verrà il momento di
toglierlo e, adesso non lo è.
-È quando verrà quel momento?- Replico Gaetano, contorcendo il viso in una
smorfia di dolore, ma non ebbe nessuna risposta.
Gaetano, si allontanò inerpicandosi lungo un sentiero scosceso, seguendo
una fioca luce bianca, con la gamba che ad ogni passo lo faceva sussultare
dal dolore. Appena fu a suo parere abbastanza distante, si fermò
distendendosi supino cercando di sfilarsi quel forcone ma, questo sembrava
ormai fusosi con la carne e le ossa della sua gamba , continuando a dargli
atroci tormenti, facendolo urlare come un ossesso.
Mentre urlava, vide un ombra che gli si avvicinava, la luce prima fioca,
iniziò a diventare sempre più vivida fino a quando riuscì a distinguere
quell’ombra misteriosa.
-Ecco l’antidolorifico- quella voce sussurrò.
Gaetano guardandosi intorno si rese conto che si trovava nel letto della
sala di terapia intensiva, di un ospedale e quell’ombra, altro non era che
l’infermiera.
Guardò subito sotto le lenzuola per vedere se aveva infilzato il forcone
di Lucifero, dato che il dolore a differenza del paesaggio era rimasto
immutato e notò che al posto del forcone, vi era un fissatore esterno
composto da una serie di tondini di ferro che gli trapassavano la gamba da
parte a parte, da appena sotto l’inguine all’inizio della tibia.
Gaetano, appena resosi conto di dove si trovasse, chiese notizie
all’infermiera sulle condizioni del suo amico Massimiliano.
Questa, pur con un muso lungo e con solennità disse che si trovava in coma
farmacologico, ma che le condizioni non destavano particolari
preoccupazioni.
Gaetano, girò la testa sul cuscino e si addormentò con un dubbio, aveva
sognato Lucifero o aveva sognato l’infermiera?
Gaetano, aprì gli occhi e non vide più la pulita sala della terapia
intensiva dell’ospedale, ma soltanto freddi sassi sui quali giaceva supino
e il dolore alla gamba riprese più intenso di prima. Guardò la gamba e il
forcone era ancora al suo posto, mentre cercava di sfilarlo accompagnato
da tremende urla, vide in piedi al suo fianco un canuto signore con la
barba candida, che indossava un bianca tunica. Subito gli chiese di
aiutarlo ma questi con aria solenne gli disse:
-Come posso io aiutarti se tu per primo continui ad infliggerti indicibili
pene? Lascia stare quel forcone che non uscirà mai in quella maniera dalla
tua gamba, uscirà a tempo debito e con i giusti modi.- E come era apparso
l’uomo scomparve, lasciando Gaetano nello sconforto che si abbandonò su
quei e ruvidi freddi sassi.
-E’ l’ora dell’antibiotico.- Quella frase lo svegliò, si guardò attorno e
non riconobbe la stanza di prima, infatti era stato trasferito dalla sala
di terapia intensiva al reparto.
Nonostante si trovasse coricato nel letto, gli sembrava di stare ancora
disteso sui sassi. Il dolore alla gamba, non accennava ad attenuarsi, anzi
aumentava freneticamente; in quello stato trascorse una settimana tra il
torpore degli antidolorifici, alternato ai i tremendi dolori alla gamba.
Ogni qualvolta tentava di toccare il fissatore, i dolori continuavano in
maniera feroce e, non poteva fare a meno di pensare alle parole che aveva
udito da quel canuto signore durante quello strano sogno. Gaetano, non
sapeva bene se ad impersonare quell’arcana creatura della sua fantasia
fosse Catone in Purgatorio o Dio in Paradiso.
Finalmente, alla fine della seconda settimana, si trovò a fianco il suo
compagno di sventura, visibilmente provato, con un collare per la frattura
delle vertebre del collo, un gesso al braccio destro e una fasciatura alla
gamba destra che andava da sotto il ginocchio sino alla tibia il tutto
tenuto fermo da un fissatore esterno simile al suo .
Il trauma più grande, Gaetano lo ebbe la mattina successiva, quando i
medici per la rituale medicazione, liberarono dalle fasce la gamba di
Massimiliano e, riuscì a vedere lo squarcio nella carne che lasciava
scoperti sia la tibia che il perone; ed un altro medico con un bisturi
asportava pezzi di carne e di osso, che non essendo vascolarizzati, (dato
che nell’incidente si era recisa una vena e i chirurghi l’avevano
repentinamente chiusa.)
Ma, le spiacevoli sorprese, non erano ancora finite, difatti la settimana
successiva, dopo le rituali medicazioni, i medici con estrema solennità,
comunicarono a Massimiliano che avrebbero dovuto amputargli la gamba.
Amputare le gamba ad un ragazzo non ancora trentenne, uno sportivo, che
passava parte del tempo libero tra palestre e campi di pallavolo, il
classico ragazzo sempre ben curato il “figo” della situazione per
intendersi. Dovevano amputargli la gamba, Gaetano non riusciva a pensare
ad altro, ma non voleva neppure guardare quel suo amico disteso immobile
con lo sguardo vitreo e fisso sul soffitto, aveva paura di scrutargli
dentro l’anima, nei suoi pensieri.
Dovevano amputargli la gamba, quale atroce tortura, pensò subito al sogno
e, rivedeva Lucifero che dava atroci torture ed il canuto signore che
dispensava parole di conforto.
-Massimiliano ascoltami- cominciò Gaetano,
-sono sicuro che troveremo la giusta soluzione- ma Massimiliano rassegnato
non rispondeva.
Passarono ancora alcuni giorni, fino a quando arrivò la notizia che un
chirurgo di un istituto ortopedico di Bologna, dopo averlo visitato era
disposto a dargli una flebile speranza e che avrebbe tentato di salvargli
la gamba.
Successivamente, arrivò la notizia che anche Gaetano sarebbe stato accolto
nello stesso istituto.
Gaetano si addormentò e rivide il canuto signore che sorridendogli gli
sfilò il forcone dalla gamba.
Le scale o l’ascensore
Il sole era ancora alto nel cielo e l’afa di luglio era insopportabile, il
vento che veniva dal mare, portava solo il caldo e la sabbia del deserto
Africano che dalla Sicilia, non è poi così lontano. Giovanni, impiegato
alle poste del paese, seduto sulla sedia a rotelle, che ormai da cinque
anni era la sua perpetua tortura, stava rientrando a casa, grondate di
sudore sia per l’afa sia per la calura, ma soprattutto, per il continuo
saliscendi dai marciapiedi, a causa della mancanza di rampe per i disabili
e ad ogni saliscendi, lanciava maledizioni nuove all’assessore comunale
che avrebbe dovuto farle installare, il quale, abitava nel suo stesso
palazzo.
Finalmente, dopo circa un’ ora di maledizioni, arrivato all’ingresso del
palazzo, si avvia verso l’ascensore, che naturalmente funzionava a
singhiozzo, come la maggior parte dei servizi di quel paese e, quel
giorno, il singhiozzo era perpetuo, con l’odiosa scritta sulla porta
metallica arrugginita: “FUORI SERVIZIO” .
Armatosi di pazienza, dopo le imprecazioni di rito e le maledizioni
all’assessore che, fra l’altro era anche l’amministratore condominiale
dello stabile, Giovanni, bussò alla porta di Salvatore, suo amico e
condomino al piano terra, il quale ogni volta che l’ascensore non
funzionava, cosa che accadeva spesso, armandosi di pazienza ed imprecando
anch’esso contro l’amministratore, lo accompagnava al terzo piano dove
risiedeva.
