Racconti di Antigonos
 


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Il luogo dell’anima
Invitato, qualche mese fa, dalla Sig.a Valentina Foni, ad esporre qualcosa in una trasmissione radiofonica intitolata “Il luogo dell’anima” ho tentato, non essendo un granchè come scrittore, di focalizzare ricordi passati. Così ho rivisitato, anche fisicamente, luoghi della mia infanzia oggi molto cambiati.

È forse impossibile, per me, definire un unico luogo dell’anima. Ho provato a scindere esperienze, sensazioni e sentimenti vissuti in varie epoche della mia vita. Un lavoro che ha portato a galla ricordi oramai offuscati dall’incedere della vita, dalla velocità che oggi ha preso il vivere la giornata.

Mi son detto: “questa è un’ottima occasione di rallentare, meditare, ricordare”. Ci ho preso gusto e credo che, grazie a questa esperienza, qualcosa sia cambiato anche nel mio modo di affrontare i problemi quotidiani che sembrano, a volte, insormontabili. La storia, la mia storia. Un vissuto che, a 45 anni, posso rileggere con l’aiuto di ricordi che spero possano, un giorno, risvegliare interesse anche nei miei piccoli figli che ancora non potrebbero gustare il sapore o gli odori o i colori di quanto cercherò di esprimere con queste poche righe; scritte di getto e impeto come a me piace, senza troppa cura della sintassi (mi vorrete scusare per gli errori), cercando di curare quel poco di grammatica italiana (per colpa mia e non degli insegnanti) che ho imparato al Ginnasio di Bellinzona, dal buon professor Claudio Rossi di cui serbo ancora, dopo molti anni, un graditissimo ricordo.

Da bambino, ho avuto la fortuna di ascoltare storie e aneddoti legati al vissuto della mia famiglia. Il bisnonno paterno Silvio, artigiano presso l'azienda meccanica Saurer di Arbon; mio nonno paterno Bruno, nato in Svizzera, divenuto poi imprenditore in Italia e ridotto sul lastrico a causa della seconda guerra mondiale. Evidentemente già dai primi ricordi, mi dico, ne esce uno spaccato storico notevole, un vissuto di tragedie, la guerra, l’emigrazione, i ritorni, la povertà dopo il benessere, ma anche di felicità, di nascite e di vita insieme. Una famiglia già molto moderna la nostra, europea. Con l’idea del lavoro come atto garante il benessere famigliare e comune (sembra uno slogan…).

Un periodo, credo, ha segnato me, più di tutti gli altri. La fine degli anni ’70 inizio anni ‘80. È stato, il periodo sicuramente più intenso della mia vita. Trascorso stabilmente in un paesino della valle Mesolcina, Grono in Svizzera, ma con frequenti viaggi verso quella parte d’Italia che amavo ed amo ancora oggi. La provincia di Venezia. Che dire, due luoghi così diversi, in completa antitesi umana e ambientale. Il paesino di valle, nelle Alpi, radicato alle proprie usanze, con quel dialetto “lombardo” che i veneziani schernivano, al solo sentirlo e la città industriale in riva al mare.

A Grono sono nato e cresciuto. Ho frequentato le elementari del paese e poi il Ginnasio cantonale a Bellinzona. Ho imparato il dialetto del posto, nonostante i miei genitori parlassero tra loro un dialetto che non direi proprio veneziano, ma dalla cadenza quasi identica, un ibrido tra la lingua della Riviera del Brenta e il più comprensibile linguaggio di Porto Marghera.

Porto Marghera, che s’incontra prima di percorrere il Ponte della Libertà che porta alla città lagunare. La Porto Marghera cantata da Luisa Ronchini, dove mio nonno paterno negli anni ‘40 aveva una sua fonderia artigianale, all’epoca modernissima. Mio nonno paterno imprenditore – artigiano. Custode di segreti, appresi durante anni di lavoro nelle fonderie. Lavoro di fuoco, minerali, metalli e carbone. Durante la guerra, il nonno, raccattava i rottami di aeroplani precipitati, ricchi di alluminio, per farne pentole. Non avrebbe mai fabbricato armi. Lui fabbricava attrezzi da lavoro, campane e anche pentole appunto. Affascinato ascoltavo, quelle poche volte che si concedeva a noi nipoti per qualche racconto, i metodi di lavoro così alchemici di allora. Ascoltavo quasi ipnotizzato storie che sembravano vecchie di secoli di imprese misteriose, titaniche e pericolose, il bronzo sacro materiale per le campane, l’alluminio trasformato da componenti tecnologici di guerra in attrezzi per massaie.

