Racconti di Mara Avidio


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Al tramonto
Era stato un pomeriggio tedioso, trascorso ad osservare il mare deserto di onde e passeggiare sull'umida sabbia fra gli spruzzi vellicanti dell'acqua fino al piccolo promontorio dove si trovava il faro, ormai in disuso, della piccola spiaggia alla quale aveva deciso di recarsi al seguito di un piccolo numero di amici, cimelio di un'antica florida attività portuaria. Dalla cima la vista allettante della sconfinata estensione marina e le melliflue carezze apollinee accomiatarono ogni forza vitale e condussero Avidio fra le braccia di Ipno.
Gabbiani volavano a cento piedi dal livello del mare e da lontano giungevano ancora le voci degli ultimi bagnanti; fu risvegliato da una piacevole brezza ch'egli respirò a pieni polmoni. Decise di rimanere ancora per qualche istante in quella posizione, sdraiato, reggendosi obliquamente, gomiti poggiati a terra, a contemplare la bellezza del tramonto, prima di alzarsi e raggiungere gli altri in albergo. Avevano preso in affitto una modesta abitazione quadrilocale non lontana dal centro storico: dalla sua finestra riusciva a scorgere le antiche mura, bastioni un tempo di una civiltà perduta. "E' il destino di ogni cosa", pensò tra sè e sè. Quell'ora del giorno e la solitudine lo facevano pensare sempre con un velo di malinconìa, non potendo celare a se stesso quell'ansia di grandezza che lo faceva uomo e al contempo stesso corrodeva i suoi stati d'animo. Temeva la solitudine, era per lui la ruggine dell'esistenza, eppure quelli erano i momenti in cui riusciva a pensare con maggiore lucidità, abbandonandosi in viaggi confusionari che spesso traduceva a parole. Le sue opere gli giungevano ad ogni modo fallimentari, non sentendosi mai in grado di trasportare su foglio di carta le volontà dell'intelletto. "Sarebbe mai nata persona in grado di comprenderlo interamente?".
Il cielo era uno spettacolo d'armonia e perfezione, dipinto con maestrìa da onde dorate intervallate da spruzzi d'acqua di rose che, sembrava ad Avidio, trattenevano in sè una dolcezza tale da far ritenere ogni uomo sulla terra destinatario di tale veduta. Non molto lontano due giovani amanti si stavano scambiando il dono del loro amore, fermi in piedi, commossi dal vespero.
Pensò a Ginevra.
Il nome, era, in effetti, l'unica cosa che sapeva di lei. Non le aveva mai parlato e ai corsi aveva più volte sognato di trasformarla in una statua, in modo da poterla osservare all'infinito senza perdersi nessun particolare o rischiare, rivolgendole la parola, di rovinare quel leggero filo impercettibile della loro simbiosi. Un sogno ad occhi aperti. Lei era un sogno.
L'aveva vista per la prima volta ad una festa in casa di un amico: ciò che l'aveva più colpito non era tanto la sua bellezza, particolare che molte ragazze le invidiavano e altrettanti ragazzi avrebbero desiderato conquistare, bensì il suo sorriso. Sembrava un meandro infinito di gioia, un'eterna promessa di beatitudine che sguardi profani non avrebbero saputo cogliere, chiuso com'era da alcuni gesti, che denotavano ogni volta la sua timidezza. I suoi occhi non sapevano tuttavia mentire ed egli finì per perdersi in mezzo a tanta purezza ed ingenuità.
Più volte aveva sognato quel paradiso nerofumo e, svegliandosi, l'aveva associato alla polvere di stelle che aveva deciso di donarsi alla vista dei comuni mortali. Si riteneva fortunato.
Tra di loro si era venuta a creare, persino Avidio l'aveva saputo intuire, un legame, fatto tuttavia solamente di sguardi. Ad una fervida fantasia, che nel pensier suo lo figurava beato dalla dea dell'ispirazione poetica, corrispondeva nella sfera pratica un'incapacità totale di avvicinarla e confessarle il suo invaghimento.
Si immaginava in cuor suo che avrebbe rovinato tutto ciò che, nell'attesa, si era creato in mente.
Il suo era uno spirito platonico, coltivato col nobile ma ingannevole strumento della filosofia, abituato, questa era la sua rovina, a pensare più che ad agire: di ogni suo sorriso aveva fatto una poesia.
Aveva fatto di quella comunicazione sensoriale, scambio di parole mute, la sua vita: ogni mattina traeva il suo sole dal sorriso della ragazza, il suo colorito eburneo lo portava con la mente alla "Venere" di Botticelli, mentre sentire da lontano il suo incantevole profumo gli ricordava le primavere passate nel giardino della nonna Adele, tra effluvi di luce e di rose.
Era innamorato, si sentiva perso fra meandri di parole che non riusciva ad esternare per il solo timore di far perdere di significato quanto nella mente e nel cuore sentiva limpidamente.
"Vorrei che tutto fosse ancora come prima.." pensò Avidio, gli occhi sempre più spenti. Ginevra infatti, non conoscendo il suo pensiero, avevo finito col fraintenderlo, e, credendosi respinta, aveva deciso di trasferirsi in un'altra città per continuare i suoi studi. Non aveva avuto difficoltà alcuna a dimenticarlo. "Siamo fibre della stessa materia, tutti così maledettamente diversi", pensava Avidio, sconfitto nel profondo del cuore.
Si sentiva più abbattuto che mai, ora non gli sarebbe stato concesso nemmeno quel miraggio che era diventato per lui fonte d'ispirazione e, ancor di più, di vita.
Era giunta a fil di acqua, le onde ora gli bagnavano con dolcezza i piedi, producendo un effetto piacevole; lacrime pesanti solcavano le sue guance. Cadde in ginocchio. Si abbandonò per un istante alla nostalgìa, poi si rialzò. Cominciò ad avanzare, immergendosi nel glauco mare. Rabbrividì e per un momento si fermò, guardandosi indietro. Le prime luci elettriche stavano facendo la loro comparsa nella città non molto distante. Continuò il suo bagno catartico, annichilendo ogni impulso i suoi sensi gli trasmettessero.
In poco tempo si era lasciato dietro una distesa interminabile di mare. Aveva difficoltà a rimanere a galla. Si lasciò andare, assaporando il sale, che già gli aveva arruginito il cuore, poi riemerse.
Tolse il pensiero dalle sue dolci labbra. L'acqua era come un sedativo, stava placando ogni suo ardore. "Era proprio vero", pensò, "il nichilismo aveva la portata di un oceano". Ora ne sarebbe diventato una parte. Cedette.
Affogò insieme al sole.

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