Racconti di Stefano Giannini


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Festa al castello
Benché il castello si ergesse in mezzo al parco, circondato da piante d'alto fusto, alcune esotiche, per la sua mole e per la posizione dominante sulla valle, era ben visibile anche da lontano. Si distingueva per i muri in mattoni rosso bordò, i balconi di marmo bianco, le ampie finestre e il grande tetto di coppi a quattro spioventi. Aveva 20 stanze distribuite nei tre piani, un'ampia sala e, nell'interrato i magazzini e le grandi cantine.
Era uno di quei palazzi signorili dell'epoca risorgimentale, dalle linee architettoniche semplici, ma solido e imponente a confronto delle altre abitazioni del borgo, umili casette in pietra. Era stato costruito attorno al 1830 dal bisnonno dell'attuale proprietario, sulle rovine dell'antico castello medioevale crollato per avversità atmosferiche e dall'incuria degli uomini; del "castello" aveva mantenuto il nome.
Il signorotto, proprietario terriero, e la sua famiglia che l'abitavano erano serviti e riveriti da tutti i 500 abitanti del posto e dei territori circostanti ;
per lo più famiglie contadine che lavoravano a mezzadria i suoi trenta poderi.
Per le grandi occasioni quali; anniversari, matrimoni, fine trebbiatura, fine vendemmia o feste religiose, nella villa si tenevano santuose feste che si protraevano fino all'alba, fra musiche, balli, lauti pasti e libagioni.
Gli invitati erano selezionati fra parenti, notabili, amici esclusivi, signore e signori d'alto rango, oltre a rampolli di famiglie dello stesso ceto sociale, cioè latifondisti.
In quell'uggiosa domenica, prettamente autunnale di fine ottobre, al palazzo vi era molto movimento, continuavano a giungere ospiti, i più a cavallo o col calesse, alcuni anche in auto. Al tempo erano ancora pochi a possederne una.
Si festeggiava il fidanzamento ufficiale della signorina Marilinda, l'ultima figlia del padrone, col Sig. Italico. Gli invitati, come il solito erano numerosi: diverse coppie elegantemente vestite, alcuni scapoli figli di papà, fra i quali anche un'ufficiale dell'esercito che con la sua alta uniforme attirava gli sguardi delle ragazze.
Per la gente del contado questi erano avvenimenti da non perdere.
In tanti, per lo più donne e bambini del popolo, erano sulla strada nei pressi del cancello della villa fin dal mattino a perdersi gli occhi nell'ammirare tutta quel fior fiore di nobiltà che, alla spicciolata, stava arrivando.
I signori del "castello" ricevevano gli ospiti sulla porta di casa, mentre i servitori si prendevano cura dei cavalli.
In casa, fra cuoche, cameriere ed aiutanti, erano una dozzina, tutti affaccendati nei vari servizi per la buona riuscita della festa.
A dirigere i lavori era la signora Norina, coadiuvata dalle tre figlie : Armida: trentenne, la più grande, Elisabetta, la mezzana 22 enne, e Marilinda, la festeggiata, di anni 19. Tutte tre molto belle, colte, gentili e simpatiche.
Delle tre, Marilinda, era l'unica mora di tipo mediterraneo, capelli lunghi e sciolti, occhi scuri, sguardo dolce e intenso; dava dei punti alle sorelle anche per eleganza e avvenenza. Da pochi mesi avava conosciuto Italico, un giovane alto, biodo, aitante, una diecina d'anni avanti a lei.
Era a tutti noto come ufficiale di polizia di stanza a Roma, solo in pochi conoscevano la sua vera mansione segreta di guardia particolare del Duce.
Nel pomeriggio, dopo il pranzo, meglio dire il banchetto, quando le musiche e i balli erano iniziati, in sella ad una fiammante moto rossa, arrivò il Sig. Riccardo, altro giovane simpatico e di bell'aspetto, ben noto alla gente del borgo per averlo visto tante volte a fianco a Marilinda di cui era ancora pazzamente innamorato.
Dietro pressione paterna lei era stata quasi costretta a lasciarlo per quel "bell'imbusto" al quale oggi faceva promessa di matrimonio.
Anche Riccardo era di famiglia benestante, ma per il padre, avere per genero Italico, così vicino a Mussolini, era il massimo dell'onore e del prestigio, una ghiotta opportunità da non perdere.
A Marilinda piaceva molto Riccardo, forse ne era ancora innamorata ma, per l'educazione ricevuta, per rispetto e obbedienza, non osò contraddire il padre e, seppur incerta, accettò la corte dal bell'Italico dagli occhi di ghiaccio.
Ma chi mai avesse invitato alla festa Riccardo non si seppe mai, si può solo supporre.
Naturalmente, quella sera, Riccardo si sentiva come un pesce fuor d'acqua. Per quanto si sforzasse, non riusciva a togliere lo sguardo da Marilinda, la quale ogni tanto la ricambiava con fugaci e furtive occhiate.
Mentre Italico, dopo aver ballato si sedette a bere e conversare con alcuni amici, Riccardo, incoraggiato dagli sguardi dolci di Marilinda, le chiese di ballare. In quel momento i musici intonavano un bel tango che i due ballarono con trasporto e passione, al tango seguì la mazurca ed un valzer .
La festa proseguì in gioiosa allegria. La signora Norina e le figlie: Armida ed Elisabetta, intrattenevano gli ospiti con sapiente bon ton.
Verso mezzanotte, ad un attento osservatore, non sarebbe sfuggito l'assenza un po troppo prolungata dalla sala di Marilinda e di Riccardo, senza che ciò non destasse maliziosi sospetti.
Infatti, l'attento osservatore di tutti i movimenti dei due durante tutta la serata, a partire dai balli, era Italico, che fin dall'arrivo di Riccardo non si era perso uno dei loro sguardi espressivi, fremendo in cuor suo, di rabbia e gelosia.
Verso le tre di notte gli ospiti un po alla volta congedandosi, lasciarono "il Castello".
Fuori li attendeva una notte buia, umida e nebbiosa.

Il mattino successivo, lunedì verso le sette, tre ragazzini del villaggio scendevano a piedi cantando e saltellando, con le loro borse di cartone in mano, per recarsi a scuola giù nel paese, com'erano soliti fare, invece di percorrere la carrozzabile troppo lunga e tortuosa, tagliarono per l'accorciatoia.
Un ripido sentiero ma che permetteva di evitare i numerosi tornanti e giungere a scuola in 20 minuti anziché 45.
A mezzo percorso, appena sotto la scarpata di un tornante, il terzetto di colpo si bloccò.
Un uomo giaceva scomposto a terra seminascosto dai cespugli. Gli indumenti bagnati e infangati, gli occhi sbarrati, vicino alla testa una grossa chiazza di sangue rappreso. Era sicuramente morto, di questo ne furono subito certi a prima vista.
I tre ragazzi, passato il primo momento di attonito stupore, corsero via terrorizzati e spaventati chiamando aiuto.
Accorsero subito diverse persone, arrivarono anche i carabinieri che con un telo coprirono il cadavere e allontanarono la gente che nel frattempo continuava ad affluire chiedendo chi fosse lo sventurato, e come era successo. Corse subito la voce che fosse accidentalmente caduto dalla scarpata.
Pian piano il nome dell'uomo che aveva trovato la morte in un così banale incidente si sparse veloce come un terremoto, prima nel villaggio fra quella gente pacifica, poi nel paese e in tutta la zona.
Le persone che lo conoscevano almeno di vista, così rispondevano a coloro che non sapevano chi fosse e perché si trovasse da queste parti : " era un bravo giovane, un signore, veniva dalla toscana. Per circa un anno ha frequentato la villa " Il Castello" facendo la corte alla bella Marilinda, il suo nome è Riccardo. I signori del Castello sono stupiti, addolorati e affranti. Marilinda appena l'à saputo si è chiusa in camera a piangere disperata.
Si dice che egli abbia lasciato la festa verso l'una, forse un po' brillo, si sia poi incamminato nella notte buia lungo la strada e, invece di imboccare il sentiero, sia finito per la ripida scarpata del tornante alta 5/6 metri e rotolando giù abbia battuto la testa sulle pietre sottostanti.
"
I carabinieri iniziarono le indagini, interrogando i signori del Castello, la servitù e tutti gli ospiti della festa senza alcun risultato, anche perché nessuno affermava di averlo visto partire. Il povero Riccardo avrebbe lasciato la festa senza salutare nessuno, neppure Marilinda. Le indagini proseguirono per una settimana senza approdare a nulla di concreto.
Visti i personaggi della vicenda, tutta gente per bene e al di sopra d'ogni seppur vago sospetto, il caso fu presto archiviato come "un fatale incidente avvenuto senza il concorso di terzi; causato solo dall'alcool e dalla scarsa conoscenza dei luoghi da parte del soggetto", così stava scritto nel verbale dei Carabinieri.

Ma negli abitanti del villaggio gli interrogativi, le supposizioni, il sospetto che invece, fosse stato un delitto ben orchestrato da qualcuno e fatto apparire come incidente, continuarono per anni. L'interrogativo più intrigante, al quale i carabinieri avevano dato una sommaria e affrettata risposta, era il perché fosse partito a piedi lasciando la sua bella moto nel cortile del palazzo.
La risposta, a detta di loro, era ovvia : conscio di essere alquanto alticcio, per non rischiare, aveva preferito avviarsi a piedi fino alla Strada Statale.
Del resto, la Benemerita, scartò subito l'ipotesi del delitto anche per non aver trovato uno straccio di movente.
Un anno dopo la "disgrazia", Marilinda convolò a nozze con Italico e andarono a vivere "felici" a Roma, ove l'aitante poliziotto fece carriera divenendo colonnello dei servizi segreti.
In breve tempo anche Armida ed Elisabetta si sposarono lasciando per sempre "il Castello". Il sig. Padrone e la Signora restarono ad abitarvi per lunghi anni ancora, soli con la servitù. Mentre l'antico borgo pian piano spopolò lasciando le case vuote e mute. Le grandi feste cessarono e con esse si chiuse definitivamente un'epoca.

