Racconti di Gaetano Gulisano


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Leggi le poesie di Gaetano

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Estate 1983
Erano quasi vent’anni che Gaetano non tornava più a Catania, e forse ne sarebbero passati altrettanti, se non fosse stato per risolvere alcune grane per un’eredità di un’immobile che non era riuscito a risolvere, nonostante avesse incaricato un legale. Il comandante dell’aereo, con una voce gracchiante prima in inglese, poi in tedesco ed in fine un italiano ancora più incomprensibile delle prime due lingue sconosciute, aveva annunciato che stava iniziando l’avvicinamento all’aeroporto Fontanarossa di Catania. Gaetano quasi istintivamente allungo la testa verso il finestrino per cercare di scorge il suolo, ma ancora erano troppo in alto e si vedeva solo il bianco delle nuvole. Ma quello che cercava di vedere Gaetano, se lo portava dentro e nonostante continuasse fissare il bianco delle nuvole, riusciva a vedere l’azzurro del mare, la sabbia dorata e i due enormi fanali che capeggiavano al lido CLED. Lo stabilimento balneare sul lungo mare di Catania, dove aveva passato i momenti più belli che riuscisse a ricordare, non tanto per la bellezza di quei momenti in se ma forse, perché all’epoca, non aveva ancora compiuto i vent’anni, non aveva ancora prestato servizio militare, (perché ancora nell’83 era obbligatorio il servizio di leva.) e naturalmente, ogni problema in quegl’anni, veniva rimandato a dopo il servizio di leva la cosiddetta Naja. Quello stabilimento era particolare già dal nome infatti “CLED” erano le iniziali dei figli del proprietario un avvocato del foro di Catania,un tipo al quanto bizzarro ma non una cattiva persona. Ma la cosa che rendeva veramente speciale quegli anni arano gli amici: c’era Orazio, senza ombra di dubbio il classico amico del cuore. Abitava nell’appartamento sopra quello di Gaetano, praticamente se non si può dire che erano nati assieme senza ombra di dubbio quei due erano cresciuti insieme. Poi c’era Maurizio, lui abitava in una via vicina, una strada senza sbocco dove le automobili che transitavano erano solo quelle dei residenti e naturalmente, tutti i ragazzini della zona si erano appropriati di quella via facendola diventare il loro campo da calcio personale.

Gaetano, fu ridestato da quei pensieri dallo gracchiare dell’altoparlante sopra il sedile che, annunciava di allacciare le cinture di sicurezza e di chiudere i il tavolinetto situato nella poltrona del passeggero anteriore. Quest’ultima indicazione, non destò nessuna preoccupazione anche perche a causa di un incidente in moto occorsogli anni prima, era rimasto con la gamba destra totalmente anchilosata in estensione e a causa di questo, a bordo dell’aeromobile occupava il primo posto quindi non aveva nessuna poltrona davanti.

Non passò molto tempo che la discesa iniziò a farsi sentire anche nello stomaco di Gaetano, per ovviare a quel lieve senso di fastidio che la discesa gli procurava, volse lo sguardo fuori dal finestrino. Le nubi bianche cominciavano a diradarsi per lasciare il posto alla vetta imbiancata dell’Etna. Nonostante fosse già luglio inoltrato, la neve occupava insolitamente un ampio costone del vulcano. Man mano che si scendeva si intravedeva la bianca spuma delle onde del mare infrangersi sulla bionda rena ed eccoli lì, come due carabinieri di guardia alla caserma i due fari del lido CLED. L’atterraggio era imminente ma mentre la pancia dell’aeromobile di apprestava a sorvolare la spiaggia, nella mente di Gaetano il tempo iniziava a tornare repentinamente indietro per fermarsi all’83. Gaetano, ormai con i suoi pensieri non era più su quell’aereo ma a cavalcioni del sedile posteriore di una vespa 50 special comunemente chiamato vespino. Il vespino del suo inseparabile amico Orazio. Era una domenica ed entrambi non lavoravano; come al solito Orazio era andato a svegliare Gaetano che non riusciva mai ad essere puntuale nonostante i vari richiami di sua madre che lo riprendeva spesso per la sua scarsa propensione alla puntualità. Orazio era ormai abituato ai puntuali ritardi e non ci faceva più caso. Poco dopo, con Orazio alla guida e Gaetano sul sellino posteriore si trovarono a zigzagare tra gli automobilisti in coda che istericamente strombazzavano tra il sudore e le imprecazione lungo il viale Kennedy, il viale del lungomare di Catania dove si trovavano i vari stabilimenti balneari e tra questi il famoso lido CLED. Solitamente, all’interno del parcheggio del lido i due ragazzi trovavano l’avvocato (il proprietario del lido) che controllava, come se questi fosse preoccupato perché ancora non fossero arrivati. Ma la cosa che rese particolare quell’anno, fu il torneo di “tamburelli” una specie di “beach volley” con i tamburelli. Gaetano non era per nulla bravo a giocare con i tamburelli, come d'altronde non lo era neppure a calcio; infatti quando si organizzava qualche partita in strada, veniva puntualmente schiaffato in porta, non perché fosse un bravo portiere ma perché quello era l’unico ruolo dove poteva apportare meno danni, almeno sino a quando un avversario non riusciva a fare un tiro nella porta dove era stato piazzato Gaetano e puntualmente faceva goal.

Gaetano, consapevole di non essere un campione e anche in virtù del fatto che si trattava di un doppio misto, si iscrisse al torneo con una ragazza molto carina, ma come gioco faceva apparire Gaetano un gran campione di Tamburelli. Tra i mille difetti di Gaetano un pregio glielo riconoscevano tutti: lo spirito. Naturalmente arrivò ultimo al torneo ma sapendo di non avere speranze, ogni partita era un continuo spettacolo comico inscenato dalla sua consapevole goffaggine e dalla tecnica di gioco non del tutto impeccabile.

Dopo qualche partita si sparse la voce e negli incontri successivi, quando giocava Gaetano vi era un folto pubblico con tifo da stadio e con relativi striscioni. Alla fine del torneo, gli venne assegnata la “targa simpatia” per lo spettacolo cabarettistico che inscenava ad ogni incontro. Talvolta effettuando il servizio prima che l’arbitro fischiasse o esultando ad un punto subito come se fosse stato lui a segnarlo, suscitando l’ilarità del folto pubblico presente per l’occasione. Naturalmente, per la consegna della targa influì moltissimo la pressione sugli organizzatori dell’amico Orazio.

Continuarono quella serata a bordo della vespa di Orazio prima in piazza Umberto davanti ai chioschi brindando con un dissetante bicchiere si selz limone e sale per poi finire la serata viaggiando per la città senza meta, sopra la mitica ed indimenticabile vespa50 special.

Uno scossone fece sobbalzare Gaetano ridestandolo dai suoi pensieri, il comandante dell’aeromobile informava i passeggeri che erano atterrati a Catania in perfetto orario, che la temperatura esterna era di circa ventotto gradi centigradi ed augurava una Buona permanenza.

Gaetano appena messo i piedi a terra per un istante si guardò in giro sperando di scorgere Orazio con la sua vespa 50 special, poi tornò alla realtà chiamò un taxi e si diresse verso il suo albergo.

Viva lo sballo
-Gloria, hai trovato le pasticche?- dice Marco. E’ a bordo della sua BMW in compagnia di due suoi amici.
-Cosa cazzo ci servono le pasticche?- replica la ragazza, ferma sul marciapiede.
-Ma sei proprio fusa… Mi vuoi far credere che vuoi entrare in discoteca senza impasticcarti? Ah, capisco, hai tirato prima di uscire di casa. Eppure, non si direbbe dagli occhi.
-Marco, guarda che non ho toccato né coca né pasticche e non ho intenzione di farlo.
-Seee, seeee… Dai, monta in macchina- dice Marco guardandola con sospetto.
-Ma non possiamo fare a meno di quella merda?
-Sentite questa stronza: la chiama merda. Ma chi cazzo ti ha messo queste stronzate nella testa?- Dicono i tre ragazzi, quasi in coro.
-Ieri, mi sono sentita male e non ho intenzione di prendere più quella merda. Anzi, me ne torno a casa e fatti fottere tu e tuoi amici.
Gloria si allontana senza salutare.
I due amici, seduti nei sedili posteriori, scendono dalla macchina, sbattendo violentemente le portiere.
-Lasciala perdere quella stronza, che vada a fare in culo.
-Avete ragione. – Si sporge dal finestrino e le urla:- VAFFANCULO!
Gloria, già lontana, non risponde.
- Andate da Mustafà che ha la roba buona, che stasera ci sconvolgiamo alla grande. Chi ci ammazza a noi? – dice Marco.
-Si, hai ragione Chi ci ammazza?- E ridendo, i due ragazzi si allontanarono a piedi.

