Poesie di Alberto Cavaliere


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Alberto Cavaliere nacque a Cittanova (RC) il 19/10/1897 e morì a Milano il 7/11/1967 in seguito alle ferite riportate in un incidente stradale a S. Remo.
Laureatosi in Chimica presso l'Università di Roma, dopo aver lavorato presso il Ministero dell'Aeronautica come chimico, all'impiego statale preferì la libera professione.
Fu attore, scrittore, giornalista, poeta, umorista e politico. Autore tra l'altro della Chimica in versi.
Fu eletto consigliere del Comune di Milano e successivamente Deputato al Parlamento Italiano.

Storia di Milano in versi
I
Le origini
Canto l'armi pietose e il capitano?
le donne, i cavalier, l'armi e gli amori?...
Non propriamente: canto te, Milano,
le tue vicende fin dai primi albori,
le gesta dei tuoi uomini preclari,
da Belloveso al sindaco Ferrari.

Gli àuguri sacri, quando tu nascesti,
non chiesero presagi agli avvoltoi,
né di te si curarono i Celesti;
né illustri figli di superbi eroi,
dagli occhi foschi di predestinati,
scavarono per te solchi quadrati.

Celti raminghi sulla tua pianura
edificaron qui, tra il fango e il gelo,
povere case senza architettura:
neppure l'ombra, ohibò, d'un grattacielo!
L'anno preciso? Quando il borgo sorse,
in verità, nessuno se n'accorse.

Consacrato non fu da nessun atto,
né fu cinto di mura e di castella.
In quanto al nome, semplice ed esatto:
«lan» vuol dir terra in gallica favella,
onde l'antico nome Mediolano:
«terra di mezzo» del lombardo piano.

Fu una tribù degl'Insubri, allorquando
regnava a Roma re Tarquinio Prisco,
che fondò Mediolanum, al comando
del duce Belloveso. Io non capisco,
piuttosto, come mai quel capo celta
proprio in quel luogo stabilì la scelta.

Era una plaga piatta e acquitrinosa,
senza risorse, senza allettamenti:
neppure un fiume, un lago, una qualcosa
che lusingasse quelle antiche genti:
ci fosse stata almeno una collina,
anche all'altezza della Madonnina!

E invece niente, mentre lì vicino,
a poche leghe, c'eran molti laghi,
e ricchi fiumi (il Po, l'Adda, il Ticino),
fertili terre e paesaggi vaghi.
Ma Belloveso, senza esitazione,
piantò le tende in mezzo a quel nebbione.

Avrà detto ai suoi fidi: «Il luogo è brutto,
ma son tempi di guerre e d'invasioni,
e penso che nessuno, dopo tutto,
vorrà prendersi qui reumi e geloni
per conquistar le nebbie e le paludi»
(L'eco rispose in gallico: «T'illudi!»)

Poteva Belloveso immaginare
che quella sua città grama e succinta
avrebbe attratto poi, come zanzare,
guerrieri e condottieri d'ogni tinta?
che il borgo su quel suo celtico «lan»
sarebbe diventato il gran Milan?...

Potevan prevedere i nostri padri
che a venticinque secoli da allora,
con tanti luoghi comodi e leggiadri,
pronti ad offrire un'ottima dimora,
gente su gente, che il nebbione ammalia,
sarebbe accorsa qui da tutta Italia?..

Come ciò accadde, e dopo quali eventi,
è detto nei capitoli seguenti.

III
Milano capitale dell'Impero
d'Occidente (286 d.c.)


Per opera di Cesare, che avanza
ed occupa la Gallia, l'Inghilterra
e in parte la Germania, l'importanza
di Mediolano cresce, e in pace e in guerra:
ne ha fatto, quell'invitto condottiero,
il centro e il fulcro dell'immenso Impero.

E non soltanto un centro militare:
è una città che traffica, lavora,
ha scuole, apre botteghe a tutt'andare,
offre ogni ben di Dio già fin da allora,
e in ogni attività, modestia a parte,
sa già applicar le regole dell'arte.

Cesare, molto fine di palato,
solo a Milano può assaggiare il burro
(per quanto non ancora sigillato
con sopra un marchio di colore azzurro);
e vi si ferma spesso e volentieri,
rifornendosi lí d'armi e d'artieri.

È lui che poi, con tanto di diploma,
dà la cittadinanza ai Cisalpini;
e già Milano è bella come Roma:
palazzi, mausolei, templi, giardini
(giardini che dai sindaci futuri
ricoperti saran con brutti muri).

É dimostrato che lo stesso Augusto,
unico «grande» di quel tempo d'oro,
trova Milano piena di buon gusto:
soltanto, non gli va, quando nel Foro
(dov'ora è San Sepolcro), dispiaciuto,
vede una statua dedicata a Bruto.

«Ma come? Ha ucciso Cesare, mio zio,
e voi gli fate pure il monumento!... »
Gli rispose il pretore: «Augusto mio,
devi saper che qui non s'è mai spento
l'antico amore per la libertà...».
E il monumento fu lasciato là.

Poi, nel secondo secolo, Traiano,
nuovi templi vi edifica agli dei
e adorna d'una reggia anche Milano,
che nell'anno 286
diventerà la sede della corte;
e Roma, da quel dí, ce l'avrà a morte.

Ma Roma non è piú quella di prima:
è una città corrotta e turbolenta,
sicché Milano, nonostante il clima,
da molto alletta i Cesari e li tenta.
(Il Palazzo c'è già, ci son le terme:
basta installarvi un paio di caserme.)

Governare da solo è un affar serio,
pensò l'illustre e saggio Diocleziano
e, agendo dopo tutto con criterio,
divise in due l'impero, a Massimiano
- un suo devoto e bravo generale -
affidando la parte occidentale.

Sceglie per sé l'Oriente: l'alterigia
del popolo romano assai lo tedia,
e già da tempo ha pronta la valigia
per trasferirsi in Asia, a Nicomedia.
Dice al collega: «Me ne vo laggiù;
con i Romani te la vedi tu! ».

Ma dopo fu deciso, di concerto,
di traslocar più su la capitale:
meglio Milano: è più tranquilla, certo,
e soprattutto è molto più centrale.
Ed andarono insieme a inaugurarla:
che festa, amici! Ancora se ne parla...

(E a capitale ancor la si promuove:
non ha importanza se il governo è altrove.)

V
L'invasione dei Goti
(378)
L'opera di Ambrogio


Finalmente ha ceduto, e in quel medesimo
anno (se v'interessa, era il trecento
settantaquattro) Ambrogio avrà il battesimo
e il vescovato. Un vescovo portento:
chi ne ha visti di simili, a Milano
e non qui solamente, alzi la mano!

Non dovrà studïar la teologia
per farsi prete, non gli serve niente:
egli sa tutto, è un'enciclopedia.
Ed unisce un gran polso a una gran mente:
i più fieri tiranni, anche se inerme,
affronta e inchioda con parole ferme.

Appena eletto vescovo, si reca
dal sommo imperator Valentiniano;
e lí molte parole egli non spreca,
ma con linguaggio semplice ed umano
gli spiffera: «Il dovere d'un Augusto,
principalmente, è quello d'esser giusto.

E tu giusto non sei: sei prepotente,
governi con la frusta e con la scure,
ignori la pietà. Tieni presente
che, prima o dopo, morirai tu pure
e, se vi son dei grandi fra i mortali,
gli scheletri però son tutti uguali».

L'imperatore, nuovo a quel linguaggio,
stupisce, resta lí come un agnello,
ma diverrà piú tenero e piú saggio...
Dice: «Quest'uomo ha fegato e cervello».
Ma questo è niente: il cuore di quell'uomo!
Un cuore grande quattro volte il Duomo.

E ne darà la prova, soprattutto,
quando i ribelli Goti da Adrianopoli,
vittoriosi, seminando il lutto
ed il terror fra i soggiogati popoli,
giungon sull'Alpi: le città padane
suonano a stormo tutte le campane.

L'invasione dei barbari comincia,
con un contorno di feroci stragi,
ed a Milano e in tutta la provincia
è un affluir di profughi randagi
(il che dimostra che lo sfollamento
non l'ha inventato il nostro Novecento).

Come far fronte a quell'immane flutto
di scempi, di saccheggi e di massacri?
Ambrogio, soccorrevole, dà tutto,
spoglia le chiese, vende i vasi sacri
d'oro e d'argento, e il ricavato n'offre
a chi piange, a chi tribola, a chi soffre.

Libera i prigionieri, con quell'oro
pagando ai Goti il prezzo del riscatto.
E gli ariani lo accusano: «Il tesoro
alla Chiesa di Cristo egli ha sottratto!».
«Sì, l'ho sottratto e non me ne vergogno:
d'oro e d'argento Dio non ha bisogno»,

replica Ambrogio. E con accesa fede,
tra l'infuriare della carestia,
rivolge ardenti appelli a chi possiede
perché più assista i poveri e più dia,
e tiene memorabili sermoni,
bollando l'avarizia dei ricconi,

gridando lor: «Spremetevi, pitocchi!».
Come vedete, un vescovo coi fiocchi...

VII
Ambrogio contro i ricchi
e gli usurai


Ambrogio spesso fu rappresentato
con in mano una verga o uno staffile,
ch'egli d'usare non s'è mai sognato,
severo sí, ma d'indole gentile:
checché ne dica un gonfalone storico,
il suo fu uno staffile metaforico.

Ché, nello staffilar con la parola,
era un maestro e, senza alzar le mani,
in chiesa e fuori, con o senza stola,
bollava gli atti ingiusti e disumani,
e le cantava in faccia apertamente
anche all'uomo piú illustre e piú potente.

Staffilava gl'iniqui gabellotti,
biechi strumenti d'un sistema infame:
per far fronte alle tasse, eran ridotti,
agricoltori e artefici, alla fame.
(E noi che, inveterati brontoloni,
ci lagniamo dei moduli Vanoni!)

Bollava a sangue i ricchi possidenti,
che ammassavan vastissime fortune:
diceva che la terra è dei viventi,
un bene ai ricchi e ai poveri comune,
che sono tutti uguali sotto il sole
(ma dove ho inteso già queste parole?...).

«Avete parchi simili a foreste
- diceva - ed ignorate quei vassalli
che non hanno un ricovero e una veste,
mentre dei costosissimi cavalli,
orgoglio della vostra scuderia,
sapete tutta la genealogia;

e date a quei cavalli freni d'oro,
mentre negate il soldo ad un pezzente:
voi, sfruttatori dell'altrui lavoro,
siete dannati irreparabilmente,
morrete in preda a orribili rimorsi...»
(ma dove ho inteso già questi discorsi?).

Ambrogio, soprattutto, se la piglia
con l'usuraio cupido e perverso,
che spinge tanti padri di famiglia
a gesti disperati. Ora è diverso,
e grazie a leggi meno primitive
c'è gente che sui debiti ci vive.

Allora no, non c'era da scherzare:
chi non pagava i debiti, signori,
non aveva altra scelta: o al cellulare,
o schiavo dei suoi stessi creditori.
Adesso il creditor, con piú giustizia,
generalmente muore d'itterizia...

Ma, nonostante Ambrogio e i suoi sermoni,
gli uomini restan sempre tali e quali:
Giove non lancia piú fulmini e tuoni,
ma guerre e guai funestano i mortali;
la gente, in un'eterna pantomima,
s'ammazza come prima, piú di prima.

Ora è la volta d'un usurpatore,
Massimo, che il terror sparge a Milano
ma da Bisanzio un grande imperatore,
l'ultimo grande imperator romano,
Teodosio, giunge e, pieno d'energia,
fa finalmente un po' di pulizia.

E allorquando Teodosio, invitto duce,
di nuovo accentra nelle proprie mani
tutto, l'Impero, è Ambrogio che lo induce
ad abolire i riti dei pagani.
Ma prepotenti, avari ed usurai
nessuno ad abolir riuscirà mai:

in tutti i tempi e con mutate fedi,
te li ritrovi sempre in mezzo ai piedi!

IX
Morte di Teodosio (395)
e di Ambrogio (397)
Stilicone


Vinto e soppresso un altro usurpatore
(un patrizio pagano a nome Eugenio),
muore a Milano il grande imperatore,
fra il compianto di tutti. Uomo di genio,
lascia agli eredi il rinnovato impero,
ma il genio se lo porta al cimitero.

Parlò innanzi al suo feretro, nel Duomo,
Ambrogio: «Ebbi con lui qualche dissenso»,
piangendo egli esclamò, «ma amai quest'uomo,
che preferiva il biasimo all'incenso
e non sdegnò, contrito peccatore,
di prosternarsi ai piedi del Signore.

La sua corona non mancò di spine,
ma fu un uomo dabbene, e il vero elogio
egli lo avrà da Dio». Ma ormai la fine
s'avvicinava per lo stesso Ambrogio:
Milano perderà, con quel sapiente,
un signore squisito e intelligente.

Grande ed umano insieme: era, l'ingresso
della sua casa, aperto in tutte l'ore;
v'entrava, senza chiedere permesso,
tanto il mendico che l'imperatore:
per parlargli, non era necessario
interpellare prima il segretario.

Sempre gentile e affabile. E Milano
ereditò da lui la cortesia,
la franchezza, il buon senso e l'ambrosiano
gusto d'un humour tinto d'ironia;
nonché il coraggio di mostrare i denti,
se occorre, agli arroganti e ai prepotenti.

Milano aveva allora un avveduto
governatore, il bravo Stilicone,
un generale vandalo, tenuto
già da Teodosio in gran reputazione:
da poco giunto qui dal suo paese,
pur si sentiva mezzo milanese.

Quando seppe che Ambrogio era morente,
egli si rese conto del disastro;
capì che presto, inesorabilmente,
scomparsa anche la luce di quell'astro,
sul vecchio mondo, gramo e sprovveduto,
sarebbe sceso il buio piú assoluto.

Convocati i piú anziani ed i migliori
fra i cittadini, il capo del governo
parlò cosí: «Desidero, signori,
che il vostro Ambrogio preghi il Padre Eterno
perché, dati i pericoli dell'ora,
lo tenga in vita per qualche anno ancora».

Ingenuo Stilicone... Non è tanto
ch'egli ha abbracciato la novella fede:
se, come gli hanno detto, Ambrogio è un santo,
un santo non può far ciò che piú crede?
«Penso che Cristo nulla abbia in contrario
e lasci Ambrogio in vita: è necessario!»

Ma Dio, purtroppo, non si sottomette
ai desideri d'un governatore;
e il 4 aprile del '97
di quel secolo quarto, Ambrogio muore.
Purtroppo, Stilicone era nel vero:
addio Milano, addio romano impero...

Ben presto udrete orribili novelle,
che vi faranno accapponar la pelle.

XI
Caduta dell'Impero d'Occidente
(476)
Il regno di Teodorico


Nell'anno 471,
giunge a Milano il fosco Ricimero:
rude soldato e barbaro tribuno,
diventato padrone dell'Impero,
egli elegge, secondo i propri gusti,
e dopo sgozza i cosiddetti Augusti.

Ma c'è un Augusto che si dà dell'arie
e vuol fare da sé: si chiama Antemio.
Ricimero, con truppe mercenarie,
a cui promette... Roma come premio,
marcia sull'Urbe e ammazza il dissidente,
che fra l'altro è suo suocero: che gente!...

E lotte ancora, e crimini: chi vince,
chi perde; ancor vendette di tiranni,
usurpatori in tutte le province,
stragi, saccheggi... Passano cinque anni,
ed il piú grande impero della storia
finisce senza onore e senza gloria.

Arriva il re degli Eruli, Odoacre,
a cui prima Milano apre le porte;
prende Ravenna e, procedendo alacre
(non occorre gridare «O Roma o morte!»),
entra nell'Urbe, dove con le buone
manda Romolo Augustolo in pensione.

Milano, intenta a riparare i danni,
non s'accorse neppure che l'impero
era caduto: ormai, da cinquant'anni
esso esisteva solo nel pensiero.
Ed ecco una valanga d'Ostrogoti
precipitar fin qui da lidi ignoti.

Orde affamate, messesi in cammino
con le donne, coi figli e col bestiame
dal Nord ingrato, in cerca di bottino
e d'un piú caldo e fertile reame,
han sentito parlar d'uno Stivale,
che sarebbe davvero l'ideale.

Col loro capo, il re Téodorico,
vinto Odoacre, giungono a Milano.
Chiuder le porte al barbaro nemico
ed a difesa asserragliarsi? È vano:
siamo a corto di fegato e d'eroi...
- Signori, accomodatevi anche voi!...

Prosegui per Ravenna il biondo sire,
dove Odoacre s'era rifugiato:
manda a costui dei messi e gli fa dire
che vorrebbe concludere un trattato;
gli propone un incontro e in un convito
gli dà con un pugnale il benservito.

Re Teodorico non curò Milano:
come sua sede preferí Verona.
Reggeva i Milanesi un capitano,
chiamato «difensore», una persona
eletta col suffragio popolare,
che il re si limitava a sanzionare.

Milano prosperò stupendamente,
oprando e amministrandosi da sé;
non era stata mai cosí fiorente:
scuole, commerci, industrie, mentre il re,
fra una caccia alla volpe e un assassinio,
consolidava il gotico dominio.

Milano, dunque, si trovò benone,
pur già gravata di cospicue tasse.
E i Milanesi dicono a ragione:
«Oh, se il governo ci dimenticasse!...».
Quella pacchia, però, durò ben poco:
trent'anni appena e ricomincia il gioco...

«Milano rasa al suolo»: è questo il titolo
che avrà, purtroppo, il prossimo capitolo.

XIII
Vanno e vengono...
(Vanno i Goti, vengono i Longobardi)


Dov'è Milano? Dove le sue chiese,
le sue torri, i suoi parchi e le sue donne?...
Non v'è piú che un deserto: al ciel protese,
le scheletrite sedici colonne
delle sue Terme appaion da lontano,
a ricordar che lí sorse Milano.

Rimane il Circo: al ferro ed alla fiamma
ha resistito la massiccia mole;
ma non c'è nessun gioco, ora, in programma:
e, scioltasi la neve, il nuovo sole
piú non vi trova che dell'ossa ignote
e bianchi teschi dalle occhiaie vuote.

Ma se Aquileia, la città romana
dalla furia degli Unni incenerita,
restò un ricordo nella storia umana,
presto a Milano ritornò la vita:
i Milanesi alle città vicine
preferiron gli sterpi e le rovine.

Si rimboccan le maniche: al lavoro!
Là, dove un giorno s'innalzò una reggia
meravigliosa di granito e d'oro,
di cui nel mondo ancor si favoleggia,
sorgon le prime timide capanne,
costruite col fango e con le canne.

S'utilizza ogni rudero, ogni buco,
per aprirvi un negozio, un'officina...
Narsete, intanto, il generale eunuco,
con una forte armata bizantina,
sbarca in Italia e dopo egregie imprese,
per quanto eunuco, libera il paese.

O, meglio, scaccia i barbari, costretti
a ritornare nelle proprie tane;
ma, fin d'allora, questi benedetti
«liberatori» ce n'han date grane!
Prepotenze, angherie, nuove rapine...
onde il proverbio: al peggio non c'è fine.

Ma presto i Bizantini fan fagotto:
scendon dalla Pannonia i Longobardi,
nell'anno 568,
piú feroci dei Goti e piú gagliardi,
e, anch'essi distruggendo a tutto spiano,
l'anno seguente arrivano a Milano.

La povera Milano, o bene o male,
in trent'anni di pace o poco meno,
benché non fosse piú la capitale,
era risorta e funzionava in pieno.
Diceva il forestiero stupefatto:
«Di nuovo è un gran Milan! Come avrà fatto?...

C'eran per tutti un pane ed un piccone;
né si trovava un solo milanese
che all'emigrato, barbaro o terrone,
si sognasse di dir: «Va al tuo paese!»
Purtroppo, (disarmati, non codardi)
non lo disser neppure ai Longobardi...

Era, in quel tempo, vescovo Onorato
(fu fatto santo, in seguito, anche lui):
«Fratelli», disse al popolo prostrato,
«arriva Belzebú, ragion per cui
io me la filo a Genova. In compenso,
vi raccomando a Dio, ch'è buono e immenso».

Insieme a lui fuggirono i potenti;
si rifugiaron, altri, in quel di Como;
rimasero in città solo i pezzenti,
gli animosi e gl'invalidi. Nel Duomo,
pregava il popolino umile e imbelle:
«Speriamo almeno di salvar la pelle,

col vescovo Onorato e col Governo
che ci han raccomandati al Padre Eterno!»

XV
Fine del regno longobardo
(774)
Pipino il Breve e Carlo Magno


I Longobardi son rimasti, in tutto,
duecentosedici anni in mezzo a noi:
ci fu, tra loro, piú d'un farabutto,
non mancaron, però, santi ed eroi;
e, per la verità, c'è chi sostiene
che fu in complesso un popolo perbene.

Mostrava, nei riguardi del bel sesso,
un vivo senso di cavalleria:
coloro che si prendono il permesso
di molestar le donne per la via,
pagar la multa (novecento soldi),
o vanno dentro come manigoldi.

Se un tale ad una donna preme un dito
e questa lo denunzia, il poveraccio,
o si rassegna ad esserne il marito,
o paga e tace; se le tocca un braccio,
la multa è doppia; se le sfiora il mento
(o il corpo, peggio ancora), è il fallimento!

Cosí pure, va incontro a grosse pene
chi si fidanza e poi, stanco o deluso,
la promessa di nozze non mantiene...
Tutte leggi che caddero in disuso:
fortuna! (Con un simile rigore,
oggi saremmo tutti a San Vittore.)

Certo, vivendo in mezzo agl'Italiani,
le scuole frequentandone e le chiese,
divennero piú docili ed umani,
anche se imbarbarirono il paese,
a cui lasciaron solo, andando via,
alcune usanze e il nome «Lombardia».

Ma non andaron via: la loro terra
era ormai questa, dopo duecent' anni;
furon disfatti in seguito a una guerra,
che mutò solo il nome dei tiranni,
e restaron fra noi, non piú distinti,
ma accomunati e mescolati ai vinti.

C'era un'Italia, ormai quasi compatta
(sia pure conquistata con la forza),
che pian piano li assimila e si adatta
a quei guerrieri dalla dura scorza,
che non sanno, però, che cosa sia
e a cosa serva la diplomazia.

Non sanno che col papa, per esempio,
devono agir col massimo riguardo,
o il Santo Padre, chiuso nel suo tempio,
dice: «È straniero pure il longobardo:
straniero per straniero, tanto vale...
Pipino è il Breve e lungo è lo Stivale».

Fu dopo la metà del 700:
re Astolfo assedia Roma, furibondo
perché il papato aspira al sopravvento;
allora, il papa - Stefano secondo -
chiama in aiuto i Franchi, e re Pipino
è piú che pronto a mettersi in cammino.

Pipino il Breve è un re che la sa lunga
ed accarezza sogni di conquista;
non ci vuol molto perché a Roma giunga,
cogliendo i Longobardi alla sprovvista:
conclusa quella rapida campagna,
regala al papa il Lazio e la Romagna.

Il successor d'Astolfo si rivolta:
papa Adriano ripeté l'invito,
e a scendere in Italia, questa volta,
è Carlomagno. Misero, tradito,
conobbe la disfatta e il vituperio
quel re che si chiamava Desiderio.

Ed un pio desiderio, fatalmente,
restò un'Italia unita e indipendente.

XVII
Usi e costumi del secolo VIII
Milano al tempo di Carlo Magno


Carlo, ignorante come i Longobardi,
ai tempi suoi passò per un sapiente,
ma imparò solo a leggere piú tardi
(ed a scrivere mai correttamente),
pur accogliendo tutta una coorte
d'artisti e di poeti alla sua corte.

Come insegnante ha un prete mantovano,
che trema tutto quando gli fa scuola.
E alquanto indietro, il re... «Dimmi, Milano
come si scrive? con un'elle sola?»
«Sí, sacra maestà, cosí direi:
un'elle può bastar... ma faccia Lei!»

Fu certo, fra i re barbari, il piú grande
e un sogno carezzò nella sua mente:
sulle rovine antiche e memorande
ricostruir l'Impero d'Occidente.
E compì molte imprese leggendarie,
ma non sottrasse il mondo alla barbarie.

Nell'800, il giorno di Natale,
ha la corona del Romano Impero:
papa Leone, in un pontificale,
esalta il santo e invitto condottiero...
Un condottiero sí, fra i piú gagliardi,
ma da siffatti santi Iddio ci guardi!

È un uomo dalle mire ambiziose,
che ostacoli non vuol sulla sua strada:
parlan di lui le abbandonate spose
e i Sassoni passati a fil di spada.
Ma non è colpa sua: son quelli i tempi,
tristi e selvaggi, arroventati ed empi.

Solo la forza impera: nel paese
ch'era stata la patria del diritto,
a giudicare i crimini e le offese
il codice non serve, è ormai proscritto;
e son solo la spada ed il bastone
a decider chi ha torto e chi ha ragione.

Vale poco la vita e, se vi è tolta,
l'omicida non paga che un'ammenda,
mentre a chi ruba, per la prima volta,
si strappa un occhio, perché il ladro intenda;
se recidivo, gli si taglia il naso,
e poi... la testa, se non è persuaso.

Intanto, nel continuo parapiglia
(le guerre, l'incertezza del domani),
pei dolci e casti affetti di famiglia
non c'era posto: gli uomini, lontani,
a battersi pel re; le loro spose,
sole per anni, ardenti e desïose.