Dicevo Porto Marghera, fatta d’inquinamento e di lavoro. Le industrie che ingoiavano migliaia di operai ad ogni turno, per vomitarli poi al termine del lavoro. Io li ho visti, da piccolo. Non mi pareva possibile vedere concentrate tante persone e mi divertivo a calcolare quanti paeselli come Grono, potessero starci in uno solo dei quei immensi capannoni. Quella casa, la casa del nonno, nel quartiere popolare da dove si udivano le sirene delle navi nel porto e dove si concentravano migliaia di operai. Chilometri di fabbriche, allineate lungo il porto industriale più grande d’Italia. Così sinistro, ma così affascinante. Quante volte, a piedi, affrontavo il percorso che mi portava vicinissimo alle fabbriche, in riva al mare. Quel mare non aveva nulla di poetico. Faceva paura tanto era nero e sporco, ma consentiva la navigazione di navi che vedevo fabbricare davanti a me. Che cantieri, quelli navali. Gli uomini sembravano formiche operose che pezzo dopo pezzo costruivano quello che doveva divenire un gioiello di tecnologia marittima, enorme per me abituato a ben altre proporzioni, quelle valligiane. Le navi erano grandi ma le montagne sono molto più grandi, mi dicevo. Il fumo dalle torri di cracking delle raffinerie, le fiammelle delle torce alte fino a 100 metri. L’odore dolciastro della soda ed acre dell’ammoniaca.

I racconti, volutamente gonfiati ad arte da parte di adulti veneziani, che mi chiedevano delle montagne e della neve. Loro, che con la proverbiale esagerazione veneziana volevano metterci paura, con storie di fughe di gas venefici che poi puntualmente avvenivano realmente e di infortuni occorsi a poveri operai o di sostanze che potevano causare malattie incurabili. Le puzze che si odoravano passando in vicinanza della Montedison da dove mi raccontavano che dal petrolio ricavavano finanche i cruscotti di plastica delle autovetture, le calze in nylon per le ragazze, vernici, colle, solventi, fertilizzanti e una miriade di altri prodotti che, mi dicevano, utilizzavamo tutti i giorni.

Poi al sabato c’era il mercato di Marghera. Enorme, colorato, vociante e ricco di ogni mercanzia che per girarlo una mattinata non bastava. Mia mamma si divertiva a confrontare prezzi e prodotti che qui da noi sembravano introvabili. Ma non solo. L’acqua alta dopo un violento temporale, che non si verifica solo a Venezia ma in tutte le parti di laguna sottratta al mare. Stupefatti correvamo giù in strada per vedere quanto era alta l’acqua. E le campagne appena fuori la città industriale, i ponti e le ville della Riviera del Brenta posti fantastici, di pianura infinita come solo nei film di Guareschi si potevano vedere.

Luoghi d’origine dei miei nonni materni Angelo e Maria, legati alla campagna, agli animali ad un ritmo di vita diverso dall’ industriosa vicina città. Erano impressionanti le giostre presenti nelle feste per il Santo patrono di paese. E la gente; quanta gente, da far venire il capogiro. Da noi le giostre erano molto piccole anzi a Grono credo che non siano mai arrivate. Solo una volta, ricordo sia arrivato un circo che ha stazionato nel campo di calcio, impedendoci di giocare.

Ma...mi fermo qui. Si stanno concatenando i ricordi, si mescolano come un fluido che non posso contenere in un foglio di carta.

Ma perché un posto simile, Porto Marghera, per i più per nulla poetico potrebbe essere un mio luogo dell’anima? Semplice perché in quei posti crebbero appunto mio papà e mia mamma. Quindi é impossibile sottrarsi al fascino del legame che i miei genitori dimostravano per quei posti. Fantastica era la possibilità a me concessa di poter sperimentare esperienze di vita così diverse per poi poterle raccontare ai miei compagni a scuola che ascoltavano i miei racconti di navi enormi, autocarri giganteschi e di paesaggi surreali creati nei periodi invernali quando la nebbia foderava tutto rendendo difficile persino ritrovare casa propria dispersa in intricati e infiniti viali di Marghera.