In un giornale della capitale del 10 Dicembre 1978 , nelle pagine di cronaca nera, per caso lessi un articolo dal titolo : "Ex colonnello dei servizi segreti sul punto di morte confessa un lontano delitto".
Nel pezzo era descritta tutta la storia …. ; prima ai famigliari poi al prete che al capezzale lo assistevano nell'ultima ora di vita, raccontava come tanti anni prima, aveva ucciso per cieca gelosia un rivale in amore dopo averlo sorpreso in intimità con la sua donna la sera del fidanzamento.
Quella notte, dopo averlo condotto, vicino alla sua automobile con una scusa, l'uccise con un micidiale colpo di crik sulla testa, poi caricatolo in auto lo gettò per la scarpata della strada, facendo in modo che apparisse come un incidente.

Il narratore era uno dei tre ragazzini di quarta elementare che, in quel lontanissimo lunedì mattino, "inciamparono" nel corpo del povero Riccardo.
A ricordarlo oggi, avverte ancora brividi sulla pelle.

I ponti del Duce
Abbarbicati su quei tralicci di ferro, sospesi a sessanta metri da terra o meglio dal fiume sottostante, visti in lontananza sembravano cavallette. Erano gli spericolati acrobati, verniciatori dei ponti di ferro che si stagliavano maestosi e solenni nella loro architettura a cavallo del fiume Savio, distanti qualche chilometro fra loro. Dalla gente della valle erano conosciuti come " I ponti del Duce".
Quei quattro giovani venuti dalla città, per diletto facevano gli alpinisti rocciatori e, per lavoro, la verniciatura dei ponti di ferro in giro per l'Italia, anch'essa un'attività alquanto pericolosa ma ben remunerata.
Per almeno sei mesi l'anno stavano appesi come pipistrelli in quel groviglio di putrelle di ferro, strutture portanti del soprastante piano stradale, con il pennello in mano e il secchio di vernice nera legato alla cintola.
Avevano appaltato dall'ANAS la verniciatura dei tre magnifici ponti voluti e realizzati nel 1922/23 da Mussolini, per favorire la viabilità nella sua terra di Romagna, i quali, dopo 20 anni, necessitavano di una nuova mano di vernice protettiva.
Da queste parti erano conosciuti, stimati ed ammirati dai ragazzi della zona, ma specialmente dalle ragazze che, molto timide e riservate, senza farsi scorgere, se li mangiavano con gli occhi.
Alloggiavano in una pensioncina del paese. Alla domenica mattina andavano in chiesa, con lo scopo principale di vedere da vicino le ragazze che, altrimenti, sfuggivano veloci ad ogni fortuito incontro.
In questo benedetto paese il ballo era bandito ad eccezione di qualche rara festicciola ad invito in case private. Perciò le occasione d'incontro erano rare.
Malgrado queste difficoltà date dalla cultura chiusa, severa, piena di preconcetti e tabù del tempo, Giorgio, il ragazzo più aitante dei quattro, dopo una corte assidua e spietata durata quasi due anni, riuscì a conquistare Adele, una stupenda ragazza mora figlia del farmacista del paese.

Giorgio e Adele bruciarono subito d'amore e di passione. Nei primi tempi i loro incontri furono brevi e fugaci. I primi appuntamenti avvenivano solo di giorno nei luoghi più protetti da occhi indiscreti, poi all'uscita della chiesa o nelle vie del paese; furono sempre più intensi fino a quando lui dovette presentarsi ai genitori di lei e dichiarare ufficialmente il suo amore sincero per la loro adorata figliuola.
Da quel giorno fu accolto in casa come un figlio. Alla madre, Signora Lucia, piacque subito quel ragazzo gentile e di bell'aspetto, dall'aria romantica e dai modi garbati.

Tre sere la settimana era a casa di Adele, sotto lo sguardo vigile della mamma. Trascorreva con lei tre/quattro ore, approfittando di baciarla nei brevi momenti in cui la madre si assentava.
In seguito escogitarono ogni pretesto e scusa per restare soli e, finalmente, il loro "furore" passionale represso ebbe il naturale sfogo, consolidando così sempre più il loro rapporto d'amore.
Gli amici convennero nel considerarlo ormai "cotto e fritto a dovere".
Sul lavoro non mancarono di sfotterlo: " Giorgio, cosa ti succede ?… Conquistare le ragazze, divertirsi con loro, innamorarsi un po', è del tutto normale, ma perdere la testa così è da matti; anche se la tua Adele certamente merita. Ravvediti e ritorna in te fin che sei in tempo ! "
Ma egli non sentiva ragione e rispondeva deciso: " Sì..., lo ammetto, sono cotto di Adele e me la voglio sposare, se Dio vuole."
E così fu. Si sposarono nell' ottobre del 1942, una giornata fresca, ma piena di sole che rese più luminosi i loro volti e più gioiosi i loro cuori, anche se già si sentivano soffiare i venti malvagi della guerra che sempre più minacciosa si avvicinava.
Anche il Parroco vide che erano fatti l'uno per l'altra e benedì volentieri
quella unione; aveva visto crescere Adele, serena e mite, vicino alla chiesa.
Gli sposini non andarono ad abitare giù in città, restarono in paese nella villetta in mezzo al verde di proprietà dei genitori di lei.
Lui, nei mesi estivi, continuò, con dedizione, a verniciare i tralicci dei "suoi" ponti.
Lei ad insegnare nella locale scuola elementare. Avevano rispettivamente 25 e 23 anni ed erano felici.
La pace, la serenità ed il loro quieto vivere non durò molto. Nell' ottobre del '44 quando già il loro primogenito Matteo aveva poco più di un anno, la loro vita e quella degli abitanti della valle fu sconquassata dall'arrivo del fronte e dalla conseguente occupazione della zona da parte dell'esercito tedesco, poichè il territorio si trovava entro la Linea Gotica: ultimo strategico baluardo di resistenza e di ostacolo all'inesorabile avanzata dal sud delle forze alleate.