Né, come Cristo per la Maddalena,
le leggi conoscevan la pietà
per le donne fedifraghe: la pena
di morte e basta. (Bella crudeltà!
Se il mondo fosse ancor cosí severo,
oggi sarebbe tutto un cimitero...)

E bimbi appena nati, in modo infame,
nei fossi, fra gli sterpi o su una via
abbandonati al freddo ed alla fame...
Questo il quadro dei tempi. Tuttavia,
nel buio di quel secolo inumano,
c'è una fiaccola accesa, ed è Milano.

Quante volte: «Carneade!», voi direte,
traversando un piazzale cittadino:
«chi fu questo Dateo?»... Fu un arciprete,
colui che il primo «Ospizio del bambino»
fondò, mediante pubbliche collette,
nell'anno 787.

Milano, già da allora, ha una sua legge,
ch'è la legge del cuore: il grande Ospizio
accoglie i trovatelli e li protegge
contro la fame, la miseria e il vizio,
li prepara alla vita che s'avanza,
dando loro un mestiere e una speranza.

Nella città, c'è un'aria di benessere,
di gentilezza; i pellegrini e i poveri
sono alloggiati, senza tante tessere,
negli «Spedali» o in pubblici ricoveri;
per i veggiôn (miracolo a quei dí!)
pranzo gratuito tutti i venerdí.

Rinata come ai tempi dell'Impero,
a detta d'un poeta longobardo,
Milano è ricca e bella: il forestiero
ne resta affascinato al primo sguardo;
delle città d'Italia è la regina
(pur se non c'era ancor la Madonnina).

E soprattutto, i re, come vedrete,
li tollerava al più...sulle monete.

XIX
L'arcivescovo Ansperto da Biassono
(868-881)


Volge l'anno 868,
quando è fatto arcivescovo un prelato,
Ansperto da Biassono, uomo assai dotto
e, certo, all'alto ufficio il piú indicato,
unendo alla virtú della sapienza
la bontà, l'energia, l'intelligenza.

L'impero carolingio ormai si sfalda,
ed ecco il nostro povero paese,
dove la guerra è in permanenza calda,
costretto a sciropparsi le contese
e le rivalità d'illustri ignoti,
che fan di professione... i pronipoti:

infatti, ad aumentare il parapiglia
nell'infelice Regno, ogni persona,
che vantava un legame di famiglia
con Carlo Magno, ambiva alla corona
(e avevan, nove mogli, al franco sire
fornito discendenti a non finire...).

Chi si fa agnello, il lupo se lo mangia;
e Ansperto da Biassono, un gran cervello,
fra tutti quei pericoli, s'arrangia
a fare il lupo invece dell'agnello,
ed - un gran cuore - cerca al tempo stesso
di trarre in salvo il gregge a lui commesso.

Egli si fece il capo incontrastato
della Dieta italiana dei signori
ch'eleggevano il re; ma se in passato
il «sí» di quei simbolici elettori
era soltanto una formalità,
Ansperto impose: «il re s'elegge qua».

Giovanni ottavo, un papa autoritario,
vuole avocare a sé quel privilegio
e, pei suoi fini, a un grande feudatario
vuol dar l'Italia ed il potere regio:
certo Bosone, duca di Provenza;
ma ad Ansperto non va quell'invadenza.

«Tu pensa a incoronar l'imperatore»,
risponde al papa, «perché il re è affar mio».
Giovanni, allora, acceso di furore,
convoca l'arcivescovo restio,
a Pavia prima e dopo a Roma: invano!
L'altro, piú duro: «No, resto a Milano».

Giungon messi da Roma, ai quali Ansperto
oppone un invariabile «non posso»,
nel mentre conferisce - di concerto
con gli ottimati - il trono a Carlo il Grosso.
«Ah, questa è grossa!» esclama il papa: «l'unica
è colpire costui con la scomunica».

Lungi però dall'essere deposto,
come speravan, forse, i suoi nemici,
non solo restò, Ansperto, al proprio posto,
ma cacciò dentro i messi pontifici,
che nel nome del papa e del Signore
eran venuti a dargli un successore.

Il papa s'era illuso: i Milanesi
amavan troppo Ansperto da Biassono,
dal quale si sentivano difesi
e ch'era un tipo energico ma buono.
Fu lui, suppongo, (un mio parere esprimo)
che: «Milan e pô pù» disse per primo.

Vibrante d'entusiasmo e d'amor patrio,
la rese ancor piú bella e piú sicura,
davanti a Sant'Ambrogio aggiunse l'atrio
meraviglioso, restaurò le mura,
quasi in rovina, eresse ospizi, chiese,
e tutto ciò (pensate!) a proprie spese

(mentre adesso i potenti, assai piú scaltri,
le spese, ohimè, le fan pagare agli altri).

XXI
L'invasione degli Ungheri (899-900)
Ugo di Provenza


Per gl'Italiani il secolo funesto
si chiude con un ultimo sconquasso:
hanno deciso gli Ungheri (e, del resto,
non c'è nessuno a contrastargli il passo)
d'uscire anch'essi dalle proprie tane
per visitare le città padane.

Affini agli Unni, barbari feroci,
devastan tutto, bruciano paesi,
campi... Ma questa volta, oltre alle croci,
impugnan anche l'armi i Milanesi,
e Landolfo, arcivescovo e soldato,
non lascia la città come Onorato.

Sant'Ambrogio diventa una fortezza,
prosecuzione delle antiche mura;
la gente pur se all'armi è poco avvezza,
si batte con magnifica bravura.
Attila ormai da tempo è seppellito:
e questa volta il barbaro è servito!

Morto il fiero Landolfo, ch'era stato
l'animatore della resistenza,
l'arcivescovo Andrea, mal consigliato,
invita Lodovico di Provenza:
«Vuol venire in Italia?» gli propone:
«avremmo un regno a sua disposizione».

L'arcivescovo aveva un suo disegno,
come, del resto, i suoi predecessori:
dare a un oscuro feudatario il regno,
privilegi ottenendone e favori,
e se avanzava, il re, delle pretese,
rispedirlo senz'altro al suo paese.

Lodovico, nell'anno 900,
arriva dal suo feudo provenzale
e, proclamato re, tutto contento,
a Roma ha la corona imperïale;
ma presto, poi che il re vuol far sul serio,
gliene faran passare il desiderio.

Costretto a rinunciare alla corona,
se ne va via, ma l'Alpi ridiscende,
prende prima Milano e poi Verona,
dove, sicuro ormai, pianta le tende;
ma Berengario poi, Verona invasa,
gli cava gli occhi e lo rimanda a casa.

Sotto un altro: Rodolfo di Borgogna.
E Berengario, per cacciarlo via,
chiama in aiuto gli Ungheri (vergogna!),
che a ferro e fuoco mettono Pavia;
ma dopo sconta il gesto scellerato
e per mano d'ignoti è trucidato.

Il trono è offerto ad Ugo di Provenza:
sembrava un galantuomo ed è un ribaldo,
che ha sete di ricchezza e di potenza:
per darne il posto al figlio suo Teobaldo,
egli tentò, benché gli fosse amico,
d'uccider l'arcivescovo Arderico.

Venne scoperto il subdolo attentato,
e scese in piazza il popolo ribelle,
ma per salvar la vita del prelato
parecchi ci rimisero la pelle,
e il re, dagl'indignati cittadini,
fu costretto a tornar nei suoi confini.

Resta sul trono il giovane Lotario,
suo figlio, ch'è un ragazzo di buon cuore;
ma il padrone di fatto è Berengario,
nipote dell'ucciso imperatore:
è marchese d'Ivrea, ma sta a Milano,
dove complotta e intriga a tutto spiano

per tornare a Pavia, poiché si crede
dell'italico regno il vero erede.

XXIII
Bonizio e Landolfo da Carcano
Fine del millennio


Nell'anno 961,
Ottone primo - il Grande - entra a Milano,
dove Valperto, che stimò opportuno
invitarlo quaggiù, fa del sovrano,
nella Dieta tenuta in Sant'Ambrogio,
un commovente e sperticato elogio.

Afferma: «È il solo, in tempi cosí duri,
che possa darci la tranquillità
e contro tante insidie ci assicuri».
I Milanesi dicono: «Sarà...»,
batton le mani senza convinzione
e toccan ferro, pur gridando... «Ottone!».

Proclamatolo re, dopo, il medesimo
Valperto a Roma il teutone accompagna,
e questi da Giovanni dodicesimo
è unto imperatore in pompa magna,
ed indi nominar fa re d'Italia
il figlio Ottone, ancora quasi a balia.

«Il principino, certo, è un po' immaturo,
ma questo è un trono a molti rischi esposto»,
pensa, «per cui, per esser piú sicuro,
credo sia meglio prenotargli il posto.
Per ora tutto va col vento in poppa:
la prudenza, però, non è mai troppa».

A questo l'arcivescovo, s'intende,
non s'è prestato gratis et amore:
egli in cambio otterrà ricche prebende,
terre e castelli dall'imperatore,
cosicché la diocesi diventa
sempre piú forte, grande ed opulenta.

Intanto, i re deposti e i loro eredi
non si dan pace e, morto il primo Ottone,
si metton lo Stivale sotto i piedi,
mentre a Milano, a farla da padrone,
è Bonizio da Carcano, un signore
beneficato dall'imperatore.

È un vecchio gentiluomo del contado,
che regge la città senza controllo
e fa salire all'arcivescovado
il giovane Landolfo, un suo rampollo,
che, usando del potere a tutta briglia,
fa di Milano un feudo di famiglia.

Insorge allora il popolo indignato
ed ammazza Bonizio: una tragedia...
Landolfo fugge e, dopo aver chiamato
il nuovo Ottone, che Milano assedia,
ha una trovata piena di saggezza,
e la tragedia termina in bellezza:

dicendosi pentito dei suoi falli,
non solo ai suoi seguaci egli dispensa,
vincolandoli a sé come vassalli,
feudi e ricchezze della sacra Mensa,
ma con terre, castelli e benefici
placa ed a sé guadagna anche i nemici.

E forma, con quel gesto di furbizia,
pur frantumando i beni della Chiesa,
i quadri della prossima milizia:
quei feudatari, pronti alla difesa
dello stesso arcivescovo, man mano,
diventeranno il nerbo di Milano.

Ottone fa buon viso al brutto scherzo,
parte per Roma e trova guerra e morte.
Il figlio adolescente, Ottone terzo,
ben presto seguirà la stessa sorte,
in quella Roma, dove sta accadendo
il finimondo in un groviglio orrendo.

Del resto, per quell'anno novecento
novantanove è atteso il finimondo
davvero, come un incubo, un evento
fatale e ineluttabile: secondo
l'Apocalisse, i frati e le sibille,
l'alba non vi sarà dell'anno 1000.

Vana paura: per fortuna, ancora,
su quell'umanità di sangue sazia,
sorse la luce della nuova aurora...
Ho detto per fortuna: o per disgrazia?
Perché la luce dell'aurora nuova
a diradar le tenebre non giova,

ed il nuovo millennio, indubbiamente,
darà dei punti a quello precedente.

XXV
Ariberto d'Intimiano
(1018-1045)


Anno 1018: Arnolfo muore,
ed al suo posto i «grandi» di Milano,
con il permesso dell'imperatore,
eleggono Ariberto d'Intimiano,
che siede sulla scranna episcopale
con in pugno la spada e il pastorale.

E abbiamo un arcivescovo a cavallo,
piú soldato che prete, ma dabbene:
il gran signore e l'umile vassallo
tratta da uguali, ed alle curve schiene
sembra già dir, fra un'ave e un paternostro:
«Su con la vita! L'avvenire è vostro».

Generoso, dinamico, moderno,
volle aperte le scuole a tutti quanti,
a spese proprie e a spese del governo,
dando buoni stipendi agl'insegnanti,
che non eran costretti, come adesso,
a scioperare o a rinunziare al lesso.

Andò in Germania ed a Corrado il Sàlico
- il successore del secondo Enrico -
promise a cuor leggero il regno italico
e in lui non vide il prossimo nemico.
Fu il suo piú grande errore, egli lo ammette:
lo incoronò nel 1027.

Poiché i Pavesi opposero un rifiuto,
spinse Corrado ad assediar Pavia:
questa - è pur vero - aveva sempre avuto
verso Milano un po' di gelosia,
ma il doloroso e tragico episodio
l'antica gelosia trasformò in odio.

Ora Ariberto vuole imporre a Lodi
certo vescovo Ambrogio: i Lodigiani,
che apprezzan poco i burbanzosi modi,
coi Milanesi vengono alle mani
ed han la peggio; d'onde, altr'odio ardente
contro Ariberto e tutta la sua gente.

Due classi, intanto, s'urtano a Milano:
i capitani, o militi maggiori,
immediati vassalli del sovrano,
del vescovo o del conte, e i valvassori,
che, oppressi da quei grandi, coi plebei
scendono in piazza: è il 1036.

Poiché Ariberto non si sente in grado
di domare gl'insorti, in preda all'ira
chiama il funesto imperator Corrado
e addosso molti guai cosí s'attira,
perché quel prete energico e manesco
non piace troppo al Cesare tedesco.

Questi accettò l'invito, tuttavia,
con una mira subdola e segreta:
infatti, convocatolo a Pavia,
in una breve e tempestosa dieta,
arrestò l'arcivescovo d'urgenza
e ammanettato lo mandò a Piacenza.

Milano, alla notizia, arde di sdegno
e di dolore: vergini e matrone,
nobili e servi, senza alcun ritegno,
si strappano le vesti, e in processione,
a piedi nudi, vanno i capitani
accanto ai valvassori e ai popolani.

Trascorsero due mesi, ed Ariberto,
complici alcuni frati piacentini,
scesa la notte, dopo ch'ebbe offerto
vino e liquori ai propri secondini
e questi sprofondarono in letargo,
usci dalla prigione e prese il largo.

Non vi dico il delirio di Milano,
le feste alla Basilica Maggiore...
Folle di rabbia, decretò il sovrano,
come Vitige, il suo progenitore,
che la città ribelle e turbolenta
fosse distrutta dalle fondamenta.

Questa volta, però, signor Corrado,
saranno i Milanesi a trarre il dado...

XXVII
La guerra civile (1042)
La morte di Ariberto (1045)


Adesso capitani e valvassori
si dividon le cariche a Milano
e sempre piú quei pessimi signori
aggravano sui deboli la mano:
cosí, con l'aumentare dei padroni,
sono aumentati i mali ed i... «bidoni».

Si, ma la plebe adesso ha un'altra scorza,
poi che con l'armi ha avuto da Ariberto
la coscienza della propria forza
e, vinto il feudalismo in campo aperto,
non è disposta a tollerarlo in casa;
però, la nobiltà non n'è persuasa.

Un popolano, un giorno, casualmente,
per strada un valvassore urta col braccio;
questi si volge e livido, furente,
atterra con la spada il poveraccio,
ma s'alzan cento braccia in una volta
in sua difesa. E scoppia la rivolta.

Dal furore del popolo inseguiti,
s'asserragliano in casa in tutta fretta,
ma fuggon dopo, i nobili atterriti,
giurando inesorabile vendetta.
Ed Ariberto, ormai provato e stanco,
finisce col partire al loro fianco.

La plebe ha un capo: il giudice Lanzone,
una di quelle splendide figure
che una crociata o una rivoluzione
trovano sempre, quando son mature.
Egli, benché d'origine patrizia,
è coi ribelli e ha sete di giustizia.

Aveva, la Milano medievale,
sei porte: Ticinese, Vercellina,
Nuova, Romana, Renza od Orientale
(oggi Porta Venezia) e Comasina.
Lanzone suddivide gli abitanti
fra le sei porte (quelle piú importanti)

Gl'irati capitani e valvassori
assedian la città per ben tre anni:
tre anni di vendette, di dolori,
d'inique stragi e d'inauditi affanni;
ma i popolani, dalla testa dura,
resiston sempre, chiusi entro le mura.

Lanzone, alfine, vista decimata
Milano dalla fame e dal nemico,
avanza una proposta disperata,
ch'è approvata dai suoi: chiamar Enrico,
per salvar la città che si dilania
in quell'atroce guerra. E va in Germania

Enrico terzo volentieri accetta,
ma impone ferrei patti; onde Lanzone
rinuncia alla vittoria e alla vendetta,
torna a Milano, e senza esitazione
va nel campo nemico, alza le mani
e chiede di parlar coi capitani.

Gli tenne su per giú questo discorso:
«Cari signori, arrivano i Tedeschi;
io li ho chiamati, senza alcun rimorso,
perché, vinti da voi, staremmo freschi.
Non vi sembra piú logico e piú umano
chiederci scusa e stringerci la mano?»

Si scese a giusti patti e, finalmente,
ai nobili Milano apri le porte.
Tornò il vecchio Ariberto, ormai cadente,
fra le sue mura ad aspettar la morte,
dicendo a chi piangeva: «Asciuga il pianto:
vado tranquillo innanzi al nostro Santo».

Riposa in Duomo, accanto a quella croce
che un giorno dal Carroccio leggendario
vide fuggire il téutone feroce,
sgominato da un popolo bonario,
di cui egli destò nella coscienza
la prima fiamma dell'indipendenza:

popolo di mercanti e d'artigiani,
ma che, se occorre, sa menar le mani.

XXIX
Federico Barbarossa Imperatore (1152)
Il primo assedio di Milano


Benché retta a repubblica, Milano
continua ancor pro forma, tuttavia,
ad eleggere il re, purché il sovrano
dopo tre giorni se ne vada via.
Gli piace la città? Non l'ha mai vista?...
Ci tornerà da semplice turista.

Sono soltanto i Consoli che adesso
governan il Comune, e ne fan parte
i popolani e i nobili: lo stesso
arcivescovo è ormai quasi in disparte;
e le guerre e le paci e le alleanze
sono decise in pubbliche adunanze.

In poco piú d'un secolo, le guerre
furono ventisei: contro Pavia,
Lodi, Cremona, Como ed anche terre
oltre i confini della Lombardia,
Novara, Parma... I guai sopravvenuti,
Milano, insomma è lei che li ha voluti.

Intanto, Federico Barbarossa,
eletto imperatore dei Tedeschi,
comincia presto a far la voce grossa
e ad affermar, con modi padroneschi,
ch'egli è deciso a far l'imperatore,
da ubbidirsi per forza o per amore.

Manda a Milano un messo, a ricordare
i suoi diritti sull'antico Regno;
ma i consoli, fra l'ira popolare,
leggono il «breve» e con superbo sdegno,
mostrando al messo il libero vessillo,
calpestan poi l'imperial sigillo.

Federico, saputo di quel gesto,
scende in Italia e, cinta la corona
nell'amica Pavia, senza un pretesto,
stringe d'assedio e stermina Tortona,
come per dire: «Attenti, son venuto!»
ai Milanesi e a chi dà loro aiuto.

Ciò fatto; verso Roma egli procede,
mentre a Milano, contro il Barbarossa,
mastro Guitelmo, specie d'Archimede,
intorno alla città scava una fossa,
rinforza torri e ponti levatoi,
alza un bastione e dice: «Ed ora a noi!».

Nell'anno 1158,
un poderoso esercito nemico
giunge a Milano. In seguito a un complotto,
tradendo i Milanesi, a Federico,
dopo una breve e indomita difesa,
il conte di Biandrate offre la resa.

L'8 settembre, i consoli e i primati
- l'arcivescovo Oberto in prima fila -
sfilano scalzi innanzi agli alleati
(ch'erano in tutto circa centomila,
fra Tedeschi e Italiani) e il popol tutto
segue i maggiori con le vesti a lutto.

Nella Dieta sui prati di Roncaglia,
presenti i dottoroni di Bologna,
giureconsulti e giudici di vaglia,
è il fulvo imperatore (altro non sogna)
riconosciuto il solo, il vero, il giusto
gran successore del divino Augusto.

La bandiera con l'aquila imperiale
è issata sulla torre del Comune.
Viene instaurato il giogo piú brutale,
ma troppo l'oppressor tende la fune,
allorché vuole imporre alla città
un proprio magistrato: il podestà.

Milano insorge e al grido: «Fora! Fora!»
scaccia i Tedeschi dalle proprie mura;
il Barbarossa furibondo, allora,
dichiara i Milanesi - con scrittura
stilata dai felsinei magistrati -
contumaci, ribelli e rinnegati.

E sono posti al bando dell'Impero:
Milano sola contro il mondo intero!

XXXII
La ricostruzione di Milano
La fondazione d'Alessandria
La battaglia di Legnano
(1176)


Giunse la bella e santa primavera
dell'anno 1171:
trombe e campane, in enfasi guerriera,
chiaman di nuovo il popolo a raduno;
ed è davvero il popolo sovrano,
ch'è ritornato nella sua Milano.

Risorgono le torri, le distrutte
mura, le case; in preda a un'euforia
meravigliosa, vi lavoran tutte
le maestranze della Lombardia;
giungono aiuti e il plauso piú cordiale
da tutte le città dello Stivale.

Intanto, una città - di piú ridotto
formato - dalla Lega era fondata,
nell'anno 1168,
sul Tanaro e la Bormida, chiamata
col nome d'Alessandria, il che si spiega:
papa Alessandro è il capo della Lega.

Quella città-fortezza, che fu eretta
per tagliare Pavia dal Monferrato,
ebbe i tetti di paglia, per la fretta,
sicché, sprezzante, pur se un po' seccato:
«Città di paglia!» disse il Barbarossa.
Ed a momenti ci lasciava l'ossa...

Ordinò furibondo, tuttavia,
che la nuova città fosse sepolta,
quando, dal Monferrato e da Pavia
sollecitato, per la terza volta
in Italia calò, sei anni dopo:
polverizzar la Lega era il suo scopo.

Passò dalla Savoia ed Alessandria
assediò per sei mesi inutilmente:
non ha dinanzi una belante mandria,
come pensò, ma un popolo furente;
e la città, nell'epica battaglia,
si rivelò di ferro e non di paglia.

L'imperatore vuol trattar la pace
e accetta un compromesso a Montebello;
ma all'improvviso ridiventa audace,
poiché giunge un esercito novello
dalla Germania, che gli dà manforte.
E Como all'invasore apre le porte.

Dilaga intorno il pànico: che fare?...
Si stacca dalla Lega anche Tortona;
Bergamo e Lodi sembrano esitare,
Pavia tradisce, è incerta anche Cremona...
Supplicare perdóno al Barbarossa?
Milanesi, giammai: meglio la fossa!

Meglio la morte che l'obbrobrio e l'onta!
Meglio la fine, se non c'è piú scampo,
fratelli... E allora che Milano affronta
«a lancia e spada il Barbarossa in campo»,
ed è in quei dí che trova anche Milano
il suo Sigfrido: Alberto di Giussano.

È lui che, mentre cedono i Lombardi
dinanzi ad un nemico assai piú forte,
presso Legnano, con i suoi gagliardi
novecento guerrieri della Morte
accorre ed in un impeto di gloria
salva il Carroccio e ottiene la vittoria.

I Lombardi inseguirono il nemico
per otto miglia; venne conquistata
la spada dello stesso Federico,
che sparve nella mischia disperata:
giunse a Pavia che già l'imperatrice
si riteneva vedova infelice.

Non lo pianga, signora, è troppo presto,
ne avrà ancora per anni: è nel '90
ch'egli infatti morrà, dopo il bel gesto
compiuto guerreggiando in Terrasanta;
in quella Terrasanta ove ha deciso
d'andarsi a guadagnare il paradiso

(ché qui, se non l'aiuta il Padre Eterno,
a momenti lo mandano all'inferno).

XXXIV
Federico II contro Milano
Pagano della Torre


Del Barbarossa emerito nipote,
Federico secondo odia Milano
(né, certo, l'amicizia ne riscuote):
uomo moderno, illuminato e strano,
coltiva l'arte, venera la scienza,
non sdegnando, però, la prepotenza.

Vuol vendicar lo zio: vuol, finalmente,
esser d'Italia l'unico signore.
Piú che Milano e lui, sono, idealmente,
a fronteggiarsi papa e imperatore
coi loro rispettivi paladini:
si fan la guerra Guelfi e Ghibellini.

E fu una lotta che non ebbe tregua
per un quarto di secolo. Milano,
senz'altro, alla politica s'adegua
del severo pontefice romano,
per cui s'affretta a mettere in funzione
il tribunale dell'inquisizione.

Con l'aiuto d'un frate demagogo,
Oldrado da Tresseno - il podestà -
manda schiere d'eretici sul rogo,
cosí purificando la città
da una genia malefica e funesta,
ch'osa pensare con la propria testa...

È nel 1237
che Federico valica i confini
che, deciso a far le sue vendette,
con torme di Tedeschi e Saracini
polverizza sull'Oglio, a Cortenuova,
i Milanesi, il cui valor non giova.

Dello spietato zio degno discepolo,
fa massacrar dai suoi feroci lanzi
i prigionieri, impicca Pietro Tiepolo,
podestà di Milano, e i pochi avanzi
del Carroccio spedisce con orgoglio
al Senato romano in Campidoglio.

Il nobile Pagano della Torre,
ricco signore della Valsassina,
gli sbandati rianima e soccorre,
verso le proprie terre li incammina,
li accompagna poi fino a Milano,
che gli è assai grata di quel gesto umano

Due anni dopo accade a Federico
quello ch'è già accaduto al Barbarossa:
sbaragliano l'esercito nemico
i Lombardi, chiamati alla riscossa,
Federico parte, buono buono,
scomunicato da Gregorio nono.

L'arcivescovo e i nobili, a Milano,
la propria autorità vogliono imporre,
il minacciato ceto popolano
invita allor Pagano della Torre,
ché lo difenda, accanto al podestà,
contro i soprusi della nobiltà.

