Poesie di Enzo Campi


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Futìlia
Nell'abluzione mattutina
di pregne lattescenze
necessariamente inacidite,
nei cunicoli sventrati
dello stizzirsi in iato
c'è come un febbrifugo baccello
che raspa
con unghia acuminata,
che graffa
con dente avvelenato
nell'urgenza
di predisporre l'homo
al nuovo giorno
da mortificare.

E lo sguardo,
allo specchio,
si spande in scherno,
e la bocca si virgola
nel rubefacere,
in florida, inesausta tinta d'ardore,
la nettezza
d'un anelito miasmatico.

Futìlia
dello spiombare
il peso del tormento,
del travagliarsi,
in peso e in misura,
in odore
d'un sospiro di sollievo,
del vano fatuare
il gioco dell'indulto
e dello stremarsi in crollo,
mendicando, in sogno,
l'artificio sollazzante
di uno qualsiasi
dei poemi dell'Edda.

Incosciente lavacro,
terribile simulacro
del perenne arranflare
sulle costole dell'inedia,
sempre attento
a mescere il giusto fluido
necessario
ad ogni utopica catarsi.

Il primo passo
è quello dell'insulto,
un chicco di laudano
nell'eroico vino del mattino,
per stordire la sete
di quell'alto irraggiungibile,
per placare l'arsura
del palato devastato.

E nello specchio
l'immagine si fa chiara,
c'è la Tiade neurostenica,
avvinta dal delirio,
che evoca,
nell'acqua della fonte,
un coro d'Oceanine
frustate a sangue
da un'orda di cerberi.

E l'ignavo auditore,
costretto alla gabella,
e a spendere di suo
per ricevere le stimmate,
è due volte gabbato
nel restare comunque fuori,
fuori dal gioco,
fuori dal massacro,
e fin'anche
l'indefesso poeta,
che trae sollievo
nel sollazzare il verso
in spirali d'ingegno,
non può che immolarsi
al peso del crollo.  

R. M. R.
Ciò che uso, forse,
è proprio quello di cui ho bisogno,
sia nel giorno
della celebrazione dell'uomo impuro,
sia nella notte
in cui estasi e crollo
si stagliano,
come ombre stilizzate e filiformi,
su quel disco di luce
che dà un senso alla tenebra.

Ciò che non mi viene permesso usare, forse,
è proprio quello di cui sento la mancanza,
sia in quell'immagine
che dal riflesso dello specchio
mi guarda e piange,
sia nel furore
di quello sguardo
che si scorge, a tratti,
tra i flutti,
nell'acqua della foce del destino.

Ciò che invece vorrei usare, forse,
è proprio quello di cui dovrei tacere,
sia nell'angelo
che comunque mi segue e m'accompagna
nel volo ascensionale,
sia nel demone
che dilacera il costato dall'interno,
raschiando, con lama affilata,
il diaframma ove si frange il respiro.

Ahimè,
non sarò mai così dolente,
se non nella supplica
all'angelo innamorato di se stesso,
nell'ali dispiegate
ove si riversa ogni inutile livore,
lo chiamerò a voce alta,
col suo vero nome,
quello che nessuno più ricorda,
Vesaele, dove sei?
sei forse a colloquio con Orfeo?

Sento le campane di un funerale
mescolarsi al clangore delle trombe,
riesco quasi a toccarle,
che cosa strana toccare il suono,
che cosa strana questo fluttuare, come seme,
nello spazio di un rumore,
sarò dunque degno di un suo cenno?

Ahimè,
non sarò mai così indolente,
se non nell'offesa
al demone che si frange nel calore,
nel fuoco ove l'ustione è il massimo piacere,
lo chiamerò con voce flebile e suadente,
col suo vero nome,
quello che nessuno osa ricordare,
Apolimene, perché sei ancora qui?
cosa vuoi da me che io non ti abbia già dato?

Vedo una fiammelle desueta,
al di là della roccia, di fianco all'antro,
ove staziona, come fiero guardiano,
il più ossuto dei titani,
per l'appunto una fiammella,
non vi sembra strano ?
in quel luogo ove è la vampa altisonante
a dettare le regole del gioco
c'è una piccola fiammella
e, per di più, inestinguibile,
cosa mi riserverà quindi il fato?

Eccola,
è lei, Euridice,
mi viene incontro e mi dice :
" suvvia, non angustiarti, Orfeo è già alla porta,
presto verrà e porrà fine al tuo tormento,
quanto a me, non importa, la verità è un'altra,
c'è un'altalena che mi aspetta nel supplizio,
e nell'eterna attesa dondolerò,
aspettando che lo smacco, nella notte, si conclami,
ma poi, cerca di capirmi,
io non sono sicura che adesso sia notte
e tutto questo fuoco
non aiuta l'esatto discernimento,
vai, Rainer, c'è Orfeo che ti aspetta,
tu che puoi, cerca di salvarti,
io, oramai,
sono febbre alta che travalica perfino il delirio,
vai Rainer, salvati"
(Dedicata a Rainer Maria Rilke)    

Tra la vita e la morte, alla luce di una stella
Poniamo che di notte ci sia una stella pronta a rischiarare il cammino
di un qualsiasi viandante perso nel labirinto del discernimento, intento
nel vagliare se sia più giusto seguire questo o quel sentiero, laddove il
primo conduce alla tenebra di una vita ingloriosa e il secondo, invece
alla luce di una morte gloriosa. Poniamo che la stella, in un eccesso di
longeva umanità, si conceda il lusso di rivolgersi ad un comune mortale
e che gli racconti di come, in una notte del passato, un altro viandante,
allo stesso modo arrovellato, si pose in postura desueta proprio al centro
di quel bivio rimuginando sul da farsi. Il viandante ascoltava, in silenzio
religioso e si riversò, di buon grado e con gran soddisfazione, in quella
voce, suadente e mansueta, che gli svelava, o almeno sperava che fosse
così, il segreto per scegliere la giusta via da perseguire. Fu così che la
stella continuò ricordandogli, ancora, quell'altro viandante che, in verità,
non si limitava al solo ascoltare, bensì poneva quelle domande che, nel
suo intento, avrebbero potuto risolvere il suo stesso divenire, sempre
partendo dall'idea che fosse solo una la strada da seguire. Qui la stella
pose il primo ostacolo apostrofando, con tono sommesso e delicato, che
il dire Uno quando si è di fronte al Due non è certo cosa da prendere
alla leggera, che la complessità dell'idea di una strada da seguire non
può essere svilita da una presunta unicità, solo perché la comune ragione
dominante vuole che sia l'Uno a dettare le regole del cammino. E il fatto
che la prima strada conduca alla vita e la seconda, invece, alla morte non
significa che la prima sia più dignitosa della seconda e che la morte sia,
in virtù di questo principio, il rovesciamento della vita. Fu così che il
viandante provò a fare una domanda: ma, se la mia vita, quella che finora
mi sono illuso di vivere, non è stata certo un gran diletto, si pensi solo al
costante dileggio che si indirizza, di solito, verso quelli che vestono i
panni del barbone e che sotto la luna, bevendo il vino della falsa carità,
si dilettano a disquisire dell'eterna rotazione di quel cosmo, ignoto e
indefinito e della circolarità del nostro cammino che continuamente si
morde la coda ripartendo sempre dal principio, se la mia vita, dicevo,
è stata sempre quella di dover combattere contro quella falsa umanità,
dal mattino fino a sera, giorno dopo giorno, per recuperare un tozzo di
pane raffermo con cui sfamare l'impossibilità di essere vivo, se la mia
vita si può definire alfine vera vita, allora, io mi chiedo, non sarà forse
più dignitosa la morte? La stella sorrise, rincuorata dal senno illuminato
del viandante e, rispondendo sempre in terza persona, come per ripetere
le stesse frasi che aveva già detto al primo viandante, nel caso si possa
ancora aver dei dubbi sul fatto che la storia comunque si ripete e ritorna,
sempre uguale nell'insana, straziante pratica di girare in eterno e in tondo,
continuò nel ricordare che, in un'altra notte, persa nell'eco del passato,
non uno ma ben due viandanti si posero dinanzi al bivio, incornandosi
a vicenda sull'idea che entrambe le strade fossero da definire in eguale
peso e misura e allo stesso modo dignitose, perché se in una ci si illudeva
di svilire la vita per l'appunto vivendola, nell'altra, invece, ci si illudeva
di vanificare la morte offrendosi come vittima sacrificale. Il viandante
non poté esimersi dal ribattere: che io sia una vittima questo è indubbio,
vuoi solo per il fatto che non c'è discernimento nell'abusare del proprio
potere contro chi, come me, non ha armi con cui difendersi se non quelle
di indirizzare il proprio canto, di notte, alla luna e di glorificare l'idea
di un pensiero e di un sentimento, e per questo sono sì vittima, ma solo
nella vita e non certo nella morte, per cui mi sovviene un dubbio, perché
devo offrirmi in sacrificio alla morte se sono già una vittima della vita?
La stella riconobbe, in lui, un certo talento nel porre le domande giuste
e cominciò a sperare in una pregnante risoluzione, per cui continuò nel
racconto di una quarta notte, ancor più remota, definitivamente persa nei
meandri del ricordo, quando i viandanti ovviamente erano tre, ugualmente
dibattuti dal fatto che ambedue le strade, nel bene e nel male, potessero
comunque condurre all'idea di un'eternità, perché, se il senno è quello
giusto, ciò che conta non è la risoluzione verso l'una, che può sembrare
lineare e diretta, o verso l'altra, che effettivamente si crede curvilinea
e contorta, ma solo l'idea che possa continuare ad esistere la possibilità
di porsi il problema e che, quindi, la vera risoluzione sta nel gioco o nel
giocarsi il gioco dell'attesa, nel lasciarsi cullare in quella sorta di limbo
dell'indolenza ed aspettare, con pazienza, che il tempo faccia il suo corso.
Il viandante inorridì e alzò le mani al cielo, come a dire: vade retro, io non
credo che sia questo l'approccio giusto! S'incamminò quindi, in assenza
di criterio, con passo spedito e inconsciamente, lungo la strada che pareva
più luminosa e che biforcava alla sua sinistra, borbottando: ma che storia
è mai questa, dopo cinquant'anni d'insani tormenti regalati ai marciapiedi
dell'indignazione e di tribolazioni relegate nei cartoni, laceri e consunti,
con cui ripararsi dal gelo dello sguardo, non posso certo credere che
l'unica risoluzione è quella di fermarsi, di notte, in questo bivio desolato
e continuare a sperare che un giorno qualcuno mi dica " chissà che non
sia proprio questo il tuo destino". E continuò, con passo risoluto e sciolto,
a marcare la sua disillusione sulla terra umida del sentiero che, invero,
diventava sempre più oscuro, tanto da impedire la visione di ciò che si
trovava solo pochi metri più avanti. Nell'inoltrarsi, a più non posso, in
quella sorta di buio inquietante, il viandante si scopriva sempre più solo
e abbandonato, in uno spazio sempre più vuoto e indefinito e che oramai
perdeva consistenza fin'anche nella stabilità del terreno che si dissolveva,
lento ed inesorabile, fino a sparire del tutto. Cosicché il nostro viandante
si trovò a camminare nel bel mezzo di un nulla, impalpabile e inquietante
e cominciò a chiedersi fino a quando potesse durare questo terribile e nuovo
supplizio apostrofando : se ero solo nella vita e se sono solo ancora adesso
in questo limbo sospeso all'interno della vita, forse era meglio esser solo
nell'anonimato di una folla brulicante e magari indignata che non l'esser
solo, adesso, in questa sorta di nulla inconsistente. E la stella, sempre quella,
sempre sazia e sorridente, continuava il suo racconto, rivolgendosi ad un
altro viandante che, nel frattempo, era sopraggiunto al bivio, dicendo che
dopo tanto filosofare sulla possibilità di un'impossibile comprensione del
mistero del disegno del destino, ci si rende conto che, in verità, il segreto
era già disvelato fin dall'inizio del percorso, la strada giusta è per l'appunto
solo una, unica e indiscussa, la strada giusta è sempre quella che, in uno
slancio di presunta presunzione, si ritiene sia sbagliata. Cosicché l'ultimo
viandante si sentì in dovere di fare una domanda: io non ho nessun riservo
nel credere che la strada giusta sia sempre e solo una, ma se nel momento
stesso in cui io mi orienti verso questa o quella direzione la mia scelta sarà
comunque quella sbagliata, ha dunque senso che io sia qui a porre la domanda?     

Di un'idea di vita e altre filosofie
navigai, in punta di piedi e per un attimo lungo come un sogno, tra la stella
che riluce solo se è sollecitata da un'idea e la stalla in cui la paglia non più
ripara da quel siberico filosofare che mette in dubbio il peso dell'ordine e il
grado della misura; al mio fianco incombe l'elegia di un vaso e l'ombra di
un vasaio, le cui mani, intinte nell'argilla, danno viso, corpo e lineamenti,
all'informe massa elementare che fluttua nel buco nero del firmamento e
dirige, per presunta saccenza aristotelica, la tripartizione in cui sfinire l'idea
della privazione; c'è anche l'asino, mi si creda, scalpitante in passo lento,
che catapulta il disincanto tolomeico come progressione aritmetica d'ogni
possibile divenire nel piatto assioma di un ordine precostituito, per cui la
sostanza, almeno così dicono in tanti, è una, unica e di sicuro indiscussa,
ma mi si conceda un tuffo in quel brodo primordiale e già macilento, ove,
incanti a parte, mi sovviene il rimando ad un'impossibile eresia, cercate di
capire, il gioco si fa altro e duro; nell'antro che si vorrebbe chiuso nel primo
pronome personale, magari per carenza d'aggettivi e mancanza di figure
arabescanti, c'è come un divieto d'accesso rivolto a tutti coloro che, come me,
cercano, per l'appunto, di deflorare, in un solo colpo e in solo giorno, la
verginità delle nuvole a mezzogiorno e l'ombelico dei limbi a mezzanotte,
laddove, mi s'intenda, il limbo è quel luogo sospeso ove fluttua il decorso
della ragione e l'ombelico, mi sembra ovvio, è la porta che si apre su quel
cunicolo, intriso di malia, ove il diaframma si nutre della linfa del midollo,
per cui, mi si permetta ancora di reiterare, in lungo e in largo, l'idea malsana
di questo lungo viaggio che pretende di dare il tu all'infinito, che vorrebbe
un maestrale a gonfiare le proprie vele; questo dire, in verità, sfibra e stanca,
perché mette in discussione la tranquillità di chi si sente rassicurato dall'altrui
eletione, e vedo già il pipistrello che, volando in cecità, si frange contro
l'albero e si offre in pasto all'avvoltoio, per cui sono costretto ad invocare
il ritorno di Sofia, cerchiamo d'esser chiari : è già da tempo, oramai, che non
tesse più quel Filo che riconduce Sofo alla luce del sole; non mi stancherò mai
di dirlo, la luce è causa primigenia, generazione di un'idea che non si esaurisce
nel tepore e si fionda, come sasso scagliato dallo sdegno dell'incomprensione,
nel senno, malato e roso dall'invidia, d'ogni deleteria inquisizione; pensate
alla materia che dal ventre di una donna si dipana in tenui respiri di silenzio e
ingordigie di placenta, pensate alla nuova vita che si plasma, poco a poco,
senza ingiuria e senza inganno, questa donna non è forse paragonabile all'arte
del vasaio di cui prima ho decantato il tocco? pensate a quel filosofo come
artefice d'un aspra ligatura indispensabile ad ogni possibile discernimento
della teoria del disegno universale, pensate all'amore per l'amore, pensate alla
linea dell'orizzonte, oltre la quale l'ignoto, finalmente disvelato, diviene noto
pensate questo,
pensate altro,
pensate oltre
(dedicata a Giordano Bruno)          

"spleen"


(I)

Ricordi Théophile,
com'eri tenebroso
a quel tempo
in cui leggevamo,
al chiar di luna,
nell'inverno freddo della Bretagna,
quella romanza d'altri tempi
che cantava l'insano senno del potere ?
Oggi invece guardiamo
questo triangolo rovesciato,
questa piramide
che deflora le viscere
della nostra stessa madre,
nell'idea alchemica
d'una presunta trasmutazione
volta a dare aureo lustro
a tutti gli elementi.
Ho spalancato il baule
in cui ho rinchiuso il dolore
e anche tu,
nell'angolo più nascosto della soffitta,
hai un'urna da aprire.
Cosa aspetti ?
Fu allora che, finalmente,decidesti di parlare :

"Voglio cibarmi
della polvere dei tuoi rimpianti
nel cimitero dove riposa la tua ombra.
Non c'è enigma nella Sfinge,
l'oracolo delfico ha predetto la mia rivalsa.
Sento già la calda mano dello spirito
palpare il mio ventre.
Se mai diverrò un principe
tu resterai il mio re.
Se mai mi trasmuterò in un diapason
tu resterai, per sempre, il mio la.
Non conosco altro mezzo
per accordare le corde del mio pensiero."