Erano le cinque del mattino e Gloria non riusciva a prendere sonno. Accese la TV. Al telegiornale locale stavano dando una notizia: una BMV con a bordo tre ragazzi e una ragazza, era uscita fuori strada al rientro dalla discoteca. La giornalista continuò dicendo che i ragazzi, al momento dell’incidente, erano sotto l’effetto di alcol e droghe. Subito dopo, passarono le loro foto.
Gloria urlò:-Cosa cazzo dice quella stronza! Io, sono rimasta a casa, non sono andata in discoteca con quei tre sfigati.- E mentre pronunciava quelle parole, la sua stanza cominciò a diventare estranea. Non riconosceva più i mobili, le pareti rosse e gialle, il poster degli U2. Tutto era di un bianco accecante. La TV, era diventata un monitor su cui c’era l’animazione irregolare di un elettrocardiogramma. Gloria aveva gli occhi chiusi.
Dopo qualche istante, i suoni si stabilizzarono in un unico fischio continuo, interrotto solo dal trambusto di medici e infermieri e dal pianto di sua madre.

Voglio scusarmi: innanzitutto per il turpiloquio presente in alcune fasi del racconto (che non è mio solito adoperare), ma credo, che la situazione del racconto lo richieda.
I personaggi del racconto, sono pura opera della fantasia dell'autore ed ogni riferimento a persone, luoghi o fatti realmente accaduti è da ritenersi puramente casuale


3 Maggio 2005
l’inferno
(I parte)

Lucifero, con il suo tridente, pizzicava le persone in fila appena arrivate alle porte dell’inferno, proferendogli gli improperi più impronunciabili.
Quelle persone, a mani giunte lo pregavano chiedendo clemenza, cosa che faceva ulteriormente imbestialire il demone.
Gaetano era in fila, ma a differenza di quella moltitudine di persone, non implorava anzi, attendeva con mesta pazienza il suo destino. Cosa al quanto strana perché, anche se in vita non era stato un santo, non poteva essere considerato una persona cattiva, meritevole di quel destino. Nonostante questo, Gaetano, (stupito per la presenza di Lucifero su quel pulpito, che di diritto, secondo la versione Dantesca doveva essere di “Minosse”), attendeva impassibile, ascoltando e guardando con distacco l’interrogatorio al quale il demone sottoponeva quelle persone, sicuramente ree di chissà quali nefandezze.
La sentenza che seguiva l’interrogatorio, era sempre di condanna ai supplizi più disparati e alle più bizzarre crudeltà.
-Neghi di aver ucciso persone innocenti?- Lucifero urlava alla volta di un uomo grasso, con il volto sformato dalla paura, livido per tutte le punture di insetti e per le copiose dosi di bastonate ricevute nel lungo tragitto sino a quella porta.
L’alito pestilenziale del demone, arriva sino alle ultime persone, rendendo l’aria irrespirabile, come se in quella condizione respirare contasse ancora qualcosa.
-No! Non ho mai ucciso nessuna persona in vita mia, lo giuro.- Replicava quell’essere ormai informe, privo di ogni sembianza umana.
-Neghi di essere stato un politico? Il demone dal suo pulpito infuocato lo incalzava
-No non lo nego!
-Neghi di esserti impossessato del danaro che gestivi per il pubblico e, con questo esserti costruito ville e vari agi arricchendoti?
-No! Non lo nego, ma non ho mai ucciso nessuno.- Replicò, quasi sentendosi sollevato, sia per la confessione, sia perché credeva di potere scampare a quel perpetuo destino.
-Guarda,- impose il demone.
-Vedi, quelle persone?- E, sotto i suoi piedi, si aprì come una parete trasparente che lasciava intravedere la scena di un incidente con due persone riverse a terra, rispettivamente in una pozza di sangue.
-E cosa centro io?- Replicò l’uomo alzando la voce. E, subito venne colpito da una scarica di bastonate, da parte dei demoni che gli stavano intorno.
-Cosa centri tu?- Ricominciò Lucifero ancora più adirato di prima, facendo uscire fumate sulfuree dalle sue larghe nari dal viso di capro.
-Il danaro che ti sei intascato, era destinato a mezzi sanitari per la tua città, senza quei mezzi, quelle persone moriranno e tu ne sei l’artefice.-
L’uomo a quelle parole impallidì, allora Lucifero continuò:
-Che sia gettato nella fosse delle vespe.
-Al ché l’uomo urlo e svanì fra le fiamme.
Quanto fu giunto il turno di Gaetano, il demone lo guardò negli occhi e inespressivo, senza pronunciare alcunché, strinse il tridente nella pelosa mano destra, facendo stridere al contatto le lunghe e acuminate unghie, e con forza, glielo conficcò nella gamba destra.
Gaetano, urlò per il dolore e poi svenne.
Quando Gaetano riaprì gli occhi, si ritrovò riverso sull’asfalto con un forte dolore al braccio destro, tentò di alzarsi ma non vi riuscì, si guardò la gamba destra e vide che sui Jeans all’altezza del ginocchio, vi era qualcosa di un bianco accecante, allungò la mano cercando di toglierlo ma appena l’afferrò, un dolore lancinante che mai aveva provato prima gli pervase la gamba per poi diffondersi in tutto il corpo. Quel qualcosa di bianco, altro non era che il suo ginocchio uscitogli dalla gamba.
Allora, tutto gli fu chiaro, si ricordò di qualche istante prima sulla moto del suo amico Massimiliano, poi un pullman e il tremendo impatto.
Sotto la sua gamba, si allargava copiosa una chiazza di sangue, il suo amico Massimiliano non rispondeva e il freddo iniziava ad insinuarsi nel suo corpo.
Giunse un’autoambulanza, gli infermieri gli misero velocemente un telo argentato sopra per ripararlo dal freddo, ma non lo caricarono a bordo, dicendo che: al momento era disponibile solo un’autoambulanza ed il suo amico riverso a terra poco distante era più grave di lui.
Allora Gaetano chiuse gli occhi e non sentì più dolore…

3 Maggio 2005
L’inferno

(II parte)

…Gaetano, era immobile con il tridente di Lucifero infilzato nella gamba destra che gli procurava tremendi dolori. Lucifero, lo guardava con l’espressione adirata, dei suoi occhi verdi e rossi da rettile, senza pronunciare alcunché.
Gaetano,era stupito, si aspettava il rituale interrogatorio, al quale aveva assistito per tutti quelli che lo avevano preceduto e con le successive atroci sentenze.
Quando all’improvviso, il demone, sempre fissandolo con la solita espressione, esordì dicendo:
-Cosa aspetti? Non è questo il tuo luogo e non è questo il momento, vai adesso non ho tempo da perdere.-
A quelle parole, senza dire nulla, cercò di sfilarsi il tridente ancora conficcato nella gamba destra, al ché Lucifero, con un balzo scese dal suo pulpito e fermandosi davanti a Gaetano, impugnò il manico del forcone e glielo conficcò ancora più in profondità, facendolo gemere ulteriormente. Gaetano, continuò ad urlare più forte per il dolore che quei ferri gli procuravano.
-Ascoltami bene- cominciò il demone, mentre perseverava in quell’atroce tortura, -Ho detto: che non è né il tuo luogo né il tuo momento, ma questo mio “regalo”, dovrai portarlo sino a quando non verrà il momento di toglierlo e, adesso non lo è.
-È quando verrà quel momento?- Replico Gaetano, contorcendo il viso in una smorfia di dolore, ma non ebbe nessuna risposta.
Gaetano, si allontanò inerpicandosi lungo un sentiero scosceso, seguendo una fioca luce bianca, con la gamba che ad ogni passo lo faceva sussultare dal dolore. Appena fu a suo parere abbastanza distante, si fermò distendendosi supino cercando di sfilarsi quel forcone ma, questo sembrava ormai fusosi con la carne e le ossa della sua gamba , continuando a dargli atroci tormenti, facendolo urlare come un ossesso.
Mentre urlava, vide un ombra che gli si avvicinava, la luce prima fioca, iniziò a diventare sempre più vivida fino a quando riuscì a distinguere quell’ombra misteriosa.
-Ecco l’antidolorifico- quella voce sussurrò.
Gaetano guardandosi intorno si rese conto che si trovava nel letto della sala di terapia intensiva, di un ospedale e quell’ombra, altro non era che l’infermiera.
Guardò subito sotto le lenzuola per vedere se aveva infilzato il forcone di Lucifero, dato che il dolore a differenza del paesaggio era rimasto immutato e notò che al posto del forcone, vi era un fissatore esterno composto da una serie di tondini di ferro che gli trapassavano la gamba da parte a parte, da appena sotto l’inguine all’inizio della tibia.
Gaetano, appena resosi conto di dove si trovasse, chiese notizie all’infermiera sulle condizioni del suo amico Massimiliano.
Questa, pur con un muso lungo e con solennità disse che si trovava in coma farmacologico, ma che le condizioni non destavano particolari preoccupazioni.
Gaetano, girò la testa sul cuscino e si addormentò con un dubbio, aveva sognato Lucifero o aveva sognato l’infermiera?

Gaetano, aprì gli occhi e non vide più la pulita sala della terapia intensiva dell’ospedale, ma soltanto freddi sassi sui quali giaceva supino e il dolore alla gamba riprese più intenso di prima. Guardò la gamba e il forcone era ancora al suo posto, mentre cercava di sfilarlo accompagnato da tremende urla, vide in piedi al suo fianco un canuto signore con la barba candida, che indossava un bianca tunica. Subito gli chiese di aiutarlo ma questi con aria solenne gli disse:
-Come posso io aiutarti se tu per primo continui ad infliggerti indicibili pene? Lascia stare quel forcone che non uscirà mai in quella maniera dalla tua gamba, uscirà a tempo debito e con i giusti modi.- E come era apparso l’uomo scomparve, lasciando Gaetano nello sconforto che si abbandonò su quei e ruvidi freddi sassi.

