Poesie di Golan Trevize (Gabriele Dogliotti)


Home page  Lettura   Poeti del sito   Racconti   Narratori del sito   Antologia   Autori   Biografie  Guida   Metrica   Figure retoriche

 

Mi chiamo Gabriele Dogliotti e sono nato a Prato il 7 novembre del 1973. Vivo nella stessa città in cui sono venuto al mondo anche se in realtà la mia è la prima generazione della famiglia ad essere nata in Toscana dopo una migrazione dalla Lombardia. Nelle mie origini ci metto anche il Piemonte, che ha dato vita al mio cognome e al mio ceppo familiare, e il Veneto che è la terra da parte di madre.
Ho un'abilitazione alla professione di geometra e l'esperienza professionale mi ha portato a 'specializzarmi' in materia di amianto.
Perché scrivo non lo so. Penso che ci sia in me un'innata necessità di mettere in discussione - e di condividere - ciò che dentro mi angustia, mi tormenta, mi fa amare, mi fa detestare; mi fa essere quello che sono, insomma. So per certo che la voglia di considerazione da parte degli altri sia il punto che più emerge dai miei pensieri. Di più non so dire di me. Ma a leggermi, si può intuire molto. La frase che amo di più è ripresa dalla canzone Eleanor Rigby, dei Beatles: "…tutta la gente solitaria, da dove viene? Tutta la gente solitaria, a chi appartiene?..."
Per chi vuole, il mio indirizzo e-mail è: gabriele.7@libero.it


ssSSss
E' l'inizio del silenzio...
...un dito posato sulle labbra
ferma le voci, le urla ed ogni
rumore che viene da lontano

Ma il silenzio va cercato,
va cercato altrove, in fondo al mare,
dentro le bare e dentro un cuore
incapace di amare

Il silenzio è d'oro, è un gioco
senza strilli ed ogni bimbo
guarda il dito che è fermo,
fermo sulle labbra della maestra

ssSSss, fate silenzio, il bambino
suona, cerca la nota che prima
c'era...Cerca la mamma, la mamma
è lontana...dorme distesa ma stanca
e serena

riposa la mente, a braccia conserte
perché il silenzio le resti in mente
ssSSss...non fate rumore!
Oggi c'è il sole, tutti a giocare nel cortile.

State attenti a non farvi del male
fate silenzio ma sorridete
fate silenzio ma poi correte
Fatevi un giro sulla vostra vita
...però in silenzio,
per godervi il panorama

L'ultimo peso
Unghie consumate
scavano fra la roccia
che da tanto tempo
custodisce me.
Spasimi coltrati all'osso
han rotto gli argini,
han divelto sorrisi,
han trafitto i baci.
Quel giorno io ero lì
a morire dentro.
Tu eri già andata;
fra quelle braccia,
fra quelle mani
vergognose e intrise
d'ogni meschinità.
Mi sentivo tuo
e ancora mi sento.
Mi credevo tuo eppur
ferito, aspettavo il tornare
della mia eco
........
........
........
Fu l'ultimo errore
gridare il tuo nome.
L'ho capito ad occhi
chiusi, cercando l'attimo,
mentre la sedia reggeva
l'ultimo peso della mia vita.

Fu un incidente?
Qui, solo.
Vedo il mio passato.
Mi chiamasti,
sentii la tua voce.
Fu un incidente?

Vestito di nero,
persi i miei punti di riferimento.
Attraversai quella linea.
Fu un incidente?

Oh, quanto ho pianto
prima di quel giorno in cui
il freddo ci avvolgeva.
Iniziai allora
a donarti i miei sentimenti.

Mentre i cuori si scioglievano,
mani tremanti si toccavano.
M’innamorai di te.

Oh, quanto ho pianto
prima di quel giorno in cui
il freddo ci avvolgeva.
Iniziai allora
a donarti i miei sentimenti.

Qui, solo.
Vedo il mio passato.
Mi chiamasti,
sentii la tua voce.
Fu un incidente?

L’inverno caldo
Questo inverno è mite;
è povero di fredde ore,
e povero di ceppi arsi.
Lo stridere dei denti
non s’accompagna più
allo sfregar di mani.

E tace. Tace ogni goccia
di pioggia che tempo fa,
s’affacciava in questi
luoghi.
Non so più riconoscere
le stagioni per contare
i passi della mia vecchiaia.
Non so più capire l’età
del grano che sfiora
le zolle della mia piana.

Questo inverno è mite.
E’ fermo all’angolo, aspetta
fuori dalle città per
paura di schiacciarci
tutti col suo corpo di neve,
le sue membra di ghiaccio.

Questo inverno è un po’ me.
Pauroso d’esser come natura
perché una pacata mitezza,
snatura l’essere ma
accomoda tutti.

Attraverso le campagne.
Non dire niente. Parlerò da solo.
Ti ho chiamata per creare varchi
dentro le pareti del tuo corpo.

Nell’incredulità dell’essere tuo
in ogni istante, c’è la lucidità
della passione che non si piega
al cuore ma vive ancora di ragione.

Ed è bello pensarti avvolta in quelle
stoffe che parlano da sole.
Non dire niente. Lasciati amare.
Sto guidando,
sto guidando al passo coi pensieri.

Sto passando confini, attraversando
campagne incolte così come era
la vita prima di toccarti.
Non dire niente. Quest’oscurità
produce i suoi semi che fecondano
tutte le mie ambizioni.

Ansima la tua bocca.
Ansima di attesa…

Sei teneramente seria nel tuo silenzio…
Sei così diversa in questa serata gelida.

Sei…

Non sono lei. Sono passata prima io
a portarla via dal mondo.
Non ha fatto in tempo ad ascoltare le
tue amorose frasi…
L’ho presa. Ormai è nelle mie stanze…
e qui sta scoppiando l’inferno…
Stai venendo solo a piangere insieme
agli altri.

Debole pazzia.
Coerenza,
dammi la tua coerenza
e schiariscimi la mente
dalle storture che mi
schioccano sul viso.

Fatti madre d’ogni
mio bisogno e rendi
forte ogni mio osso.
Sei tu che guidi il gioco.

Scaricati di dosso le
fatiche del tuo lavoro
e sovrastami di parole.
Seppelliscimi di sguardi.

Rasenta l’amore con
ogni mezzo così che io
non ne cancelli un solo
ricordo.

Gioca con le parole
e fammi intendere ogni
sorta di menzogna come
la verità evangelica.

Fai piovere castighi
per le mie insolenze
ma non lasciarmi solo.
Tutti voi, non fatelo.

Non create un altro vuoto
pieno di neuroni ciechi
e sbandati.
Tu, non lasciarmi solo.
Tutti voi, non fatelo mai.

