Racconti di Cataldo Amoruso
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Macchina da stridere. Di lui so poco, però mi piace parlargli e lasciarmi prendere dalla sua aria svagata. Sono sue queste divagazioni che riporto. Ho voluto dedicargli alcuni ritagli del mio tempo, è poca cosa, lo so, so che questo mio impegno molto relativo è poca cosa, non riesce ad essere neanche un tentativo in grado di alleggerire la sua solitudine . Lo conosco da poco, forse da troppo poco per non temere che questa mia presenza possa risultare invadente. E non lo vorrei, non vorrei essere frainteso. Ci ascoltiamo, e ci sentiamo, sempre più spesso e sempre con maggiore interesse. …Ed allora spero che lui non viva questo mio tentativo di dare una forma non solo grafica a quello che mi confida, spero che non lo viva, dicevo, come un mio interesse, una mia sovrapposizione intellettualistica. Devo stare attento affinchè non si senta studiato, perchè non si senta costretto ancora nell'angolo, perchè rimanga così come io lo vedo: sincero, o come lui dice, “animale”. Ed allora lascio che parli ed in qualche modo mi sorprendono alcune delle cose che dice: mi confida, ad esempio, che prova sollievo quando sente di ignorare pienamente un argomento e sta bene, sente che in qualche modo si realizza quella sua minima idea secondo la quale bisogna vivere le cose ed i sentimenti interamente, col corpo, perché il corpo non può mancare, il corpo non può fallire, "sente" tutto, e gioisce, ristagna o si ammala, a volte muore. Poi si rammarica, ammutolisce, perché il suo corpo è stato esiliato e disattivato, dopo essere stato frainteso. Ed era parte integrante dell'anima. Questo, mi dice, è inaccettabile. E non ho parole da offrirgli o porgergli. Ha accettato che io trascrivessi alcune parti di quello che mi confida, miste a parti del suo diario, a condizione che io presenti le sue parole come una attestazione di balbettio... Perché è convinto di questo: che ad osservare le cose, a viverle dentro, la parola, questa "cosa" che lui chiama o vive come una forma di presunzione umana, non può ridursi ad altro che a balbettìo. Poi tace, e qualche volta mi ricorda che stranamente i dizionari utilizzano una sola parola per indicare alcune attività dell'uomo che forse non sono poi troppo differenti: glossolalìa come ricerca della "parabola", la parola divina, glossolalìa come acquisizione improvvisa dell'uso di lingue decadute, e glossolalìa come gioco infantile che crea parole "inesistenti" per alterazione di parole usuali, più semplicemente balbettìo. A volte vorrei chiedergli se è vero, che ha evitato di sapere altro, oppure chiedergli se non gli manchi semplicemente la voglia di parlare o dire. ...Ma so che non mi risponderebbe, che porterebbe ancora la mano alle labbra o al petto. E non glielo chiedo, non glielo chiedo perchè non posso e non devo essere d'accordo con lui, quando mi dice che, esaurita la ricerca di una o della parola di un qualsiasi dio, dimenticata o esclusa ogni lingua del presente, non rimane che quel gioco o balbettìo infantile che solo vuole sottrarsi al sopruso arbitrario delle parole, e non posso confessargli che come lui vorrei sentirmi bambino e felice di ignorare quelli che "sanno", e sanno soprattutto escludere ed eludere... proprio perché sanno di essere ugualmente diversi. E in fondo di cosa parlano,questi soprabiti intellettuali? Di soprabiti e sovrastrutture, finché avranno arroganza ed ansia solo intellettuali... Pure, mi fa rabbia questo uomo-bambino, perché poteva distinguere per tempo il sasso dalla mano che lo scaglia... Segue un esempio di balbettìo, senza titolo, tra parentesi. (Il processo di attribuzione di un titolo tende a superare i limiti delle aspettative: difficilmente un titolo risulta delu-dente, rappresentando fondamentalmente il dorso e la facciata. Cosi, i titoli si realizzano o sono realizzati, distinguendo un passaggio dall'idea di ciò che si vuol dire al corpo di ciò che si è detto: titoli deduttivi e titoli induttivi, la scìa o l'ab-brivio di un titolo, titoli aperti e titoli chiusi, assoluti od opinabili: testi che sono la spiegazione di un titolo, ovvero titoli che contengono l'essenza del testo. E titoli semplicemente arbitrari, titoli