Il capitano Mayer, capo del comando tedesco del settore che comprendeva il territorio dei tre ponti, s'insediò con i suoi uomini in una villa signorile distante cento metri dal primo ponte a monte del fiume, dopo averla confiscata ai legittimi proprietari. Ben presto iniziò ad intimorire quelle pacifiche popolazioni con terrificanti proclami.
Grandi manifesti bianchi scritti con inchiostro nero in italiano e tedesco, affissi in tutti i ritrovi e uffici pubblici: bar, osterie e sul muro della chiesa, minacciavano di morte tutti coloro che avessero nascosto o aiutato in qualche modo gli odiati partigiani.
Se poi veniva ucciso un soldato tedesco, sarebbero stati fucilati trenta civili scelti a caso. In altri manifesti era annunciato il coprifuoco, durante il quale chiunque fosse stato trovato per strada o fuori casa dopo le otto di sera sarebbe stato fucilato sul posto.
In altri ancora si intimava agli uomini ancora validi di andare a lavorare per la T.O.T. (la loro efficiente organizzazione logistica), per scavare trincee o rifugi antiaerei, altrimenti sarebbero stati prelevati con la forza.
Un giorno apparve un manifesto in cui si affermava che i tre ponti sul Savio erano stati minati per farli saltare dopo che l'ultimo convoglio tedesco in ritirata vi fosse transitato, e di stare all'erta perché lo scoppio dell'enorme massa di tritolo avrebbe causato una tale onda d'urto da far crollare le case del circondario, ma che in ogni caso, la gente sarebbe stata allertata col suono della sirena qualche ora prima dell'accensione delle micce.
Giorgio, che fortunatamente era stato esonerato dal servizio militare poiché unico sostegno alla famiglia, per paura di essere preso dai tedeschi ed inviato in Germania, con altri uomini del paese si era dato alla macchia.
Ogni tanto, di notte, furtivamente, ritornava a casa per abbracciare la sua adorata Adele e il figlioletto Matteo che cresceva forte e sano, ignaro dei drammi e delle preoccupazioni cui erano soggetti gli adulti, e per restare con loro qualche ora e poi fuggire prima dell'alba, dopo aver riempito lo zaino di provviste.
Adele era ancora una bellissima ed affascinante donna, nei cui occhi si specchiava il cielo, ma sul suo volto olivastro dai tratti mediterranei classici, s'intravedeva un velo di tristezza e sofferenza dati dalla preoccupazione per gli eventi bellici in atto. Tutte le notti vegliava ansiosa, attendendo l'arrivo del suo amato Giorgio. Lo pensava costantemente in mezzo agli stenti, muoversi continuamente nei boschi e dormire in qualche anfratto disteso sulle foglie come gli animali.
Prima dell'alba di un grigio mattino autunnale, mentre era ancora a letto stretta al suo bambino, sentendo bussare alla porta ebbe un tuffo al cuore pensando fosse Giorgio, anche se l'ora non era solita. Mentre lestamente si vestiva, ribussarono ripetutamente con forza intimando di aprire subito.
Aperta la porta, fecero irruzione in casa cinque soldati tedeschi con divise nere, erano le famigerate SS. Con le armi spianate e fare minaccioso, chiesero dove aveva nascosto il marito. Adele piena di spavento, tenendo il suo bimbo stretto al collo, rispose che non c'era in casa e non sapeva dove si trovava. Rovistarono in tutte le stanze: aprirono i mobili e misero a soqquadro la casa. Il tenente che guidava il gruppo, in perfetto italiano, le disse che suo marito era ricercato quale partigiano e se veniva trovato sarebbe stato fucilato. Poi, dopo aver rovistato nei solai e nelle cantine, minacciando ed imprecando se ne andarono lasciando Adele piena di sgomento e terrore.
La notte successiva, silenzioso come un gatto, Giorgio aprì pian piano la porta di casa, cercando di non fare rumore per non svegliare il bambino e la moglie, ma inutilmente, perché al primo giro della chiave Adele si destò accogliendolo a braccia aperte.
Andarono subito a letto. Ma l'incanto di quell'incontro durò solo pochi minuti….
"Adele, questa notte devo eseguire un'importante e delicata missione, per la quale sono stato scelto dal gruppo di partigiani che mi hanno accolto e aiutato durante tutto il tempo che sono stato alla macchia".
" Ma allora sei anche tu un partigiano? Sei in grave pericolo, i tedeschi ti danno la caccia".
Mentre si rivestiva, Giorgio, ignorando la domanda proseguì: " Devo andare a fare il mio dovere per il bene del mio Paese, non preoccuparti tornerò presto", e proseguì, " i tedeschi, da giorni, sono in precipitosa fuga verso nord, spinti e tallonati dall'esercito alleato. Abbiamo appreso che domani notte faranno saltare i ponti, perciò questa notte stessa andrò all'interno della struttura del nostro ponte qui vicino a staccare le cariche di tritolo, così, quando domani provocheranno il contatto, non ci sarà più lo scoppio e il ponte sarà salvo. Altri due compagni faranno la stessa cosa sugli altri due ponti."
" Giorgio non andare, ti prego! E' troppo pericoloso! Se ti scoprono non ti vedrò più." Mentre Adele lo implorava piangendo di non andare, Giorgio baciò Matteo che dormiva beato e dopo aver abbracciato a lungo la moglie, coprendo di baci il suo volto bagnato di lacrime, uscì frettoloso da casa prima che il magone di commozione che aveva in gola gli togliesse le forze.
Era stato scelto per la sua marcata conoscenza del ponte e per la facilità di calarsi e di muoversi all'interno di esso. Egli ne fu entusiasta e onorato.
La notte non era troppo buia; in cielo massicci nuvoloni coprivano a tratti la mezza luna, ma la visibilità era sufficiente. Portando a tracolla una lunga fune, con determinazione ma conscio del pericolo, si avviò circospetto a salvare il "suo" ponte che per mesi aveva curato con tanto amore.
Una lunga teoria di camion carichi di soldati, autoblindo, carri trainati da cavalli, stavano scendendo per la strada statale e si accingevano a transitare sul primo ponte.
Era la coda delle truppe tedesche in ritirata, provenienti dal Lazio e dalla Toscana, incalzati dalle forze alleate.
Scendere nel fiume, risalire la spalla destra del ponte, issarsi con la corda entro l'angusto passaggio da cui si accedeva all'interno del grande traliccio, ci avrebbe impiegato ancora un'ora. Guardò l'orologio: indicava le tre e dieci. Di guardia al ponte non c'era nessuno.
Erano da poco passate le quattro, quando individuò la carica principale di esplosivo, ben fissata ad una grossa trave portante. La trovò senza troppe difficoltà. Era un voluminoso involucro di tela cerata: una trentina di chili di tritolo a cui erano collegati due cavetti di filo elettrico che avrebbero portato la corrente al detonatore e provocato lo scoppio. In quella precaria posizione occorrevano circa quindici minuti per staccare quella e l'altra carica che notò essere posata a dieci metri sopra un longarone parallelo.
Intanto il ponte oscillava per il peso dei mezzi che lo stavano attraversando.
Circa alla stessa ora, il comandante Mayer ricevette una telefonata: era avvisato che stava per transitare sul primo ponte l'ultimo convoglio di truppe; un anticipo sul previsto, di stare pronto per farlo saltare subito dopo.
Al suo interlocutore, di grado superiore, obbiettò chiedendo di poter rinviare di qualche ora l'operazione per aver modo di suonare le sirene e avvisare la popolazione dei dintorni, ma la risposta fu perentoria : " Far brillare le cariche fra dieci minuti, senza suonare alcun allarme. E' un ordine ! "
Esattamente alle ore quattro e un quarto il contatto fu innescato ed un enorme boato squarciò l'aria, rimbombando nella valle… . La gente del paese e dei casolari si svegliò terrorizzata. Tutti i vetri delle case andarono in frantumi. Il bel ponte di ferro era crollato.
Ancora una manciata di secondi e Giorgio avrebbe staccato l'innesco. Purtroppo non fu così. Il suo corpo fu trovato nel fiume dai genieri inglesi in mezzo a quel groviglio di ferro contorto. Il suo generoso sacrificio,come quello di tanti altri partigiani, non fu comunque vano. Viene ancor oggi ricordato assieme a molti altri giovani che lottarono e morirono per la Libertà.

Adele, distrutta e affranta, non si riprese più, restò prigioniera del suo immenso dolore e, trasferitosi poi a Roma con suo figlio, seppure ancora giovane non tentò o non riuscì a rifarsi una vita, continuò a vivere solo per lui.

Da diversi anni, l'ing. Matteo torna da Roma sui luoghi della sua ingrata infanzia, conducendo il proprio figlioletto sul ponte, ricostruito in pietre e cemento nel 1950, a ricordare il rispettivo eroico padre e nonno.

Le pecore di Giuseppe
Era un giovedì, 23 o 24 settembre 1944, la guerra, da mesi, manteneva il fronte sulle queste nostre contrade. Postazioni tedesche con nidi di mitragliatrici, trincee e batterie erano sparse un po' ovunque pronte ad accogliere l'arrivo del nemico.
Quel micidiale mostro di guerra dell'esercito tedesco sferrava gli ultimi colpi di coda prima di abbandonare l'Italia; anche da questa parte della "Linea Gotica", grosso baluardo di resistenza all'avanzare dal sud delle forze alleate che lentamente ma inesorabili occupavano sempre più terreno. Gli scontri e le conseguenti battaglie si susseguivano intense e cruente. Le rappresaglie, gli eccidi di persone civili inermi o d'intere comunità, come a Tavolacci dove furono trucidate 64 persone, erano purtroppo frequenti.
Attraverso le dolci colline della media e alta Valle del Savio, ai due lati della strada statale n° 71, gruppi di soldati tedeschi, come antichi predatori, scorrazzavano nei borghi, nei villaggi, nelle case sparse razziando cose, animali e uomini. Rabbiosi e crudeli perché intuivano l'imminente definitiva sconfitta.
Gli animali da cortile servivano loro per rifocillare le truppe che da mesi non ricevevano più scorte e rinforzi. I bovini, per trasportare carri di munizioni e vettovaglie. Gli uomini (per lo più contadini strappati dalle loro case o dai campi) erano condotti in Germania a lavorare nelle fabbriche rimaste a corto di personale, giacché tutti i loro maschi oltre ai 14 anni erano stati inviati sui vari fronti di guerra.
Quando queste pattuglie, o per meglio dire " bande", passavano per il " rastrellamento" (così era chiamata la loro razzia), la gente dei villaggi si allertava a vicenda del loro imminente arrivo con segnali convenzionali o passaparola.
Quel giorno anche nel borgo chiamato "Cassandra" giunse l'allarme che in breve, come un tam tam, echeggiò di casa in casa : " una pattuglia di soldati tedeschi sta rastrellando Sorbano Alta poi verrà qua da noi …, stare all'erta ! "
Immediatamente, gli uomini sotto i 50 anni, dopo aver messo poche cose nello zaino, velocemente si dileguarono verso il bosco.
Le donne e gli anziani che avevano mucche, buio e asini li condussero nelle macchie vicine, nascondendoli in mezzo a folti cespugli.
L'agricoltore Giuseppe d'anni 56, già da qualche tempo, aveva nascosto il grano in diverse damigiane e sotterrate nel campo, così pure un baule di biancheria (il corredo da sposa della moglie Mariuccia). Non aveva bovini e né l'asino ma solo polli, conigli e due pecore; queste erano un grosso provento per la sua famiglia : davano formaggio, lana e agnelli, perciò sarebbe stato un grosso danno economico se le avessero
" razziate " i soldati tedeschi.
Fu così che decise di nasconderle in un luogo sicuro. C'era poco tempo, i soldati stavano per arrivare. Sotto il porcile (allora senza inquilino) c'era un angusto vano scavato in parte nella roccia che non veniva usato, la cui piccola porta d'entrata non era visibile, essendo esposta dalla parte di un dirupo coperta da ortiche e rovi.
Ritenendo fosse questo il posto ideale, con difficoltà vi condusse le pecore, vi portò erba e fieno a volontà, sperando vivamente che non avessero belato.
Ai suoi tre bambini fu imposto di stare chiusi in casa, buoni e zitti.
Poco dopo arrivarono, erano in cinque, armati di fucili e pistole. Giuseppe, con la barba incolta di mesi per sembrare più vecchio, e sua moglie Mariuccia li attendevano sotto il portico. A voce alta e piglio deciso, uno di questi apostrofò Giuseppe in tedesco, chiedendogli l'età e se aveva visto dei partigiani in zona. Mentre gli altri, avvicinatisi al porcile, chiedevano dov'era il maiale e se aveva altri animali. Fortunatamente, Giuseppe, conosceva abbastanza bene il tedesco (nel 1918 era stato prigioniero in Austria e successivamente aveva lavorato in Germania). Rispose di avere 65 anni, di non aver mai visto dei partigiani da quelle parti, che il maiale era stato venduto e non possedeva altri animali perché era una famiglia povera la sua.
Uno di loro, furibondo, lo minacciò con la pistola e, afferratolo per il petto, gli urlò che lo avrebbe ucciso se non diceva la verità.
A quel punto Mariuccia, d'istinto, si gettò sulla mano del militare che impugnava l'arma cercando di strappargliela con tutta la sua forza, senza riuscirvi.
Il tedesco reagì con rabbia scaraventandola a terra, poi urlando e imprecando, scaricò la pistola sulle galline che razzolavano nel cortile uccidendone tre.
Intanto un soldato era entrato in casa a rovistare nelle stanze e dentro i pochi mobili, un altro, gironzolando per il cortile notò in terra delle palline scure, i tipici escrementi delle pecore; puntando il fucile al petto del povero Giuseppe, perentoriamente voleva sapere dove erano nascoste. In quel momento una muta preghiera gli sgorgò spontanea dal suo cuore : " Signore ! Fa che le pecore non belino ! "
Anche a quella violenza Giuseppe non reagì, mantenne la calma e raccolto tutto il suo coraggio cercò di convincerli che non possedeva né pecore né altro bestiame oltre ai polli e ai conigli.
Quello, per lui, fu certamente un gran brutto momento, denso di tensione e paura, perché se le pecore, che erano vicinissime, avessero emesso anche un solo belato, Giuseppe e forse tutta la sua famiglia sarebbero stati fucilati sul posto senza pietà. Curioso ma vero: la vita di una famiglia che dipendeva da un belato.
Fortunatamente, le brave e buone pecore di Giuseppe restarono mute per tutto il tempo, quasi consapevoli della gravità dell'evento.
Dopo aver messo a soqquadro capanni e ripostigli attorno a casa, ed essere entrati e usciti più volte dal porcile (sotto di cui stavano le pecore) cercandole affannosamente, rivolsero con ira altri avvertimenti e minacce ad entrambi i coniugi atterriti, poi, raccolte le tre galline morte ed un paio di conigli se n'andarono verso il vicino casolare a ripetere le loro brutalità e barbarie con altre persone inermi.
Quando, scampato il pericolo, Giuseppe e sua moglie, ancora tremanti di paura, rientrarono in casa, trovarono i loro tre figli: un maschietto di otto anni, e le due femminucce di sei e quattro anni, terrorizzati, rannicchiati in un cantuccio a fianco del camino, spaventati e ammutoliti avendo assistito a tutta la brutale scena.
Da dietro le persiane semichiuse della casa di fronte, altre due donne trepidanti, non si erano perse un solo attimo del fattaccio e, subito accorsero a rincuorarli.
Le drammatiche immagini di quel giorno, al maschietto, oggi felice nonno, gli sono rimaste stampate nella memoria e così le racconta ai posteri.