Di lei dico…
E' distesa e nuda,
come l’erba al vento ricurva,
si mostra d'ogni sua forma.

E' deliziosa al tatto,
bagnata come i rivoli di nettare
che sgorgano dalla bocca
piena di frutta.

E' perfetta come il cristallo
di neve ch’è così diverso
da ogni altro simile.

E' materna e bella come l’albero
di mele, carico e carico
di semi di vita e frutti
dell’amore.

Io non solo l'amo,
ma indegnamente guardo
le mie misere mani che
l’accarezzano e tremano.
Vibrano di passione,
sudano di tensione,
fremono per il desiderio.

Io non solo l'amo.
Ma perdo il senso d’ogni senso
quando il tempo ci fa
incontrare.

Tutto questo non avrà
che la sua naturale fine.
Che oggi m’è ignota,
ma ne sarà valsa la pena.

Attraverso me.
Non mi conosci così bene.
Non puoi ostentare sicurezza.
Sei stata spietata, presuntuosa,
pretestuosa, cara mia.
Fa male alla mia vita ogni tuo
schiaffo che liberi ciecamente.
E ben poco ti curi del tuo fegato
ogni giorno sempre più stanco.

Cosa sono io?
Perché sono io?
Dove vado?
Cado davvero dalle nuvole.
Di che io vivo non lo so;
ma tu non t’avvicinare al
mio baratro, cadresti con me.
Ti trascinerei attraverso le
mie parole più vendicative.

Perché se è vero che io,
col tempo, potrò sollevarmi e
alzare finalmente la testa dalla
fossa che disegni intorno a noi,
sappi che io non porgerei la
mia mano per portarti con me.
Per te non avrei altro che uno
sguardo pieno di soddisfazione.

Aurighi.
Han rotto gl’ingressi
del circo perché
stanchi di girare in tondo.
La folla ha capito e
applaude fino al silenzio.

Un’occhiata fra i fanti,
ha dato il via alla fuga
più strana della storia.
Nessuna traccia, nessuna
argilla incisa a darcene
notizia.
Nessun reperto, oggi,
ci riporta a quella pazzia.

Se ne andarono, così,
in un pomeriggio d’estate.
Non fecero bagagli ma
tesero le briglie per non
girare al palo, una volta
ancora.

Venti aurighi…
Si disse che perirono
sbranati dai lupi.
Si disse che l’ultimo
saluto divise i loro
destini. Poi ognun posò
le proprie ossa chissà dove.

Un’ imperatore, solo sullo
scranno, guardava la folla
che ricambiava. Stavolta
il suo pollice, non regalava
destini.

Amianto.
C’è una pietra che non
regala statue degne d’una
capitale o balconi
dai quali srotolare le
auree trecce.
Non si fanno scale per
Cenerentole con quel
sasso.

Quell’oggetto è stato pane.
E’ stato lavoro per
migliaia di ignari che
aspirando ossigeno
hanno inalato le loro
condanne.

Quel male torna fuori
tardi. Quando, ormai,
riposato sulla tua poltrona,
senti che il respiro si
fa più flebile. Senti che
il passato torna rompendo
gli argini nel fiume
della tua esistenza.

E allora tornano le scene
di un giovane sposo coi
bimbi piccoli.
Ricordi che hai inghiottito
milioni e milioni di spilli
sparsi laddove li hai lasciati
trent’anni fa…e che ti vorranno
seguire nel posto in cui stai
per andare.

3 metri sottoterra.
Siamo pieni.
Pieni d’ogni conseguenza
negli occhi e nei gesti.
E siamo vuoti di persone
che fino a ieri erano qui.
Siamo forti nella nostra
pelle che tiene salde le
membra incrostate di
punture d’insetto.
Siamo deboli quando
ci dicono che, un po’
diversi, saremmo migliori.
Siamo stanchi se ci dicono
di muovere un dito per
questo mondo.
Scattiamo in piedi se ci
danno il tempo per essere
egoisti.

Siamo uomini e donne.
Così perfetti a parole e così
maldestri verso ogni dono
che possiamo essere per
gli altri.

Intense strade di umori,
diventano sentieri di
depressione che lentamente
non portano alla mèta:
sprofondano direttamente
nel buio di una stanza
fatta su misura per le nostre
ossa.

Matrimonio nel deserto.
(effetti collaterali)

Un giorno, noi due.
La festa, la casa, i profumi.
Là fuori, povertà e guerra.
Qui dentro, cento persone,
un’unione che chiede il suo Dio.

Io e te, vestiti per questa festa.
Io e te, innamorati fra
mille tuoni senza nuvole.
Oggi, dimentichiamoci
in che terra viviamo.

Una benedizione ci dona
mille orizzonti.
Un applauso conquista
una parte di silenzio.
Oggi, siamo felici.

Il tuo viso dipinto, ha quei
colori che ho sempre sognato.
E ne vedrò ancora e ancora
perché i mille sentieri d’ogni
mia fuga, portano a te.

Alla fine, un sordo rombo
come a migliaia in questi
anni di tremenda storia ne
abbiamo uditi. Una luce
scende a squarciare i profumi.

Qualcuno ha deciso di
spegnere quei mille colori.
Perché sai, oggi rimarremo
qui; con i cuori ancora caldi
per la festa.

Non m’accorgo di morire.
Non ti accorgi della crudeltà
altrui. Noi, siamo vittime di
effetti collaterali. Noi, siamo
fuochi che ardono nel deserto
spenti alla cieca. Spenti dalla
potenza di chi non ci sa vedere.

L’acqua e il sale.
Se un vaso d’acqua
riempito dal mare
lo rendessimo dolce
come acqua di neve…
Se lo gettassimo poi
di nuovo dall’alto d’una prua,
come potremmo ritrovar
quell’acqua pura?

Eppure esisterebbe ancora:
là, dove un’onda s’infrange,
là, dove un peschereccio
affonda la sua ancora.
Quell’acqua, nei nostri
ricordi, rimarrebbe casta.

Così vorrei che tu mi
pensassi, nel lago salato
della tua vita passata.
Non tornerò mai più
a galla per bagnare le
tue labbra. Ma rimarrò
nell’abisso. E sarò puro
così come mi hai sempre
amato.

E non sono come sembro.
Gioco con me stesso,
sulla mia stessa pelle.
Sebbene io rida e mi comporti
come un pagliaccio, dietro
questa maschera si nasconde
un viso affranto.

Venne un giorno qualcuno,
forse Dio, che invase la mia
corsia, penetrandomi nelle
mie minime sicurezze.
Le mani su quel volante,
sulla mia vita, non erano più
ferme alle dieci e dieci.
Avrei chiesto meno, molto meno
dell’ondata di tentacoli che
afferrarono la mia sorte in
ogni parte. Dov’era la pace?

