Testi di Enzo Campi


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L’intercalato aggregante (a proposito di “Ludico gnomo dal lamento aggregante”)

Quelle sillabe, quei tronconi di parole, quelle glossolalie che vivono all’interno di due mezzelune e che creano assonanze di phoné e d’etimo, non sono da intendersi come esasperati intrattenimenti lessico-ascendenti o fono-regredenti, ma –solo ed unicamente- come “particelle aggreganti”.
Una sorta di soffio strozzato che –disarmonizzando- cerca di creare un’assonanza o una, nemmeno tanto segreta, “dipendenza”.
Se “trans” pospone e “cis” antepone, possiamo dire che la “parola trans-temporale”, dentro la quale vivono una o più coppie di cosiddette mezzelune, per poter esistere deve nutrirsi di un “troncone” estratto dalla “parola cis-temporale”.
Una soluzione lessicale, mai risolutiva, semmai sospesa, ulteriormente rimandata in un gioco senza fine.
Una soluzione che qui vorrei definire come “intercalato aggregante”.
Difatti questo “gioco” potrebbe essere reiterato all’infinito perché le corrispondenze sono innumerevoli.
Per facilitare la lettura mi sono limitato ad evidenziare solo (nemmeno tutti a dir la verità) gli intercalati che sono situati ad immediato ridosso l’uno dall’altro.
E se il “punto” definisce la fine di una strofa, viene da se che, salvo poche eccezioni, le corrispondenze evidenziate vivono e si consumano proprio all’interno di quella strofa.
L’intercalato, conscio del suo status, è un soldato sempre in prima linea, esposto al fuoco nemico.
Porta la bandiera, incita e sprona il suo plotone nell’attacco, nell’offesa che –implacabilmente- si ripropone ad En-Soph, all’infinito.
Magari pesante o pedante, ma al contempo suadente e intrigante, proprio perché definito in quell’insopprimibile levitas, in quella leggerezza che nel gioco si esalta e che l’intento stilistico, in un certo qual modo, glorifica (o vanifica....).
L’intercalato aggregante è, per natura, polemico.
Mette in discussione il flusso poetico.
Un’assonanza che non sempre è concordanza e che, talvolta, sconfessa la regola non nell’eccezione che la conferma, ma nell’accezione-altra di altro-intendimento.
Quindi ciò che veramente conta è il punto di partenza, quell’incipit cerebro-esasperato che non si barrica dietro le spalle d’ Hermes Trismegisto ma che, inseguendo uno stile, si rivolge ad una sorta di “straniamento”.
Da non confondere con lo straniamento brechtiano che è tutt’altra cosa ; cosa, tra l’altro, da cui si rifugge, sia per principio che per forma e sostanza.
Lo straniamento che qui si cita come intento, può forse trovare lontani parenti nel “decervelage” jarryano, può ricercare consimili agganci nella prosa arbasiniana (che tra l’altro, nelle sue continue ascese e cadute, è tra le cose più sovraccariche e al contempo svuotate, più incise e al contempo circoncise che la letteratura del novecento abbia prodotto), può immaginarsi figlio (sicuramente degenere e denaturato) delle scritture manganelliane e calviniane e può trastullarsi in una sorta d’impavida ed ostentata “balbuzie” proprio perché spesso impronunciabile.
Mi sovviene ri-citare Manganelli : “...la balbuzie è intrinseca alla vera eloquenza ; ma così detto, en passant, e racchiuso nella preziosa teca sintattica di una prosa alquanto turgida, forse sussurra più che non dica”.
Laddove, “al di qua” dell’effige interpuntiva (banalmente riconosciuta e risolta dai più come un qualsiasi “punto e virgola”) della citazione manganelliana, si proclama il dogma che l’ars oratoria e quindi anche l’arte dello “scriba” che fomenta l’orale, si nutrono d’una balbuzie congenita, quasi patologica, necessariamente epidemica.
E l’intercalato aggregante è perlappunto balbuzie, pura glossolalia impronunciabile e nondimeno inudibile, se non in una sgraziata phoné che l’udito offende e mortifica.
Di contro (o consimilmente), “aldilà” dell’effige interpuntiva si paventa la possibilità che il “dire” non dica ma semmai sussurri.
Non dilata l’estroversione ma contrae quel “soffio strozzato” che si vorrebbe –inesaustivamente- consimile ad un presunto reinghiottimento dell’articolazione vocale (l’onda d’urto della glossolalia si presume ultratonale ma nel momento stesso in cui avviene l’emissione si tramuta in atonale ; ed è proprio da questo scontro, tra due forze uguali e contrarie, che prende vita la “strozzatura”, che avviene il presunto reinghiottimento) o, in senso figurato, ad un riflusso sintattico di un qualsiasi troncone (sillabico o asillabico) all’interno della parola che lo contiene e lo definisce.
