La nebbia si alzò
Leonardo diede un’ultima occhiata a tutta la documentazione che lo
riguardava, poi la rimise nella sacca interna del suo trolley.
L’altoparlante annunciò che il treno era giunto a Voghera. Una ragazza,
bionda slavata e con uno spiccato accento dell’est, perse l’equilibrio e
sbatté contro Leonardo, che pronunciò un soffocato “non importa” dopo le
scuse sincere della giovane. Si sentiva nervoso, da quando il notaio gli
aveva comunicato il passaggio di proprietà riguardo la casa un tempo
appartenuta a suo padre. Era come se temesse che qualcuno volesse
interporsi e proibirgli di impossessarsi di ciò che gli spettava. I suoi
sogni recenti erano stati indicativi in tal senso. Quella eredità (che
comprendeva anche qualche migliaio di euro) lo avrebbe tolto da una
situazione divenuta insostenibile a Ferrara, dove era nato e vissuto,
con un appartamento che avrebbe dovuto abbandonare a causa di uno
sfratto, e con il suo lavoro come assistente sanitario che svolgeva in
modo saltuario e che non gli garantiva una copertura economica. Erano
diversi anni che non veniva da quelle parti, da quando aveva smesso di
fare lo stagionale presso l’azienda agricola di suo padre. Si ricordava
della piattezza del paesaggio, soprattutto nel tratto Piacenza-Voghera,
percorso avvolto da fitti banchi di nebbia soprattutto nel periodo che
andava da ottobre a febbraio. Adesso aveva notato qualche fabbrica nuova
e degli spazi vuoti al posto di vecchie costruzioni, che accentuavano un
senso di desolazione.
Leonardo scese dal treno e sentì subito l’aria fredda che gli penetrava
nelle ossa. Alzò la testa e guardò un display che stava aggiornando
l’orario dei treni. Leonardo si strinse nel suo cappotto, poi scorse una
donna sui 45, con i capelli scuri e ingrigiti sulle tempie che puntava
verso di lui. Leonardo non stentò a riconoscerla: aveva messo su qualche
chilo, e la sua camminata era un po’ cambiata, ma restava inconfondibile
quel suo sorriso appena abbozzato, che smorzava subito. Leonardo non
provava piacere nel rivederla; gli tornò subito in mente il loro ultimo
incontro, con lui che cercava a fatica di dirle che la relazione era
arrivata al capolinea. Sonia non mollava mai un centimetro, e lui quel
giorno incontrò delle difficoltà, sottoposto alle domande e alle
osservazioni di lei, che avevano rischiato di frastornarlo. Erano
seguite addirittura delle minacce (il fratello di Sonia frequentava dei
bulli nella zona) e delle telefonate assillanti fino al giorno della sua
partenza definitiva per Ferrara.
“Ciao Leonardo, sapevo del tuo arrivo”.
“Le voci qui corrono, come sempre del resto”.
“Siamo vicini di casa, non lo sapevi? Mio fratello ha rilevato il
terreno adiacente a quello di tuo padre e ha fatto costruire un villino,
così io sono andata ad abitarci, e lui viene ogni tanto a trovarmi”.
“In compagnia dei suoi vecchi amici?”
“A volte sì, Ha mantenuto i contatti col vecchio gruppo”.
“Oggi lo definirebbero branco. Spero che lui sia cambiato, e non stia
sempre lì a vegliarti”.
Sonia si schiarì la voce e squadrò Leonardo.
“Mio fratello sa quello che deve fare, non è un irresponsabile”.
Leonardo sospirò lentamente e sollevò le spalle.
“Tu rimarrai qui a lungo?” domandò Sonia.
“Questa sarebbe la mia intenzione. Non so se riuscirò ad avviare
un’attività simile a quella di mio padre, ma mi piacerebbe farlo”.
Sonia gli sfiorò il bavero con l’unghia dell’indice e lo fissò dritto
negli occhi.
“Se avrai bisogno di aiuto sai a chi puoi rivolgerti. Anzi, conoscendo
il tuo carattere verrò a trovarti spesso per vedere come te la cavi”.
Queste parole suonarono come una sentenza per Leonardo. Se la rammentava
più loquace e meno sicura di sé, e questo aspetto non gli piacque. Sonia
lo salutò con un atteggiamento che lui ritenne trionfante, salendo su
una macchina parcheggiata fuori dalla stazione. Al volante c’era un tipo
dal fisico tozzo e coi capelli brizzolati. Leonardo riconobbe Giorgio,
il fratello di Sonia. Pensò che sarebbe stato seccante ricadere in
vecchie situazioni che lui riteneva già archiviate, ma non poteva
escludere questa eventualità. Giorgio lo fissò con quella espressione
supponente che ben ricordava, ma che stavolta lo disturbò
particolarmente.