Una stanza vuota e disadorna, tutti i libri del pensiero illuminante
piazzati contro le pareti, disposti a pile sul pavimento di marmo
pregiato appena levigato dalle mani pazienti di un umile artigiano.
Al centro un dignitoso scrittoio in legno di mogano venato d'ametista
e di porpora, dove si confondevano, tra i libri di Poe e i miei appunti,
un fiore marcio, una bottiglia rovesciata, il manoscritto de l'epigraphe
pour un livre condamné, due calamai d'inchiostro manicheo e tutta
una serie di pennini amanuensi forgiati in leghe d'ottone e bronzo.
Quattro vetrate iridescenti, come quelle delle chiese, in cinque strati di
cristalli digradanti e sovrapposti, rendono la luce diversa e variegata
nei colori che invadono il centro della stanza, cosicché, da seduto, la mia
schiena è avvolta da un alone vermiglio in controluce e il capo sembra
disegnato nel bel mezzo di un'aureola che ricorda un santo imbonitore.
Dai due lati, invece, sono investito, a sinistra dall'indaco intenso del cielo
di Digione e a destra dal tramonto ambrato che si staglia sull'oceano.
Restano solo il mio sguardo, il mio torace e il mio ventre che si tingono
di un verde cupo simile al colore dell'assenzio appena distillato, bevuto
puro e non ancora edulcorato, una stanza piena quindi, variamente ornata
di tutto quello che un giorno ho amato e che ancora adesso riluce e vibra.
Dalla porta si entra nell'altra stanza, dove spicca un bagno improvvisato,
in bella vista, alla sinistra del letto a catafalco ove alternare, in sogno,
i corpi di tutte le mie donne, Sarah, l'ebrea e Jeanne, la mulatta, Marie,
l'attrice e Apollonia, la "présidente", e magari anche tutte le altre che non ho
ancora conosciuto o a cui, da ebbro e da sobrio, non mi sono mai dichiarato.
Che triste destino, quello di non essere compreso, il rifiuto dell'Accademia,
questa sifilide che mi tormenta, i creditori che non mi danno pace, che triste
destino, quest'esilio da "volontario" in terra belga, dove un nutrito popolo
di squallidi imitatori sopravvive, nella grettezza, all'ombra della Francia.
Mi sembra proprio il posto giusto per porre fine alle mie pene ed esalare
l'ultimo respiro che qualcuno, tra gli stolti, definisce saturo d'acquavite,
pensando così di recare offesa ad una mente che è già oltre il senso della vita.

Navigo nei flutti della solitudine,
dispiego a larghi tratti,
sui fogli pergamenati
ricevuti in dono da Banville,
parole oblunghe,
in corpi astrusi,
quasi giganteschi,
tanto che una pagina
riesce a contenere una sola strofa.
Un'altra volta ancora,
da solo,
nella lotta contro il tempo
che -inesorabilmente- avanza
e detta le regole della sua misurazione.
Giorno e notte,
in ore uguali di luce e buio,
l'eterna monotonia,
l'abisso della noia.

La clessidra,
in una rivolta improvvisa,
non lascia scorrere la sabbia,
che sia un segno del destino ?
Non so se darmi in pasto
pubblicando
i miei canti sui giornali
o invece dedicarmi alle riviste letterarie.
Il Parnassismo oramai è un mito,
il vero testimone del nostro tempo,
un ponte filosofico
che collega
la voce del passato alle sentenze dei posteri.
Ma io sono già oltre.
E poi è tutto così relativo.
Il mese scorso sono andato al Louvre
con Louise,
che strana esperienza,
lei, una puttana da due soldi,
che ha conosciuto ogni variante d'uomo,
arrossiva e si vergognava
alla vista di quadri e statue.
E' più innocente e degno di rispetto
il popolino
o devo indirizzare i miei interessi
ai soli letterati ?
Io sono alto e al contempo basso.
Voglio essere libero di poter dire : "Addio!"
E poi, magari, il giorno dopo,
cambiare idea
e rituffarmi nell'abisso della vita.
Ho sentito parlare di un francese,
nato a Montevideo,
che si fa chiamare comte de Lautréamont
e che legge in pubblico,
nei licei di Pau e di Tarbes,
le mie traduzioni di Edgar Poe.
Uno di questi giorni devo scrivergli una lettera.
Chiederò a Théophile di procurarmi l'indirizzo.

(II)

C'era un buffone che danzava,
sgraziato,
nel palazzo di un piccolo feudo di provincia,
in una terra,
poco lontana da Bordeaux,
dimenticata dagli uomini e dal dio.
Era costretto ad inarcarsi
nelle posture più buffe e ardite
perché aveva perso il dono della voce
a causa della boria e della presunzione
di un ospite illustre,
il quale,
alla prima satira,
si sentì offeso
a tal punto
di tagliargli la lingua
con un solo colpo di sciabola.
Ridotto quindi a bestia,
disarticolava il corpo
nello sguardo inalberato
di chi pregusta
il piatto freddo della vendetta.
Che triste destino,
un giullare privo di favella.
Non poteva più cantare,
alle serve del palazzo,
i suoi versi d'amore.
Lasciò il suo signore
in un giorno d'inverno
e si recò
sulle montagne del confine ispanico
per forzare la mano del destino.
Scagliò
una freccia arroventata
dall'arco della vendetta
e trafisse il petto
di quel despota ingiurioso e sadico.
Da quel giorno,
in terra di Francia,
ci fu un Marchese in meno
e un giullare triste in più.

Ma c'è ancora tempo per scrivere, per imbrattare questi fogli col mio umore
pestilenziale o per rivangare i fasti del passato, quei giorni in cui nello spleen
si alternavano le tinte fosche e amene del pensiero dibattuto dal rovello filosofico
e dalla voglia innata delle grazie di una donna in cui riversare ogni malata specie
d'ottimismo metafisico, quella contemplazione esaltata dell'insoddisfazione
che già Schopenhauer aveva sufficientemente cantato come unico stile di vita.
Ma non una donna qualsiasi, gentile nei lineamenti, affabile e ben vestita,
io volevo un'ape regina capace di cibarsi del maschio, una mantide d'alto rango edotta
nell'arte del pensiero, capace di suggere, a piene labbra, ogni essenza metafisica
direttamente dall'occhio, dall'orecchio, dal capezzolo, dal fallo e dall'ombelico.
Il suo nome era Apollonia, ho scritto per lei lettere e poesie, innalzandola a
madonna e vestale dei miei pensieri d'amore e non mi vergogno nell'affermarlo.
Se la cosa più alta è lo spirito, e così è stato da Talete a Racine, tutto ciò che è
volgare e ignorante non è degno di considerazione e non può svilire il pensiero
di chi cerca, fin'anche nelle labbra, l'altezza e la gravità del lume dell'intelletto.
E la donna, quella vera, travalica ogni preconcetto, si pone al di sopra dell'ingiuria,
dalle locande ai palazzi regali, dalle umili case dei contadini ai monasteri di clausura,
in ognuno dei luoghi ove dimora e dispiega le sue arti, ella, in un certo senso, si offre
e si prostituisce : ai viandanti di passaggio, ai nobili e ai letterati, al marito e, infine,
anche al dio, perché chi riversa il proprio corpanima in un altra essenza si fa pregno
del segreto della vita, mette in campo l'umiltà della condivisione nel gioco dell'amore.
Queste donne non svuotano la borsa dal vil denaro, non pretendono compensi,
vogliono solo essere vive e raccogliere un uomo sotto la propria ala protettrice .
Sotto la mia ala, invece, cosa c'é ? Sotto l'ombra della mia ala ci sono solo scarti
residuali di quel che un giorno sono stato, di quel che adesso sono e di quel che
un giorno, forse, sarò, solo parti di me, quindi, parti che crollano in caduta libera.
Sotto la mia ala ci si può cibare solo d'essenze che attraverso l'inoppugnabile
"presenza" della caduta si sono trasmutate in "assenze" irreversibili, che magari
sono poi principio e cardine d'ogni tipo di scrittura illuminante, l'unico verbo
che si proietta, in strali luminosi e fiammeggianti, aldilà della coltre dell'infinito.
In linea di massima non vorrei esseri, umani o disumani che siano, sotto la mia ala,
perché io produco scarti, ernie, strozzature e non voglio ch'esse si trasmutino in un
pasto qualunque : cibarsi d'uno scarto significa farla finita, definitivamente, con esso.
E per far sì che ciò avvenga bisogna che il commensale sappia a cosa va incontro.
Non può limitarsi alla deglutizione e alla masticazione, il commensale deve mutarsi
in "Fenice" e deve riplasmare lo scarto in una nuova protesi, in un nuovo scarto
da dare in pasto ad altri commensali, e anche questi ultimi devono essere educati,
devono capire che sotto la mia ala non c'è protezione alcuna, sotto la mia ala c'è
l'impossibilità di finire, non sono io il primo a dirlo : nulla svanisce, tutto si ricrea!
Ogni uomo è debole e indifeso, cerca nella donna non solo l'amante di una notte
ma anche la madre che lo possa accudire e guidare lungo il sentiero tortuoso, che
possa sedersi al pasto dei commensali e predisporre l'ordine delle portate, affinché
tutti possano cibarsi, in egual peso e misura, di questo maschio malato che si offre.

Stanotte Danielle si è uccisa nella mia stanza,
si è tolta la vita,
dopo aver fatto l'amore,
piantandosi un coltello nel petto.
L'anima del vino o il vino dell'anima ?
L'oppio del silenzio o il silenzio dell'oppio ?
Nettare pregiato di terre feconde
e semi navigati di un fiore esotico :
c'è gloria nell'osare l'incesto !
E se il dolore persiste
c'è sempre l'etere da mescolare all'assenzio.
Una magia !
Gloria della psiche liberata !
Sale al cervello
e crolla nel diaframma.
Pazzo di sole, folle di luna, ebbro di cielo,
mi cospargo il corpo di mosto
e mi rotolo
sulle lenzuola madide di sperma e sangue.
I lineamenti del mio viso
penetrano il tessuto
e disegnano una sindone blasfema.
Adesso sì che posso scrivere.
Ma ho bisogno di un inchiostro speciale
che possa vivere sulla tela indurita.
Sangue di maiale, forse.
Se avessi il coraggio di tagliarmi il costato
potrei usare il mio sangue
per intingere la punta del lapis.
Ma non sono così avanti.
C'è in me ancora qualche briciola
di autoconservazione.
Potrei usare il sangue di Danielle
prima che diventi un duro grumo.
Ma nessuno potrebbe mai comprendere
questo gesto insano.
Magari scrivo solo tre parole
in ricordo di questa povera donna,
puttana e martire,
che troppo ha osato
nel mescolare
vino, etere, oppio e assenzio
col sesso sfrenato
di un degenerato illuminato.
Per l'appunto tre parole :
Danielle, donna, martire !

(III)

Brulica un'edera rampicante
nei meandri del cervello,
sembra dire :
guarda che il poeta è morto !
Io giuro di essere innocente,
io spergiuro di essere colpevole !
Son forse io l'innovatore
che ha messo a morte il passatismo ?
Speranza di vita,
un fiore da gustare sul palato.
Voluttà dell'atto
con cui ci si ciba del petalo.
Velo impalpabile
di mutande raffinate,
certo, perché no ?
Anche le puttane hanno la loro dignità.
Più di certe signore da salotto,
a dire la verità.
Talvolta mi penso come scultore
che scolpisce il tratto della Bellezza.
Il popolo urla sdegnato :
a morte l'artista !
Solo perché sogno e vivo la tenebra.
Solo perché coltivo e frequento l'abisso.
La libido del dolore
che si consegna all'Eterno.
Un eroe immortale come Gilgamesh.
Ma sarebbe più pregnante, dicono,
un antieroe,
almeno nell'ignoranza collettiva.
Un Amleto che trova alfine
il coraggio
di compiere la sua vendetta.
Un Faust che si ravvede
e ascende al paradiso.
Perché,
cerchiamo di capirci,
l'antieroe è quello che compie
il gesto glorioso della rivalsa
e pensa così di essere nel giusto,
in poche parole :
si rimette in carreggiata,
ridiventa un vero uomo.
Il vero eroe invece è quello che coltiva
la sua parabola discenditiva,
che si culla nell'abisso
e crolla,
sempre più in basso,
fino al centro della terra
e ancora oltre,
sverginando ogni strato,
per rinascere
albero e totem
al polo opposto.
E se l'eroe dei nostri tempi,
anche se vilipeso ed oltraggiato,
è un totem,
ebbene,
terra amara di Francia :
io sono il tuo eroe !


Ricordo quando vivevo all'Hotel Pimodan, nella sede del Club des Haschischins,
mi alzai un giorno di buon mattino, a dire il vero non era nei miei costumi farlo,
ma provenivo da una notte solitaria e da una serata insolitamente sobria, scesi le
scale di gran furia ed incontrai, dopo pochi passi, il fornaio, che per me e pochi
altri fortunati, cuoceva un pane ondeggiante, quasi fluido, morbido e soffice come
i seni cadenti e malleabili di una sessantenne in piena menopausa, lo cuoceva
con braci di legno di castagno in un piccolo forno italico in pietre di tufo vulcanico.
Mai assaggiato niente di più prezioso, era quasi un peccato imbastardirlo con carni
stagionate dei maiali di Normandia, con formaggi, seppur pregiati, dell'entroterra
e delle colline dell'Alsazia o con verdure degli orti della Charente, andava mangiato
nudo, puro e assoluto, con religiosità e devozione, quasi fosse un rito sacro, conosciuto
solo da qualche dio e dai pochi, illuminati adepti della congregatio parnassiana.
Il fornaio, sfoderando uno dei suoi proverbiali sorrisi, mi chiese se avevo già letto
il giornale del mattino che recensiva, nella pagina delle arti, una mia breve poesia.
Io risposi che ero appena uscito di casa e non avevo ancora trovato il tempo per
recarmi all'edicola, ma dopo questa notizia, avrei provveduto al più presto.
"Maestro", mi disse, "mi raccomando, domattina voglio sapere qual'è la vostra
opinione in merito; è il suo giudizio quello che conta e non certo il parere buttato
in due righe da uno scribacchino che si crede il "letterato" del giornale popolare ".
Lo salutai, passai dall'edicola di Maurice in Rue Saint-Jacques e mi recai al solito
Café des Artistes, dove presi posto, sotto una tettoia,in attesa di Nerval e Balzac.
Un morbido croissant e un caffè lungo, naturalmente corretto con grappa di mirtillo.
Lessi la recensione : "Baudelaire è, oggi, la voce più alta e degna del parnassismo".
Certo, son d'accordo, ma il mio è un livello altro, sono già oltre la pura bellezza.
Non me ne resi conto ma il mio pensiero si manifestava a voce alta e un trombone, alle
mie spalle, continuò : "Charles è un dio che si è concesso il lusso di soffrire su questa
terra d'ignoranti, ma -che sia ben chiaro- anche Gerard è oltre il comune pensare ".
Era Nerval, anch'egli, stranamente, già in piedi, si sistemò alla mia sinistra, forse
perché è a sinistra che si collocano, per abitudine iconografica, il male e i suoi demoni.
Gerard diceva che il male era in lui e non poteva fare a meno di cantarlo ed encomiarlo.
Una sacrosanta lezione di vita letteraria, sono sicuro che anche Gautier sarebbe d'accordo.

Ah!
Il paradiso artificiale,
l'oppio per lenire il dolore,
l'assenzio per alleggerire l'animo
e una donna per curare il cuore.
Il vizio !
Pura bellezza del piacere.
Anassimene voleva l'Aria come principio della vita,
per questo stanotte si festeggia al Pimodan,
in una riunione straordinaria
di piccoli, grandi poeti,
che fumeranno il dolore della filosofia
e il tormento della ragione.
Talete invece pretendeva l'Acqua.
A quei tempi,
forse,
non conoscevano il segreto del processo
che distilla
i frutti della natura
in nettare divino
che inebria i sensi
e intorpidisce l'arto
destinato alla procreazione.
Ma noi non vogliamo figli
su cui sfogare le nostre repressioni.
Meglio un rene malato
e l'inibizione dello sperma.
C'è gente che si ostina
a procreare orde di infelici.
Con che coraggio ?
Come si può essere così incoscienti ?
Aspiriamo a pieni polmoni
quest'aria rarefatta
e dettiamo,
a voce alta,
i poemi d'ogni possibile divenire.
E' questo il nostro motto !

