Quando gli alberi erano miei fratelli
Un albero mi ha parlato
La forza dell’olivo (I)
Guardalo, questo olivo: così magro,
tenere le sue braccia, da fanciullo,
eppure salde, che sembrano tese
al cielo a tenerlo su, loro sole.
E le radici, con quale tenacia
avvinghiate alla roccia, che nemmeno
una piena del fiume, una burrasca
le disarcionerebbe dal terreno.
E il seme è duro, paziente, sopporta
gelate e siccità, con la fierezza
di un martire: lo sa, prima o poi il tempo
verrà di aprirsi, basta solo attendere.
Appare delicato, quasi fragile;
ma c’è una forza nascosta in ogni albero,
la stessa che nel grembo oscuro dorme
che genera i vulcani, i fortunali;
e una linfa indomabile attraversa
le sue vene e cavalca lungo il tronco:
quella che nutre anche i fiori d’argento
sparpagliati nei prati bui del cielo.
La forza dell’olivo (II)
Povero olivo, tutta questa notte
esposto alle ventate che battevano
il fianco della collina scoperto,
così rabbiose e aspre da strappare
la verde pelle di dosso alla terra;
eppure lui, così mite, è in realtà
un guerriero, e non cede, non demorde
da quell’impari lotta, anzi lo tempra
la sfida dell’autunno presagito
dai primi indizi di rovesci e brine,
e trova in sé la volontà e il vigore
per resistere a quell’accanimento
immotivato, ne regge gli assalti
in silenzio, senza recriminare
per una qualche ingiustizia subita,
senza chiedere al cielo un’elemosina
di pietà o comprensione; a volte trema,
forse ha paura, ma resiste, ha fede
che in fondo alle proprie buie radici
vi sia un sole che dorme e attende solo
di levarsi: lo sa, l’olivo, l’acqua
che attinge dalla zolla gonfia anche
le vene dei torrenti, si fa sangue
di nuvole e maree; una sola goccia
delle linfe che battono nel polso
di ogni suo ramo colma la lanterna
delle stelle, e di un olio la alimenta
che scintillando brucia senza estinguersi.
Il segreto degli alberi
Provo quasi per ogni albero invidia:
quanto per me è cecità, nebbia, enigma
è per un tiglio, come per gli steli
che popolano il prato più ordinario,
certezza innata, che non ha bisogno
di prove o spiegazioni, conoscenza
che serba in sé ogni povero cespuglio
che sull’orlo di una radura affacci,
ogni arbusto che provi ad ancorarsi
nella più angusta fessura tra i sassi,
ogni germoglio che le esili braccia
aggrappi con quanta forza ha ai riarsi
zigomi di una parete o sui fianchi
di una scogliera che digradi ripida
e quasi verticale, fino al mare;
e lo sanno le alghe che si lasciano
pettinare dalle correnti e in grembo
all’altalena delle onde si dondolano;
e nelle venature di ogni foglia
e sulle rughe dei tronchi, memoria
della nazione vegetale, è scritto
che ha tutto ciò che è verde sempre un’anima.
La grande anima
Noi e l’albero, così poco simili:
noi morsi dalla serpe delle ansie
a ogni fruscio sussultiamo a ogni ombra
che agiti i rami, e ci affanniamo in preda
alla febbre alla frenesia allo spasmo
delle brame, aneliamo a braccia tese,
ciechi, a un cielo di polvere; lui invece
non conosce paura o desiderio
e in una pace distante, difesa
dall’inganno delle passioni resta
a meditare in silenzio; e fedele
soltanto alla sua indole, incurante
delle stagioni, sicuro persevera
anche nelle più ostili condizioni
di siccità o di burrasca: lui stoico
gigante che fortifica il suo cuore
e affina la sua saggezza nel culto
di ciò che è vasto, solitario, libero;
fiero e modesto, maestro ma umile,
acconsentisse a dirci suoi adepti,
a eleggerci discepoli perché
dal suo esempio impariamo a non temere
se un addensarsi di nuvole annuncia
il temporale, a mantenerci fermi
di fronte a raffiche contrarie e a oltraggi
di grandine o di nevi, a non piegare
la fronte al cielo quando ci rivolge
il suo sguardo severo, a respirare
a un ritmo uguale e lento, a fare nostra
la sua costanza, la profondità
e la calma della sua grande anima,
almeno in parte: la forza che ha dentro,
il coraggio con cui senza tremare
ogni arbitrio dei venti e ogni rovescio
avverso della sorte accetta e affronta.