-E’ l’ora dell’antibiotico.- Quella frase lo svegliò, si guardò attorno e non riconobbe la stanza di prima, infatti era stato trasferito dalla sala di terapia intensiva al reparto.
Nonostante si trovasse coricato nel letto, gli sembrava di stare ancora disteso sui sassi. Il dolore alla gamba, non accennava ad attenuarsi, anzi aumentava freneticamente; in quello stato trascorse una settimana tra il torpore degli antidolorifici, alternato ai i tremendi dolori alla gamba. Ogni qualvolta tentava di toccare il fissatore, i dolori continuavano in maniera feroce e, non poteva fare a meno di pensare alle parole che aveva udito da quel canuto signore durante quello strano sogno. Gaetano, non sapeva bene se ad impersonare quell’arcana creatura della sua fantasia fosse Catone in Purgatorio o Dio in Paradiso.
Finalmente, alla fine della seconda settimana, si trovò a fianco il suo compagno di sventura, visibilmente provato, con un collare per la frattura delle vertebre del collo, un gesso al braccio destro e una fasciatura alla gamba destra che andava da sotto il ginocchio sino alla tibia il tutto tenuto fermo da un fissatore esterno simile al suo .
Il trauma più grande, Gaetano lo ebbe la mattina successiva, quando i medici per la rituale medicazione, liberarono dalle fasce la gamba di Massimiliano e, riuscì a vedere lo squarcio nella carne che lasciava scoperti sia la tibia che il perone; ed un altro medico con un bisturi asportava pezzi di carne e di osso, che non essendo vascolarizzati, (dato che nell’incidente si era recisa una vena e i chirurghi l’avevano repentinamente chiusa.)
Ma, le spiacevoli sorprese, non erano ancora finite, difatti la settimana successiva, dopo le rituali medicazioni, i medici con estrema solennità, comunicarono a Massimiliano che avrebbero dovuto amputargli la gamba.
Amputare le gamba ad un ragazzo non ancora trentenne, uno sportivo, che passava parte del tempo libero tra palestre e campi di pallavolo, il classico ragazzo sempre ben curato il “figo” della situazione per intendersi. Dovevano amputargli la gamba, Gaetano non riusciva a pensare ad altro, ma non voleva neppure guardare quel suo amico disteso immobile con lo sguardo vitreo e fisso sul soffitto, aveva paura di scrutargli dentro l’anima, nei suoi pensieri.
Dovevano amputargli la gamba, quale atroce tortura, pensò subito al sogno e, rivedeva Lucifero che dava atroci torture ed il canuto signore che dispensava parole di conforto.
-Massimiliano ascoltami- cominciò Gaetano,
-sono sicuro che troveremo la giusta soluzione- ma Massimiliano rassegnato non rispondeva.
Passarono ancora alcuni giorni, fino a quando arrivò la notizia che un chirurgo di un istituto ortopedico di Bologna, dopo averlo visitato era disposto a dargli una flebile speranza e che avrebbe tentato di salvargli la gamba.
Successivamente, arrivò la notizia che anche Gaetano sarebbe stato accolto nello stesso istituto.
Gaetano si addormentò e rivide il canuto signore che sorridendogli gli sfilò il forcone dalla gamba.

Le scale o l’ascensore
Il sole era ancora alto nel cielo e l’afa di luglio era insopportabile, il vento che veniva dal mare, portava solo il caldo e la sabbia del deserto Africano che dalla Sicilia, non è poi così lontano. Giovanni, impiegato alle poste del paese, seduto sulla sedia a rotelle, che ormai da cinque anni era la sua perpetua tortura, stava rientrando a casa, grondate di sudore sia per l’afa sia per la calura, ma soprattutto, per il continuo saliscendi dai marciapiedi, a causa della mancanza di rampe per i disabili e ad ogni saliscendi, lanciava maledizioni nuove all’assessore comunale che avrebbe dovuto farle installare, il quale, abitava nel suo stesso palazzo.
Finalmente, dopo circa un’ ora di maledizioni, arrivato all’ingresso del palazzo, si avvia verso l’ascensore, che naturalmente funzionava a singhiozzo, come la maggior parte dei servizi di quel paese e, quel giorno, il singhiozzo era perpetuo, con l’odiosa scritta sulla porta metallica arrugginita: “FUORI SERVIZIO” .
Armatosi di pazienza, dopo le imprecazioni di rito e le maledizioni all’assessore che, fra l’altro era anche l’amministratore condominiale dello stabile, Giovanni, bussò alla porta di Salvatore, suo amico e condomino al piano terra, il quale ogni volta che l’ascensore non funzionava, cosa che accadeva spesso, armandosi di pazienza ed imprecando anch’esso contro l’amministratore, lo accompagnava al terzo piano dove risiedeva.
-Grazie mille Salvatore, entra ti offro qualcosa di fresco- disse Giovanni mentre infilava la chiave nella toppa.
-Ti ringrazio, ma vado al piano di sopra da quel gran cornuto dell’amministratore a cantargliene quattro- disse Salvatore.
-Ciao Salvatore e salutami sua moglie- disse con un ghigno sarcastico, ghigno subito ricambiato da Salvatore.
L’amministratore, cornuto lo era sul serio ed anche tirchio, per quel motivo la moglie si era trovata vari amanti.
L’essere cornuto, dato che ne era al corrente, in caso contrario sarebbe stato l’unico nel paese a non esserlo, gli stava bene, perché risparmiava denaro e fatica.
Dopo circa un’ ora che Giovanni era in casa, sentì suonare il campanello della porta con ripetuta insistenza.
Andando ad aprire la porta, comparve Salvatore al quanto scosso e con la fronte imperlata di sudore.
-Entra Salvatore, cosa è successo?-
- Giovanni, l’amministratore ha avuto un incidente la settimana scorsa ed ha perso l’uso delle gambe, oggi, tornerà a casa. -
- Ecco perché sono giorni che non si fa vedere- replicò Giovanni.
Mentre i due commentavano sconvolti la notizia, si sentì la sirena dell’autoambulanza che accompagnava l’amministratore a casa.
Affacciatisi sul pianerottolo, videro l’amministratore seduto sopra la sedia a rotelle portato a braccia dagli infermieri, che imprecavano contro l’amministratore (ignari di chi fosse l’amministratore di quel palazzo). Appena giunto a poca distanza dai due che lo guardavano con stupore, l’amministratore, come colto da improvvisa furia iniziò a gridare contro Giovanni:
-Sarai contento adesso, che sono storpio come te?-
Giovanni, anche se risentito non volle rispondere, ed insieme a Salvatore, rientrò in casa.
Qualche giorno dopo, tramite l’interessamento dell’amministratore che era anche assessore al comune, nel palazzo, iniziarono i lavori di ristrutturazione dell’ascensore, con l’adeguamento per le sedie a rotelle, a spese del comune, cosa al quanto insolita per uno stabile privato..
Sia Giovanni che Salvatore, anche se contenti per i lavori che, procedevano con una celerità fuori dalla norma, si domandavano perché non erano stati cambiati i cavi d’acciaio che avevano più di cinquant’anni e, piuttosto che un adeguamento, il comune non aveva provveduto ad un nuovo ascensore?
Ultimati i lavori nel giro di pochi giorni, l’ascensore funzionava regolarmente, anche se con dei rumori sospetti e sinistri, tanto che spesso Salvatore si offriva volontariamente di accompagnare Giovanni per le scale, in quanto diffidava dell’ascensore, mentre l’amministratore, fiero del suo ascensore lo utilizzava come se ne fosse il legittimo proprietario.
Un giorno, mentre Salvatore si trovava nell’appartamento di Giovanni, ed i due amici si rinfrescavano la gola con una granita ai gelsi neri, nella tromba delle scale, si udì un rumore assordante. Salvatore temendo un terremoto, prese in braccio Giovanni e si precipitò fuori nelle scale, ma appena fuori, ancora con Giovanni in braccio, vide i cavi spezzati dell’ascensore, l’ascensore con i vetri rotti, le grate in metallo arrugginito vicino al vecchio portone d’ingresso e le porte in legno frantumate in mille schegge sull’atrio.
Corse subito a mettere Giovanni sulla sedia a rotelle e, si precipitò giù per le scale con un cupo presentimento nel cuore.
Appena al piano terra, vide una chiazza di sangue che usciva da quel che restava dell’ascensore, che si allargava sempre più.
Nel frattempo, si era radunata una folla di curiosi, accorsi per il forte boato provocato dall’ascensore impattato al suolo.
Salvatore, spostando legni e lamiere, vide il corpo ormai cadavere dell’amministratore.
Dopo qualche mese, mentre Salvatore e Giovanni, si gustavano una limonata, al bar della piazza centrale, dal telegiornale Regionale, giungeva la notizia che erano stati inquisiti e rinviati a giudizio alcuni assessori comunali per peculato, corruzione ed altri reati contro la pubblica amministrazione e conseguente sequestro di beni mobili e immobili.
Senza tanta sorpresa, i due amici, appresero che fra queste brave persone, vi era anche il nome del loro estinto amministratore di condominio, nonché assessore al comune.
-Così ladro e tirchio che ha risparmiato sulla propria vita, ecco perché non aveva fatto cambiare i cavi dell’ascensore, per finire di costruirsi la villa al mare- disse Giovanni.
-Adesso, chissà se avrà preso l’ascensore per salire al paradiso o scendere all’inferno?- replicò Salvatore.
-Non saprei, ma quell’ascensore non è mai fuori servizio-
-Hai perfettamente ragione Giovanni.-
-Salvatore, sai cosa penso?
Che il vero dubbio, non è essere o non essere, ma le scale o l’ascensore?