Volevo vivere nella pienezza
d’ogni mia libertà afferrata
all’ultimo momento in una
sera di fine estate.
Dunque, voi, consideratemi
così come sono senza
avvolgermi nelle spire
delle vostre convinzioni.
Ho tutta una vita davanti
per rimediarmi. Avrò un infinito
tempo per abbracciarvi tutti
con l’amore che ho nel cuore.

Ispirata da “I’m a loser” dei
Beatles, 1964.

Le ferite del tempo.
Sono come sushi nelle
mani altrui quando un
sentimento mi travolge lo
stomaco e infittisce gl’aghi
sul collo.
Scaraventato da una
parte all’altra del tavolo,
non faccio niente per
sottrarmi alla mannaia.
In un giorno qualsiasi, mi alzo:
e da cacciatore divento preda;
quel coltello passa di mano
in mano.

La lama taglia ma non
lacera. Ferisce ma non uccide.
Così, esangue, posso
contemplare le mie membra
lontane e spaiate, che nulla
han fatto se non chiedere l’amore.

Passano gli anni sulle
mie ferite…uno, due, dieci…
Chi dilaniò la mia carne
l’ultima volta? Chi tagliò
le gambe per non farmi
alzare da terra?
Chi trapassò il mio cuore
con la falce dell’orgoglio e
della spietatezza?

Domande vaghe…

Eppure ora guardo te…
Penso di amarti. Penso di volerti
per sempre…
Ma, distrattamente, nello specchio
dietro te, cerco di capire dove
nascondi la tua spada.

Luce.
A volte mi sento così:
come una goccia d’acqua
che scende dal cielo e che
non ha il destino delle altre.
Non muore sulla terra.
Si schianta sull’albero che
non le dà pace;
la fa correre vorticosamente
tra foglie, rami, insetti e frutti.

Un correre a testa in giù a
rotta collo fra quei corpi che
stanno al vento.
Ed io, in quel sentire, sento
la fatica dell’esistere che per
molte altre gocce, è stato solo
un lungo ma veloce cadere tra il
cielo e la terra.
Cos’è che ci rallenta nella via?

Eppure il sole a volte torna sopra
noi, proprio mentre ci sforziamo
di annullare il nuovo ostacolo.

Ma sapete una cosa?
Dopo una caduta così rovinosa,
aspettare un attimo a chiudere il
nostro ciclo, permette di alzare
gli occhi al cielo un’ultima volta
e forse, poter sorridere all’immenso
spettacolo di colori che l’uomo
chiama arcobaleno.

Futuro anteriore
I presagi sono come
quell’odore di polvere
prima che il cielo si colori
di piombo.

I segnali sono l’infausto
insieme di quei momenti
che in successione arrivano
al dunque.

Ogni presagio è il Tempo
che snocciola i suoi messaggi
prima che il futuro ci
faccia dire i nostri “…ormai…”

Poi, salito al monte,
il male si scaglia come valanga
che tutto travolge.
Alla fine il silenzio.

Nel buio di una mente,
nelle parole di molte genti,
si contano le vittime
si rammentano i presagi.

Sono loro che faranno
la storia di quelle vite.

Campi di grano
Sciolti e sciacquati,
grondiamo verso le fogne
segrete che mai vorremmo
veder profanate da
esseri che non saprebbero
capirle.

Ce ne andiamo laggiù
perché nel sudicio più immondo,
si crogiola ogni nostro
pensiero represso, perverso,
inconfessabile, impenetrabile.

Sabbiati a getti potenti
dalle parole altrui, possiamo
scalfirci ma l’indole perfida
sta nell’anima delle travi
che sorreggono il nostro
inquieto esistere.

Impermeabili al mondo
esterno, nell’inferno del
nostro alveare di odio,
torturiamo chi ci è contro
costruendo miriadi di
bambole che infilziamo
coi nostri strali più
affilati.

Ma fuori, uno splendente
sorriso è ciò che mostriamo
per accecare l’insidia
di chi vuole entrare dentro
i nostri campi di grano
bruciati.

Improvvisamente scopro...
Tremendamente assorta,
svii dalle mie parole perché
tu non ne sia contagiata.

Placidamente accorta, misuri
quel discorrere che ti è proprio
e mi fa sempre perdere.

Teneramente ignaro, ti guardo
come se una penna potesse darti
uno scorcio della mia vita.

Ma infinitamente stupido, non
capisco che tu già mi sei amante
in ogni pensiero del tuo giorno.

La vita è ciò che accade alle nostre
emozioni mentre il tempo invecchia
i corpi e fa cadere le foglie in un lago
d’autunno.

La mia chitarra suona.
La mia chitarra suona
le mie fughe dal mondo,
fortemente cariche
d’ogni mia passione vera.
La canzone è la mia casa,
gli accordi le mie stanze
che a girar fanno emozione
e alle ferite fan sollievo.

T’ho maltrattata, amica mia.
Io che di sinistra mano
t’ho invertita perché tu
per gli altri nascesti,
ti sei piegata alle mie
richieste: d’essere la mia
voce quando il mondo
m’è contrario.

Carezzami di vibrazioni
e commuovimi con intrecci
di note; oggi suonerò
quella melodia che spesso,
m’accompagna per la notte.

L’oscurità penetra la mia
casa in ogni dove quando
tutti dormono.
Così, io e te parliamo al buio
perché l’un senza l’altro,
non avremmo altro modo per
tenerci vivi.

Le mie notti.
Prima un gemito di lei…
poi il pianto di lui.
Mi alzo, ci alziamo, per
accudirli; per donar loro
il nostro calore anche nel
buio della notte.

Dei due l’una ha fame,
l’altro fa i suoi primi sogni ..
E capirli per noi è cosa
normale, ché appena
nati han messo le loro vite
nelle nostre mani.

Passan le ore, a volte
sembrano infinite ere
prima che l’alba si riversi
sulle nostre coperte immobili.
E fatto il giorno, nel mezzo
di un respiro, l’un dei due
che già cammina, mi porge
il bacio di due labbra
minuscole che cancellano
la notte passata…

Tanta bellezza è soave
e rinfranca qualsiasi pena.
Amo loro con tutto me stesso.
Sono i miei bambini:
che a dirlo si scioglie il cuore
e si fa bella la mia vita.

Contate le vostre dita
Guardate le vostre mani.
Contate le vostre dita.
Ad ognuna di esse date il
nome di qualcuno che
avete amato, che vi ha
dato amore, sicurezza,
amicizia e insegnamento.
Carezzatevi il viso, così
che tutto quel bene possa
tornare ancora una volta.