L’albero è mio maestro
Ne sa abbastanza più di noi un albero
su quanto l’orizzonte sia più ampio
del nostro sguardo, che a lui ci si accosta
umili, con ossequio, ci si inchina
come al cospetto di un re, gli si deve
deferenza perché la sua è una specie
più nobile più antica della nostra;
o sembra di vedere in lui un avo
millenario, un vegliardo venerando,
un saggio buono, un maestro mansueto,
che saprebbe, se solo ci parlasse
e assumesse di nuovo aspetto umano,
farci da guida, dirci come vivere
e tenerci per mano come un padre;
lo immaginiamo come un testimone
ma di poche parole, di un mistero
a cui non siamo ammessi: uno sciamano
reincarnato in un corpo vegetale,
un sacerdote, dalle verdi bende,
di un culto che ha nei prati le sue chiese,
i suoi iniziati in ogni filo d’erba.
È dagli alberi che anche noi potremmo
che significhi vivere imparare.
Bibbia di foglie
Pagine di un poema le vostre, alberi,
che la pioggia con le sue molte dita
ha diritto a sfiorare, ma non l’uomo,
parole che solo il vento conosce
e sfogliando libri di foglie legge
e a memoria ripete e poi disperde,
rune scolpite nei tronchi, parabole
inaccesse se non alle sibille
che in pepli d’ali e piume profetizzano,
saghe di cui è depositario il bosco,
favole che potrebbero narrarci
i rami se la lingua ne intendessimo,
intrico delle labbra vegetali
che balbettano una rivelazione
appena udibile, su noi e sul cosmo:
rotoli sigillati, ancora intatti,
codici d’erba e pietra d’acque e nuvole,
papiri solo da aprire, ancestrali.
L’albero è mio maestro
Pensieri su di un mandorlo
Timido e insieme vanitoso, il mandorlo:
ha un portamento quasi femminile
e forse fu una Dea in un’altra vita,
e anche se oggi non se ne ricorda
ha mantenuto i tratti delicati
della snella figura, e non ha perso
affatto quel contegno aristocratico
che ostenta nella preziosa eleganza
e nella noncuranza con cui osserva
intorno venti e stagioni trascorrergli;
è una regina, il suo tempo è marzo,
quando indossa il suo abito nuziale
per lo sposo che viene con le piogge,
e si agghinda di fiocchi bianchi i riccioli,
e un carillon, proprio dietro il suo orecchio,
avvisa che hanno messo casa i passeri;
è una bambina, vive nella grazia
che accomuna tutte le cose sacre
e pure della terra, che hanno in merito
all’immortalità, a che cosa sia
la vera beatitudine, nozioni
per noi ingenue o, chissà, troppo profonde
perché riusciamo a prenderle sul serio:
le acque dalla risata scherzosa,
le buffe nuvole e la docile erba,
le chiocciole e gli insetti, e i tanti piccoli
inquilini che fanno il nido o giocano
sulla schiena di ogni albero, e non sanno
nulla dell’uomo e neanche si curano
delle misere angosce del suo cuore.