che sono già l'opera, il compimento dell'opera e dell'oggetto della ricerca : i titoli affossano o svuotano, come le onorificenze risuonano, vano il luogo e vano il nome. Dal titolo alla prefazione il passo è breve: la sofferenza rimane nel corpo delle parole, nel raggiungimento della parola ultima, a volte penosamente seguita dalla postfazione, essendo stato tutto detto, ma non abbastanza. Non è necessario leggere i libri, ancora meno lo è leggerli interamente: ogni libro è anche una entità muta, da osservare. Altresì non è indispensabile analizzare il contenuto: ogni simbolo grafico si presta ad una osservazione puramente pittorica, in quanto la parola, esaminata nella sua resa grafica, non è solo parola, è anche disegno e giustapposizione di caratteri, loro accostamento, alternanza di pieni e di vuoti, di spazi-luce. Mi chiedo se si scrive per sottrazione o per aggiunte. Forse si tratta dell'una e dell'altra cosa: ignorando qualsiasi metodo e volendomici comunque provare, a scrivere anche in mancanza di argomenti come sto facendo, sento di scrivere per sottrazioni e per aggiunte successive: ciò che mi sorprende è l'assoluto bisogno e totale non necessarietà di quanto appunto, il ritrovarmi nel luogo occupato dalle mie parole come di fronte ad alveoli indifferentemente con o senza denti... E' evidente che la lingua batte dove il dente duole ed anche dove il dente non può dolere, in quanto non c'è. Ad ogni modo, parafrasando l'anonimo autore del 'Lazarillo', che a sua volta parafrasava uno dei Plinio, come non c'è libro, per scadente che sia, che non abbia al fondo qualcosa di buono, direi che non c'è nulla di indicibile che non abbia in sé qualcosa di straordinario e di irrangiungibile: il silenzio. Ci abbiamo mai pensato, fuor di aggiunte e sottrazioni successive? Nella mia ristrettissima visione delle cose ho capito questo, probabilmente: che non c’è un reale bisogno di titoli o di parole per prendersi in giro, anche se l'ossequio alla forma può diventare doveroso. Squilibratamente vostro.) P.S.:oggi è tornata la mia macchina da scrivere... Sì, è vero, dovrei chiamarla macchina per scrivere, d'accordo, capisco, la familiarità non giustifica le imprecisioni...sono andato a prenderla verso le dieci di questa mattina all’ospedale delle macchine per scrivere, qui vicino, a pochi isolati. Sapevo che mi stava aspettando, che era già pronta, anche se, come sempre, avrebbe dissimulato alla perfezione la sua leggera ansia di rivedermi... E' incorreggibile, sempre così sulle sue, lasciandosi andare solo raramente, forse troppo bisognosa di una intimità sempre più difficile da raggiungere e da sostenere, una volta realizzata. Questo un pò la preoccupa, lo sento, la capisco, immagino che per delle macchine per scrivere debba risultare difficile, se non incomprensibile, il fatto che si possa essere stanchi o distratti o comunque incapaci o impossibilitati ad usarle come loro desiderano, ed allora si sentono trascurate, credono che la comunicazione possa venir meno, e quindi si abbattono, pensano ad altro, cominciano a decidere diversamente, a prendere precauzioni e misure, a nascondersi tra i tasti, a fissare dell'altro... Chiaramente il nostro rapporto ne risente, ed anche la carta, che poi sarebbe l'ambiente che ci circonda, me e lei, voglio dire, ne risente, ed allora siamo al pieno melodramma: “sei stato tu a battere su questo tasto!”...” No e poi no, sei stata tu!”... E via dicendo, fino a quando ci rendiamo conto di star esagerando, di aver consumato troppo inchiostro e riempito troppi cestini per nulla, sì, in fondo proprio per nulla... Ed allora facciamo una pausa, magari ascoltiamo un disco mentre lei tace e so che mi guarda, si rilassa, non emette più alcun rumore particolare. Poi riprendiamo, i battiti regolari, tutto molto tranquillo, decidendo finalmente di essere disponibili, addirittura ben disposti, l'uno verso l'altra, ci concediamo anche il tempo di rileggere e di correggere, senza soffermarci troppo sulla paternità o la natura dell'errore... In fondo, ora che ci siamo detti tutto, non ci importa più di tanto che sia stato io o che sia stata lei a sbagliare. E cosi andiamo avanti fino a tardi, fino a quando in tutto lo stabile si sente