Rannicchiati sulle nostre
pene, ci scordiamo che
il nostro corpo invecchia
ma è pieno di tutto ciò
che ci ha dato la vita;
e le nostre mani portano
i segni di lotte, carezze e
sogni.
Non nascondiamo le nostre
estreme gemelle.

Non stanchiamoci mai
di dar loro la cura giusta.
Guardiamo i loro segni
e non sporchiamole delle
nostre debolezze…
…perché sono vanitose
e spesso, sanno dire molto
di noi a chi ci sta per amare.

Terre nostre.
Entrate in questa immagine…
In un’invertebrata
pianura olandese,
un vecchio si avvicina
e chiede di sederti
accanto a lui; solleva
la sua canna da pesca
e getta l’amo nel placido
canale. E mi chiede delle mie
colline toscane, di quei
posti chiamati valli
che danno nome a tutto
ciò che la terra sa dare.

E con la mente vado
in que’ borghi che la
Cassia congiunge e che
la storia han fatto in tutti
i secoli. I ricordi salpan
per quel mare che con
sette sorelle s’è voluto
agghindare.
La commozione sale
al Piazzale, quando
da lassù torno a vedere
tutta Firenze che vive
d’arte e di bellezza
si vanta…

Quel vecchio ascolta
la voce e melanconico
tira su le sue maniche.
“Guarda le mie braccia!
Queste han strappato
al mare la mia terra
madre. Non una collina
a riparar dal vento, non
una valle ad ammaestrare
i fiumi.”
E le lacrime rigano il
suo volto…
I suoi occhi insieme ai
miei vagano per
quell’orizzonte che fino
alle Ardenne non conosce
altura.
Lui non sa che vorrei
esser olandese come lui.

La neve bianca
Ci fu un giorno in cui
quel suo dolce viso,
svanì agli occhi miei.
E la neve bianca, adesso
copre lei che quel viso
non ha più.
Chiesi a lei di vivere
un momento ancora
per dirle quelle parole
che dopo, avrei rimpianto
di non aver mai detto.

Ma ho visto lei cadere giù
in fondo al pozzo buio
dove le urla non salgono
a noi.
Ho visto lei andare giù
ma quello sguardo,
quell’ultimo sguardo,
m’avrebbe accompagnato
per la vita.
Mentre lei si sentiva cadere,
io la reggevo a mani nude
sotto il suo corpo;
e le braccia, le gambe,
erano esanimi e dicevano
ogni sorta di sentenza.

Ci fu un giorno in cui
quel suo dolce viso,
mancò alla mia vita.
E la neve bianca adesso
copre me, fermo qui,
seccato di tutte le lacrime,
ritto in piedi,
sull’orlo di quel pozzo.

Per la vita.
Ho bisogno di parlarti.
Ma sappi, che non metterò il peso
del mio corpo sulle ginocchia.
Non farò spese folli per
illuminare il tuo viso con dei
preziosi diamanti.
Ma da che ti conosco
un fremito, qui dentro, tiene
le mie giornate piacevolmente
in ansia…

E quest’ansia cresce, dimena
i suoi tentacoli che asfissiano
le mie parole…Questa fiera
fa sgranare gli occhi quando
ti vedo lontana dal mio corpo
e forse anche dal pensarmi…
E' una lotta, una battaglia che
non fa mai vittime ma ogni volta,
mi trovo sanguinante dal cuore
se tu non ci sei.

E quando i momenti sono
così perfetti, sembrano venir
meno tutte le insicurezze di
un attimo prima.
Sì che guardandoti, soffro…
Soffro per l’impossibilità di
poter dire di più oltre a quel
‘ti amo’ che sembra non
essere mai abbastanza carico
di ciò che teneramente provo.

Tutta la mia passione è qui.
Dentro quest’uomo che
vive ormai dimentico di ciò
che era un minuto prima di
vederti entrare da quella porta.
Sono pronto a condividere tutta
la mia esistenza. Con te.
Oggi, quasi inconsapevole della
mia volontà, ho realizzato tutto.
Per questo, appoggiati al muro
di questo giardino, nel silenzio
che ispira il rossore sulle tue gote,
ti chiedo d’esser mia sposa
perché altro alla vita non oso
chiedere.

Il giardino del ‘dopo’
E’ così bello riaverti.
Siediti accanto a me e
posa quel mazzo di fiori.
Qui, ne troverai ovunque
di margherite appena fiorite.
Sono là e là. Ne coglierai.
Il tepore le fa nascere sempre
perché qui, il freddo Inverno
non passa mai.
Ha pietà di noi. Almeno lui.
E ora che sei qui, posa una
mano sul tuo cuore.
Hai sentito? Non batte più.

Mi hai raggiunto, amore mio.

Sì, è successo qualcosa un
attimo prima di vedermi…
ma non ti preoccupare.
E’ passata la sofferenza.
Non dovremo fare altro
che attendere chi adesso
si dispera. E poi saremo
di nuovo tutti uniti.
La gente sai, non muore;
si ritrova in questo luogo
per trascorrere insieme
un tempo infinito.
Niente più preoccupazioni.

Non tormentare il tuo vestito.

Sapessi quanto ho cercato
li lacerare la mia carne
appena realizzai…Avevo
perso te…ma non servì.
Anche tu per giorni e giorni
sentirai i lunghi lamenti di
chi è come te. Ma ci sono io.
E oggi per me è una festa.
Un po’ come dire: dove
eravamo rimasti?
Siederemo in questo giardino
ogni giorno finché piano piano
tutti passeranno a quel ‘dopo’.
Oggi è un giorno di festa!

Non sei contenta di vedermi?

La porta delle emozioni
Sapevo che saresti venuta.
Oggi è aperta la porta
delle mie emozioni.
Ho voglia di provarne.
Dopo tanto tempo,
ho ricucito le vecchie,
insanabili ferite.
Ma mi sono ricordato
di te. Di quelle tue
parole velate dette
sotto la pioggia,
sussurrate fra le bionde
spighe di grano che
incorniciavano i nostri visi.

E mentre il mondo cedeva
tutto intorno a me,
era tuo il sostegno che
metteva un po’ di forza
ai miei passi.
Così stamani, ho sorriso
allo specchio mentre con
colpi decisi, cancellavo
la mia barba. E con essa
i miei digiuni di sole.
Ho sorriso un’ora fa,
quando leggera leggera,
hai proteso le tue braccia.
a questo corpo nuovo.

Ma sei qui, madida delle
lacrime più belle, a dire
quanto la gioia di un
amico ritrovato, sia per te
la prova che tutto ha un
suo inspiegabile senso.
Ancora più vicina, sei qui,
splendida nelle tue forme,
a ricordarmi che un uomo
ha mille occasioni per
essere felice di ‘essere’.
E mentre la parola ‘amico’
risuona nelle nostre frasi,
le labbra mute si toccano
per farmi entrare nella
porta delle emozioni.