Il viaggio nel tempo
Come ogni giorno, alle 08.00 ero già nello spogliatoio della caserma carabinieri di Venezia, dove prestavo servizio imbarcato su di una motovedetta di quel comando con il titolo di nocchiere motorista, ossia comandante di motovedette. Ormai erano più di quindici anni che per servizio navigavo lungo i canali di quell’incantevole città, avevo visto posti che, i turisti che giornalmente con ogni condizione atmosferica visitano la città, non avrebbero neppure lontanamente potuto immaginare; avevo visto quella Venezia che puoi vedere solo navigando in quei stretti canali, osservando quei palazzi che da secoli combattono contro l’incessante azione degli elementi e contro uno più spietato ed invincibile avversario. L’incuria degli umani, quegli stolti umani, che non vogliono guardare al passato, oltraggiando tutto quello che questo rappresenta, e avevo provato ad immaginare il rigoglioso splendore dell’epoca della “Serenissima”.
Ero quasi pronto, quando da fuori lo spogliatoio sentii urlare: - Cavallo pazzo! Cavallo pazzo! - quello era il mio sopranome, che mi era stato dato dal vecchio comandante, per il fatto che prima di essere trasferito a Venezia, avevo prestavo servizio in Sardegna e lì avevo imparato a montare a cavallo; avevo proseguito per qualche tempo anche al lido di Venezia, ove vi era un maneggio e quel burlone del vecchio comandante un Pugliese al quanto bizzarro, mi aveva attribuito benevolmente quel soprannome, come aveva fatto con la maggior parte dei membri del Nucleo Natanti, era quello il nucleo dal quale dipendevano le motovedette. - Cavallo pazzo! – continuava la voce, ma questa volta riuscii a distinguere di chi fosse quella voce, era del mio compagno di turno, Massimiliano, questo era il suo nome, un ragazzo non ancora trentenne, un Napoletano dal fisico poderoso ed atletico, fissato per la forma fisica ed il “Body Building” perennemente abbronzato da sembrare un bagnino di “Baywatch” e molto villoso da questo il suo soprannome “O scimmione”. - “Scimmione” aspetta che arrivo!- gli urlai dallo spogliatoio, appena questi fu dentro lo spogliatoio mi disse che il comandante voleva parlarmi.
Entrato nell’ufficio del comandante, questi con aria al quanto seccata, mi comunicò che fra una settimana, mi sarei dovuto presentare alla scuola allievi sottufficiali della Marina Militare all’isola di La Maddalena in Sardegna, per un corso di aggiornamento della durata di quaranta giorni, inerente al comando delle motovedette.
Il comandante continua a sbuffare, asserendo che al nucleo erano rimasti in pochi e non sapeva come rimpiazzarmi.
Sapevo che mentiva spudoratamente, perché lo conoscevo da più di quindici anni, un ex appuntato diventato maresciallo, che giornalmente doveva fare i conti con il fatto che tutti quelli che lo conoscevamo da lunga data, lo consideravano l’appuntato amicone di sempre, anche se tutti, ci rivolgevamo a lui mostrando il rispetto che meritava il suo grado.
Mentre continuava a parlare, non potei fare a meno di isolarmi dentro ai miei pensieri, la sua voce cominciò ad affievolirsi sempre più, più parlava più la sua voce diveniva fioca; sarei tornato in Sardegna, e un brivido mi percorse la schiena fino al cervello, avrei rivisto quei luoghi che quasi vent’anni prima, furono la mia destinazione da carabiniere neopromosso. Sarebbe stato come avventurarmi in un “viaggio nel tempo”, sarei tornato indietro di vent’anni. Anche se la mia prima destinazione e dove avevo passato i mie primi cinque anni di carriera prima di approdare nell’incantevole Venezia, non era stata La Maddalena, ma bensì Santa Teresa di Gallura, uno stupendo paesino sul mare, che distava pochi chilometri da La Maddalena, la quale conoscevo, solo perché quindici anni prima vi avevo fatto il corso per conseguire l’abilitazione al comando di motovedette. Anche per La Maddalena sarebbe stato un breve “viaggio nel tempo”, ma il vero “viaggio nel tempo” sarebbe stato quello a Santa Teresa di Gallura, ove avevo vissuto per cinque anni. Mentre fantasticavo questi pensieri, con la mente correvo al giorno che al primo riposo settimanale, avrei potuto effettuare il vero “viaggio nel tempo”. – Cavallo pazzo! Cavallo pazzo!- il maresciallo urlava e quasi ridestandomi dal torpore dissi - cosa?-
-stai ancora dormendo? Sono quasi le 08,30- disse il maresciallo con un’accentuata vena di sarcasmo - nulla- risposi - stavo solo pensando come organizzare il viaggio-
Abbandonai l’ufficio e ripresi il regolare servizio, ma per tutta la settimana, quel pensiero non mi abbandonò, organizzai con meticolosa precisione il viaggio dal biglietto aereo all’albergo dove sarei alloggiato, non trascurando il fatto che dopo pochi giorni mi avrebbe raggiunto mia moglie, una ragazza Veneziana con la quale ero sposato da due anni e che non avrei lasciato sola per tutti quei quaranta giorni. Perché, se mi eccitava il pensiero del mio passato, non avrei trascurato per nulla al mondo quello che era il mio futuro, la mia dolce moglie.
Quel giorno, il sole splendeva in un cielo privo di nuvole; all’aeroporto di Venezia Tessera ero pronto con il mio bagaglio a mano e dopo tutte le perquisizioni di rito al metal-detector, che ormai dopo l’11 settembre 2001, erano più accurate di una risonanza magnetica, salutai mia moglie, sapendo, che anche se la mia eccitazione per quel viaggio era palpabile, mi sarebbe mancata prima di quanto io mi aspettassi.
Dopo aver sorvolato la laguna veneta e il tratto di mare che separava la Sardegna dal resto d’Italia, il “continente”, come veniva chiamata da ogni persona originaria di quell’isola, appena il comandante dell’aereo, annunciò che stavamo iniziando la discesa verso terra, informandoci come di rito delle buone condizioni atmosferiche; dal mio finestrino diradatesi le nubi, si incominciava ad intravedere la costa smeralda, il golfo degli aranci e la città Olbia. A quella visione, ebbi un fremito perché da quella altitudine era tutto come vent’anni prima, anche se mi pareva insolito che in tutti quegli anni la devastatrice mano dell’uomo non aveva costruito obbrobriose ville su quelle coste. Non appena atterrato, ed aver recuperato i bagagli, quell’incanto immediatamente si ruppe, nulla era come l’avevo lasciato, ma in un primo momento non me ne curai, perche avevo fretta di raggiungere il pullman, che mi avrebbe portato a Palau, quello era il nome del paese, da dove partivano i ferryboat per La Maddalena, e se avessi fatto presto, facendo qualche telefonata, sarei potuto andare a Santa Teresa di Gallura quello stesso giorno. Aspettative però disattese, perché il pullman partì con notevole ritardo, ma nonostante ciò, durante il tragitto da Olbia a Palau, mi gustai il panorama di quella natura selvaggia, con le sue granitiche rocce e i suoi alberi misteriosamente cresciuti su di esse, con il tronco piegato per il forte vento che in modo innaturale aveva continuato a fiorire per l’arco dei secoli; ricordandomi tutte le volte che in cinque anni, avevo percorso quella strada, ogni volta che andavo o tornavo dalla licenza.
Appena arrivato a destinazione, dopo un viaggio in ferryboat non del tutto confortevole, abbandonai del tutto l’idea di poter recarmi a Santa Teresa di Gallura, in quanto per il disbrigo delle pratiche alla scuola allievi, ci volle più di quanto mi sarei aspettato.
Poco male pensai, che diamine, avevo d’avanti quaranta giorni, sarei andato con il primo riposo.
L’indomani, tutto agghindato nella mia divisa ordinaria, che non indossavo da tempo, perché da quando avevo preso a far parte del servizio navale dell’arma, avevo usato quella di navigazione. Mi avviai alla scuola sottufficiali, dentro l’aula, mentre mi presentavo ai colleghi compagni di corso, guardando attraverso le finestre, notai gli allievi che marciavano e facevano le loro esercitazioni, ed ebbi subito una strana sensazione, che quei ragazzi fossero troppo giovani per essere dei marinai che imbracciavano un’arma, ma poi vedendo nello stesso vetro la mia immagine riflessa, con cupo stupore mi persuasi che non erano loro ad essere troppo giovani e fuori luogo, ma ero io ad essere troppo vecchio per i banchi di scuola. Cercai di abbandonare quanto prima quel pensiero, concentrandomi sul giorno di riposo.
Fui destato dall’entrata di un attempato ufficiale della Marina Militare, il quale ci ragguagliò dell’importanza di quel corso esortandoci al massimo impegno, anche se l’ufficiale, aveva pronunciato quelle parole con poca convinzione, sapendo in cuor suo che le sue esortazioni non sarebbero state da noi recepite.
Finite le lezioni, quella sera, decisi di rimanere nell’isola, perché volevo ritornare in un bar che facevano dei panini farciti con pancetta che erano una vera delizia, ed inoltre ero ansioso d’incontrare il vecchio proprietario, con il quale quindici anni prima avevo passato delle spensierate e divertenti serate.