solo il suo ticchettìo ritmato, con le pause del nostro alfabeto smorzato (é sciocco, ma mi attira, il passaggio da alfabeto 'Morse' ad alfabeto smorzato: dopo tutto, a chi non è mai capitato di sentire i morsi dell'alfabeto ed esserne profondamente smorzato ?... Questa parte potrei farla seguire da un ineffabile 'N.d.R.', o no ?) Bene, dirò che abbiamo degli alti e bassi... Se non sbaglio si dice così anche per indicare una generica situazione di instabilità dall'esito ormai segnato: quando è troppo evidente che qualcosa 'non gira' o che va tutto, più rotondamente, storto, allora si ricorre agli 'alti e bassi', oppure,nel caso si tratti di macchine per o da scrivere, all'alternanza incontrollata di maiuscole e minuscole, che seguono alle sviste, alle piccole violenze in forma di virgole e puntini che sospendono nel momento sbagliato o mancano nel posto esatto, e in questo caso si dice che 'va così', allargando ad arte le braccia in un movimento genericamente vittimistico, sempre situandosi dalla parte degli angeli o dei martiri, per raccogliere tutta la pietà, la compassione, il conforto, la benevolenza, proprio come mercanti travestiti da angeli. Ed allora va così, anche. Anche se rimangono i dettagli, e non solo. Per cui, se osserviamo attentamente una macchina per scrivere, noteremo innanzitutto -l’occhio non può, presto o tardi, non esserne colpito - la smisurata barra spaziatrice, in seguito passeremo ad analizzare le altre componenti fondamentali della parte meccanica di detto strumento (oppure: dell'apparecchio in oggetto, il che sottintende una notevole evoluzione tecnologica prima che linguistica, dal momento che nessuno direbbe più, 'ho preso l'apparecchio' per dire che ha fatto un viaggio in aereo, e da ciò si deduce che l'aereo non è più l'apparecchio per eccellenza, mentre ogni altro strumento, più o meno meccanico, può assurgere alla dignità di mezzo volante -e mezzo scadente, n.d.r., anche se volevo dire dell'altro). Chiaramente, invece, devo confessare che cercavo di riprodurre con poca fortuna il linguaggio professional-imbonitorio della ditta fornitrice di questa macchina per scrivere che ebbi la ventura, un dato giorno, di isolare dai riflessi di una vetrina. Per l'occasione, feci notare al venditore di turno che nella vita, al di là della vastità -e della crudeltà- delle barre spaziatrici, tutte le cose hanno un prezzo, ed anche quella macchina, la presente, doveva averne uno, che intendevo pagare al più presto, nonché a rate. Così fu, cosi cominciammo ad appartenerci, ci accordammo, io, la macchina, i tempi. Ora ero lì a riprendermi la macchina. "Niente...son venuto a ritirare la macchina, l'ho portata, più o meno …” "Che nome ?" "Sì, gliela vado a prendere, è pronta." Ah, ecco, dalle scale risale l'addetto con la macchina nell'apposito contenitore, nero, con un foglietto che reca il mio nome, vedo il mio nome che viene stretto nella mano e si adagia in un cestino, senza nessun rumore... Mi sorprende la posizione felice dei cestini, sempre così disponibili, sempre così a portata di mano, quasi attraenti... Forse dovrei rivedere la collocazione dei miei cestini, dar loro una nuova dimensione, o semplicemente disporli in posizione più accessibile, ma qualcosa mi trattiene: questa via di mezzo, indecisa, per la quale non riesco a cestinare nulla definitivamente, ed allora la memoria mi pesa, e ciò che dovrei eliminare approfitta della mia disponibilità per riproporsi almeno come sedimento: i miei armadi si vanno riempiendo di sedimenti e di scheletri arbitrari, e questo non è giusto, non è giusto in nessun caso, perché ricordo tutto, assolutamente tutto. E' stata la seconda volta che ho coperto la distanza dall'ospedale a casa con in mano la macchina: me ne vergogno, me ne vergogno, non di lei ma della sua custodia: si confonde con una ventiquattrore, ed allora ho dovuto affrettarmi, mi sembrava che tutto il mio lato destro pendesse da una parte, mi sembrava di dover cadere o inciampare da un momento all'altro: credo che vedendomi con una ventiquattrore in mano proverei una vergogna indescrivibile, credo che mi sembrerebbe di vedere il mio fantasma, e non ci tengo a vederlo, tanto meno a mostrarlo. Lungo il tragitto non ci siamo