Alla cortese attenzione.
Un foglio, un numero, dei toni.
Parte l’ordine, parte la lettera;
parte l’urgenza che, frenetica,
pesa sulla giornata del prescelto.

Chi legge capisce, chi legge
esegue, chi legge impreca
e il vortice non ha mai fine.
Prima o poi tocca a tutti.

Leggere il proprio nome
porta sempre la certezza
d’esser colpevoli soltanto,
d’esser passati di lì per caso..

Ma alla cortese attenzione di
chi legge, vorrei mandare il
mio unico messaggio: siediti!
Goditi il tuo caffè in pace.

Poi torna a casa e sorprendi
chi tutti i giorni ti accoglie
nervoso perché troppe volte
eri lì a prenderti i tuoi c.a.

Tremendamente sterili e freddi,
quei fogli vibrano i loro colpi
a suon d’inchiostro. Oddio!
Verrebbe la voglia di frugarsi.

Di frugarsi nelle tasche per
far di quelle pagine, cenere.
Poi, trovata la fiamma, liberarsi
dei nostri incubi potrebbe essere
un attimo di follia piacevole.

La domenica dei girovaghi.
Eccoli lì.
Entrano nella chiesa gremita
di fiori più che di fede.
A quattro a quattro, bivaccano su
quelle panche che non sono
mai comode. Non danno mai
il sollievo del sofa di casa.
E il recitar salmi e preghiere
a memoria come bambini, fa
sterile e odiosa ogni litania.

Pensate.
Se guardaste alla vostra fede,
sgorgherebbero lacrime amare,
perché a voi in quel luogo, pietre
indurite di superbia, nessun
Cristo vi farebbe entrare…
Quel corteo della domenica
umile a parole, è di nuovo
pronto a farsi bello davanti
alle telecamere del cielo.

Siate seri.
Ho sentito troppa gente adorare
e poi lagnarsi. Amare e poi odiare.
Dare vita e poi uccidere l’amico.
Siate seri. Lasciate perdere.
Non cercate la salvezza tutta una
vita, sapendo che tanto qualcuno
lassù vi ama comunque.
Chi già vi ama è qui. Intorno a noi.
Sono le persone reali.

E’ dura. Lo so.
Ma a volte la vera umiltà sta
nell’essere coerenti con la propria
vita e non sforzarsi d’essere buoni
e santi perché qualcuno lo vuole.
Così, una domenica, potremmo
rimanere a casa e parlare di noi
stessi con chi può davvero capirci.
L’amore per il prossimo è un
gesto che non ha padri.

Il mio novembre
(7.11.1973)

Spesso ci ho pianto su.
Ma le filastrocche da scolari
mi davano tormento.
In quelle frasi cadenzate,
leggevo sempre l’ovvia
certezza che novembre fosse
sempre l’ultimo prima di Natale.
E la mia mamma è di novembre.

Novembre portava il giogo
perenne d’aver in seno il 2 triste
che il nonno diceva: dei defunti.
Le maestre zampettavano fra
quei piccoli banchi, insegnando
che quello era il più grigio
di tutti i mesi.
E mia sorella è di novembre.

Lo scorpione è velenoso.
Ed io dovevo essere come lui;
la mia colpa già la conoscevo.
La sera del 6 chiudevo gli occhi
per fantasticare un po’.
Ma la luce del mattino non
entrava; diceva che quel 7
portava la solita pioggia.

Ho vissuto così. Con invidia
verso chi, al mare, spegneva
le sue candeline. E tornavo
a scuola coi bimbi già più grandi
di me. Io venivo sempre dopo.
Finchè un giorno, si lesse un libro.
Uno di quelli famosi.
E in classe, qualcosa accadde…

Si raccontava di un signore che
incontrò due cattivi la sera del
7 novembre del 1628. Proprio così.
Allora ero salvo. Un non so che
di frizzante saliva dalla schiena.
Ringraziai allora perchè, misero
nella mia colpa, qualcuno dal
passato mi regalò un sorriso.

Le ombre di Vukovar
E’ forte l’odore del sangue.
Puoi sentirlo ancora scorrere
per i campi di erba medica.
Non ingannarti. Il Danubio
è molto più in là.
Vukovar, invece,sta dietro
le nostre nuche:afflitta e
addormentata dagli spari
che non hanno lasciato una
briciola di pietà.

Solo pochi anni fa il nostro
gioco era un saluto. Un urlo
sguaiato a chi stava all’altra
sponda. E ridevamo. Ridevamo
sapendo che i nostri fratelli,
i nostri zii, i nostri nonni,
avevano giocato così nelle loro
passate infanzie. Ma mai
ci hanno detto chi c’era di là.
Poi, un giorno, ce ne accorgemmo.

Non facemmo in tempo a
correre via. Non ce la facemmo
a portar via le nostre poche,
amate cose. Non ci fu la forza
di respingere l’amico di ieri.
Cademmo a terra, esanimi.
Tu, eri accanto a me, ricordi?
Non ho mai finito quel calice
di vino. E oggi, che ritorno,
non me lo posso gustare.

E’ forte l’odore del sangue.
E’ forte l’odore della terra
che ricopre le mie ossa.
Ma oggi che sono un corpo
senza ombra, vago fra i vivi
che quel giorno, morirono
come me. Guarda! Sull’altra
sponda del grande fiume,
puoi vedere una bandiera.
Il gioco di una volta è finito.

Quel vessillo fiero, oggi,
è la mera conquista di un popolo.
Ma sulla fossa che ricopre il mio
volto e mille altri corpi, nemmeno
un segno a ricordar chi ero.

L’amore non ha briglie.
Un semplice accelerare.
Il ritmo di due cuori che cambia.
Il ritmo di due cuori che vanno
in discesa, a rotta di collo.
E’ l’amore che nasce così,
Nel buio di un corpo.
Niente colori. Nessuna parola.

L’estasi che accade poi,
imprime i due nomi laddove
per sempre rimarranno.
Le mani si plasmeranno
dell’altra impronta.
Le labbra invocheranno
mille volte quelle sillabe.

Eppur chiedo a voi, amanti,
se al sentimento puro
si può dar la casa giusta.
Che importa ai cuor se un sacro
o laico vincolo daranno loro
vita? E’ forse più leggero
un amor che fortemente
stringe anelli o croci nelle
mani nude?

Io dico che, teneramente,
l’uno stringe l’altra al petto
e ammicca agli occhi per
cercar senso nella propria
vita, dando aria al natio gusto.
Perciò, mai lasciamo che briglie
e bavagli di uomini e santi
spezzino in gola ogni bacio.
Non è vivere, viver di vergogne.