Quando giunsi al bar, per poco non passai oltre non riconoscendo né il bar né il titolare, quel locale che era stato punto di ritrovo per i vecchi frequentatori del primo corso di specializzazione, era diventato una bettola buia e maleodorante, il titolare era un signore in evidente sovrappeso, con una pancia sporgente per i troppi bicchieri di birra e con una calvizie avanzata. Appena mi avvicinai con una certa riluttanza, questi dopo un primo ed attento sguardo aprì la bocca in un sorriso che metteva in mostra i dei denti ingialliti dal fumo e un incisivo di colore argento, pronunciando il mio nome con tono interrogativo. - Sei tu Gaetano?- ormai ero in ballo e dovevo ballare - Peppe? - ripetei io, ci abbracciammo, questi era impregnato dell’olezzo del fumo, dell’alcol e della tedia; ci raccontammo i vecchi tempi davanti ad un bicchiere di birra, sorridendo e annuendo entrambi più volte, ma poi la sua espressione si incupì, quando iniziò a raccontarmi le sue sventure, di come era quasi sul lastrico a causa del divorzio dalla sua ex moglie e che fra qualche mese avrebbe dovuto chiudere il bar, per i debiti contratti con banche ed a usurai, (non riuscendo a fare una distinzione fra gli uni e gli altri).
Io, evitai di raccontare come a me fosse andata meglio, dopo la birra, con una banale scusa mi alzai e con piacere lasciai quel locale che ormai da tempo non era più quello che avevo conosciuto. La prima tappa del mio “viaggio nel tempo”, era stata veramente disastrosa, ma feci di tutto per non pensarci.
Finalmente arrivò il sabato, e dato che avevamo fatto due rientri settimanali, avevamo finito le lezioni il venerdì pomeriggio ed avevamo sia il sabato che la domenica liberi, sino alle 08,00 del lunedì successivo.
Erano le 07,30, il sole picchiava forte come era solitamente fare nel mese di marzo in quella regione, feci in fretta il biglietto del ferryboat e imbarcato, iniziò la navigazione per la volta di Palau, che mi parve molto più lunga di quando effettivamente non fosse. Durante quel tragitto, anche se ero molto emozionato ed era una bella giornata di sole, che dava a quelle acque dei riverberi indescrivibili per la loro bellezza, non riuscivo a scacciare dalla mente l’incontro con Peppe o con quello che ne era rimasto, non potendo fare a meno di pensare quale sensazione avessi provato; se, anche a Santa Teresa di Gallura avessi fatto incontri di quel tipo, annebbiando quello che doveva essere il mio “viaggio nel tempo”. Mentre ero immerso mio malgrado in quei tetri pensieri, venni destato dai salti di alcuni delfini, che gioiosamente guizzavano ai lati del ferryboat e in quel modo riuscii a scacciare quei pensieri.
Sbarcato a Palau, dovetti aspettare circa un’ora prima che il pullman per Santa Teresa partisse, durante l’attesa mi recai ad un vicino bar ed ordinai due bottiglie di birra “Ichnusa” da portare via, una birra in voga nell’isola, uscii con le bottiglie in mano e fissando il mare iniziai a sorseggiare quella gelida bevanda, evitando di pensare quale poteva essere stata la disposizione dei locali vent’anni prima. Finita la birra nel frattempo era arrivato il mio “pullman del tempo”, salii a bordo e mi sistemai in un posto vicino al finestrino. Appena in movimento, aprii l’altra bottiglia ed incominciai a sorseggiarla, provando sollievo per la frescura che questa mi dava. L’essermi sistemato, vicino al finestrino non si rivelò una buona idea, perché, ogni volta che guardavo fuori e riconoscevo un luogo, questo era totalmente diverso, da come l’ho ricordavo. Quel viaggio, stava prendendo una piega che non avevo previsto e che non mi piaceva per niente, inoltre, l’immagine e le parole di Peppe continuavano a martellarmi in testa in maniera incessante, neanche la birra che avevo quasi finito, mi dava più sollievo. Erano trascorsi quasi trenta minuti dalla partenza e in lontananza si delineava, quello che vent’anni prima era stato l’incrocio che conduceva al porto dove vi era un chiosco che preparava dei frutti di mare in maniera sublime. Poco prima dell’incrocio, il pullman rallentò e svoltò per il porto; una donna che mi era seduta accanto, notando la mia sorpresa, mi disse che era da qualche mese che il pullman faceva una prima sosta al porto, poi andava in paese e dopo aver fatto una sosta di circa quindici minuti, ripassava per il porto per poi proseguire per Palau. A quelle parole, ebbi una rivelazione, capii che se fossi arrivato sino in paese, avrei per sempre rotto la mia “macchina del tempo”, in un lampo guardai la strada e mi resi conto che eravamo quasi arrivati alla fermata del porto, l’autista guardava nel retrovisore interno, per adocchiare se qualche passeggero si era preparato a scendere, io con un gesto fulmineo gli feci cenno, questo rallentò e aperta la bussola in tutta fretta scesi. Avevo bisogno di riflettere sul da farsi. Cosa meglio di un bel piatto di ricci crudi, piatto forte di Mario il titolare del piccolo chiosco.
Mi girai attorno e non vidi nessun chiosco, anche se in cuor mio l’avevo immaginato, andai verso le banchine del porto ed il bel panorama che si vedeva un tempo, guardando in direzione della Corsica, era stato deturpato da ville sontuose immerse, (per così dire, se di immersione si può parlare) in quel poco di macchia mediterranea che era rimasta. Tornai indietro con l’animo sempre più cupo e notai qualcosa che mi era sfuggita prima, forse volontariamente. Al posto del chiosco di Mario, vi era un bar dal quale proveniva una forte musica “tecno” e un tanfo di olio fritto stantio, con un’insegna raffigurante panini farciti con Wurstel e abbondanti salse variopinte che fuoriuscivano e vari hamburger, corredati da una foglia di lattuga ed irrorate con le stesse salse del primo, il tutto in un letto di patatine fritte. Mi resi conto immediatamente, che quel sogno si stava trasformando in un terribile incubo. Prima Peppe, uno dei ragazzi più in gamba della vecchia compagnia, ridotto in quella maniera, poi, il fatto che la gente che veniva a Santa Teresa o ancor peggio la gente del luogo, preferivano hot “dog ed hamburger” ai deliziosi frutti di mare del mitico Mario. Ancora immerso in quei pensieri, le mie nari vennero offese da un forte olezzo inconfondibile, quello classico delle persone che da tanto tempo non usavano né acqua né sapone, mi girai ed ebbi la conferma di quanto avevo sospettato, davanti a me, stava quello che rimaneva di un uomo sulla quarantina, con sguardo spento e con voce quasi meccanica, mi domandò se avessi qualche spicciolo. Mentre mi frugavo nelle tasche, notai che questi mi guardò fisso negli occhi e immediatamente, lo sguardo spento repentinamente si accese in uno sguardo misto di terrore e vergogna. Facendomi cenno con la mano che non voleva nulla, in fretta si allontanò. Rimasi inebetito per qualche istante con una moneta da un euro in mano, ma subito dopo iniziava a delinearsi nella mia mente, non più quel viso lercio ma un viso da i lineamenti gentili, e un ragazzo con il quale vent’anni prima avevo trascorso delle belle serate in compagnia di altri amici. Feci per seguirlo, ma qualcosa nel mio animo mi fermò. Ormai, avevo capito che la “macchina del tempo” si era rotta e se fossi andato avanti, avrei spezzato per sempre quei bei ricordi, quelle grigliate di notte sulla spiaggia con chitarre e falò.
Fermo in mezzo alla strada, vidi la mia immagine riflessa nella vetrina di quel troppo moderno bar e questa volta più che quando mi vidi riflesso in aula della scuola allievi, notai che anch’io, non avevo più nulla a che vedere con quel ventitreenne che vent’anni prima aveva mangiato ricci crudi al porto ed aveva prestato servizio in quel paese. Il mio agognato ritorno al passato, mi avrebbe soltanto rubato i miei ricordi. In lontananza, vidi il pullman che mi aveva portato in quel luogo che stava ripartendo per la volta di Palau; senza esitare, feci cenno con la mano e salii. Questa volta, presi posto in maniera tale da non vedere il paesaggio e per tutta la durata del viaggio non mi voltai, non volevo che nella mia mente altri ricordi potessero andare perduti.
Ritornai in fretta a La Maddalena, appena sceso dal ferryboat, andai su un bar, presi una birra ed un tramezzino e mi sedetti su una bitta di ormeggio al porto, in maniera da poter vedere in lontananza Santa Teresa di Gallura.
Da quella postazione ritornava ad essere quello che negli anni si era impresso nella mia mente, addentai il tramezzino, mandai giù un sorso di birra che ritornò a darmi piacevoli sensazioni e pensai a mia moglie che fra qualche settimana sarebbe venuta a trovarmi. Avendo la certezza che i miei ricordi erano salvi e che il mio futuro mi avrebbe riservato piacevoli emozioni. Presi il cellulare, composi il suo numero e quando rispose gli dissi “Ti amo”.