Non è soltanto un abile tribuno:
è un uomo giusto, semplice, clemente;
e nel 1241,
quand'egli muore, il popolo piangente,
purtroppo, insieme a lui seppellirà
la pace e, peggio ancor, la libertà.

Lo ricorda un'epigrafe e lo dice
- in Chiaravalle, dove è sotterrato -
almo liberator, frutto felice
di questo suolo... Quando il suo casato
dominerà, Pagano della Torre
discendere faran dal prode Ettorre,

o addirittura dal gran padre Adamo
(da cui, del resto, tutti discendiamo).

XXXVI
La sconfitta di Ezzelino da Romano (1259)
Martino della Torre (1259-1263)


Bella la Lombardia: grassa, fiorente,
ricca dei piú pregevoli prodotti
dei campi e delle industrie, indubbiamente
faceva gola a molti signorotti,
in specie ad Ezzelino da Romano,
che aspirava al dominio di Milano.

È una figura tra le piú malvage
del sanguinoso tragico Duecento:
il suo nome è sinonimo di strage,
d'ira, di crudeltà, di tradimento.
Fece dovunque vittime a migliaia,
morte sul rogo o sotto la mannaia.

È a lui che i fuorusciti milanesi
chiedono aiuto. Indomito, Martino,
insieme ai Mantovani e ai Cremonesi,
sull'Adda affronta e sgomina Ezzelino,
che, ferito in quell'epica giornata,
rende al demonio l'anima dannata.

Dopo di che, Martino della Torre
è di Milano il capo incontrastato;
ed è saggio e magnanimo, ma incorre
fatalmente nell'ira del papato,
in un momento in cui per tutto il mondo
dilaga un fanatismo furibondo.

Percorrevan l'Italia i Flagellanti:
degl'invasati, stretti dal cilicio,
che predicavan le virtú dei santi,
povertà, penitenza, sacrificio;
ottime e sagge cose tutte queste,
ma che con sé portavano la peste.

Martino, intorno alle turrite mura,
forche disseminò per ogni dove:
il mistico drappello ebbe paura
andò, prudente, a flagellarsi altrove,
perché neppure i santi, a nostro avviso,
hanno fretta d'andare in paradiso.

Martino, non contento, da Milano
scacciò dopo il legato pontificio:
degli Ubaldini il nobile Ottaviano,
che amava piú le gemme che il cilicio
pretendeva gli venisse offerto
un «pezzo» dell'altare d'Angilberto.

Disse indignato il cardinale: «Io parto,
ma con Martino farò presto i conti»,
a Roma indusse il papa Urbano quarto
a creare arcivescovo un Visconti
(poi che il diritto il popolo perdé
di darsi un arcivescovo da sé).

Martino si ribella e papa Urbano
gli lancia l'interdetto. Tuttavia,
quand'egli muore, il popol di Milano
ne accompagna la salma all'Abbazia
di Chiaravalle e piange addolorato
il suo signor, sia pur scomunicato.

A Martino succede un suo fratello,
Filippo, ma Milano ha un vero capo
quando, anche quegli sceso nell'avello,
a lui succede il favoloso Napo:
è, tutta la sua vita e la sua storia,
un'orgia di battaglie e di baldoria.

Fu il tipico signore del Duecento,
un secolo convulso e stravagante,
fazioso, fanatico, violento,
spesso feroce: il secolo di Dante,
in cui l'arte rinasce: una sublime
festa di forme, di colori e rime.

(Vi saran delle età ben piú funeste,
senz'arte, senza rime e senza feste...)

XXXVIII
La Signoria Viscontea (1277-1447)
Matteo Magno


Intraprendenti ed abili, i Visconti,
di beni di fortuna ancor sprovvisti,
nonostante i fantastici racconti
adulatorii dei genealogisti,
inosservati scesero a Milano
da un modesto castello del Verbano.

Con Ottone arcivescovo comincia
l'ascesa del serpente visconteo,
che di Milano e tutta la provincia,
segnatamente ad opra di Matteo,
il pronipote e successor d'Ottone,
diventa il potentissimo padrone.

In quanto all'arcivescovo, che ottenne
la signoria coi bandi, le torture
e i tradimenti, vecchio ottantottenne
moriva fra i rimorsi e le paure,
voltate al mondo ormai le curve spalle,
nell'antica Abbazia di Chiaravalle.

Matteo, tribolatissimo, nell'anno
1302, saprà l'esilio,
e i Torriani a Milano torneranno,
accolti da una folla in visibilio,
che in Guido della Torre risaluta
la libertà, da tempo già perduta.

Fin quando Enrico settimo, chiamato
dal profugo Matteo, vuol ricomporre
l'aspro dissidio e l'odio smisurato
ch'esiste fra i Visconti e i della Torre;
però pretende, insieme alla corona,
centomila fiorini: e non canzona.

Guido e Matteo si mettono d'accordo
per scacciare i Tedeschi, ma - sventura! -
Enrico non è cieco e non è sordo,
e ha molte spie: scoperta la congiura,
mette al bando i Torriani, ed ecco invase
e devastate ancor le loro case.

Matteo, piú furbo, invece si prosterna
al sire, si dichiara suo gregario,
gli giura fede e obbedienza eterna,
sí ch'è creato imperial vicario,
sborsando ancora un mucchio di fiorini,
strappati ai dissanguati cittadini.

In tal modo, Matteo si mette contro
tutti i guelfi d'Italia; e tuttavia,
costretto a piú d'un sanguinoso scontro,
si batte con la massima energia.
Il papa lo scomunica, e son quelle
l'ore piú brutte per il gran ribelle.

Spera di far morir papa Giovanni
con arti di magia: chiede consiglio
anche a Dante Alighieri (che in quegli anni
trascorreva a Ravenna il duro esiglio),
nella speranza che il poeta eterno
possa cacciare il papa nell'inferno.

Gi'inquisitori lo dichiaran reo
di molte colpe: ce n'è tutto un mazzo;
terrorizzato, il povero Matteo
cede il potere al figlio Galeazzo,
mentr'egli, innanzi al popolo plaudente,
recita il Credo e grida ch'è innocente.

E quando rese l'anima al Signore,
fu sepolto in segreto a Crescenzago,
fra pochissimi fidi, nel timore
che il romano pontefice, non pago,
potesse fare insulto all'ossa sue.
Era il 1322.

Quell'uomo forte, illuminato, audace,
soltanto allora ritrovò la pace.

XL
Giovanni, Arcivescovo e Signore di Milano (1349-1354)
Bernabò Visconti (1385)


Non può dirsi davvero che sia stato
uno stinco di santo il buon Luchino:
valoroso politico e soldato,
ebbe fama d'insigne libertino.
E la bella cugina Margherita,
per la propria virtú, perdé la vita.

Margherita era moglie d'un Pusterla:
Luchino n'è invaghito - si bisbiglia -
e, poiché non riesce a persuaderla,
monta un complotto e a tutta la famiglia
taglia la testa... (Chi ti legge piú,
povero e grande Cesare Cantú?)

Rimasto solo capo, alla sua morte,
il fratello arcivescovo Giovanni
è un uomo sveglio, coraggioso e forte:
se gli si addicon poco i sacri panni,
in quanto a cuore, fegato e cervello,
bisogna fargli tanto di cappello.

Petrarca, spregiatore di sovrani,
si fermò a lungo presso quel signore
e disse che, fra i principi italiani,
Giovanni di gran lunga era il migliore;
nè a lui soltanto tributò un elogio,
ma a tutta la città di Sant'Ambrogio.

Giovanni, con l'astuzia e con l'audacia,
s'impadroní di Genova e Bologna;
e, pieno di risorse e di tenacia,
altri fastigi ed altre mete sogna,
dopo aver fatto ancora mirabilia
nel Veneto, in Piemonte ed in Emilia.

Contava allor, lo Stato visconteo,
ben ventisei città, ch'egli lasciò
ai tre nipoti. Spentosi Matteo,
restaron Galeazzo e Bernabò:
cosí, diviso è il solido dominio
(diviso... fino al prossimo assassinio).

Morto poi Galeazzo, a lui succede,
residente a Pavia, Gian Galeazzo,
suo figlio, e aspira ad essere l'erede
dello zio Bernabò (strano ragazzo:
mentre lo zio lo crede un bonaccione,
è, viceversa, un abile volpone).

Però, quel Bernabò... Di lui si narra
ch'era un tiranno della peggior spèce:
natura nevrastenica e bizzarra,
solo il buon Dio può dir quante ne fece,
bruciando preti e frati, e amando i cani
(n'ebbe a migliaia) assai piú dei cristiani.

Ma fu un uomo politico avveduto;
fu un italiano, e amava il suo paese,
che, intransigente, audace ed evoluto,
contro i papi ed i re sempre difese.
Un po' superbo sí, ve lo consento:
si fece far da vivo il monumento...

Il fiero Bernabò, sempre occupato
tra nuove guerre, triboli e scompigli,
ebbe anche il tempo (dove l'ha trovato?...)
di far venire al mondo trenta figli:
fra questi, Caterina, che al nipote
diede in isposa con cospicua dote.

Questi, apprendendo che lo zio regala
ai cinque figli maschi - a quelli, ossia,
avuti da Regina della Scala -
tutte le terre della Signoria,
tira fuori gli artigli, per lo avanti
nascosti con prudenza a tutti quanti.

Decide, un giorno, in pio pellegrinaggio
d'andare al Sacro Monte di Varese,
cosí scrive allo zio: vuol fargli omaggio...
gli vada incontro a Porta Ticinese.
Lo zio ci va, soletto e disarmato,
in groppa ad una mula: è imprigionato.

Gian Galeazzo, con malvage accuse,
prima contro di lui montò un processo;
nel castello di Trezzo, ove lo chiuse,
poi lo fece ammazzar quell'anno stesso.
Va detto, tuttavia, ch'ebbe ogni cura
nel dargli una superba sepoltura...

Milano esulta: la promessa ha avuto
di pagar meno tasse. E ci ha creduto...

XLII
Il Ducato sotto i due ultimi Visconti


Spartì lo Stato fra Giovan Maria
Filippo Maria, ragazzi ancora,
presto la potente Signoria,
malgovernata, se ne andò in malora.
E la madre, assistita da un Consiglio,
che custodisce e l'uno e l'altro figlio.

Col primo d'essi, uscito di custodia,
un piccolo Nerone entra in iscena:
contro la madre, ch'egli teme ed odia,
ordisce una congiura e l'avvelena;
la sua vita è tutta, a conti fatti,
una storia d'inutili misfatti.

Finché, un giorno, l'ingrato ed infingardo
duca, che l'odio pubblico s'attira,
mentre si reca a messa a San Gottardo,
è assassinato; il popolo respira,
ma il ducato, in dieci anni d'anarchia,
s'è ridotto a Milano ed a Pavia.

Fu Filippo Maria, l'altro fratello,
il successore: questi ha dimostrato
d'aver del padre l'animo e il cervello,
ricostruendo il labile ducato.
Delitti, anch'egli ne commise tanti,
ma non è, quella, un'epoca di santi.

Anzitutto, sposò la vedovella
(ed i quattrini) di Facino Cane,
donna che a quarant'anni era ancor bella
e aveva in dote un patrimonio immane,
con alcune province e l'agguerrito
esercito di Cane (il fu marito).

E, grazie a quell'esercito, Filippo
riconquistò Milano. Sconoscente,
alla signora poi preparò il cippo:
l'accusò d'una tresca inesistente
e il capo le mozzò, ragion per cui
ella avrà detto: «Il vero... Cane è lui!»

Servendosi del braccio e della mente
di Francesco Bussone, il «Carmagnola»,
un generale onesto ed eccellente
che di Facino Can crebbe alla scuola,
portando fra i nemici lo sterminio,
presto ricuperò tutto il dominio.

Ma poi si disgustò col condottiero,
la cui fama nel mondo era già altissima:
n'era geloso, il duca; e quel guerriero
passò al servizio della Serenissima,
che coi Visconti, per antichi torti,
si trovava da tempo ai ferri corti.

Dopo i nuovi successi viscontei,
ben conoscendo di Filippo i piani,
nel 1426
Firenze s'alleò coi Veneziani:
era, in quel tempo, l'unica città
che ancor credesse nella libertà.

E l'anno successivo, nel bresciano,
il Carmagnola, traboccante d'odio,
si vendicò del duca di Milano
nella grande battaglia di Maclodio:
uno dei piú romantici macelli,
dove i fratelli uccisero i fratelli.

Dopo una breve pace, nuovamente
gli avversari ricorrono alla forza;
Milano, minacciata, in quel frangente
trova il suo nuovo eroe: Francesco Sforza;
e il vecchio condottier, ch'egli sbaraglia,
perde a Soncino l'ultima battaglia

(non solo, ma accusato di congiure,
la testa perderà sotto la scure).

XLIV
La pace di Lodi (1454)
Magnificenza della corte sforzesca


Nel '50 Francesco entra a Milano,
con la Bianca Maria, da Porta Nuova,
il popolo l'acclama: un po' di grano
un po' di pace chiede; altro non giova
a una plebe stremata,ed impotente,
che nulla aspetta e piú non crede in niente

Consegnano allo Sforza, i reggitori,
lo stendardo, le chiavi ed il sigillo
della città. Sei giorni di clamori
di bisboccia, e il popolo è tranquillo:
perché alla libertà piú non si pensi,
bastan qui pure, ormai, pane e circensi...

Nel 1451
sorge la nuova Lega antisforzesca;
ma, a conti fatti, non c'è piú nessuno,
dopo la lunga fregola guerresca,
che ancora di pestarsi ha desiderio...
E c'è un altro pericolo, il piú serio:

con la caduta di Costantinopoli,
la travolgente marcia mussulmana
minaccia da vicino tutti i popoli,
compresa la potenza veneziana,
che, volendo una pace in tutti i modi,
s'accorda con lo Sforza in quel di Lodi.

E, dopo innumerevoli convegni,
è stipulato un patto, intorno al quale
si stringon le repubbliche ed i regni
disseminati in tutto lo Stivale,
Roma compresa; fu, la mezzaluna,
almeno per Francesco, una fortuna.

Sta di fatto, però, che molta gente
vanta diritti sulla signoria;
vi aspira la Francia, specialmente,
divenuta una grande monarchia,
forte, ricca, unitaria, il cui sovrano
pretende, oltre che Napoli, Milano.

Gian Galeazzo, in anni ormai remoti,
aveva dato in moglie a un Valois
sua figlia Valentina, ed i nipoti
rivendicano a sé l'eredità;
senza dir di parenti d'ogni sorta,
che aspettan di dividersi la torta.

Già bellicoso, prepotente, audace,
l'antico condottier muta registro:
aspira adesso all'ordine e alla pace,
con la Francia, grazie a un suo ministro,
il calabrese Cicco Simonetta,
un'alleanza a stringere s'affretta.

E la pace che regna, o bene o male,
in pace può votarsi il buon Francesco
ad abbellir la propria capitale,
pur se molti lo guardano in cagnesco.
Milano a quel magnifico signore
deve il Castello e l'Ospedal Maggiore.

E con la rocca estense di Ferrara,
con la casa dei Medici a Firenze
ed altre corti il suo Castello in gara
accoglie le piú belle intelligenze:
poich'egli aveva, semi-analfabeta,
l'anima d'un guerriero e d'un poeta.

Finché, nell'anno millequattrocento-
sessantasei
, Francesco venne a morte:
lasciò di figli un vero reggimento,
non tutti nati dalla pia consorte
Bianca Maria Visconti, con la quale
fu molto piú modesto e piú frugale;

ma alcuni maschi, tipici campioni,
glieli diede anche lei: pochi ma buoni...

XLVI
La Signoria di Lodovico il Moro (1480-1508)
Leonardo da Vinci


Dell'indignato popolo a dispetto,
nell'anno 1480,
assunta la tutela del «duchetto»,
padrone ormai di fatto, il Moro vanta
la signoria piú solida e piú forte
di tutta Italia e la piú ricca corte.

È un uomo astuto, colto e raffinato,
è il gran signore del Rinascimento:
come suo padre, accoglie nel ducato
artisti e letterati di talento;
fa sfoggio d'una pompa favolosa,
sí che dir «Sforza» o «sfarzo» è l'ugual cosa.

Ininterrottamente si svolgevano
nel fastoso castello di Milano
(d'autunno nel castello di Vigevano)
splendide feste di sapor pagano,
che organizzava, eclettico e fecondo,
un genio fra i piú celebri del mondo.

«Son pittore, architetto, artificiere,
esperto in ogni idraulico lavoro,
ed in tempo di guerra anche ingegnere»:
era Leonardo che scriveva al Moro,
nel 1482,
elencando cosí le virtú sue.

E presto in quella corte ebbe un ufficio:
suonatore di lira... Era ammirato,
comunque, pei suoi fuochi d'artificio
piú assai che come artefice e scienziato.
Ma Lodovico, un uomo intelligente,
comprese ch'era un genio veramente.

Molte altre cose, invece, non comprese:
fra queste, una politica italiana;
e alla rovina condannò il Paese,
quando, per soddisfar la smania insana
che aveva per gl'intrighi, ond'era schiavo,
fece venir fra noi re Carlo ottavo.

Aveva dato al giovane nipote
(il vero titolare del ducato,
pur se costui, rimasto a mani vuote,
se ne stava tranquillo e rassegnato)
in isposa Isabella d'Aragona,
che molto ambiva alla ducal corona.

Ed era stato celebrato il rito
con la piú strabiliante delle feste.
Dopo, anche il Moro diventò marito,
sposando la gentil Beatrice d'Este...
Furon quelle due donne a dare il «via»
alla tua perdizione, Italia mia! ...

Donna Isabella scrive al re di Napoli,
suo nonno, piena d'ira e di dispetto
(quando il Moro e il nipote erano scapoli,
l'accordo fra i due Stati era perfetto);
scrive Isabella, sempre piú infelice,
che la duchessa è lei, non la Beatrice.

Ed ecco che ad accrescere il pasticcio,
smentendo qualche chiacchiera salace,
Gian Galeazzo, debole e infermiccio,
ha un figlio maschio e assai se ne compiace;
ma nasce, al tempo stesso, un figlio al Moro:
l'erede, adesso, chi sarà di loro?...

Non vi dovrà pensar Gian Galeazzo,
che presto morirà nel suo castello
coi suoi pallidi sogni di ragazzo
senza salute, «immacolato agnello»;
ma ci pensa Isabella, e scrive al nonno,
e smania e non riesce a prender sonno:

tanto piú che Beatrice osa sfoggiare
superbe gemme, delle sue piú rare...

XLVIII
Fine di Lodovico il Moro (1508)
Massimiliano Sforza


Uomo di pochi scrupoli, Luigi,
anticipando il primo Buonaparte,
per arricchir la corte di Parigi
fece man bassa sui tesori d'arte
- libri, quadri, ceramiche, gioielli, -
spogliandone le chiese ed i castelli.

Dopo, con molto tatto e molto fiuto,
cercò d'accattivarsi i Milanesi;
li alleggerí di questo o quel tributo,
creò un Senato dai poteri estesi
disse ai cittadini sottomessi:
«Potete amministrarvi da voi stessi».

Ma lo straniero è sempre uno straniero;
poi questi Francesi, in fede mia,
han sempre un che di tronfio, un che d'altiero,
dietro lo schermo della cortesia;
i Milanesi, stufi anche di loro,
pensan che quasi quasi è meglio il Moro.

E il Moro, con gli Svizzeri e i Tedeschi,
riconquistò le terre del ducato:
per breve tempo: con rinforzi freschi
tornarono i Francesi, e il disgraziato,
presso Novara (fin da allor fatale),
fece una fine quanto mai banale.

Il cardinale Ascanio, suo fratello,
con diecimila fanti ed...un cannone,
è a Milano che assedia nel Castello
i pochi avanzi della guarnigione:
potrebbe il Moro ancor dargli manforte,
se avesse cuore di sfidar la morte...

Ma quel cuore non l'ha (babbo Francesco
aveva, indubbiamente, un'altra stoffa):
travestito da armigero tedesco,
tenta la fuga...Ha un'aria alquanto goffa
(che soldato è costui, con quella pancia?...)
e, impacchettato, è poi spedito in Francia.

Morí, nel millecinquecento ed otto,
nel castello di Loches in prigionia,
sognando ancora un ultimo complotto,
sicuro della sua diplomazia,
convinto, con la fede piú granitica,
d'essere stato un dio della politica...

Piú fortunato, Ascanio il cardinale
(il re di Francia si lasciò commuovere)
ottiene di tornar nello Stivale
e giunge a Roma, dove il Della Rovere
- Giulio II -, papa antifrancese,
vuol « liberar dai barbari » il Paese.

Dopo varie vicende ed aspre guerre,
vinti i Francesi, il buon Massimiliano,
figlio del Moro, ottiene le sue terre,
entrando con gli Svizzeri a Milano
(perché allora, degli altri piú frenetici,
facevano la guerra anche gli Elvetici).

Passan tre anni, e re Francesco primo
scende in persona sui lombardi piani,
non rinunciando a quel Ducato opimo;
e a Melegnano, insieme ai Veneziani,
in una memorabile battaglia
lo Sforza ed i suoi Svizzeri sbaraglia.

Comandava l'esercito francese
un capitano dalle gesta ardite:
Gian Giacomo Trivulzio, milanese,
maresciallo di Francia...Vi stupite?
Nemico degli Sforza, a cuor leggero
si vendicò, passando allo straniero:

l'amor di patria è un pallido ricordo,
a cui l'orecchio, e peggio il cuore, è sordo..

L
La dominazione spagnuola (1536-1706)


E Milano è spagnuola. Carlo quinto,
con il Del Vasto, suo governatore,
lentamente vi soffoca ogni istinto
di libertà, d'orgoglio e di valore:
la scaduta città, pur d'aver pace,
non si ribella piú, ma paga e tace.

L'imperatore, poi, cede il ducato
a suo figlio Filippo: e qui comincia,
dopo un superbo e fulgido passato,
la storia d'una piccola provincia:
la città degli Sforza e dei Visconti
seppe il piú triste e scialbo dei tramonti.

Carlo si rifugiò, non piú sovrano,
in un convento dell'Estremadura:
poteva ritirarsi anche a Milano,
fra quelle vecchie e decadenti mura;
la capitale dell'antico Impero
sembrava, infatti, un mezzo monastero.

Altri imperi sorgevano: sui mari
si navigava verso nuove terre,
e favolose gesta di corsari
anticipavan le future guerre,
fra romanzeschi e leggendari eventi.
E i Milanesi e gl'Italiani? Assenti.

Quella Milano già protagonista
della storia italiana ed europea,
considerata terra di conquista,
vivacchiava cosí, senza un'idea,
con la sola idea: «Viva la Spagna,
viva la Francia, basta che se magna!»

C'era un Senato, che serviva solo
ad arricchire i membri e il presidente,
ad approvar del Cesare spagnolo
i soprusi, le gride e l'apossiente
(destinato all'alloggio e alla diaria
d'una nostra Ambasciata immaginaria).

Imitando i padroni castigliani,
gli oziosi e fanatici patrizi
profondono il denaro a piene mani
cercan solo impieghi redditizi:
il commercio, l'industria ed il lavoro
son contrari al buon gusto ed al decoro.

Infatti, la peggiore delle offese
è sentirsi chiamar: «vile meccanico!»...
Non c'è giustizia: il piccolo borghese
esce di casa in preda a un vero pànico,
a meno che non sia raccomandato
a un don Rodrigo o ad un Innominato.

I servi dei Trivulzio - è risaputo -
un giorno, uscendo dalla santa messa,
fanno la pelle a un tale che ha battuto
il cagnolino della principessa.
Assolti, va da sé: quel cattivone
meritava davvero una lezione...

Le gride si susseguono alle gride:
tasse su tasse per pagar le guerre
del re di Spagna, guerre fratricide
spesso, piú spesso su remote terre.
Mancava solamente, a quanto par,
una gabella «sobra el respirar».

Quell'ansia di ricchezza e di prestigio,
ch'era stata virtú dei Milanesi,
è dileguata in un ambiente grigio,
dove si trovan, sí, potenti cresi,
ma che han fatto quattrini a profusione
sotto l'insegna della corruzione.

E Tomaso Marino, genovese,
che s'arricchí col reddito del sale,
in Piazza Scala, non badando a spese,
costruí quel palazzo colossale,
in cui profuse autentiche fortune,
che sarà poi la sede del Comune.

(Le tasse, che da lí son decretate,
forse sono perciò cosí salate...)

LII
La grande peste (1630)
Federico Borromeo


Cugino di San Carlo, Federico
- che piú tardi occupò la nostra sede -
gli rassomiglia: indomito nemico
d'ogni soperchieria: la stessa fede,
gli stessi scatti umani e generosi.
E il cardinale de «I Promessi Sposi».

A Milano donò l'ancor fiorente
Biblioteca Ambrosiana: la cultura
in lui trovò un apostolo fervente;
la carità trovò la sua piú pura
fonte, all'amore e all'umiltà commista,
in quel cuore d'asceta e d'umanista.

E quando un'altra e ben piú atroce peste,
come un'ira di Dio, stroncò Milano,
in lui - nell'ore tragiche e funeste
di quella lunga notte - il gregge umano,
nella città prostrata dall'orrore,
trova un pietoso e intrepido pastore.

Fu nel 1629,
per la guerra di Mantova, che il male,
già propagato in Allemagna e altrove,
portato dall'esercito imperiale,
fece il suo nuovo ingresso in Lombardia,
che già soffriva per la carestia.