Insegnamento del salice
Di tutti gli alberi il più saggio è il salice,
dal corpo così esile, cedevole
alle correnti, lui che ha rinunciato
a combattere, lui che anziché opporvisi
la corsa delle acque la asseconda:
solo così non ne verrà travolto;
mite maestro, ha compreso che è
nella resa il segreto della forza
e che all’infuori del capitolare
non esiste vittoria. Imita il salice,
quando la piena monta e si accanisce,
pensa a quanto in realtà tenaci e salde
siano le sue radici, che difendono
l’orlo scosceso di un’ansa fangosa
del fiume che non cessa mai di scorrere,
anche se così sottili a vederle,
quasi indifese, che un’ondata appena
più alta basterebbe, in apparenza,
a strapparle via – e invece esse resistono.
La sapienza dell’albero
Non lo sa l’uomo ma lo sanno gli alberi,
e le acque profonde che ne nutrono
le radici, e gli uccelli che ne abitano
il fogliame, e le nuvole in corteo
che oltre le loro spalle sfilano, e anche
le montagne e le galassie lo sanno:
ogni frammento della creazione
è unito agli altri in una trama armonica
e insieme ad essi compone un arazzo
nascosto eppure a un tempo manifesto,
un mandala che la complessità
del suo disegno, del suo intimo ordine
così semplice e insieme quasi arcano,
specchia nella squisita geometria
di un alveare o di un fiocco di neve,
nelle precise ellissi misurate
dalle inesauste vagabonde astrali
che incrociandosi come in una danza
coordinata nei vergini anni-luce
intessono una rosa di diamante,
nella perfetta struttura sottesa
a un cristallo di sale, a un minerale,
ad una ragnatela, alle spirali
concentriche che srotola il serpente
della Via Lattea, o che formano il guscio
degli ammoniti, ai petali disposti
sulla fronte di una magnolia a cingerla
di una corona, o ancora al dispiegarsi
dei rami e delle loro molte dita
che del cielo diversi punti toccano
e ad uno stesso tronco li congiungono,
figure di un vegetale zodiaco.
La compagnia dell’albero
I
Quali pensieri farà mai un albero?
Li tiene per sé, non ha a chi si fidi
di confidarli, e li coltiva a margine
di un viale per cui solo di rado
qualcuno passa, o in mezzo a una radura
in abbandono, invasa da rottami;
e immerso nel bagno d’oro del sole,
il corpo stanco steso nella gloria
dei lunghissimi pomeriggi estivi,
il bianco oceano a colmargli le palpebre,
egli studia la luce che si attenua
lenta con le ore, digradando in toni
dall’arancio al violetto, finché Sirio
gli appunta sulla spalla una minuscola
spilla d’argento, un tremolante stemma;
e mentre il mondo sprofonda nell’ombra,
può dedicarsi ai propri ozi, e starsene
raccolto, indisturbato, fino all’alba,
a speculare sulle gerarchie
siderali e sul moto circolare
delle sfere celesti, e a tempo perso
sfoglia il libro illustrato in cui è scritto
il firmamento, che uno stemma araldico
porta impresso, un’immagine miniata,
su ognuna delle sue infinite pagine;
e non sa nulla, e forse non si cura
degli uomini, simili agli insetti
che nel viluppo delle sue radici
ordiscono i loro infimi alveari,
dell’epopea che scrivono nel fango.
II
Parlami, albero, dimmi chi sei,
e di che enigmi teneri e solenni
si fa la tua mente verde custode;
che sogni concepisci, quale pena
quando viene la sera sembra scuotere
i tuoi rami, quale ansia li tormenta
come corpi tremanti; e quali mondi
di cui ignoriamo l’esistenza visiti
quando il soffio che sale da ponente
ti consegna le melodie e i profumi
di un luogo caro e mai dimenticato;
non temere, saprò esserti complice,
non renderò partecipe nessuno
se non il vento della confessione
che mi porta il brusio delle tue foglie;
e forse apparirà la solitudine
a entrambi dolce, se sediamo accanto
in silenzio su un prato: impareremo
ad amarla perfino, a preferirla
ad ogni compagnia che non sia quella
delle ombre dei rami e delle nuvole.
