Racconti di Luigi Di Francesco 


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ANTEFATTO

CAPITOLO I - La battaglia

Era un dolce settembre, per quanto potesse esserlo il tempo in un avamposto sul Reno, e declinava verso l'autunno volgendo lentamente al freddo. Nulla, nella calma quasi annoiata di quelle giornate, lasciava presagire quanto convulsi sarebbero stati i giorni a seguire, quanto lunghe sarebbero state le attese, quanto brevi le speranze. Nessuno immaginava che, presto, gli eventi ci avrebbero portato dalle brume del Nord alla luce accecante dell'Africa; che partiti per conquistare il mondo, il mondo che ci era stato dato, come rapidamente lo conquistammo, tanto rapidamente lo perdemmo. Partendo immaginammo e tememmo che la morte potesse agguantarci nella battaglia, prendendo la vita in cambio di una fine gloriosa; ma come sempre accade, nessuno sapeva chi e dove la morte attendesse, ed alla mano di chi le Parche avevano affidato il compito di recidere il filo.

Pelio, come ogni mattina, si era alzato alle prime luci dell'alba; la notte era stata tranquilla, il fragore delle armi, che aveva risuonato fino a qualche mese prima, sembrava lontano.
In attesa che il sole si levasse e cancellasse dall'aria la bruma, si guardava intorno immaginando l'aspetto delle cose, di cui la luce del primo crepuscolo disegnava i contorni. Il silenzio era rotto solo da qualche fruscio di vento, che gli portava di tanto in tanto il parlottare sommesso dei militi di guardia. Nulla, in quel momento, ricordava quanto era accaduto solo un paio di anni prima; sembrava che tutto il sangue versato ad Argentoratum, fosse scorso via senza lasciare traccia, sembrava che di tutto si fosse perso il ricordo. Anche le incursioni, che di tanto in tanto erano portate oltre il Reno, fossero entrate a far parte delle abitudini, ma fintanto che il ricordo della sconfitta fosse durato nella memoria dei Germani, fintanto che le azioni portate di là dal Limes avessero impedito ai Franchi di riorganizzarsi, la Gallia e l'Impero sarebbero rimasti sicuri.
La sicurezza della frontiera era stata ristabilita, Pelio sperava che per molti anni nessuna minaccia venisse più dalle frontiere settentrionali, sperava che, per quanto fosse consentito ad un limitario, anche la sua vita potesse scorrere serena nella casa di Colonia Agrippina. Questi pensieri gli passavano per la mente, mentre volgeva lo sguardo verso Ovest, dove oltre il fiume si stendeva la città. Era più che una speranza, "commilitoni, è giunto il giorno da lungo atteso, che ci spinge a lavare le antiche macchie per ridare alla maestà romana la gloria che le è propria", questo aveva detto Giuliano prima della battaglia, questo era accaduto. La Pax Romana, nuovamente regnava, gli agricoltori, che erano stati portati in schiavitù dalle tribù barbariche, erano stati liberati, ed avevano ripreso il loro lavoro, attraversando il fiume, che un tempo insanguinato, scorreva ora placido nell'aria ferma. Ora se il Cielo l'avesse voluto, sarebbe stato possibile godere le gioie della pace restituita.
Pelio, si compiacque con sé stesso del lavoro fatto, di come aveva assolto il suo compito assieme ai commilitoni, e si rallegrò del percorso fatto nelle legioni di Roma, ripercorrendo il suo passato e gli eventi che da Vindobona l'avevano portato all'avamposto di Divitia.
La sua famiglia aveva servito nelle legioni di Roma per molte generazioni, i suoi antenati venivano da Brigetio, dove qualcuno dei suoi avi per prima si era arruolato nella XXX Ulpia, seguendola nelle sue peregrinazioni dalla Dacia attraverso l'Impero, così come poi avevano fatto i suoi figli, ciascuno sostituendo il padre. Fino a suo nonno, che stabilitosi a Narbo nelle Gallie aveva avuto dieci figli; ma di questi erano sopravvissute solo quattro femmine, tra cui sua madre Mari. Anche suo padre era stato un legionario, ma a differenza degli avi materni, era nato ad Oriente del Limes, che ora Pelio si trovava a difendere. Suo padre, Breno, era un mercenario Franco arruolato da Costantino tra gli auxilia della II Italica, ed oggi, come suo padre un tempo, anche Pelio si trovava a combattere contro gente del suo sangue, che era rimasta di là dal Reno. A volte si chiedeva chi fosse. Dentro di lui scorreva sangue gallico e germanico insieme, eppure non aveva dubbi: "cives romanus sum", si rispondeva. Questo suo padre aveva scelto di essere, servendo nell'esercito di Roma e questo a maggior ragione era lui, per scelta e per discendenza.