Prima, la fame: l'anno precedente,
com'è ben noto, il dí di San Martino,
nel centro di Milano - esattamente,
nella Corsia dei Servi - il popolino,
dopo una serie di mancati pranzi,
ha saccheggiato il Forno degli Scanzi.

Ora, la peste: dopo il primo assaggio,
si scatenò nell'anno successivo.
E invano: «Non è un morbo di passaggio,
badate, è contagioso ed infettivo»
spiegavano il Settala ed il Tadino
all'allegro Senato cittadino.

Profughi, mendicanti, vagabondi,
piovuti qui da tutte le contrade,
sono ammucchiati sui giacigli immondi
del Lazzaretto o nelle stesse strade:
il contagio dilaga... E i senatori?
ed il governo? Cercano... gli untori!

Emissari francesi, o forse agenti
veneti, questi ignobili figuri
vanno spalmando... d'infernali unguenti
tutto, le porte, i catenacci, i muri...
Ma a che vi parlerei di queste unzioni?
Signori, rileggetevi il Manzoni.

La città, dal terrore, è come pazza,
popolino, patrizi, autorità...
Son giustiziati tal Guglielmo Piazza
(il commissario della Sanità!)
e Gian Giacomo Mora, un parrucchiere,
perché... sorpresi ad ungere un quartiere

Poi la casetta del barbiere venne
distrutta, e tra la polvere e il pietrame,
provvista d'una epigrafe solenne,
sorse al suo posto la Colonna infame,
per eternar l'obbrobrio degli untori
e la sagacia dei governatori...

Gian Giacomo, oggi, in quello stesso sito
dove un giorno - al Carrobbio - ebbe dimora,
ha una sua strada: i posteri han capito
(troppo tardi per te, povero Mora!),
sia pure in parte e in netta minoranza,
che l'infamia peggiore è l'ignoranza...

Scampan, di Milanesi, a quell'inferno
solo sessantamila cittadini,
che aiuti non aspettan dal governo:
un governo di ladri e di strozzini;
da soli, rimboccandosi le maniche,
affrontan le fatiche piú titaniche.

E fecero miracoli, da soli,
pur appestati ancor dagli Spagnoli...

LIV
Milano sotto l'Austria
Il governo illuminato
di Maria Teresa e di Giuseppe II


Altra guerra europea per la Polonia,
un Paese da noi molto lontano;
ma Francia ed Austria, senza parsimonia,
estesero la guerra anche a Milano,
dov'entrò, coi Francesi, il sardo re,
nel 1733.

Sperava di restarci e, viceversa,
dopo tre anni, in seguito a un accordo,
a ritroso il Ticino egli attraversa:
lascia fra i Milanesi un buon ricordo,
ma via si porta, annesse al proprio Stato,
le piú ubertose terre del ducato.

Ferdinando von Traun, governatore
col ritorno dell'Austria in Lombardia,
punisce con il massimo rigore
chi parve difettar d'austrofilia
durante l'interregno del Savoia,
ed un conte Biancani affida al boia.

Un'altra guerra, un'altra successione:
quella dell'Austria, per Maria Teresa
che, grazie alla «prammatica sanzione»,
non da tutti accettata, al trono è ascesa:
son sette anni di guai, che a tutto spiano
delizian, come sempre, anche Milano.

Nel 1748,
quando... scoppiò la pace d'Aquisgrana,
a un relitto il ducato era ridotto:
su quel relitto l'ottima sovrana
la pratica tentò delle riforme,
che per quei tempi fu una cosa enorme.

Quasi materna, piena di fervore:
«Collaboriamo» disse ai Milanesi,
e questi si prestarono di cuore;
i risultati furono inattesi:
conobbe la città, sotto gli Austriaci,
cinquant'anni fecondi ed idilliaci.

E Giuseppe secondo, «correggente»
dapprima con la madre imperatrice,
poi solo, illuminato e intelligente,
con pugno fermo e spirito felice,
appoggia le riforme della mamma
e, morta lei, ne amplifica il programma.

Agricoltura e industrie rinsanguate,
benefici ecclesiastici aboliti,
tasse ridotte o ridimensionate,
sciolta la Compagnia dei Gesuiti.
Pio sesto, impressionato, corre a Vienna,
ma Giuseppe non cede e non tentenna.

Solo color che attentano allo Stato
han la pena di morte, mentre viene
soppressa la tortura: il suo trattato
famoso «Dei delitti e delle pene»,
dal contenuto logico ed umano,
Cesare Beccaria non scrisse invano.

Sommo disprezzo verso gl'ignoranti,
le scuole aperte a tutti i cittadini
(e che scuole, signori, e che insegnanti!
la poesia trionfa: il buon Parini
fustiga con la satira severa
la gioventú bruciata di quell'èra.

Nel 1778
s'inaugura la Scala, il nuovo altare
sacro ad Euterpe, mentre il suo ridotto
è il gran centro mondano. E a vigilare
su tanta pace e tanta disciplina,
s'innalza verso il ciel la Madonnina...

Ma l'austriaco -s'intende - è sempre austriaco,
e Giuseppe, per quanto illuminato,
accentrator dispotico e maniaco,
sopprime, col Consiglio e col Senato,
tutto ciò che a Milano e in Lombardia
può ricordar l'antica autonomia.

La piú gretta censura imperversando,
libri, giornali, stampe parigine
sono vietati, ma, di quando in quando,
nascostamente varcano il confine,
venduti a peso d'oro, e vanno a ruba
fra quei signori in redingote e tuba...

Finché giunge una nuova che scompiglia
tutti: a Parigi cade la Bastiglia.

LVI
Dalla Repubblica Cisalpina
alla Repubblica Italiana (1797-1802)


Nell'antico Broletto, già sacrario
del vecchio patriziato, ora s'insedia
il Municipio «rivoluzionario»,
che recita convinto la commedia
della rivoluzione: e, in man la spada,
il piú accanito è il prete Lattuada.

La coccarda fatidica all'occhiello
le cose piú impensabili consiglia:
si vorrebbe distruggere il Castello,
come in Francia han distrutto la Bastiglia;
si grida «morte ai preti!» a perdifiato...
Rivoluzione a scoppio ritardato.

Il nove luglio del '97,
Milano inaugurò la Cisalpina,
e la nuova Repubblica si dette
ad imitar la Francia giacobina,
benché affidata a cinque Direttori,
grassi borghesi o nobili signori.

Nella villa Crivelli di Mombello
(adesso manicomio provinciale),
Napoleone anticipa un modello
di corte tra borghese ed imperiale,
e riceve l'omaggio cittadino,
sognando già lo scettro e l'ermellino.

Ma assente lui (partito per l'Egitto),
due anni dopo, a Brivio ed a Cassano
l'esercito francese era sconfitto
e gli Austro-Russi entravano a Milano:
il Direttorio, ohimè, levava i tacchi,
e Milano applaudiva, ora, i cosacchi!

Ma s'illudeva, e li applaudi per poco:
i Francesi, al confronto, eran dei santi...
Legge marziale, taglie, coprifuoco,
massacri, le sconcezze piú aberranti.
Il flagello durò tredici mesi:
«Sant'Ambrogio, rimandaci i Francesi!...»

E nel 1800, in primavera,
Napoleone varca il San Bernardo
fra nevi eterne, abbatte ogni barriera,
arriva come un lampo in suol lombardo,
ed il giorno quattordici di giugno
vince a Marengo ed ha l'Europa in pugno.

Ristabilisce ancor la Cisalpina,
dove l'antico motto egli rilancia,
ma aggiunge: «religione e disciplina»;
adesso è il Primo Console di Francia,
non ama i giacobini ed i plebei,
non è piú l'uomo del '96.

Ed ecco la Repubblica Italiana
proclamata al Congresso di Lione,
non Cisalpina piú, né Transpadana,
e la presiederà Napoleone,
sangue lui pure della nostra gente:
Melzi d'Eríl n'è il vicepresidente.

Chi può dir l'entusiasmo ed il delirio
degl'Italiani in seno all'assemblea?
Dopo secoli d'onta e di martirio,
nasce la patria, la sublime idea
carezzata da Dante e da Petrarca,
pur se un mezzo straniero è il suo monarca

Entra a Milano, nuova capitale
della nuova Repubblica, Murat
sul suo cavallo; un po' meno marziale,
Melzi lo segue. Tutta la città,
traboccante di gioia e d'emozione,
sorride alla dolcissima illusione:

per secoli divisi e sottomessi,
gl'Italiani ritrovano se stessi.

LVIII
Milano romantica
I cospiratori


Restaron, dell'età del Bonaparte,
la facciata del Duomo, il Foro, l'Arco
della Pace, pregiate opere d'arte,
la strada del Sempion, l'Arena, il Parco;
restò la poesia di Carlo Porta,
ed un'idea restò, ciò che piú importa:

l'idea di patria, ancora un po' indistinta
forse, ma viva. E l'Austria inutilmente
vuol ricreare nella città vinta
l'antico clima con l'antica gente:
la soddisfatta, docile, distesa,
brava Milano di Maria Teresa.

Milano è un'altra, è un centro di pensiero,
scossa da un nuovo fremito di vita,
è stanca ormai del giogo forestiero,
stanca d'esser dagli altri custodita:
c'è un desiderio di menar le mani,
comune a tutti, e ricchi e popolani.

C'è una gioventú nuova, insoddisfatta,
bruciata dalla neve della steppa,
disposta a tutto, basta che si batta;
ed a Milano imperversò la Teppa:
liti, legnate, inutili complotti,
pur di dare fastidio ai poliziotti.

E se la nobiltà conservatrice
va in Duomo, pel ritorno del padrone,
a cantare il Te Deum, ed è felice
d'aver la sua paterna protezione,
e se le vie ripullulan di frati,
lavorano, nell'ombra, i congiurati.

Fra i nobili, c'è pure un Federico
Confalonieri, e i Porro, e i Verri, e i Bossi,
che nel tedesco vedono il nemico
e, da sogni di gloria ancor sommossi,
van congiurando contro il dispotismo
con il fervore del romanticismo.

Sono arrestati i primi carbonari:
Pallavicino, Pellico... Una schiera
di personaggi illustri e familiari
conoscono la forca, la galera,
l'esilio (per maggiori informazioni,
v'invito a consultar «Le mie prigioni»).

Ed il calvario del Confalonieri?
Trascorse quindici anni in prigionia,
fra gli atroci aguzzini e gli sparvieri
del carcere moravo. E tuttavia,
forse, ad incuter piú paura a Vienna
son gli eroi del pensiero e della penna:

Manzoni, Grossi, Torti, Romagnosi,
Berchet, Cattaneo... Esaltan gl'Italiani
«Marco Visconti» ed «I Promessi Sposi»,
e i sogni dell'Italia di domani,
mentre nelle fredde aule di Pavia
è la scienza ufficiale in agonia.

La «Rivista Europea», sorta da poco
con Carlo Tenca e Cesare Cantú,
dà esca apertamente al sacro fuoco,
è la diana della gioventú.
E già, tra un mondo raffinato e dotto,
la contessa Maffei tiene salotto...

Ferdinando d'Asburgo, imperatore,
viene a Milano a farsi incoronare;
non vi trova però molto calore,
sia pur tra le parate e le fanfare:
trentatré anni or sono, era diverso,
ed il ricordo ancor non s'è disperso.

Signori, è perché adesso sul Sagrato
manca qualcosa: il tricolore è assente!...
Francesco primo s'era già vantato
di far cader Milano lentamente:
constateranno gli ultimi suoi eredi
che Milano è pur viva e sempre in piedi;

constateranno (e li abbia il Cielo in gloria)
che non la forca può fermar la Storia.

LX
Il ritorno degli Austriaci
e il decennio della Reazione
Francesco Giuseppe


Il giorno dopo, arriva Carlo Alberto
in assetto di guerra. Ha fatto tardi,
sempre indeciso, eternamente incerto,
giungendo in mezzo a noi quando i Lombardi
si son già liberati e al piemontese
sembrano quasi dir: «Va' al tuo paese!...»

Fra i membri del Governo Provvisorio,
intanto, e fra gli stessi cittadini,
è cominciato il gran contraddittorio,
perché chi vuole il re, chi vuol Mazzini,
tutti animati dall'idea sballata
che l'Austria ormai sia bella e liquidata.

Dopo adeguate chiacchiere, il Governo
statuisce una Guardia Nazionale
per aiutar con animo fraterno
l'esercito del re: quel re spettrale,
grigio, che ha fede solo - poco scaltro -
nei propri generali e in nessun altro.

Ma a Milano lo spirito è ormai spento
delle cinque fatidiche giornate.
La «primavera del Risorgimento»
avrà una triste e ingloriosa estate:
ligi alle loro idee senza costrutto,
quei generali han rovinato tutto.

Temono questa folla battagliera,
vogliono far da sé: popolo, a casa!...
E dopo il breve guizzo di Peschiera,
ecco la Lombardia di nuovo invasa,
ecco Custoza, il venticinque luglio,
la ritirata, il pànico, il subbuglio...

Milano vuol difendere i bastioni,
ma i generali chiedono la resa.
Sotto palazzo Greppi, in via Manzoni,
dove s'è chiuso il re, la folla accesa,
pronta a morire sulle barricate,
urla, tirando alcune schioppettate.

È il cinque agosto: il tragico schiamazzo
verso sera si placa. Clandestino,
scesa la notte, il re lascia il palazzo
e con suoi fidi parte per Torino.
Radetzky, l'indomani, a mezzogiorno
preciso, puntualmente è di ritorno.

I Milanesi, in centoventi mila,
fuggon dalla città lungo il Sempione...
E cominciò l'orribile trafila
di dieci anni di forca e di bastone
nella vinta città martorizzata,
dove infieriva la canea croata.

Corda e bastone. L'Austria era decisa
a far dimenticare il Quarantotto
e a rinverdire una corona intrisa
di lacrime e di sangue, a un aquilotto
dai promettenti artigli destinando
il trono del mellifluo Ferdinando.

Il nuovo e giovanissimo tiranno
è Francesco Giuseppe, il nipotino:
ha fede nella forca, e lo sapranno
le fosse del Castello... Ma il destino,
nell'ombra, già matura: è un Tessitore,
che tesse la sua tela tricolore.

«Tiremm innanz», in quella dura attesa
dirà Milano con Antonio Sciesa.

LXII
Le tempeste del dopo
(dal 1860 al 1900)


Ed ecco la Milano del '60,
risorta a nuova vita, intraprendente,
piena di slancio; una città che vanta
già fin da allora un traffico imponente
che frastuono, con le loro rozze,
gli omnibus a cavallo e le carrozze!

Duecentotrentamila cittadini,
eternamente presi dalla fretta:
re Vittorio, a dirigerne i destini,
ha nominato sindaco il Beretta,
la prima delle cui disposizioni
è un corpo di cinquanta «cappelloni».

Contrariamente ai soliti gendarmi
alla sbirraglia armata di moschetto,
solo cinquanta vigili senz'armi,
armati al piú d'un semplice libretto:
una mazza simbolica e un'enorme
tuba caratterizzan l'uniforme.

Esperimento insolito: risulta
che per tenere i Milanesi a bada
vale piú la minaccia d'una multa
che un cannone piazzato sulla strada;
ed anche per virtú di quel libretto
regna a Milano un ordine perfetto.

Da allora la città, sempre in aumento,
piú non si stringe intorno al vecchio Duomo
(quei cinquanta son or mille e trecento,
senza piú mazza dall'argenteo pomo,
senza la tuba ed i calzoni blu;
le carrozze non si vedon piú).

La Milano artigiana si trasforma:
nasce la grande industria, ovvero, l'arte
di far denaro, e non c'è piú chi dorma,
chi non s'affanni; giunge d'ogni parte
gente convinta di trovar l'America
(e non era un'idea tanto chimerica).

Ma l'ordine non dura... L'Italietta
cerca una sua politica, fra molte
difficoltà: la Storia non aspetta,
ed i Cavour non nascono due volte.
E poi, fra discorsoni e battimani,
l'Italia è fatta, sí, ma gl'Italiani?...

Diceva bene Massimo D'Azeglio:
«far gl'Italiani»... In tutto lo Stivale,
c'è chi borbotta che si stava meglio
quando si stava peggio: è naturale;
l'Italia fu per secoli divisa
la vera unità non s'improvvisa.

Intanto, fra le masse milanesi
si fa sempre piú strada un'idea nuova,
che va mettendo i nervi dei borghesi
i nervi del governo a dura prova:
da un cielo nuvoloso oltre ogni dire
fa capolino il sol dell'avvenire.

Ferve la lotta fra le opposte schiere,
nutrita da una stampa rigogliosa:
con Torelli-Viollier nasce «Il Corriere»,
con Cavallotti «Il Gazzettino rosa»;
sull'«Avanti!» si batton senza sosta
Turati, Bissolati ed Andrea Costa.

Un finale di secolo drammatico:
ci umilia ad Adua il barbaro abissino;
il capo del partito democratico,
Felice Cavallotti, il paladino
dell'Ideale, è ucciso in un duello;
il general Pelloux apre macello...

È il '98: nuove barricate;
tratti in arresto i capi socialisti;
le strade di Milano insanguinate;
stato d'assedio ed altre cose tristi:
fra il vecchio e il nuovo un tragico dissidio...
Due anni dopo, a Monza, il regicidio.

Ma passa la tempesta, e a gonfie vele
naviga un dolce mondo al latte e miele...

LXIII
La dittatura e la guerra
Milano semidistrutta - La ricostruzione


Nel novecentosei (Pace e Progresso:
s'inaugura il traforo del Sempione),
è il «gran Milan» che supera se stesso
con una nuova grande Esposizione;
è una città che prospera tranquilla
si gode la Galli e il Ferravilla.

E cosí s'annunziava, il Novecento,
un secolo pacifico e fecondo,
portato all'agiatezza e al godimento;
e, viceversa, vide il finimondo:
una bomba scoppiata a Seraievo
ci ricacciava in pieno Medioevo.

Secolo iniquo, in fatto di tiranni
vanta un primato senza precedenti:
non narrerò la storia di quegli anni,
gli orrori, le rapine, i tradimenti,
quel sogno di pace e di benessere
affogato nel sangue e nelle tessere...

La Milano borghese è impressionata,
poi che il Comune il popolo conquista
la città si trova amministrata
da una Giunta di marca socialista,
quando l'Italia viene, a capofitto,
travolta anch'essa nel mondial conflitto

Gran galantuomo, il sindaco Caldara,
pur contrario alla guerra per principio
(ed egli a viso aperto lo dichiara),
mette se stesso, mette il Municipio
tutte le risorse di Milano
al servizio del popolo italiano.

Non giovò la vittoria del '18:
l'Italia dalla prova usci sfiancata.
Un dopoguerra torbido e corrotto
spianò la strada a una canea sfrenata:
fu la sagra dei profittatori
sotto il manto imperial dai tre colori.

Regna a Milano, divenuta culla
del « fascio primigenio », la violenza;
la borghesia col fuoco si trastulla,
plaudendo all'«uomo della Provvidenza»,
inizia quel ventennio di baldoria,
su cui sorvola questa nostra storia.

Nel 1939,
i dittatori provocan la guerra,
nel '43 scendon le nuove
orde tedesche sulla nostra terra,
che, con nostrani transfughi in combutta,
occupan la città quasi distrutta;

quasi distrutta in un fatale agosto
da un diluvio di bombe americane:
ma i cittadini, tutti al loro posto,
pur annientati dal disastro immane,
sanno far fronte, ed è con loro il clero,
al tiranno di casa e allo straniero.

In venti mesi di carneficina,
sotto il giogo piú infame e piú violento,
rivive una Milano clandestina,
degna dei fasti del Risorgimento.
E, finalmente, il venticinque aprile,
si ritornava al vivere civile.

Nella stessa città dov'ebbe inizio
- nel '19 - quella dittatura
che trascinò l'Italia al precipizio,
la spaventosa e ignobile avventura,
l'atroce e sanguinoso baccanale
si concluse sul tragico Piazzale.

Milano, liberatasi dai ceppi,
presto rimarginò le sue ferite;
ebbe sindaco, prima, Antonio Greppi,
un socialista generoso e mite,
indi il Ferrari, e, senza la Ghestapo,
si rimboccò le maniche e... daccapo!

Cosí risorse la città operaia,
in un'ansia di vita e di riscossa,
come risorse dopo il truce Uraia,
come risorse dopo il Barbarossa:
tornata piú di prima a rifiorire,
marcia serena verso l'avvenire.

La guerra è un episodio sciagurato,
sepolto negli archivi del passato

LXIV
Il rinnovamento di Milano
La Galleria Vittorio Emanuele


Milano a nuovo tutta si rimette,
dal vecchio centro alla periferia:
è re Vittorio, nel '67,
che viene a inaugurar la Galleria,
la bella Galleria, di cui Milano
fa il suo ritrovo pubblico e mondano;

quasi un salotto piccolo-borghese,
vestito d'un intonaco di storia:
dei quattro passi d'ogni milanese
diventerà la mèta obbligatoria,
il monumento - stile floreale -
piú insigne del passeggio nazionale.

È la centrale dell'appuntamento,
è la mecca dell'ore piccolissime,
l'eco immediata d'ogni avvenimento,
la succursale delle recentissime,
dove passan la farsa e la tragedia,
sedendo spesso ad una stessa sedia.

Nell'81, poi, l'Esposizione
ottiene un formidabile successo:
è un superbo spettacolo, che pone
Milano all'avanguardia del progresso
e ne fa, tra un magnifico decoro,
il tempio dell'industria e del lavoro

La Milano romantica è finita:
quando, nel maggio del '73,
passava il buon Manzoni a miglior vita,
portava malinconico con sé,
seguito dall'unanime compianto,
tutto un passato verso il camposanto.

Ma l'arte ha una superba fioritura,
in un fervore di rinnovamento
(ricorderemo la «Scapigliatura»),
e tutti gli scrittori di talento,
di cui l'Italia serberà memoria,
hanno a Milano il crisma della gloria.

Certo, non nasce piú nessun autore
che a don Lisander possa star vicino,
come mancherà al Porta un successore,
al mago del dialetto meneghino,
colui che seppe, come per miracolo,
dar dignità di lingua anche al vernacolo.

Milano di grand'uomini ne ha tanti,
e vedi statue a piedi e statue equestri
ai suoi dotti, ai suoi prodi ed ai suoi santi
(non tutte di grandissimi maestri);
però, del Porta, nella sua Milano,
il monumento cercheresti invano.

Aveva un monumento alquanto frusto,
che fu distrutto dai bombardamenti,
lui che trovava di cattivo gusto
l'odio, la guerra e i metodi violenti,
pur se queste eran rose, ai tempi suoi,
in paragone a quel che avvenne poi...

Era un uomo modesto, il nostro Porta,
un semplice impiegato comunale;
a un talento, però, di quella sorta
un po' di marmo non starebbe male.
Non chiedo un monumento in Piazza Duomo,
che ricordi il poeta e il galantuomo;

ma dico al nostro primo cittadino:
«É vero ch'Ella è nato a Pordenone
e che, se pur capisce il meneghino,
ha poco tempo a sua disposizione
per legger la Ninetta del Verzee,
o Fraa Diodatt, o Giovanin Bongee,

ma non ritiene che sarebbe giusto
raffazzonargli almeno un mezzo busto?»

LXV
La città dei grattacieli
La fiera di Milano


Non so se fra la gioia od il cordoglio
dei vecchi meneghini piú fedeli,
Milano sempre piú, piena d'orgoglio,
diventa la città dei grattacieli.
Ci guadagna l'estetica, o ci perde?
Non era meglio, forse, un po' di verde?...

I pareri, si sa, sono discordi;
troviamo, infatti, il solito ottimista,
che si sente commosso nei precordi
e che proclama, alla superba vista
- di quei giganti sorti dall'asfalto:
«E proprio una città che tende all'alto!»

C'è invece il pessimista recidivo,
dal «mugugno» tenace e intransigente,
che in fondo vede un unico motivo
pel quale il grattacielo è conveniente,
dato che sulla terra, a quanto pare,
ormai non c'è piú niente da... grattare.

La Madonnina guarda esterrefatta:
ormai ci ha fatto l'occhio pure lei,
è vero, e tuttavia - per quanto piatta,
senza un colle o un'altura, - amici miei,
forse amava cosí la sua Milano,
ferma al secondo, al terzo, al quarto piano

coi suoi vecchi cortili e i suoi balconi
dall'aspetto tranquillo e popolare,
e le sue grige case sui bastioni,
piene di poesia crepuscolare:
la Madonnina, ohibò, di questo passo,
la guarderemo un dí... dall'alto in basso!

Ma, dopo tutto, i nostri Milanesi
non hanno torto se si dan qualche aria;
a dimostrarne le virtú palesi,
basta la loro Fiera campionaria:
è il progresso meccanico che stila
l'antologia dei sogni del Duemila.

Nel 1919,
era nata l'idea; ricordo vivo,
che i vecchi Milanesi ancor commuove:
Porta Venezia, l'anno successivo,
vide la Fiera (in forma di pagoda:
lo stile che in quel tempo era di moda).

In redingote, come allor s'usava,
il Sindaco, con dietro gli assessori,
andò sul posto, fece la sua brava
concione innanzi a mille espositori
ed il nastro tagliò, gridando: «Evviva!
Bisogna incoraggiar l'iniziativa».