-Grazie mille Salvatore, entra ti offro qualcosa di fresco- disse Giovanni
mentre infilava la chiave nella toppa.
-Ti ringrazio, ma vado al piano di sopra da quel gran cornuto
dell’amministratore a cantargliene quattro- disse Salvatore.
-Ciao Salvatore e salutami sua moglie- disse con un ghigno sarcastico,
ghigno subito ricambiato da Salvatore.
L’amministratore, cornuto lo era sul serio ed anche tirchio, per quel
motivo la moglie si era trovata vari amanti.
L’essere cornuto, dato che ne era al corrente, in caso contrario sarebbe
stato l’unico nel paese a non esserlo, gli stava bene, perché risparmiava
denaro e fatica.
Dopo circa un’ ora che Giovanni era in casa, sentì suonare il campanello
della porta con ripetuta insistenza.
Andando ad aprire la porta, comparve Salvatore al quanto scosso e con la
fronte imperlata di sudore.
-Entra Salvatore, cosa è successo?-
- Giovanni, l’amministratore ha avuto un incidente la settimana scorsa ed
ha perso l’uso delle gambe, oggi, tornerà a casa. -
- Ecco perché sono giorni che non si fa vedere- replicò Giovanni.
Mentre i due commentavano sconvolti la notizia, si sentì la sirena
dell’autoambulanza che accompagnava l’amministratore a casa.
Affacciatisi sul pianerottolo, videro l’amministratore seduto sopra la
sedia a rotelle portato a braccia dagli infermieri, che imprecavano contro
l’amministratore (ignari di chi fosse l’amministratore di quel palazzo).
Appena giunto a poca distanza dai due che lo guardavano con stupore,
l’amministratore, come colto da improvvisa furia iniziò a gridare contro
Giovanni:
-Sarai contento adesso, che sono storpio come te?-
Giovanni, anche se risentito non volle rispondere, ed insieme a Salvatore,
rientrò in casa.
Qualche giorno dopo, tramite l’interessamento dell’amministratore che era
anche assessore al comune, nel palazzo, iniziarono i lavori di
ristrutturazione dell’ascensore, con l’adeguamento per le sedie a rotelle,
a spese del comune, cosa al quanto insolita per uno stabile privato..
Sia Giovanni che Salvatore, anche se contenti per i lavori che,
procedevano con una celerità fuori dalla norma, si domandavano perché non
erano stati cambiati i cavi d’acciaio che avevano più di cinquant’anni e,
piuttosto che un adeguamento, il comune non aveva provveduto ad un nuovo
ascensore?
Ultimati i lavori nel giro di pochi giorni, l’ascensore funzionava
regolarmente, anche se con dei rumori sospetti e sinistri, tanto che
spesso Salvatore si offriva volontariamente di accompagnare Giovanni per
le scale, in quanto diffidava dell’ascensore, mentre l’amministratore,
fiero del suo ascensore lo utilizzava come se ne fosse il legittimo
proprietario.
Un giorno, mentre Salvatore si trovava nell’appartamento di Giovanni, ed i
due amici si rinfrescavano la gola con una granita ai gelsi neri, nella
tromba delle scale, si udì un rumore assordante. Salvatore temendo un
terremoto, prese in braccio Giovanni e si precipitò fuori nelle scale, ma
appena fuori, ancora con Giovanni in braccio, vide i cavi spezzati
dell’ascensore, l’ascensore con i vetri rotti, le grate in metallo
arrugginito vicino al vecchio portone d’ingresso e le porte in legno
frantumate in mille schegge sull’atrio.
Corse subito a mettere Giovanni sulla sedia a rotelle e, si precipitò giù
per le scale con un cupo presentimento nel cuore.
Appena al piano terra, vide una chiazza di sangue che usciva da quel che
restava dell’ascensore, che si allargava sempre più.
Nel frattempo, si era radunata una folla di curiosi, accorsi per il forte
boato provocato dall’ascensore impattato al suolo.
Salvatore, spostando legni e lamiere, vide il corpo ormai cadavere
dell’amministratore.
Dopo qualche mese, mentre Salvatore e Giovanni, si gustavano una limonata,
al bar della piazza centrale, dal telegiornale Regionale, giungeva la
notizia che erano stati inquisiti e rinviati a giudizio alcuni assessori
comunali per peculato, corruzione ed altri reati contro la pubblica
amministrazione e conseguente sequestro di beni mobili e immobili.
Senza tanta sorpresa, i due amici, appresero che fra queste brave persone,
vi era anche il nome del loro estinto amministratore di condominio, nonché
assessore al comune.
-Così ladro e tirchio che ha risparmiato sulla propria vita, ecco perché
non aveva fatto cambiare i cavi dell’ascensore, per finire di costruirsi
la villa al mare- disse Giovanni.
-Adesso, chissà se avrà preso l’ascensore per salire al paradiso o
scendere all’inferno?- replicò Salvatore.
-Non saprei, ma quell’ascensore non è mai fuori servizio-
-Hai perfettamente ragione Giovanni.-
-Salvatore, sai cosa penso?
Che il vero dubbio, non è essere o non essere, ma le scale o l’ascensore?
Il viaggio nel tempo
Come ogni giorno, alle 08.00 ero già nello spogliatoio della caserma
carabinieri di Venezia, dove prestavo servizio imbarcato su di una
motovedetta di quel comando con il titolo di nocchiere motorista, ossia
comandante di motovedette. Ormai erano più di quindici anni che per
servizio navigavo lungo i canali di quell’incantevole città, avevo visto
posti che, i turisti che giornalmente con ogni condizione atmosferica
visitano la città, non avrebbero neppure lontanamente potuto immaginare;
avevo visto quella Venezia che puoi vedere solo navigando in quei stretti
canali, osservando quei palazzi che da secoli combattono contro
l’incessante azione degli elementi e contro uno più spietato ed
invincibile avversario. L’incuria degli umani, quegli stolti umani, che
non vogliono guardare al passato, oltraggiando tutto quello che questo
rappresenta, e avevo provato ad immaginare il rigoglioso splendore
dell’epoca della “Serenissima”.
Ero quasi pronto, quando da fuori lo spogliatoio sentii urlare: - Cavallo
pazzo! Cavallo pazzo! - quello era il mio sopranome, che mi era stato dato
dal vecchio comandante, per il fatto che prima di essere trasferito a
Venezia, avevo prestavo servizio in Sardegna e lì avevo imparato a montare
a cavallo; avevo proseguito per qualche tempo anche al lido di Venezia,
ove vi era un maneggio e quel burlone del vecchio comandante un Pugliese
al quanto bizzarro, mi aveva attribuito benevolmente quel soprannome, come
aveva fatto con la maggior parte dei membri del Nucleo Natanti, era quello
il nucleo dal quale dipendevano le motovedette. - Cavallo pazzo! –
continuava la voce, ma questa volta riuscii a distinguere di chi fosse
quella voce, era del mio compagno di turno, Massimiliano, questo era il
suo nome, un ragazzo non ancora trentenne, un Napoletano dal fisico
poderoso ed atletico, fissato per la forma fisica ed il “Body Building”
perennemente abbronzato da sembrare un bagnino di “Baywatch” e molto
villoso da questo il suo soprannome “O scimmione”. - “Scimmione” aspetta
che arrivo!- gli urlai dallo spogliatoio, appena questi fu dentro lo
spogliatoio mi disse che il comandante voleva parlarmi.