(IV)

C'è l'infinito
e forse
anche l'Eterno
a dettare le regole
-ammesso che regole ci siano-
di quest'urgenza
del poetare
passioni e depressioni.
C'è un silenzio,
oscuro, abbrutito, amaro,
ad accompagnare
il salto verso l'Ignoto.
C'è una virtù negata
a rendere inglorioso
ogni crollo lussurioso.
C'è una morale abiurata
che vanifica
ogni preconcetto lessicale e letterario.
C'è l'eterno ritorno
dell'uomo nel suo ego
per ristabilire
-una volta per tutte-
l'ordine delle cose.
Voglio
la dinamica della disamina !
Voglio disaminare
la dinamica del Crollo.
Non sono borghese,
non sono mai stato un dandy,
almeno non nel senso
che voi date a questa parola.
Voglio il culto del malinteso,
del fin troppo frainteso,
della disgrazia a più non posso.
Questo perché rifuggo ogni tipo di grazia.
Non ho bisogno del perdono.
Sono un fervido peccatore.
Il passato non esiste
e il nuovo sono io !
Non sono un mediocre
e molti di voi lo hanno già compreso.

Musica.
Presto !
Musica per un uomo che ha peccato !
Musica per una donna che cerca il peccato nell'uomo !
Musica.
Presto !
Musica per un professore di greco
che non riconosce la differenza tra Socrate e Platone.
Musica.
Presto !
Una fanfara militare
che svilisce ogni ribellione.
Musica.
Presto !
Una sinfonia germanica
che possa celebrare il rito dell'equinozio.
Musica.
Presto !
Un clangore di trombe angeliche
che dall'eden crolla,
in caduta libera,
giù fino all'Acheronte.
Musica.
Presto !
I tamburi del lamento,
che, ebbri di ritmo,
cantano il supplizio.

Voglio un poeta guerriero
che sia capace di offendere
col colpo di spada !
Voglio Charles Baudelaire !
Voglio me stesso !


Nei miei salon ho detto che l'estetica è, in un certo senso, una negazione che si offre
in pasto al divenire; è di sicuro regressa perché premeditata e consapevole, ma spesso
si siede sugli allori - anche se presunti e non ancora dimostrati- e pensa di essere pregna
di una realtà altra che travalica la mimesi sconfinando nella pura poesia e nella forma,
una rappresentazione dell'intimità dell'animo che si dipana attraverso il gioco fuorviante
delle opposizioni tra contrazioni e dilatazioni, quasi un ditirambo, una breve e una lunga,
alternate da figure e da metafore, composte e decomposte, in parole ornate, arabescate,
volte alla ricerca del contesto e dello stile, del linguaggio, cosiddetto novo e desueto.
L'estetica si nutre del traslato e della violazione del comune senso letterario, del tornio
che leviga e ricostruisce, del significante avvinto da un'eterna mutazione, del non detto
eppur pensato, del non manifestato eppur presente, del punto di fuga e della protesi.
Ma col pensiero, adesso, volo nelle cosce di Louchette, quella sì che era estetica, un corpo
bianco, lattiginoso, straordinariamente pulito e profumato, una statua plasmata dallo scalpello
di Michelangelo, una venere affrescata da Botticelli, mai visto niente di più femminile.
Ci sono gambe di egual fattura, foggia e curve, anch'esse nude e scintillanti,
negli affreschi di Pompei, sembrano intarsi d'alabastro levigato scolpiti in marmi pregiati di Carrara.
E non bastano un profumo della Persia e la maschera di bronzo che Sofocle faceva indossare
ad Antigone, non bastano una ballata di Villlon o il manoscritto autografato della Poetica di
Aristotele, non bastano Lola di Valenza e l'amicizia illuminate con Nerval, l'ennui è alle
porte, reclama il suo posto che gli spetta di diritto negli anfratti del pensiero indolente.
Uno stanco cupido scaglia le sue frecce che si perdono nell'aria e non riescono a raggiungere
nessun bersaglio, nessun cuore è disposto a farsi colpire, non ci sono più passioni da svelare.
Sembrano così lontani quei giorni beffardi in cui mi perdevo in quel gioco spinto dall'audacia
giovanile, ah! sospirata goliardia, mossa dall'urgenza della satira, "Corsaire-Satan", una sana
ventata d'inchiostro liberato sui colletti bianchi, freddi, consunti e inamidati dei retori del passato.

Nostra signora dell'estetica.
Nostra signora dei bassifondi e dell'argot.
Ho sognato un uomo,
calvo,
dicono fosse ladro e omossessuale.
Alcuni lo chiamavano Jean, altri Mignon.
C'è chi lo confondeva con Divine o con Mimosa.
La mia signora dell'estetica
era divenuta,
nel sogno,
nostra signora dei Fiori.
Non Nirvana,
solo Levana,
la dèa che veglia la nascita.
Jean, come Levana,
cullava il seme
prima ch'esso diventasse un fiore.
Appena distoglieva lo sguardo
il fiore appassiva e si spegneva.
Così Divine morì,
poco dopo essere nata,
per la prima volta,
in quel café
che scintillava
della sua luce riflessa.
E Jean,
nei panni di MIgnon,
presenziava il funerale.
Ma questa è un'altra storia.
Solo un sogno.
O forse una premonizione.
Se la donna è belga
di sicuro è una madonna.
Non si può certo additarla come puttana
perché il suo frutto
è nato senza sesso.
E se il suo uomo
non le inonda,
col seme,
il ventre,
a ragion veduta,
possiamo additarlo come impotente.
Inibito a procreare.
Inibito a creare.
Insulso, zotico, ignorante.
Non conosce nessun'arte.
Pensate forse ch'egli
sia capace di scrivere,
di mettere su carta
il lume della ragione
e il tormento esistenziale ?
No !
E volete sapere il perché ?
Perché è proprio lui la vera signora,
nostra signora dell'inutilità !

(V)

La speranza
è un suono di flauto
spezzato a tratti
dal battito d'ali
del novello Icaro
che pretende la sua stessa caduta
come atto ultimo e definitivo.
Suona in lontananza
una campana
nella pianura
dove è già pronto
il tumulo della stupidità.
Ma perché Dedalo è d'accordo ?
De profundis
speranza abortita
non trovo la fonte dell'angoscia.
Appeso per i piedi
al soffitto
costretto a penzolare
nell'implacabile destino.
Una ragnatela
avvolge le caviglie
e il ragno
tesse con pazienza
la sua sete di potere.
Cade il silenzio
e si protrae per ben tre ore.
Finalmente il ragno
ha raggiunto il suo scopo
e mortifica il fallo rattrappito.
Lacrime d'oboe
risuonano nell'aria
sembrano dire
taci e soffri
questo è il tuo supplizio.
Sei un degenerato !
Dov'è l'acquavite
in cui annegare il dolore ?
Perché nessuno più distilla
la grappa
dalle bacche rosse e gialle del solstizio ?
Degenerato ? Io ?
Sono solo dibattuto
in questa morale saltellante
in quest'etica traballante
che si divide
eternamente
tra il gusto
per l'oltraggio
al comune senso del pudore
e il disgusto
per tutto ciò
che c'è di futile e consueto
sia nella vita che nelle lettere.

Ho parlato di Parigi come di una gran puttana che offre inferni a profusione, cibo grasso, tette
sfatte e loschi assassini, perfino signori, alti dignitari e finti nobili, in mutande di velluto,
che dispensano zecche a buon mercato. Ci sono anche letterati, stinti e avvinazzati, che inneggiano
uno spleen d'oppio e di perdizione senza più sapere cos'è il pensiero e dove risiede la ragione.
E' quindi malata e morente quella musa che si librava nella notte parigina, sulle rive della Senna.
Dicono che vive ancora nell'isola di Saint-Louis, là dove io l'ho lasciata, sola, al suo supplizio,
alla voluttà del tormento che ricade, con colpo di falce accuminata, sul mio stesso corpo oramai
dilacerato e consunto, sfinito dalla sifilide che avanza, assuefatto dai piaceri e dai dolori.
Vorrei poter ancora scatenare l'invidia dello scribacchino e del professore di latino, vorrei poter
ancora incarnarmi nel grande Manitù e calpestare, con la fierezza di un bisonte, selvaggio e sacro,
la prateria dove si perde ogni ragione e si svelano i segreti dell'essenza, vorrei poter ancora essere
un diamante, puro e iridescente,divelto dal costato dell'abisso sudafricano, per lacerare con la
punta della mia lussuria il ventre di una ninfa sulla corolla gigantesca di un fiore tropicale, vorrei
poter ancora avere il privilegio di scavare la mia fossa per adagiarmi a cielo aperto come pasto
prelibato per corvi ed avvoltoi, vorrei poter ancora cantare le carezze lievi che Delfina lanciava
sul corpo di Ippolita come summa atheologica della pura Bellezza e della fragilità della dolcezza,
vorrei poter ancora bagnarmi nel Lete, nel fiume dell'oblio, non da morto ma da morente,
non per dimenticare ma per rinverdire il passato, rovesciando così, ancora una volta e per sempre,
l'assioma che lega l'idea del divenire al pregiudizio del passato,
vorrei poter ancora scrivere, a quattro mani con Théophile, i manifesti dell'Arte-per-l'Arte,
della liberazione da ogni condizionamento dell'etica lessicale,
vorrei poter ancora bere la cicuta e benedire Socrate, che in un estremo atto di coraggio,
disse : qui non c'è posto per me, ma ricordatevi che l'anima è immortale, questa è la mia salvezza!
Ma la voce della governante, stridula e chiassosa, si leva alta dalla tromba delle scale, si lo so,
è tardi, è ora di andare, una donna del luogo, una delle tante, falsamente pudica nel porsi al giudizio
della comunità, invero assai sfrontata nel privato, mi ha convinto ad accompagnarla nella chiesa di Saint-Loup,
del resto è domenica e bisogna officiare il proprio dio, chissà che non mi redima una volta per tutte o che, invece,
accada qualcosa di magico, misterioso e fin'anche irreparabile che possa risparmiarmi
l'ennesimo supplizio d'essere giudicato dalla gente perbene e dal loro dio.
15 Marzo 1866 - Namur- Belgio.


Tra il 1864 e il 1866, Charles Baudelaire, vive quasi esclusivamente in Belgio, in una sorta di esilio
indotto da varie ragioni, non ultima la sua salute oramai precaria.
Il 15 Marzo del 1866 nella chiesa di Saint-Loup, cade in terra in preda ad un attacco di paralisi e d'afasia.
La madre, il 2Luglio lo fa riportare in Francia.
La paralisi progredisce lentamente e Baudelaire perde l'uso della parola.
Il 31 Agosto del 1867 muore all'età di 46 anni.


Una leggenda orale,
che circola ancora tra congregatio di poeti e letterati,
narra che,
nel 1867,
un mese prima che Charles morisse,
si riunissero,
al suo capezzale,
i vecchi amici di un tempo
a cui si era aggiunto Isidore Lucien Ducasse detto anche comte de Lautréamont,
che,
di ritorno dall'ennesimo viaggio a Montevideo,
volle conoscere quell'uomo che aveva reso celebre,
in Francia,
la magia di Edgar Poe.
Isidore regalò a quel poeta,
grande e insuperabile,
un manoscritto de Les Chants de Maldoror.
Sulla prima pagina c'era una dedica originale che recitava :
"Questa è la voce dell'abisso".
Fu l'ultima lettura a cui si dedicò l'ancor lucido ma oramai morente Baudelaire.
     

Di cosa mi sfamerò ?
Di cosa mi sfamerò ?
Di una canna di fucile puntata sul torace
o dell'idea di essere io stesso un Parnassiano ?

Potrei cantare del muschio brulicante nelle mie narici
o dei licheni che tormentano il costato
insinuandosi a spirale dal fallo all'ombelico.
Potrei dormire il sonno dell'impuro,
acquattato in calde cosce,
alla fioca luce dei lampioni,
sulla rive gauche del fiume infernale.
Potrei nuotare con le arpie
nel lago dell'orrore, in terra di Normandia,
e guardare i fauni
inarcarsi nei loro giochi d'amore e di violenza.
Ma nessuno comprenderà l'altezza del declino,
nessuno mi seguirà nella parabola della caduta.

E' una cosa dolce e amara quest'offendere la Bellezza,
una cosa segreta, di cui non dovrei parlare.
Solo scrivere, forse è questo il segreto.

Si, sono io !
L'uomo che coltiva la sua penna
sulle pianure dell'oltreragione.
Sono qui seduto
nell'attesa che Paul mi mandi un segno,
il mio scrittoio è sporco di china,
Paul, perché non mi rispondi ?
Perché nel vizio del sacrilegio
la lussuria non contempla la Bellezza ?

Sono circondato da mosche,
il mio braccio è tornito
in rivoli di sangue raggrumito,
di notte
una donna mi offre il suo gomito
e mi cibo della cartilagine ch'avvolge l'osso.
Rayon de lumière, dove sei ?

Voglio un senso nuovo : il senso della tortura !
Così dissi - ebbro d'acquavite-
in un pubblico comizio,
in una bettola fumosa
tra scaricatori di porto, puttane e soldati,
poi una voce dal fondo : in ogni veleno c'è un fiore !
Nessuno si voltò,
ma io vidi una visione bianca e luminescente
sedersi al mio tavolo.
Con la mano -in un gesto da regina-
prese il libro da cui leggevo la tortura del tormento
e proferì a voce alta :

passion de sang, la brume, l'idolatrie,
les apothéoses d'encre assassin, banlieue du délire
le sable du sacrilège, prostitution de la prière

fleurs, s'il vous plait...
fleurs !

Cosa volete che vi dica ?
Che la mia lingua non è più vergine ?
Muovo il passo, scalzo, in direzione del tormento,
mi scrollo di dosso la polvere ammuffita
di chi - prima di me - ha già cantato
il senno inalberato degli amanti dell'oltraggio.
Cosa volete che vi dica ?
Che, talvolta, in sogno,
mi ungo col burro dei miei avi ?

Si, sono io !
L'uomo che rifiuta il bacio della Bellezza.

Mi riparo con uno scudo dagli assalti della gloria,
mi difendo con la penna dagli assalti della natura,
per questo ho scritto
che il poeta è il più tremendo
tra tutti quelli che si dilettano a rubare il fuoco.
Anche Prometeo, nell'animo, era un poeta,
per questo rubò il fuoco a Giove.
A parte i greci e Racine, cosa ci resta ?
Charles era un dio, Paul è oltre la ragione,
ma l'unico veggente son forse io ?

Cosa volete che vi dica ?
Che curo le infezioni
con mescite di puro assenzio ?

Ma che sia ben chiaro
L'unico verbo
-già franto nell'alchimia necessaria al lume-
che io sotterro, con le mani emaciate e nude,
nel fango dell'indolenza,
è quello che io stesso,
Arthur Rimbaud,
ho riversato
sulle piaghe dei miei piedi doloranti.

Cosa volete che vi dica ?
Che mi offro con le mani tese,
nelle locande più infime,
come maestro d'ira e d'eresia ?

Quando mi chiedono il perché dei miei viaggi
io rido di loro
perché la terra d'oltreconfine non è stata ancora inventata
e tocca a me crearla sul barcone ebbro e basculante
che placido scorre nelle acque dell'urgenza,
tocca a me affrescarla, in terra di barbari,
al cospetto dei miei avi sanguinolenti,
riuniti intorno al fuoco del massacro,
tocca a me forgiarla, nel limbo dell'altrove,
ad oriente d'ogni verità, dove i tratti somatici
assomigliano così tanto alla natura
da rendere indiscernibile ogni differenza.

Per questo mi consumo !

Sopra il mio capo si levano e planano
quei versi docili e ondeggianti
che risucchiano l'eterno divenire
con la sola forza delle pupille spalancate e assatanate.
Dove sei ?
Perché non rispondi alle mie lettere ?
Non posso credere
che tu non voglia sapere niente di me,
della mia salute, del mio tormento.

Se avessi il coraggio di piangere in pubblico
forse riuscirei a far comprendere il colore delle vocali
e il calore della danza del supplizio.
Se avessi il coraggio di tagliarmi la lingua
per darla in pasto agli avvoltoi
forse riuscirei a far comprendere il dramma dei due orfani
e l'impasto sacro
del mio sangue mescolato al limo e ai vermi
rubati sulla tomba del primo maledetto.
Ho tutto quello che mi serve,
perfino la malattia è al posto giusto,
pretende il vino dolce dell'orgia
in cui svilire ogni inibizione.

Vedo l'ombra del carnefice
affilare la lama della ghigliottina
e già mi si stimola il morso della fame
come la iena che pretende il suo pasto
appena il sole svanisce
dietro i monti della discordia.

Il viaggio ?
Ho visitato ogni paese !
E con questo ?
C'è in me l'idea della Vertigine,
non il guignol, né il vaudeville
che sono solo attrazioni per palati distratti.
C'è in me l'urgenza della Perdizione,
non il deserto della solitudine,
né lo svago del corpo d'una venere
che sono solo illusioni dell'attimo.
C'è in me l'estasi dell'Imperfetto,
non la visione profetica,
né l'illuminazione del pensiero
che sono solo invenzioni della parola divina
o di chi la spaccia come tale.