Vito & Xentano
Inseparabili, l'uno l'opposto dell'altro come il comico e la spalla, entrambi una faccia della stessa medaglia. Erano sempre in sintonia: per intendersi bastava un gesto. Il loro agire sembrava sincronizzato, neanche fossero marito e moglie. Due personaggi mitici, rimasti nella memoria di tanta gente della vallata per la loro grande umanità e simpatia. Senza timore di smentita, essi furono per molti anni la coppia più affiatata e perfetta della SITA (Società Italiana Trasporti Automobilistici).
Due indimenticabili e diligenti operatori del trasporto pubblico in vallata.
Vito: il bigliettaio o conduttore, Xentano: l'autista. Sempre allegri e gioviali con tutti. Impeccabili nelle loro divise e berretto d'ordinanza.
Il loro solito ed immutato tragitto era Bagno di Romagna-Cesena e ritorno; due corse al giorno e la terza con capolinea Sarsina, loro residenza, da dove ripartivano ogni mattino alle sei : una trentina di fermate obbligatorie e diverse altre occasionali, circa tre ore per corsa. Una vera faticata da non paragonarsi a quella dei pur bravi autisti di corriera di oggi, se si considerano i mezzi di allora e la vecchia malandata strada statale Umbro-Casentinese n° 71, con le sue innumerevoli curve e tornanti, per non dire dell'estremo disagio da affrontare nei mesi invernali.
Non lesinavano mai a nessuno un sorriso, una battuta scherzosa oltre a galanterie e complimenti alle donne, specie se belle. Ancora mi chiedo come potessero essere sempre, a tutte le ore, di buonumore, contagiando in tal senso anche i passeggeri più "musoni".
Viaggiare nella loro corriera era un vero piacere.
Alle fermate potevi vedere gente che scendeva dalla SITA col sorriso stampato sul volto per l'ultima freddura di Xentano e l'immancabile commento di Vito, che segnandosi la tempia con l'indice diceva semiserio: " Non dategli retta, è svitato di natura ! "
Su di loro si raccontano ancora le storie e gli aneddoti più curiosi; eccone uno fra i tanti : un bel giorno di Aprile, a Cesena salì sulla SITA in partenza per la Valle del Savio un'avvenente, giovane e distinta signora. Xentano, già seduto al posto di guida, la salutò per primo, mentre Vito, avvicinatosi per farle il biglietto le chiese da dove provenisse e dove fosse diretta. "Provengo da Milano e vado a Sarsina, sono la nuova direttrice del Museo Archeologico Statale della Città." Partita la corriera, Vito si sedette a fianco e continuò a conversare amabilmente con lei. Xentano, intanto, sbirciava dallo specchietto retrovisore mugugnando fra se.
A pochi chilometri da Cesena, Vito faceva notare alla Signora la distesa di pescheti in fiore ai due lati della strada simile ad un mare tutto rosa. Uno spettacolo della natura, puntuale ogni primavera per pochi giorni, che appaga l'occhio e intenerisce l'animo.
Mentre lei ammirava estasiata, di colpo la corriera accostò a destra e si fermò in piena campagna fra i pescheti. Vito, allarmato, chiese cosa fosse successo. "Abbiamo una gomma a terra ! " Fu la risposta di Xentano, sceso immediatamente a terra. Mentre Vito stava per raggiungerlo, egli, lesto, già risaliva con in mano un rametto di pesco fiorito che cavallerescamente offrì alla bella signora milanese, lasciando il povero Vito di stucco, poi, messosi di nuovo alla guida, ripartì col suo solito ghigno beffardo in volto, mentre i passeggeri applaudivano.
Qualche volta capitava che salivano a bordo contadine delle contrade con cesti o sporte pieni di uova, polli, piccioni e conigli da vendere al mercato, ma senza una lira in tasca. In questi casi Vito soprassedeva chiudendo un occhio e rinviando il pagamento del biglietto al loro ritorno, dopo l'avvenuta vendita della merce.
Negli anni 50/60, anni della grande emigrazione, gli anni del dopoguerra, quando la miseria sradicava migliaia di famiglie dalla ingrata collina per la pianura o verso le grandi città alla ricerca di lavoro e con la speranza di una vita più dignitosa, e tante altre migliaia di persone, per lo più giovani, per lo stesso motivo, emigravano in Svizzera o Germania, la SITA della rinomata Ditta "Xentano & Vito" spesso si riempiva di giovani con valigie di cartone che scendevano dalla valle diretti a Chiasso.
Molti, per sciogliere il magone dell'addio ai genitori, ai famigliari, alla casa e al paese, in corriera cantavano a squarciagola fino a Cesena.
Altri, diciottenni come me, mai allontanatisi dal paesello natio, più romantici e malinconici, se ne stavano seduti silenziosi e muti col cuore gonfio di pianto e nostalgia, guardando, come fosse l'ultima volta, il noto paesaggio che scorreva via veloce.
Vito, che intuiva il nostro stato d'animo, per stemperare la tensione, con fare fintamente burbero lanciava le sue battute : " Ragazzi avete svuotato la dispensa di casa ? Dal peso e dall'odore di salame che emanano le vostre valigie si direbbe di sì. Nella tua, Stefano, deve esserci anche del buon formaggio di pecora ben stagionato e qualche bottiglia di Sangiovese. E non dirmi di no, conosco bene i tuoi genitori ! E chi sà quante maglie di lana vi a messo dentro la mamma per timore che prendi freddo." Xentano, da parte sua, durante le fermate, raccontava qualche barzelletta.
Giunti alla stazione di Cesena ci salutavano con un : " Av salut raghez, a staltr'an, quand' arturnerì sla valisa pina ad ciculéta". ( Arrivederci ragazzi al prossimo anno, quando ritornerete con la valigia piena di cioccolato.)