D'altro canto l'impero era un gran crogiuolo di genti, gli stessi imperatori venivano da ogni dove, pur considerando Traiano un Italico, Settimio Severo era un Africano, Diocleziano un illirico, Filippo addirittura un arabo; come suo padre molti guerrieri germanici avevano servito nelle legioni per diventare cittadini romani. Lui in fondo lo era più degli altri: lo era per scelta e per nascita.
Intanto il sole si era levato, Pelio salì sulle mura e cominciò ad ispezionare la guardia, chiedendo ad ognuno le impressioni della notte, certamente non vi erano state cause di allarme, nulla era accaduto, né alcun fatto degno di nota poteva destare preoccupazioni. Quindi, ascoltati i rapporti delle sentinelle, Pelio scese di nuova all'interno del forte. Anche in tempo di pace, nulla poteva essere trascurato. Chi non era impegnato sulle mura, metteva in ordine le armi, controllava gli archi e i giavellotti, ungeva i finimenti dei cavalli o lubrificava le corde e gli ingranaggi delle balliste.
Finita la guardia, completati i compiti di manutenzione, e quanto necessario alla pulizia ed all'organizzazione del forte, qualcuno si concedeva una pausa con il gioco dei dadi.
Pelio attraversò il campo attardandosi accanto alle macchine da guerra, anni addietro gli era stato affidato l'incarico di prefectum fabri ed ancora era affascinato dalla potenza distruttiva di quei congegni. La potenza della legione, in fondo, era non solo nel coraggio degli uomini e nella loro forza fisica, quanto, soprattutto, nell'organizzazione e nella versatilità dei legionari, che erano in grado di usare ugualmente bene la spada, come l'ascia, la pala o le macchine da guerra. Pelio, nato come legionario, era ora un giovane centurione e per qualche tempo aveva svolto il compito di preaefectus fabri, incaricato di coordinare carpentarii, gromatici e fabbri per la preparazione delle macchine prima della battaglia e per la sistemazione del campo e delle fortificazioni.
Raccolte le impressioni della notte, attraversato velocemente il campo, si portò davanti ai dormitori ed attese che gli uomini della prima guardia uscissero, per accompagnarlo sulle mura. Seguito dal manipolo di soldati percorse gli spalti controllando che ciascuno fosse al suo posto, che baliste e scorpio fossero correttamente diretti e forniti di dardi e proiettili; ciò fatto, si avviò verso la sua postazione, in una delle torri centrali, poste al lato della porta, e lì rimase a controllare l'orizzonte. Oltre il fossato, per circa un miglio, il terreno appariva come un deserto verde, non un albero non un cespuglio si levava dal terreno, nessun uomo avrebbe mai osato percorrere quegli spazi. Di tanto in tanto qualche volpe o una lepre facevano muovere l'erba alta, destando l'attenzione della guardia a rischio della vita; nulla che non fosse chiaramente identificato poteva attraversare quell'area, senza che qualche dardo lo colpisse un attimo dopo che fosse giunto alla distanza di tiro.
Mentre scrutava l'orizzonte deserto, Pelio pensava che Giuliano, in quei pochi anni in cui aveva avuto il comando degli eserciti in Gallia, aveva acquisito esperienze e capacità non comuni. Per la sua prudenza appariva come un secondo Tito: per le sue gloriose gesta di guerra, poteva paragonarsi a Traiano, nella misericordia egli era pari ad Antonino e nell'amore e nella ricerca della sapienza, non era da meno di Marco Aurelio, che sempre in ogni suo atto sembrava aver avuto come maestro.
Mentre era assorto in questi pensieri, neppure sentì che Aurelio, dietro di lui, gli stava chiedendo quali fossero i suoi programmi, quando al termine del turno sarebbe stato libero di spendere il suo tempo.
"Verrai con me a Colonia al tramonto?" chiese Aurelio.
"Certo che verrò, ma non nelle taverne e nei postriboli dove tu passi le notti. Mi fermerò nella casa di Demofilo, e passerò lì i due giorni di cui dispongo e poi ritornerò a Divitia", rispose Pelio.
"Passerai, dunque, il tuo tempo a discutere con Demofilo nella sua biblioteca, oppure a corteggiare la figlia nell'orto?".