Voglio un senno nuovo : il senno del fiore appena colto !
Così dissi -ebbro d'ambrosia-
Nel salone degli specchi, nel palazzo del Duca,
tra cortigiani, puttane e nobili decaduti,
poi una voce dal fondo : in ogni fiore c'è una corolla nera !
Tutti si voltarono
e videro una figura ombrosa e cupa
appropinquarsi al mio cospetto.
Con i piedi -in un gesto ultraterreno- prese il libro
da cui leggevo il profumo in cui inebriarsi
e proferì a voce alta :

soleil, douceurs, faiblesse de la nuit,
les fruits, dèluges d'azur, la mer,
harmonie, danse de la voix, musique,

sang, s'il vous plait...
sang !

Sono pronto a consegnarmi
nelle mani di quell'ambita donna che sventola la falce.
Sono pronto a farmi avvolgere da quel nero manto in cui,
finalmente, porrò fine al mio tormento.     

Testamento
Testamento scritto col sangue,
sulla pelle scuoiata
dai cervi che cuociono sulle graticole,
festa grassa, questo è indubbio !
E' il mio ultimo giorno di vita
ed è giusto che ci sia la Francia intera
ad intonare alto e grave il canto liberato
dei versi che vibrano nella ballata.
Il lento supplizio dell'impiccato,
il logorio della glottide che cede poco a poco,
l'alchimia della morte che pretende
la luce più alta e il giusto inchino.
Il Pendu che infila il dritto cantando il rovescio,
eccomi qua : sono Francois Villon, il poeta!
Delinquente e ladro, sono pronto a confessarlo,
ma saranno in tanti ad omaggiarmi
cantando il mio verso laido e disonorato.
Si, dai, ho ucciso un prete ! Che sarà mai ?
Era un corpo inferocito, uno tra i tanti,
confuso nella prima rissa della sera parigina,
la notte è ancora lunga, non datemi del matto.
Chissà ? Forse potrei fare di meglio.
Amori rubati al lume di candela
per un tozzo di pane raffermo,
un filo d'olio macilento e un soldo di rame,
sifilidi intinte nell'acquavite,
si leva l'urlo : voglio che la Vita deponga la corona!
Presto, non c'è tempo da perdere!
Una ballata cupa ed angosciante,
strimpellata in punta di lingua,
nel vocio assordante e nelle risate sguaiate
della locanda di periferia,
certo, è questo il senso della vita !
Alto e basso in eterno girotondo,
il pianto confuso al riso
e sulla balaustra del primo piano
c'è già una donna che pretende il mio sorriso.
L'inaudita armonia di una stella rilucente
nel sordido baccanale della bettola
in cui i dignitari, cosiddetti d'alto rango,
bevono attraverso un foulard di seta
per coprirsi il viso e non essere riconosciuti.
Perché domani è un altro giorno
e solo di notte, aldilà dei paraventi,
quelle mani signorili,
seppur velate in guanti di lino,
possono abbrancare le calde cosce
di quella signora dissoluta
che offre le sue grazie col disgusto sulle labbra.
Si, sono io, Francois Villon,
l'imperatore dei villani !
Non sono cinico, sono solo realista,
ho fissato a lungo, coi miei occhi, la falce della morte.
Sono sopravvissuto per uno scherzo del destino
e posso, finalmente, concedermi il lusso
di cantare l'insano, il dolente e l'indolente.
La litania del "villano",
pensate che cosa pregna,
sicuramente indegna direbbero in tanti.
Per questo, forse, rido,
ogni volta che m'inchino,
quando chiudo la ballata
e m'appresto ad infangare un altro nobiluomo.
Devo dirvi del passato,
della mia vita che ha tanto cantato la morte.
Persi il mio senno, un tempo,
per l'alluce variopinto d'una donna zigana
che danzava col fuoco nel sabba d'autunno,
al punto che avrei voluto castrare
quel barone dissoluto e nerboruto
che le pagava il vitto, le gonne e l'alloggio.
Conobbi l'estasi di quel liquido ambrato
che i monaci, in terra fiamminga,
spacciano per nettare divino,
celando, alla vista dei bigotti,
l'orgia che illumina le cripte dei chiostri
e che urla, all'intero inferno, le voglie,
finalmente liberate dalle catene della castità.
Guidai, per ben tre mesi, un carro
ricoperto da una stoffa mai vista prima d'allora,
cucita a mano, punto dopo punto, con infinita sapienza
dall'unica donna alchimista dell'intera Francia,
una stoffa pregiata e molesta, pura e meticcia,
tessuta nel coagulo incestuoso tra iuta ed organza,
un carro stracolmo di ladri e puttane
trasmutati, nel crogiuolo della ragione, in cantori del lazzo,
funamboli dell'offesa e giullari della verità.
Condannati a recitare le parabole della vita
sull'immane palcoscenico che vibra,
silente e beffardo, nello scroscio dell'applauso
che ha schivato, per un pelo, il patibolo.
Trafficai, al soldo d'un marchese decaduto,
in oro zecchino e armi nuove,
forgiate in ottone e bronzo, in terra d'Alemagna.
E nell'illusione di poter diventare anch'io un ricco signore,
mi ritrovai, misero e malconcio,
nudo ed ingiuriato, in uno squallido vicolo,
inutile dirlo : senza il becco d'un quattrino !
Per cui, signori, la morale è questa :
se poveri e ladri si nasce,
forse è meglio coltivare l'erba dell'oltraggio
e non invadere i giardini variopinti, le siepi ben tagliate,
i marmi dei portali, le borse dei denari e le mutande infestate
di quel ceto che pensa d'esser alto e degno di rispetto.
Converrebbe semmai, bruciare fiori e siepi,
affumicare i marmi con l'esalazione della pece
e marchiare, col sangue infetto del poveruomo,
le mutande e i corpetti che costringono
le grazie e le curve delle dame di corte
a sognare l'illusione dell'eterna bellezza.
Si, sono io, Francois Villon, il poeta della verità!
Sono il depositario del segreto della Corte dei Miracoli
e, talvolta, in ardita allegoria, tra un lazzo e un volo,
ne ho svelato il senno e l'alto ingegno.
Fin dai tempi in cui, ancor scolaro, ho dichiarato
che ignorare il mio verso era un sacrosanto, blasfemo errore,
tutti sapevano che un giorno si sarebbero ritrovati,
storditi dai fumi di Dioniso, nel tripudio della festa
per celebrare degnamente il mio funerale
e ascoltare dalla mia voce la ballata dell'impiccato
in cui consegno ai posteri l'ultimo respiro :
Diseredo e libero da ogni colpa
ogni figlio che ho lasciato
nelle cantine delle locande,
sui letti disfatti e umidi
dove ho dilapidato
i fiumi del mio seme inalberato.
Giuro sul mio ghigno compiaciuto
che sono stato un grande peccatore.
Confermo e mi compiaccio
d'aver cantato l'oltraggio dell'umiliato
e d'aver amato il gusto per l'offesa.
Perché la vita è un gran carnevale
e, che sia ben chiaro,
l'unica vera rivoluzione
è la Morte !


Adesso posso lasciarvi.
Cantato di mio pugno : Francois Villon, poeta e ladro! 

se il punto di fuga è nella luce nulla può affondare nell'abisso
abisso di luna in fase calante,
moribonda, digrada e svanisce,
si disventra e apre il varco al destino
che, ineluttabile, concresce e dilaga

ogni sogno pretende un soggetto
e vari oggetti sono pronti a tornirlo
come colore vivo nella luce abbacinante,
rosso venato di verde sul dorso di un fauno

spalmo, con lievi colpi di pennello,
intinto nella brina dell'aurora,
il mio umore sull'interstizio del sogno
ove ninfe, smaliziate, si tuffano e sguazzano

levigo, con pialla di falegname d'altri tempi,
l'argilla madre in cui mi cullo
col segno netto della croce del respiro,
punto nodale ove posare le labbra

canto, con flebile voce argentina,
l'inno alla coltre sfavillante,
percezione del suono mutato in armonia,
tappeto di voci angeliche e note sopracelesti

si dissolvono le nebbie del dubbio,
dilaga il chiarore nel cobalto,
si prepara il matrimonio
tra la foglia di sequoia e la rugiada

sono pronto a bere !
dov'è la liquida luce che placa l'arsura ?

ancora qualche ombra ristagna
nel fulgore mattutino che reclama l'amore,
sono degno di volare e già spolvero le ali
che il fauno ebbe in dono dall'angelo caduto

sento l'odore acre di un incenso d'ambra
e mi pongo il dilemma della filosofia inquisita,
può una pietra d'ametista galleggiare,
come gemma violacea e luminescente,
sull'acqua torbida dello stagno del divenire ?

se il punto di fuga è nella luce
che si spiega a strali tra il fogliame e i rami,
nulla può affondare nell'abisso,
nulla discende e tutto sale,
come mosso da magica energia
verso l'alto cielo della forza vitale

sfera incandescente e satura d'ingegno,
diesis reiterato all'infinito,
puro sfolgorio che dissolve il torto,
è il mio occhio che si immola nella tua luce !

no, non sono un martire,
le mie parole sono gocce d'inusitato splendore
che scolpiscono la brina del mattino
in filamenti di perle cristalline

no, non sono un eroe,
i miei capricci sono folgori di sguardi trasognati
che fendono l'epidermide del tormento
con meteore di puro oblio

no, non sono un profeta,
le mie visioni sono quarzi divelti dall'abisso
in cui infrangere le ossa smodate e snodate
d'ogni impossibile elegia

nell'impatto altisonante
tra la dolenza e l'indolenza,
nello scontro tra il lapis tratteggiante
e il pensiero arabescato
ho visto un fauno giacere con la ninfa,
mi sono sdraiato, l'occhio fisso nella luce,
uno specchio ove scrutare i miei capelli,
arruffati e dismessi,
che si tingevano di rosso

fuggo nel sogno in volo radente,
finalmente etereo ed eterno,
passo attraverso i corpi delle ninfe,
mi nutro dell'essenza del loro latte
e aspiro, a piene narici,
il profumo dell'aurea pelle

vago nell'incanto,
il mio corpo, mutato in ariete medievale,
deflora tutte le porte dell'inibizione,
raccolgo ghirlande d'orchidee,
armonie di violini in accordo con l'eterno

oramai pago, tornito nel ghigno compiaciuto,
plano nella radura del silenzio
sui ciottoli levigati di un piccolo torrente
dove Renoir, su un cavalletto plasmato
nel legno secolare di una quercia,
arabesca le venature del verde della natura

c'è qualcosa di sacro e alto, di grave e intenso,
c'è l'occhio arcaico di chi possiede il dono,
gli chiedo il permesso d'infangare il suo quadro
con una breve strofa, di sicuro indegna,
che colloco in basso a destra,
là dove la luce è più intensa

dovrei cantare le sillabe, ogni tratto è un lampo,
la parola non basta,
bisogna scolpire le singole lettere in chiara chiave di violino,
umile approssimazione del verso sacro,
piede ed inno delle libagioni, armonia, estasi del Perfetto,
verde fastoso e marmoreo,
striato, digradante dall'olivastro al pastellato,
esametro mancato, si coglie il segreto, mistero disvelato,
cola il verde dal seno della ninfa, imperla lo zoccolo del fauno,
il tocco leggero, puro incantesimo dell'eterno divenire


non alzo nemmeno gli occhi,
inarco il corpo nell'inchino,
ringrazio e riprendo la mia strada,
poi una voce perentoria : chi scrive nella luce
non può esimersi di scolpire il suo nome !

incrocio il suo sguardo per un solo attimo:
io inchiostro, tu affreschi !
sei sicuro di volere questo da me ?
il suo sguardo adesso è intenso,
gli occhi conclamano l'assenso,
scrivo il mio nome in piccolo,
in calce alla strofa : Stéphane Mallarmé !     

"dal cilindro lineare e profondissimo
scavato dalla sua traiettoria deflorante
ci toccherà risucchiarlo
con una forza parimente inversa e altisonante"



Prendiamo l'accelerazione che svia ognicorpo dal proprio sentiero
spingendolo ad oltrevalicare la linea di confine che lo lega alla natura e alla ragione,
e diciamo punto A, o punto primo, la base dalla quale il corpo si diparte verso l'Alto,
il cui apice
-oltre il quale siamo di già nell'Infinito, immisurabile ed eterno-
chiameremo punto C o, più degnamente, apoteosi ultima e definitiva del moto,
ordunque : se nell'ascesa da A a C siamo costretti a procedere in linea retta,
di contro, nell'inevitabile caduta dall'apoteosi verso il basso
-per effetto della gravità e delle correnti del moto trasversale-
il nostro corpo disegnerà un'ellisse.
Ma : attenzione, la caduta sarà libera e ulteriormente accelerata,
cosicché il corpo sfronderà la madre terra
e dirigerà il flusso suo verso il centro del globo planetario.
La risoluzione - come diretta conseguenza che ad ogni azione
vuole e pretende la sua uguale e contraria reazione -
è presto trovata :
dal cilindro lineare e profondissimo scavato dalla sua traiettoria deflorante
ci toccherà risucchiarlo con una forza parimente inversa e altisonante
.
Ma mi sovviene un dubbio :
se l'accelerazione del corpo
è di già indotta da un mero processo meccanico
- certo partorito dal senno eclettico di un uomo eletto-
tutto il
nostro fantasticare si deve
esclusivamente
ad una macchina ?

Sarò dunque convinto dall'ellissi tronca e genuflessa,
che un altro principio avea già inciso il senno mio
nel senso che l'anacoreta darebbe al silenzio suo malato,
e perciocché dico e penso che il tornio,
in bello stilo redatto, è sì ellittico
ma abbisogna di spirali che si lancino
in costante ascesa dalla base di già espansa
fino al presunto apice ch'è grande poco più di un punto.


Eppur si muove !

E fummo di già avvinti nell'eterna rotazione,
alterazione d'ogni possibile relazione che pone
il tempo in assioma ad un colore e fin'anche
ad un calore, laddove il grado e la misura
non ebbero miglior fortuna in credo e vanto
nemmeno nei roghi della Santa Inquisizione.


Se dovessi dare al tempo uno specifico colore
forse conierei una nuova sfumatura e oserei
il cupreo violaceo striato d'ambra intenso.


Se dovessi dare al tempo un grado specifico
forse inventerei una macchina capace di
sopravvivere all'impatto con l'astro solare.

Se dovessi dare al tempo una specifica misura
forse eviterei inutili congetture sul fato che noi
tutti crediamo implacabile e ineluttabile.

Inesatta perla tolomeica,
già conclamata dall'altrui alterigia,
svilita egemonia del Massimo Pensiero,
hai dettato le regole d'ogni deviazione d'intelletto
e adesso abiuri chi ha di già risolto la balistica d'ogni volo e traiettoria.
Pendolo altalenante della marea che digrigna i denti e sempre
raggomitola i fili delle fasi d'ogni astronomico divenire e
d'ogni inevitabile regredire.
E sono di già preso dall'incanto della prospettiva
- che già Paolo Uccello aveva oltraggiata e svilita e quindi invero magnificata -
dipartendo dal cerchio centrale
fino alla forma primigenia da cui proviene tutto il resto.
Questa cosa è eletta e di sicuro pregna,
muove i neuroni ad aggrottare le sopracciglia
nello sguardo compiaciuto di chi la luce ha già intravisto.
E se anche Donatello
- per bocca del Vasari -
manifestò il suo disaccordo nel dire tosto :
"tu Paulo, lasci il certo per l'incerto",
mi sovviene non lo spezzar la lancia
- come si suol dire quando ci si forgia nell'encomio -
ma di levar alte le lance della Battaglia di S. Romano
che non sono forma Una e Unica ma Molteplice e complessa
e che si cullano nella trasmutazione dell'alchimia della visione,
quel processo intellettivo già dispiegato negli strali luminosi dell'oltreragione.

Chiamate lo scrivano,
svegliate gli araldi,
che suonino le campane a festa!
Presto,
c'è un
nuovo martire
da consacrare
al peso dello storia,
Selvaggia è morta di stenti,
linea stesa distesa,
persa nell'altra linea,
quella prospettica e molteplice
che predispone
ogni inevitabile destino

Ebbi a dire :
guardate che l'affresco del colpo del pennello
può sconfinare nella macchina dentata a chiodi di rame ambrato
e nella fuga prospettica dell'architettura multispaziale e cognitiva.
Ma risero di gusto e sonoramente,
così ferocemente
come non si udiva dai tempi del grasso baccanale romano.

Abiura del senno e dell'ingegno ?
no giammai !