Storia di un miracolo
Il male che da un anno affliggeva Francesco restava ancora misterioso.
Dopo tante visite mediche specialistiche, innumerevoli analisi, radiografie e TAC, la diagnosi era ancora incerta.
L'ansia, la tensione e la paura montavano ogni giorno di più al pari dell'intensificarsi dei dolori all'addome. La preoccupazione investiva anche la moglie e i figli, la serenità della famiglia era compromessa.
Finalmente, dietro consiglio del medico di famiglia, fu presa la decisione di consultare un noto professore di un centro ospedaliero del nord Italia.
Così, munito di tutte le cartelle cliniche collezionate negli ultimi mesi, Francesco accompagnato dalla moglie Agnese partirono fiduciosi e speranzosi.
Consultate le carte, il professore, consigliò un immediato ricovero nel suo grande e qualificato ospedale, prospettando un delicato intervento chirurgico.
Dopo 10 giorni di degenza e dopo aver ripetuto tutte le analisi di laboratorio, fu formulata la diagnosi, (spesso nefasta) : tumore al pancreas, in fase avanzata.
Francesco, viste le facce e gli atteggiamenti dei famigliari, intuì le gravità del suo stato, la delicatezza dell'intervento al quale a giorni sarebbe stato sottoposto e l'incertezza se fosse stato risolutivo, pregava incessantemente.
Tutti i giorni e durante le ore insonni della notte il suo spirito era rivolto al Signore. Pregava con fervore chiedendo l'intervento per la sua guarigione a Santa Maria Goretti, della quale era particolarmente devoto, avendo in comune con lei lo stesso paese natale Corinaldo nelle Marche. Con l'approssimarsi dell'intervento si intensificarono le sue preghiere, mentre le sofferenze aumentavano e il suo corpo si debilitava, il suo spirito era rivolto costantemente a Gesù e a S. Maria Goretti.
La notte precedente l'intervento sognò una bella fanciulla dodicenne vestita di bianco che incontrava lungo un sentiero di campagna costeggiato da caspi di ginestre in fiore che, dal paesello conduceva alla vecchia fonte dell'acqua. Nel sogno anche lui era adolescente.
Serena e sorridente, con occhi limpidi e luminosi, voce soave, le disse: " Ciao Francesco, non temere per l'esito dell'intervento, stai sereno, continua a pregare, non hai niente di grave, presto tornerai a casa con la tua famiglia".
Il mattino successivo la visita mattutina dei medici trovarono Francesco, rilassato, sereno, viso colorito, disteso e senza dolori. Seguì immediatamente una visita collegiale ed un consulto col professore e l'intervento fu sospeso. L'esame con la TAC che seguì risultò negativo, il tumore non risultava più visibile, e perciò l'intervento non era più necessario. " Per noi Il paziente è inaspettatamente e misteriosamente guarito. Il tumore è incredibilmente scomparso ". Questa fu la sibillina sentenza del professore .
E, rivolto a Francesco, che lo stava ringraziandolo per le premurose cure prestate : " Lei deve avere un potente Santo protettore in Cielo a cui deve essere grato per il prezioso dono che le ha fatto, ma se i santi ci togliessero tutti i pazienti dal letto operatorio noi chirurghi perderemmo il nostro lavoro".
Prima di lasciare l'ospedale raccontò per la prima volta il sogno alla suora che spesso era venuta al suo capezzale per incoraggiarlo, essa fu convinta che la ragazzina apparsagli in sogno non poteva essere che Maria Goretti
La stessa sera Francesco era seduto sul divano di casa e accendendo il televisore, con sua sorpresa, la Rai trasmetteva il Film sulla vita della Santa che lo aveva miracolato :
" cielo sulla palude". del 1949. Commosso e riconoscente, con le lacrime agli occhi, segui sullo schermo tutta la storia.

Storia vera raccontatami da Suor Lucia che l'ha ascoltata per prima dal miracolato ancora oggi vivente.

Potenze malefiche
"Cari parrocchiani, dalle Sacre Scritture e dal Vangelo, apprendiamo che il diavolo esiste ed opera incessantemente nel mondo, tutti i giorni possiamo notare come la sua opera demolitrice dello spirito e delle coscienze agisca sugli uomini rendendoli succubi al suo malefico potere.
Un esempio sono le guerre, l'odio fra persone anche dello stesso quartiere e addirittura dello stesso sangue, l'egoismo, le perversioni sessuali ecc…: Anche nella nostra piccola parrocchia, con il suo influsso malefico sta operando in alcune persone in modo molto evidente.
Ciò è reso visibile dal fatto che alcuni parrocchiani non vengono più in chiesa e non si accostano più ai Sacramenti, e quel che è peggio bestemmiano continuamente il Signore Gesù e la Sua Santissima Madre Maria con epiteti orrendi, blasfemi e irripetibili, che solo il demonio più suggerire…..; preghiamo tutti affinché l'opera demolitrice del diavolo cessi e queste anime ritornino presto all'ovile del Buon Pastore… ."
Questo era uno stralcio della predica che Don Olinto stava svolgendo dall'altare quella domenica mattina durante la Messa. Già da un po' di tempo il tema dell'omelia domenicale era sempre lo stesso : "Il diavolo ", che a suo parere si stava impossessando dell'anima dei suoi parrocchiani.
Anche altri preti, in quel periodo, consideravano il diavolo artefice e causa di tutti i mali morali e materiali che portavano molti cristiani dritti all'inferno.
"Molti sono i chiamati e pochi saranno gli eletti", " Se non vi convertirete perirete nel fuoco della Geenna", erano la frasi del vangelo, dette da Gesù, su cui facevano perno le loro prediche. Trascurando l'aspetto della misericordia e l'immensa bontà di Dio nei confronti dei suoi figli, fatti a sua immagine e somiglianza, per i quali suo Figlio si è fatto uomo e poi crocifisso per riscattarli dal male e, con la risurrezione, portarli tutti all'eterna salvezza.
All'uscita dalla chiesa molti discutevano a bassa voce su quanto detto dal Don Olinto nella predica, e avanzavano nomi di persone conosciute che non frequentavano più la chiesa, che proferivano maldicenze sui preti e bestemmiavano.
Nell'elenco di questi "peccatori incalliti" della parrocchia, occupava da tempo il primo posto Costantino, il proprietario delle macchine trebbiatrici, con le quali in luglio e agosto girava tutta una vasta zona della collina ai lati della valle, passando per ogni podere a trebbiare il grano o l'orzo.
In effetti era famoso non solo come l'uomo delle trebbie, ma anche per le innumerevoli bestemmie che sciorinava continuamente e per il suo caratteraccio iroso e focoso. Anche quelle poche volte che era calmo e quasi tranquillo, intercalava una bestemmia ad ogni parola in un una normale conversazione, che spesso, diveniva una accalorata e colorita discussione, dato che egli voleva sempre ragione.
Se poi qualcosa andava storto, come quando, durante la trebbiatura del grano, un pezzo della trebbiatrice si rompeva, apriti cielo, o meglio apriti inferno, ne sgranava dei "rosari" interi, contro Dio, la Madonna ed i Santi, di quelle tremende che facevano rabbrividire. Quando quella furia si scatenava, la mamme trascinavano via i bambini, portandoli lontano da quell' "orco" che vomitava senza sosta, orrende bestemmie e parolacce.
"Dovrebbero portalo di forza da San Vicinio a Sarsina e mettergli la catena al collo, affinchè siano allontanati tutti i demoni che ha in corpo "
Diceva la gente fra se.
Un giorno che la trebbia trainata da due paia di buoi, veniva trasportata da un podere ad un'altro attraverso uno stretta e ripida mulattiera alquanto sconnessa, in un difficile passaggio, prima oscillò paurosamente poi si ribaltò di schianto per la scarpata.
La caduta causò molti gravi danni alla struttura in legno della macchina, Costantino scattò con urli sovrumani e, mettendosi in ginocchio per terra con le mani rivolte al cielo come per pregare, per venti minuti proferì a squarciagola più di mille bestemmie, una più terribile dall'altra, dimostrando anche una perfida fantasia.
Alcune, volte don Olinto incontrandolo, lo aveva esortato a controllarsi, perché oltre a perdere l'anima, procurava grande scandalo in tutta la parrocchia ed il circondario, con tutto quel veleno che usciva dalla sua boccaccia.
"Costantino, il tuo è un viziaccio maledetto che devi smettere se vuoi salvarti l'anima, altrimenti le porte dell'inferno si spalancheranno per te !"
Lui, con asprezza, rispondeva pressappoco così:
"Vai al diavolo, corvo nero ! Non rompermi il … ! Le prediche vai a farle in chiesa non a casa mia, io bestemmio quanto mi pare e piace, puttana …., porco ….!."
Il povero Don Olinto si allontanava scosso e addolorato recitando giaculatorie in riparazione.
Un venerdì santo, prima della Pasqua, Costantino si trovava nel capannone dove stavano le trebbie, intento a ripararne una. Benché fosse solo, ad ogni bullone che mal si avvitava, alla chiave che gli scivolava di mano, alla martellata che involontariamente si era dato sulla mano, sgranava come sempre imprecazioni e centinaia di bestemmie che " bruciavano l'aria" come si diceva da quelle parti.
Fra Domenico, il vecchio eremita del Monte Carpegna, presso cui mi trovavo ospite, che da anni aveva lasciato il convento ritirandosi a vivere solitario nell'eremo in cima a quest'aspro monte, fece una lunga pausa e con voce sommessa proseguì nel raccontare la storia di Costantino che aveva conosciuto molti anni prima ai piedi del Falterona, proseguì : "mentre Costantino, preso dall'ira per i piccoli accidenti che gli stavano capitando in quel venerdì santo, continuava a snocciolare imprecazioni e bestemmie rivolte a tutte le divinità del Cielo, si sentì chiamare ripetutamente per nome.
Stizzito, per essere spiato e disturbato in quel frangente, chiese a gran voce:
" Chi è che mi vuole ?! "
La voce che proveniva dall'esterno del capannone riprese:
"Costantino vieni fuori che ho bisogno di te ".
Egli, inviperito, continuando a maledire e bestemmiare andò sulla porta. Eretto davanti a se, in piena luce del giorno, stava un giovane alto, distinto, elegantemente vestito con abito scuro e una valigetta ventiquattrore in mano.
"Chi siete e cosa volete da me, non vi conosco ma vi dico subito che non mi occorre nulla". Fu pronta la risposta.
Il giovane dai capelli neri, occhi chiari e freddi, con voce suadente, disse:
"Sono un amico, e come tale sono venuto per aiutarti. So che ti sono capitate diverse disgrazie con le macchine trebbiatrici e le cose non ti vanno troppo bene, io posso fare in modo che tutto vada per il meglio e in breve tu possa arricchire e vivere da gran signore tutta la vita….".
Interrompendolo, Costantino, alquanto arrabbiato ma anche incuriosito da quanto questo giovane sconosciuto, dai modi garbati ma che gli dava del tu, andava dicendo, riprese:
"Ho già detto che non mi serve nulla, ma se fossi interessato alle vostre proposte cosa vorreste in cambio ?"
Il giovane trasse dalla borsa nera un foglio stampato con inchiostro rosso e lo porse a Costantino:
"Devi solo opporre la tua firma su questo contratto", così dicendo gli allungò anche la penna.
Costantino preso il foglio, inforcò gli occhiali e si accinse a leggere le condizioni di questo strano contratto. Subito gli venne da pensare che il giovane fosse un rappresentante di qualche ditta che costruiva le macchine trebbiatrici e avendo saputo che le sue erano vecchie ed un po' malandate, fosse lì per proporgli l'acquisto di una nuova.
Era ancora alla prima riga, quando iniziò a sbiancare in volto, le gambe a tremare, la lingua e la gola seccarsi.
Col foglio in mano, prima ancora di alzare la testa per guardare meglio il giovane sconosciuto che ancora stava in piedi ad un passo da lui, il suo sguardo si posò sui suoi piedi.
Invece delle scarpe, oltre l'orlo dei pantaloni spuntavano due grosse zampe pelose di caprone. Gli occhi non erano più chiari ma rossi come due carboni accesi.
Il terrore lo assalì improvviso bloccandogli ogni reazione.
Voleva urlare, ma dalla gola secca uscì solo un rantolo. Poi si sentì afferrare saldamente come da una morsa e sollevare da terra come un fuscello.
Avvinghiato da quell'essere che sghignazzando lo trasportava sempre più in alto superando le cime dei monti, si sentiva morire.
Restando cosciente, benché atterrito dalla paura, pieno di nausea, gli parve di sorvolare monti e valli in un attimo.
E l'altro sghignazzando come divertito, urlava: "Costantino, ormai sei mio, quante volte mi hai chiamato e invocato… eccomi sono venuto a portarti con me !"
Costantino prima di perdere i sensi ebbe la forza di invocare il Signore:
"Gesù Cristo salvami ! E ancora :".Mio Dio perdono ! Perdono ! Perdono !"
Con un versaccio bestiale, l'essere abominevole di colpo lo mollò.
Egli precipitò come un sasso da un'altezza considerevole, ma a pochi metri da terra perse velocità e la forza d'attrazione della terra cessò, probabilmente per il tempestivo intervento dell'angelo custode, planò dolcemente come una piuma, sano e salvo.
Non era stato un incubo. Si trovava realmente in vetta al monte Falterona, a cento chilometri da casa. Il volto stralunato e i capelli di colpo bianchi come la neve.
I famigliari solo a sera, non vedendolo arrivare per la cena, iniziarono a preoccuparsi. Lo attesero tutta la notte e al mattino denunciarono ai carabinieri la misteriosa scomparsa.
Non sapendo cosa pensare, lo cercarono ovunque per una settimana senza risultato.
A terra davanti al capannone degli attrezzi furono trovati uno strano foglio di carta scritto in latino con inchiostro rosso, un paio d'occhiali rotti ed una penna stilografica d'oro.
Don Olinto, saputo della sparizione di Costantino, era subito accorso a consolare i famigliari.
La moglie piangendo, gli diede il foglio chiedendogli di tradurre il testo per sapere se poteva esserci un nesso con la scomparsa del marito.
Mentre Don Olinto leggeva, un brivido le attraversava le membra; quello scritto era un vero e proprio "diabolico " contratto" notarile, che così recitava :