Entrato nell’ufficio del comandante, questi con aria al quanto seccata, mi
comunicò che fra una settimana, mi sarei dovuto presentare alla scuola
allievi sottufficiali della Marina Militare all’isola di La Maddalena in
Sardegna, per un corso di aggiornamento della durata di quaranta giorni,
inerente al comando delle motovedette.
Il comandante continua a sbuffare, asserendo che al nucleo erano rimasti
in pochi e non sapeva come rimpiazzarmi.
Sapevo che mentiva spudoratamente, perché lo conoscevo da più di quindici
anni, un ex appuntato diventato maresciallo, che giornalmente doveva fare
i conti con il fatto che tutti quelli che lo conoscevamo da lunga data, lo
consideravano l’appuntato amicone di sempre, anche se tutti, ci
rivolgevamo a lui mostrando il rispetto che meritava il suo grado.
Mentre continuava a parlare, non potei fare a meno di isolarmi dentro ai
miei pensieri, la sua voce cominciò ad affievolirsi sempre più, più
parlava più la sua voce diveniva fioca; sarei tornato in Sardegna, e un
brivido mi percorse la schiena fino al cervello, avrei rivisto quei luoghi
che quasi vent’anni prima, furono la mia destinazione da carabiniere
neopromosso. Sarebbe stato come avventurarmi in un “viaggio nel tempo”,
sarei tornato indietro di vent’anni. Anche se la mia prima destinazione e
dove avevo passato i mie primi cinque anni di carriera prima di approdare
nell’incantevole Venezia, non era stata La Maddalena, ma bensì Santa
Teresa di Gallura, uno stupendo paesino sul mare, che distava pochi
chilometri da La Maddalena, la quale conoscevo, solo perché quindici anni
prima vi avevo fatto il corso per conseguire l’abilitazione al comando di
motovedette. Anche per La Maddalena sarebbe stato un breve “viaggio nel
tempo”, ma il vero “viaggio nel tempo” sarebbe stato quello a Santa Teresa
di Gallura, ove avevo vissuto per cinque anni. Mentre fantasticavo questi
pensieri, con la mente correvo al giorno che al primo riposo settimanale,
avrei potuto effettuare il vero “viaggio nel tempo”. – Cavallo pazzo!
Cavallo pazzo!- il maresciallo urlava e quasi ridestandomi dal torpore
dissi - cosa?-
-stai ancora dormendo? Sono quasi le 08,30- disse il maresciallo con
un’accentuata vena di sarcasmo - nulla- risposi - stavo solo pensando come
organizzare il viaggio-
Abbandonai l’ufficio e ripresi il regolare servizio, ma per tutta la
settimana, quel pensiero non mi abbandonò, organizzai con meticolosa
precisione il viaggio dal biglietto aereo all’albergo dove sarei
alloggiato, non trascurando il fatto che dopo pochi giorni mi avrebbe
raggiunto mia moglie, una ragazza Veneziana con la quale ero sposato da
due anni e che non avrei lasciato sola per tutti quei quaranta giorni.
Perché, se mi eccitava il pensiero del mio passato, non avrei trascurato
per nulla al mondo quello che era il mio futuro, la mia dolce moglie.
Quel giorno, il sole splendeva in un cielo privo di nuvole; all’aeroporto
di Venezia Tessera ero pronto con il mio bagaglio a mano e dopo tutte le
perquisizioni di rito al metal-detector, che ormai dopo l’11 settembre
2001, erano più accurate di una risonanza magnetica, salutai mia moglie,
sapendo, che anche se la mia eccitazione per quel viaggio era palpabile,
mi sarebbe mancata prima di quanto io mi aspettassi.
Dopo aver sorvolato la laguna veneta e il tratto di mare che separava la
Sardegna dal resto d’Italia, il “continente”, come veniva chiamata da ogni
persona originaria di quell’isola, appena il comandante dell’aereo,
annunciò che stavamo iniziando la discesa verso terra, informandoci come
di rito delle buone condizioni atmosferiche; dal mio finestrino diradatesi
le nubi, si incominciava ad intravedere la costa smeralda, il golfo degli
aranci e la città Olbia. A quella visione, ebbi un fremito perché da
quella altitudine era tutto come vent’anni prima, anche se mi pareva
insolito che in tutti quegli anni la devastatrice mano dell’uomo non aveva
costruito obbrobriose ville su quelle coste. Non appena atterrato, ed aver
recuperato i bagagli, quell’incanto immediatamente si ruppe, nulla era
come l’avevo lasciato, ma in un primo momento non me ne curai, perche
avevo fretta di raggiungere il pullman, che mi avrebbe portato a Palau,
quello era il nome del paese, da dove partivano i ferryboat per La
Maddalena, e se avessi fatto presto, facendo qualche telefonata, sarei
potuto andare a Santa Teresa di Gallura quello stesso giorno. Aspettative
però disattese, perché il pullman partì con notevole ritardo, ma
nonostante ciò, durante il tragitto da Olbia a Palau, mi gustai il
panorama di quella natura selvaggia, con le sue granitiche rocce e i suoi
alberi misteriosamente cresciuti su di esse, con il tronco piegato per il
forte vento che in modo innaturale aveva continuato a fiorire per l’arco
dei secoli; ricordandomi tutte le volte che in cinque anni, avevo percorso
quella strada, ogni volta che andavo o tornavo dalla licenza.
Appena arrivato a destinazione, dopo un viaggio in ferryboat non del tutto
confortevole, abbandonai del tutto l’idea di poter recarmi a Santa Teresa
di Gallura, in quanto per il disbrigo delle pratiche alla scuola allievi,
ci volle più di quanto mi sarei aspettato.
Poco male pensai, che diamine, avevo d’avanti quaranta giorni, sarei
andato con il primo riposo.
L’indomani, tutto agghindato nella mia divisa ordinaria, che non indossavo
da tempo, perché da quando avevo preso a far parte del servizio navale
dell’arma, avevo usato quella di navigazione. Mi avviai alla scuola
sottufficiali, dentro l’aula, mentre mi presentavo ai colleghi compagni di
corso, guardando attraverso le finestre, notai gli allievi che marciavano
e facevano le loro esercitazioni, ed ebbi subito una strana sensazione,
che quei ragazzi fossero troppo giovani per essere dei marinai che
imbracciavano un’arma, ma poi vedendo nello stesso vetro la mia immagine
riflessa, con cupo stupore mi persuasi che non erano loro ad essere troppo
giovani e fuori luogo, ma ero io ad essere troppo vecchio per i banchi di
scuola. Cercai di abbandonare quanto prima quel pensiero, concentrandomi
sul giorno di riposo.
Fui destato dall’entrata di un attempato ufficiale della Marina Militare,
il quale ci ragguagliò dell’importanza di quel corso esortandoci al
massimo impegno, anche se l’ufficiale, aveva pronunciato quelle parole con
poca convinzione, sapendo in cuor suo che le sue esortazioni non sarebbero
state da noi recepite.
Finite le lezioni, quella sera, decisi di rimanere nell’isola, perché
volevo ritornare in un bar che facevano dei panini farciti con pancetta
che erano una vera delizia, ed inoltre ero ansioso d’incontrare il vecchio
proprietario, con il quale quindici anni prima avevo passato delle
spensierate e divertenti serate.