(Il presente racconto è opera di pura fantasia.
Ogni riferimento a nomi di persona, luoghi, avvenimenti, siano essi realmente esistiti od esistenti, è da considerarsi puramente casuale.)

La tomba del partigiano
La calura estiva era diventata insopportabile, la marea si era notevolmente abbassata, lasciando scoperte le alghe ai bordi degli scalini che, dalla piazza san Marco conducevano alla laguna e quasi come innervosita anch’essa, schiaffeggiava con continua flemma le gondole ormeggiate. L’olezzo stimolato dal caldo sole d’Agosto che, incessantemente percuoteva quel verde miscuglio di vegetazione marina e puzzolenti frutti di mare, diventava sempre più insostenibile, anche per i nasi più avvezzi a quel fetore, che contrastava con le immani bellezze della città.
Carovane di turisti, condotti come le mandrie di bovini di quei vecchi film Americani del “far west”, sudati e doloranti a causa del lungo camminare per le calli della città dell’antica Serenissima Veneta Repubblica, vociavano nelle lingue più bizzarre, da far sembrare la piazza san Marco e il suo maestoso campanile, come una moderna “Torre di Babele”.
Ripensavo a qualche giorno prima, fra i tavolini di un bar, dove lavoro come cameriere, avevo sentito parlare una coppia che diceva di essere appena tornata da un paese di montagna, “Canale d’Agordo” in provincia di Belluno, a poche ore di automobile da Venezia. - Carlo - diceva la donna seduta al tavolo, che aveva tutta l’aria di essere la moglie - perché siamo tornati così presto, appena una settimana, io non riesco a sopportare quest’afa. Ti prego, torniamo anche questo fine settimana, sono meno di tre ore di automobile. - E come una gatta che faceva le fusa, si avvinghiava alle braccia del marito, da sembrare un esotico pitone, con negli occhi lo stesso sguardo di quei cagnolini, che da sotto il tavolo con le zampette anteriori ti chiedono un tozzo di pane. - Vedrò cosa posso fare Roberta - rispondeva l’uomo, rivolgendosi a quell’animale mitologico che aveva avvinghiata al braccio, sapendo che quel “vedrò”, si sarebbe presto tramutato in un “agli ordini”. - Parlerò con il capo ufficio, per avere altri giorni di ferie per questo fine settimana.- Intervenni nella loro discussione, anche perché era da qualche minuto che la coppia non si curava della mia presenza - I vostri “Bellini” signori!- Mi guardarono entrambi con distacco, la donna quasi infastidita per aver interrotto quei momenti, ricominciava a riprendere sembianze umane, abbandonando le fattezze di quel miscuglio di animali e srotolandosi dal braccio del marito. Posai sul tavolo i loro bellini e lo scontrino, (questa era la politica del bar) e dopo aver incassato i quindici euro quello era il prezzo delle loro consumazioni mi allontanai.
Ridestatomi da quel pensiero, mosso quasi da una misteriosa forza, dato che avevo ottenuto due giorni di permesso, mi imbarcai sul primo vaporetto per il “Tronchetto” (località dove vi sono i parcheggi per le autovetture), per andare a prendere la mia auto in garage, per visitare questo Canale d’Agordo.
Ogni qualvolta ero libero, passavo le giornate a Jesolo lido, una località balneare poco distante da Venezia, molto popolata da giovani ed in riva al mare, trovavo sollievo dalla calura. Anzi a dire la verità, la montagna non mi aveva mai attirato, la trovavo monotona e triste, mentre il mare mi aveva sempre affascinato; non poteva essere altrimenti dato che sono Siciliano e saltuariamente avevo lavorato su una barca di pescatori ad Aci Trezza, una marineria in provincia di Catania, famosa per i suoi faraglioni, narrati da Omero nell’odissea e per i libri di Giovanni Verga, fra cui il più famoso è: “I Malavoglia”.
Ma quel giorno, ero come attratto da una strana forza e dalla curiosità.
Dopo aver viaggiato per circa tre ore, giunsi al paesino di Canale d’Agordo; la coppia non aveva per niente mentito, anche se era una splendida giornata di sole, si sentiva la frescura nell’aria che mi dava un enorme sollievo alla mia schiena ormai incollata alla maglietta dopo le tre ore di guida. Ancora prima del cartello di benvenuto, si notava uno striscione simile a quelli che si vedono negli stadi che informava che Albino Luciani, ossia Papa Giovanni Paolo I, era stato un onorevole cittadino di quel ridente paese e, che fra qualche giorno ci sarebbe stata una messa in suo onore, celebrata dal Vescovo di Belluno. Più mi inoltravo in quel paese e, più tutto sembrava come incantato, i “Tabià”, (che avrei scoperto in seguito che così erano chiamati delle caratteristiche costruzioni in legno, adibiti a fienili e a deposito per la legna, che sarebbe stata molto utile nei mesi invernali).
Tutt’attorno, ero circondato da verdi boschi di pini e l’odore dell’erba appena tagliata, inebriava l’aria di un profumo tanto denso da stimolare piacevolmente i sensi. Era ormai così lontano nella mia mente quell’olezzo delle alghe della laguna. Continuai a camminare a lento moto con la mia automobile, quasi senza neanche accorgermene, uscii dal paese, ma il paesaggio era tanto incantevole che continuai per cercare uno spiazzo, per potermi fermare e addentrarmi a piedi e diventare parte di quei boschi. Dopo pochi minuti, quello che vidi superò di molto le mie aspettative. Mi trovai su uno spiazzo e di fronte come se una potente mano di qualche mistica divinità avesse spostato gli alberi di quelle montagne, imponente correva l’acqua di una cascata che si divideva in due, una più in quota e l’altra più a valle, che rigogliosa diffondeva la sua musica per la valle scaturita dallo infrangersi dell’acqua sulle rocce della montagna. Parcheggiai immediatamente l’auto come se fossi in ritardo ad un importante appuntamento, e cercai un sentiero che mi portasse su quei boschi. Incominciai a camminare, imboccando il primo sentiero che trovai senza neppure essere sicuro in quale direzione stessi andando, né per quale motivo mi sentivo tanto attratto da quei boschi. Dopo circa un’ora di cammino, mi trovai immerso completamente nella vegetazione, al ché, capii che involontariamente avevo abbandonato il sentiero e mi ero perso; avanzavo in quella vegetazione, cercando di riprendere il senso dell’orientamento, ma l’unico senso che trovai fu quello di smarrimento, perché continuavo ad inciampare in sassi e radici che sporgevano dal terreno. Mi resi conto di essere stato imprudente ad avventurarmi senza una cartina né senza chiedere informazioni alla gente del luogo; comunque non provavo senso di panico, cosa che invece mi capitava, quando con i pescherecci prendevamo il mare, anche se le condizioni non erano ottimali. Mentre ero assorto in questo pensiero, sentii un fruscio fra i rami, mi girai di scatto perdendo l’equilibrio e caddi fra i massi rotolando a valle perdendo il senso dell’orientamento. Quando riuscii a fermarmi, non so dire con precisione per quanti metri ero rotolato giù a valle, venti, trenta metri, ma la cosa che mi apparve insolita era che il sole che qualche istante prima imperversava nella valle era sparito e il cielo si era improvvisamente ingrigito.
Mentre mi rialzavo per scrollarmi le foglie secche che mi erano rimaste attaccate addosso, e per vedere se avevo qualche escoriazione, una figura quasi irreale mi si avvicinava, era vestita in maniera bizzarra, aveva dei pantaloni grigi molto logori, una camicia chiara con le maniche arrotolate sino ai gomiti ed un fazzoletto rosso attorno al collo e mi si avvicinava silente, con un bastone nella mano destra. Come mi fu vicino circa una decina di metri, notai con stupore che quello che portava nella mano destra non era un bastone ma un fucile, ne ero sicuro, ma mi appariva al quanto strana quell’arma. Quando mi fu proprio davanti, notai con sicurezza che si trattava di un moschetto della seconda guerra mondiale, ne ero sicuro, perché qualche giorno prima, avevo visto alla tv un documentario sul ventennio fascista; il viso era molto giovane con una folta barba bionda e con delle lacrime che sgorgavano da grossi occhi chiari, rigandogli il viso per perdersi nella folta barba bionda.
Guardandolo bene, vidi che anche l’abbigliamento era simile a quello delle famose “Brigate Garibaldi”, brigate di partigiani che in quei funesti anni, si batterono dando il loro sangue contro il nazifascismo e per la libertà. Ma come poteva essere reale una simile visione? Cosa mi stava capitando? Prima che potessi in qualche modo raccogliere i miei pensieri, quest’uomo più simile a un’ombra fluttuante che ad un essere reale incomincio a parlarmi. - Non temere è da giorni che ti osservo, e oggi ti ho voluto incontrare - A quelle parole, mi sentii gelare il sangue nelle vene; io non ho mai creduto negli eventi soprannaturali, anzi ho sempre dubitato persino che Dio potesse essere un invenzione umana per discolparsi di immani nefandezze che in suo nome nell’arco dei secoli il genere umano ha compiuto, e continua compiere o solamente per dare una spiegazione illogica quando non ne trova una logica. Ma adesso ero pietrificato, come se avessi incrociato gli occhi della gorgone Medusa. - Non temere Salvatore - riprese quell’ombra con voce che tradiva il suo aspetto giovanile, lasciandomi ancora più atterrito dopo che questi aveva pronunciato il mio nome. Cercavo sempre più di convincermi che, nella caduta avevo violentemente battuto la testa e, se non mi trovavo all’altro mondo, dovevo certamente essere in preda al delirio. - Salvatore - continuò chiamandomi per nome, ti ho voluto incontrare, perché ho scrutato nel tuo animo e ho visto la tua semplicità, sono stanco di vedere come voi dimenticate così in fretta la storia e i sacrifici dei vostri fratelli.- Incredulo in un primo momento di ciò che mi stava accadendo, prima che potesse continuare replicai: - So che sei solo frutto della mia ammaccata mente, ma per quale motivo mi hai scelto? - decisi di assecondare quello che mi stava accadendo, sicuro che tutto sarebbe svanito quando mi fossi ripreso o tantomeno, se non appartenevo più a questo mondo, cosa poteva accadermi di peggio? - Io sono solo un cameriere, non mi sono mai interessato di politica, anzi penso, che il fetore emanato delle alghe al sole quando a Venezia vi è la bassa marea, debba essere profumatissima acqua di colonia al cospetto del marciume della politica! - Non temere - riprese a parlare - Volevo solo che una persona pura nell’animo, sapesse chi effettivamente sono stato: Mi chiamavano Guglielmo e vivevo felice in queste valli del mio lavoro, allevavo mucche e non mi mancava nulla fino a quando la guerra, quella sciagurata guerra e quell’infame dittatore… - Pronunciando la parola si interruppe come soprafatto da un’immane rabbia, e mentre ascoltavo quel racconto, sembrava che il partigiano lentamente prendesse forme umane e lasciasse le sembianze dell’entità ultraterrena. - Io,- continuo riprendendo una apparente rabbiosa calma - proprio come te ed è per questo motivo che ti ho voluto parlare, non avevo idee politiche, amavo le cose semplici, il lavoro, l’onestà e soprattutto la libertà.- Fintanto che continua quel mesto racconto, le lacrime scendevano più copiose dal viso, rompendo gli argini della folta barba e fermandosi al suolo. - La libertà – continuò dopo alcuni singhiozzi - Quella libertà che ogni uomo dovrebbe sentire nel cuore, non quella strumentale delle bandiere, dei simboli, alcuni di terrore altri d’onore, ma la libertà di essere libero. E non schiavo della libertà schiavo di chi ti libera dall’oppressore. Chi è più vile, l’oppressore che ti toglie la dignità? O il liberatore che liberandoti si sostituisce al primo per a sua volta opprimerti? - Mentre ascoltavo quello sfogo ero sgomento, e di rimando risposi in maniera accorata, dimenticando per un istante la totale assurdità di quello che stava accadendo. - Non vi è nessuna differenza! - dissi - Sia il primo che il secondo a mio parere, sono entrambi dei vili criminali, che nascondendosi sotto quelle bandiere e quei simboli così diversi fra loro, perseguono lo stesso fine. Sottomettere il popolo, barbaramente uccidendo tutti quelli che a questi si ribellano.- Ecco perché ti ho chiamato, perché volevo sapere se ancora a questo mondo, esistono persone che amano la pura e semplice libertà. Ora so, che fino a quando esisterà anche un solo Salvatore, il mio sacrificio non sarà stato vano. Addio Salvatore.- Io, quasi senza pensare a ciò che dicevo replicai:- Ti rivedrò ancora Guglielmo? - Il partigiano rispose ancora prima che io potessi finire la frase - Ogni volta che vorrai, nel profondo del tuo cuore.- E nello stesso modo che era apparso svanì.
Assorto com’ero in quei pensieri, non mi accorsi che era ritornato il sole e che avevo sia i capelli impastati che la maglia intrisa di sangue, e allora subito pensai che tutto quello che avevo creduto di aver visto ed aver sentito, altro non fosse frutto della rovinosa caduta che mi aveva sicuramente procurato un trauma cranico ed il successivo delirio. Ma toccandomi la testa, notai che non avevo alcuna ferita e nelle vicinanze non vi era anima viva né altre macchie di sangue. Dunque quel sangue non poteva essere che mio. Anche se tutto questo mi turbava, nell’animo ero contento che a tutta quella irrazionalità, non vi riuscivo a trovare una logica spiegazione. Ed ero sicuro che da quel giorno, anche se in maniera graduale, sarebbe cambiato anche il mio rapporto con Dio.
Come in uno stato di catalessi, raccolsi alcune pietre, e li misi a cerchio nel modo da formare un grande vaso, poi presi parte di una corteccia di un albero, e giratola dalla parte più liscia, la pulii con la manica della mia maglia, e con il coltellino del mio cavatappi che solitamente uso al bar per aprire la bottiglie di vino e che inavvertitamente, avevo lasciato nella tasca dei miei pantaloni, incisi la scritta: “Al Partigiano difensore della libertà”. Dopo presi delle margherite, e le riposi in quel rudimentale vaso di pietre che avevo creato. Mentre mi allontanavo, mi parve di vedere nel cielo un arcobaleno, cosa al quanto strana, perché l’erba era asciutta, dunque non aveva piovuto anche durante la mia per così dire temporanea assenza dal mondo reale. Ma ormai le stranezze facevano parte di quella giornata, e volli credere che la visione dell’arcobaleno altro non fosse che la voglia di vedere quei colori, simbolo di pace, mandato come saluto dal partigiano.
Mentre mi allontanavo, stranamente ritrovai il sentiero che avevo perso, e dall’alto intravedevo il parcheggio dove avevo lasciato la mia automobile.
Appena all’automobile, ripresi la strada per Venezia, convinto che vi sarei ritornato presto per riporre altri fiori e sicuro che avrei ritrovato senza alcuna difficoltà, il sentiero per la tomba del partigiano.