"Io sottoscritto Costantino N., nato il 06 Giugno 1910 nel pieno delle mie facoltà mentali dichiaro di odiare Dio, la Madonna, e tutti i Santi, abiuro il battesimo, la cresima e l'appartenenza alla Chiesa Cattolica Romana, ciò premesso cedo la mia anima a satana il quale, alla mia morte, potrà disporre come crede, in cambio mi saranno elargite enormi ricchezze, onori, potere e soddisfatto ogni altro desiderio, qui non menzionato.
Firmato e sottoscritto dalle parti: Lucifero e Costantino."

Costantino, girovagò come un'automa per due giorni, finchè lacero e sfinito bussò alla porta del convento di frati Cappuccini che si trova ai pedi del monte Falterona.
Restò con loro un mese. Quella tremenda esperienza lo aveva distrutto nell'animo e nel corpo. I Frati, fra loro, c'era al tempo, anche il mio interlocutore Fra Domenico, lo aiutarono a sollevarsi nello spirito e nel corpo, raccolsero tutta la sua storia, che raccontò loro in tutti i particolari.
Per giorni pianse amaramente, pentendosi di tutte le sue colpe fatte con intenzione e odio.
Avrebbe voluto fermarsi per sempre in quel luogo, per scontare tutti i sui peccati, ma i frati, saggiamente lo esortarono a ritornare a casa dai suoi famigliari che non avevano cessato di sperare nel suo ritorno.
Un mattino presto, la moglie udì bussare alla porta, era il suo Costantino, o meglio, ben presto scoprì che non era più l'uomo irascibile e cattivo che conosceva, ma un uomo pio e mite come un'agnellino; non solo non bestemmiava più, ma non proferiva parola alcuna.
Aveva fatto voto di non parlare per il resto della sua vita.
Morì serenamente nel 1983, in pace con Dio e con tutti, aveva 73 anni. Dal giorno del suo ritorno a casa aveva espiato, restando muto per diciotto anni.

Xentano a pesca
Le sue barzellette erano irresistibili, le battute esilaranti, i suoi scherzi sono rimasti proverbiali. Diverse persone che l'hanno conosciuto, ancora oggi raccontandoli suscitano l'immediata risata.
Nei giorni di riposo, Xentano, indimenticabile personaggio Sarsinate, come tanti altri andava al fiume a pescare.
Avendo in mente l'architettura di un ennesimo scherzo, per alcune settimane, nei bar del paese sparse la voce che da un po di tempo egli andava al fiume senza aver rinnovato la licenza di pesca.
I compagni di bevute lo mettevano in guardia:
Attento Xentano: le guardie venatorie non solo verificano se i cacciatori siano in regola, ma vanno anche lungo il fiume a controllare le licenze dei pescatori ".
Come tutte le domeniche estive anche quel giorno, di buon mattino, andò al fiume munito di tutta l'attrezzatura per la pesca, calzando enormi stivaloni di gomma alti fino alla coscia e l'immancabile sigaretta fra le labbra.
Si piazzò ai margini di un ampio gorgo, a valle del palazzo comunale di Sorbano, appoggiò una canna fra due pietre e, stretta fra le mani l'altra, più lunga, adatta ai lunghi lanci dell'esca al centro del gorgo, e si mise in vigile attesa.
Era una limpida mattinata che si annunciava divenire una giornata molto calda.
Più a valle si potevano notare altri pescatori, forse dei bolognesi, i quali, in quegli anni, erano soliti venire a pescare nel nostro fiume Savio. All'alba erano già sul posto di pesca, ciò significava che, tenuto conto dei 100 chilometri di viaggio, si erano alzati alle tre di notte.
Verso le dieci, Xentano, intento a pescare barbi nel gorgo grande, li vide apparire; avanzavano curvi e circospetti ai margini del letto del fiume fra la bassa vegetazione lacustre. Non vera alcun dubbio, erano le due guardie venatorie che da un po di tempo imperversavano lungo il fiume cogliendo in fallo diversi pescatori sprovvisti di licenza o multavano per il pescato fuori misura.
Xentano continuò a fissare il suo galleggiante senza dar segno di averli scorti ma, con la coda dell'occhio controllava il loro cauto avvicinamento, era certo che questa volta avevano adocchiato proprio lui.
Del resto si aspettava una loro visita avendo sparso ai quattro venti, o meglio, alle quattro osterie del paese, che in barba alle guardie del fiume, lui andava a pescare senza licenza.
Quando vide che i due erano a 30/40 metri, lasciò andare le due canne e si mise a correre a gambe levate verso valle lungo il letto del fiume saltellando sopra le lucide pietre.
"Fermati Xentano, fermati sappiamo che sei un bracconiere dobbiamo multarti !"
Così dicendo lo inseguivano correndogli dietro,
" Amici, ce l'ho la licenza ! " Urlò Xentano proseguendo la corsa sempre più velocemente,
" Fermati allora e lascia che controliamo !"
Dopo aver percorso alcune centinaia di metri, Xentano di colpo si fermò. I due ansanti e trafelati in breve lo raggiunsero e lo afferrarono per le braccia temendo che scappasse ancora.
"E' un po che fai il furbo con noi, ma oggi ti abbiamo alfine "pescato" con le pive nel sacco. Sai quanto ti becchi di multa adesso…? Esattamente cinquantaseimilaseicento lire." "Ma io sono in regola, ve l'oh già detto !" Ribattè pacato Xentano e, infilata la mano nella tasca del corpetto estrasse la licenza e la consegnò alle guardie le quali, esterrefatte. notarono che il documento era in perfetta regola, come aveva affermato.
"Ma allora perché sei fuggito via e ci hai fatto penare per acciuffarti ?"
La risposta sibillina di quel buontempone di Xentano fu lapidaria e come una pugnale trafisse da parte a parte le guardie: " Cari amici, da quando in qua è vietato correre lungo il fiume ? "