Quando giunsi al bar, per poco non passai oltre non riconoscendo né il bar
né il titolare, quel locale che era stato punto di ritrovo per i vecchi
frequentatori del primo corso di specializzazione, era diventato una
bettola buia e maleodorante, il titolare era un signore in evidente
sovrappeso, con una pancia sporgente per i troppi bicchieri di birra e con
una calvizie avanzata. Appena mi avvicinai con una certa riluttanza,
questi dopo un primo ed attento sguardo aprì la bocca in un sorriso che
metteva in mostra i dei denti ingialliti dal fumo e un incisivo di colore
argento, pronunciando il mio nome con tono interrogativo. - Sei tu
Gaetano?- ormai ero in ballo e dovevo ballare - Peppe? - ripetei io, ci
abbracciammo, questi era impregnato dell’olezzo del fumo, dell’alcol e
della tedia; ci raccontammo i vecchi tempi davanti ad un bicchiere di
birra, sorridendo e annuendo entrambi più volte, ma poi la sua espressione
si incupì, quando iniziò a raccontarmi le sue sventure, di come era quasi
sul lastrico a causa del divorzio dalla sua ex moglie e che fra qualche
mese avrebbe dovuto chiudere il bar, per i debiti contratti con banche ed
a usurai, (non riuscendo a fare una distinzione fra gli uni e gli altri).
Io, evitai di raccontare come a me fosse andata meglio, dopo la birra, con
una banale scusa mi alzai e con piacere lasciai quel locale che ormai da
tempo non era più quello che avevo conosciuto. La prima tappa del mio
“viaggio nel tempo”, era stata veramente disastrosa, ma feci di tutto per
non pensarci.
Finalmente arrivò il sabato, e dato che avevamo fatto due rientri
settimanali, avevamo finito le lezioni il venerdì pomeriggio ed avevamo
sia il sabato che la domenica liberi, sino alle 08,00 del lunedì
successivo.
Erano le 07,30, il sole picchiava forte come era solitamente fare nel mese
di marzo in quella regione, feci in fretta il biglietto del ferryboat e
imbarcato, iniziò la navigazione per la volta di Palau, che mi parve molto
più lunga di quando effettivamente non fosse. Durante quel tragitto, anche
se ero molto emozionato ed era una bella giornata di sole, che dava a
quelle acque dei riverberi indescrivibili per la loro bellezza, non
riuscivo a scacciare dalla mente l’incontro con Peppe o con quello che ne
era rimasto, non potendo fare a meno di pensare quale sensazione avessi
provato; se, anche a Santa Teresa di Gallura avessi fatto incontri di quel
tipo, annebbiando quello che doveva essere il mio “viaggio nel tempo”.
Mentre ero immerso mio malgrado in quei tetri pensieri, venni destato dai
salti di alcuni delfini, che gioiosamente guizzavano ai lati del ferryboat
e in quel modo riuscii a scacciare quei pensieri.
Sbarcato a Palau, dovetti aspettare circa un’ora prima che il pullman per
Santa Teresa partisse, durante l’attesa mi recai ad un vicino bar ed
ordinai due bottiglie di birra “Ichnusa” da portare via, una birra in voga
nell’isola, uscii con le bottiglie in mano e fissando il mare iniziai a
sorseggiare quella gelida bevanda, evitando di pensare quale poteva essere
stata la disposizione dei locali vent’anni prima. Finita la birra nel
frattempo era arrivato il mio “pullman del tempo”, salii a bordo e mi
sistemai in un posto vicino al finestrino. Appena in movimento, aprii
l’altra bottiglia ed incominciai a sorseggiarla, provando sollievo per la
frescura che questa mi dava. L’essermi sistemato, vicino al finestrino non
si rivelò una buona idea, perché, ogni volta che guardavo fuori e
riconoscevo un luogo, questo era totalmente diverso, da come l’ho
ricordavo. Quel viaggio, stava prendendo una piega che non avevo previsto
e che non mi piaceva per niente, inoltre, l’immagine e le parole di Peppe
continuavano a martellarmi in testa in maniera incessante, neanche la
birra che avevo quasi finito, mi dava più sollievo. Erano trascorsi quasi
trenta minuti dalla partenza e in lontananza si delineava, quello che
vent’anni prima era stato l’incrocio che conduceva al porto dove vi era un
chiosco che preparava dei frutti di mare in maniera sublime. Poco prima
dell’incrocio, il pullman rallentò e svoltò per il porto; una donna che mi
era seduta accanto, notando la mia sorpresa, mi disse che era da qualche
mese che il pullman faceva una prima sosta al porto, poi andava in paese e
dopo aver fatto una sosta di circa quindici minuti, ripassava per il porto
per poi proseguire per Palau. A quelle parole, ebbi una rivelazione, capii
che se fossi arrivato sino in paese, avrei per sempre rotto la mia
“macchina del tempo”, in un lampo guardai la strada e mi resi conto che
eravamo quasi arrivati alla fermata del porto, l’autista guardava nel
retrovisore interno, per adocchiare se qualche passeggero si era preparato
a scendere, io con un gesto fulmineo gli feci cenno, questo rallentò e
aperta la bussola in tutta fretta scesi. Avevo bisogno di riflettere sul
da farsi. Cosa meglio di un bel piatto di ricci crudi, piatto forte di
Mario il titolare del piccolo chiosco.
Mi girai attorno e non vidi nessun chiosco, anche se in cuor mio l’avevo
immaginato, andai verso le banchine del porto ed il bel panorama che si
vedeva un tempo, guardando in direzione della Corsica, era stato deturpato
da ville sontuose immerse, (per così dire, se di immersione si può
parlare) in quel poco di macchia mediterranea che era rimasta. Tornai
indietro con l’animo sempre più cupo e notai qualcosa che mi era sfuggita
prima, forse volontariamente. Al posto del chiosco di Mario, vi era un bar
dal quale proveniva una forte musica “tecno” e un tanfo di olio fritto
stantio, con un’insegna raffigurante panini farciti con Wurstel e
abbondanti salse variopinte che fuoriuscivano e vari hamburger, corredati
da una foglia di lattuga ed irrorate con le stesse salse del primo, il
tutto in un letto di patatine fritte. Mi resi conto immediatamente, che
quel sogno si stava trasformando in un terribile incubo. Prima Peppe, uno
dei ragazzi più in gamba della vecchia compagnia, ridotto in quella
maniera, poi, il fatto che la gente che veniva a Santa Teresa o ancor
peggio la gente del luogo, preferivano hot “dog ed hamburger” ai deliziosi
frutti di mare del mitico Mario. Ancora immerso in quei pensieri, le mie
nari vennero offese da un forte olezzo inconfondibile, quello classico
delle persone che da tanto tempo non usavano né acqua né sapone, mi girai
ed ebbi la conferma di quanto avevo sospettato, davanti a me, stava quello
che rimaneva di un uomo sulla quarantina, con sguardo spento e con voce
quasi meccanica, mi domandò se avessi qualche spicciolo. Mentre mi frugavo
nelle tasche, notai che questi mi guardò fisso negli occhi e
immediatamente, lo sguardo spento repentinamente si accese in uno sguardo
misto di terrore e vergogna. Facendomi cenno con la mano che non voleva
nulla, in fretta si allontanò. Rimasi inebetito per qualche istante con
una moneta da un euro in mano, ma subito dopo iniziava a delinearsi nella
mia mente, non più quel viso lercio ma un viso da i lineamenti gentili, e
un ragazzo con il quale vent’anni prima avevo trascorso delle belle serate
in compagnia di altri amici. Feci per seguirlo, ma qualcosa nel mio animo
mi fermò. Ormai, avevo capito che la “macchina del tempo” si era rotta e
se fossi andato avanti, avrei spezzato per sempre quei bei ricordi, quelle
grigliate di notte sulla spiaggia con chitarre e falò.