Come, tra l’altro, già detto, se “cis” antepone e “trans” pospone, possiamo affermare che il riflusso dell’articolazione vocale (e quindi la scrittura sezionata in tronconi) è cis-catartico perché non si pone il problema di una purificazione a posteriori.
E’ ”al di qua” d’ogni impossibile ed inutile catarsi.
In un certo senso è già catarsi in sé, perché si presuppone e si dice “puro” ghigliottinando la parola al suo interno ed estraendo un nucleo dal quale poi ripartire.
Un nucleo che poi ritroviamo in un’assonanza (o dissonanza, perché comunque scivola soventemente nella cacofonia ; ma, beninteso, ambedue le accezioni viaggiano sullo stesso piano e si dicono “uguali” nell’avvenuta riconciliazione dei “contrari”) che è disarmonica solo nel suo carattere “intestino”, nella sofferenza interna, nello smembramento lessicale e fonetico.
Di contro ( e ancor più consimilmente), “aldilà” dell’effige interpuntiva il dis-dire è necessariamente trans-catartico.
Eccede qualsiasi idea di catarsi perché è ben oltre i confini del semplice “dire”.
In senso manganelliano è “prosa turgida” che frantuma e ri-predispone, è “preziosa teca sintattica” che glossolalizza e crea una protesi (pro-tesi, a favore della tesi che deve essere al contempo confermata e sconfessata), per così dire, “aggregante”.
Proprio perché si compone nella ri-composizione e si definisce nella ri-definizione dell’intercalato.
Quell’intercalato che è al contempo estratto, quasi estirpato da un Uno e riplasmato in un Due, o magari, ulteriormente esteso in un Tre.
Perché –sempre parafrasando Manganelli- tre sono i gradi dell’angoscia, tre sono i gradi del “no” e quindi tre sono i gradi della negazione.
Ogni pratica di disvelazione presuppone, nel suo “darsi” e nel suo “dirsi”, una negazione a priori.
Solo negandosi in sé e quindi “mancandosi”, si possono estrovertere parti di sé attraverso il tramite della scrittura.
E se la scrittura proviene dal pensiero, da una attività cerebrale (anche se soventemente influenzata dalla fisicità), inevitabilmente si ripropone il “tre”, per esempio come il numero delle anime presenti in noi : Nephesh, Ruah e Neshamah, rispettivamente “anima vivens” (carne, passione, viscere, fibrillazione), “anima rationale” (spirito elementare, naturalmente predisposta alla doppia pratica della simultanea ascensione-regressione) e “intelletto agente” (luce, mente, dio, portone superiore).
E possiamo andare avanti all’infinito : tre sono i tempi (passato, presente e futuro) che gli antichi raffiguravano con le tre teste di lupo, leone e cane ; tre sono le emanazioni del divino ; tre sono le parti in cui venne divisa la materia prima etc.
A dire il vero, nell’idea primigenia che ha permesso il parto di questa lamentazione, le sirene erano tre e le ideali personificazioni dello gnomo erano perlappunto tre : gnomo, giullare ed uccello.
Ma questo potrà divenire palese solo in un’eventuale prosecuzione che, per il momento, è stata rimandata.
Dico tutto questo non per affermare o analizzare un’arcana corrispondenza numerologica o cabalistica, ma solo per affermare che i misteri di quell’Hermes Trismegisto possono essere svelati o comunque interpretati.
E che in questo “gnomo” non c’è ermetismo.
Tutto è chiaro fin dalle prime battute.
Per quanto la sua storia sia triste (da qui il carattere della lamentazione), il suo definirsi “ludico” si risolve proprio nel “gioco” degli intercalati aggreganti.            

Infinito ulteriore.
(un cenno affettivo a Giorgio Manganelli)

Qualsivoglia appunto-omaggio, qualsivoglia pensiero-encomio sull’affabilità del lessico manganelliano dovrebbe possedere i caratteri di un’assoluta “leggerezza”.
Dove l’esser (divenire) leggeri è sintomo –dogmatico- dell’eterno vagabondare tra i flutti –solo lievemente agitati- di quel magnifico oceano che è la letteratura.
Vogliano scusarmi quindi, coloro i quali si troveranno, come dire, immersi nell’infelice esperienza di leggere questo mio sproposito, solo vagamente cognitivo e che si basa –più che altro- su fragili fondamenta emozionali.