La via degli eremiti
La verde chiave
Di tutto l’arco degli affetti umani
hanno esperienza, fuorché delle brame;
non soggetti a una volontà, non soffrono
degli affanni che sconta ogni creatura
che del sangue conosca le tempeste;
e la loro monotona esistenza
consacrano alle disinteressate
gioie della contemplazione pura;
nessuna cosa cercano né fuggono,
bene e male non sono ai loro occhi
che simulacri, e non credono al tempo,
ma indifferenti lasciano che il sole
li estenui nella sua morsa o che il fulmine
li minacci e la grandine infierisca
a flagellarli, come non ne siano
neanche toccati, come se a subire
le asprezze dell’ambiente sia un altro essere
al posto loro, concentrati solo
a perseguire lo sforzo di un qualche
miraggio di ideale perfezione
che solo a loro, agli alberi, è concessa –
budda che forse un’illuminazione
da quel nirvana vegetale attingono;
e chissà che non abbiano scoperto
l’unica beatitudine possibile
su questa terra, la via per accedere
a quella pace di cui siamo tutti
perennemente e senza esito in cerca;
ma gelosi ne tengono per sé
la verde chiave, e al vento che li interroga
non dicono qual è e come trovarla,
né all’universo, che vorrebbe loro
somigliare e che invece si tormenta.
Misticismo degli alberi
I
Veggenti e asceti, meditano gli alberi
in disparte dal mondo, assorti scrutano
un qualche enigma da lungo irrisolto,
con gli occhi fissi notte e giorno al cielo:
occhi puri di astrologi, di magi,
di verdi sfingi, fissi sull’eterno
che in quelli delle stelle i propri specchia;
leggono forse i pensieri di Dio
o di Dio il volto in una nube scorgono,
o traggono pronostici, decifrano
rivelazioni intorno all’aldilà,
nella coreografia per noi casuale
e illeggibile che il tramonto inscena
sul palco dell’orizzonte, a suo estro.
II
Cenobiti in preghiera, a mani giunte
o spiegando le enormi braccia, invocano
dall’azzurro e dal suo labbro di pietra
risposte a un dubbio che i rami ne macera,
supplicano pietà dal firmamento,
scegliendo a loro eremo un costone
di rocce a picco, ma alla solitudine
di cui hanno bisogno basta appena
il bordo di un qualunque marciapiede
su cui siedono, mendicanti scalzi;
e astratti non si sa come dal traffico
che turbina loro intorno, anche se
immobili, piantati in terra, volano
con la mente, librandosi da fermi
su ali che hanno per piume ogni foglia
che i corpi ossuti ne adorni, e percorrono
verdi mondi, regioni siderali
e i segreti di spazio e tempo interrogano.
Accanto al fiume
Su una radura isolata, o in un’ansa
di questo fiume che i Celti credettero
sacro, al riparo dall’urlo attutito
della città, qui dove il vento bacia
i capelli dei pioppi quando si alza
e imita il lungo ansito di un mare
non visibile, che ha foglie e non onde,
troverò sempre asilo – ormeggio i passi
su una lingua di sabbia asciutta e fresca
e lì mi stendo, dove a me ben nota
una corte di alberi si leva
e m’offre con la sua mobile cupola
un nascondiglio complice alla vista
del mondo; e come un figlio che ritorni
da un vano errare alla casa del padre,
mi accoglie su un letto d’erba, in attesa
che il sole cali. Alla vostra oasi, alberi,
sosto con gli occhi socchiusi, e mi sento
come protetto, almeno per mezz’ora,
al sicuro da un certo inquisitore
che va frugando i miei pensieri e ha il compito
di consegnarmi prima o poi una carta
con sopra impressi i termini di quella
vecchia pendenza solo accantonata
ma non risolta, con cui farò i conti.