Fermo in mezzo alla strada, vidi la mia immagine riflessa nella vetrina di
quel troppo moderno bar e questa volta più che quando mi vidi riflesso in
aula della scuola allievi, notai che anch’io, non avevo più nulla a che
vedere con quel ventitreenne che vent’anni prima aveva mangiato ricci
crudi al porto ed aveva prestato servizio in quel paese. Il mio agognato
ritorno al passato, mi avrebbe soltanto rubato i miei ricordi. In
lontananza, vidi il pullman che mi aveva portato in quel luogo che stava
ripartendo per la volta di Palau; senza esitare, feci cenno con la mano e
salii. Questa volta, presi posto in maniera tale da non vedere il
paesaggio e per tutta la durata del viaggio non mi voltai, non volevo che
nella mia mente altri ricordi potessero andare perduti.
Ritornai in fretta a La Maddalena, appena sceso dal ferryboat, andai su un
bar, presi una birra ed un tramezzino e mi sedetti su una bitta di
ormeggio al porto, in maniera da poter vedere in lontananza Santa Teresa
di Gallura.
Da quella postazione ritornava ad essere quello che negli anni si era
impresso nella mia mente, addentai il tramezzino, mandai giù un sorso di
birra che ritornò a darmi piacevoli sensazioni e pensai a mia moglie che
fra qualche settimana sarebbe venuta a trovarmi. Avendo la certezza che i
miei ricordi erano salvi e che il mio futuro mi avrebbe riservato
piacevoli emozioni. Presi il cellulare, composi il suo numero e quando
rispose gli dissi “Ti amo”.
(Il presente racconto è opera di pura fantasia.
Ogni riferimento a nomi di persona, luoghi, avvenimenti, siano essi
realmente esistiti od esistenti, è da considerarsi puramente casuale.)
La tomba del partigiano
La calura estiva era diventata insopportabile, la marea si era
notevolmente abbassata, lasciando scoperte le alghe ai bordi degli scalini
che, dalla piazza san Marco conducevano alla laguna e quasi come
innervosita anch’essa, schiaffeggiava con continua flemma le gondole
ormeggiate. L’olezzo stimolato dal caldo sole d’Agosto che,
incessantemente percuoteva quel verde miscuglio di vegetazione marina e
puzzolenti frutti di mare, diventava sempre più insostenibile, anche per i
nasi più avvezzi a quel fetore, che contrastava con le immani bellezze
della città.
Carovane di turisti, condotti come le mandrie di bovini di quei vecchi
film Americani del “far west”, sudati e doloranti a causa del lungo
camminare per le calli della città dell’antica Serenissima Veneta
Repubblica, vociavano nelle lingue più bizzarre, da far sembrare la piazza
san Marco e il suo maestoso campanile, come una moderna “Torre di Babele”.
Ripensavo a qualche giorno prima, fra i tavolini di un bar, dove lavoro
come cameriere, avevo sentito parlare una coppia che diceva di essere
appena tornata da un paese di montagna, “Canale d’Agordo” in provincia di
Belluno, a poche ore di automobile da Venezia. - Carlo - diceva la donna
seduta al tavolo, che aveva tutta l’aria di essere la moglie - perché
siamo tornati così presto, appena una settimana, io non riesco a
sopportare quest’afa. Ti prego, torniamo anche questo fine settimana, sono
meno di tre ore di automobile. - E come una gatta che faceva le fusa, si
avvinghiava alle braccia del marito, da sembrare un esotico pitone, con
negli occhi lo stesso sguardo di quei cagnolini, che da sotto il tavolo
con le zampette anteriori ti chiedono un tozzo di pane. - Vedrò cosa posso
fare Roberta - rispondeva l’uomo, rivolgendosi a quell’animale mitologico
che aveva avvinghiata al braccio, sapendo che quel “vedrò”, si sarebbe
presto tramutato in un “agli ordini”. - Parlerò con il capo ufficio, per
avere altri giorni di ferie per questo fine settimana.- Intervenni nella
loro discussione, anche perché era da qualche minuto che la coppia non si
curava della mia presenza - I vostri “Bellini” signori!- Mi guardarono
entrambi con distacco, la donna quasi infastidita per aver interrotto quei
momenti, ricominciava a riprendere sembianze umane, abbandonando le
fattezze di quel miscuglio di animali e srotolandosi dal braccio del
marito. Posai sul tavolo i loro bellini e lo scontrino, (questa era la
politica del bar) e dopo aver incassato i quindici euro quello era il
prezzo delle loro consumazioni mi allontanai.
Ridestatomi da quel pensiero, mosso quasi da una misteriosa forza, dato
che avevo ottenuto due giorni di permesso, mi imbarcai sul primo vaporetto
per il “Tronchetto” (località dove vi sono i parcheggi per le
autovetture), per andare a prendere la mia auto in garage, per visitare
questo Canale d’Agordo.
Ogni qualvolta ero libero, passavo le giornate a Jesolo lido, una località
balneare poco distante da Venezia, molto popolata da giovani ed in riva al
mare, trovavo sollievo dalla calura. Anzi a dire la verità, la montagna
non mi aveva mai attirato, la trovavo monotona e triste, mentre il mare mi
aveva sempre affascinato; non poteva essere altrimenti dato che sono
Siciliano e saltuariamente avevo lavorato su una barca di pescatori ad Aci
Trezza, una marineria in provincia di Catania, famosa per i suoi
faraglioni, narrati da Omero nell’odissea e per i libri di Giovanni Verga,
fra cui il più famoso è: “I Malavoglia”.
Ma quel giorno, ero come attratto da una strana forza e dalla curiosità.
Dopo aver viaggiato per circa tre ore, giunsi al paesino di Canale d’Agordo;
la coppia non aveva per niente mentito, anche se era una splendida
giornata di sole, si sentiva la frescura nell’aria che mi dava un enorme
sollievo alla mia schiena ormai incollata alla maglietta dopo le tre ore
di guida. Ancora prima del cartello di benvenuto, si notava uno striscione
simile a quelli che si vedono negli stadi che informava che Albino Luciani,
ossia Papa Giovanni Paolo I, era stato un onorevole cittadino di quel
ridente paese e, che fra qualche giorno ci sarebbe stata una messa in suo
onore, celebrata dal Vescovo di Belluno. Più mi inoltravo in quel paese e,
più tutto sembrava come incantato, i “Tabià”, (che avrei scoperto in
seguito che così erano chiamati delle caratteristiche costruzioni in
legno, adibiti a fienili e a deposito per la legna, che sarebbe stata
molto utile nei mesi invernali).
Tutt’attorno, ero circondato da verdi boschi di pini e l’odore dell’erba
appena tagliata, inebriava l’aria di un profumo tanto denso da stimolare
piacevolmente i sensi. Era ormai così lontano nella mia mente quell’olezzo
delle alghe della laguna. Continuai a camminare a lento moto con la mia
automobile, quasi senza neanche accorgermene, uscii dal paese, ma il
paesaggio era tanto incantevole che continuai per cercare uno spiazzo, per
potermi fermare e addentrarmi a piedi e diventare parte di quei boschi.