"Entrambe le cose", rispose Pelio convinto: "ormai è tempo che prenda una moglie. E, Cloe mi pare la ragazza più adatta. La pace è tornata, le guerre sono lontane, godiamo anche noi questo momento di tranquillità. Se tutto resterà tranquillo, forse anche tu potrai tornare in Italia per un po' di tempo, allora, prendi la tua Faustina e portala qui, ed abbi cento figli." E dopo aver guardato un attimo l'amico negli occhi, "Ormai, nessuna delle due rischia più di restare vedova in giovinezza", concluse.
"C'è sempre tempo per le nozze, godiamo ancora qualche giorno di pace, come dici tu, prima di venderci ad una nuova padrona. Intanto, tu vai a fare il tuo bravo servizio di coppiere per la figlia di Demofilo. Ormai ti abbiamo perduto per sempre, …… o forse finché la condizione di sposo non ti farà rinsavire". Ciò detto, Aurelio diede una pacca sulla spalla di Pelio in segno di saluto e riprese il suo giro di perlustrazione lungo le mura, accanto a lui parlottavano alcuni soldati illirici.
Pelio riprese a scrutare l'orizzonte e, mentre i suoi occhi guardavano lontano, la sua mente ripercorreva gli avvenimenti trascorsi, e gli eventi così velocemente susseguitisi negli ultimi brevi e densi anni.
Così gli passarono nella mente le immagini degli ultimi anni, ricordò quando Guliano aveva preso il comando dell'esercito delle Gallie, per affrontare le orde che scorrazzavano indisturbate per le pianure dal Reno fino ad Augustodomun ed ai confini della provincia d'Aquitania, e mentre raccoglieva le legioni, lui che era sempre stato lontano dalle armi, aveva voluto conoscere tutto dell'arte militare. Aveva riletto i libri di Cesare, aveva marciato, con i soldati, aveva corso con i velites, cavalcato e manovrato con i cavalieri, tirato d'arco e lanciato giavellotti, aveva voluto vedere e provare le macchine da guerra. Finché non gli fu scolpito nella mente ogni manovra, l'effetto di ogni arma e di ogni manipolo, continuò a chiedere ai suoi tribuni, ai centurioni e ad ogni soldato; per quanto forse pensasse "non ego sum laudi, non natus idoneus armis: hanc me militiam fata subire volunt, Io non nacqui per la gloria, non sono adatto alle armi; a questa milizia mi costringe il fato".
A volte doveva essergli sembrato rinnegare i suoi maestri. Chissà che cosa ne avrebbe pensato Giamblico di questo militare schiacciato sotto la pesante armatura, che sudato e infangato imparava a dirigere le manovre delle coorti.
In una di quelle marce, Pelio ricordò come Giuliano gli si fosse avvicinato, notando come dal suo zaino, insieme alle scorte di cibo, all'accetta, alla pentola, alla borraccia, spuntasse un rotolo di papiro.
Incuriosito Giuliano si era fermato accanto a lui chiedendogli cosa contenesse quel libro.
"Un volume del metodo di Archimede" gli aveva risposto.
"Bene, allora, il tuo posto non è qui", replicò Giuliano, "segui il prefectum fabri, e impara da lui, credo che tu possa essere un buon aiutante, intanto qui, tra i pedites, credo che tu sia sprecato".
Pelio rimase al momento sconcertato, non sapeva se obbedire come pareva naturale, o far presente a Cesare le difficoltà che avrebbe incontrato un neofita come lui; ma era un'occasione per imparare, per fare nuove esperienze, che difficilmente si sarebbe ripresentata, perciò, pur consapevole delle difficoltà: "vado", rispose semplicemente, e si avviò verso le ali dove erano disposte i carrobalista. " Se un filosofo si trasforma in generale", pensò," perché un fante, non potrebbe occuparsi di macchine da guerra?".
Qualche tempo dopo capimmo che Giuliano era affascinato dalle macchine da guerra ma, soprattutto, ne comprendeva l'importanza, tanto da sentire il bisogno di scrivere un libro sull'argomento, un libro che forse in quel momento era ancora sulle ginocchia degli Dei, o in mente Dei, come direbbero i cristiani. Riteneva infatti che queste macchine dovessero avere maggiore spazio nell'arte della guerra, per dare maggiore impeto alle legioni, maggiore efficacia alla loro azione e perché le campagne militari, condotte con un minor numero di uomini, costassero meno all'erario. Era un filosofo, ma mostrava di capir dell'arte militare molto più di tanti generali inetti.

Così per tutta la marcia di trasferimento Pelio aveva seguito il prefectum fabri, cercando di apprendere tutto quanto possibile sui segreti delle macchine da guerra.