Questa è la vera trigonometria del salto che facendo leva su
Tolomeo
si lancia in volo
e plana su Copernico
questo è
l 'incantesimo dell'ombra
che anticipa la luce,
ritmo della profezia
che tracima dal giogo dell 'inquisizione,
orbita
del corpo fluttuante,
cascata libera e liberata
che si frange sul letto
dell'antico fiume
ove galleggiano e scorrono lenti
i cadaveri aristotelici d'ogni errata concezione.

E se mi soffermo sull'anatomia disvelata da Leonardo
vedo quattro mani ad indicare il basso,
come a dire ch'è nella terra
il senso della Madre che genera e rigenera il Pensiero nostro,
assorto nella ricerca del portone superiore
che si apre in moto arcano e desueto,
basculando su un'asse che non è distesa né tantomeno eretta
e che disvela,
poco a poco,
il lussureggiante giardino
dove ad ogni anima eletta è concesso il meritato riposo,
in quel giardino dolce e amaro
dove tutte le macchine volanti o terracquee
che traggono energia dal lume dell'intelletto
e dalle forze latenti della natura,
sono di già edotte
sia dell'Alto che del Grave.

Fu così che noi ricevemmo in dono

l'idea dello scorrere del tempo
e dell'eterna rotazione cosmogonica.

Fu così che noi ricevemmo in dono

l'idea di uno spazio infinito
ove costruire le nostre dimore
e le nostre battaglie
sui punti di fuga d'ognilinea.

Fu così che noi ricevemmo in dono

l'idea di un corpo umano, il nostro,
così perfetto e pregno
in ogni sua linea e punto.

Ed è a queste tre menti e anche ad altri intelletti superiori
che noi dobbiamo il decorso dell'idea della ragione.
- dedicato a Leonardo Da Vinci, Galileo Galilei e Paolo Uccello -           

calpesto con le piante dei piedi i cocci di stelle che guidarono il suono della lira di Orfeo
leggo la lapide intarsiata di mistiche rose
al suono argenteo della lira
che sfiora l'albero maestoso
e dai nodosi rami si slancia nel silenzio del brusio del bosco

c'è il maestro seduto sul ceppo del tronco di mogano dissezionato
e il pifferaio privato del cilindro in cui soffiare,
mutazione del chiaro in scuro,
Azraele, distolto e confuso dall'ascolto, si defila nel sommerso amore

c'è lo scalpitare mansueto del fauno illanguidito e mesto,
Aglaonice è già partita,
concede le sue grazie
nella locanda di Cocteau, là dove apriremo le ostilità

ristagnano le braci
nel morbido crepitio che già rimpiange i fasti notturni
ove ghermire la preda e cogliere l'attimo che ci turba,
si leva il canto di Ecuba

mi getteranno nel letto madido e sudicio di ogni guerriero ellenico !

per cui signori, la domanda è questa : c'è un riscatto da pagare ?

riecco il fauno :
è lungo il collo nello stile dello sguardo,
è puro e docile nel portamento,
si ciba d'artemisia

tutte le vergini cantano in coro in accordo alla melodia orfica,
salvifico suono nell'ognidove diffuso,
il senso dell'attesa
rigenera il respiro e fomenta un sano intrigo

fonte e foce d'ogni nascita e morte, insano vizio d'onnipotenza,
la vita nel traslato poetico,
il riso nel pianto,
Cezanne aveva visto l'abisso e Rainer intuì il sentiero da battere

il potere del dolore si frange nel rumore della caduta,
il tonfo sordo di chi cade su una nuvola,
il rituale del calderone della strega
dove cuoce a fuoco lento il guardiano d'ogni impossibile paradiso

San Pietro forse,
ma fin'anche Behemot se pensate che sia meglio,
tra l'infernico e il divino io non faccio differenza
e ai posteri il rimando

ecco qui l'affermazione che conclama il metro : si sono degno !

e di contro la ditirambica domanda : sarà oscuro il senso ?

aureo gesto di carezza ardita,
polpastrelli votati al pregno Sensibile e all'arguto Intangibile,
un arco teso in cui svibra e danza il dardo del suono ambito,
non riesco a campionarlo

le vergini sono ninfe egerie che aspirano al titolo di muse
e il rumore lancinante è voce d'agnello
che urla lo sdegno sulla graticola,
traccia del destino sacrificato nei fumi ardenti del tempio della vita

potenza del tuono ! io volo, disegno una curva, sorvolo portali,
trasvolo navate,
disegno un'ellisse,
mi bagno nel fiume arido, disseccato da quel sole nemico dell'Eufrate

Ah ! se potessi partorire un poema di parole vibranti,
sì, forse cesserei
di urlare il mio sdegno,
ma sono solo claudicante nello sventrare il clamore del ditirambo

c'è il teatro della vita
che aspira allo scontro col teatro della morte,
un gioco di specchi in cui rovesciare l'assioma
e rovesciarsi nell'intento

mi sovviene l'ennesimo quesito : dimmi Orfeo, perché non mi ascolti ?

non posso far altro che rincarare la dose : Dafne pretende la tua mutazione !

potenza del soffio !
dall'urlo sfiancato al sussurro della ritrovata armonia,
vorrei un ritmo giambico a misurare il mio canto
nel piede metrico caro a Dioniso

comprendo Nietzsche e i suoi ditirambi, già vedo Dudù e Suleika
in testa al gruppo delle ninfe,
l'una tende il vessillo,
l'altra suona la tromba con la stessa grazia di un divino serafino

e se Suleika fosse un uomo ? già a quei tempi ci si vestiva da donna,
cambiare il corso della storia ?
giammai ! non è nel mio stile,
preferisco cantare la terribilità di Elena che si vorrebbe statua albicante


preferisco tacere e rilanciare la donna, del resto i greci sono saggi,
conoscono il trucco
della finta elegia,
non langue il senno, nemmeno nei versi partoriti dall'adepto

sono sveglio, umido e disteso,
ma il mio corpo già corre a perdifiato nell'ansia del nuovo giorno da sprecare,
nel giardino imperlato al chiarore dell'aurora, perlacea, adamantina rugiada
con cui placare la sete di sapienza

e se mi si chiede : perché vuoi un leone da anfiteatro romano ?

io non potrò esimermi dal rispondere : per immolare degnamente la mia carne !

e dirò allora che ancora non basta,
voglio un carnefice medievale per la tortura delle dita di ambedue i piedi,
un alluce dopo l'altro, mozzati dalla bocca di pietra di un qualsiasi inquisitore
e dirò allora che avete sbagliato tutto

la guerriera e il filosofo sono ancora vivi, non illudetevi di farla franca,
Giovanna e Giordano,
bruciati nel fuoco che Prometeo rubò a Giove
e che un qualsiasi ottuso cardinale tirò fuori dalle sue mutande intorpidite

non fatevi prendere dal dubbio, sono sveglio, rinsecchito e disteso,
ma la mia anima caracolla,
nuda e scaltra, tra le rocce aguzze
dello scosceso pendio dell'ulteriore giorno da sprecare

un fiore svilito dallo stelo reclinato, in esile ombra stilizzata, adagiata
sui petali d'erba in ordine sparso,
non c'è dignità in un fauno
che non sa distinguere la lira di Orfeo dal canto del pifferaio

è solenne, di contro, Euridice
che proclama il suo amore solo per essere salvata dai roghi satanici,
una danza macabra pretendo nel decorso dell'idea delinquenziale,
Hans è un assassino !

sorge spontanea la domanda : ma Zarathustra è più crudele ?

io qui dico e nego : suvvia, Hans è solo un bambino !

che brutta cosa è il silenzio,
la molteplicità del colpo inferto, una breve e una lunga, certo !
il coriambo d'Archiloco, il pianto d'Arione e mi sovviene già l'inchino,
che dolce cosa è questo mio viaggiare !

distanza insostenibile, quella tra il patibolo e il condannato a morte,
la separazione dello spazio vitale
nel vuoto greve e logoro,
in realtà siamo tutti ditirambici e meravigliosamente blasfemi

perché il nostro poetare non si pone limiti di metrica, ritmi e strofe,
rinnega ogni dittatura
che vanifica il canto e il volo
così come si conviene ad ogni insano giullare dell'elegia metafisica

ed è inutile rivangare il dubbio : sono sveglio, anchilosato e disteso,
ma il mio corpanima
reclama quelle dita magiche
che pizzicano la lira di cui ancor risuona, in eterno, l'eterea eco

(riferimenti letterari : Rainer M. Rilke "I sonetti a Orfeo"- "Danze macabre" ; Friedrich Nietzsche "Ditirambi di Dioniso" ; Jean Cocteau "Orfeo" ; Euripide "Le Troiane")   

Rè-tor cum-grègis (parte seconda)
esiste ciò ch'era insorto ma ora tace e dismette il suo livore, stinge
l'innato umore in scala di grigi che del plumbeo primigenio conservano
solo l'ombra, crollano membri nella dissezione del diverso, non dico "io"
e si coagula il grumo in sabbia fine di clessidra, svio il tatto in volo

olografico, diafano apparire nell'evanescenza, senso negato, chiedo perché ?
non c'è reazione senza induzione, mi sovviene correre e vago nel vacillare
dell'idea inebriante, musica maestro ! note altorisonanti e melodie impure,
apro le ali in volo planante, sgorgo e picchio l'arco del violino primigenio

genio contratto, moltiplicato e scisso, divido moltiplicando, i granelli di sale,
richiedo il perché, vibro, la pausa è psicologica, degna del diniego furente,
il sangue non sporca le strade, salto a piè pari ogni ostacolo, ergo risorgo,
non mi cullo nella strada maestra, piango lacrime di luce ed è pronto l'ok-ie

ieroglifico di primitivo pittografo, sgretola granito con punta di diamante,
preambolo al divenire, chiosa del tacere, ma cosa ? magari ! rispunta il coro
dell'ardua congregatio, impavido verbo altisonante, in gioco c'è l'aurora,
non sbandiero vessilli di falsa indignazione, solo piango l'amara lacrima

imago ! rè-tor al dritto, conclamo il soffio che il cenno svilisce, insorgo,
non parlo d'onore, onta che macchia e nitrisce come cavallo impazzito, scalcio
la lacrima col riso del furore taurino, nutro la sorgente, eco rifratta, sogno,
non intendo l'inteso e abiuro l'intesa, poco importa, mi si scema il consè-qui

quieto fluire giammai rifluito, semmai esteso, disteso, in eroica inedia,
tutti voi, prego, rimirate il tratto che l'incanto disincanta, grido, guido,
indirizzo l'umore alla bocca spalancata, soffio, un premio per ogni dolore !
magnifico l'inusitato sentore, insufflo afflati, dismetto l'immanenza sviandola

la promessa in cui vibro sfibra l'anima del viaggio, innata ricerca, taccio e godo,
philosophus, può essere, ma se basta non avanza, soffro, una radice negata,
donna o dèa, è forse questo l'arcano dilemma ? nemmeno una risata, perché ?
solo lazzi che oltraggiano il comune poetare, solo effimere magie ritorte

tortelli magri di erbe paradisiache, assenzio nell'assenza, rido di gusto, sfumata
è la fame, lascia il pasto all'ingordigia, cogito ergo inchiostro, ognuno di noi sa
che l'amore è morto e la favola è di già narrata, mi prostro, depongo il capo
sotto la lama della ghigliottina ed invoco il mio perdono, hic et nunc, senz'altro !

altro da sé, reciso dal costato, dal nero diaframma inalberato nel silenzio,
antica garza che il corpo intero fascia, di soppiatto sogno, si svilisce l'ego
e il tratto non tratteggia, help ! dov'è la "s", dov'è il serpente ? dove sono
le mezzelune ? io mi chiedo : il basilisco affabulante è forse morto, perché ?

che gia sia stanco questo è indubbio, io lo so e ancor ripeto : il gioco primigenio
era più intenso e quello successivo, ovvero questo, è di già letto, questo è certo !
per cui intuisco nel disagio il senno vostro e di contro vado a letto, mi riposo
e l'altro-verso ometto nella scrittura che non più disturba ma solo rassicura       

Temperatura del volo
è cosa malagevole
corrodere l'ubiquità
gessosa angelica
d'ogni impalpabile filo
di quella criniera bianca
smottata dal vento

inconcepibile grazia
muschio e muffa
in punta di lingua assaggia
una colomba si nutre della sua coda
temperatura del volo
calore grado della rotta dirottata

c'è un fiore novo e desueto
sul terzo anello di sabbia
al margine estremo
della pozza d'acqua fortis
al centro del bosco

è forgiato in quattro colori arditi
ambra e rosantico nei petali
la corolla nera sfumata in scala
e lo stelo giustapposto
in viola del pensiero

policroma linea estesa
altezza della luce
laggiù in alto
l'anima della differenza
lassù in basso
il viso scolpito della mente

volto rivolto
al raggio di sole filtrante
tra rami arditi
d'arbori antichi
stilla minute gemme
in forma ignota
un ovale e cinque punte
corpo esteso pregno spesso
prisma pentagonale
obliquo e rovesciato

iniqua
piomba la goccia al suolo
benigna linfa
balsamo perla chicco
liquore infuso d'erba d'Acheronte
effuso dolce amaro effluvio
odor di zoccolo grigio
in cui culmina l'arto
che calpesta l'infinito

la sabbia degli anelli
è polvere d'invidia
tatto significanza linea curva
interra umori frammisti
a grumi di limo primordiale
petalo striato in caduta libera
sopraceleste afflato

centro in nero esteso
viola vortice e balsamo
ambra rubato al tramonto triste d'equinozio
e rosantico dell'inizio mai finito
fiore novo arabescato
e dorso bianco d'unicorno

una linea fratta intrusa
cosecante nella sfera estrusa
frutto acerbo nella siepe
il me(la)mpone amaro
di cui si nutre l'unicorno

legge tratti nella corteccia deflorata
fibra sfibrata sviscerata
annega il tatto
nell'acqu-a-mara del solstizio
il senso lega freddo ignoto
rigenera tane disperse in limo

assalto di zoccolo incagnito
astrale disarmonia
franta in strali
dove ostico è il tatto
una fionda lancia il sasso
basalto estirpato
dal monte tornito a forma di vela
aspira richiama inneggia
pretende monsoni catramati
prim'ancora che venga sera

angoli alterni
interni alla quintuplice tristezza
dalla base espansa
vertice indiscusso
punta fioretto spillo
ad interrare il seme
il fiore si leva in urlo
riluce
a tratti
in fosforo d'altri tempi

nera corolla
vagamente sfumata
cerchio circolo
sfera
cosecata segata scissa
c'è un punto al suo interno
marcio putrefatto
interiora d'intestino
mortificato dal fibroma

ingombro sgombro d'ogni luce
uragano di sangue raggrumito
peli fitti come intorno all'ombelico
punto sfera
buco nero da cui esala il rosso

sul filo d'acqua a passo lento
l'unicorno trotterella
claudicante oscillazione
sembra quasi già convinto
il segreto
è nell'oltreriva opposta al vento
in quel fiore
dove la muffa non può attecchire

caracolla dondolando
l'acqua è muta
piatta distesa dormiente
qualche fiocco di neve
scaglie di nuvola disquamata
bianco su bianco
neve su pelo levigato d'unicorno
e il fiore guarda e tace

filamenti d'ombra a destra e a manca
macchie informi e coni plumbei
a maculare l'acqua della pozza
che si tramuta in fluido letto

tutt'intorno brulica un brusio
nasi a punta teste quadre
un solo occhio al posto dell'orecchio
triplice testa e mani alate
un'intera orda di creature
circonda il cerchio d'acqua

fratelli degeneri
sorelle ripudiate
amici d'un tempo in cui regnava l'amore
cadono le foglie ingiallite
reiette intristite oltraggiate
inquieto il passo
si guarda d'intorno l'unicorno

Briareo Gargouille il Valar
il Minotauro e la Salamandra piumata
Efialte Anteo Balrog
un Orco tre Fauni una Chimera e un'Arpia
Idra Tifone Ainu Argo
un Centauro tre Meduse Cerbero e il Leviatano
l'Uroboro i nove Jiin Quetzalcoatl
Cariddi un Ciclope e un Ippogrifo
un Knockers l'Anaconda con testa di tigre
Ortro e lo Gnomo nero,
l'Aquila con ali di pietra la Sfinge
la Gorgone il Grifone e i dodici Titani
la Sirena Baphomet Changelin
Zhulong e l'immancabile Basilisco
Acefalo Homunculus il Golem
la Fenice di pece e il Leone di Nemea
il passo scalzo e scaltro
inarcato in doppio balzo
danza il coro e in alto urla :
a morte l'unicorno !