Dopo pochi minuti, quello che vidi superò di molto le mie aspettative. Mi
trovai su uno spiazzo e di fronte come se una potente mano di qualche
mistica divinità avesse spostato gli alberi di quelle montagne, imponente
correva l’acqua di una cascata che si divideva in due, una più in quota e
l’altra più a valle, che rigogliosa diffondeva la sua musica per la valle
scaturita dallo infrangersi dell’acqua sulle rocce della montagna.
Parcheggiai immediatamente l’auto come se fossi in ritardo ad un
importante appuntamento, e cercai un sentiero che mi portasse su quei
boschi. Incominciai a camminare, imboccando il primo sentiero che trovai
senza neppure essere sicuro in quale direzione stessi andando, né per
quale motivo mi sentivo tanto attratto da quei boschi. Dopo circa un’ora
di cammino, mi trovai immerso completamente nella vegetazione, al ché,
capii che involontariamente avevo abbandonato il sentiero e mi ero perso;
avanzavo in quella vegetazione, cercando di riprendere il senso
dell’orientamento, ma l’unico senso che trovai fu quello di smarrimento,
perché continuavo ad inciampare in sassi e radici che sporgevano dal
terreno. Mi resi conto di essere stato imprudente ad avventurarmi senza
una cartina né senza chiedere informazioni alla gente del luogo; comunque
non provavo senso di panico, cosa che invece mi capitava, quando con i
pescherecci prendevamo il mare, anche se le condizioni non erano ottimali.
Mentre ero assorto in questo pensiero, sentii un fruscio fra i rami, mi
girai di scatto perdendo l’equilibrio e caddi fra i massi rotolando a
valle perdendo il senso dell’orientamento. Quando riuscii a fermarmi, non
so dire con precisione per quanti metri ero rotolato giù a valle, venti,
trenta metri, ma la cosa che mi apparve insolita era che il sole che
qualche istante prima imperversava nella valle era sparito e il cielo si
era improvvisamente ingrigito.
Mentre mi rialzavo per scrollarmi le foglie secche che mi erano rimaste
attaccate addosso, e per vedere se avevo qualche escoriazione, una figura
quasi irreale mi si avvicinava, era vestita in maniera bizzarra, aveva dei
pantaloni grigi molto logori, una camicia chiara con le maniche arrotolate
sino ai gomiti ed un fazzoletto rosso attorno al collo e mi si avvicinava
silente, con un bastone nella mano destra. Come mi fu vicino circa una
decina di metri, notai con stupore che quello che portava nella mano
destra non era un bastone ma un fucile, ne ero sicuro, ma mi appariva al
quanto strana quell’arma. Quando mi fu proprio davanti, notai con
sicurezza che si trattava di un moschetto della seconda guerra mondiale,
ne ero sicuro, perché qualche giorno prima, avevo visto alla tv un
documentario sul ventennio fascista; il viso era molto giovane con una
folta barba bionda e con delle lacrime che sgorgavano da grossi occhi
chiari, rigandogli il viso per perdersi nella folta barba bionda.
Guardandolo bene, vidi che anche l’abbigliamento era simile a quello delle
famose “Brigate Garibaldi”, brigate di partigiani che in quei funesti
anni, si batterono dando il loro sangue contro il nazifascismo e per la
libertà. Ma come poteva essere reale una simile visione? Cosa mi stava
capitando? Prima che potessi in qualche modo raccogliere i miei pensieri,
quest’uomo più simile a un’ombra fluttuante che ad un essere reale
incomincio a parlarmi. - Non temere è da giorni che ti osservo, e oggi ti
ho voluto incontrare - A quelle parole, mi sentii gelare il sangue nelle
vene; io non ho mai creduto negli eventi soprannaturali, anzi ho sempre
dubitato persino che Dio potesse essere un invenzione umana per
discolparsi di immani nefandezze che in suo nome nell’arco dei secoli il
genere umano ha compiuto, e continua compiere o solamente per dare una
spiegazione illogica quando non ne trova una logica. Ma adesso ero
pietrificato, come se avessi incrociato gli occhi della gorgone Medusa. -
Non temere Salvatore - riprese quell’ombra con voce che tradiva il suo
aspetto giovanile, lasciandomi ancora più atterrito dopo che questi aveva
pronunciato il mio nome. Cercavo sempre più di convincermi che, nella
caduta avevo violentemente battuto la testa e, se non mi trovavo all’altro
mondo, dovevo certamente essere in preda al delirio. - Salvatore -
continuò chiamandomi per nome, ti ho voluto incontrare, perché ho scrutato
nel tuo animo e ho visto la tua semplicità, sono stanco di vedere come voi
dimenticate così in fretta la storia e i sacrifici dei vostri fratelli.-
Incredulo in un primo momento di ciò che mi stava accadendo, prima che
potesse continuare replicai: - So che sei solo frutto della mia ammaccata
mente, ma per quale motivo mi hai scelto? - decisi di assecondare quello
che mi stava accadendo, sicuro che tutto sarebbe svanito quando mi fossi
ripreso o tantomeno, se non appartenevo più a questo mondo, cosa poteva
accadermi di peggio? - Io sono solo un cameriere, non mi sono mai
interessato di politica, anzi penso, che il fetore emanato delle alghe al
sole quando a Venezia vi è la bassa marea, debba essere profumatissima
acqua di colonia al cospetto del marciume della politica! - Non temere -
riprese a parlare - Volevo solo che una persona pura nell’animo, sapesse
chi effettivamente sono stato: Mi chiamavano Guglielmo e vivevo felice in
queste valli del mio lavoro, allevavo mucche e non mi mancava nulla fino a
quando la guerra, quella sciagurata guerra e quell’infame dittatore… -
Pronunciando la parola si interruppe come soprafatto da un’immane rabbia,
e mentre ascoltavo quel racconto, sembrava che il partigiano lentamente
prendesse forme umane e lasciasse le sembianze dell’entità ultraterrena. -
Io,- continuo riprendendo una apparente rabbiosa calma - proprio come te
ed è per questo motivo che ti ho voluto parlare, non avevo idee politiche,
amavo le cose semplici, il lavoro, l’onestà e soprattutto la libertà.-
Fintanto che continua quel mesto racconto, le lacrime scendevano più
copiose dal viso, rompendo gli argini della folta barba e fermandosi al
suolo. - La libertà – continuò dopo alcuni singhiozzi - Quella libertà che
ogni uomo dovrebbe sentire nel cuore, non quella strumentale delle
bandiere, dei simboli, alcuni di terrore altri d’onore, ma la libertà di
essere libero. E non schiavo della libertà schiavo di chi ti libera
dall’oppressore. Chi è più vile, l’oppressore che ti toglie la dignità? O
il liberatore che liberandoti si sostituisce al primo per a sua volta
opprimerti? - Mentre ascoltavo quello sfogo ero sgomento, e di rimando
risposi in maniera accorata, dimenticando per un istante la totale
assurdità di quello che stava accadendo. - Non vi è nessuna differenza! -
dissi - Sia il primo che il secondo a mio parere, sono entrambi dei vili
criminali, che nascondendosi sotto quelle bandiere e quei simboli così
diversi fra loro, perseguono lo stesso fine. Sottomettere il popolo,
barbaramente uccidendo tutti quelli che a questi si ribellano.- Ecco
perché ti ho chiamato, perché volevo sapere se ancora a questo mondo,
esistono persone che amano la pura e semplice libertà. Ora so, che fino a
quando esisterà anche un solo Salvatore, il mio sacrificio non sarà stato
vano. Addio Salvatore.- Io, quasi senza pensare a ciò che dicevo
replicai:- Ti rivedrò ancora Guglielmo? - Il partigiano rispose ancora
prima che io potessi finire la frase - Ogni volta che vorrai, nel profondo
del tuo cuore.- E nello stesso modo che era apparso svanì.