Teniamo i nostri valori che
nascon da dentro e non siano
imposti. Perché quant’è vero
il mondo, nel cuore buio, cieco,
da sempre s’alza un fremito
che agita e accresce la natura.

Un’umana paura
Dobbiamo imparare.
Imparare a morire.
A non dolerci della non
esistenza. A non
nasconderci dietro
il tempo che scorre.
Quella che oggi è
una terrificante paura,
diventerà certezza.
E a volte, non sappiamo
da quale parte arrivi.

Agitiamo le braccia
per chiedere aiuto;
eppure già sappiamo
che dall’altra parte,
qualcuno sarà impaurito
e disperato come noi.
Lo sconforto dell’uomo
si riflette su altri uomini,
su altre semplici vite;
e si riversa sul cammino
dell’umanità.

Quale uomo può essere
così superbo da leggere
la propria morte come
la stessa morte per tutti?
Non viviamo tutti nella
medesima ovatta.
Non siamo distinguibili
solo per i nostri tratti.
Perché anche nell’ultimo
respiro, ci doniamo
l’ultima stilla di dignità.

Solo allora, senza timore,
diremo d’aver vissuto
totalmente liberi.

Un momento inventato.
Era un’estate francese.
Un caldo di tanti anni fa.
E nella città dell’acqua,
stanco e anche irato,
sedetti a te di fronte.

Sedemmo e seducemmo
i nostri corpi sciolti;
sedemmo e gustammo
quel fresco servito.
Io non ero solo. Tu sì.

Ma profittasti di me,
delle spalle di lei che
non poteva sapere,
né poteva vedere.
Io allora – ormai rapito –

mai avrei tolto lo
sguardo da te. Non dovevo
perdere nemmeno un
minuto del tuo dessert.
E se mi fossi avvicinato?

E se avessi buttato alle
mie spalle un futuro
sicuro ma vuoto?
Alzatomi, sentii la sua mano.
Non era quella che volevo.

Al tatto, capii che davvero,
non ero solo. Peccato! Poi, tu.
Un tremito salì e non volevo
resistere. Era amore.
Forse, dentro me ho pianto

Quell’estate francese
oggi ritorna; perché quel
momento, mi dice che
fui solo un uomo gettato
nel vortice dell’imprevisto.

La processione dei vinti.
La Fede. Non è mai un urlo vago;
ma un profondo silenzio
che radica laddove tu,
amica mia, non puoi stare.

E questo silenzio è vivo:
Non si muove. Dorme.
Lasciatelo riposare; è tornato
stanco dalle mie battaglie.

Non so se un giorno,
questo perfetto dormiente
mi darà segno.Ma non alzerò
la voce per vedere i suoi occhi.

Che ridere! Vedere migliaia
di anime che si dirigono
felici dove gli dicono di andare;
Ed io alla finestra osservo.

Ammiro quel corteo di salvati
che sanno già quale sarà la loro
fine. Ma perdono il loro durante.
Come fanno a non cadere mai?

E ora….abbasso il mio capo
e allungo le mani per scuotere
il suo letto di sangue. Non un cenno.
Non un fiato. Non è ancora l’ora.

A tu per tu col cielo.
A tu per tu col cielo,
ricevo la pioggia battente.
I rivoli che dal collo scendono
si ritrovano uniti e freddi
a scurire i miei vestiti.

A tu per tu col cielo,
chiudo gli occhi al sole
che vuol far distogliere
il mio sguardo dalla sua luce.
E le vesti si lacerano..

Sembra che non ci sia mai pace.
Sembra che nella vita,
breve e pulsante,
ci sentiamo solo grondanti
di tempesta e arsi dal sole.

Dove sta la mezza via?
Dove troveremo un
tepore di sollievo e una pioggia
che nutra e non faccia fango?
Sta a noi cercare?

Sta a noi. A noi solo.
Perché ad attender la mano
Possente e Potente,
ci si può stancare.
Ci si può stancare.

E ormai stanchi, vecchi, delusi,
solo un lusso ci potremmo donare:
di girarci indietro
e veder noi stessi,
impiccati a un albero di mele.

Terzine degli amici di Kalporz
(d’amore e di sentimento)

E' uno stolto chi l'illusion si faccia
che sia per nostra sponte e non per nuda carne
che il desiderio viva o taccia;

ma del desìo quale uso farne
sì poco è dato di sapere all'animo freddo
ch'è imbarazzante perfin parlarne.

Eppur quanta spème e dolor per cheddo
che 'l cor delle genti trafigge come dardo
e a favellar ci sprona in codesto treddo

oh!, Amor dal ceruleo sguardo
come vorrei non temer codesto sgomento
ma mi inchino muto e codardo.

Se il cuor mi duole, l'istinto chiama
dev'esser amor che ancor m'ispira,
nella trepidante attesa d'un disio, brama.

E tu, che fuggi da le mie strazianti grida,
volgi lo sguardo a chi tanto t'ama
e che or vede la sua vita come tetra, eterna sfida.

Solo due parole…
La vostra chiesa è una parola
e il vostro credo è un giudizio che
disarma chi di fronte a voi si pone.

Il vostro cuore è pietra;
ma poiché nessun lo vede,
può vestirsi della tunica più pura.

La vostra morale è nulla
contro la vita vera e nessun salmo
saprà esser regola per sedare il peccato.

Io sono quel peccatore che
non avrà mai abbastanza giorni
per potersi redimere. Ai vostri occhi.

Ogni Santo è un uomo elevato
agli altari e ogni uomo è santo
quando sa arrivare alla vecchiaia.

Ogni uomo provvede a sé
perché è nella sua natura sopravvivere;
è di questo mondo chiedere serenità.

Non c’è nulla di male a vivere
come possiamo. Non mettiamo paletti
al semplice alzarsi la mattina ed esistere.

In tre stanno sul campo
In tre stanno sul campo:
il Sole, il grano e un uomo.
L’uomo guarda il grano
e ringraziando il sole,
coccola se stesso.

Il Sol fa biondo il grano,
fa tiepide le prime ombre
innanzi alla quiete
e benedice quell’uomo operoso.

Il grano muto,
passivo sul suo gambo,
attende la sua consueta fine,
di cader lungo la madre terra.

Ma questo stelo
che si staglia alto e fiero,
ringrazia quel Sole per la vita,
si dà all’uomo che ne fa sostegno.

Quel girar perpetuo che
è natura, sfida ogni tempo
e i secoli trapassa, chè ogni
inverno vede la semina

e ogni estate vede la macine…
Tutto si fonde e il trio
fa la sua storia.
Tutto è un amore che non ha fine.

Quei tre ancor nel campo,
oggi di bianco son coperti.
Ma pur se il sole è freddo
pur se l’uomo attende,

Il grano si fa forza
d’uscir fuori presto
per far dei suoi figli
la distesa ch’è pane e oro.