La mostra d’arte
Il vociare della gente rimbombava come gli echi degli strumenti che si accordano in teatro prima di un concerto, in quell’enorme sala, dai soffitti altissimi, pienamente affrescati che purtroppo non riuscivo a distinguerne il tema, angeli, demoni, in quel groviglio di corpi erano quasi un sol figura, certamente doveva essere una raffigurazione sacra. L’aria era intrisa dell’odore di vecchio, di chiuso, il classico odore dei vecchi quadri chiusi in antiche cornici dorate, quelle opere d’arte prigioniere in bui musei, schiave di sofisticati allarmi, oggi erano gli attori di una antica tragedia greca, con le loro stesse maschere, interpretavano loro stessi, i loro creatori.

Uomini di mezza età distinti, con l’aria interessata e con il fare annoiato, accompagnati da elegantissime e truccatissime signore, la quale età era indecifrabile a causa dei canotti rossi che erano le loro labbra e dal decolté rigonfiato dal silicone. Ostentavano gioielli, come se fossero queste le vere opere d’arte esposte e da ammirare, senza tanto celare il totale disinteresse per i veri oggetti della mostra d’arte. - Filippo - una di queste donne con voce al quanto sostenuta, tanto da farsi sentire anche dalle altre persone che le stavano vicino, ma senza trascendere nell’ineducazione, rivolgendosi a un uomo vestito come il proprio accompagnatore, che doveva essere il marito, che aveva le sembianze di un grosso pinguino appena scampato all’attacco dell’orso polare, - Hai sentito che a questa mostra serviranno del comunissimo salmone, anziché il caviale come gli altri anni? - prima che l’uomo potesse prendere la parola, la sua dama che doveva essere la moglie, anch’essa una buffa e grassa caricatura, ornata di gioielli come un cavallo bardato a festa per trainare i carretti Siciliani, fulminea intervenne - Hai proprio ragione mia cara Adele - questo doveva essere il nome della dama, - Ma guardati intorno, oggi giorno alle mostre fanno entrare chiunque – guardandosi intorno – Il salmone è anche troppo per gente come quella. – Volgendo lo sguardo con gli occhi pesantemente truccati, che la facevano apparire come un vecchio pugile suonato che le aveva appena prese di santa ragione, - Non posso darti torto cara Gilda - questo doveva essere il nome di quest’altra goffa creatura; ed entrambi volgevano nella stessa direzione quel miscuglio di vari cosmetici che erano i loro inespressivi visi.