Venne, dopo, la guerra, e una gragnuola
di bombe la ridusse a un polverio.
Gasparotto giurò, col pianto in gola:
«Milanesi, fratelli, popol mio,
anche se quest'idea può sembrar matta,
rifaremo la Fiera». E fu rifatta.

Oggi è l'emblema della cornucopia,
questa, è la sagra dell'intelligenza,
è il «venghino signori» in bella copia
e innalzato all'ennesima potenza,
è un concerto sinfonico ideale,
orchestrato da un Wagner industriale;

è la centrale degli affari d'oro,
il non plus ultra dei prodotti in serie;
è la «pagella tipo» del lavoro,
con dieci e lode in tutte le materie.
Mamma Italia la guarda e se n'estasia:
questa è la Fiera per antonomasia...

Ed è un atto di fede, soprattutto:
mentre, armato di ferro e di cobalto,
il mondo rischia d'essere distrutto
da un piú tremendo e tenebroso assalto,
fervido e insonne il cuore di Milano
spera e confida nel buon senso umano.

E qui vi lascio, ripetendo anch'io:
Milanesi, fratelli, popol mio!
                Fine

II
La conquista romana
La discesa di Annibale

(218 a.C.)

Continuamente, a Roma i nostri Galli
con la guerriglia davano molestia,
o rifornivan d' armi e di cavalli
i suoi nemici; e Roma andava in bestia,
ed aspettava solo l'occasione
per ridurre il pollaio in soggezione.

Quando fní la prima guerra punica,
e tutta la penisola italiana
fu in suo potere, disse Roma: «L'unica
è impossessarsi della Val Padana
e, dando loro una mazzata in testa,
far sí che i Galli abbassino la cresta».

Gl'Insubri, tuttavia, resisteranno
per lungo tempo: il contrastato acquisto
dovrà soltanto compiersi nell'anno
222 prima di Cristo,
quando Milano, stanca del macello,
aprì le porte al console Marcello.

Le porte?... Eh no! Da calcoli schematici,
quella borgata senza simmetria
andava allor da via Filodrammatici
fino al Carrobbio e a piazza Beccaria.
Roma v'entrò con una sua coorte,
senza bisogno di sfondar le porte.

Ma Cartagine è lí che guarda e aspetta:
sembrava giunta all'ultimo respiro,
ed è risorta; e ha sete di vendetta:
la guida alla riscossa «Annibal diro»,
che dalla Spagna conquistata muove,
agitando la folgore di Giove.

Come tanti altri popoli, da Roma
ormai completamente sopraffatti,
i Milanesi, a scuotere la soma,
sperano solo in quel castigamatti.
Oppressi dai Romani prepotenti:
«Ha da veni!» ripetono fra i denti.

Ed Annibale venne: in fretta e furia,
scende da l'Alpi come una valanga,
assoggetta il Piemonte e la Liguria,
varca il Ticino, e tutto par che infranga:
sul suo cammino: in breve è a Mediolano
che gli fa festa e gli darà una mano.

Roma diverrà poi la «Città Eterna»,
ma passò allora dei gran brutti istanti.
Annibal fra il nebbione intanto sverna,
accampandosi lí con gli elefanti;
cosa nuova in quel luogo ed in quel clima:
quasi del Circo Togni un'anteprima.

Finí come finì: per sedici anni
Roma terrorizzò, l'eroe tremendo,
ma Roma vinse, e dopo lunghi affanni,
di nuovo, minacciando o combattendo,
assoggettò gl'Italici, compresi
- naturalmente - i Galli milanesi.

Certo, Milano ci rimase male,
ma dové riconoscere: «Che gente
(quella di Roma antica, è naturale),
disciplinata, seria, intraprendente!
Se vinciamo il rancor, piú o meno sordo,
con quella gente si può andar d'accordo».

Ed un secolo dopo aiutan Mario,
i Teutoni a schiacciar presso Vercelli.
Hanno mutato usanze e dizionario,
parlano ormai latino anche i pivelli,
«fundacarius» chiamando il fundaghè
e dicendo «danarium» per danè.

(Ora il latino non lo sanno piú,
neppure usciti dal Liceo «Berchet».)

IV
Milano cristiana
Lotte fra cattolici e ariani
Ambrogio vescovo (374)

Ora ha l'aspetto d'una roccaforte,
Milano, cinta di robuste mura:
conta trecento torri e sette porte,
che la rendon piú salda e piú sicura.
E la bellezza, dai suoi marmi offerta,
fa rimaner la gente a bocca aperta.

In archi e terme e portici gareggia
con lo splendore della Roma antica;
il Palazzo dei Cesari troneggia
superbo fra il Carrobbio e Porta Cica.
E vi sono un ippòdromo e un'Arena,
dinanzi a cui San Siro oggi fa pena.

Furon anni felici e riposanti,
per quanto, prima di lasciar l'impero,
Diocleziano di martiri e di santi
seminasse la via del cimitero,
nella speranza di stroncar quel culto,
che sembrava di Roma il male occulto.

Torture, iniquità, stragi nefande...
Ma nel 313, a Milano,
con un editto Costantino il Grande
dà il proprio crisma al culto cristiano.
Il mondo, tuttavia, credente o eretico,
in tutti i tempi è il solito bisbetico.

Ecco che un Ario, prete alessandrino,
ha forti dubbi sulla Trinità:
«Soltanto il Padre è un essere divino,
ma non il Figlio», predicando va;
ed a Milano e dappertutto manda
i suoi seguaci a far la propaganda.

I cristiani si scindono in due schiere:
nei templi, nelle case, per le strade
si pestano fra loro ch'è un piacere,
pongon mano ai coltelli ed alle spade;
mancan soltanto le mitragliatrici...
E i pagani sogghignano felici.

È condannata la dottrina d'Ario,
ma proseguon le lotte a piè sospinto:
morto il vescovo Aussenzio, autoritario,
ariano indefettibile e convinto,
non sa chi debba eleggere, Milano,
se un vescovo cattolico o un ariano.

E tumulti, e disordini... È prefetto
dell'Alta Italia Ambrogio, un magistrato
che in breve tempo il massimo rispetto,
grazie alla sua bontà, s'è guadagnato:
aborre le ingiustizie e la violenza,
ed oltre tutto è un pozzo di sapienza.

Milanese? Ma no: nato a Treviri,
nella Germania, è qui governatore.
Quel giorno, per sentir qual aria spiri,
s'affaccia alla Basilica Maggiore,
e il popolo, che l'ama e che lo stima,
rimane un po' sorpreso a tutta prima.

É un uomo di gran cuore e di gran tatto,
del quale tutti tessono l'elogio;
e all'improvviso il popolo, compatto,
vuol dargli il vescovato: «Am-bro-gio! Am-bro-gio!».
Lui si schermisce, alquanto imbarazzato:
«Ma se non son neppure battezzato!».

«Meglio ancora!». Ed Ambrogio: «Ma che idea!
Se per la prima volta entro in un duomo!».
«Non ce ne importa», insiste l'assemblea:
«vogliamo finalmente un galantuomo!».
«Sceglietelo fra voi!». «Dove lo peschi? ...».
Ma Ambrogio duro, come i suoi Tedeschi.

E fa del tutto per mostrarsi indegno,
si finge libertino e sanguinario,
invita donne equivoche a convegno,
mentre accade, di solito, il contrario:
c'è chi, per ottenere il cadreghino,
si finge, invece, un santo e un cherubino.

Ma i Milanesi - è un fatto - hanno un gran fiuto:
«Am-bro-gio! Am-bro-gio! ... » e infine egli ha ceduto.

VI
I pagani tentano la riscossa
La risposta d'Ambrogio


Ora c'è il guaio dell'imperatrice
Giustina: il figlio è ancora adolescente,
ed è lei che comanda e che infelice
rende Milano e tutto l'Occidente.
Saranno brave in casa, ma al governo,
le donne, amici miei, sono un inferno!

I Goti sono sempre una minaccia,
gli usurpatori premono alle porte,
e la Giustina pensa a dar la caccia
al nostro Ambrogio: Ambrogio è troppo forte,
il popolo lo adora, e a lei non garba
quel santo con la mitra e con la barba.

Fattasi ariana, vuol sostituire
il buon pastore con un nuovo Aussenzio;
ma Ambrogio non è tipo da subire
un sopruso del genere in silenzio,
e asserragliato nella cattedrale
sfida lo stesso esercito imperiale.

Esorta i suoi fedeli a restar calmi
e, senza far ricorso alla violenza,
a opporre solo le preghiere e i salmi
contro le spade della prepotenza.
E cantando il Te Deum e il Sursum corda,
fece tagliare ai militi la corda...

Ora i pagani affermano che sono
gli antichi dei, traditi e spossessati
dei loro templi, a minacciare il trono,
Roma, l'impero e gl'itali penati:
«È la vendetta dell'irato Giove
a sottoporci a cosí dure prove!».

È Simmaco, prefetto e senatore,
che si esprime cosí, da Roma eretica
spedendo al nuovo augusto imperatore
una missiva fervida e patetica,
in cui, nel nome dell'antica gloria,
reclama il culto della dea Vittoria.

«È l'Urbe sacra», quasi in un singulto
il nostalgico esclama, «o sommo duce,
è Roma che ti parla: è questo il culto
che impose la sua legge e la sua luce,
che scacciò i Galli e Annibale respinse,
che a sé l'Italia e tutto il mondo avvinse».

«Cose da pazzi!» a lui risponde Ambrogio.
«Dunque, tenendo Cristo in vilipendio,
voi degli antichi iddii fate l'elogio,
di quelli che fra un'orgia ed un incendio,
o fra uno stupro ed un'esecuzione,
adoraron Caligola e Nerone».

«Non si vincon le guerre», egli dichiara,
«sacrificando pecore agli dei,
o sgozzando bovini innanzi all'ara
sacra alla dea Vittoria o a chi per lei.
Dite piuttosto, e in ciò non vi contrario,
che non si trovan piú Camillo e Mario;

che i vostri antichi consoli son morti
da lunga data, e i loro discendenti
hanno voluto rialzar le sorti
di Roma massacrando gl'innocenti;
che il padrone di casa, quello vero,
batte alle porte del consunto impero:

ed il padrone è il popolo, che atroce
la fame morde e sogna un focolare.
Esso ha trovato un simbolo, una Croce,
che lo esorta a sperare, a perdonare
e ad aborrir la spada ed il coltello:
in ginocchio, signori! E giú il cappello!»

(Ed il popolo ha ancor quella speranza,
a mille e seicent'anni di distanza.)

VIII
La strage di Tessalonica (390)
L'imperatore umiliato


Si stabili fra Ambrogio e il gran Teodosio
una feconda e nobile amicizia.
Celebrarono insieme, in un simposio,
un'aurora di pace e di giustizia:
cin cin!... Milano è in festa e con fervore
batte le mani al sommo imperatore.

Teodosio, tuttavia, benché credente,
non solo, ma cattolico esemplare,
lungi dall'esser mite, è un prepotente
e sta lì, con tanti altri, a dimostrare
che non basta il battesimo soltanto
a far d'un uomo un angelo od un santo.

Soffriva anch'egli di ferocia cronica,
né rifuggi dal sangue e dal delitto.
Era a Milano, quando a Tessalonica
il popolino, a causa d'un editto,
insorse e al grido di «governo ladro!»
un'intera città mise a soqquadro.

Fu una grave rivolta: il disgraziato
governatore ci lasciò la pelle.
Arse d'ira Teodosio ed indignato
volle punire la città ribelle.
Ambrogio lo esortò: «Càlmati e aspetta!
Pessima consigliera è la vendetta».

Ma il sire, per sottrarsi all'influenza
del buon pastore, andò fuori Milano
ed una inesorabile sentenza,
senza esitar, vergò di propria mano.
«Ambrogio mi dia pure del tiranno,
quei levantini me la pagheranno!...»

Quindicimila inermi cittadini
vennero uccisi a scopo rappresaglia,
con selvaggio furor: donne, bambini,
vecchi, sgozzati dalla soldataglia.
Il mondo inorridito, esterrefatto,
apprese la notizia del misfatto.

L'imperatore, dopo qualche giorno,
rïentra col suo seguito a Milano;
si direbbe, però, che spiri intorno
aria di fronda: il popolo cristiano
lo condanna in silenzio, egli lo avverte:
le strade, al suo passaggio, eran deserte.

Con tutto ciò, Teodosio, un bel mattino,
si reca alla Basilica Maggiore.
C'è, sulla porta, Ambrogio: «Un assassino
non entra nella casa del Signore,
o aggiunge al suo delitto il sacrilegio»,
cosí gli dice in atto di dispregio.

Torna a palazzo il principe restio
e da Ambrogio sollecita il perdono.
«Non a me devi chiederlo, ma a Dio:
scender tu devi dall'aurato trono
e al cospetto del popolo, piangendo,
dirti pentito del misfatto orrendo».

Cosí, quel capo avvezzo alla corona
si piegò a terra, ed il purpureo manto,
che avviluppava la regal persona,
s'insudiciò di polvere e di pianto.
Solo allora Teodosio entrò nel tempio:
fu veramente un memorando esempio.

Non vi son santi che d'un tal miracolo
siano capaci piú, divino Ambrogio.
I nuovi «grandi», senza alcun ostacolo,
stan preparando al mondo il necrologio
(e se il grande ai tuoi tempi era uno solo,
son oggi in quattro a sostener quel ruolo):

oh Sant'Ambrogio, vedi se ancor puoi
farti un piccolo salto in mezzo a noi!...

X
La discesa degli Unni (468)
Attila entra a Milano


L'Impero è da Teodosio, fatalmente,
diviso fra i due figli: al figlio Onorio,
ch'è il piú scemo dei due, dell'Occidente
spetta il bacato scettro imperatorio;
e lui stesso ne affretta la rovina,
munito d'un cervello di gallina.

Nel 402, quando Alarico
supera l'Alpi e scende su Milano,
a ricacciare il barbaro nemico
è Stilicone: il futile sovrano,
Onorio, che il pericolo dissenna,
fa le valige e parte per Ravenna.

La sorellina sua, Galla Placidia,
istiga Onorio sconsigliato e imbelle,
che, spinto dal sospetto e dall'invidia,
a Stilicone farà poi la pelle:
cosí scompare l'ultimo... pompiere,

mentre la casa è ormai tutto un braciere.
Alla riscossa il barbaro s'accinge,
non contrastato piú: l'Impero è in coma.
E re Alarico, al grido «Dio mi spinge»,
nel 410, occupa Roma
e sottopone a un sacco furibondo
quella città che ha saccheggiato il mondo.

Mentre l'atroce barbaro flagella
l'Urbe, che fu dei Cesari dimora,
Milano è salva: la sua buona stella
l'ha preservata. E la preserva ancora
quando - e Romani e barbari disfatti -
scende in Italia il gran castigamatti.

Attila, re degli Unni, è il nuovo lupo
che Dio scatena sull'umano gregge.
Gl'imperatori, in un silenzio cupo,
tremano imbelli nelle loro regge,
e l'indifeso popolo, compunto,
si rifugia nei templi: Attila è giunto!

Ha un brutto muso e, come i suoi guerrieri,
se lo deturpa per sembrar piú brutto;
i paesi trasforma in cimiteri,
tutto distrugge e, dopo aver distrutto,
si vanta, innanzi all'opera superba,
ch'ove lui passa piú non cresce l'erba.

Furenti orde di bruti al suo comando,
orrendi mostri dalle steppe scesi,
sono arrivati qui, tutto spazzando
col ferro e con il fuoco. I Milanesi
girano in processione per le vie,
recitando preghiere e litanie.

Eusebio, il santo vescovo, li sprona,
ché in Dio ripone le speranze tutte.
Giungon torme di profughi: Verona,
Vicenza, Brescia, Bergamo distrutte,
come un apocalittico uragano,
il «flagello di Dio» piomba a Milano.

I Milanesi, intanto, son fuggiti:
come altrove, anche qui libero ingresso...
Ma che bella città! Gli Unni stupiti
guardan templi e palazzi; Attila stesso
(e ben sappiamo ormai chi sia costui):
«E proprio un gran Milan!» dice anche lui.

Egli s'insedia nell'ambita reggia,
di cui nulla di simile ha mai visto;
da un capo all'altro la città saccheggia,
brucia le chiese e i simboli di Cristo,
spoglia i palazzi dei fastosi arredi...
Milano, tuttavia, rimane in piedi.

Colmo d'oro, di gloria e di corone,
Attila poi ritorna in Ungheria,
grazie al sommo pontefice Leone,
da Roma accorso con la croce pia;
e, dopo tutto, il barbaro feroce
si piegò solo innanzi a quella croce.

I Milanesi gridano al miracolo,
ringrazian Dio con un Te Deum solenne
e accendon ceri in ogni tabernacolo,
poi che Milano trovan quasi indenne:
preghiere e litanie l'hanno salvata...
Ma la cosa è soltanto rimandata.

(Preghiere e litanie quanto volete,
ma il miracolo, ohimè, non si ripete!)

XII
La dominazione gotica
Milano rasa al suolo
(539)


Era un brutto dominio, peggiorato
dopo che i Goti, con sistema antico,
sugli scudi innalzarono un soldato,
analfabeta come Teodorico
(firmava con il segno della croce),
ma di lui piú cafone e piú feroce:

re Vitige. Il suo giogo era opprimente,
rese la vita simile a un calvario.
Giustiniano, imperator d'Oriente,
manda allora in Italia Belisario,
il quale, colti i Goti alla sprovvista,
marcia su Roma e in breve la conquista.

Milano, illusa, ordisce una congiura:
Dazio da Agliate, il vescovo, va a Roma,
incontra il generale e gli assicura:
«Se aiuti il Nord a scuotere la soma,
anche con poche truppe, i Milanesi
sono già pronti a sollevarsi». «Intesi!»

Belisario mandò mille soldati.
I Milanesi dissero: «Si spreca
il bizantino!», alquanto amareggiati
(non si smentisce l'avarizia greca).
Ma il vescovo, sicuro del successo,
a sollevarsi li spronò lo stesso.

Nipote del terribile Vitige,
che minaccia in furor fulmini e tuoni,
verso Milano Uraia si dirige
coi Goti e gli alleati Borgognoni,
gente, piú o meno, della stessa risma.
E lí succede un vero cataclisma.

Da troppo tempo ignari di battaglie,
saliti sulle mura, i Milanesi,
quasi senz'armi e senza vettovaglie,
all'assedio resistono sei mesi;
e Belisario, intanto, non si muove.
È l'anno 539.

Solo per fame la città s'è arresa.
I Greci si salvarono; anche Dazio,
l'ispiratore della folle impresa,
se la squagliò, scampando a quello strazio,
e poté raccontar l'orrenda storia
(fu fatto santo, e il Cielo l'abbia in gloria).

Chi pagò fu Milano. Il maledetto
Uraia esegui gli ordini a puntino,
poiché Vitige re gli aveva detto:
«Se lasci in vita un solo cittadino,
se una pietra soltanto in piedi resta,
peggio per te: ti taglierò la testa!»

Fu il piú terrificante dei massacri:
la furia si scagliò contro gl'inermi:
sgozzati i preti sugli altari sacri
e sterminati validi ed infermi,
vecchi e fanciulli, poi, casa per casa,
fece della città tabula rasa.

Indi, l'ultimo oltraggio: in ginocchioni,
le belle e fiere donne milanesi
furon date in regalo ai Borgognoni
e tratte schiave in barbari paesi,
dannate nelle valli di Savoia
alla vergogna, al freddo ed alla noia.

Addio, bellezze e glorie di Milano,
sotto un mucchio di cenere sepolte!
E tuttavia risorgerà, pian piano:
l'era accaduto già diverse volte.
E ancora le accadrà lungo il cammino,
ché risorgere sempre è il suo destino

e, nel secolo sesto o nel ventesimo,
il mondo è su per giú sempre il medesimo.

XIV
La dominazione longobarda
(569-774)


Eran guerrieri dai selvaggi istinti:
appendevano ai crini dei cavalli
le mozze teste dei nemici vinti,
a somiglianza degli antichi Galli.
Li conduceva il celebre Alboino:
certo, un gran re, ma che caratterino!...

Costui, feroce d'animo e di viso,
a famose tragedie offri lo spunto,
poiché sposò la figlia d'un re ucciso,
colmò di vino il cranio del defunto
e lo porse alla moglie (era un'oriunda
scandinava anche lei): «Bevi, Rosmunda!

Immaginate i nostri Milanesi,
gente perbene, affabile, educata,
ad aver a che far con quegli arnesi
e a subirne le leggi e la parlata!
Fortuna che, trovandovi poche acque,
a quei signori la città non piacque:

neppure un fiume, un lago!... E re Alboino,
storcendo il muso, non vi si fermò:
le preferí Pavia col suo Ticino
e, non lontano, un altro fiume, il Po,
scegliendola per propria capitale.
Alboino, però, finirà male.

Rosmunda, che all'invito del consorte
bevve in quel teschio come in una tazza,
giurò vendetta, e un giorno nella corte,
per mano d'un armigero, lo ammazza.
Poi sposa l'uccisore e lo avvelena,
ma muore insieme a lui: tutta una scena...

Tutta una storia: storia di delitti,
di vendette, di scandali, di guerre:
morte e catene ai popoli sconfitti,
a cui tolgon, quei barbari, le terre.
Ridotto a un colabrodo il Bel Paese,
diventeran civili a nostre spese.

Finché, sul trono insanguinato, Autari
- il puro, il forte, il bello - arbitro siede:
rispetta i vinti, innanzi ai loro altari
s'inchina e abbraccia poi la loro fede;
fa di tutta l'Italia un regno unito,
che in trentasei ducati è ripartito.

Milano è appunto sede d'un ducato:
prendon dimora i duchi longobardi
in un austero ed ampio fabbricato,
chiamato «Curtis ducis», che piú tardi,
corrompendosi il suono a mano a mano,
sarà «Cordusio», al centro di Milano.

Ma questa è sempre la città simbolica
e moralmente è ancor la capitale:
è là ch'Autari sposa una cattolica,
bella, gentile e un po' sentimentale;
ed è con gioia che Milano brinda
ai nuovi sposi: Autari e Teodolinda.

Poco, però, giovò la conversione
dei Longobardi: Roma è loro ostile,
ed è ostile a Milano, che a ragione
rimane la metropoli civile:
non ha importanza che il Governo stia
a Ravenna, a Verona od a Pavia.

I Longobardi accusano il pontefice:
È un intrigante!»; il papa, di rimando:
«Levi le tende il barbaro carnefice!»;
e mentre il re vuol Roma al suo comando,
Roma vuol tutto nelle proprie mani:
ci van di mezzo i poveri Italiani...

(Roma vuol tutto, eh già! Come vedete,
signori miei, la storia si ripete.)

XVI
Carlo Magno a Milano
(778)


Anche re Carlo, presto imperatore,
non sembra un tipo assai raccomandabile:
a parer mio, più fegato che cuore
(ebbe nove consorti in pianta stabile
e in maniera piuttosto disinvolta
le piantò quasi tutte, una alla volta).

Ma, soprattutto, agì senza criterio
ripudiando l'ottima Ermengarda,
figlia del poi sconfitto Desiderio,
ultimo re di stirpe longobarda
(sulla tragedia scritta dal Manzoni
piansero almeno tre generazioni).

È vero che re Carlo non divise
le terre conquistate fra i suoi prodi,
ma le città d'Italia sottomise
da vincitore e ad angeli custodi
vi stabilì, voraci ed insolenti,
i conti franchi, armati fino ai denti.

I duchi longobardi, a... conti fatti,
furon degli angioletti, in paragone:
re Carlo, nonostante i suoi misfatti,
fu detto Magno, a torto od a ragione,
ma quei suoi conti... magna che ti magna,
in Italia trovaron la cuccagna.

E chi aveva sperato, a cuor leggero,
in un'Italia libera dal giogo,
dovette constatar che lo straniero,
qual ch'egli sia, di qualsivoglia luogo,
giunga a cavallo, o qui drizzi la prua,
... è meglio che rimanga a casa sua.

Carlo, nel far ritorno al suo paese,
sostò a Milano e battezzò la figlia,
ma litigò col clero milanese,
provocando a momenti un parapiglia,
perché disse, grattandosi la barba:
«Questo rito ambrosiano non mi garba».

Che ne capiva lui di rito e rito?
Ma ingraziarsi il papa è il suo disegno,
potergli dir: «Son io che t'ho elargito,
piú che mio padre, un vero e proprio regno;
ed or, soppresso il rito indipendente,
Milano è tua, sia pur spiritualmente».

Non vi, riuscì. Nel tempo di cui parlo,
era a Milano vescovo Tomaso
(che fu il primo arcivescovo): re Carlo
gli piacque poco. E disse al ficcanaso:
«Lei, dunque, è `franco', sarò franco anch'io:
qui cominciamo male, signor mio!

Sappia che Ambrogio, assai piú che un ricordo,
pei Milanesi è un simbolo e una face:
se vuole con costoro andar d'accordo,
dia retta, maestà, li lasci in pace!».
E per protesta il popolo, frattanto,
canta a gran voce gl'inni del suo Santo.

Il barbaro signor capi il latino
e tornò in Francia, dopo che sovrano
d'Italia elesse il giovane Pipino,
suo primo figlio, e fece di Milano
- quella Milano indocile e plebea -
la sede d'una piccola contea.

Pavia rimane ancor la capitale.
Milano, a certi onori indifferente,
non solo, a quanto par, non se l'ha a male,
ma s'affretta a lodar l'Onnipotente:
lasciata al suo lavoro e ai suoi commerci,
si sente meglio. Sire, arrivederci.