Contatto ravvicinato
Penso che nel corso della vita vi siano per tutti quei giorni "speciali" nei quali, per un particolare stato d'animo, il cuore trabocca di gioia e tutto pare più bello, la natura più armoniosa, le persone più buone e simpatiche. Sono momenti fantastici nei quali si percepisce più che mai l'appartenenza al creato e, allo stesso tempo, si ha la sensazione di esserne i padroni. Percezioni intense e coinvolgenti, che si provano più frequentemente durante l'adolescenza, la pubertà ed anche nella terza età, che nell'età matura, durante la quale prevalgono le problematiche del contingente, quali: lavoro, carriera, famiglia, affari, che coprono come un velo di cenere la brace accesa che è dentro di noi, e ci impediscono di assaporare appieno l'essenza della vita.
Da adulti si è troppo presi dall'incessante e vorticoso susseguirsi delle quotidiane fatiche per accorgerci dei miracoli che la natura compie sotto i nostri occhi : un bel tramonto, un campo di papaveri, un cielo stellato in una limpida notte d'estate, il candore del manto di neve che copre i monti o il canto di un usignolo che annuncia la primavera.
Fu in uno di questi giorni "particolari", nei quali lo spirito emerge a fior di pelle e le sensazioni sono più intense che capitò ciò che cercherò di descrivere.
La giornata, fin dal mattino, si presentò splendida, di quelle che ti fanno dire: "Grazie Signore di essere qui e godere delle Tue meraviglie". L'aria limpida e tersa, il cielo di un celeste vivo, in contrasto con qualche solitaria nuvola bianca che lentamente vi navigava diretta a ponente.
Il sole continuava ancora la sua funzione di scaldino della terra, ma senza strafare.
Le piante stavano assumendo i caldi colori autunnali, le prime foglie gialle si staccavano dai rami e, spinte da una lieve brezza, dondolando, andavano a sdraiarsi sul terreno per poi lentamente fondersi con esso in perfetta osmosi.
I grilli erano alle ultime note del loro concerto; un magnifico ottobre stava per finire.
Quel particolare stato d'animo e quella giornata speciale prepotentemente m'invitavano ad uscire da casa ed immergermi nella natura che mi circondava come in un bagno ristoratore.
Lasciai l'abitazione e, a piedi, mi diressi verso monte con l'intento di risalire la parte sud del colle (chiamarlo monte sarebbe eccessivo) che si erge per 800 metri sulla sinistra del fiume ad un chilometro dal paese. L'idea era quella di raggiungere la vetta ripercorrendo la vecchia mulattiera, con la speranza di ritrovarla agibile dopo anni di abbandono.
Ben attrezzato, con bastone e scarpe da traecking, salutai la mia bella moglie che restava a casa con i due figlioletti e intrapresi il cammino carico di buona volontà, energia e grande euforia.
I primi trecento metri di salita furono alquanto facili, dato che il sentiero era praticabile essendo ancora un passaggio obbligato per i cacciatori e cercatori di funghi e cinghiali.
A metà di questo primo tratto raggiunsi un'anziana signora, con una sporta in una mano e un bastone nell'altra, lentamente saliva il sentiero nella mia stessa direzione.
Per un tratto mi misi al suo passo. Disse di avere settant'anni e che tutti i giorni saliva, dal fondovalle per il sentiero fino alla "Cassandra", la vecchia casa dove aveva vissuto per trent'anni con suo marito, da qualche tempo deceduto.
Vi si recava per accudire ai suoi animali: pochi conigli, cinque galline, un gatto ed un cagnolino. Parlammo del più e del meno, convenimmo che dopo diversi giorni grigi, questa era veramente una giornata splendida. "Un altro dono di Dio" sentenziò rivolta al cielo. Mi parve una donna ancora energica, serena e piena di buon senso, proprio come mia madre alla quale assomigliava in modo sorprendente.
Arrivati alla sua casa, mi invitò ad entrare per bere un " goccio" di vino. Gentilmente declinai l'invito e salutatala proseguii puntando alla sommità del monte.
Lungo il sentiero, ancora abbastanza praticabile, mi imbattei in diversi borghi e casolari abbandonati, i cui nomi mi erano noti, ove, fino agli anni sessanta, vi pulsava un'intensa vita : case rurali dove per secoli avevano vissuto, pigiati in anguste e misere stanze, famiglie numerose con nugoli di figliuoli e tanti animali domestici. Tutt'intorno solo campi e boschi stesi sui pendii del monte.
Ora non si udivano più grida di ragazzi, voci di donne, belati e muggiti di animali, ma vi regnava un silenzio assoluto e spettrale. Si potevano notare solo ruderi assaliti da rovi e vitalbe, e… tanto squallore. Diverse case senza infissi che, resistendo alle intemperie erano ancora intatte, ti fissavano con quelle occhiaie nere e vuote da mettere i brividi. Una desolazione che, malgrado la giornata "speciale", mi riempì il cuore di malinconia.
Ricordavo i nomi di quelle località perché, quando bambino, subito dopo la guerra, andavo col babbo al mulino, laggiù nel fiume, spesso incontravamo i coloni che le abitavano, i quali con asini o muli vi scendevano a macinare i cereali. Venivano dalla Cassandra, da Cà di Marco, da Cà di Santuccio, dalla Casaccia, dalle Ville, dal Greppo, da Capro, dalla Liscia, dalla Punta o da Tezzo.
Ad un tratto, proprio sopra Cà di Santuccio, la mulattiera scomparve in un campo di erba medica. Saranno state le ore dieci, mi sedetti per riposare un po' e rimirare il panorama. All'orizzonte, in primo piano, vedevo il monte Aquilone con una nuvoletta bianca a mo' di cappello sulla cima, e oltre, il massiccio del Carpegna, più a ovest il monte Comero ed il Fumaiolo, poi cento altri dolci colli che andavano declinando a scala nell'ampia valle modellata dal fiume che da sempre vi scorre al centro come una vena.
Mentre gustavo quella corroborante visione d'insieme, certamente non paragonabile ai panorami mozzafiato delle Dolomiti, ma pur sempre bello e a me più familiare, mi parve di udire un canto; prima flebile e poi sempre più forte e molto vicino. Intuii trattarsi di un coro il cui canto era davvero dolce e soave, direi celestiale. Sorpreso, cercai di capire donde provenisse.
Mi guardai intorno, ma per un ampio raggio non vidi nessuno, o meglio, come è in uso dire in simili circostanze : "nei dintorni non v'era anima viva". Allora pensai provenisse dalla chiesa di Sorbano, anche se distante almeno un paio di chilometri in linea d'aria. Le parole del canto che mi giungevano sembravano latino e la musica gregoriano, da ciò dedussi che, forse per uno strano gioco di eco, dovesse provenire dalla chiesa. Ma poi, riflettendo, trovai strano che a quell'ora di un giorno feriale vi si celebrasse una funzione. La cosa che di colpo mi fece trasalire e accapponare la pelle fu l'improvviso rammentarmi che la chiesa era stata serrata per pericolo di frana alcune settimane prima, perciò non poteva in alcun modo provenire da lì." Ma allora dove sono questi cantori che non vedo ma sento qua intorno ? ".
Mentre ad intermittenza il canto corale continuava ad arrivare chiaro all'udito, mi alzai e, per guardarmi meglio intorno, salii sopra un masso poco distante. Fu allora che ebbi la certezza della provenienza. Sotto di me, a qualche centinaia di metri, scorsi il piccolo cimitero, ben visibile laggiù in pieno sole, al centro del quale si erge alto e maestoso un vecchio centenario cipresso.
Ma all'interno non scorsi alcun essere vivente. Mi convinsi che il melodioso canto poteva provenire solo dal camposanto. Non v'era altra spiegazione logica e razionale, considerato il luogo isolato.
Questa convinzione quasi mi rasserenò e placò la tensione che mi aveva invaso per tutto il corpo.
Lentamente i brividi di paura passarono. Per darmi una risposta, pensai che quel coro così intonato fosse composto dalle tante persone che nei secoli avevano vissuto, gioito e penato su quei greppi, nelle case che poco prima avevo visto abbandonate, e dopo la loro morte, lì erano stati posti a riposare nell'attesa della risurrezione. Le loro anime si preparavano all'imminente festa di Tutti i Santi, cantando insieme inni al Signore.
Mentre questi pensieri si accalcavano tumultuosi nella mia mente, l'armonioso canto improvvisamente cessò.
Stordito e confuso, ripresi il cammino di ritorno verso casa.
Ma ancor oggi, trascorsi tanti anni, resta intatto e insoluto il mistero di quel "contatto ravvicinato" con l'Altro Mondo, vissuto in quello splendido e indimenticabile giorno di fine ottobre.