E se le fondamenta son fragili e perdipiù impiantate su friabili terreni argillosi, viene da se che il palazzo è destinato a crollare.
Un effimero castello di sabbia, in balìa dell’acqua e del vento, dove ogni “dire” è altro da sé e quindi flusso che si dilata, dove ogni “tacere” tramutando il flusso in riflusso, nella sua illuminante contrazione, diviene essenza disvelata.
Quel suo “scrivere la scrittura” è dilacerato in sé, ma nondimeno è aperto ad innumerevoli “punti di fuga” che, dondolandosi tra l’ineffabile e l’affabile – rischiando più volte di trascendere sul piano dell’affettività- non possono esimersi dall’abbacinare, dispiegando –a più livelli- strali di luce intensa, sicuramente effimeri ma nondimeno pregnanti, pronti a rischiarare il cammino di un qualunque animale nottivago (umano o disumano che sia).
Vogliano quindi scusarmi quegl’impavidi lettori che non troveranno nella mia scrittura quella forza, quell’affabilità, quella leggerezza e quell’acume che solo Manganelli può avere.
Nel risvolto di copertina (in quelle brevi –spesso fuorvianti- presentazioni, il cui unico fine dovrebbe essere quello di incuriosire camuffando l’assunto in un sunto che non riesce –quasi mai- né ad informare, né ad incuriosire, né tantomeno a riassumere) de : “La letteratura come menzogna”, si legge di una certa rivendicazione manganelliana verso quella che viene definita “letteratura assoluta”
(si tratterebbe –a questo punto giunti- di definire le accezioni di questo concetto, ma non mi sembra il tempo e il luogo adatto per cui – con le dovute riduzioni e col beneficio d’inventario- identificheremo il concetto di “assoluto” nel “fine a se stesso”, nel rifluire all’etimo, nel rifiuto degli stereotipi narrativi, nel magnificare i caratteri aneddotici tramutandoli in protesi impazzite pronte a spiccare il volo).
Diciamo che in Manganelli è spiccata l’urgenza di elevare ad un rango più alto non la mera descrizione ma la stessa “scrittura”.
Che la scrittura (così come, del resto, qualsiasi altra forma artistica) sia “menzogna” costantemente applicata e terribilmente perpetrata, questo è indubbio.
Perché la scrittura –se anche s’invola sui canoni cari alla verosimiglianza e alla mimesi- è comunque “filtrata”, “squartata”, “sezionata” da un’entità (colui che perlappunto inchiostra sia i rotoli delle pergamene che i freddi, anonimi fogli di carta) viva, pensante e pulsante, con tutte le sue caratteristiche –più o meno spiccate- relative all’etica, all’estetica, alla filosofia, alla fisicità, al suo personale modo di intendere e vivere la vita, e che –immancabilmente- non può fare a meno di travisare, camuffare, abbellire, nascondere.
Citati definisce Manganelli con l’appellativo “mirabile”, io aggiungerei un altro appellativo : “incantatore”.
Non ci sono precedenti nella letteratura, nessuno ha mai saputo discorrere con evidente e pregnante acume ironico (quasi beffardo ; ma d’una beffardìa leggera, carezzevole, suadente) dei massimi sistemi e delle regressioni animalesche, della regalità e della povertà.
Nessuno ha mai posseduto una così forte carica disvelatrice nel definire come “attività losca” proprio quel suo instancabile indagare all’interno della “scrittura”.
Al contempo “sopra” e “tra” le righe, l’incredibile ventaglio delle sue disarmoniche armonie lessicali, inonda –straripando dagli argini che non possono contenere la sua forza innata- ogni specie di terreno argilloso dove ogni incauto lettore compie già uno sforzo immane nel conservare l’equilibrio.
Ebbene, il flusso altalenante (nel senso di un movimento che culla, rassicura e rasserena) della prosa manganelliana non aiuta certo il lettore a riacquistare l’equilibrio perduto, ma lo aiuta a render “leggeri” i propri passi, lo predispone –idealmente- ad una sorta di levitazione e, laddove non fosse possibile - laddove il lettore, per eccesso di insicurezza o incapacità nel “darsi” e nel “ricevere” non riesca a rendersi “leggero”- questo flusso, questa sorta di fluido benigno gli indicherà i punti precisi nei quali anche l’atto di sprofondare (del resto è pur sempre la nostra amata-odiata madre terra) può procurare un’enorme gratificazione.
Io penso che Manganelli sia al contempo cantastorie medievale e monaco amanuense.