Assorto com’ero in quei pensieri, non mi accorsi che era ritornato il sole
e che avevo sia i capelli impastati che la maglia intrisa di sangue, e
allora subito pensai che tutto quello che avevo creduto di aver visto ed
aver sentito, altro non fosse frutto della rovinosa caduta che mi aveva
sicuramente procurato un trauma cranico ed il successivo delirio. Ma
toccandomi la testa, notai che non avevo alcuna ferita e nelle vicinanze
non vi era anima viva né altre macchie di sangue. Dunque quel sangue non
poteva essere che mio. Anche se tutto questo mi turbava, nell’animo ero
contento che a tutta quella irrazionalità, non vi riuscivo a trovare una
logica spiegazione. Ed ero sicuro che da quel giorno, anche se in maniera
graduale, sarebbe cambiato anche il mio rapporto con Dio.
Come in uno stato di catalessi, raccolsi alcune pietre, e li misi a
cerchio nel modo da formare un grande vaso, poi presi parte di una
corteccia di un albero, e giratola dalla parte più liscia, la pulii con la
manica della mia maglia, e con il coltellino del mio cavatappi che
solitamente uso al bar per aprire la bottiglie di vino e che
inavvertitamente, avevo lasciato nella tasca dei miei pantaloni, incisi la
scritta: “Al Partigiano difensore della libertà”. Dopo presi delle
margherite, e le riposi in quel rudimentale vaso di pietre che avevo
creato. Mentre mi allontanavo, mi parve di vedere nel cielo un arcobaleno,
cosa al quanto strana, perché l’erba era asciutta, dunque non aveva
piovuto anche durante la mia per così dire temporanea assenza dal mondo
reale. Ma ormai le stranezze facevano parte di quella giornata, e volli
credere che la visione dell’arcobaleno altro non fosse che la voglia di
vedere quei colori, simbolo di pace, mandato come saluto dal partigiano.
Mentre mi allontanavo, stranamente ritrovai il sentiero che avevo perso, e
dall’alto intravedevo il parcheggio dove avevo lasciato la mia automobile.
Appena all’automobile, ripresi la strada per Venezia, convinto che vi
sarei ritornato presto per riporre altri fiori e sicuro che avrei
ritrovato senza alcuna difficoltà, il sentiero per la tomba del
partigiano.
La mostra d’arte
Il vociare della gente rimbombava come gli echi degli strumenti che si
accordano in teatro prima di un concerto, in quell’enorme sala, dai
soffitti altissimi, pienamente affrescati che purtroppo non riuscivo a
distinguerne il tema, angeli, demoni, in quel groviglio di corpi erano
quasi un sol figura, certamente doveva essere una raffigurazione sacra.
L’aria era intrisa dell’odore di vecchio, di chiuso, il classico odore
dei vecchi quadri chiusi in antiche cornici dorate, quelle opere d’arte
prigioniere in bui musei, schiave di sofisticati allarmi, oggi erano
gli attori di una antica tragedia greca, con le loro stesse maschere,
interpretavano loro stessi, i loro creatori.
Uomini di mezza età distinti, con l’aria interessata e con il fare
annoiato, accompagnati da elegantissime e truccatissime signore, la
quale età era indecifrabile a causa dei canotti rossi che erano le loro
labbra e dal decolté rigonfiato dal silicone. Ostentavano gioielli,
come se fossero queste le vere opere d’arte esposte e da ammirare,
senza tanto celare il totale disinteresse per i veri oggetti della
mostra d’arte. - Filippo - una di queste donne con voce al quanto
sostenuta, tanto da farsi sentire anche dalle altre persone che le
stavano vicino, ma senza trascendere nell’ineducazione, rivolgendosi a
un uomo vestito come il proprio accompagnatore, che doveva essere il
marito, che aveva le sembianze di un grosso pinguino appena scampato
all’attacco dell’orso polare, - Hai sentito che a questa mostra
serviranno del comunissimo salmone, anziché il caviale come gli altri
anni? - prima che l’uomo potesse prendere la parola, la sua dama che
doveva essere la moglie, anch’essa una buffa e grassa caricatura,
ornata di gioielli come un cavallo bardato a festa per trainare i
carretti Siciliani, fulminea intervenne - Hai proprio ragione mia cara
Adele - questo doveva essere il nome della dama, - Ma guardati intorno,
oggi giorno alle mostre fanno entrare chiunque – guardandosi intorno –
Il salmone è anche troppo per gente come quella. – Volgendo lo sguardo
con gli occhi pesantemente truccati, che la facevano apparire come un
vecchio pugile suonato che le aveva appena prese di santa ragione, -
Non posso darti torto cara Gilda - questo doveva essere il nome di
quest’altra goffa creatura; ed entrambi volgevano nella stessa
direzione quel miscuglio di vari cosmetici che erano i loro
inespressivi visi.
Volgendomi nella direzione indicata dalle due donne, notavo dei ragazzi
e delle ragazze mal vestiti, che con spregio commentavano quei secoli
di arte, - Ma guarda bene – diceva una ragazza che indossava una
camicia da uomo in Jeans di due o tre taglie più abbondanti delle sue
reali misure, un paio di pantaloni mimetici da uomo, anche questi
notevolmente più ampi della sua reale taglia, e con una strana
pettinatura intrecciata sul capo che emanava uno sgradevole odore, al
ché pensai che dovessero essere diversi giorni che quel crine, era
estraneo sia all’acqua sia a qualsiasi tipo di detergente per l’igiene
personale. Rivolgendosi ai membri della sua compagnia, anche questi
vestiti allo stesso modo, come dei militari pronti per una battaglia, e
subito pensai che sia il primo gruppo di persone così buffamente ben
vestite, che questi altri completamente diversi, nella loro diversità
dovevano essere uguali. – Questa, hanno l’insensatezza di chiamarla
arte, sono dei ritratti inespressivi e null’altro! - nonostante fossi
sconvolto da simili affermazioni, rimasi ad ascoltare perché ero
curioso di sentire cosa avrebbero replicato gli altri ragazzi, anche se
non mi sarei stupito della risposta che ne seguì -E’ proprio vero –
istantaneamente rispose uno dei ragazzi di quel gruppo irrorando il suo
commento di volgarità irripetibili - Pensa li chiamano artisti?Come può
essere frutto di un artista, una, anche se reale riproduzione di corpi,
pittori senza alcuna inventiva, alcuna personalità, altro non erano che
antichi fotografi.-
A quelle affermazioni, mi allontanai perché non volevo sentire altro di
quanto udito. Mentre i miei occhi facevano beare la mia anima tra un
“Tiziano” un “Canaletto” un “Tintoretto” e altri immani pittori di
quelle fiorenti epoche, finalmente, a far beare la mia anima non furono
solo i miei occhi, ma anche il mio udito, sentendo in lontananza un
tale sulla cinquantina, vestito decentemente con degli abiti non
vistosi né per eleganza né per trascuratezza, una giacca di velluto
beige con delle toppe marroni, sopra una camicia bianca ben inamidata e
chiusa da un papillon rosa e un pantalone ben stirato dello stesso
tessuto della giacca, che aveva tutta l’aria di essere un professore
universitario intento a spiegare a dei ragazzi totalmente diversi sia
per l’abbigliamento che per l’olezzo, e in cuor mio speravo anche per
intelletto, di quelli che avevo visto e purtroppo udito prima.