(Se ha bisogno, però, di nuovi servi,
se li procuri altrove. E si conservi.)

XVIII
Milano contro l'Impero carolingio
Gli arcivescovi Anselmo e Angilberto


Secolo di barbarie: ma in quegli anni
dell'800, in mezzo alla foschia,
mentre i tiranni seguono ai tiranni,
sui grigi piani della Lombardia
s'avverte, contro il barbaro padrone,
il primo soffio della ribellione.

Morto a Milano il giovane Pipino,
lascia un figlio illegittimo: Bernardo;
e Carlo Magno, il nonno, al nipotino
dà il nuovo Regno... «Come! A quel bastardo?»
E, morto Carlo, Ludovico il Pio,
suo figlio, dice: «No! Quel regno è mio».

È in quel, tempo arcivescovo a Milano,
un uomo intraprendente, a nome Anselmo,
il quale incita il giovane sovrano,
Bernardo, a ribellarsi e a cinger l'elmo:
vi sono intorno a lui molti italiani,
desiderosi di menar le mani.

L'arcivescovo Anselmo ha un piano ardito:
vuole staccar l'Italia dall'Impero
e farne, finalmente, un regno unito,
non soggiogato piú dallo straniero;
e ormai Bernardo è un principe di casa,
pur se dal nonno fu l'Italia invasa.

I Milanesi insorgono: li sprona
quasi un risveglio dell'ardore antico;
e molte altre città, come Cremona,
scendono in campo contro Ludovico.
Ma questi, coi suoi Franchi, assai piú forti,
sceso d'Oltralpe, sgomina gl'insorti.

Era l'anno 817.
Il nuovo vincitor sale sul trono,
e invan Bernardo gli si sottomette,
lo zio non vuol concedergli il perdono:
non contento d'averlo ai suoi ginocchi,
(fortuna ch'era... Pio!) gli cava gli occhi.

Il deposto arcivescovo e Bernardo
furon sepolti insieme in Sant'Ambrogio,
dove c'è ancora, offerta al nostro sguardo,
un'iscrizione che ne fa l'elogio.
E insieme a loro scese nell'avello
un sogno troppo audace e troppo bello.

Malgrado quella tragica avventura,
Milano non rinunzia alle sue mire:
nell'ombra, c'è qualcosa che matura,
l'avverte anche Lotario, il nuovo sire,
quando a Milano, con il muso storto,
chiama il nuovo arcivescovo a rapporto.

Angilberto saluta re Lotario
con un semplice cenno della testa;
il principe, piuttosto autoritario,
a stento sa frenar l'ira funesta:
«Perché non ti prosterni innanzi a me?
Ti credi un nuovo Ambrogio?... Io sono il re!»

Risponde l'arcivescovo Angilberto,
guardandolo negli occhi: «Signor mio,
non sono un nuovo Ambrogio, questo è certo,
ma pure tu non sei Domineddio».
Non è il solo arcivescovo, è Milano
che non fa piú l'inchino ad un sovrano;

e in sé già sente, come un fiore in boccio,
il libero Comune ed il Carroccio.

XX
La discesa di Arnolfo (894)
Guido di Spoleto e Berengario


Tutto andò bene, o quasi, finché visse
l'arcivescovo Ansperto da Biassono
(al quale il papa, ravveduto, scrisse
un messaggio di pace e di perdono),
ma, lui scomparso, dopo alcuni mesi
ricominciano i guai pei Milanesi.

Un vero sindacato di malanni:
nell'883 la peste,
e poi tutta una serie di tiranni,
nonché di guerre inutili e funeste.
Ora a pestarsi e a fare un diavoleto
son Berengario e Guido di Spoleto.

Per il momento Berengario è vinto
e Guido è il nuovo re. Fugace gloria,
anche se a Roma, poi, Stefano quinto
gli cinge la corona imperatoria:
il successore, ossia, papa Formoso
trova quel Guido assai pericoloso.

Trova che un italiano imperatore
pel papa è un troppo scomodo vicino;
per cui decide: «Un mio predecessore
chiamò in aiuto il franco re Pipino;
io, per calmar quel tipo un po' manesco,
farò di meglio: chiamerò il tedesco».

Il tedesco era Arnolfo, che discese
coi suoi soldati e, un popolo fuggiasco
terrorizzando, devastò il paese,
percosse, uccise (il conte bergamasco,
che volle opporsi a quelle bieche torme,
fu appeso sulle mura, in uniforme).

A Milano non trova resistenza;
le porte gli spalancano i Pavesi;
ma, fattasi giurar obbedïenza
da vescovi, da duchi e da marchesi,
tradito dai nuovissimi vassalli,
se ne riparte il re, con gli occhi gialli.

«La sconterete!» dice, e in tutta fretta
ritorna giú (conosce ormai la strada)
e, sfogata la sete di vendetta
passando i suoi nemici a fil di spada,
giunge nell'Urbe e con solenne rito
ha la corona come benservito.

Poi torna in patria e muore. Berengario,
uscito da un ricovero segreto,
s'accorda con Lamberto, un sanguinario
figlio del morto Guido di Spoleto:
nello Stivale, largo ed accogliente,
ci si può stare in due comodamente.

Cosí, se lo dividono, e Milano
spetta proprio a Lamberto: è una sciagura!
Essa non ama il giovane sovrano,
né vuol regnanti fra le proprie mura;
ma l'arrabbiato re, nell'ottocento
novantasei, la prende a tradimento.

Saccheggia la città, case ed uffici,
e, chi piú ruba e trucida, piú loda,
impicca o cava gli occhi ai suoi nemici,
castigo che in quei tempi era di moda;
ma un giorno (e furon botte meritate)
è ucciso, mentre dorme, a bastonate.

Comunque, quell'orribile saccheggio
Milano, offesa, se lo lega a un dito.
Re Berengario, nel timor del peggio,
se ne resta alla larga, un po' avvilito;
parte pel Sud e, debellati i Mori
(disse: «I Lombardi sono assai peggiori»),

è fatto imperator, ma da Milano,
finché avrà vita, resterà lontano.

XXII
La discesa di Ottone I (951)


Nell'anno 948
moriva l'arcivescovo Arderico,
e Berengario, dopo aver corrotto
parte del clero (ché il sistema è antico),
fece sí che la carica toccasse
al francese arcivescovo Manasse.

Un'altra parte proclamò Adelmano,
un vecchio milanese, ed in tal modo
furon due gli arcivescovi a Milano,
e i cittadini si pestavan sodo:
chi riveriva e s'inchinava all'uno,
chi all'altro dei due preti e chi a nessuno.

Intanto, l'invadente Berengario,
nell'uso dei veleni molto esperto,
toglie di mezzo il povero Lotario
e con suo figlio, il giovane Adalberto,
è da Manasse incoronato re:
«Tanto», disse, «il padrone ero già me!».

Resta la bella vedova Adelaide
del morto re Lotario. Ella ricusa
la mano d'Adalberto e nuove faide
prepara dal convento ov'è rinchiusa:
scrive al re di Germania, il biondo Ottone,
invocandone aiuto e protezione.

Questi, accogliendo il lusinghiero invito,
scese in Italia, soggiogò Milano
e, della bella vedova invaghito,
ne ottenne, dopo, la contesa mano
(ottima donna, che un primato vanta:
con due mariti, venne fatta santa).

Fuggiti a briglia sciolta, in preda al pànico,
Berengario secondo ed Adalberto
si prostran poi dinanzi al re germanico,
umili e vili, e dopo avergli offerto
l'Italia in feudo, giurano ad Ottone
eterna obbedienza e soggezione.

Quando, scornati, tornano a Pavia,
gl'Italiani li guardano in cagnesco,
rinfaccian loro: «Bella porcheria!»,
e non han torto: infatti, dal tedesco
fu, da quel giorno, il misero Stivale
considerato un feudo personale.

Un Valperto dei Medici, al servigio
d'Ottone, presentatosi a Milano
al fine di dirimere il litigio
annoso tra Manasse ed Adelmano,
soffia il posto ad entrambi (onde dir s'ode
che fra i due litiganti il terzo gode).

Proclamato arcivescovo, Valperto
litiga presto con i due regnanti,
soprattutto col giovane Adalberto,
che ha maniere un po' brusche ed arroganti
e di Milano, con la prepotenza,
vorrebbe far la propria residenza.

Milano ha un privilegio secolare:
niente re dentro casa; il sole brucia,
troppo vicino, ed essa, a quanto pare,
non ebbe mai nei re troppa fiducia,
disposta ad acclamare ogni sovrano,
purché sia bravo e se ne stia lontano.

Disse Valperto ai suoi concittadini:
«Dovevate vederli, questi eroi,
dinanzi al grande Ottone: due agnellini!
E sfoderan gli artigli innanzi a noi...
Poi che a subirli non son piú disposto,
chiamo il padrone, ché li metta a posto».

Questo chiamare la tedescheria
è diventata, insomma, una mania...

XXIV
Re Arduino e l'Arcivescovo Arnolfo
(1002-1015)
Fine dei re d'Italia


Ottone terzo, in cerca di leggiadre
donne e di... rogne, anch'egli, anima illusa,
in Italia calò come suo padre,
ma questa volta con un'altra scusa:
ridurre alla ragione ed al silenzio
il rivoltoso « console» Crescenzio.

Questi sognava la restaurazione
dell'antica Repubblica Romana.
Invitato dal papa, il terzo Ottone,
ammalato di gloria e di mattana,
vinse Crescenzio e gli mozzò la testa:
una vittoria che gli fu funesta.

Muore in quell'anno stesso: 1002;
e non è, pei Tedeschi, lieve impresa
in patria riportar le spoglie sue,
lungo le strade di un'Italia offesa
ed umiliata, che gridando «Abbasso!»,
ora ch'è morto, gli contrasta il passo.

E mentre ancora il feretro è in cammino,
chi s'avvantaggia della breve ondata
d'entusiasmo patriottico è Arduino,
il marchese d'Ivrea, che, radunata
una dieta a Pavia, vuol su due piedi
per sé l'Italia e per i propri eredi.

E ottiene la corona. Intanto, Arnolfo,
succeduto per voto popolare
al defunto arcivescovo Landolfo,
era andato a Bisanzio, a procurare
una sposa ad Ottone in quella corte,
mentre il tedesco sposò poi la morte.

L'arcivescovo Arnolfo era in vïaggio,
quando Arduino re veniva eletto;
rincasato, però, non fece omaggio
al nuovo sire: gli sembrò scorretto
quel farsi incoronar con tanta furia,
mentr'era assente lui: quasi un'ingiuria.

Due anni dopo, Enrico di Baviera
(fatto poi santo), il nuovo re germanico,
scende in Italia: mutano bandiera,
all'arrivo del re, colti dal pànico,
e vescovi e signori, al suo destino
abbandonando il povero Arduino.

Questi fugge ed Enrico entra a Pavia,
che non lo accoglie troppo volentieri
e presto insorge: «Se ne vada via,
non ne vogliamo piú di re stranieri!».
E il re, per castigar quegli abitanti,
incendia la città (che strani santi!).

Incoronato dopo imperatore,
di prepotenza - al posto dell'antico,
che d'Arduino è un fervido fautore -
insedia ad Asti un vescovo Olderico.
Milano accoglie il vescovo deposto,
decisa ad aiutarlo ad ogni costo.

Arnolfo, allora, risolutamente
il popolo indignato aduna in piazza
e si muta da prete in combattente:
lascia la cotta e indossa la corazza,
dinanzi ai Milanesi, che entusiasti
impugnar l'armi urlando: «Ad Asti! Ad Asti!».

Asti s'arrende. Intanto, re Arduino
in buona parte riconquista il regno;
ma al ritorno d'Enrico, a capo chino,
vinto dallo sconforto e dallo sdegno,
gridando contro Arnolfo al tradimento,
il fosco re si chiude in un convento.

Gli era contrario, Arnolfo, che pensava
di liberarsi ormai d'ogni tutore,
di fare a meno, in quell'Italia schiava,
tanto del re che dell'imperatore.
E presto, aperto a tutte le fortune,
sarà Milano un libero Comune:

gl'imperatori, come il fosco sire,
andranno anch'essi a farsi benedire...

XXVI
I Milanesi sconfiggono l'Imperatore (1037)
Il Carroccio


I Milanesi, in un fervore insonne,
fabbrican armi, accumulano scorte;
tutti intorno alle mura, uomini e donne,
vecchi e fanciulli, a rinforzar le porte.
Il poderoso esercito imperiale
pose un assedio che gli fu fatale.

Data di gloria fu, nell'anno mille
e trentasette, il 19 maggio;
i Milanesi fecero faville,
prodigi di valore e di coraggio:
guidati dal medesimo Ariberto,
sconfissero il nemico in campo aperto.

Nel giorno santo della Pentecoste,
Corrado tolse il campo ed andò via;
le schiere dei suoi téutoni, scomposte,
in piena fuga giunsero a Pavia.
E, dietro, l'arcivescovo che, prode,
incita i suoi ragazzi a darle sode...

Spronato da Corrado e dai Pavesi,
il compiacente Benedetto nono
scomunica Ariberto, ai Milanesi
un vescovo imperial mandando in dono;
ma quelli gli fan fare le valige,
ché nemmeno lo vogliono in effige.

L'irato imperatore incendia Parma,
sfogando contro gli altri i suoi furori;
e tuttavia Milano non disarma,
anche quand'egli adesca i valvassori,
con una legge, a spargere zizzania.
Indi, deluso, se ne va in Germania.

Ma prima di partire, il maledetto
convoca i suoi vassalli (che di lui,
assai probabilmente, avranno detto:
«Piú che un Sàlico è un... sadico costui!»)
e, contro i Milanesi, essi gli fanno
il giuramento d'una guerra all'anno.

Per difender la gente del contado,
esposta ogni anno a quella scorreria
ordinata dal perfido Corrado
ai feudatari della Lombardia,
il tenace arcivescovo l'addestra
a maneggiar la spada e la balestra.

E per destar nel popolo inesperto
il senso della patria, ancora in boccio,
al centro dell'esercito Ariberto
pone il solenne civico Carroccio,
simbolo della patria e dell'onore,
intorno a cui si vince, oppur si muore.

Nel 1039, gl'imperiali
tornarono all'assalto, ma la morte,
proprio, non è il peggior di tutti i mali,
e, poco prima che le nostre porte
quei prepotenti avessero raggiunto,
s'apprese che Corrado era defunto.

Si ritennero sciolti i suoi vassalli
dal giuramento e con disinvoltura
subito indietro volsero i cavalli;
ma i Milanesi, usciti dalle mura,
diedero loro tante e tante botte,
da farli rimaner con l'ossa rotte.

Successor di Corrado, il figlio Enrico
riconosce Milano indipendente,
chiama Ariberto, lo saluta amico,
e questi può disfarsi, finalmente,
della corazza e rivestir la tunica.
Anche il papa ritira la scomunica...

di cui nessuno piú si ricordava
(disse Ariberto: «Già, chi ci pensava?»)

XXVIII
La guerra patarinica (1056-1075)


E dopo, che ne fu di quel Lanzone,
che strenuamente il popolo difese?
Divenne forse l'arbitro, il padrone,
l'idolo del Comune milanese?
O, sia pur senza cariche speciali,
venne onorato il primo fra gli uguali?

Nemmen per sogno: preso dai patrizi
vendicativi e chiuso in una torre,
è sottoposto a orribili supplizi,
né un solo cane in sua difesa accorre
(è vero, dopo tanto accanimento,
piú tardi gli faranno il monumento...).

Comunque, per lo meno in apparenza,
fra nobili e plebei nessun rancore,
non c'è fra loro alcuna differenza,
e dallo stesso Enrico imperatore,
nella prossima Dieta di Roncaglia,
sarà sancito il patto che li eguaglia.

Ma sembra che per ora abbiano solo
la libertà di prendersi a legnate...
Morto Ariberto, un prete campagnuolo,
detto Guidone, o Guido da Velate,
che sarà poi di Roma il gran nemico,
ne prende il posto per voler d'Enrico.

Pur se da molto tempo Pietro e Ambrogio
- Roma e Milano - si guardavan male,
la guerra aperta (e il suo martirologio)
ebbe un motivo quanto mai banale:
i preti, quando l'uzzolo li coglie,
hanno il diritto o no di prender moglie?

Benché il Sommo Pontefice lo vieti,
Guidone lo permette e lo consiglia,
si può esser - dicendo - ottimi preti
e insieme buoni padri di famiglia;
lo stesso Sant'Ambrogio, uomo di mondo,
del resto, l'ammetteva: uomini, in fondo...

La potenza e il denaro, tuttavia,
hanno corrotto il clero milanese:
oltre ad esercitar la simonia,
i preti ricchi, in modo ormai palese,
se non han moglie, in barba alla dottrina,
han sempre in casa qualche concubina.

E la Chiesa di Roma ebbe buon gioco
nel mandare i suoi messi a sollevare
- gettando nuovamente olio sul fuoco -
contro il piú ricco il ceto popolare,
e specie contro i ricchi sacerdoti,
concubinari e simoniaci noti.

Milano si divise in due fazioni
e la guerra iniziò dei Patarini,
parola che significa straccioni:
fu il nome dato a quei concittadini
che si batteron per... vent'anni scarsi,
per impedire ai preti d'ammogliarsi.

Il prete Arialdo ed un Landolfo Cotta
dei Patarini assumono il comando,
ma i veri dirigenti della lotta
sono Anselmo da Baggio ed Ildebrando,
quel monaco dal piglio perentorio,
che dopo diverrà papa Gregorio.

La caccia agli ecclesiastici ammogliati
provoca per le vie scontri violenti;
Milano è sotto un incubo: attentati,
saccheggi, incendi, insidie, tradimenti...
E ci scappan due martiri: Arialdo
e l'irruente chierico Erlembaldo.

Guidone ebbe la peggio, e la contesa,
che tanto insanguinò questa città,
fini con la vittoria della Chiesa
e dei tribuni della castità.
E per i preti il nodo coniugale
piú non si stringe: è proprio un grosso male?

Afferma il Berni che, fra tante doglie,
la peggiore di tutte è l'aver moglie...

XXX
L'assedio e la resa di Milano

1160. I Cremonesi
assedian Crema, il Barbarossa avanza
coi Lombardi alleati: i Milanesi
fortifican le mura a tutt'oltranza,
mobilitando il popolo compatto...
È il 25 agosto: ed ecco, a un tratto,

suonare a stormo tutte le campane,
cupo presagio alla città sgomenta:
brucia la casa di Lanfranco Cane
a Porta Comasina; invan si tenta
di domare le fiamme: il vento è forte:
arde mezza città, brucian le scorte...

Non resta piú che un ultimo rimedio
(la resistenza ormai sarebbe vana):
cercar soltanto d'impedir l'assedio
mediante la guerriglia partigiana,
molestando i Tedeschi, nell'attesa
d'organizzar di nuovo la difesa.

Ma il fiero imperator, svernato a Lodi,
nell'anno 1161,
decide alfine di piegar quei prodi
con un'arma infallibile: il digiuno;
fa intorno alla città terra bruciata,
ché non vi cresca un filo d'insalata.

Dopo di che, s'accampa alla Commenda;
e chi s'azzarda a uscire dalle mura
è fatto segno ad una caccia orrenda,
che si concluderà con la tortura:
nel miglior caso, tornerà a Milano
senza un occhio, un'orecchia od una mano.

Milano, infine, stretta dal cilizio,
soccomberà: la fame non perdona.
E il primo marzo. E cominciò il supplizio:
andati a Lodi i consoli in persona,
al Barbarossa dalla dura grinta
resero la città stremata e vinta.

Trecento cavalieri avendo a scorta,
gli alfieri, il giorno 4, deporranno
le trentasei bandiere - sei per porta -
solennemente ai piedi del tiranno,
umili, scalzi, senza dir parola,
baciando il fango appreso alle sue suola.

Mastro Guitelmo gli darà le chiavi
della città sgombrata; e il Barbarossa
gli abitanti vedrà, simili a schiavi,
sfilare in quell'orribile Canossa,
mentre il Carroccio, ornato come in guerra,
lento s'abbasserà toccando terra.

Misericordia imploreranno invano
le donne, i vecchi, i pargoli innocenti
nati al dolore, con le croci in mano
tutti, prostrati come penitenti.
L'imperatore, dall'aurato trono,
muto e superbo, negherà il perdono.

Dirà soltanto, perfido e glaciale:
«Peccato non sia qui la mia signora!»...
E vorrà che la scena, tale e quale,
giunta sua moglie, si ripeta ancora:
capite, pure il bis, come a teatro!...
Poi, su Milano passerà l'aratro.

(Ma occorre dir che, in questo, gl'Italiani
gli diedero una mano, anzi, due mani...)

XXXI
La distruzione di Milano (1162)
La Lega Lombarda e il Giuramento di Pontida (1167)


I Milanesi vengono scacciati
dalla città. Sogghigna il Barbarossa:
«Non piú Guitelmo, i miei stessi alleati,
ora, a Milano... scaveran la fossa,
ché, come un giorno ad opera d'Uraja,
dalla faccia del mondo essa scompaia».

Lodi distruggerà Porta Orientale;
Porta Cica, Pavia; la Vercellina
sarà data a Novara; è naturale
che a Como spetterà la Comasina;
è affidata a Cremona la Romana,
la Nuova al Seprio ed alla Martesana.

Ed i nemici (a dirsi ancor piú orrendo,
perché italiani!) sfogano il rancore,
saccheggiando, bruciando, distruggendo,
con l'arme in pugno e con la rabbia in cuore.
E mura e case furon demolite,
senza bisogno della dinamite...

Come armento scacciato dall'ovile,
errarono dapprima i Milanesi
per gli arsi campi sotto il ciel d'aprile,
e in quattro o cinque piccoli paesi
furono dopo relegati, inermi,
stanchi, affamati e nudi come vermi.

E quasi la condanna non bastasse,
eran costretti ad umili fatiche,
unicamente per pagar le tasse,
e rinnovavan le leggende antiche
dei derelitti Ebrei, tratti prigioni
sotto il giogo bestial dei Faraoni...

Papa Alessandro terzo, un italiano
largo di mente ed ancor piú di cuore,
parteggia apertamente per Milano
contro il crudele e iniquo imperatore.
(Quando sentì di quella distruzione,
il povero Alessandro ebbe il magone!)

Al tempo stesso, le città lombarde,
tartassate esse pur dagli aguzzini
del Barbarossa, armati d'alabarde
e assetati di sangue e di quattrini,
messo da parte l'odio fratricida,
fanno una Lega e giurano a Pontida.

Ma lo capite, voi, cosa vuol dire
riuscire ad accordar venti città
in questa nostra patria, ed a sopire
gli odi, i rancori, le rivalità,
ed a far mantenere un giuramento?...
Credete pure, è un grosso avvenimento.

E fra i patti giurati il primo è questo:
ricostruire la città ribelle,
in barba al Barbarossa... Ed al piú presto
si metteranno all'opera: anche quelle
che a distruggerla, un dí, fecero a gara,
anche Lodi, anche Como, anche Novara.

Città lombarde, venete, emiliane
(può sembrare incredibile, ma è vero)
finalmente si sentono italiane
e, tutte unite contro lo straniero,
aderiscono anch'esse a quella Lega,
che il vessillo dei liberi dispiega.

Il Barbarossa è nero! Il papa, a Roma,
l'ha trattato un po' male; in Lombardia
la gente è pronta a scuotere la soma...
Egli una Dieta convoca a Pavia
e mette al bando i soci di Pontida,
gettando un guanto in aria a mo' di sfida.

Sarà raccolta quella sfida: otto anni
di fede, di tenacia, di concordia,
e coloro che a Dio, contro i tiranni,
implorarono invan misericordia,
sorgono nuovamente alla riscossa.
Urla Milano: «Morte al Barbarossa!».

Chi tuona, sotto il bel sole di Dio:
«Milanesi, fratelli, popol mio... »?

XXXIII
La pace di Costanza (1183)
I Podestà - La Guerra Civile (1221)


Poteva ormai la Lega vincitrice
additare la porta allo straniero,
render l'Italia libera e felice;
ma il nome sacro del Romano Impero
godeva d'un prestigio gigantesco,
pur se il Romano Impero era tedesco.

E tuttavia la pace di Costanza,
approvata dal Cesare sconfitto,
a favore del popolo che avanza
sancisce un nuovo e piú civil diritto:
l'uguaglianza politica e sociale
(fino ad un certo punto, è naturale).

Unitamente, nobili e plebei,
sotto l'insegna della libertà,
nell'anno 1186,
eleggono a Milano il podestà:
un Uberto Visconti da Piacenza;
starà in carica un anno e poi partenza.

Si preferí che il primo magistrato
della città non fosse un milanese,
ma venisse di fuori e, ben pagato,
provvedesse alle entrate ed alle spese,
controllasse le industrie ed i commerci:
scaduto l'anno, grazie e arrivederci.

A Milano non mancano davvero
i ragionieri e gli amministratori,
ma è meglio aver per capo un forestiero,
che a tutti quanti dia del «lorsignori»,
che non abbia né amici né parenti,
e agisca senza tanti complimenti.

E crebbe, sotto questi governanti,
Milano, di bellezza e di fortune;
nel mezzo della Piazza dei Mercanti
sorge il nuovo Palazzo del Comune;
ed è forte Milano, e prende a scherzo
fin le condanne d'Innocenzo terzo.

Ma poi, col tempo, questi magistrati
diventano dei veri dittatori,
nel mentre, gli uni contro gli altri armati,
borghesi capitani e valvassori,
in una complicata sarabanda,
si dànno botte come Dio le manda.

