Poesie di Gesuino Curreli


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Vivo di cose che hanno detto addio
e giacciono sul letto dei ricordi,
amori mal vissuti dentro i bordi
d’inesistenti età del canto mio.
Stornelli e cantastorie d’altri tempi,
incontri non casuali, e candide bugie
che mi danno languori a non finire.
A mezzanotte tu non mia fai compagnia …
canta il tenore e poi mi porta via
nel mondo che ha sfiorato la mia infanzia.
E’ in subbuglio l’intera fantasia,
cado dal quinto piano e non mi sveglio
del condominio vuoto, nella via
che canta i tic-tac del tacco a spillo.
E’ deserta la piazza e la mania
mi avvolge per intero e mi consola,
stravagante incertezza sul che fare,
gusto retrò di stile decadente,
per il tempo che passa indifferente,
ma ci sto bene dentro e d’altro niente
m’importa né mi cruccia il suo passare.
Mezzanotte.. chi dorme e chi canta…
dice il tenore nella stanza scura
mentre mangio purea di nostalgia
e mi adagio sul tempo che mi manca.
A mezzanotte va la ronda del piacere…
e nel canto è assiduo il ritornello
che tu sei in tanti amori e non in quello
che mi giurasti eterno in avvenire.
Basta la mezzanotte se dormire
non mi riesce neanche per procura.

Anche i candidi gabbiani
volteggiano sulle discariche immonde.
Non troviamo l’intreccio dei voli,
cercando il velo
che stendevano fra nuvola e nuvola,
fra la scogliera bianca e nera ed il molo.
I raggi forti e inclementi trafiggono il suolo
e noi ci arrotoliamo inquieti
sui ciottoli bianchi, come gatti sui tetti,
dopo aver perso un amore, e sui letti
stiamo da soli, più soli di prima.
La rena bianca col suo semicerchio
abbracciava le barche a riposo,
non c’erano yachts che ostentavano
luci accese a bordo ogni sera.
Allora solo pescatori e pochi stranieri
si vedevano sulla costa macchiata
di lentisco e di lecci,
o sulla piazza imbiancata,
che consumavano birra ghiacciata.
C’erano spesso baracche di stracci,
di coperte consunte, a sostituire le suits,
e in spiaggia tanta gente colorita e chiassosa,
passava quei giorni di festa
con semplicità, senza posa.
Il gabbiano è volato oltre il mare
a cercare cibo, e mi fa ricordare
gli umiliati emigranti che dovevano andare
per le strade del mondo, scrivendo al compare
perché in casa leggesse fantasmagoriche ascese.
Intanto il paradiso è diventato un inferno,
il borgo è fatto a misura perché lì si spenda,
non la vecchia casetta con la tenda sull’uscio,
e davanti il filo dove la donna distenda
i costumi bagnati e impregnati di sale.
Che tempo ! Che strazio ! Non vale
spendere i giorni a contemplare
un tempio distrutto, la voglia d’amare,
le serate passate a ballare
al suono di una fisarmonica antica,
sulla terrazza che stava sul mare,
a stringere al seno l’amica.
Il gabbiano non torna, non vola,
per riempirci di sogni come quelle mattine.
Il cielo, per quanto assolato,
assomiglia a rovine del tempo passato,
e il cuore non regge all’attesa
di ciò che non può più tornare.
Il gabbiano non torna a gridare
sulle nere scogliere
di lavica pietra e di bianco calcare.
Non tornano gli anni, il piacere d’amare,
i sogni delle fughe oltre il mare,
le lettere scritte sulle ginocchia
in compagnia del silenzio lunare.