detti nulla, eravamo entrambi bloccati: lei da un fermo di sicurezza, io dai condizionamenti esterni, al di là dei quali, però, c'era solo il mio imbarazzo, e nient'altro, il mio timore che lei potesse sembrare diversa da quello che è e da quello che è sempre stata: una macchina per scrivere le mie aberrazioni contenuta in un involucro, appena riparata. Siamo arrivati in questo spiazzo con fori e pareti che segretamente indichiamo come casa, o più sinceramente a volte loculo e a volte alcova, e l'ho estratta dall'involucro, finalmente ci siamo rivisti, ed ho voluto sentire subito come stava, ho voluto chiederle dello svolgimento dell'operazione, del suo esito, con un pizzico di gelosia: in fondo mi è sempre spiaciuto il sapermi incapace di ripararla, di riportarla ad un corretto funzionamento. E’ andato tutto bene, e quasi non ne sono contento, anche se sono stato io ad insistere perché si facesse curare, perché accettasse questa separazione che lei, evidentemente, non sentiva ancora necessaria... Me ne ero accorto subito, del suo difetto, eppure l'avevo accettata così com'era, l'avevo battezzata “congenital lameness”, zoppìa congenita, quella sua difficoltà a riportare indietro il carrello, e quel suo leggero debordare durante l'avanzamento della carta, mi sembrava una sorta di balbettìo o appunto zoppìa, non saprei. Ma non volevo che le pesasse eccessivamente il mio modo di intervenire in suo aiuto durante le operazioni che le riusci-vano più difficoltose. Mi ci è voluto molto tempo per convincerla che le cose si possono fare anche diversamente, che non esiste una maniera assoluta di affrontarle.... Non potevo dirle: "guarda le altre macchine, guarda come sono tranquille, non hanno sussulti o ripensamenti: eseguono semplicemente, si comportano da macchine: pure, non meno di te, sono vere..." Infine ha voluto accettare i miei consigli, ha voluto provare a sottoporsi all'operazione. Un pò mi sembra delusa di rendersi conto che era tutto cosi facile, un pò mi considera meno di prima, e questo non è giusto, non lo accetto, non è così. Ma tutto si sarebbe ricomposto, ovvio: non abbiamo un altro posto dove andare, e questa è una zoppìa successiva, che forse decideremo di eliminare, un giorno, senza guardarci indietro. Già, proprio così. Ma intanto lasciamo che passi anche questo giorno. Lei è davanti a me, proprio qui davanti, macera nervosamente le mie dita, poi decide di tacere, di farmi tacere, mi lusinga in qualche modo, comincia a sciogliersi, vuole il mio corpo nel suo corpo di tasti oscuri, vuole percorrersi ancora... Lo facciamo così, senza ragione, senza un motivo che un giorno non lontano non sia destinato ad essere dimenticato, quando lei starà bene, quando le mie mani saranno state definitivamente esorcizzate. La mia macchina per scrivere... Ne strido ancora, e forse mi condanno per la mia incapacità a trattenerla, per la mia limitatezza monodattila, perché è vero, in fondo, che non si può usare un solo dito di fronte alla precisione del modello: non basta, non è mai bastato il mio indice destro, anche se volevo dire tutto, andando anche oltre la mia memoria ed i gusci eventuali di ogni forma di difesa personale... L'uso di questo mio indice non è servito a nulla, con esso non ho indicato nulla, non ho realizzato nessuna parola che la macchina già non contenesse. Sono nudo di fronte alla tastiera, estremamente nudo, e penso, penso ed aspetto. Mi lancerà altri segnali, altri segnali pronti a ferire o stupire, segnali che dovrò ancora patire ed analizzare, ed è dura, è una operazione dura, perché davanti a lei sono solo e muto ed invece sarebbe preferibile, o meno doloroso, essere sordo, non riuscire a sentire, essere escluso da ogni possibilità di ascolto... Ma è più forte di me, sono segnato: i suoi silenzi mi stravolgono, mi rendono ipersensibile, nel buio orizzontale dei silenzi la vedo mentre agita altre mani, vedo i tasti abbandonarsi ad un altro contatto, ed io ne impazzisco, impazzisco per ogni suo silenzio che screzia il mio buio in cui cerco di dare una forma al mio corpo o di riattivare un collegamento tra le sue parti. Ed invece sono solo i miei occhi che cercano di unire linee solo ottiche o solo immaginarie da un tasto, o