Ché ben presto risorgono i partiti,
ed i nobili ancor mostrano i denti
ai popolani, e questi, inviperiti,
fanno lo stesso contro i prepotenti:
la loro associazione - la Credenza
di Sant'Ambrogio - è presto una potenza.

La ricca borghesia senza blasone
(la media nobiltà, se piú vogliamo)
ha pure una sua propria associazione:
la Motta, mentre a parte poi vediamo,
intorno all'arcivescovo, settari
stringer le file i grossi feudatari.

Il partito dei grandi arma i «Gagliardi»,
per contro i popolani armano i «Forti»
e alla prima occasione, o presto o tardi,
quali che siano le ragioni o i torti,
s'affronteran con furia sanguinaria,
ché la guerra civile è già nell'ària.

Lunga e spietata guerra, a cui s'accoppia
prima la peste e poi la carestia;
finché un bel giorno la notizia scoppia:
Federico secondo è in Lombardia.
E nel 1226
di nuovo amici, nobili e plebei...

(Signori miei, sapete che vi dico?
Qui ci vorrebbe ogni anno un Federico!)

XXXV
Federico II sconfitto a Fossalta (1249)
La cacciata dei nobili


Quando Leone, il frate inquisitore,
poco dopo la morte di Pagano,
avendo il ceto nobile a favore,
è creato arcivescovo e a Milano
vuole imporre la propria signoria,
scoppian nuovi tumulti: è l'anarchia.

E Federico ancor fa capolino,
col figliuolo re Enzo questa volta,
l'uno dall'Adda e l'altro dal Ticino,
per conquistare la città in rivolta,
cui manda intanto la notizia tetra
che la distruggerà pietra su pietra.

Non c'è speranza piú, misericordia!...
E Federico, invece, attacca indarno:
Milano trova, insieme alla concordia,
un condottier: Simone da Locarno,
che, portando la strage e lo scompiglio,
sistema prima il padre e dopo il figlio.

Tenace, Federico non disarma,
e son, quattr'anni dopo, i Milanesi
che a vincerlo a Fossalta aiutan Parma:
re Enzo cade in mano ai Bolognesi
e, senza aver raggiunto il proprio scopo,
re Federico muore un anno dopo.

Scomparso Federico dalla scena,
scoppian nuovi tumulti popolari,
per una legge ch'applica la pena
di sette lire e dodici denari
contro il signore dichiarato reo
d'aver fatto la pelle ad un plebeo.

In tempi come quelli, capirete,
è un vero incitamento all'omicidio:
basta soltanto un pugno di monete,
e un poveraccio, che vi dia fastidio,
ve lo levate subito da torno;
sicché il delitto è all'ordine del giorno.

E ciò che mosse il popolo a furore,
fu questo fatto: un nobile Landriani
invitò a cena un proprio creditore,
un popolano, e poi dai suoi scherani
lo fece allegramente trucidare,
dicendo: «Dopo tutto, è un buon affare».

Ma fu un pessimo affare: il popolino,
guidato da Martino della Torre,
insorge urlando: «A morte l'assassino!»,
le case distruggendone, e rincorre,
menando strage nella notte oscura,
i signori fuggiaschi oltre le mura.

E le due parti, con ferocia estrema,
l'una dell'altra vogliono la fine;
intervengono poi Bergamo, Crema,
Brescia e, con esse, altre città vicine,
e si giunge a una tregua, con l'intesa
di sottoporre al papa la contesa.

Durante quella tregua assai precaria,
i popolani e i nobili in fermento
sfogan però la furia sanguinaria,
fino a quel tristo dí frenata a stento,
linciando... il podestà (bella vergogna!):
un Beno Gozzadini da Bologna.

Costui, per far procedere i lavori
su un ramo del Naviglio, aveva osato
tassare i capitani, i valvassori,
i preti ed i plebei: fu lapidato
e poi gettato a pezzi in quel Naviglio,
fatto appunto scavar per suo consiglio...

A costo del piú orrendo dei misfatti,
tutti contro le tasse ancor compatti!

XXXVII
La Signoria di Napo della Torre (1265-1277)
L'arcivescovo Ottone Visconti

Figlio del gran Pagano della Torre,
Napo è un signore pieno di talento
e, seppur quando occorre (e spesso occorre)
sa mostrarsi anche lui duro e violento,
a conti fatti, generoso e giusto,
non è portato a uccidere per gusto.

E quando suo fratello Paganino
è ammazzato dai nobili a Vercelli,
ed a Milano insorge il popolino,
e il sangue per le vie scorre a ruscelli,
egli contro il massacro invan protesta:
«Quel sangue ricadrà sulla mia testa!»

Papa Clemente, intanto, risoluto,
per toglier la scomunica a Milano,
vuole che prima sia riconosciuto
il Visconti arcivescovo. Ma invano:
Napo promette sí; ciononostante,
continua a far orecchio da mercante.

Vuol dominar da solo, ed i favori
del popolo frattanto si guadagna,
incoraggiando pubblici lavori,
ricevendo sovrani in pompa magna,
sfoggiando un lusso che non ha confini
e abbaglia forestieri e cittadini.

Vengono i re di Francia e d'Inghilterra,
vi passa Margherita di Borgogna,
principi d'ogni razza e d'ogni terra;
ed i Torriani pronti alla bisogna:
tornei, festini, doni a piene mani,
mense gratuite a tutti i popolani...

Vi sono, poi, le spese militari,
poiché i nemici non gli dan quartiere,
e Napo è sempre in cerca di denari
per assoldare truppe di mestiere:
i cittadini, fattisi piú scaltri,
ormai le guerre le fan fare agli altri.

Egli è costretto ad aumentar le tasse,
sicché la gente si riduce all'osso;
noi ben sappiamo come son le masse,
pronte a gridar «evviva» a più non posso,
aman la gloria ed aman la bisboccia:
non toccarle, però, nella saccoccia...

Ed Ottone Visconti, approfittando
del malcontento che dilaga intorno,
assunto d'un esercito il comando,
sconfigge Napo a Desio, un brutto giorno,
(era il gennaio del '77)
e incomincian le solite vendette.

È massacrato un giovane fratello
di Napo e, in quanto a questi, il pover'uomo
viene appeso alla torre d'un castello,
rinchiuso in una gabbia, in quel di Como:
a un anno o poco piú dalla tragedia,
dopo lenta agonia, morrà d'inedia.

Appresa la sconfitta, il popolino,
dopo tante baldorie e battimani,
saccheggia e con furore belluino
devasta poi le case dei Torriani,
che a un mucchio di macerie son ridotte
(c'è ancor la strada delle Case rotte).

Ottone entra a cavallo, l'indomani,
con la mitra ed il palio, preceduto
dal corteo dei signori; i popolani
alzan le braccia in segno di saluto
e, mentr'egli annuisce e si compiace,
lo acclamano gridando: «Pace, pace!»

(In attesa del prossimo macello,
il grido delle turbe è sempre quello.)

XXXIX
Galeazzo, Azzone
e Luchino Visconti


Galeazzo non manca di ferocia
e accrescerà la schiera dei tiranni;
è vero che al governo egli s'associa
Luchino, Marco, Stefano e Giovanni,
i suoi quattro fratelli, ma, in sostanza,
è lui solo a dirigere la danza.

Marco è quel grande e ardito cavaliere
che tanti e tanti cuori ha poi commossi
con le vicende avventurose e fiere,
immortalate da Tommaso Grossi.
È lui che vince a Vaprio la crociata
contro i Visconti, a Roma organizzata.

E dei cinque fratelli egli è il migliore,
generoso e romantico; al contrario,
è Galeazzo un pessimo signore,
libertino, avventato, autoritario,
e a molti fa passar dei brutti giorni
nel tenebroso carcere dei Forni.

Lo costruí lui stesso nel castello
di Monza e presto vi finì lui pure:
fu quando Marco, stanco del fratello,
dei suoi soprusi e delle sue congiure,
a Lodovico il Bavaro progetta
d'offrire la corona, e questi accetta.

E nel 1327
fu coronato, infatti, imperatore;
ma a Galeazzo mise le manette
e, chiamandolo guelfo e traditore,
lo cacciò coi fratelli e il figlio Azzone
in quella spaventevole prigione.

Rimasto fuori Marco solamente
(Stefano si salvò perch'era morto
la notte prima), lotta inutilmente
per dieci mesi, in preda allo sconforto;
è il Castracane, coi suoi buoni uffici,
che alfine liberar fa gl'infelici.

Ma, recatosi a Pescia a ringraziare
Castruccio di quel provvido intervento,
Galeazzo si spegne, a quanto pare,
sfibrato da quel lungo patimento.
Capo della famiglia e dello Stato
rimane Azzone: erede ed inguaiato.

Eppure, prodigioso equilibrista,
tra guelfi e ghibellini manovrando,
egli l'antico stato riconquista,
anzi, l'accresce; e presto al suo comando
avrà vaste contrade, abile e scaltro,
or con l'uno alleato ora con l'altro.

Ottenne Brescia contro gli Scaligeri,
che, complice Lodrisio, suo cugino,
con forte nerbo d'agguerriti armigeri
marciavan su Milano: zio Luchino
sconfisse (e fu di sangue un vero lago)
l'esercito invasore a Parabiago.

Abbellí la città, rimise in piedi
le vecchie mura, ma, nel fior degli anni,
anche Azzone morì, lasciando eredi
Luchino e l'arcivescovo Giovanni,
che estesero la propria signoria
oltre i confini della Lombardia.

Luchino, con audace intraprendenza
ed anche, spesso, con felice tatto,
si spinse quasi fino alla Provenza,
ebbe Genova stessa, ove, d'un tratto,
(fu nel 1348)
un brutto dí spirò senza far motto.

Fu la peste o il veleno?... Ecco il dilemma,
anzi, l'enigma che nessuno scioglie.
Egli aveva una vipera per stemma
ed aveva una vipera per moglie:
un'Isabella Fieschi, genovese,
che non amava il coniuge scortese

e, forse, con un tossico letale
gli ha anticipato il dí del funerale.

XLI
La Signoria di Gian Galeazzo (1385-1402)


Crescon le tasse, invece, ed è vietato
mormorar contro i dazi e le gabelle:
chi si lamenta d'esser scorticato
rischia davvero di lasciar la pelle...
Né si parli di popolo: parola
ingrata, sovversiva e piazzaiola.

Gian Galeazzo sa quello che vuole:
il suo programma meditò per anni,
nell'ombra, mentre adesso opera al sole:
vuole per sé la gloria dei tiranni;
né lo conturba l'implacato spettro
dello zio Bernabò: vuole uno scettro.

E da re Venceslao, per cominciare,
ottiene, intanto, il titolo di duca.
Fu una grandiosa festa popolare:
Gian Galeazzo ha in testa una feluca
piena di gemme; l'abito ducale
è costato da solo un capitale.

In Sant'Ambrogio sono radunati,
tra fastosi parati ed ornamenti,
ambasciatori, principi, prelati...
In quella festa senza precedenti
vengon profuse autentiche fortune:
ed il popolo paga, anzi... il Comune.

Non si parli del popolo, che inerme
applaude e tace... Il duca di Milano
accosta intanto Jacopo dal Verme,
Facino Cane, l'inclito Barbiano
ed altri capitani di ventura,
che fan tremar l'Italia di paura.

Quei condottieri al suo servizio accoglie,
non bada a spese, e il conte di Virtú
(nome d'un feudo della prima moglie,
Isabella di Francia) sempre piú
- per quanto né stratega, né soldato -
accresce, ingigantisce il suo ducato.

Grazie al valor dell'armi e, soprattutto,
grazie al danaro e all'arte degl'inganni,
pur se la libertà si veste a lutto,
la biscia viscontea giunge in pochi anni
- né ad aver degli scrupoli s'indugia -
a Pisa, a Siena, a Lucca, anche a Perugia.

Gian Galeazzo, splendido signore,
non fece solo guerre, tuttavia,
né fu solo un tiranno e un oppressore:
eresse la Certosa di Pavia,
che dai Visconti aveva avuto già
anche il Castello e l'Università.

Fu un principe crudele e disumano,
adoperò la forca e la tortura,
senza pietà, ma fece di Milano
una città magnifica e sicura:
è sotto quel temibile grand'uomo
che s'iniziò la fabbrica del Duomo.

E, maturando un epico disegno,
egli intravide l'unità d'Italia:
comporre lo Stivale in un sol regno,
sotto il suo scettro, è il sogno che lo ammalia.
Per il momento, limita il suo scopo
all'Alta Italia: il resto verrà dopo...

Solo aspettava ormai, per sé e gli eredi
a cinger la corona di sovrano,
ch'anche Firenze gli cadesse ai piedi,
quando morì di peste a Melegnano,
nell'anno 1402.
E si sfasciaron le conquiste sue.

È proprio vera la sentenza etrusca:
la farina del diavolo va in crusca...

XLIII
Francesco Sforza
Fine di Filippo Maria Visconti (1447)


Da una piccola gente di campagna,
d'un tratto trasformatasi in guerriera
abbandonando la natia Romagna,
nacque Francesco, e fece una carriera,
malgrado le modeste, umili origini,
che a pensarci ti vengon le vertigini.

Era, giovane ancor, dei tempi suoi
il miglior capitano di ventura;
ma Filippo Maria di certi eroi
aveva una santissima paura,
ed aspettava solo l'occasione
per dargli un benservito d'eccezione.

Sforza, fiutata l'aria che spirava,
poiché mutar bandiera era un'inezia
già fin da allora, subito passava
al servizio del papa e di Venezia:
purché gli arrida un rapido successo,
Ambrogio o Marco fan per lui lo stesso.

Malconcio alquanto, il subdolo Visconti,
«a Dio spiacente ed a' nemici sui»,
promette al condottiero mari e monti,
purché ritorni a battersi per lui;
anzi, d'un tratto divenuto tenero,
vuol farlo addirittura proprio genero.

E gli dà in moglie l'unica sua figlia,
Bianca Maria, ma presto se ne pente:
aver quell'uomo nella sua famiglia,
lui ch'è un Visconti, lui ch'è il discendente
d'Enea troiano... E contro quel plebeo
grande è il disprezzo e l'odio visconteo.

Soprattutto, però, non si perdona
d'aver dato a sua figlia, e quindi a Sforza,
le città di Pontremoli e Cremona,
e le vuole riprender con la forza:
in cerca d'un pretesto, i Veneziani
coi Milanesi vengono alle mani.

E d'improvviso invasa la Brianza,
dopo una marcia ardita e minacciosa,
s'accampano a tre miglia di distanza
dalla città, dinanzi a Porta Tosa:
cede il ducato, come un ramo secco;
resiste solo la città di Lecco.

Il duca, indifferente a quel macello,
sembra solo aspettar la propria fine,
torvo e scontroso, chiuso nel castello
di Porta Giovia (sulle cui rovine,
piú tardi, sorgerà quello sforzesco,
quando il ducato passerà a Francesco).

Imbelle, nevrastenico, ammalato,
circondato da astrologhi e da medici,
non amato dal popolo, esecrato
anzi da molti, muore il giorno tredici
d'agosto di quel millequattrocento-
quarantasette
tragico e cruento.

Seguono giorni turbinosi e tristi:
spentosi il duca, insorge la città,
guidata da filosofi umanisti,
al grido: «Sant'Ambrogio e libertà»,
nasce la Repubblica Ambrosiana,
con un Consiglio e un'Assemblea sovrana.

I cittadini bruciano il catasto:
non pagar piú le tasse è il loro sogno...
Nessuno piú sapeva, avvezzo al basto
stretto dalla fame e dal bisogno,
tra una plebaglia dalla rabbia invasa,
dove la libertà stesse di casa.

Nei «reggitori» afflitti e vilipesi
il libertario ardor presto si smorza,
dopo un'anarchia di trenta mesi
invitano a venir Francesco Sforza,
«certi dei sentimenti d'amistà
ch'egli nutriva verso la città».

(E un mese prima urlavan sulla piazza:
«Ventimila ducati a chi l'ammazza»!)

XLV
Galeazzo Maria Sforza (1466-1476)
Cicco Simonetta


Chiusa, Bianca Maria, nella sua pena
(molto il caro infedele aveva amato),
attese il figlio, ventunenne appena,
ch'era a Parigi, presso il re alleato,
e che, a Milano reduce, la bara
a molta gente ed anche a sé prepara.

Purtroppo, quel suo figlio Galeazzo,
Galeazzo Maria piú esattamente,
ch'era sembrato un ottimo ragazzo,
ritrovò tutti in sé subitamente,
peggiorati però nei lor confronti,
i vizi degli Sforza e dei Visconti.

Crudele, spendaccione e libertino,
mandò la madre a vivere a Cremona;
invitatala dopo ad un festino
quando sposò la savoiarda Bona,
la fece avvelenar: l'accusa è vaga,
ma c'è chi insiste (la Questura indaga...)

Coi suoi capricci e con i suoi stravizi,
il nuovo duca imperversò dieci anni,
finché tre fieri e giovani patrizi,
pieni d'odio mortal contro i tiranni,
entusiasti di Bruto e di Catone,
prepararono a lui l'estrema unzione.

Un Olgiati, un Visconti e un Lampugnani,
volendo dare un luminoso esempio
delle antiche virtú sacre ai Romani,
atteso il fosco principe nel tempio
di San Stefano, il dí dopo Natale,
lo stendon morto a colpi di pugnale.

Oh, certamente, dopo l'accaduto,
tanto la plebe che la nobiltà
avrebbero esaltato i nuovi Bruto,
e ad instaurar l'antica libertà
sarebbe sorto il popolo ribelle...
che, invece, a tutti e tre fece la pelle!

Lascia un figlio settenne il morto duca:
Gian Galeazzo. Il titolo ducesco
molta gente, però, par che seduca
e, soprattutto, i figli di Francesco:
gli Sforza; il piú temibile fra loro
e il piú avveduto è Lodovico il Moro.

E c'è Venezia, poi... c'è re Luigi,
che d'ingoiare il bel Ducato aspetta.
Ma la vedova Bona ai suoi servigi
ha sempre il bravo Cicco Simonetta,
che i quattro Sforza, zii di quel bambino,
tanto per cominciar, manda al confino.

Scrive da Pisa il Moro a donna Bona
che in quell'ore difficili ed incerte,
per difendere il bimbo e la corona,
dovrebb'esserci lui. Cicco la avverte:
«Se date ascolto a quello sciagurato,
io perderò la vita e voi lo Stato».

Facile profezia: ché, non appena
torna a Milano, il furbo Lodovico
contro il ministro un bel processo inscena
e, dichiarato pubblico nemico,
il Simonetta è consegnato al boia.
E il turno, poi, di Bona di Savoia.

Il Moro, che l'accusa in malafede,
la chiude nel castel d'Abbiategrasso
per immoralità... Quanto all'erede,
non ancora in età d'andare a spasso,
lo manda a trastullarsi in prigionia,
nel munito castello di Pavia,

mentre, piú «dritto» e molto piú attempato,
lui... si trastullerà con il ducato.

XLVII
La politica di Lodovico il Moro
I Francesi entrano in Milano (1500)


Intanto il re di Napoli non ciancia:
vuole giustizia. È allor che Lodovico,
ingenuo, si rivolge al re di Francia,
a Carlo ottavo, che gli fa l'amico;
e l'incita, lo supplica, lo sprona,
perché strappi il reame ai D'Aragona.

Nello Stivale Carlo ottavo irruppe,
senza incontrar nessuna resistenza;
il Moro lo forni d'armi e di truppe,
Roma gli fece un'ottima accoglienza.
Venezia, diffidente, dal suo mare
come le stelle resterà a guardare.

Fu solo quando Carlo, vincitore,
s'impadroní di Napoli in un lampo,
che gl'Italiani scossero il torpore
e uniti contro lui scesero in campo:
scesero in campo, dandosi la mano,
Roma, Venezia e il duca di Milano.

Anche Milano: il Moro contro Carlo
snuda la spada, entrando nella Lega,
anzi, il piú fiero è lui nell'avversarlo,
con patriottico ardor che non si spiega,
dato che fu l'autor di quella giostra
chiamando lo straniero in casa nostra.

Tremante di paura, il re francese,
ormai spacciato senza alcun riparo,
ritornò in Francia, dopo averle prese
nella battaglia di Fornovo Taro.
Ma il Moro, ch'è un campione d'incostanza,
gli offre ancora la pace e l'alleanza...

No, signor duca, basta! Il troppo stroppia:
vuol la sua testa il popolo furente,
a cui le inique tasse egli raddoppia
(sa Dio quanto sborsò quell'incosciente,
perché l'imperator Massimiliano
lo consacrasse duca di Milano).

La fortuna, però... Muore sua moglie,
proprio in quei giorni, e lui fa l'Ecce homo:
finge? è sincero?... Fatto sta che scioglie
tante di quelle lacrime nel Duomo,
che i Milanesi, gente di buon cuore,
gli perdonano ancor, senza rancore.

E muore anche re Carlo: a lui succede
Luigi dodicesimo, nipote
di Valentina e dei Visconti erede,
per cui, gonfiando le paffute gote,
di «duca di Milano» assume il titolo.
E per il Moro è l'ultimo capitolo...

Tutta l'Italia è contro Lodovico;
Francesi e Veneziani in una volta
minaccian la città. Quando il nemico
è già alle porte, il popolo in rivolta,
esasperato e imbestialito, lancia
l'infausto grido: «Francia! Francia! Francia!

Ripara in Austria Lodovico il Moro,
presso l'imperator Massimiliano,
portando via con sé tutto il tesoro
lasciando a difendere Milano
Bernardino da Corte: «Sta' sicuro
che torno coi Tedeschi, e tieni duro».

Nell'aprile del 1500
Bernardino da Corte lo tradiva,
re Luigi, grazie al tradimento,
entrò a Milano fra scroscianti evviva.
D'ogni parte si misero in viaggio
i signori d'Italia a fargli omaggio.

E non manca nessuno al lieto coro
(manca soltanto il popolo che paga):
Ercole d'Este, suocero del Moro,
i Savoia, e i Saluzzo, ed i Gonzaga,
i Monferrato, e Cesarino Borgia...
Del servilismo è cominciata l'orgia:

sperano di salvar l'indipendenza
con qualche dono e qualche riverenza...

XLIX
L'ultimo Sforza: Francesco II


Francesco primo entra a Milano, accolto
da applausi e da discorsi apologetici,
mentre - affamato, misero, travolto
armento - in patria tornano gli Elvetici,
nella fuga portando insieme a loro
l'ultimo figlio del defunto Moro.

È Francesco secondo, un giovincello
piuttosto malandato, dalla guancia
pallida, triste... Invece, suo fratello
Massimiliano fu portato in Francia
e pensionato con magnificenza
(non certamente dalla Previdenza...).

I Francesi rimangono sei anni,
col general Lautrec governatore,
che si rivela tra i peggior tiranni,
esoso, prepotente e senza cuore,
ed imperversa, ossessionante tribolo,
con le taglie, la frusta ed il patibolo.

E nuove guerre, e nuovi sacrifici:
re Carlo V, imperator romano,
con Spagnoli, Tedeschi e Pontifici
si lancia alla conquista di Milano:
vuol dall'Italia, il Cesare spagnolo,
scacciar la Francia e dominar da solo.

Milano, dove l'ira ormai trabocca,
mostra una volta ancor le virtú sue,
sconfiggendo i Francesi alla Bicocca,
nel 1522,
spronata da Gerolamo Morone,
animatore dell'insurrezione.

È un fervido patriota, ora vicario
dello Sforza Francesco, e nell'aprile
di quell'anno davvero leggendario
questi torna a Milano, che febbrile
appresta nuove e valide difese
per premunirsi contro il re francese.

Ma il re riprende la città, stremata
dalla peste e dalla carestia;
fin quando, in una tragica giornata,
sconfitto nell'assedio di Pavia,
fu catturato dall'imperatore
«tutto egli perdé, fuorché l'onore».

Ritornato in città, l'ultimo Sforza
complotta col Morone, il cui disegno
è scacciar gli Spagnoli con la forza
fare dell'Italia un solo regno;
ma propone l'impresa a un generale
che lo tradisce, e addio, dolce ideale

Morone è ammanettato, e il mite duca
si rinserra a difesa nel Castello,
mentre ancora in Italia alla caduca
pace segue un inutile macello,
formando il papa, dai Francesi spinto,
la Lega Santa contro Carlo quinto.

È il 1526:
Milano, chiusa nelle proprie mura,
vede languire nobili e plebei,
tra la peste, la fame e la paura,
e, priva d'ogni spirito pugnace,
quattr'anni aspetta l'invocata pace.

Duca ed imperator riconciliati,
Sforza tornò, sborsando tuttavia
un buon mezzo milione di ducati
per il riscatto della signoria;
e i cittadini, ormai quasi pezzenti,
dovettero pagar, stringendo i denti.

Dopo cinque anni, in fondo bene spesi,
Francesco muore senza lasciar figli,
ed un'ambasceria di Milanesi,
per evitare i soliti scompigli,
dopo aver seppellito il duca estinto,
va ad offrire il ducato a Carlo quinto:

«Se Vostra Maestà ci fa l'onore...»
«Ma vi pare? Son qui, di tutto cuore...

LI
Decadenza di Milano ispanizzata
Il Cardinale Carlo Borromeo
arcivescovo di Milano (1565-1584)


Governatori, in centosettant'anni,
quant'è durato il giogo madrileno,
- una genia di piccoli tiranni -
ve ne furon cinquanta o poco meno,
intenti solo a empirsi la bisaccia,
passati tutti senza lasciar traccia.