Ultimo stadio
Che rimane se finisce
il respiro dell’anima
assieme a quello del mondo?
Che rimane quando svanirà
l’immondo odore dei corpi
e dimentichiamo anche i morti,
gli eroi, i ladri, i gitani vissuti
come i fiori nel pattume
dell’ esistenza per bene?
Che sarà di chi ha dato
anche un rene
per salvare suo figlio,
dopo che questo perisce
nell’immane groviglio
che a stento vorremmo capire?
Rimarrà forse il canto
di chi ha saputo cantare,
la poesia che travalica il mare?
Anche questo morrà
se le orecchie non potranno sentire.
Il fruscio del vento?
Il silenzio di spazi celesti
nell’eternità che non ha dimensione?
Vuoti immensi, oscurità abissali
di cui non si ha cognizione,
dove non osa neanche la luce,
per una forza che la imbriglia
e la riduce a un passaggio obbligato,
dove finisce ogni fisico stato,
e dei corpi, di esalazioni già spente
non si avrà più sentore
nella mente di questo cupo creato.

Sono o non sono poeta?
Che cos’è questa smania che sento
quando voglio tuffarmi in due occhi d’argento
o neri come la razza ferina?
Mi presento così per naturale postura
dell’animo che si offre col canto
anziché con un’altra maniera.
E canto, canto, canto finché non mi stanco,
dovesse arrivare la sera e farmi toccare la luna.
Lo faccio con alterna fortuna, ora bene ora male,
- Che bella! Non vale!-
Però mi rimetto a tentare l’assetto delle parole,
il suono rimato del verso,
a cercare quel fascino perso che esala dal dolce parlare.
Lo faccio per me,
non solo per chi cerco al mio fianco,
lo faccio finché non mi stanco
finché l’animo dice di sentirsi appagato,
finché la luna la vedo sul prato
a confondersi con minute parole scartate
dalla risma di quelle usate per dire.
Ma è ancora più dolce la vanità
del sentire addosso due occhi ammaliati
che vivono il mio umano trasporto
e lo traducono in pupille velate di pianto
che fanno gioire.
Ma sono o non sono poeta?
E la vanità qui si spezza, e sui frantumi
che non danno splendore,
accendo il lume del dolore che si risveglia.
Si! Vorrei sentirmi poeta, ma che lo capisse
anche il mondo, poeta anche per gli altri,
poeta per dame e per fanti,
cantastorie di amori finiti e di amanti,
poeta per canti che passassero nella memorie,
poeta per umili astanti e per noti cantori di glorie,
poeta per il tempo avvenire, per chi vuole sentire
stranezze e parole squamate di pianto,
poeta per quel tanto che vale
udire un canto e provare emozioni.

Le nuvole fanno schermo…
Le nuvole fanno schermo nel cielo,
l’inverno si vergogna e sparge il gelo
nella campagna, amante silenziosa e pudica,
lasciata dopo aver fatto l’amore per tanto.
L’autunno ha partorito, nei fiumi, negli orti,
nelle vigne e nei campi, frutti abbondanti
e odorosi, poi è invecchiato di colpo
lasciando la terra coperta di fogliame dorato.
Vorrei respirare del sole, ma l’inverno non vuole,
come quando tu dicesti basta al mio amore,
e mi parve che tutto, di colpo, fra noi
si fosse ridotto a quelle poche parole.
E’ il tempo che corre cancella i sogni e le fole
e non conforta nessuno, se ha seminato dolore.
Il treno è passato una volta, poi si é fermato,
e non ha ripreso la corsa, perché vi salissi esaltato.
Si è affievolito il fervore che credeva eterna
la stagione che comincia a vent’anni,
quando l’illusione si accende e scoppia nel cuore,
e muove gli amori e gli inganni,
poi lascia sconfitti propositi e onore
e svela una caterva di danni, frutto di un frainteso sermone.
Si è dischiusa la verità a chi credeva che il mondo
girasse secondo la propria intenzione.
Ci appoggiamo ai bastoni, claudicanti e insicuri,
mettiamo le mani sui muri per avere un appoggio
nella nostra andatura che ha perso baldanza e postura
di chi tutto comanda. Ora si va piano e si sbanda.
E invece l’inverno ci manda il rigore e il suo gelo
per dirci della bellezza del cielo, quando, azzurro,
pioveva libertà sconfinata, irradiava nell’aria
amori come farfalle, concepiti in una sola nottata.
Bellezza passata che lascia rimpianto,
come quando l’autunno, dopo l’estate dorata,
ammanta di nuvole il cielo, e porta su tutto
i venti dell’altro emisfero, e ogni cosa si stringe
e si accorcia come la carta bagnata.
Come il treno la vita non concede seconda tornata
e allora piango senza ritegno e pudore
per una stagione non consumata abbastanza.
E’ proprio questa la vita: non tutta baldanza,
non tutto dolore. Una mistura di mille passioni
che induce il poeta a cantare,
a inventare da poche illusioni, mille e più poemi d’amore.
Io vivo e amo, mi bagno di pioggia e malanno,
mi copro di nuvola e sogno, mi brucio di sole e di vento,
contento e imbronciato, come il tempo ha voluto,
fragile come il fogliame perduto ai piedi dell’albero spoglio.
Ero tutto un rigoglio nella stagione del sogno
poi ho ceduto all’insistenza del vento,
e ho scelto il convento di moribonde avventure.
Sopra di me passeranno altre mille creature
fino all’ultimo oblio, ma così passa il tempo, come il treno,
perché i poeti sono i figli bastardi di una vita normale.