A poco, a poco Pelio fu talmente affascinato dalle macchine da dirsene innamorato, prese a toccare le matasse di torsione, chiedendosi quanta forza potessero produrre, osservava i bracci tesi dell'arco, e la corda tirata dagli arpioni delle ruote dentate, seguiva i lanci dei verrettoni, che scagliati dalla ballista penetravano l'aria trapassando con forza il bersaglio.
Cominciò a segnare su di una tavoletta l'angolo di lancio, la posizione del gancio di tiro, la distanza raggiunta dal dardo. A volte si chiedeva quale mano continuasse a spingere il dardo, una volta che avesse abbandonato le corde della balista. Se le indicazioni date dai filosofi fossero davvero aderenti alla realtà, o se invece non fosse una legge diversa, quella che governava il moto, e questa non contraddicesse le conclusioni dello Stagirita.
Gli sarebbe piaciuto poter indagare su queste cose, ma non era compito di un soldato occuparsi di questo, in ogni caso era bene annotare i risultati di ogni lancio, l'influenza dei materiali, la fattura della macchina, ed ogni dettaglio che potesse connettersi alla della gittata ed all'efficacia del tiro.
In quei giorni che avevano preceduto la battaglia di Argentoratum, aveva dovuto trascinare le carrobaliste attraverso stretti sentieri e strade polverose, rincorrendo le coorti che marciavano a tappe forzate e, per quanto non gli gravassero direttamente sulle spalle, sentiva in sé la fatica e l'ansia di dover stare al passo con i suoi muli recalcitranti, mentre i soldati correvano avanti nella brama di battersi.
Tanto erano, i legionari, desiderosi della battaglia, nonostante la stanchezza di un giorno intero di marcia, che quando Giuliano, attraversata la foresta, si fermò in vista delle schiere dei Germani, piuttosto che fermarsi per disporre l'accampamento, cominciarono a rumoreggiare, ad agitarsi a battere le spade e le lance sugli scudi, chiedendo di battersi nonostante la lunga marcia ed il giorno avanzato.
Giuliano appariva perplesso, da una parte doveva essere incerto sul da farsi, di sicuro non doveva essere facile decidere se osare, facendo leva sulla foga dei soldati, o se differire prudentemente la battaglia, per affidarsi ad uomini rinfrancati da una notte di riposo. Non c'era molto tempo per decidere!
L'entusiasmo dei soldati era un fuoco che non poteva essere ravvivato o riacceso a comando. Ma sarebbe bastato a colmare la stanchezza della marcia appena conclusa? Occorreva disporsi in fretta in ordine di battaglia contro i Germani già pronti da tempo, occorreva tempo; poteva fermarsi a riposare o doveva rompere gli indugi ed attaccare d'un solo impeto?
Giuliano credeva, ormai, di conoscere, abbastanza i suoi soldati, c'erano mercenari, illiri, dalmati, ispanici e galli, sapeva quanti fra loro erano desiderosi di difendere le loro case e le loro terre e di vendicarsi dell'affronto subito, quando i germani penetrati oltre il Reno ne avevano portato via e ridotto in schiavitù gli abitanti. C'erano galli, batavi e germani romanizzati, che erano talmente immedesimati nella nuova identità da essere i più convinti ed ansiosi di battersi, come Bainobaude e Viburno.
Alla fine rotti gli indugi Giuliano urlo: "Avanti, è venuta l'ora della battaglia! "; tutti appena l'ebbero udito si spinsero in avanti ripetendo la frase, e mentre il grido si spandeva come un'onda, l'armata avanzava verso lo schieramento germanico, nel frastuono impetuoso delle buccine.
Gli archi presero a scagliare le frecce, mentre Pelio ordinava ai suoi di rovesciare i loro proietti verso la sinistra nella foresta, dove sembrava nascondersi una minaccia per gli auxilia di Severo, che si guardò bene di avanzare in quel terreno insidioso, controllato e reso impraticabile dai lanci.
Mentre le schiere si accostavano i Germani cominciarono a levare grida furenti, simili a ruggiti, verso i Romani e a battere le lance sugli scudi, in attesa che i legionari giungessero a distanza sufficiente per il lancio dei giavellotti. Ma, i primipili, accostando gli scudi, formavano una muraglia che, compatta e inesorabile, avanzava lentamente, mente contro di essa si infrangevano inutilmente la gran parte delle lance germaniche.
Intanto la cavalleria catafratta iniziava la sua avanzata lenta e potente verso i cavalieri dello schieramento avverso, ma quando le due formazioni vennero a contatto, di fianco ai cavalieri germanici comparvero i fanti nascosti, con l'intento di squartare le pance dei cavalli ed appiedare i cavalieri romani, che pesantemente armati dovettero soccombere sotto i colpi dei barbari.