(Riva dell’Adige, estate 2022)
Il mio rifugio
Vengo a quest’angolo a me solo noto
dell’Adige, dove una città sorge
antica, verde, non da mano d’uomo
innalzata: e nell’ombra dei suoi rami
lavo il mio sangue stanco, non so più
quale fu la mia storia, non più mio
è il nome con cui il mondo mi chiamava,
e mi spoglio del volto che indossavo
in mezzo agli altri, come pelle morta;
e nient’altro che stendermi vorrei
sotto un salice, e attendere che il sonno
versato dalle cicale mi copra,
miele sonoro che assorda i ricordi;
e immergermi nel mormorio dell’acqua
che bacia i ciottoli senza svegliarli,
e con le sue molli onde ripete
che anche il dolore a questo fiume è simile
e il destino delle sue onde imita.
IN UNA PINETA, IN ESTATE
Mi sdraio sulle ginocchia dei pini:
versano l’ombra, premurosi sporgono
i rami folti, volti in cerchio affacciano
vigili a farmi la guardia nel sonno.
Li agita il vento e sembra che mi parlino;
pretoriani gentili, per lorica
hanno il fogliame e come lance i tronchi,
Cureti che scuotono al vento i sistri;
posso chiudere gli occhi, non ho più
da temere, finché le loro schiere
mi offriranno riparo, alzando un argine
tra me e ciò che era il mondo, e finché il sole
di tanto in tanto farà capolino
fra i loro elmi, a baciarmi la fronte.
In una pineta, in estate
Mi sdraio sulle ginocchia dei pini:
versano l’ombra, premurosi sporgono
i rami folti, volti in cerchio affacciano
vigili a farmi la guardia nel sonno.
Li agita il vento e sembra che mi parlino;
pretoriani gentili, per lorica
hanno il fogliame e come lance i tronchi,
Cureti che scuotono al vento i sistri;
posso chiudere gli occhi, non ho più
da temere, finché le loro schiere
mi offriranno riparo, alzando un argine
tra me e ciò che era il mondo, e finché il sole
di tanto in tanto farà capolino
fra i loro elmi, a baciarmi la fronte.
Confidenza con gli alberi
Sussurra il pioppo il suo segreto al cielo
e il cielo è chino su di lui in ascolto;
ogni creatura con le altre comunica
ma in un codice non intellegibile
dai nostri sensi, se non per pochi attimi
privilegiati, in cui ci fanno parte
gli alberi della loro confidenza
e in cui non più inerti e muti ma vivi
crediamo i loro volti, di persone
anche se non umane, e ci accorgiamo
che c’è fra loro un accordo, una sorta
di sintonia sottile anche se tacita,
una complicità ma sottintesa;
e quasi, mentre sembrano guardarci,
una condiscendenza intenerita
verso di noi, una pietà indulgente.
Dono degli alberi
La loro è una compagnia ma discreta,
e loro è fra tutti gli esseri il compito
di farsi emblemi, di testimoniare
un’armonia che terra e cielo abbraccia
e che è riflessa nelle loro forme;
non chiedono altro che silenzio e altezze
in cui immergersi, in cui allungare i rami;
non giudicano, non fanno domande,
non distinguono meriti da colpe,
non vantano opinioni o idee, non hanno
cognizioni di giusto e di sbagliato,
non hanno di stare soli paura;
quest’ombra fresca è il dono che concedono
a chi hanno scelto, e la loro presenza
austera, al cui cospetto ci si sente
come protetti, al sicuro dal mondo.
Investitura
Convengono come a un appuntamento
gli alberi a questo gomito di fiume
puntuali al tramonto, hanno risposto
anche oggi a una sorta di chiamata
che da secoli si ripete; e a margine
della loro assemblea, io sono ammesso
a quella cerimonia così intima
a cui essi presiedono compunti.
E il sole li incorona, li proclama
ciascuno re, li investe di un diadema
di fiamme bianche sui rami più alti:
il sole che ogni membro che compone
la vostra milizia, alberi, consacra
vassallo della potenza sovrana
su tutto ciò che metta e perda foglie.