Stasera la pioggia…
Stasera la pioggia si è presa riposo,
e sembra l’umida terra
sconfitta dopo tanto penare.
Io mi trascino stentato sul suolo bagnato
e ho malinconia nel pensare,
ma trovo che la strada riluce
la bianca e gelida luce del gobbo
lampione serale.
La mia anima cuce i suoi versi sghembi
e non si accontenta di vedersi anch’essa
riflessa nell’umidità che dilaga.
Cammina senza entusiasmo,
trasognata, e poi vaga
nei cimiteri di spenti pensieri esumati,
in cerca di nostalgia,
tra un amore sbagliato e un altro tradito.
- Follia! Follia! – geme invaghita,
ma non ha forza di guardare al domani.
Incartapecorita e non si dispiega,
come la strega di fiabe infantili,
smorza entusiasmi e sfrega le mani
come chi dice: “…è già fatta.”
E’ ferma all’altro ieri quando cantava
poesie d’amore alle stelle
e ascoltava, nelle sere d’estate,
raganelle nascoste per strada.
Malinconia di serate che hanno sepolto
l’amore, malinconia per ogni cosa che muore
e che viene scordata, come l’eco che ascolto
di una voce non del tutto scordata
e che ancora punge e commuove
se la cerco per fare poesia-
- Follia ! Follia ! – va dicendo l’anima,
e poi si muove smaniosa, nel maggese
dell’idea peregrina, ma non basta,
chiede aiuto alla fantasia,
e poi, vergognosa, abbandona.
Stasera non tuona,
la pioggia si è concessa un riposo
e sembra l’umida terra
sconfitta dopo tanto penare.
Così anche l’anima mia.

Andiamo tentoni
ed amiamo, se questo
ci è dato di fare,
una calda memoria,
un frammento di vita,
una valle fiorita,
una figura dai forti rossori
sulle labbra e sul viso.
Scopriremo cos’è il paradiso
di intenzioni appagate,
o l’inferno di ambizioni frustrate.
E’ poesia la figura
ed io sono il vate,
e io non posso che dire
gli affievoliti rintocchi
di malinconia in questo
scorcio d’estate.
Io sono la voce
e il sentimento m’intona,
per cogliere il bello
che spesso passa lontano,
stringo la mano
e intreccio forte le dita,
in attesa che diventi fiorita
la valle dov’è più facile andare.