il fiore novo si leva dritto
dalla corolla svibra
il venefico fluido d'oltreragione
svolazza ride s'incunea
punge squame e pelle dura
già invoca l'Atamaro
cui toccherà l'apocalittica solfa
di ristabilire l'Ordine e il Grado
d'ognicosa d'ognidove e d'ognitempo

privazione del senno dell'oltraggio
morale ardita divina immortalata
solo il vizio è capitale
pulsa orgoglio d'esser oltre il rito
libero liberato alfine morto
sepolto nell'humus dilacerato
                     che rigenera l'inchiostro e il tratto                       

io qui dico Rosa al Sole e al Maschio e dico Croce alla Luna e alla Femmina
mi si conceda un dire-altro cangiante a tratti,
striato maculato nella doppia luce
e forgiato nel vile metallo
da cui diparte il corso-decorso
del Sole che si riversa nella Luna

se il creato ebbe inizio dalla pietra
- da qui, forse, il betilo e la roccia sacra cubica dell'Olimpo,
nonché banali tarocchi che niente hanno
di Sephiroth di Sopho e di Sophia -
e se Antonino, il grande Uno scisso in quattro,
disse zuth
ad ogni possibile Aziluth,
io qui dico Rosa al Sole e al Maschio
e dico Croce alla Luna e alla Femmina

la Ragione, mi si creda, è da disvelare
all'interno dell'Ottimismo Metafisico,
laddove la scimmia privata del senno,
l'asino con ali di cera, l'anaconda con testa di tigre,
il golem plasmato nell'impasto di mercurio e argilla
e la salamandra piumata
tutti insieme danzano
nella singolar tenzone
dell'homo vituperato

piramide rovesciata
la base diventa il vertice
dove i quattro elementi
a due a due divisi e conclamati
volgono lo sguardo loro
in siffatta analogia di secco e umido
terra e fuoco al Maschio Sole
aria e acqua alla Femmina Luna

il Rosario dei Filosofi parla chiaro
primo approccio e libero scambio
catarsi del bianco nel bagno in latte di vergine
coagulo degli umori
e alfine l'Uno nell'Altra riversi e fusi
di poi l'anima ascende al cielo
e si nutre della roggia linfa
estirpata dall'adipe del verme disventrato
solo il sangue può lavare l'onta
solo il sangue è insieme Sole e Luna

più altro non dovrei dire e immaginare
bevo il latte distillato dalla mammella della Luna
mi sfamo alla luce del secco Sole
rinnego ogni coda di pavone
perché è nel bianco giorno e nella nera notte
che io vivo le mie mancanze
ed espello i parti del mio inchiostrare       

Istruzioni per l'uso
alcun-i-gnoti
danzano su cocci di vetro
gli errori in urlo
disgrazia nel doppio passo sgravato
sbaglia raglia intaglia
vanifica frattaglia
non un canto
mi sforzo d'essere fluido
magari lo sono già
linfa liberata
flusso strozzato
ghigliottinato nel reiterare l'inciso
faglia di ventre
interstizio tremolante
assesto un colpo
mi dico dai palpeggia l'amore
stendi un velo di merletto nero
a contatto con l'umore
umido il tatto
tratto imperlato
aurora boreale magma interno
lavico cuore disperato amore
nel dolore
c'è già odore di respiro
ansia cresce decresce
attivata disattivata amorfa
spirito di panna montata
una ciliegina sulla torta
cordone ombelicale reciso
un solo colpo di sciabola
e tutto tace

cogito ergo inchiostro
e se inchiostro dunque sono
lasciate che lo dica
poche son le cose che contano
un film di Lynch
la voce di Diamanda Galas
un verso straziato di salamandra piumata
le fotografie dell'infanzia
lastre termosaldate nell'inconscio
memoria fiume lento scorre
il tempo scolpito impressionato
istante catturato preservato eterno


SVILIRE L'INDIANO
TANTO CELEBRATO DA TEOFRASTO
IN UN AMPLESSO UNICO E SOLO
PROTRATTO PER TRE GIORNI E TRE NOTTI

RUBARE DALLE NOVE MUSE
L'ALTA ESSENZA
DI OGNUNA DELLE LORO ARTI


dubbio indubbio del contatto
il colloquio sì con tatto
lieve scartovagare
stile linea tratteggiata
grafinchiostro trattimpresso
svisa il sax acuto sibilare
la sibilla muove il piede
un alluce sovrasta l'altro
e il terzo fratto e circonciso
ha già deciso
se il quando mi si chiede in coro
svibro il suono
e null'altro imploro
pacata innata la forza del prisma
nel divenire al primancora
base triangolare iterazione rifluita
altezza poco nota elusa
quando l'asse
linea retta fratta ignota
diviso l'inciso
si estende e rompe
distanzia l'istanza svagola
si prostra in supplica ardita inaridita
chiede la grazia

poche son le cose che contano
dipingere sul corpo di una donna
graffitare umori con peli di cinghiale
una frase di Barthes
un calice di vino rosso
fuoco terra aria acqua
una figlia che ti viene incontro e ti abbraccia
il cinefilo in prima fila
a gustarsi la grana della pellicola


PRECIPITARSI DAL PIU' ALTO GRATTACIELO
MANO A MANO CON DELEUZE
E DEFLORARE D'UN SOL COLPO
L'EPIDERMIDE DI NOSTRA MADRE TERRA

DIVENIRE CARNEFICE
D'OGNI FORMA D'INUTILE IMBELLETTAMENTO


perdono scusa non è mia la colpa
patibolo dell'asse orizzontale
lampante paradosso
il patibolo è verticale
ecco forse il segreto ambito
tutto verte sulla croce
incrocio ardito tendo il dito
furente indicizzazione
si leva il coro
è lui il colpevole
desossiribonucleica idea lussureggiante
mescalineggiante idioma serpeggiante
stupefatto inchino dell'inchiostro sopraffino
liquore nero di pece medievale
fabulante discordia dell'iride in atto
implosione di colore nel cinereo basculare
mi si scusi il soffio

poche son le cose che contano
una pagina di Beckett
una tragedia di Seneca
i corti di Ciprì e Maresco
una parola sussurrata
alto basso arabescato
esterninterno fratto
casto perverso immolato
bianco nero affrescato
due corpi in amore
una sigaretta
un film di Raoul Ruiz

POTER SCEGLIERE LA "GUIDA"
PER VISITARE IL REGNO DEGLI INFERI

ESSERE IO STESSO
LA MELA STRANITA PRIMIGENIA
CHE DA EVA FU ADDENTATA

SUONARE A QUATTRO MANI CON MOZART
SU UN PIANOFORTE
SCOLPITO NELLE ROCCE DELL'OLIMPO


se dico il dire
sono savio ?
se dis-dico l'altro dire
ho già perso il lucore ?
no mi dispiace
non sono d'accordo
e perlappunto accordo il tono
sulla nota reiterata
dell'eterna semicroma
una protesi in amplesso
l'amplesso dell'appunto
in cui il punto è genuflesso
punto primo tempo primo
numerologia refrattaria
incisa circoncisa
con lama d'alabastro levigato
e lapislazzuli incastonati
un mostro in gioco
cerbero uno e trino
il corpo ricurvo della doppia cifra

poche son le cose che contano
uno sguardo
un sorriso
e poi scrivere
fiumi di parole
intensa libido voluttà estrema
danzare un valzer di notte
magari senza musica
perché la musica è dentro di noi
vive in noi
sotto forma di un calcio allo stomaco
di una coltellata all'inguine

MINIARE L'EFFIGE DI SOFOCLE
SU UN PAPIRO DI PELLE D'IPPOGRIFO

AFFRESCARE A QUATTRO MANI CON BOTTICELLI
LA NASCITA DI VENERE

GUIDARE LA MANO DELL'ATLETICO FURORE
CONTRO IL COSTATO D'OGNI USURPATORE


colpo infranto senza senso
senso ritrovato ostentato
consiglio un libro i ditirambi
sconsiglio giochi ad altro fine
pari impari dispari
sono radio distrurbata e fischiettante
e se anche l'assoluto
è per tutti relativo
io qui rinnego il senno mio
perch'esploso imploso
e fin'anche saltellante inquieto
esoso dissociato sollecito il silenzio
non sono anche ancora e oltre
poco prima d'ogni apoteosi
zappa madida a svangare il pensiero
un solo colpo rutilante
sull'anatomia d'ogn-i-mpossibile filosofia

poche son le cose che contano
solo leggendo un libro di Giordano Bruno
si può riprendere il cammino
marcare sfrondare madre terra
eccelsa infame defraudata insana
guardo il delirio in atto
poliedrica visione energia pulsante
silenzio in scena
musica motore azione

SALVARE DESDEMONA DALLA FOGA DI OTELLO

LOTTARE CON ZARATHUSTRA
NEL FANGO PRIMORDIALE
ED USCIRNE VINCITORE

ASCENDERE AL SOPRACELESTE CIELO
AL CANTO DI QUELLA SIRENA
CHE FU OFFESA DA ULISSE


sofia tesse il filo
slarga annoda e circoncide
tanti noti ignoti alcuni
verità indiscusse in soffio
l'errore inciso in urlo
punto linea superficie
punto dopo punto linea smorzata
raddoppiata triplicata impressa
sulla superficie del divenire
débacle anestesia del consueto
la morte è al di fuori
e la vita è ancora oltre
volete mordere il mio costato ?
prego accomodatevi
non c'è imago solo figura
non c'è parola solo tratto
sarà vero tutto questo ?
no non credo

poche son le cose che contano
suonare la propria musica
un quadro di Bosch
il taglio di un viso
ancora un sorriso
continuo a rivedere
tutti i film che contano
il fascino discreto della borghesia
lo specchio la pelicula del rey
salò salomé nostra signora dei turchi
il viaggio santa sangre tetsuo
vizi privati pubbliche virtù exotica
strade perdute un amleto in più
e potrei andare avanti fino a sera

PERDERE IL LUME DELLA RAGIONE IN UN LABIRINTO
SEGUENDO I FILI TESSUTI CON SUPERBA MAESTRIA
DA TUTTE LE ARIANNE DEL MONDO

DANZARE DI NOTTE SULLA SPIAGGIA
E INVOCARE LA PIOGGIA


fiuminchiostro claudicante
ri-servito a più non posso
la cena è una beffa orchestrata
pasto desueto di vertebre e costato
gelatina gratinata di midollo
il respiro rosolato a fuoco lento
il Comune Pensare è di già dorato e fritto
ho visto il demone
lanciare il primo sasso
pietra masso spengo il fuoco
verso l'acqua del rimpianto
sui tizzoni
d'ogni possibile filosofia

poche son le cose che contano
il gioco morboso innocente
di cogliere l'attimo
e poi magari reiterarlo
cercare di sfuggire al proprio destino
un altro corpo per continuare a dipingere
leggere testi di Artaud
al primo ignoto alcuno nessuno
che incontri per strada

ESSERE L'UNICO DEPOSITARIO
DEI SEGRETI DELL'IRIDE
E RIDISTRIBUIRLI CON INNATA PARSIMONIA
SOLO A CHI E' DEGNO DI SVELARNE IL FLUSSO

RINVERDIRE NEL BENE E NEL MALE
LE GESTA DI CARMELO


depensato dislavico mai furoreggiante
contatto con tatto beninteso
armonico sventrare bisturi tagliente
delicato nel taglio non non fa male
dolore del cervello le linee dentro il quadro
Vassilij punto linea superficie
punti buchi colpi di scalpello
amara superficie
da colmare e poi svuotare
prendo il se
riscrivo il ma
e se sovviene anche la nota
non ho dubbi canto il la

poche son le cose che contano
bomba scheggia fobia inesplosa
mania incertezza
un cantastorie un saltimbanco
opera in azione
trasformazione del dato di fatto
eterno divenire metamorfosi urlo
tutto coincide
tutto si amalgama
non l'immagine
ma l'impasto di grana
di cui è composta l'immagine

ESSERE LASCIVO CORTIGIANO
DI CHIUNQUE RIUSCIRA' A PORGERMI LA VITA
SU UN VASSOIO D'ARGENTO

RIUSCIRE A TRADIRE GIUDA PER DUE SOLI DENARI

VIVERE IN UNA BOTTE E MAI USCIRNE
SE NON PER GRIDARE IL MIO SOFFIO


annerito nel rischiarare il senno
pretendo un seno da baciare
sbiancato in volto tenue insinuo
il serpeggiare ambito del verso fino
affilato sulla ruota dell'arrotino
turpiloquio in alto volo e svibro
a colloquio col destino
in basso franto infranto
e i cocci che dettavano l'inizio
che sia ben chiaro
sono ossa sbriciolate frantumate
il mio corpo che si scontra
con la dura roccia di granito
della lampante inutilità

non ci resta nient'altro da fare
se non riprendere il cammino
muovere i propri passi in direzione nord
linea retta scolpita
perché domani è un altro giorno
dobbiamo ripartire da capo
dobbiamo ricominciare a girare in tondo
tratteggiare il circolo vizioso
riproporre il canto
dobbiamo compiere quel gesto glorioso
che gli altri una sola volta nella vita possono osare
e che noi inchiostratori
per radioso destino
dobbiamo rifare ogni giorno
e ogni giorno esaltare

anche per oggi lo spettacolo è terminato
ma domani mi aspetto un altro soffio
poche son le cose che contano
ed io vivo di queste piccole cose    

"elegia del verso stanco"
dondolio sistematico
cadenzato
tempo quattro quarti
l'altalena dei princìpi
non sarò cruento nel dirlo
ancora una volta
come se fosse il primo giorno
e non l'ultimo
parole dette e dogmatizzate
ridette e scolpite
parole dolenti
di vacui pensieri
parole disperse nel vento
tedio
noia
vani sospiri e cadute d'ansia
ininterrotto
logorroico
flusso verbale
tutto tace eppur rivela
cose
che non vogliamo sapere
le varie somme
in orizzontale verticale diagonale
hanno lo stesso totale
il quadrato magico
l'essenza è nell'apparenza
nella forma del vissuto
informa su quello che è stato
sui timori del primordio
non ha senso continuare
ma non posso nascondere
il disgusto
non adesso almeno
stasi
cronica insoddisfazione
la realtà
amara
il cielo tende al grigio
si respira il silenzio
si ode il silenzio
non vedo che foglie
cadere dall'alto
e mollemente adagiarsi al suolo
un viale alberato
una panchina
il ricordo di un pensiero
abortito
ah
se tutto fosse pioggia
fango irradiante
luce riverberante
forse
potrei
rinverdire il soffio
quattro quarti
inusitata oscillazione
mi ostino a cercare
nel profondo
un senso
che non è ancora nato
nella totale assenza di luce
nell'amarezza
che rifluisce in se stessa
nel limbo dell'altrove
sono come sospeso
al filo del desiderio
vedo il grigio del cielo
e l'amaranto del suolo
tappezzato di foglie rinsecchite
senza possibilità di evasione
immobile
ma tempo verrà
in cui l'equilibrio
diverrà precario
allora tuonerò
la mia risata
e crollerò
nel mare di foglie
dondolio
sistematico oscillante
cadenzato
quattro quarti
tutto quello che avviene
rimanda
a cose già vissute
il cerchio
il circolo vizioso
della nostra vita
l'eterno ritorno
dell'uomo
sui suoi passi
il cerchio inscritto nel quadrato
utopia
inutile sogno
di un sogno mai sognato
dondolio sistematico
cadenzato
quattro quarti
il ciclo è completato
andata e ritorno
con effimera sosta nel centro
immutabile
il ritmo dell'inedia
apatico flusso
mancato rigoglio
l'energia viene meno
il cielo tende al nero
minaccia pioggia
pioggia fertile
feconda al tatto
sterile nel senno
non ricordo più i colori
non ricordo
il colore dei colori
vivo nell'ombra che non c'è
sento il presagio
sento la sciagura
sento l'imminenza
dell'eminenza nerotornita
l'immanenza
del colpo di piccone
del pianto isterico
si lo so
il viaggio sta per terminare
l'occhio è quasi spento
non distingue i contorni
indelebile macchia grigiastra
informe
dondolio su dondolio
sistematico
quattro quarti
inebetito
cadenza ossessiva
ubriaco di sogni mancati
finalmente piove
ma
non provo sollievo
sento l'eco
di una melodia lontana
persa nel tempo
quattro quarti
ancora dondolio
oscillazione
rollio
lampante delirio
le frasi della mia coscienza
i libri mai scritti
il triangolo rovesciato
emblema dell'uomo
nemmeno adesso
riesco ad alzarmi
a destarmi dal torpore
del resto
il triangolo
è inscritto nel cerchio
non ha senso
sfuggire al proprio destino
ancora melodie lontane
violini e dondolio
melodia e cadenza
punto sistematico
senza contrappunti
senza spiragli di luce
quattro quarti
la porta è chiusa
sprangata dal ferro
forgiato nel fuoco
la primavera perduta
il decorso del tempo
quattro quarti
senza possibilità alcuna
dondolio su dondolio
ha smesso di piovere
un piccolo ritaglio di sole
strizza l'occhio
dietro le nuvole
i miei occhi sono stanchi
non sopportano la luce
dondolio
avanti e indietro
senza muovere un passo
la stella
inscritta nel triangolo
la fiamma eterna
pietra filosofale
verità disvelata
cos'altro posso dire
sono solo illusioni
chimere
nessun riscontro
con la nostra realtà
dondolio
sistematico dondolio
quattro quarti
oramai sfinito
dall'incedere ossessivo
totalmente inebetito
morto
nell'utopia dell'essenza
quattro quarti
reiterato all'infinito
dondolio
sfinito nell'eternità
qui non crescono fiori
le stagioni sono tutte uguali
aride
stanche
di ridare luce al mondo
eterna oscillazione
umore mortificato
svilito
un uomo
il dondolio
la melodia che non c'è
il rollio dell'inutilità
non soffro il freddo
non soffro il caldo
sono qui
l'ultimo degli eroi
l'illuso
dondolo il dondolio
cadenzato nello sguardo
quattro quarti nel rollio
il mio corpo
non produce ombra
perché non c'è luce
tempo quattro quarti
l'altalena dei princìpi
sarò cruento nel dirlo
per l'ultima volta
il mio verbo
parole dette
dogmatizzate
ripetute nel rollio
reiterate nel dondolio
parole dolenti
di vacui pensieri
quattro quarti
vago ancora
senza muovere un passo
come sperduto
nel labirinto della memoria
il filo
tessuto dall'eco della mia voce
si affievolisce
fino a sparire
avrei bisogno di una guida
mi sembra
di udire un pianto
il coro delle voci indolenti
creature arcane
che cantano
al suono
della lira di Apollo
nel riflusso
della mia grecità congenita
quattro quarti
cadenzato sistematico ossessivo
si scioglie il desiderio
e ritorno sui miei passi
citando me stesso
l'altro
il diverso
il perfetto contrario
in una cruenta esplosione
di luce
nella gioia
nel limbo
il filo del desiderio
in pugno ben serrato
non riesco a vedere il grigio
del cielo
e l'amaranto
del suolo
riesco ad evadere
quattro quarti
il primo contrappunto
non mi sembra vero
nella mia mobilità
ritrovo l'equilibrio
tuono una risata
levitando sul mare di foglie
rinsecchite
riprendo il senno
quattro quarti
il cielo
tende all'azzurro
minaccia luce abbacinante
dondolio su dondolio
riconosco
il colore dei colori
rifletto l'ombra
l'occhio è ben aperto
spalancato
fissa i contorni
una macchia ben definita
dondolio su dondolio
quattro quarti
lento sistematico ripetitivo
apro gli occhi
e tutto svanisce
solo un sogno
nient'altro
che illusione
forse è il rollio
sistematico cadenzato
a produrre la visione
ad indurre il sonno
quattro quarti
andata e ritorno
con effimera sosta nel centro
immutabile
tremendamente immutabile
il ritmo dell'inedia
apatico flusso
oscillazione dell'asse verticale
gli arti come addormentati
solo la mente vive
solo il pensiero fluttua
nelle strade della memoria
quattro quarti
dondolio su dondolio
inutili
i colpi di piccone
inutili
i pianti isterici
i segnali sono chiari
il viaggio
sta per terminare        