Patto antico
Come se mi abbiano atteso da secoli
questi alberi tra le loro schiere
mi accolgono, e uno di loro in me vedono
anche sotto la mia maschera d’uomo;
fare ritorno alla loro famiglia
sa ogni volta di riconciliazione,
ricuce un’alleanza ribadisce
uno strappo rinnova un patto antico –
compensa una quaresima o un esilio.
A un pioppo
Da quant’è che sei qui, pioppo? Quest’ansa
del fiume a te e ai tuoi fratelli appartiene
da ben prima che fossi nato io
e che le auto il tuo sonno violassero
dalla strada che rade il tuo rifugio;
ricordi quando in processione gli uomini
venivano a inginocchiarsi al tuo altare?
Invocavano da te protezione
con riti e offerte e danze e torce accese
intorno al tronco per tutta la notte;
forse da un tempo ancora più remoto
scegliesti questo ritiro, qui dove
l’occhio del mondo non ti può raggiungere:
la pace bevi qui, la forza attingi
dalla corrente in cui affondi radici,
nel suo respiro ti avvolge il silenzio
e un nido d’ombre un castello di rami
fissa confini al tuo esilio e ti scherma
dalla sferza di soli e di uragani;
e amici non ne chiedi, pago già
che tanti della tua stessa progenie
ti stiano accanto lungo queste rive,
come te assorti e muti, o con cui forse
comunichi ma come non sappiamo,
come te parte di un fitto sipario
di foglie da cui ecco, appena il vento
lo smuove, appare l’acqua, il luccichio
del suo sorriso di dea mite e verde,
dea bambina che a suo arbitrio si mostra
e solo a pochi elargisce le grazie.
Potessi somigliarti, avessi anch’io
un angolo in cui sparire! Non posso:
troppe cose conosci più di me,
troppo più fragile il mio del tuo corpo
anche solo per prenderti a maestro.
Vecchio olmo
Avrei vissuto bene da eremita;
mura di legno, massi come letto,
una capanna, perfino una grotta
sulla spiaggia, a due passi da un ruscello,
ghiande per cibo e per compagni i passeri.
E avrei imparato a pregare, in ginocchio
davanti all’Orsa, avrei fatto dei boschi
la mia chiesa; e nel fiume e nella pioggia,
quando le loro voci sembra che alzino,
avrei il grido di Dio riconosciuto.
Ma non è dono il mio essere solo:
non mi so fare simile a quell’olmo
che non ha accanto se non la sua ombra
in cima all’erta, e non sembra soffrire
il proprio esilio, anzi ne prova orgoglio
e allunga i rami forti tutt’intorno
negli spazi: e non ha bisogno d’altro
che del sole e dell’acqua che lo nutrono
e di ciò è pago, e ogni bene del mondo
nel verde fitto di canti racchiude.
Orme nel bosco
La verde porta
Dove mi porta il bosco – o meglio, questa
pineta senza pretese che in pochi
conoscono, alle spalle di un quartiere
di più recente costruzione: seguo
le spire di un sentiero che si snoda
sinuoso nella macchia, me ne lascio
condurre docilmente, come polline
che si arrende alla brezza, dal fogliame
mi chiamano invisibili sirene,
e a lato dei miei passi vedo aprirsi
antri incantati, maliosi cunicoli
che Sibille potrebbero ospitare,
oscuri anditi, grotte scavate
nella corteccia, dedali di muschio
che mi tentano a spingermi più avanti
a costo di smarrirmi, anche se ignoro
la direzione e la meta; poi ecco
un lampo smalta la fronte degli alberi:
varco archi di tronchi che si mutano
in braccia e mani, in artigli che intorno
mi si stringono come ad afferrarmi
e a farmi loro prigioniero, penetro
una porta ritagliata nel verde,
foglie e massi oltrepasso che sorvegliano
una frontiera sovrannaturale.