Nella solitudine
Nella solitudine del giorno
ti trovo come un sogno mai vissuto,
come un sogno che altri ha raccontato
incontrandomi nei vuoti dell’infanzia,
nei piccoli desideri mai appagati
che volavano col vento in mezzo ai cisti
profumato di pianto e di carbone.

Nella solitudine ti cerco, come allora
i nidi delle allodole in aprile,
o, di maggio, i più stremati passeri
che inventavano voli approssimati,
alle prime esperienze, da una facciata
all’altra dei palazzi, uguali e allineati.

Ti trovo e poi scompari perché breve
é il cielo dell’infanzia, stretto come un striscia
concessa per gli incontri degli amanti.
E la solitudine gioca a nascondino,
quando un barlume illumina
la speranza già fioca,
quando sta per spegnersi il camino
ed ogni umore gioca
fra pianto e riso in bocca,
come se al miele d’oro seguisse aceto e vino.

Risorgi e mi riporti ai giorni in cui non c’eri,
più in la dell’altro ieri, più prossima
a quest’oggi che mi scuote, scomparsa nel domani,
con la speranza in veglia
perché vorrei sentire il seno fra mani.

Ma quando sono solo cerco tutto il passato,
quello trascorso invano, quello dimenticato,
da quando ti conosco, prima di averti amato,
quando non esistevi in lunghe storie e brevi,
quando facevo i conti delle sillabe
per le ottave d’amore che volevi,
per versi estemporanei talora belli e lievi.

Oggi con la solitudine mi manchi
e non parlo con te,
oppure se ti chiamo non rispondi.

Andremo a passi lenti dove siamo stati amanti,
a passi lenti scorreremo pensieri mai scordati
e ci troveremo ancora in cima
a volteggiare con i venti moribondi,
a cercare l’angolo dove per amore ti nascondi
e piangi poi l’infedeltà goduta.
A passi lenti, un giorno, saremo già distanti,
faremo percorsi facili col buio dentro il cuore.
Sarà ben poca cosa la libertà del sole
al quale ci daremo inanimati andanti.
A passi lenti, chissà per quale via,
vorrei incontrarti ancora , seppure con fatica
a sollevare gli occhi e fonderli coi tuoi,
sentirti ancora mia dal lume che darai
col battito di ciglia, come facevi allora,
lontana mille miglia, dai passi lenti e tremuli.
Sarà un attimo d’amore che non ha più rossore,
una confessione nel fragore del giorno,
ma noi saremo allora come quando, lesti,
rubavamo tutto agli altri, mostrando finti gesti
per nascondere tutte le bugie ch’erano intorno.
Un’altra volta ancora, a passi lenti,
ci lasceremo indietro, di quel giorno,
i sommessi lamenti sulle scale,
ricordando l’ amore
che non sarebbe potuto nascere altrimenti.

....ancor che triste e che l'affanno duri.
Noi siamo dei muri imbiancati,
solcati da una vita mediocre.
No ci resta che riempire le brocche
al profondo sapere,
di chi ha avuto nel dire, il genio
immortale di bussare all' anima
del comune animale.
E noi, animali di stalla, ci cibiamo
di paglia e di versi,
attingiamo al liquore
in cui siamo sommersi,
per amore di poemi ineguali.
Segni astrali non hanno concesso
che avessimo il talento di pochi,
e allora stiamo in ginocchio,
sbigottiti, a tacere,
perché altri ha parlato
del nostro piacere, e di quelli
che verranno domani.
La poesia ha le ali,
e per questo si chiama poesia,
leggiadria della mente,
che va oltre il pensare,
nell'astrale silenzio del bene,
o del male infinito,
che ingloba ogni corpo celeste.
La poesia gli resiste,
e sfida la luce e l'eterno,
produce mistero e zittisce
parole dal senso smarrito.
Silenzio. Silenzio.Silenzio.
Il profondo silenzio é piacere.
Noi dobbiamo tacere,
ma questo non vuol dire peccare.


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