La quercia
Il lungo braccio rosso della gru la depositava con cautela in mezzo alla piazza del paese. Mille occhi ammiravano con stupore e meraviglia la lenta discesa a terra dell'enorme tronco, dal peso di almeno 12 tonnellate, imbragato alla gru con grossi cavi di acciaio.
L'idea di esporre la superba quercia della famiglia delle roverelle in piazza, affinché, tutti potessero vederla; le scolaresche ammirarla e scriverne saggi, i botanici studiarla, è stata del giovane, intraprendente Sindaco e messa in atto dalla Pro Loco di Mercato Saraceno: caratteristico paese sito al centro della valle del Savio.
Lo scorso cattivo inverno e una rara combinazione di eventi atmosferici negativi hanno concorso alla morte di molte querce o roverelle nel territorio, e purtroppo anche della superba quercia di Paderno che si ergeva da ben 450 anni nel parco dell'antica villa dei Signori Bondanini-Mussolini, anzi aveva già qualche secolo quando la villa venne eretta al suo fianco. Era una pianta nota e conosciuta da molti, certamente da tutti i Mercatesi, da tempo catalogata fra le piante monumentali della regione. Tutte le piante si dovrebbero considerare monumenti naturali, da ammirare e rispettare anche di più dei monumenti in marmo o in bronzo, perché esse oltre ai frutti ci filtrano il preziono alimento indispensabile alla vita: l'ossigeno.
Aveva resistito per tanto tempo a mille bufere, a venti forti, alle tempeste, agli uragani, ai fulmini ed anche alle granate durante la guerra; aveva affrontato e vinto mille burrasche nei secoli, non ha ce là fatta a superare gli attacchi di quest'inverno anomalo.
Il peso di quaranta centimetri di neve pesante fradicia d'acqua sulla folta chioma ancora vestita di fogliame, e tanta pioggia caduta prima della nevicata, ha allentato la presa delle radici sul terreno inzuppato d'acqua; per questo, lentamente, la pianta ha ceduto ed è crollata lunga e distesa, completamente sradicata, attraverso la strada che conduce al vicino cimitero dove riposano le spoglie del fratello del "Duce", Arnaldo Mussolini e della sua famiglia che durante il ventennio abitarono la villa.
In questi giorni, dopo che il fatto è apparso sui giornali locali, molte persone della valle ed altre provenienti dalla città vengono per vederla e fotografarla. E' veramente imponente e bella: sembra un'enorme drago morente; con quelle braccia tronche rivolte al cielo, quel fusto imponente dalla pelle scura avvizzita pare un rinoceronte. Potrebbe ben figurare come opera d'arte moderna in un salone alla biennale di Venezia.

Ogni persona ha la sua storia contrassegnata dalla data di nascita e da altre che scandiscono gli eventi più importanti della vita, fino all'ultima, quella fatidica. Anche per il mondo animale, in parte, vengono registrate le date più importanti, specie per gli animali cosiddetti nobili o che più interessano l'uomo come i cavalli, i cani e altri animali di cui l'uomo vuole prendersi cura. Non così, di norma, avviene per il mondo vegetale.
Per la monumentale quercia di Paderno una storia si potrebbe scrivere iniziando col dire che spuntò, timida e fragile come un piccolo stelo d'erba attorno all'anno Domini 1560. Al tempo sulle Romagne regnava Papa Giulio III° (1550/1555), ed ebbe la fortuna di sopravivere a tanti rischi e avversità.
Crebbe sana e forte, testimone muta e immobile di tanti eventi atmosferici e innumerevoli storie di uomini che, nei secoli, hanno sostato sotto la sua folta chioma. Chioma che per 450 volte ha rinnovato il suo fogliame, abbandonando ai suoi piedi ogni autunno, tappeti di foglie morte; godendo per tanto tempo del calore del sole dal quale ha ricevuto puntualmente ogni primavera il rinnovo della vita . Della sua inattesa fine già ho scritto .

Un' evento simile ispirò al grande poeta romagnolo Giovanni Pascoli questa poesia :

LA QUERCIA CADUTA

Dov'era l'ombra, or sé la quercia spande
Morta, ne più coi turbini tenzona.
La gente dice: or vedo: era pur grande !
Pendono qua e là dalla corona
I nidetti della primavera.
Dice la gente : or vedo : era pur buona !
Ognuno loda, ognuno taglia. A sera
Ognuno col suo grave fascio va.
Nell'aria. Un pianto …. D'una capinera
Che cerca il nido che non troverà


In quei giorni la medesima combinazione di eventi atmosferici, fu fatale per altre querce centenarie del territorio.
Di una in particolare mi soffermerò a raccontare l'incredibile storia, anzi descriverò per suo conto gli avvenimenti da essa vissuti e partecipati "in prima persona". Da tutti era conosciuta come " la quercia del Conte"
Questa creatura, che ho ammirato fin dalla mia nascita; mastodontica figura, anch'essa si ergeva maestosa e solenne, a 300 metri dalla mia vecchia casa nativa, sul bordo di una stradina sterrata, un tempo importante via di comunicazione della valle.
Tutta la zona da tempo immemorabile è vocata alla crescita e al proliferare di queste nobili piante.
Ero ancora bambino quando mio padre mi mandava a raccogliere le sue ghiande, ottimo cibo per ingrassare i maiali da trasformare poi in salame e prosciutti DOC.
Fatto più grandicello, con gli amici ci arrampicavamo come scimmie sui suoi poderosi rami, fin sulle cime più alte, per prelevare gli uccellini dai nidi, spinti da un ancestrale istinto di sopravivenza non ancora sopito.
Un giorno di novembre, credo fosse il 1946, arrivarono un gruppo di uomini muniti di enormi segoni, mandati dall'autorità comunale con l'ordine di abbatterla per farne legna da ardere e distribuire alle famiglie più povere in previsione dell'imminente rigido inverno.
Il proprietario del terreno dove si ergeva la quercia del Conte e altri suoi amici confinanti, fra il quali mio padre, si opposero con forza. Ne nacque una grossa disputa che si concluse davanti al sindaco con un compromesso.
"La quercia non sarebbe stata abbattuta ma in cambio sarebbero stati tagliati 200 quintali di robinia, l'equivalente del presunto peso della quercia, e così fu".
Per noi era la quercia che simboleggiava la forza, la stabilità, la fierezza, valori importanti soprattutto per quel tempo, segnato da una terribile guerra in cui anche gli animi più solidi furono scossi dalla paura, dall'angoscia e dalla disperazione, ma che poi seppero ritrovare la forza per la rinascita.
Durante il passaggio del fronte, nel 1944, anche questa quercia fu più volte ferita, colpita, prima dalle cannonate degli alleati e poi dalla mitraglia dei tedeschi; ne portò i segni sui rami e sul tronco per tanto tempo, ma restò ben stabile e fiera.
In quei giorni, nelle veglie attorno al focolare, non si parlò d'altro che della quercia. I più anziani non finivano mai di raccontare storie e leggende legate alla quercia del Conte, tramandate dai loro padri che a sua volta le avevano apprese dai nonni e bisnonni.
Noi bambini affascinati ascoltavamo, l'anima si beava e la fantasia assetata ed avida si saziava.
"Un giorno all'ombra della quercia sostarono dieci garibaldini con archibugi e fazzoletti rossi al collo, provenivano dalla vicina Toscana diretti a Ravenna per incontrare il generale Garibaldi che giaceva ferito nella casa di Anita in mezzo alla pineta. Dai contadini del posto furono rifocillati con piadina salame e Sangiovese."
Il vecchio Fabrizio di 85 anni suonati raccontò che, un pomeriggio d'estate di tanti anni fa, alla sua ombra, si fermarono un gruppo di uomini con ampi cappellacci in testa, armati di archibugi, suo nonno si lamentò perché avevano calpestato le culture del campo, al che il loro capo, dagli occhi celesti come il cielo ed il viso dolce, gli diede cinque scudi d'oro. Si seppe poi fosse Stefano Pelloni detto il Passatore, "re della strada e re della foresta), con la sua banda di ritorno da una razzia in una villa di un ricco feudatario ai confini delle Marche".
"Una volta, un ragazzo, abbandonato dalla fidanzata che adorava, disperato, getto una fune ad un ramo della quercia deciso di impiccarsi; un contadino che aveva visto tutto riuscì appena in tempo a salvargli la vita tagliando la corda".
La leggenda dalla quale la quercia prese il nome, raccontata da mio nonno che a sua volta l'aveva appreso da suo nonno Gian Antonio è quella del conte Guidi, signore di queste terre, il quale in visita ai suoi possedimenti, passando a cavallo con alcuni sui fedeli scudieri nei pressi della quercia, improvvisamente il cavallo bianco che cavalcava inciampò in una radice della pianta stessa disarcionando il suo nobile padrone e quel che è peggio lo sfortunato cavallo si ruppe una gamba.
Il Conte Guidi restato fortunatamente illeso, seppur rattristato, dovette ordinare ai suoi uomini di abbatterlo.
Fu fatta una profonda buca sotto la grande quercia e lì fu seppellito il bel cavallo bianco del Conte.
Molti giurano di aver udito per anni, durante i temporali e nelle notti di plenilunio, il nitrito di un cavallo morente provenire dallo stormire delle fronde della quercia.

Ora che la vecchia quercia del Conte è finita come il suo cavallo, chi mai ci racconterà più le sue favolose storie ?
Ma poi, a ben pensarci, nell'era di Internet a chi mai possono interessare ? !


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