"perché svegliarsi?"
fino a ieri spento e silente,
lo sguardo diafano,
ombroso nell’animo,
un solo passo muovevo
nella buia strada.

oggi invece
nel viaggio delle fioche luci
che mordono a tratti l’ondeggiare dei fumi,
verso l’attimo di uno sguardo incrociato,
il mio pensiero si leva
e l’auto scivola veloce sull’asfalto.

nel domani radioso
rifuggo la noia e ripudio l’affanno,
improvvisamente leggero
nella luce lunare,
ascendo al sopraceleste cielo
dove non ci sono più confini.

mi scopro, mi abbandono,
più non mi nascondo.

e non c’è più mattino
perché la notte è infinita.

condivisa è la notte
con chi ti è vicino.

e allora
perché svegliarsi?   

moto immoto
straziante emblema
di un corpo investito dal tempo
che via via sfuma nel nulla,
dissolvendosi in lento macinio

dall'ingranaggio scolpito
nella meccanica del rito riproposto,
il pensiero del nulla si dipana
e concresce in smisurato gesto mancato

privato dell'infinito ascendere,
esanime nel suo attendere,
il cenno del libero arbitrio
non più troneggia, né dilaga

impervio è il bivio
ove si diramano le strade del desiderio,
non posso velare l'immagine della perfezione
e perfetto non sono

perso nel lieve fluttuare
di un ricordo mai pago,
imito il lento rullio
delle onde di un mare antico

sommerso dall'inudibile eco
di quei passi che non lasciano orme,
vedo l'anima che rifiuta,
con inusitato amore,
il suo trono di regina assoluta


e tutto rifluisce in immota calma        

Uno e Trino
vorrei poter masticare l’albero che contiene l’ovo,
espellerne la linfa in acido miasmo,
vomitarne la corteccia macerata,
fonderne il ramo,
sfinire la sua fine in un urlo selvaggio,
ma,
devo accontentarmi di deglutire il fiore che si forgia in “novo”,
urinarne i petali liquefatti in citrico pallore,
sbavarne lo stelo spezzettato,
sfibrarne la corolla,
sfinire la sua fine in un soffio leggero,
così,
ristabilito l’equilibrio arcano,
dal doppio cadavere di albero e fiore,
vien fuori un incipit scuoiato
che non ha ancora espulso l’anima del PIANTO.

vorrei poter appendere la mummia al sopraceleste cielo,
sbendarne la pelle che si sfalda alla luce,
raccoglierne le ceneri in urna,
troncarne l’eternità,
sfinire la sua fine in un vento che spazza via ogni sudiciume
ma,
devo accontentarmi d’impiccare la piramide all’ombelico arcaico,
sfrangiarne il cordone che la lega all’humus,
rovesciarne la punta accuminata,
mistificarne l’essenza pagana,
sfinire la sua fine in un forno crematorio dove brucia l’umore astrale,
così,
definito un solenne inizio,
nella piramidale assenza e nella reginea mummia,
vien fuori un parodo sezionato
che non ha ancora espulso l’anima del RISO.

vorrei filtrare la tenebra nell’ampolla dell’ambrosia,
aspirarne il cirro nel calice dell’assenzio,
disamorarne la negritudine nell’acquavite,
trafiggerne gli occhi,
sfinire la sua fine nelle onde placide dell’Acheronte,
ma,
devo accontentarmi di rubare le stelle che la tratteggiano,
declassificarne il bianco abbacinante,
sviscerarne gli intenti truffaldini,
dissimularne l’atteggiarsi a “guida”,
sfinire la loro fine in una caduta libera sulla madre terra,
così,
quantificato un misfatto nell’appropinquarsi al senso,
là dove le stelle sono gli occhi della tenebra,
viene fuori un inutile supplizio
che non ha ancora espulso l’anima dell’INDIFFERENZA.         

Il monaco amanuense e i sette vizi capitali
altomedievale asceta che nella venerabile armonia infrange il suo miniare,
soffre la caduta nell’ascesa, rinnega l’orgoglio e si fa pregno del mistico sognare,
alienato nel flusso dell’analogia divina, dirada il suo sentire nel tratto metafisico
dell’arte amanuense che guida il lapis di piuma d’oca sulla carta increspata e grezza.

nell’ortodossia negata, nel fiato dell’afflato, verità del vigore mai ostentato,
represso nel rigore d’un fuoco mai attizzato, egli cesella del drago il ghirigoro,
intinge la sua punta nella brina del mattino, arte basculante in gocce di rugiada,
sfigura l’arbore rivolto le cui radici son corni sacri d’unicorno in volo.

all’antico scriba Invidia lo scalpello, la lastra di pietra madre con cui giocare
a colpi di martello, non parla con nessuno, non urla il suo furore, solo il lapis
sfibra in curvilineo volo radente, miracolo, verba volant, scripta manent,
l’autore del misfatto guarda in alto, (s)vibra e s’inchina alla potenza del tratto.

nell’intro del suo vertere già sogna del basilisco le spire, soprastante amore fugge,
nel ricevuto e nel donato, nella spherica figura l’ovo malcelato riversa in perle
di pura negromanzia, spirituum tuum, malagevole e innato, eremo e sfinito,
ogni elemento il suo colore, tratteggia l’arabesco in spire d’iride forgiato.

discerne poi l’onore dall’umore del ritratto che, nella volta in alto, all’opera lo vuole,
l’altro tratto del pittore-altro che in punta di pennello inonda la basilica,
ognuno dei due ha il suo segreto, intinto nell’Avarizia del possesso, l’arcano non si svela,
talento doppio e altodiscendente, giustapposto e forgiato, affrescato e miniato.

nell’inerzia dell’Accidia si propone lento, nel dettagliare il punto intento,
nel languore l’umor fastidia a sassinar la sfrenata corsa che la perfezione oltraggia,
faciamus hominen ad imaginem et similitudinem nostram, chi vuol essere pregno,
pregno sia nell’immanenza e nel divenire, più altro dire abiura e l’homo cesella.

già pulsa l’eresia nelle fibre del sensibile, nell’occhio deflagra in sordo scoppio ,
nel palmo della mano una punta di rosso in cui mescere il verde dell’erba,
nella catarsi la significazione e la sustanza, nel sabba invece la danza
che con punta di stiletto inonda il libro antico sia del sé che del medesimo.

due volte trino e tre volte ripetuto, il numero sacro del monaco ramingo,
dalla prima sephiroth cade un angelo, nello schianto la sua corazza cede,
capitale è il vizio che la storia pretende, Superbia del dire e del guardare,
del mostrarsi guerriero con metallo divino d’armatura d’angelo caduto.

pazienza infinita ed arcaico segreto che nell’orale si tramanda e vibra,
non basta il talento, l’idea superiore è svilita, crolla nel pozzo nero
il triplice sentore dell’inusitato fervore, nell’Ira c’è quasi da tremare,
basta sognare l’estraneo che scinde il costato e in costola di donna esplode.

mammella di vita e mela stranita, l’una sotto l’altra dipinte e miniate,
nella Lussuria del tratto, nella supplica dello sguardo si rinnova il contatto,
e se mangi la mela la Gola è il tuo centro, nel ruvido inchiostrare si leva
il canto che l’incanto ha dipinto sotto forma di femmina, consummatum est.              