Sconcertati dalla tattica messa in atto dai nemici, i cavalieri, che ancora non erano venuti a contatto con i germani, si volsero in fuga, rifugiandosi dietro le schiere dei fanti. Qui li raggiunse prontamente Giuliano, che gli si parò davanti con la sua guardia, levando la spada verso di loro, e preso di mira il tribuno, cominciò ad urlargli tutta la furia che gli saliva dai visceri, e per poco non lo trapassò con un colpo; gli si scagliò contro con la spada abbassata e solo quando fu ad un palmo da lui, deviò il colpo, non senza attraversargli il mantello.
Quindi tornò indietro, e prese le briglie del cavallo, lo riportò, in avanti verso le linee nemiche seguito dagli altri fuggiaschi. Intanto Severo mandava in soccorso dei cavalieri le legioni dei Cornuti e dei Brachiati, che presero a muoversi verso il nemico al ritmo di un canto e furioso, che risuonava nell'aria, odorosa di sangue, come il muggito di un toro, prima profondo e sommesso e poi potente come il rimbombo di un tuono. Quando ebbero raggiunto il culmine della loro eccitazione, presero a correre scagliandosi sui germani, soverchiandoli nel loro impeto.
Intanto le forze barbariche si infrangevano inesorabilmente sulle linee romane e l'esito della battaglia sembrava definitivamente stabilito, quando un cuneo di germani ebbe modo di penetrare al centro dello schieramento.
In pochi minuti le sorti si erano capovolte, le linee romane tagliate in due ebbero un breve ondeggiamento, le schiere si disunirono, e si allontanarono fra loro, un brivido dovette correre nella schiena di Giuliano, mentre il sangue doveva aver smesso di scorrere. Pelio guardò lontano, per un attimo il rombo delle armi tacque, sembrava che anche il vento si fosse fermato, un silenzio innaturale percorreva l'aria.
Anche i germani tacquero stupiti dall'effetto di quell'azione.
Poi dalle ali dello schieramento romano si levo un unico grido: "Tenete unite le schiere!". Subito le due ali cominciarono a ricompattarsi per resistere allo slancio dei barbari, mentre lasciavano che questi attraversassero le loro fila, per richiudersi alle loro spalle. Sicché mentre quelli passati, non senza danni attraverso la prima fila dello schieramento romano affrontavano i Primani posti di rincalzo, essi gli si rivolsero contro schiacciandoli fra le due schiere.
I germani, che ancora tenevano le posizioni inziali, di fronte a quella scena furono presi dal panico e si volsero in fuga, inseguiti dalla cavalleria e dai legionari imperiali, e quanti non perirono per le armi romane, furono travolti dalle acque del Reno, che inutilmente tentavano di attraversare.
Diverse migliaia di cadaveri insanguinarono le strade e i campi di Argentoratum, mentre altro sangue arrossava le acque del Reno.
Mai Pelio aveva visto tanto sangue, mai una tale distesa di corpi.
Percorse inebetito i tratturi che lo portavano verso il fiume, guardando con orrore la distesa di grano, rossa dei fiori di papavero, e rossa del sangue dei barbari. Tutta percorse la strada fra il campo di battaglia ed il fiume, come se un dio lo trascinasse lungo quel cammino, contro la sua stessa volontà. Finché giunse sul Reno e, sedutosi sulla riva, prese a guardare lo scorrere delle acque, mentre il fiume trasportava il suo carico di morte.
Mentre ricordava queste cose, una mano gli si posò sulla spalla. Aurelio aveva concluso il suo giro lungo le mura e gli si era fermato alle spalle. Assorto nei suoi pensieri, Pelio non si era accorto di quanto accadeva dietro di lui, e forse neppure di quanto gli si sarebbe potuto presentare davanti. Per fortuna erano giorni tranquilli. I Germani non sembravano costituire più una minaccia, erano trascorsi ormai quasi tre anni ed almeno per qualche anno ancora, avrebbero subito le incursioni delle legioni romane senza reagire.
Poi…, chissà! Erano trascorsi oltre mille anni da che Romolo aveva fondato la città, altri mille ne sarebbero venuti,…forse.
I due si guardarono negli occhi, era terminata l'hora quarta, il loro turno di guardia era terminato. Attesero, ancora, che giungesse il cambio, poi percorsero la fortezza e attraversato il ponte si diressero insieme verso la città.

Da Divitia

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