Furtivamente mi avvicinai per meglio udire quelle spiegazioni.
Avvicinatomi a una distanza tale che mi consentiva di bene udire le
parole, finalmente, fissando quei dipinti e ascoltando con attenzione
le parole, mi sembrava di vivere in quei misteriosi anni, vedere quelle
polverose botteghe, sentire l’acre odore di quei colori abilmente
impastati da quei maestri. Pur fissando intensamente quei dipinti pian
piano nella mia mente si scolorivano fino a diventare una bianca tela,
e vedevo quegli immani maestri che con sapiente amorevolezza,
intingevano i pennelli nelle misture sapientemente prima preparate e
brandendoli con la stessa fierezza del paladino che impugna la
scimitarra e colpisce il Saraceno, si avventava su quelle candide tele,
con l’unica differenza che il paladino avrebbe distrutto o la sua o la
vita del Saraceno, mentre il maestro avrebbe dato vita ad una immane
gioia che per secoli, avrebbe fatto beare generazioni e generazioni di
persone, (ad eccezione degli stolti in cui mi ero abbattuto prima), ed
a ogni pennellata, come per incanto si materializzavano quelle figure
irrorate da misteriosa luce che da epoche erano impresse in quelle
tele.
Mentre ero assopito in questi miei beati pensieri, venni destato da
quell’incanto da un lieve pianto, contemporaneamente, mi accorsi che
anche colui che doveva essere il professore, interruppe la sua
spiegazione, in quanto anch’egli, era stato scosso da quel pianto.
Guardando con attenzione, notai un uomo tarchiato e basso con le spalle
curve per gli affanni di usuranti lavori sin dalla giovane età, (cosa
che sarebbe stata impensabile per i giovani olezzanti e gli uomini
pinguino incontrati poco prima), parzialmente calvo, di circa
settant’anni, con la pelle visibilmente bruciata dal sole, gli occhi
scavati, un viso scarno rigato da lacrime che descrivevano delle
ellissi, per circoscrivere le rughe che ne segnavano il volto; avvolto
da una camicia che destava subito agli occhi, i numerosi lavaggi che
questa aveva dovuto subire e con il colletto leggermente ingiallito,
abbottonato sino all’ultimo bottone e priva di cravatta; una giacca
scura visibilmente consumata e i pantaloni uguali alla giacca sia per
il colore che per l’usura. Nelle mani teneva un basco nero che
martoriava con le grosse dita callose, tipiche di chi con l’uso di
quelle mani si guadagna da vivere.
Senza esitare, mi avvicinai per chiedergli se avesse bisogno di aiuto e
con la coda dell’occhio, notai che il presunto professore del quale non
mi ero più curato, istantaneamente ed in silenzio mi seguiva. -
Scusatemi? – incominciai, ma non ebbi alcuna risposta, - Scusatemi -
ripetei, ma l’uomo sembrava come in uno stato di trance, come se in
quella sala non ci fossero altri che quella raffigurazione del Bacino
san Marco di Venezia del 700 e lui. - Scusatemi -, ripetei, questa
volta scuotendolo per un braccio con tutta la delicatezza di cui ero
capace, finalmente destando la sua attenzione. - Comandate signore-.
L’uomo cominciò ancor prima che io potessi proferire parola - Vi è
successo qualche cosa di grave? Avete bisogno di Aiuto? -
immediatamente replicai e mentre interrogavo l’uomo, il professore mi
stava alle spalle visibilmente incuriosito da quello strano
accadimento.
L’uomo, a quella mia domanda e guardandosi intorno, come se per la
prima volta si rendesse conto in quale luogo si trovasse, asciugandosi
gli occhi con un gesto repentino dell’avambraccio e arrossendo
visibilmente, replicò: - perdonate signori, - riferendosi anche al
professore che ormai mi era quasi al fianco - non è successo nulla di
grave , sto bene, ma mentre guardavo queste scene dipinte, la
naturalezza di questi movimenti raffigurati… Sapete, io sono un
contadino e coltivo un campo di radicchio nelle campagne di Treviso -
stavolta mentre arrossiva, abbassava lo sguardo con un senso di
vergogna, e subito dopo continuò dicendo, - Io, non ho mai studiato,
sia per colpa mia sia perché era più importante che dessi una mano a
mio padre nei campi. Ma amo guardare spesso quei documentari, sapete
quelli che danno a volte alla tv?- . -Si- replicammo in coro io e il
professore. - Non avevo mai visto dal vero quei dipinti che mostravano
in tv – continuò l’uomo – È adesso, nel guardarli, provo una sensazione
tanto starna che non so spiegare. Sapete, quando ascoltavo le
spiegazioni che davano in tv di quei dipinti simili a questi, non
riuscivo a capirne il significato, ma ora, mi sento come rapito dalla
loro bellezza e mi sembra di sentire le grida dei commercianti in
piazza san Marco, l’odore del sudore dei rematori su quelle barche –
diceva mostrando un quadro del canaletto raffigurante il bacino san
Marco, e continuando a parlare con la voce spezzata dalla commozione e
il volto rigato dalle lacrime – La perfezione di quei corpi muscolosi e
la luce che emana quel cristo, quello sfondo nero pieno di luce,-
indicando un altro quadro di Tiziano, - mi ricorda la semplicità dei
miei campi, la bellezza delle montagne che leniscono la fatica e il
dolore delle vesciche provocate da lunghe ore di zappa. E non ho potuto
e non posso fare a meno di commuovermi.- Incantato da quelle parole che
nella mia anima risuonavano come meravigliosi versi di grandi poeti,
non riuscii a replicare, ma pronto il professore che ormai mi stava
qualche passo avanti, seguito dai suoi allievi, che pendevano dalla sue
labbra, come gli apostoli del Cristo raffigurati nell’ultima cena di
Leonardo da Vinci, con la voce spezzata dalla commozione, volgendosi
soprattutto ai suoi allievi, replicò: - Mio caro amico - così chiamò
quell’uomo che continua a sgorgare lacrime dagli occhi. - Oggi, sia io
che miei allievi, vi siamo grati perché ci avete dato una delle più
intense e importanti lezioni che uno studioso dell’arte possa ricevere.
Come distinguere se un’opera d’arte è tale oppure solo qualcos’altro.-
Sia io che l’uomo che nel frattempo aveva smesso di piangere,
ascoltavamo esterrefatti quell’accorato discorso del professore. - E
oggi, grazie a voi caro amico - continuava rivolgendosi al contadino –
Affermo con certezza “che se una qualsiasi opera d’arte è apprezzata
con commosso trasporto, da chi all’arte non è avvezzo, quella e solo
quella è una vera opera d’arte!”.- Dopo aver pronunciato con estrema
solennità quelle parole, si volse verso il contadino, gli strinse la
mano, lo ringraziò e con la schiera dei suoi “discepoli” si allontanò,
mentre il contadino ancora incredulo per quelle parole che avrebbe
continuato fiero a raccontare nei campi mentre coltivava il radicchio e
la sera all’osteria, ancora più emozionato di quanto lo avevo
incontrato continuava a fissare quei quadri, lasciando che le lacrime
continuassero a rigargli il volto incurante di quanto lo circondasse.
Io stavo per salutarlo, ma nel vederlo tanto assopito, nell’osservare
quei dipinti, non volli distoglierlo da quell’incanto. Mi allontanai
felice di aver visitato una affascinante mostra d’arte e di aver
incontrato il miglior critico d’arte che avessi mai potuto incontrare. |