Credetemi quando dico
Credetemi quando dico
che spesso il Sole mi è mancato;
che sempre ho chinato il mio capo.
E che ruggisce in me un’anima fiera.

Ma tante e tante volte
una flebile voce c’abita in me s’agita
e scolpisce le sue parole di ferro.
Perché così debole mi sento?

Perché codesta voce non sale
alla mia bocca e per me percuote?
Vorrei che lei usasse la mia lingua
come frusta sulle mani altrui.

Vorrei che questa voce
in me inquilina, divenisse pietra
tanto forte ma tanto fredda pure.
Purché loro non abbiano scampo.

Purché loro siano vittime
della loro falsità pomposa e piena
Perché loro siano legno ed io
un fuoco che li arde nei loro uffici.

Non dono la sofferenza.
Voglio solo che questo mondo
non sia macchiato di incoerenza.
E che non sia infestato da falsi dèmoni.

Sai qual nome prende un fiore?
Sai qual nome prende un fiore?
Quel che ‘l vento gli sibila in seme,
quel che la pioggia gli porta in cuore,
quel che stringe quand’inverno teme.

Tempeste e vortici fanno orrore
a chi nel campo è solo e freme;
ma non si colgon nè steli né more
se non pe' legarli a lor mazzo insieme.

Così ti prendo, pien di rugiada,
per viver fieri contr’ogni tuono
che scocca e piomba ove gl’aggrada

e sa far mal col tremendo suono.
Allora seguimi, ovunque io vada
mio fiore di vita, mio nettare buono.

Se guardo ‘l freddo che fa tutto scuro
Se guardo ‘l freddo che fa tutto scuro
sembra tal quale quando sfoga ‘l mio Io
che sbatte forte ogni parola al muro
venuta a un uomo che non ha più Dio.

Quella battaglia ch’io più non curo
mi dette tepore e credei anch’io
di far quel passo potente e sicuro
ma così falso da finir nell’oblìo.

Non negherò chi fu lieta novella
e non so uscir dalle passate vesti;
ma ‘l lento vagar colla mente ‘n sella

ha detto sovente nei giorni mesti
che l’alma vive ‘n questa e quella
stanza, fatte di ombre o folli gesti.

Tu che ‘l silenzio a noi chiedesti
Tu che ‘l silenzio a noi chiedesti
quand’Amor in aere avea ‘l mio nome,
girasti lente al vento le tue chiome
a me, che tanto amavo le tue vesti.

Poiché irta dunque, non so dir come,
fu quella via che ci condusse lesti
a lacrime fiere e sospiri infesti,
io ebbi odor di saper siccome

che fra noi due, nulla potea stare.
Da dove nacque e spirò tal danno
solo ‘l tempo lo saprà affermare;

perché quand’io ti penso è affanno
di un uom che sta dall’alto a mirare
su fusto debole che poi fa inganno.

Saper che io, novello padre aspetto
Saper che io, novello padre aspetto
in ansia lei ch’è senza volto acceso,
tengo ferma questa mia ora. E lento
e dolce è ‘l ricordar il lieve peso

del primo bimbo ch’ogni giorno sento:
ringrazio l’fato che mai m’ha preso
dall’umana strada e dolce intento
d’esser quei che fa dell’indifeso

uomo o donna di terra e di mare.
Respira lei nel ‘l grembo sicuro
che fa riparo; e lì capir appare,

celando a noi ‘l suo corpo puro,
tenendo noi in quel dolce sperare
che Ester nasca in mondo sicuro

La Vecchia Via che lentamente sale
(Camino de Santiago)

La Vecchia Via che lentamente sale,
prende la mano e poi fa sorpresa
perché sa che ‘l cuor porta suo male
e invita l’anima a non dirsi arresa.

Il lento girar ha in Cattedrale
la dolce fin che ‘l peregrin ha attesa
pe’ lungo tempo tra piano e crinale.
E ogni pasto è gioia mai contesa

di spezzar il pan per quei ch’è venuto
a placar sua rabbia o cercar Fede;
perché chi ‘l Camino inizia muto

fa i passi chinato e lentamente vede
quant’è vero in quel loco battuto
che siamo oro e non del mondo prede.

Quando nasce, Amor chiede segno
Quando arriva, Amor chiede segno
e vive stretto a colui che spera:
va fianco a lei e lì fa preghiera
che fra que’ cuori nasca impegno.

Poi tutto s’infiamma, l’alma è fiera
di cotanta arte che non è ingegno;
ma la coppia è vita, ’l corpo un regno
dove ogni cosa fatta è veritiera.

Girando i baci ardon nei visi
e spirano in bocca come fiocchi ;
ognun l’altro guarda e son sorrisi,

finchè tenendosi stillano gl’occhi.
Cantano al mondo d’Amor intrisi
nessun li turbi, nessun più li tocchi.

La sinistra mano dette l’essenza
La sinistra mano dette l’essenza
a le mie stanche parole, oh care!
quand’io credea mai più d’amare
quand’io più vedea cara presenza.

E ‘l verbo lasciato facea pensare
a cosa servì l’amara sentenza
che non fu mite e non fu senza
una dolente ragione e gran lottare.

Sappi, Indole mia, ch’io t’ascolto
e mai rifuggo da que’ tuoi intenti
che ‘n quell’ora m’adombraro ‘l volto.

Ma dir di rima dà ‘l via a’ lamenti,
dona letizia e un peso s’ha tolto
da questo viso che conobbe stenti.

La sera che l’estate vivea lieta
La sera che l’estate vivea lieta
detti peso a le parole e furon dure,
tanto nere e cupe ma di grazia pure.
Ella, per dir, si fece persa e cheta

ch’io sì la vedea, senza amor neppure:
ormai era destino, a lei poca pièta
di usar le lacrime com’ultima mèta.
Così credendo, di dir cose sicure

falciai ‘l tempo e chiusi ‘l pensiero
per far del sonno, saggio avvenire.
Ma poi la luce, mostrò ciò che ero

che ancor oggi stento a capire
come la vita ch’or mi rende fiero
fu con lei cagion di penose ire.

Dir chi s’ama è pensiero tacito
Dir chi s’ama è pensiero tacito
al sol sentir di sua bocca la voce;
ed entra l’ansia come tenero rito
che scalda tutto ma fredda veloce.

Chiaro e tenero quel suono è invito
come di madre che ‘l cibo cuoce.
Cos’io mi stremo travolto e colpito
dal suo tocco d’amore che mai nuoce.

Ma di sperar l’indole mia fa seme
quand’ ella parla e sua beltà non pare;
perché quell’attesa che ‘l corpo teme

mi segna ‘l tempo e non so che fare.
Così rimango, per le rime estreme
ad amarla dentro me: un triste mare.