lettera, all'altro, mentre lei rimane muta, come un enorme patrimonio che non riesco ad utilizzare, come rovine che non riesco più a vivificare. Però è lì, la vedo, la sento, posata sullo scaffale ricavato nell'anima, staccarsi sullo sfondo della nicchia ulcerosa che presiede il mio stomaco ed i miei movimenti, i miei miti che li abitano ed i riti che li sostengono... la mia macchina per scrivere nulla, nulla che sia diverso dal perdersi, dal segno inestricabile che mi trattiene e mi piega o mi inarca, macchina con occhi e mani, macchina dell'inconscio e dell'incoscienza, macchina che mi precede, macchina che procra-stina i confini dei giorni, i giorni che mi scivolano di mano e mi lasciano nella notte più acuta, più aguzza. La mia macchina è qui, ed i giorni, gli anni, passeranno indifferibilmente, passeranno i sorrisi, le gioie scoperte, ogni avvenimento continuerà a confluire verso un sorriso senile che sembrerà dire, o svelare, che se abbiamo sofferto il peso di questi giorni era solo perché non potevamo capire, e sarà un sorriso inutile e necessario, il sorriso che dirà che la vita andava solo vissuta, che nessuna indagine e nessun male ci era dovuto, che nessun dolore era inevitabile... A volte, di fronte al sorriso consapevole di un anziano, mi sento indicibimente piccolo ed infantile, mi pare di capire che lui sappia qualcosa di assoluto: che bisogna che scorrano molti anni, forse troppi, perché la vita si ricomponga, per saper vivere fino in fondo la limitatezza umana, per accettare infine il vorticoso spazio ristretto in cui l'uomo, la sua intera esistenza, si rivela per quello che é: una semplicissima funzione spazio-tempo... ed allora sento che sarà giusto invecchiare per tempo, saper tornare bambino in tempo, prima che la fine dell'esistenza ci sorprenda nel peso enorme della vecchiaia. Invece la mia macchina non pensa a questa cose, si limita a fissare queste mie fole, la sento sorvolare sulle cose che ignoro, perché, tutto sommato, le macchine hanno sempre ragione, ed anche lei, che ormai riparata non deborda e non nasconde la sua “zoppìa”, ha ragione, ha avuto ragione di me. E' lei che sa, in fondo, è lei che può continuare a battere sui tasti che mi addolorano o fermarsi. Intanto, dal non pensarmi non può che trarre giovamento. Ed oggi anch'io sono tornato, questa notte, ad un'ora che non preciso, che forse non oso precisare. L'ho scoperta, e come me, questa macchina languiva. E’ stato improvviso, dico, percorrerla a ritroso. Sono andato a ritirarmi all'ospedale degli esiliati, o degli esclusi, che non è qui a pochi passi, a pochi isolati, ma è qui, dentro di me, mi contorna , mi circonda, bordato o circoscritto dalle strade che è quasi impossibile traversare, ospedale con stanze che racchiudono altre stanze, labirinto coatto, con parole che escludono altre parole, con volti in cui sprofondano altri volti, esposizione assurda di solitudini e dolori, dizionario e non, di tutti i sinonimi e di tutti gli anto-nimi, di cui rimane una bocca spalancata, nera, che annuncia il nero di altre bocche, di altre voragini. Sono tornato questa notte, col mio fardello insostenibile di dolore, il dolore che mi è stato donato quasi come una condi-zione privilegiata, perchè la stima di sé stessi, la realizzazione dei propri interessi, porta anche a questo: a comminare le pene a man salva, senza alcun bisogno di giustificare l'assurdità, la comodità, la semplicità con la quale si condanna gli altri alla sofferenza. Qualcosa è qualcosa: l'amore non si giustifica; davanti alla personalissima scoperta, o invenzione, del sollievo o della felicità non esiste più nessuno: sono tornato questa notte, ad osservare la mia macchina per stridere, stordito, e mi sento un fuco, un fuco, nada màs, porque hoy y ya desde hacìa tiempo me aplastaron, me partieron, me hicieron pedazos y yo no sabìa, no podìa saber, que iba a nascer o morir, indiferentemente, para que otros, los otros,los que guian y gozan, fueran felices. Y ahora es asì, mis huesos, mis ojos, y los ojos de los verdugos, ed ora è cosi, le ossa, i miei occhi, e gli occhi dei carnefici, tra i tasti che scuriscono, abbrutiscono, mi negano anche quanto poteva rimanere di questa macchina che già ha macerato le dita, che