Al ritorno dalle visite ai nonni, mi ritrovavo a casa, Grono. Altro mio luogo dell’anima? Lì sono cresciuto, ho giocato, ho condiviso parte della mia vita con i miei compagni più cari. Ci conoscevano tutti in paese. A 12 – 13 anni si bramava di poter giocare a pallone nella squadretta di paese come i grandi, oppure giocare a bocce in uno dei tanti (ormai scomparsi) viali di gioco. D’inverno si pattinava su una pista di ghiaccio naturale, ormai scomparsa. E a 14 anni era il motorino (oggi scooter) a rubare tutte le nostre attenzioni. Ma c’erano anche le montagne circostanti da conquistare, accompagnati da paesani appassionati di gite, i boschi da esplorare che racchiudevano la vecchia strada che portava in Castaneda e che utilizzavamo come luogo di prova per le modifiche apportate ai nostri ciclomotori.

E la Calancasca, torrente imbrigliato, incanalato e offeso, che ogni tanto a causa dei temporali tentava una ribellione violenta come nella notte del 1978 quando una tragica alluvione ci tenne desti tutta notte, pronti alla fuga. I bagni nelle acque gelide del riale di Val Grono, alla cascata. Le zuffe, talvolta anche piuttosto energiche, ma mai cattive, tra vari gruppi di ragazzi, che finivano poi con l’intervento di questo o quell’altro genitore. Le scorpacciate di ogni genere di frutta sottratta nei giardini delle suore della Mather Christi, marachelle che oggi fan sorridere per l’ingenuità. E l’arrampicata pericolosissima, prova di coraggio, della scala che fiancheggia la condotta forzata della centrale idroeletrica situata in Oltra.

Da ragazzi si scorrazzava con i motorini per le vie del paese o in campagna, in maglietta e pantaloni corti. Nei mesi estivi si esercitavano le prime esperienze di lavoro in cantiere con papà e ritornavo orgogliosamente stanco alla sera. Le galline, allevate con cura…e chi parlava di aviaria allora. La ricerca di castagne, i funghi e poi il suono dei campanacci che annunciavano la discesa dagli alpeggi del bestiame in settembre e l’inizio della scuola. Le nevicate novembrine che segnavano l’oramai iniziata stagione invernale. Le giornate sugli sci trascorse a San Bernardino, villaggio di montagna raggiunto con l’autobus da solo o con uno o due compagni di scuola. Mi accorgo che a 12/13 anni eravamo già molto indipendenti e non c’erano telefonini. Di videogiochi si sentiva appena parlare ed erano presenti solo nei ritrovi pubblici a noi rigorosamente preclusi.

Il computer era nominato solo nelle trasmissioni tv o nei film di fantascienza. I dischi di vinile erano oggetto di culto, non c’erano i CD e neppure internet. Il collegamento ferroviario tra la Mesolcina e Bellinzona non c’era già più da un pezzo, noi ci servivamo dei torpedoni che portavano mescolati tra loro noi studenti del ginnasio, della scuola di commercio o del liceo, con impiegati statali e operai, ogni giorno. Autobus che molte volte non utilizzavamo apposta, facendo autostop. L’autostop, per noi era gesto e prova tangibile di libertà.

Che dire, in questi due luoghi molto differenti ho conosciuto persone che non nominerò per paura di dimenticare qualcuno. Tutti hanno contribuito alla mia formazione di giovane insegnandomi concetti semplici di educazione e rispetto. Molti di loro non ci sono più, altri invece sono ancora intenti in faccende di vita. Questi luoghi legati al periodo specifico visti da un ragazzo di 12 – 13 anni, erano impregnati di storia, di esperienze, di modi diversi di concepire la vita stessa. Questi luoghi nel senso più completo del termine e cioè mettendoci dentro tutto, hanno segnato la mia vita, anzi di più: l’hanno plasmata. La mia famiglia permettendomi di paragonare due realtà senza mai privilegiarne una in particolare mi ha permesso di ottenere una miriade di informazioni così diverse da non poter premiarne una a discapito dell’altra.

Luoghi dell’anima. Ricordi che fanno parte di me. Alla fine, rileggo queste righe, appunti di vita. Parlando con mia moglie, che ha ascoltato con attenzione le mie parole, mi accorgo che la fusione di ricordi e l’opportunità di esporli ha reso possibile creare (scoprire) un luogo, non ci credevo all’inizio, appunto un luogo dell’anima.

Il mio luogo dell’anima… sono io.


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