Ludico gnomo dal lamento aggregante
ca(nto) (di) sirene a (mezz)ogiorno (di) (cui) oste(nto) la bellezza
nel (forza)to fals(etto) in (cui) il diaframma si (dev)asta, (dev)io
il dolore in un atto di (forza), ma lo stil(etto) è pro(nto),
già al(eggia) e volt(eggia), e librando s’incunea, dicendosi
(lacrim)a ri(dente) che il (dente) e(stirp)a scavando nell’(osso),
la sua (stirp)e pretende il (col)po tronfio del plastico r(and)ello
e l’(osso) esalta nel trauma che presto s’espande e di(lag)a,
le (lacrim)e a frotte sono oramai un (lag)o che (col)a e sb(and)a
nel (liqu)oreo (liqu)ame dove lo (gno)mo capeggia la sua b(and)a.
ca(nto) (di) (siren)e a (mezz)anotte (di) cui oste(nto) la ma(lia) in (lia)na espansa,
e se la (lia)na è (siren)a, lo (gno)mo è il r(amo) in cui la (lia)na si svaga
e si perde de(fin)endo il suo (amo)re, si s(fin)isce sfilacciandosi
e crolla dal suo stesso centro nervoso precipitando nell’abisso.
la (lia)na è il cordone in cui il nascituro s’ag(grappa) al ventre materno,
e l’ombelico dello (gno)mo è il buco nero che, una volta abbandonato,
non può (esi)mersi dal trasmutare il pianto in (grappa) dolce d’(equi)n(ozio).
(esi)le, (ozio)so, (gno)stico è lo (gno)mo, pervaso dal (centro)
è egli stesso (centro), limbo (equi)d(istante) da (amb)e(due) i poli,
nell’(istante) celebra, in sogno ardito, il suo (amb)(ire) al (due),
(gno)mo (doppi)o di (doppi)a consist(enza), nell’(ele)gia del suo d(ire)
rifugge la (dem)(enza) (ele)vandosi a (dem)i(urg)o dell’(urg)(enza).
ca(nto) (di) sirene nell’(aur)(ora) or (ora) s(fum)ata (di) cui (oste)(nto) la mancanza,
nel bel (mezzo) della (tor)menta che dispensa (perti)nenze di (perti)che (neg)ate,
(gno)mo impettito, (tor)o che sbuffa e sbeffeggia, l’(ora) (aur)ea,
di (volta) in (volta) ri(volta)ta, (affr)esc(ata) e (poi) (neg)(ata) nel chiar(ore)
d’una mete(ora) che app(are) e (poi) svan(isce), nel (fum)o (oste)nt(ato)
che nei (cam)(ini) riflu(isce), come (schi)acci(ato), letteralm(ente) (ini)bito
dal prepot(ente) plan(are) della pioggia che si frange in sordo rum(ore).
(affr)anto è lo (gno)mo, (neg)letto, (oste)ggiato, deluso, svia il suo (cam)mino
(schi)odando cunei e mal(dic)endo la sua innata (dic)o(tomia),
ana(tomia) d’un flusso s(doppi)ato, d’un (cor)(done) reciso e mai (ricom)posto,
no, non posso ! esclama lo (gno)mo, (ricom)in(ciar)e a (ciar)lare, perché ?
rad(doppi)a lo sde(gno) e nella pertica (neg)(ata) vede l’utopia della liana am(ata),
non (neg)ozia la pena, non è un a(done) e se (cor)re, cade crollando.
ca(nto) di si(ren)e all’in(terno) di un ricordo di (cui) oste(nto) l’e(terno) divenire,
(gno)(mo) (mo)(ren)te a (cui) è stato negato l’ascolto del soffio della voce fluttuante,
(tor)o in t(auro) egli si pensa, (auro) in s(auro) egli si dice, aureo (cl)(amore)
di (cl)audicante (amore), rimira e sogguarda la pert(ica) autarch(ica)
dove s’inalbera e (muo)(re), dove si (muo)ve il (re) abort(ito) dal m(ito),
minot(auro) (manca)(to) a cui (manca) il (tor)o e in cui l’homo s(ban)da,
(ban)dito dal bo(sco) si tramuta in giulla(re) e nel ludico lazzo si prepara al (colla)(sso),
in(colla) leggende alle rime del gioco (sco)prendosi ilare e sognando del (re) il dece(sso).
a(gno)st(ico), lud(ico) (gno)mo che viaggia a braccetto col pud(ico) (uni)(corn)o,
(uni)(co), seppur (co)(atto) e talvolta deriso, (atto) (manca)to di negata
e reclusa in(corn)(ata), sia a destra che a (manca) im(manca)bilm(ente) dispersa
e dilapid(ata), (gno)(mo) fur(ente) che la m(ente) espone al pubblico dini(ego),
(gno)(mo) (mo)tiv(ato), non più castr(ato) e nell’(ego) (ris)(orto),
(glo)(rif)ica il (ris)o nel sarc(asmo) e colt(iva) il suo stesso (orto)
da cui nasce l’infinito (glo)ssario che rende suadente la sua arte or(ator)ia,
e come (miss)(iva) d’ambasci(ator)e, in sacra (miss)ione d’araldo si (rif)r(ange).
(mist)(ico) (gno)mo dal (mist)ero (avv)(olto) in chia(rore) (diff)(uso),
(diff)(erito) nell’(uso), (mist)ificato e (del)(uso), (avv)erso al f(ato) e (stra)v(olto),
sicura(ment)e f(erito) nell’orgoglio, priv(ato) della (malì)a del bosco e (del)l’i(nca)nto,
lu(dic)o sign(ore) di no(stra) assoluzione ma(nca)ta, (aur)iga che non più guida,
nel cu(ore) pi(ange) profere(ndo) v(ange)li, e nel (contr)(atto) (si)ng(ult)o
d’un (aur)a sempre (contr)(ar)ia al suo eguale, egli (si) (dic)e, (si) espande,
(avv)ince le (si)rene e predispone quel (cont)(atto) che nell’(atto) (ult)imo
(si) definisce e (si) dichi(ar)a come l’(unica) c(osa) che (cont)a,
(come) l’(unica) r(osa) che dallo (ste)lo (si) s(tacca) e dal petalo ri(fugg)e,
(come) l’(unica) (cura) ai (mali) che tor(ment)ano il mo(ndo).
(gno)mo (fugg)itivo, (tacca)gno nell’(inti)mo, av(ido) nel fu(rore),
(dest)ituito nell’ i(stinto), (tra)sl(ucido) e (stinto) nel colore, a (tra)tti (mal)(dest)ro,
(inti)(nto) nell’aura (mal)edetta della (ten)e(bra) che d’os(cura) (mal)(ia) è intrisa,
(gno)mo (sfi)(bra)to a cui s’impone la (sfi)da, (ste)(nto)(reo), la(ido) e tr(ucido)
nel mi(asmo) che ef(fonde), (ten)tenna, (fonde) l’urlo col soffio e mist(ifi)ca il reale,
(sch)(ifi)do si (sch)(ia)(nta) nella caduta e si dich(ia)ra (reo) d’ogni o(nta) oste(nta)ta.
la m(ent)e vibra, si es(alt)a : (scal)p(iti)o di (zoccoli) (scal)zi, (mai) ferrati,
(mai) forgiati in nessun ris(ent)imento, (zoccoli) (capr)ini che dal pié (capr)o
di sa(tiro) partono e s’involano per la c(ele)br(azione) del gran (tiro) mancino,
(ode) al (dio) che le (siren)e ac(clam)(ano), e lo (gno)mo si pensa Cast(ore), eroe
del sovrum(ano) (am)(ore) che i (dio)scuri avvince e ch’egli stesso sbeffeg(gia)
nel (nom)e d’un (ora)c(olo) che s(olo) il male auspica, e lo g(nom)o lo sa,
è (orbo) nell’(am)(ore) che il suo piccolo corpo più non con(osce), fin’anche sordo,
s’a(rma) di (sti)zza, diviene (ora)nte, (già) sfo(rma) il labbro nella smorfia m(orbo)sa
ed evocando (Bacc)o, sgr(opp)a col sa(tiro) e bacia una ninfa in (siren)a mutata,
si c(iba) nelle sue c(osce), antico scr(iba) che la (pen)na intinge nell’inchiostro,
(emp)(io), sacrilego, g(io)(io)so (bacc)anale ch’espl(ode) in ardito (clam)ore,
(azione) (alt)ra e diversa, (ele)(ttivo) furore d’implacata satira praticante che,
nel sol(stiz)io d’inverno, si (pen)sa e si plasma nel (fuor)viante gioco della lam(ent)(azione),
(gno)mo (in)(corro)tto, che è (in)(terno) al (suo) d(ent)ro ed (es)(terno)al (suo) (fuor)i,
m(iti)co (es)(emp)(lare) che (corro)de l’(altrui) s(ent)ire e devasta l’(altrui) sognare,
sulla gr(opp)a d’un as(ino), nel v(ino) che tra(cima) dalla c(opp)a, sulla (cima) del monte,
fin tr(opp)o a(ttivo), perché ? s(ento) la tua voce che l’i(lare) m(ento) (con)tr(ae),
vedo la lingua s(ae)ttare, (con)cl(amar)e (amar)i ins(ulti), giam(mai) (ulti)mi,
sem(mai) (primi)(geni), una (primi)(zia) che (nessun)a gra(zia) può salvare dal pati(bolo),
(geni) impazz(iti) che siglano il misfatto, il prezzo è alto e (nessun)o vuol farti un (re)(galo),
nemmeno il (re) a cui è rivolto il tuo sberleffo e che un solo o(bolo) lancia sul tuo sd(egno).
(gno)(mo) (mo)rtificato nell’ing(egno), (galo)ppa il tuo fur(ore),nel sent(ore)
d’una sciagura immi(nente) che, da po(nente) a lev(ante), (ante)pone il mo(bile)
(ver)bo al (ges)to in(ges)sato, un (tra)passo di (bile), un (tra)collo del nervo,
(ver)tere al gusto per l’onta in(fama)nte che s(fama) il (palat)o e celebra il bisogno
d’essere im(palat)o, (esp)osto al pubblico dini(ego), (gno)(mo) (mo)(zzato),
nell’u(gol)a dime(zzato), c’é l’(ego) che soffre nel fingersi ilare, e nell’(eco) sfiorita
c’è l’urlo mancato, e la (luce) non cade sullo sp(iri)to antico, per cui (urg)e un’(impr)onta,
un se(gno), un me(ssaggio), la (gol)a recisa d’una nuova drammat(urg)ia a cui la (luce)
non basta, l’(iri)de tutta intera in crudele a(ssaggio) pret(ende), e nel rinn(ovato) clamore
non più (dif)(ende) ma olt(remo)do off(ende) la mera inutilità del suo e(ffi)mero so(ffi)o,
eccolo quindi, in pectore ritr(ovato), armato d’un solo (remo) dalla barca (disc)(ende),
(disc)continuo nel p(asso), quasi claudicante (inc)iampa in un s(asso), ed (inc)auto crolla
sullo sdegno perduto, sfin(ito) e (dif)(fer)(ito), (fer)(ito) nell’orgoglio, mesto e tard(ivo),
ecco signori, c’è l’(esp)rit nouveau, ma fatemi il piacere ! io qui urlo ed (impr)(eco).
ca(nto) di sirene all’interno del mio ventre di cui oste(nto) l’(opu)lenza,
(opu)s magn(um) che nell’(um)ido l(ivo)re sguazza, rim(balz)a e s’int(riga),
e in dura (riga) d’un sol (balz)o reagisce e scatta, innomina(bil)e (ast)a,
pronto allo sparo che lo star(ter) (ter)ri(bil)mente sospende e ritarda,
(gno)mo ec(citato), (più) volte (citato), (più) volte (svi)(ato) e c(ast)r(ato),
(svi)lito da ecquoree ninfe danzanti, che nel suo gesto sgrazi(ato) imita.
(gno)(mo) (mo)r(bido), nel gran (bido)ne dell’opulenza infiltr(ato),
(gno)mo ributtante, è scon(cio) il tuo (cio)è, e l’(oé) è un urlo (dis)torto
che dipana l’incompreso se(gno), ev(oé) : è questo il tuo appello !
sir(en)e or(dun)que (en)f(iate), e in sinuose (dun)e scol(pite), come
sti(pite) di marmo finem(ent)e min(iate), vi supplico d’in(sorge)re dalla sacra (sorge)(nte),
lo (gno)mo è (stan)co e il suo (lam)(ent)o ha (dis)messo la (lam)a taglie(nte),
si (ripropo)ne (stan)tio e si dissolve ancor prima che l’eco sfumi.
(gno)(stico) e nondimeno o(stico) è lo (gno)(mo), s(finit)o nel tripudio manc(ato),
(mo)rtific(ato) (in) (in)(finit)esimo (ato)(mo), ancor (più) (picco)lo del (più) (picco)lo dire :
ma basta un soffio, un (ripropo)sto canto a rinverdirne le gesta,
di nuovo s’in(alb)era nell’(alb)a radiosa, si erge in quel plinto di luce,
celebrando la (mess)a del nuovo giorno da vivere, una scom(mess)a col des(tino)
che risolve nel (tino) da cui at(tinge) il nettare che fu s(acr)o a (Bacc)o,
ebbro è lo (gno)mo, e si s(tinge) il mosto nell’(acr)edine del mio (inchio)strare,
s’(inchio)da, purpureo e torbido, sui corpi, dal (bacc)anale avvinti,
che la (messa) han tra(mut)ato in (mut)evole rito, in (pag)(ana) (ana)rchia
che si fa strada a colpi di (pag)aia nello stagno del diven(ire),
a(gno)st(ico) e per di (più) autarch(ico) è lo (gno)mo, non si produce in (mo)(ine),
si definisce nell’(ine)(siste)nte incon(siste)nza del suo (effi)mero e (mag)ico appar(ire),
(effi)ge del (mag)o m(anca)to che nell’(anca) s’in(arca) e sull’(arca), danzando,
fluttua nelle (tor)bide acque del (so)(gno) dispiegando le ali.
(so)lerte è lo (gno)mo che nel (so)(gno) si (tor)menta,
e (vag)olando un brusio in(distin)to la sua mente (vag)a e si (distin)gue,
non la (gue)(rra) della te(rra) che si ri(volt)a e (volt)eg(gia)ndo rotola,
non la sciab(olata) che la luce (già) sfe(rra) nel (volt)aico vibrare,
non la c(olata) di san(gue) che dalla tenebra sgorga e si effonde,
solo una sberla che un qualsiasi re, cinico e stanco, allo (gno)mo dona,
e l’urlo è un (picc)one che non tratteggia e (nem)(meno) (segna),
semmai di(segna) un semplice (meno), acerrimo (nem)ico del (più):
(più) in alto salirò e (più) lunga sarà la corda dove im(picc)herò il mio furore !          

Rè-tor cum-grègis
(gioco fintantoché sono)

esiste ed è insorta, una sorta di congregatio che inneggia il “verbo”, ardua res,
ebbra e raminga, innalza i membri in pensar simbiotico, si dice unicum compatto,
non ti conosco ma so chi sei, pudore letterario compreso, beninteso! il grumo
fin’anche soffiato dal mio stesso anelito mozzato, (s)logico la logica in volo.

olografico, impalpabile : lo sdegno, m’attanaglia il senso e s’apre in volo,
ma cosa ? ...(pausa)... il cammino è lungo e la risposta è vaga, vacillante,
e vagolando si dice vacua, (o)scena nel suo divenir negata, nient’altro !
io canto la nota stonata, lascio una traccia. (s)violino il vibrare primigenio.

genio di(s)tratto, dividendo in quattro, la ferita aperta su cui riverso il sale,
sarà forse degna d’insulti quella piaga che sporca le strade ? ...(pausa)...
disseminato d’ostacoli, il sentiero è ostico , e rido (s)ridendo il pianto : ostile!
fin’anche bandito dal mio stesso bandire, in giubilo ri(s)fratto da me l’ok-ie.

ieroglifico ? no, solo un “occhio” frantumato, chioso, (s)vedo e ancor rivedo
la terra desueta dell’arcaico arcano, un riverbero di sole rifluisce in luna, perché?
...(pausa)... comprenderò l’indomani se (s)vicolo dall’oggi, intollerante ? giammai!
io scrivo d’un viaggio, occhio illimpidito nell’urgenza d’una (s)offerta lacrima.

imago ! rè-tor al contrario, rovesciato il soffio, concresce la menzion d’onore,
l’onore ? ...(pausa)... mi scappa il riso, e se rido i chicchi son gocce di splendore,
lacrime ? mi chiedono, ed io ripropongo l’eco convulsa, e –godendo- godo,
fin’anche sognato dal mio stesso sogno, Ermete, (s)diniego il consè-qui.

quieto aiuto! non capisco chi urla, pavida ascendenza, regressione eroica,
solo una minima parte, beninteso! intendimento sospeso, frainteso,
un premio per chi riesce a vibrare, per chi ha inteso l’intenso, magnificus !
io parlo del tacito, imprimo un’orma, help ! (s)vibro l’oscillazione sviandola.

la promessa sviata nel viaggio, sòphos ? non direi, io gioco fintantoché sono,
chi di voi sa che verga e vergine hanno la stessa radice ? chissà, forse Venere
o “Sofia” o solo il suo “Filo” che lega la dislessia alla disgrafia, non un lamento,
fin’anche oltraggiato dal mio stesso oltraggio, cogito, (s)ritorco idee ritorte.

tortelli grassi, ambrosia, divino nettare, ad aeternum mi cibo, insisto persisto,
mistica misticanza d’erba recisa, assenzio nell’assente essenza, io sarò, chissà ?
di nuovo cogito, coagulo il conato, affinità elettiva, giammai! sonora grassa risata,
io fabulo l’affabulante fabula della lingua, ai posteri! (s)rimando, senz’altro !

altro da me, tronfio, inciso nello scolpir poetando, kha kha, il soffio ripetuto,
benda riavvolta di mummia egizia, ovo alchemico di linfa trasmutata in ego,
cercherò di dirlo di(s)dicendo il dire : c’è una “s” tra due mezzelune, ergo :
fin’anche riproposta dalla sua stessa proposta, (s)personalizzo il perché.

che tutto mi si rivolti contro, questo è il succo! istrione, no! neanche in sogno,
la congregatio esplode in urla disumane : vergogna ! eppur io volo in assioma,
poeta nello scolpir l’inciso dell’altro da me, circonciso nell’inciso, punto e a capo,
io dipingo il sempiterno assioma, e come crittografo ri(s)crivo la (s)crittura !

(o quantomeno ci provo)       

Elegia del volo
il volo in picchiata è una caduta libera,
il "crollo nervoso" che si frappone all'ascendenza,
e se il ciocco di ossa contro madre terra
è oltremodo tronfio, esso si risolve in sordo tonfo.

quel che resta delle ossa infrante faticosamente annaspa
e annaspando scava, cercando della propria madre il midollo,
metastasi del noto, fibroma del consueto : è questo il fine!
e mi si scusi l'innata avidità che trasmuta il cadavere in cibo.

cercare nelle vene il seme della trombosi,
quel condotto tumeo
dove il fluido si compatta in grumo inesploso,
vorrei poter tradurre in grafia l'anamorfico embrione,
l'ovo che racchiude l'idea.
e -di contro- nel tumultuoso duellare,
potrei cifrare un soffio, laddove l'oggetto sia "io",
e così sentirmi eco rifratta delle sopracelesti cose.

non voglio se intendo, aké : punta di stiletto,
il contrario diviene un "dentro" pulsante,
intendo solo là dove la tesi sfalda l'ipotesi
e il consimile diviene il "fuori" che si ripudia e si ama.

tubam : istigatore dell'Atto,
riuscirò a dire il comune disdire ?
il culto del rimando al di là da venire ?
mi sovviene uno sdegno e non lo reprimo,
già Rimbaud "separò l'azzurro dal cielo",
e come mosso da impellenza arcana
nel bianco io ricerco l'Abbacinante separandolo,
nel nero io coltivo il Tenebroso, ghigliottinandolo.

la realtà non si compie,
assioma sempiterno costantemente taciuto,
e proprio per questo io qui lo disvelo,
sulla groppa d'un centauro cavalco il sentiero di ciottoli accuminati,
nel mito che rifluisce e -solleticando- seduce,
una dèa mi porge il Fuoco su un vassoio d'argento,
mi cibo del fuoco, senz'altro!
e il vassoio diviene il mio scudo.

non mi forgio nell'esser maledetto,
ma della maledizione conservo, perlappunto, il mal-dire,
il rogo mancato, il veleno che non riesce ad agire,
rinnego l'officiazione del rito,
l'insana celebrazione del senno di poi,
perché ciò che m'avvince è solo il Dinamico.

desueto paradigma che sgroppa
e, sobbalzando, si propone nel suo esser d'esempio,
"fuori dal mio ventre, presto!"
è bene che ciò si sappia :
l'idea del respiro è un ventre che pulsa
nel diniego della vertigine assoluta,
a pié pari sull'orlo di un precipizio.

allegra allitterazione che salta la corda,
giocando con la bambina che è in lei,
"cruento battito vitale, presto!"
è bene che ciò si sappia :
dischiuso nel mio aritmico pulsare
continuo a sognare, nel muto specchio del chiarore,
l'antico dramma d'uno sguardo silente.

concatenante sorìte che salta con l'asta
involandosi in ascese e cadute e riannodando l'inizio e la fine,
"squilli di trombe e fanfare, presto!"
è bene che ciò si sappia :
la disgrazia è grazia ricevuta,
una falce saettante nell'aria che turba il mio corpo
colma la misura di quella notte che rifugge l'alba.

insita tautologia che corre in avanti e al contempo si morde la coda,
celebrando l'eterno ritorno del circolo vizioso,
"deve vibrare il diaframma impazzito, presto!"
è bene che ciò si sappia :
miriadi di stelle a rimpinguare il creato,
note autorisonanti d'una sinfonia ammaliante,
oltre l'ultimo gradino : trapasso di felicità!

insana decodificazione che voga affannosa,
perché il remo è fallo che deflora l'acqua,
come se l'unico modo per esser sophos fosse solo l'offendere,
"fate entrare l'ego regale, presto!"
l'oblio contrappunta il declino
e un sibilo oscuro si staglia ineffabile
come unica parafrasi del reiterato silenzio.

malata e morbosa semiotica che di capriola in capriola,
lascia indelebili segni, solchi d'indecifrabile disarmonia,
"non voglio più dormire, presto, c'è l'Urgenza che incombe!"

il rito del tramonto, la parabola che precipita,
tutto volge all'incanto e si forgia
ad emblema puro di precipuo pensiero,
eco sopraceleste che maestoso vibra
e poi sfuma nella sua stessa gloriosità.

nel collasso del valore, nel tracollo dell'etica
le scale si moltiplicano e i passi che le calpestano
risuonano a singhiozzi nel fragore del destino.

il mio lapis soffre di balbuzie
e, talvolta, strozza la scrittura decapitandola,
il mio lapis non soffre di pragmatismo,
il mio lapis non si pietrifica nei dogmi che propone,
sarà forse questo il suo più grande difetto ?


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