già mi è scivolata nel sangue, chiude gli occhi e sorride. Del mio che presunsi melodramma. Vorrei non aver capito nulla di queste macchina, vorrei smettere di stridere.. Ma non posso. Tanto meno,ascendere. Allora ascendere lentamente, ed anch'io ritagliarmi un livello, probabilmente un livello di partenza o una linea di galleggiamento interna ad una tabula rasa dissennatamente, accuratamente elusa, giorno dopo giorno. Già … "Car il faut vivre, bien vivre, bien manger, eccetera eccetera". Eravamo in una stazione della "banlieu", anzi, più che una stazione ricordo due ali di persone, i binari, un cavalcavìa pedonale ed i segnali della stazione, le loro luci che si alternavano. Quel giorno mi abitava un uomo senza pelle, che ad una mostra sul seicento italiano, al Grand Palais, pioveva -aveva scorso molte tele, ogni tela un significato precisamente unilaterale -dai colori più o meno cupi : martirii abbondando concentra l'attenzione su cornici enormi contenenti santi, protosanti, martiri, protomartiri, ed ospiti, protoospiti, Marsia, Tantalo, Prometeo, Lucia, Agata, Lorenzo, Sebastiano... "Ecorchement". 'Ecorchement..? Come si dirà in italiano ? Probabilmente la traduzione era lì, pronta, ma ero troppo stanco per isolare la parola che poi per tanti giorni mi avrebbe inseguito: scorticamento. Scorticamento: senz'altro la mia dizione, come la traduzione, è inesatta, imprecisa... Nondimeno non aver pelle, esserne privati... Mi avevano accompagnato in stazione, ed ormai pioveva solo a tratti... Anche il tempo, a volte, riesce a disinteressarsi, a sembrare distante. Vedo, rivedo, quell'uomo -probabilmente "uomo" è solo una metonimìa in cui non si riesce a distin-guere il tutto dalla parte- in piedi sotto la scritta "direction Paris". Guarda di fronte, lei ha richiuso l'ombrello, lo scuote, non ne cade assolutamente nulla, nulla di cui ci si riesca a liberare e che non sia pioggia. Parlano lentamente, scandiscono sillabe, con grande rispetto l'uno verso l'altra, cercando di capirsi. Lui ha le mani libere (lei -nota- è molto carina stamattina) verrà a riprenderlo alla stazione, berranno un caffè, si saluteranno, rinsalderanno amicizia ed indirizzi, il treno arriverà, carico di uomini di colore che andranno a riprendere posto agli angoli del metro. Loro due parleranno, cercando di sopravanzare il tempo, di essere più veloci della locomotiva che già si insinua e più forti del rumore che presto arriverà ad attenuare ed annullare le parole, si ritroveranno dopo la folla più o meno assonnata, più o meno mal rasata, per un saluto definitivo, per ora. Lui si sorprende perché la ragazza non cerca di dare un nome ai concetti ed alle operazioni che mette in atto, ai consigli che mai oserebbe dettare. Semplicemente, dimostra l'amore per le piccole cose che vive, e all'uomo, stanco, calvo, quasi depennato, sembra di trovare, alle volte, aiuto o rifugio, comunque conforto. Ma non basta, non basta per non pensare. Pure, la memoria trattiene di allora particolari come cassette di manghi che recitano "mongues" ed indignazione di un anziano che mormora qualcosa come "non impareranno mai". Gli uomini di colore, chiaro. Particolari per parlare di nulla o di qualcosa in particolare, particolari per articolare la mandibola, come lavarsi i denti. I due risalgono dal metro, e la pioggia si è fatta vitrea. O forse è l'immagine dei vetri del caffè che rimanda una immagine ancora più tagliente della pioggia. O forse è il freddo che è rimasto nelle ossa mentre ha già smesso di piovere... non importa comunque, se non si scosta il velo dagli occhi, se non si riesce ad avere una visione più chiara. E che sia visione o ricordo, mi agita, e devo fermarmi, perchè un diario non ha importanza, non può dar nulla, ridare nulla, che già non sia stato... Ed i diari vanno, incassati, a volte incastonati, nelle spalle, anche nelle mie, che non hanno parole per quelle macchine per scrivere che non hanno voglia né bisogno di ascoltare. Come allora, al Grand Palais o nel metro, la osservo, e la porto dentro, la mia macchina dei silenzi, senza un diario che la riproduca, per esserne ancora sconvolto o reso inattuale, per la sua felicità rapita. gennaio 1989 Abbozzo. L'uomo dall'etichetta verde. Una sosta |