Lo sguardo degli alberi
Sarò pazzo; ma sembra che mi osservino,
che curiosi o benevoli mi seguano
occhi nel folto, e discreti mi spiino
e mi scortino, e di cui solo a tratti
mi accorgo, mentre più a fondo m’inoltro
nell’intreccio di rami delle vie
della loro vivente città che ha
tronchi invece che mura, da altri passi
non violata prima dei miei, che stanano
recessi d’ombra, sconosciuti ai runners
domenicali, oasi alla canicola,
scrigni odorosi, che schiudono gemme
d’erica e menta, di bacche selvatiche
e velenose; e minuscoli incendi
di aghifoglie, di more che traboccano
dagli architravi lignei tempestati
da grappoli rigonfi color sangue
vedo esplodermi intorno su ambo i lati
del sentiero; e più in là, oltre i rovi, un brivido
di lampi, di farfalle adamantine
tremulo solca la schiena del fiume,
un’effimera pioggia di riflessi
che il sole scocca e che il rombo costante
delle acque sovrasta; e avanzo come
un cieco che obbedisca ad una voce
che lo chiama, smorzata eppure limpida,
e che a lui solo parla – finché a un tratto
una paura che non so spiegarmi
mi assale rapida, ma alzo gli occhi
e loro mi rassicurano, gli alberi,
che tutto sanno, di me e di ogni cosa,
e che ogni dubbio e ogni tormento spengono
nel verde sonno delle loro cime.
Nell’uliveto
Come un cieco, in un uliveto penetro
e in mezzo ai suoi abitanti mi aggiro
e ad uno ad uno li interrogo, batto
il loro dedalo e ogni via setaccio
del loro regno, a stanare orme, indizi
di un certo enigma che da tempo tentano
di decifrare quei rami, raccolti
in pose meditative, contorte;
gli alberi mi accompagnano e mi fissano
come sul punto di sciogliere un voto,
di pronunciare un responso o rispondere
a un dubbio che mi trascino irrisolto,
però per qualche motivo che ignoro
tacciono, reticenti si trattengono
dal dirmi quella parola che attendo
e muti di fronte a me ancora restano.
Incontro con le ninfe
Nell’intrico dei rami, un infinito
minuto e ombroso, a misura di sguardo,
verde dedalo che con i suoi uncini
arborei mi ghermisce, sortilegio
che in queste membra lignee tramutò
membra che erano umane; bevo il filtro
degli alberi, nel folto brusio affondo
e cieca una risacca mi trascina
di muschi e di radici anziché d’acque:
io complice io consenziente vittima
della malia che dissipa i miei passi;
bosco gremito di oscure invisibili
presenze femminili, popolato
da spiriti di vergini che uccidono
seducendo, che un arabesco simulano
di mani e braccia, sinuoso, annodando
le spire di una morsa vegetale
avviluppante, e tramano un incanto
pericoloso ai danni di chi incauto
attratto dai loro cori si inoltra
per quel sacrario, e nell’agguato cade
dei loro lacci flessuosi predaci.
Porto in mezzo ai rami
Da quando il caldo è iniziato, mi capita
di venirci quasi ogni pomeriggio
nella pineta che sta a poche svolte
di strada dalla spiaggia, e posso credere
che i suoi abitanti ormai mi riconoscano,
mi abbiano in un certo senso adottato;
e mi sembra che verso di me nutrano
quasi un affetto, una benevolenza
mista alla canzonatura bonaria
che si ha nei confronti di un amico
non troppo sveglio, sprovveduto, ingenuo,
o di un fratello più piccolo; e a volte
ho l’impressione, quando sono solo
in mezzo a loro, e il vento imita voci
umane tra le foglie, in una lingua
per me straniera, che in mezzo a quei rami
mi offrano un porto, e che perfino provino
a parlarmi, che sappiano chi sono
e quale pena, che non oso agli uomini
confessare, anche oggi mi conduca
a cercare conforto alla loro ombra.