Non a caso insieme a Calvino è uno dei pochi a dichiarare che metafora, linguaggio e stile sono i cardini essenziali d’ogni tipo di narrazione.
Non il “romanzo” ma il “libro”, non la descrizione ma la “drammatizzazione” della scrittura stessa, in tutte le sue accezioni e combinazioni.
Non bisogna ricomporre il puzzle ma ulteriormente smontarlo, scinderlo. moltiplicarlo.
Il tutto operando nelle pieghe della sintassi, nelle sfaccettature del senso, nelle fibre del “gioco”.
Perché è anche di “gioco” che si tratta.
Un gioco assunto a stile di vita.
E nel gioco manganelliano convivono un’inesauribile vena di positivo “sarcasmo” e la fine erudizione senza la quale il sarcasmo e l’ironia rischierebbero di sprofondare negli abissi della banalità.
In definitiva : erudito ma mai pesante, ironico ma mai banale, paradossale ma mai astruso.
Tutto nella vita può tramutarsi in letteratura.
Manganelli questo lo sapeva e per tale ragione arabescava lettere e parole in accostamenti considerati, nella migliore delle ipotesi, desueti se non impossibili.
Perché Manganelli è uno dei pochi scrittori ad aver “scritto” la scrittura.
E’ quindi utile!
Utile proprio nella dichiarata inutilità del suo girovagare tra innovazioni lessicali e improbabili paradigmi, nella dichiarata inutilità del suo danzare tra simulazioni verbali e menzogne linguistiche.
Ma quelli come me, che sono abituati a ricercare l’utilità (e la gratificazione cerebro-affine che ne consegue) proprio nei territori che il comune pensare bandisce nell’inutilità, non possono che trovare un senso d’impagabile rasseneramento quando “incontrano” scrittori di tale ingegno e levatura.
Nel superbo affresco della scrittura manganelliana, che non una sola volta ricopre ma tutta la basilica inonda, si agitano forze –uguali e contrarie- sempre pronte a fuggire in questa o quella direzione, per definirsi in voli-altri, in ascensioni-altre, in cadute-altre.
Ognuna di queste forze, naturalmente mutevole, sembra come danzare - felpata e leggera, quasi silfidea – alla ricerca dell’anima gemella, di un’altra forza –altrettanto miniata, minuziosamente arabescata- che possa ridefinirla, riplasmarla, che possa porla come “fulcro” dal quale ripartire.
Ognuna di queste forze è un artificio ( sia “fuoco” che espediente, beninteso) perennemente ricaricato da un acume sottile e scoppiettante.
Io vedo Manganelli come un novello Tantalo che ruba l’ambrosia agli dèi e la sparge, a piene mani, su ogni specie di varie e svariate disumanità attraverso la sontuosa eleganza e la suadente impalpabilità del suo lessico.
La letteratura è “immorale”, la letteratura è “cinica” : “ Corrotta, sa fingersi pietosa; splendidamente deforme impone la coerenza sadica della sintassi; irreale, ci offre finte e inonsumabili epifanie illusionistiche. Priva di sentimenti, li usa tutti. La sua coerenza nasce dall’assenza di sincerità. Quando getta via la propria anima trova il proprio destino” (G. Manganelli – “La letteratura come menzogna”).
E chiunque di noi perseveri in quest’insana abitudine di inchiostrare qualsiasi tipo di supporto cartaceo, è –allo stesso modo- immorale, cinico e corrotto.
Per finire, per farla finita, nulla è più pregnante del verbo dello stesso Manganelli, una breve citazione da “Encomio del tiranno” che , mi auguro, leggeremo insieme a voce alta : “... Forse è una buffoneria, anche questa, di perdersi nei capitoli; far confusione, di parole, di gesti, di destini, questa è stata sempre una qualità del buffone. Ad esempio, i pronomi. Io mi sono rivolto all’editore, al tiranno, al monarca con diversi e incompatibili pronomi; e se ora parlo a questo modo, peritoso e circonvoluto, è solo perché non vorrei dar l’idea che sto rivolgendomi appunto a costui; come usano i buffoni, io parlo all’aria. Ho usato il Lei; con la maiuscola, si intende; e in tal caso designavo non solo la distanza sociale, ma anche, o soprattutto, tentavo di ridurre tutto ad una sproporzione laica. E’ il momento in cui io, il tiranno –complemento oggetto- lo chiamo editore. Non è che editore non sia, ma che monta negargli la dignità monarchica, che dopo tutto è l’unica che possa garantirmi la funzione di buffone...”.
Mai “buffone” è stato più elegante.
Il buffone è morto.
Viva il buffone.


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