Volgendomi nella direzione indicata dalle due donne, notavo dei ragazzi e delle ragazze mal vestiti, che con spregio commentavano quei secoli di arte, - Ma guarda bene – ­­­diceva una ragazza che indossava una camicia da uomo in Jeans di due o tre taglie più abbondanti delle sue reali misure, un paio di pantaloni mimetici da uomo, anche questi notevolmente più ampi della sua reale taglia, e con una strana pettinatura intrecciata sul capo che emanava uno sgradevole odore, al ché pensai che dovessero essere diversi giorni che quel crine, era estraneo sia all’acqua sia a qualsiasi tipo di detergente per l’igiene personale. Rivolgendosi ai membri della sua compagnia, anche questi vestiti allo stesso modo, come dei militari pronti per una battaglia, e subito pensai che sia il primo gruppo di persone così buffamente ben vestite, che questi altri completamente diversi, nella loro diversità dovevano essere uguali. – Questa, hanno l’insensatezza di chiamarla arte, sono dei ritratti inespressivi e null’altro! - nonostante fossi sconvolto da simili affermazioni, rimasi ad ascoltare perché ero curioso di sentire cosa avrebbero replicato gli altri ragazzi, anche se non mi sarei stupito della risposta che ne seguì -E’ proprio vero – istantaneamente rispose uno dei ragazzi di quel gruppo irrorando il suo commento di volgarità irripetibili - Pensa li chiamano artisti?Come può essere frutto di un artista, una, anche se reale riproduzione di corpi, pittori senza alcuna inventiva, alcuna personalità, altro non erano che antichi fotografi.-

A quelle affermazioni, mi allontanai perché non volevo sentire altro di quanto udito. Mentre i miei occhi facevano beare la mia anima tra un “Tiziano” un “Canaletto” un “Tintoretto” e altri immani pittori di quelle fiorenti epoche, finalmente, a far beare la mia anima non furono solo i miei occhi, ma anche il mio udito, sentendo in lontananza un tale sulla cinquantina, vestito decentemente con degli abiti non vistosi né per eleganza né per trascuratezza, una giacca di velluto beige con delle toppe marroni, sopra una camicia bianca ben inamidata e chiusa da un papillon rosa e un pantalone ben stirato dello stesso tessuto della giacca, che aveva tutta l’aria di essere un professore universitario intento a spiegare a dei ragazzi totalmente diversi sia per l’abbigliamento che per l’olezzo, e in cuor mio speravo anche per intelletto, di quelli che avevo visto e purtroppo udito prima. Furtivamente mi avvicinai per meglio udire quelle spiegazioni.

Avvicinatomi a una distanza tale che mi consentiva di bene udire le parole, finalmente, fissando quei dipinti e ascoltando con attenzione le parole, mi sembrava di vivere in quei misteriosi anni, vedere quelle polverose botteghe, sentire l’acre odore di quei colori abilmente impastati da quei maestri. Pur fissando intensamente quei dipinti pian piano nella mia mente si scolorivano fino a diventare una bianca tela, e vedevo quegli immani maestri che con sapiente amorevolezza, intingevano i pennelli nelle misture sapientemente prima preparate e brandendoli con la stessa fierezza del paladino che impugna la scimitarra e colpisce il Saraceno, si avventava su quelle candide tele, con l’unica differenza che il paladino avrebbe distrutto o la sua o la vita del Saraceno, mentre il maestro avrebbe dato vita ad una immane gioia che per secoli, avrebbe fatto beare generazioni e generazioni di persone, (ad eccezione degli stolti in cui mi ero abbattuto prima), ed a ogni pennellata, come per incanto si materializzavano quelle figure irrorate da misteriosa luce che da epoche erano impresse in quelle tele.

Mentre ero assopito in questi miei beati pensieri, venni destato da quell’incanto da un lieve pianto, contemporaneamente, mi accorsi che anche colui che doveva essere il professore, interruppe la sua spiegazione, in quanto anch’egli, era stato scosso da quel pianto. Guardando con attenzione, notai un uomo tarchiato e basso con le spalle curve per gli affanni di usuranti lavori sin dalla giovane età, (cosa che sarebbe stata impensabile per i giovani olezzanti e gli uomini pinguino incontrati poco prima), parzialmente calvo, di circa settant’anni, con la pelle visibilmente bruciata dal sole, gli occhi scavati, un viso scarno rigato da lacrime che descrivevano delle ellissi, per circoscrivere le rughe che ne segnavano il volto; avvolto da una camicia che destava subito agli occhi, i numerosi lavaggi che questa aveva dovuto subire e con il colletto leggermente ingiallito, abbottonato sino all’ultimo bottone e priva di cravatta; una giacca scura visibilmente consumata e i pantaloni uguali alla giacca sia per il colore che per l’usura. Nelle mani teneva un basco nero che martoriava con le grosse dita callose, tipiche di chi con l’uso di quelle mani si guadagna da vivere.

Senza esitare, mi avvicinai per chiedergli se avesse bisogno di aiuto e con la coda dell’occhio, notai che il presunto professore del quale non mi ero più curato, istantaneamente ed in silenzio mi seguiva. - Scusatemi? – incominciai, ma non ebbi alcuna risposta, - Scusatemi - ripetei, ma l’uomo sembrava come in uno stato di trance, come se in quella sala non ci fossero altri che quella raffigurazione del Bacino san Marco di Venezia del 700 e lui. - Scusatemi -, ripetei, questa volta scuotendolo per un braccio con tutta la delicatezza di cui ero capace, finalmente destando la sua attenzione. - Comandate signore-. L’uomo cominciò ancor prima che io potessi proferire parola - Vi è successo qualche cosa di grave? Avete bisogno di Aiuto? - immediatamente replicai e mentre interrogavo l’uomo, il professore mi stava alle spalle visibilmente incuriosito da quello strano accadimento.

L’uomo, a quella mia domanda e guardandosi intorno, come se per la prima volta si rendesse conto in quale luogo si trovasse, asciugandosi gli occhi con un gesto repentino dell’avambraccio e arrossendo visibilmente, replicò: - perdonate signori, - riferendosi anche al professore che ormai mi era quasi al fianco - non è successo nulla di grave , sto bene, ma mentre guardavo queste scene dipinte, la naturalezza di questi movimenti raffigurati… Sapete, io sono un contadino e coltivo un campo di radicchio nelle campagne di Treviso - stavolta mentre arrossiva, abbassava lo sguardo con un senso di vergogna, e subito dopo continuò dicendo, - Io, non ho mai studiato, sia per colpa mia sia perché era più importante che dessi una mano a mio padre nei campi. Ma amo guardare spesso quei documentari, sapete quelli che danno a volte alla tv?- . -Si- replicammo in coro io e il professore. - Non avevo mai visto dal vero quei dipinti che mostravano in tv – continuò l’uomo – È adesso, nel guardarli, provo una sensazione tanto starna che non so spiegare. Sapete, quando ascoltavo le spiegazioni che davano in tv di quei dipinti simili a questi, non riuscivo a capirne il significato, ma ora, mi sento come rapito dalla loro bellezza e mi sembra di sentire le grida dei commercianti in piazza san Marco, l’odore del sudore dei rematori su quelle barche – diceva mostrando un quadro del canaletto raffigurante il bacino san Marco, e continuando a parlare con la voce spezzata dalla commozione e il volto rigato dalle lacrime – La perfezione di quei corpi muscolosi e la luce che emana quel cristo, quello sfondo nero pieno di luce,- indicando un altro quadro di Tiziano, - mi ricorda la semplicità dei miei campi, la bellezza delle montagne che leniscono la fatica e il dolore delle vesciche provocate da lunghe ore di zappa. E non ho potuto e non posso fare a meno di commuovermi.- Incantato da quelle parole che nella mia anima risuonavano come meravigliosi versi di grandi poeti, non riuscii a replicare, ma pronto il professore che ormai mi stava qualche passo avanti, seguito dai suoi allievi, che pendevano dalla sue labbra, come gli apostoli del Cristo raffigurati nell’ultima cena di Leonardo da Vinci, con la voce spezzata dalla commozione, volgendosi soprattutto ai suoi allievi, replicò: - Mio caro amico - così chiamò quell’uomo che continua a sgorgare lacrime dagli occhi. - Oggi, sia io che miei allievi, vi siamo grati perché ci avete dato una delle più intense e importanti lezioni che uno studioso dell’arte possa ricevere. Come distinguere se un’opera d’arte è tale oppure solo qualcos’altro.- Sia io che l’uomo che nel frattempo aveva smesso di piangere, ascoltavamo esterrefatti quell’accorato discorso del professore. - E oggi, grazie a voi caro amico - continuava rivolgendosi al contadino – Affermo con certezza “che se una qualsiasi opera d’arte è apprezzata con commosso trasporto, da chi all’arte non è avvezzo, quella e solo quella è una vera opera d’arte!”.- Dopo aver pronunciato con estrema solennità quelle parole, si volse verso il contadino, gli strinse la mano, lo ringraziò e con la schiera dei suoi “discepoli” si allontanò, mentre il contadino ancora incredulo per quelle parole che avrebbe continuato fiero a raccontare nei campi mentre coltivava il radicchio e la sera all’osteria, ancora più emozionato di quanto lo avevo incontrato continuava a fissare quei quadri, lasciando che le lacrime continuassero a rigargli il volto incurante di quanto lo circondasse.

Io stavo per salutarlo, ma nel vederlo tanto assopito, nell’osservare quei dipinti, non volli distoglierlo da quell’incanto. Mi allontanai felice di aver visitato una affascinante mostra d’arte e di aver incontrato il miglior critico d’arte che avessi mai potuto incontrare.


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