Il vento è una promessa
Esiliato in un bosco, è come se
mi fossi agli occhi del mondo nascosto
in un angolo della più lontana
galassia; nessuno sa in questo istante
dove io sia né quali echi sottili
dal folto delle balze si diffondano
e mi chiamino, verdi melodie
sull’arpa tesa tra opposti crinali;
narratori di favole, benevoli
gli alberi mi accompagnano mi indicano
un luogo a loro soli noto, in fondo
a un sentiero dove l’oblio elargisce
una fonte a chi attinga alle sue acque;
e il fiume sa a memoria ogni mio passo
e nel suono che fanno le sue labbra
contro la pietra colgo una sommessa
esortazione a spingermi più avanti;
e c’è nel vento una verde promessa.
Verdi navate
Mi spingo lungo un filare di platani
e un tremore mi prende: sto violando
con i miei passi il silenzio di un tempio
in cui assorti come sacerdoti
sono riuniti in preghiera questi alberi.
Vati barbuti, pensosi vegliardi,
depositari ultimi di un arcano
dimenticato: alberi, si scopre
l’uomo tornato bambino e di nuovo
capace di stupori, quando entra
nelle vostre basiliche e vi osserva
nudi nel sole e nella pioggia ergervi,
quando vi ascolta mormorare salmi
sulla frusciante pagina che srotola
scorrendovi in mezzo ai capelli il vento.
Mi fanno da guida questi alberi
Dove vado lo ignoro ma mi fido
di questi alberi, lascio che mi guidino
mi portino per mano: loro sanno
l’uscita dal labirinto gorgoneo
di questo bosco che nel suo viluppo
mi tiene prigioniero – districato
il groviglio asfissiante dei sentieri
avvinti gli uni agli altri in una morsa
di serpi a divorarsi, ci dev’essere
oltre il muro dei rami che fanno ombra
sui miei passi, oltre le cascate d’edera
che assediano le facciate, e in agguati
di mani vegetali le sommergono,
un prato calmo, che dorme disteso
nel letto del chiarore: è lì che l’eco
del traffico non giunge, è lì che a breve
coricherò il mio corpo, e le mie orme
troveranno la foce che le attende;
mi porta il vento il suo sussurro verde,
mi chiede di seguirlo, e non mi mente.
Parentela con gli alberi
I più nobili alberi a vedermi
si compiacciono, sembra mi salutino
senza alcun imbarazzo, e come un membro
delle loro famiglie mi ricevono;
compagni schivi e fedeli mi sono
nella solitudine delle mie
ore più pure, mi illudo che vedano
in me un loro fratello d’elezione.
Forse in un’altra vita fui anch’io
uno di questi pioppi, o uno dei salici
che tra un’estate e quella dopo offrono
su queste rive riparo ai rondoni,
e di nuovo scontato il temporaneo
esilio nella mia menzogna d’uomo
mi vestirò di rugiada e di canti,
perché è al loro sangue che appartengo.
Adunata dei papaveri
A ridosso di certe case, un campo
che non ha proprietario; lo hanno invaso
in meno di un pomeriggio i papaveri
con le loro legioni, convenute
da chissà quali remote miniere
di cinabro, all’unisono qui, sede
del loro appuntamento ogni anno, al termine
di un’epopea di nevi sconfinate
che alle selvagge redini affidandosi
dei venti di primavera affrontarono,
delle correnti fecondanti e tiepide.
A radunarli, in questa verde piazza,
un rito da officiare di cui sono
insieme adepti e ministri; hanno indosso
tutti, per l’occasione, una livrea
di porpora e lo sguardo verso ovest
tendono insieme, nella direzione
in cui il sole sta migrando, oltre
i fili neri della ferrovia:
e fanno voto, testimone il sole,
che torneranno anche il prossimo maggio.
E un giorno dopo o due, sul presto è già
vuoto quel campo: i papaveri, tutti,
sono partiti senza lasciare orma,
ma nessuno li ha visti andare via,
nessuno sa dov’è che siano adesso.
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