Eccetto don Ferrante dei Gonzaga:
fu tra i piú onesti e i meno forcaioli.
Venuto a governar mentre dilaga
la guerra tra i Francesi e gli Spagnoli,
della città dalle vetuste porte
vuol fare una munita roccaforte.

Uomo d'ingegno e illustre capitano,
fu quel governator, largo d'idee,
che pensò d'allargare anche Milano
oltre le vecchie mura viscontee,
cingendo la città cinquecentesca
di un'opera massiccia e pittoresca.

E per piú di tre secoli i bastioni,
al traffico moderno ora immolati,
serviron come cava di mattoni -
e come mèta degl'innamorati.
In quel lavoro inutile e imponente
s'arricchí pure lui, ma... onestamente.

Invece, per citarne solo un altro,
il bel governator duca d'Ossuna,
barando al gioco, spudorato e scaltro,
a Milano si fece una fortuna.
(Tentava di spogliar, senza traslati,
anche mogli e «tusann» degl'invitati...)

Gonzaga selciò almeno alcune strade,
e Piazza Duomo sistemò perbene.
Poi, fatalmente, la città decade,
perde ogni suo carattere, diviene
la roccaforte dell'assolutismo,
dell'ignoranza e, piú, del fanatismo.

Valga un esempio: un Melzi senatore,
che soffre d'uno stomaco malsano,
dopo che a piú d'un celebre dottore
per anni ed anni s'è rivolto invano,
sospetta la sua donna di servizio
d'operare ai suoi danni un malefizio.

Infatti, trova qualche testimonio,
che accusa la presunta jettatrice
d'intrattener rapporti col demonio:
s'intromette il Senato, e l'infelice,
dopo un lungo e fruttuoso sopralluogo,
è torturata e poi condotta al rogo.

Son molto attivi i giudici ed il boia;
ed una folla taciturna e tetra,
oppressa dalle imposte e dalla noia,
accorre, per distrarsi, in Piazza Vetra,
ove c'è sempre, in nome del Signore,
da arrotare una strega o un malfattore.

Fortuna che Pio quarto, milanese,
mandò come arcivescovo a Milano
un suo nipote, giovane cortese
ma intransigente ed anticortigiano,
animo eletto e spirito europeo:
il cardinale Carlo Borromeo.

Fondò chiese e collegi, prodigando
ovunque il bene, generoso e dotto,
e contro il re cattolico lottando,
impedí che da noi fosse introdotto
- malgrado le insistenze del padrone -
lo sconcio della santa inquisizione.

Buono e zelante: seppe dimostrarlo
in una spaventosa epidemia,
che si chiamò «la peste di San Carlo»
e tutta spopolò la Lombardia;
egli era ovunque: un santo più che un uomo;
ed oggi lo si venera nel Duomo.

Fu un sacerdote a volte anche pignuolo,
ma lombardo, italiano, antispagnuolo.

LIII
Fine del dominio spagnuolo (1706)


Ma ormai la vecchia Spagna medievale,
dalla mentalità donchisciottesca,
legata ad un fanatico ideale
che non fa presa piú, che manca d'esca,
si trova, sul finire del seicento,
si trova, sul finire del seicento,
in piena decadenza e sfacimento.

Già con l'ultimo suo governatore,
che fu don Carlo Enrico di Lorena,
fu vista la città cambiar d'umore,
farsi piú gaia, o almeno piú serena,
darsi quasi dell'arie di salotto:
era il 1698.

Nella grigia Milano ispanizzata,
bigotta aristocratica e musona,
si comincia a sentir qualche risata,
uno spirito nuovo si sprigiona;
nei modi di don Carlo è già palese
il settecento frivolo e cortese.

Il re di Spagna non lasciando eredi,
scoppia la guerra per la successione:
le varie dinastie son tutte in piedi,
attratte da quell'ottimo boccone,
e Vittorio Amedeo giostra con arte
per aver anche lui la propria parte.

Il duca di Savoia, a tutta prima,
credette nel successo franco-ispano;
ma poi piú saggio e piú prudente stima
schierarsi con gli Austriaci, ed a Milano,
dopo quel voltafaccia, in pochi mesi
giungono infatti gli Austro-Piemontesi.

Franco-Spagnuoli, chiusi nel Castello
con quattromila e cinquecento fanti,
bombardan la città, sordi all'appello
della ragione, e i miseri abitanti,
terrorizzati dalle colubrine,
si vanno a rintanar nelle cantine.

Lí, strilli e pianti: «Maledetti diavoli,
quaggiú la fine ci fan far del topo!»...
E vi lagnate voi, cari trisavoli:
ma se sapeste quel che accadrà dopo,
fra duecentotrent'anni ad un dipresso,
non fiatereste piú (viva il progresso!...).

Parteggiavan frattanto, i cittadini,
chi per l'austriaco, chi per lo spagnolo
ed il francese (piú all'austriaco inclini,
or che questo vinceva), intesi solo
- in cantina lasciato il patrio orgoglio -
a salvare la pelle e il portafoglio.

Finir sotto i Savoia - non par vero -
sembrava loro il massimo pericolo:
mentre prima ubbidivano a un Impero,
sarebbe stato quanto mai ridicolo,
sarebbe stata la peggior dell'onte,
ora, ubbidire al piccolo Piemonte!...

Spettava la Sicilia al savoiardo,
secondo i patti, ed ebbe la Sardegna,
invece, con il titol di re sardo:
sembrò per un momento che in consegna,
anziché la Sicilia, a quel sovrano
fosse dato il ducato di Milano.

Milano s'indignò: «Belle pretese!»
- è un vecchio senator che si strabilia:
«Una sola città del Milanese
val piú di tutta quanta la Sicilia»...
Ma, senatore, perché mai s'impenna?
La faremo dipendere da Vienna...

(Quanto alla patria ed all'indipendenza,
per il momento se ne può far senza.)

LV
Napoleone Bonaparte entra a Milano (1796)


Passato il buon Giuseppe a miglior vita,
macchina indietro: niente piú riforme.
L'Europa è in ansia, Vienna è sbigottita,
mentre, a svegliare un popolo che dorme,
giunge d'oltralpe e scuote il Bel Paese
l'eco eccitante della «Marsigliese».

Conservatori e innovatori; ai ferri
corti, son ora in piena ebollizione:
vuole qualcuno, come Pietro Verri,
l'apertura a sinistra; altri s'oppone.
Cesare Beccaria, Verri, il Parini
sono additati come giacobini...

È un pericolo pubblico la Francia
insorta, giacobina e regicida;
la vecchia Europa coalizzata lancia
a quei ribelli una sprezzante sfida.
E la sfida è raccolta: «Eccoci qui!»
quei ribelli rispondon da Valmy.

Nella Liguria irrompono i Francesi:
ventisettenne appena, il Bonaparte,
polverizzati gli Austro-Piemontesi,
lungo l'arco del Po, novello Marte,
sovvertitore d'ogni strategia,
in poco piú d'un mese è in Lombardia.

Intorno all'arciduca Ferdinando,
come all'arrivo d'Attila, Milano
si rifugia nel Duomo, supplicando
Dio perché arresti quei demòni: invano!
A capo d'un esercito di prodi
scalzi e affamati, il Bonaparte è a Lodi.

Mentre il tamburo chiama all'adunata
la sparuta milizia cittadina
tra una folla sgomenta e rassegnata,
l'arciduca va via quasi in sordina.
Resta al governo l'ultimo vicario
di provvisione, il Nava, uomo bonario,

non all'altezza della situazione,
senza precise idee, senza energia;
e manda ad incontrar Napoleone
Melzi d'Erìl con un'ambasceria.
E un po' nervoso e brusco il generale,
ma, in fondo, assai trattabile e cordiale.

«La Francia» egli dichiara «è ben felice
d'avervi liberati, Milanesi;
essa non viene da conquistatrice,
e sarete da lei sempre difesi:
non vi resta che scegliervi un governo
libero democratico e moderno».

Entra a Milano il quindici di maggio:
gli va incontro, togliendosi il cappello,
il Nava con la Giunta a fargli omaggio.
S'arrendon, poi, gli Austriaci del Castello.
E, come tutte le città lombarde,
anche Milano è un'orgia di coccarde:

viva la libertà... morte ai tiranni!...
Viene armata una Guardia Nazionale.
«Non combattiamo piú da duecent'anni»,
dice Melzi d'Erìl, ma il generale
lo rassicura: «Accanto ai nostri eroi,
imparerete a battervi anche voi».

Intanto, da Palazzo Serbelloni,
dove s'insedia, come prima imposta
richiede alla città venti milioni:
bella è la libertà, certo, ma costa...
(lo stesso nostro Dante lo dichiara:
«libertà vo cercando ch'è... sí cara»).

E tuttavia che festa: è come a nozze...
Sfolgoranti spettacoli alla Scala,
per il Córso magnifiche carrozze,
con le signore in abito di gala.
Ed i Francesi, gente comme il faut,
fraternizzan col popolo: però...

di quella singolar «fraternité»,
ne sa qualcosa... Giovanin Bongee.

LVII
Napoleone incoronato re d'Italia (1805)
Fine dell'epopea napoleonica


Il Console diventa imperatore,
il presidente ha il titolo di re
ed ha per vice un giovine signore:
il suo figliastro Eugenio Beauharnais;
Melzi d'Eríl diventa cancelliere
(purché la cosa duri: è da vedere...).

Napoleone è incoronato in Duomo
- presente l'arcivescovo Caprara -
con la corona ferrea, che il grand'uomo
vuol cingere da sé, mentre dichiara,
e di superbia e d'enfasi trabocca:
«Dio me l'ha data, guai a chi la tocca!»

Milano seppe adempiere l'ufficio
di capitale ed applaudì con zelo:
feste, tripudio, fuochi d'artificio,
un pallone aerostatico nel cielo;
ma da quel cielo occhieggiano, non scorte,
le furie della guerra e della morte.

Nessuno ancora in quel gran giorno immagina
che una guerra fra i popoli è imminente;
e Milano vi scrive la sua pagina:
la Legione Lombarda è ognor presente;
Pietro Teulié, soldato di valore,
cade in battaglia accanto al tricolore.

Furon anni di lutti, ma fecondi:
il seme della patria è ormai gettato,
pur se il sogno di Cesare sprofondi
nelle nevose steppe, insanguinato,
ed a Milano dal disastro immane
pochi sbandati tornino ed... un cane!

(Conoscete la storia di «Tosino»?
Andato in Russia con un reggimento
di Milanesi, il piccolo volpino
torna a Milano zoppo e macilento,
coi resti dell'esercito, e si ferma
alla garitta della sua caserma).

E arriva quel fatale anno '14
della disfatta e della codardia.
Tornato Eugenio dai disastri nordici,
difende come può la Lombardia,
arrestando sull'Adige il nemico:
ultimi sprazzi del valore antico...

Mentre in Mantova Eugenio è rinserrato,
l'austriaco Bellegarde entra in Verona;
Melzi propone al popolo e al Senato
che il viceré conservi la corona,
cercando di salvare il regno italico:
Milano insorge con furor vandalico.

È il venti aprile: una Milano atroce,
insospettata; un odio disumano,
che esplode sotto il peso d'una croce:
i sacrifici sopportati invano,
la sua piú bella gioventú distrutta...
Ed in quell'odio ce la mette tutta.

La folla, in preda a un'ira belluina,
devastata la sede del Senato,
corre alla caccia di Giuseppe Prina
e orrendo scempio fa del disgraziato
(ministro, per colui che lo ignorasse,
delle finanze: l'uomo delle tasse...).

Ugo Foscolo, ancora in uniforme
di capo battaglione, inutilmente
cerca d'opporsi a quelle urlanti torme,
scatenate, impazzite e truculente:
per frenar quel furore demoniaco,
è necessario l'intervento austriaco!...

Riscatterà, Milano, il gesto orrendo,
ed il suo onore, e quell'infausto aprile.
Al Bellegarde il viceré, partendo,
dice sprezzante che l'Italia è vile
che un solo ideale han le sue folle:
non pagar tasse e starsene in panciolle.

Signori Austriaci, ancor trentaquattr'anni
avrete alcuni grossi disinganni...

LIX
Le cinque giornate
(18-22 marzo 1848)


Sognavan tutti i popoli d'Europa,
prima ancora che uscisse il Capitale,
di spazzar finalmente con la scopa
gli avanzi d'un regime medievale.
Ed ecco il Papa, dallo stesso tempio
di Pietro, dar per primo il buon esempio.

Fin dal '46, salito al trono,
con le riforme sue papa Mastai
si fa ovunque acclamar: «Viva Pio nono!»
impiegati, artigiani ed operai
gridano per le strade di Milano,
in preda ad un delirio sovrumano.

L'arciduca Ranieri, che governa
la città da trent'anni, è un uomo molle,
ha spesso slanci di bontà paterna
e mal s'adatta a queste incaute folle,
che adesso contro Vienna hanno il coraggio
d'usar la guerra fredda e il sabotaggio.

E quando ha inizio l'anno '48,
per danneggiar le casse dello Stato,
non c'è nessuno piú che giochi al lotto,
gli uomini tutti al fumo han rinunziato
(dotate allora di maggior giudizio,
le donne non avevano quel vizio).

Radetzky, invece, è un duro: e chi ne frena
l'ira funesta? A scopo rappresaglia,
per le vie di Milano egli scatena
la prepotenza della soldataglia.
Morti, feriti; insultano, i Croati,
lo stesso podestà Gabrio Casati.

Il maresciallo, all'ira ed allo sdegno
dell'infelice popolo, risponde
con lo stato d'assedio in tutto il Regno;
ma il diciassette marzo si diffonde
una notizia, e gli animi trasporta:
Vienna operaia è finalmente insorta!

Il giorno dopo, verso dodici ore,
Casati e l'arcivescovo Romilli
vanno a parlare col governatore,
che esorta i Milanesi a star tranquilli;
ma dinanzi al palazzo di Monforte
il popolo fa ressa, urlando: «A morte!»

Intanto, fra Monforte e San Damiano
si leva già la prima barricata;
ed il governo cede: avrà Milano,
seduta stante, una sua Guardia armata,
mentre s'obbligheranno i polizai
a far fagotto e a non tornar più mai.

Ma Radetzky è tranquillo, ha centomila
soldati con duecento e piú cannoni:
«A casa, cittadini, o tutti in fila
vi faccio massacrar come montoni!».
E le ordinanze vengono proscritte.
Le barricate sorgono piú fitte.

Le truppe austriache bloccan l'abitato
fra i bastioni e la Cerchia dei Navigli.
Un Consiglio di guerra improvvisato
nel palazzo Taverna di via Bigli
s'aduna, presieduto dal Cattaneo.
Dilaga il moto, unanime e spontaneo.

Si prodigano tutti, uomini e donne,
vecchi e fanciulli; ognuno è un combattente,
la città vive in un fervore insonne.
Radetzky chiede tregua: inutilmente.
E con i suoi duecento e piú cannoni
arretra sempre piú verso i bastioni.

Il ventidue, l'attacco a Porta Tosa,
ribattezzata poi Porta Vittoria:
nella mischia serrata e sanguinosa
i ribelli si coprono di gloria;
il maresciallo, vinto da quei prodi,
prende la fuga per la via di Lodi.

Si, fra non molto tornerà, ma intanto
gliele han suonate in modo sacrosanto...

LXI
Napoleone e Vittorio Emanuele
entrano a Milano (8 giugno 1859)


Cecco Beppe a Milano inutilmente
chiede un applauso... Strano: sul suo cuore
questa Milano ha un fascino potente,
anche se in lui s'accumula il rancore:
perché, pur cosí bene amministrata,
freme, complotta, s'agita? Che ingrata...

Anche il Radetzky dalla grinta dura
ama Milano: a modo dei tiranni,
s'intende; e morirà fra, queste mura,
nel '58, a piú di novant'anni,
lui pure a questo popolo cocciuto
chiedendo invano un segno di saluto.

A governar Milano era il fratello
di Francesco Giuseppe, l'arciduca
Massimiliano, «il puro, il forte, il bello»:
sembra che tutto il mondo egli seduca
con i suoi modi semplici e cortesi:
seduce tutti, fuor che i Milanesi.

Andrà a morire fra i ribelli Atzechi,
povero imperator Massimiliano...
Ora, per quanto i suoi sorrisi sprechi,
non sa riuscire a conquistar Milano:
una Milano manifatturiera,
che lavora in silenzio, e aspetta e spera...

Son passati dieci anni e dieci mesi
dalle Cinque Giornate: ormai la fine
del martirio è suonata... Milanesi,
usciamo dalle mura cittadine:
Cavour ha fatto un'opera coi fiocchi,
a cui sta dando gli ultimi ritocchi.

Il piccolo Piemonte non invano
ha mandato i suoi uomini in Crimea;
questo ha permesso al popolo italiano
d'entrar nella politica europea:
grazie a quell'uomo e grazie alla sua arte,
avremo a fianco il terzo Bonaparte.

Nei primi giorni del '59,
alla Scala la «Norma» del Bellini
in un èmpito lirico commuove
gli spettatori: mille cittadini
sorgono in piedi ed al famoso coro
«Guerra guerra» s'uniscono anche loro.

E c'è, la guerra: il ventisei d'aprile,
Cavour respinge il tanto sospirato
ultimatum austriaco. Tra le file
dei Piemontesi accorron d'ogni lato
d'Italia i volontari. È il nostro maggio:
lo illuminan la fede ed il coraggio.

Giuseppe Garibaldi è entrato a Como;
Francia ed Italia han la vittoria in pugno,
gli Austriaci sono in fuga. Alto sul Duomo
sventola il tricolore: è l'otto giugno.
Accanto a re Vittorio, dal Sempione
entra l'imperator Napoleone.

E si riprende l'epico cammino:
mèta, Venezia... Il popolo entusiasta
festeggia Solferino e San Martino,
quando 1'imperator, dicendo: «basta!»,
offre ad un'Austria sopraffatta e stanca
l'improvviso armistizio a Villafranca.

Ma l'unità d'Italia è ormai compiuta,
il resto verrà dopo... Quando seppe
che per l'Austria Milano era perduta
per sempre, dal dolore Cecco Beppe
scoppiò in singhiozzi, povero figliolo...
A pianger, tuttavia, non era solo:

anche in Italia, a Roma soprattutto,
parecchi insieme a lui tennero il lutto..

IL 1859
                         I
Era un piccolo Stato, il Regno sardo,
tutto raccolto nelle sue città,
nelle sue valli, sotto uno stendardo
che risaliva a ottocent'anni fa.

Ma se a Napoli, a Roma, in suol lombardo,
ovunque, il boia è in piena attività,
è, quel piccolo Stato, il baluardo
ultimo e solo della libertà.

E scampati alla forca o alla galera,
è lí che si rifugian gl'Italiani,
ribelli alla tirannide straniera:

vinti esiliati profughi dispersi,
nella vibrante attesa del domani,
congiuran nei caffè scrivendo versi.
                       II
Era un piccolo Stato e, tuttavia,
da solo combatté contro un Impero.
Diceva Carlo Alberto a cuor leggero:
«L'Italia fa da sé». Dolce follia...

Non sempre è dato d'atterrar Golia
con la fionda di Davide, è pur vero,
ma c'è un'arma piú valida: il pensiero;
c'è un'arma e un'arte: la diplomazia.

Era un piccolo Stato, ancor fedele
al suo vecchio vessillo e al suo sovrano:
il giovane Vittorio Emanuele.

E andò con due giganti a Sebastopoli,
per poter dire: «Il popolo italiano
vuol la sua patria, come gli altri popoli»
                        III
Era un piccolo re, fra quei giganti,
ma a quei giganti il giovane signore
sui campi della gloria e dell'onore
aveva offerto il sangue dei suoi fanti.

Piccolo re, ma al grido di dolore
che gli giungeva dai fratelli ansanti,
come a un grido di martiri e di santi,
non rimase insensibile il suo cuore.

Tutta una patria che in silenzio aspetta:
insanguinate, in ogni sua contrada
anche le pietre chiedono vendetta.

Gli giunse il grido dei fratelli oppressi,
ed il piccolo re trasse la spada
e chiamò quella patria al resurressi.
                         IV
Piemonte ed Austria: Davide e Golia;
Vienna e Torino: il sole e la candela...
E il Tessitore tesse la sua tela
col filo azzurro della fantasia.

La guerra all'Austria... Il Bonaparte anela,
malato un po' di megalomania,
la grandezza dei Cesari... E via via
l'opera paziente si rivela.

Lusinga il franco irrequieto sire
quel popolo che sorge dalla tomba
assetato di gloria e d'avvenire

e alla sua spada affida i suoi destini:
ha giovato a qualcosa anche la bomba
ammonitrice di Felice Orsini...
                          V
Il convegno è a Plombières. E nel conforto
del ridente villaggio idroclimatico
si svolge l'arduo gioco diplomatico
fra il Bonaparte e il piemontese accorto.

Se a Giuseppe Mazzini - e non a torto -
l'antico carbonaro è un po' antipatico,
non spiacerebbe al Cesare enigmatico
esser l'eroe d'un popolo risorto.

Scenderebbe anche lui nel Bel Paese:
Lodi, Arcole, Marengo... Ed il passato
s'avviva al sole delle nuove imprese.

L'imperatore ha un animo romantico
ed accarezza il sogno naufragato
nell'isoletta dell'Oceano Atlantico...
                        VI
L'accordo è ormai raggiunto, le segrete
clausole del trattato sono pronte:
Parigi firmerà. Sorride il Conte
serenamente alle future mete,

anche se caro pagherà il Piemonte:
Nizza e Savoia son le sue monete.
E voi, piegate la gentile fronte,
principessa Clotilde, e non piangete:

i vostri sedici anni han riservato
ad un cugino dell'imperatore:
lo chiamano Plon-Plon... Strano mercato

per la vostra ragione e il vostro cuore:
ma c'è soltanto la ragion di Stato,
oggi, e l'amor di patria è il solo amore
                         VII
Il Tessitore tesse la sua tela
e sente che il gran giorno è già vicino;
ma i suoi timori agl'intimi non cela:
l'imperatore è infido e sibillino.

E di quel loro incontro clandestino
qualcosa in Francia e all'estero trapela:
Walewski, che diffida di Torino,
richiama il Bonaparte alla cautela.

L'imperatrice un monito gli lancia:
Napoleone non è piú un tribuno
o un carbonaro, è imperator di Francia.

E in Francia la crudele verità
è che la guerra non la vuol nessuno.
Ma la vuole Cavour e si farà.
                      VIII
Ma, piú degli altri grandi, è l'Inghilterra
che si dichiara di parer contrario:
nel Continente - pensa - un'altra guerra
può turbar l'equilibrio già precario;

pensa che, unito, un dí (forse non erra)
quello Stivale, adesso frammentario,
le darà qualche noia: e se l'afferra
la smania dell'impero ereditario?...

Fa allora riferir, Napoleone,
al Conte già sicuro del successo,
ch'è meglio rimandar l'operazione.

in un messaggio, freddo come il marmo,
gli dice che, in attesa d'un Congresso,
per ora è consigliabile il disarmo.
                         IX
quando gli confermano che quella
è del Francese l'ultima parola,
il Tessitore, con un nodo in gola,
contro il destino amaro si ribella.

Perde la calma, che gli fu sorella
sempre nell'ore avverse ed - Una sola
cosa mi resta, - dice: - una pistola
che mi faccia saltare le cervella... -

Coraggio, Conte: all'ultimo minuto,
vedrà che soccorrevole e gentile
la stessa Vienna Le verrà in aiuto.

infatti l'Austria, in barba all'Inghilterra,
a re Vittorio, il ventitré d'aprile,
consegna un ultimatum: è la guerra...
                        X
La immaginate, voi, Piazza Castello
in quell'incomparabile mattino?...
Da tutta la Penisola a Torino
i volontari accorrono all'appello.

Il general Giulay varca il Ticino,
ma lo ripassa in fuga: è Montebello.
Poi Palestro... Magenta... Ed un drappello
verso il «noster Milan» è già in cammino.

Giuseppe Garibaldi entrava a Como,
mentre a Milano il tricolor saliva
sulla piú alta cuspide del Duomo.

E nel trionfo che la folla ammalia,
non «Viva Verdi» piú, si grida «Viva
Vittorio Emanuele, re d'Italia».
                       XI
Il Chiese, Solferino, San Martino...
Sono con noi la gloria e la fortuna:
contro il Tedesco, il popolo latino
uno stesso ideale oggi accomuna.

E i combattenti sognano la luna
del Prati sul largo Adige turchino,
sognan la marcia verso la Laguna,
dove Venezia attende il suo destino.

Sul ponte, che in un giorno di dolore
ha visto sventolar bandiera bianca,
sventolerà di nuovo il tricolore...

Ed ecco l'otto luglio, Villafranca,
il tradimento dell'imperatore...
E piegò l'ali la Vittoria stanca.
                     XII
Ma ormai l'Italia è fatta, ed i sovrani
stranieri, messi al bando, son fuggiti
per sempre... Garibaldi, i Plebisciti,
alcuni eventi fortunati e strani,

gli stessi grandi con le loro liti
completeran l'Italia di domani:
ci saranno da fare gl'Italiani,
rimasti provinciali e disuniti.

Divisa ancor tra guelfi e ghibellini,
a volte in preda a un'ansia forcaiola,
ligia ai suoi vecchi e frusti burattini,

non è l'Italia che sognammo a scuola,
non è la tua repubblica, Mazzini:
ma non è detta l'ultima parola.
                  Fine

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