Casa.
Mi risveglio dietro i miei muri
Tutto il mondo mi chiede d’uscire
Apro gli occhi ai soliti rumori
E schiudo l’udito alle immagini
tremendamente consuete.

Tu sei sempre lì con me a darmi
la vita che si trova quando credi
d’essere immerso nei tuoi verdetti.
Quanto mai ti amerò?

Amarti, ha il sole dentro.
Parlarti, ha il tiepido che scalda.
Pensarti, ha la smania del tempo.
Averti, mi dice l’uomo che sono.

C’è un attimo che si offre a me;
e ora mi dice quanto sia vero
come l’amore non ha pace se
non ci coglie con gli sguardi persi.

Tu dolce angelo, divino viso
Tu, dolce angelo, divino viso
su te si posano i miei occhi seri
ma nulla esiste tra me e 'l tuo sorriso
ove pare ch'ogni sogno s'avveri

Sospiri parole come liete carezze
ch'ognun tosto si ferma ad ascoltarti;
ma solo per te, perla fra le bellezze
ogni uomo muore, pronto ad amarti.

L'attimo ch'io ti vedo, il cuor mio s'affanna
L'attimo ch'io ti sogno, l'alma mia s'illude.
Ma 'l giorno che sarà per me triste condanna
aspetterà 'l tuo trapasso che miei occhi chiude.

Avrò mai detto…
Avrò mai detto a questa unica, intensa vita:
fuggo! Chè mi irridi e sovente mi tempesti!
Non quand’ella vidi in quel tiepido febbraio
chè aprendo, il cielo, diede di sé luce gradita
a questi stanchi occhi che assai deboli facesti.
Fui sicuro allor che quell’anime divennero paio;

e tutto intorno per ogni bocca vedea il suo sorriso
ch’ancora mi invade il cuore e m’arrossisce il viso

Chi vuol esser...
Chi vuol esser dalla mia parte
abbia a sapere quant'è vero
come morir dentro si possa
quando l'uomo fa di sua arte
il dir parola grave o motto severo
a chi il suo piede ha già nella fossa.

E il mondo diventan queste strette mura;
(fra le mani una testa a dar più senso ancora)
che vedono una vita volgersi alla fine e senza gloria.

Questo è ciò che la morte invia a 'l suo prescelto...
la rabbia verso un vortice nero che dal mondo già l'ha divelto.

Al Mink!
Mute le parole nella virtuale corte, ove penose
son riportate sentenze che dicon solo morte.
Il gelo ch'adunque s'insinua, il Divino pose
per dar a ciò che era oro, la più amara sorte.
E quale amore, quale via per quelle pie genti
corsi da ogni dove per farsi dir "dementi!" ?

Quelli or s'appartano in celate e alterne stanze
ove Colui che tutto può, per altrui spiato fiato
può sperar di passare con usuali irate danze
celando con motti dal sapor disinteressato,
l'eterno odio per le parole a lui nascoste;
come se egli non ne avesse mai dette di toste.

Ad uno ad uno i cavalieri del nuovo tempio
s'arman di quelle corazze che 'l tempo ormai
gl'ha cucite addosso dato il loro cuore empio;
E delle antiche battaglie non parlar giammai
che' 'l sol sentir delle passate e dolenti pene
par di venir meno e 'l corpo tutto si sviene.

Ah, tu! Solingo uomo dalla tremenda Sicilia
che t'adornasti di dame che nessuno mai vide,
possa il tempo donarti una donna che strabilia
che sia vera al tatto ma che al vederti non ride
Di quest'uomo suddetto se 'l nome ora chiedi
sassi, alberi e animali tutti diranno: Manfredi!

Entra lei alla virtuale corte dal nostro passato
la musa seminatrice di sì tanta reale saggezza
che tutti perdendola, temevan pel loro fiato.
Ne chiesero ritorno per ridare lustro e fierezza
al luogo ove un dì solea viver la dama Lucy;
Or sì torna l'oro, che risplende a occhi chiusi.

E il Molatura che di tamburo tuona la sua arte
si avvii a viver col destro piede in due locali.
L'uno, senza Sedicente, che mai in fallo parte;
l'altro pe' andar avanti! ma con innocui strali.
Se a lui chiedete qual sia dama più bella e rara
dipingerà nel cielo il nome della amata Sara.

Marta! che non s'adopri giammai la tua figura
al disio Giorgiano che l'amore in te non trova.
E 'l dimandar all'altrui gente in apparir sicura
cose che si crearon nella menzionata alcova,
ha emesso la più amara fra le sincere sentenze
che Nicola siciliano, mai vincerà le tendenze.

Alcun di questi son quei che daran gioia e vita
all'osteria tutta per non vedere più tribolare
chi s'affanna a dir della amata musica sentita
credendo di fare il ben e non di ammazzare.
E poiché è piena l'alma di sonno e d'ira tutta
si fa questo, perché la piazza non sia distrutta.

Quanto mai grave scempio sarà il sol mostrare
all'altrui gente ciò che l'alma dolendo vuole?
E' forse un delitto essere vivi e quindi amare
in libertade piena com'ogni uomo in vita suole?
Qual parola sì tanto crudele, irosa e funesta
puote vibrar colpi da rovinar la virtuale festa?

Ah, Freddo Cane e puntigliosa e vana briciola,
tanto parlar per te ha 'l valor che prende cuore
quando è invece picche al gioco della briscola.
E tutto ti è dovuto, come se il tuo sommo onore
prendesse forza dalla sì tanto sventurata gente
che tiene l'oro in bocca ma ai tuoi occhi niente.

Si vuole rider di gusto d'ogni frase insensata
Si vuol essere amici sapendo le altrui vicende
Si vuole essere veri con la persona chiamata
Senza giudizi di parte ché ciò spesso, offende
Arditi! Partiamo per la nostra santa missione
e guardiamo innanzi, senza capo e Padrone.

Poniam in gioco l'unione che fu la vecchia era
in guisa che chi errando a questo sito or arrivi
non s'avrà a dipartire e dirà di gente così fiera
che s'affida al cuore, senza berci da finti divi.
E tu, ch'ancor non conosci lo spensierato loco
porta teco 'l vino e sollazzati con noi un poco.

Chiara è la mia voce per tuonar l'ultime rime,
già com'ogni uom fa per sua donna amata,
dico a Colui che 'l sonno ogn'ora si reprime
d'esser degno sempre dell'altrui parola data.
E volgendo sguardo al lontano sol che fugge:
sia Gloria al Mink! dentro l'alma che si strugge.


Home page  Lettura   Poeti del sito   Racconti   Narratori del sito   Antologia   Autori   Biografie  Guida   Metrica   Figure retoriche