Leonardo aspettava ora il pullman che lo avrebbe portato a destinazione.
Sul suo cellulare era arrivato un messaggio da parte del notaio, che
accennava ad un documento pervenutogli da una persona di assoluta
fiducia e amica del defunto, dove veniva reso noto che sulla casa
gravava un’ipoteca. Rilesse il testo sperando di averne frainteso alcune
parti, ma era stato scritto in maniera chiara e lineare, e si arrese
all’evidenza.
Leonardo si sedette su una panchina. La notizia lo aveva annichilito.
Scrisse un breve messaggio di risposta e dovette correggere alcuni
errori dovuti alla sua mancanza di concentrazione.
Si massaggiò il collo, che avvertiva irrigidito. Aveva pensato che
lasciare Ferrara avrebbe rappresentato l’inizio di nuova vita, ma non si
sarebbe immaginato di trovarsi di fronte a dei problemi di tale livello.
Non sapeva ancora dell’ammontare dell’ipoteca, il notaio si era
riservato di dirglielo a voce, ma supponeva che la cifra non fosse
esigua.
Forse avrebbe potuto chiedere realmente l’appoggio di Sonia, la sua
famiglia aveva notevoli possibilità finanziarie, ma questo avrebbe
comportato delle costrizioni.
Uno dei migliori amici di Leonardo viveva in un paese poco distante, ma
aveva perso i contatti e il suo numero di telefono non compariva
nell’elenco. Non se la sarebbe sentita di ricontattarlo per chiedergli
del denaro. Leonardo era tornato in un luogo che lui riteneva
appartenesse totalmente al passato. I suoi rapporti col padre si erano
parecchio raffreddati nel corso degli anni, e l’idea che un giorno
avrebbe ereditato le sue proprietà non l’aveva mai sfiorato. Suo padre
non si era sempre avveduto e poteva anche darsi che avesse acceso
un’ipoteca per liberarsi di altri debiti, creando così questa catena che
adesso coinvolgeva anche lui. Gli tornarono in mente immagini di lui, di
quando reagiva in modo isterico nei confronti della moglie o di altri
parenti, che lo criticavano per la sua mancanza di buon senso.
Il pullman si fermò presso la sua banchina. I lampioni del giardino
prospiciente la stazione si erano accesi. Leonardo salì e vide subito
un’altra persona che conosceva a suo tempo. Si trattava un operaio che
lavorava nello zuccherificio. Leonardo lo ignorò e si sedette,
appoggiando la testa sulla vetrata laterale dell’autoveicolo. Guardava
fuori ma pensando ad altro. Quando il pullman uscì da Voghera, la
visibilità iniziò a diminuire. Fitti banchi di nebbia avvolsero il mezzo
pubblico. Leonardo si mordicchiò ripetutamente il labbro inferiore.
“Lui è in attesa”
Sta scrivendo degli altri appunti sul foglio, lo fa spesso quando
vuole introdurre nuovi concetti o sviluppare in maniera più
approfondita alcune idee. Può anche darsi che annoti dei successivi
raccordi che gli permettano di dare maggiore coesione alla trama.
A volte si lamenta quando nel leggere un libro riscontra dei passaggi
a vuoto o delle parti totalmente incongrue. Si interroga spesso su
tali questioni, e dopo tante supposizioni non è ancora riuscito a
trovare una risposta definitiva…forse perché ce n’è più di una.
Si applica diverse ore al giorno, alternando periodi dove segue
rigorosamente una tabella ad altri nei quali segue l’istinto e
l’improvvisazione. Gli piace cambiare, anzi lo trova necessario. Dice
che influisce moltissimo sulla qualità della sua scrittura. Non gli
piace sedersi al computer in modo svogliato, senza energia. Quando si
sente stanco o il suo umore non è dei migliori, si infila la tuta ed
esce per fare una mezz’ora di jogging. Quando rientra e dopo una bella
doccia sembra rigenerato e comincia subito a battere freneticamente
sulla tastiera, e per un bel po’ di tempo non commette nemmeno un
errore. Ogni preposizione risulta perfettamente compiuta. La sua mente
le genera senza alcun ostacolo, e i risultati si vedono.
Non frequenta molte persone, il suo tempo libero spesso non coincide
con quello dei suoi amici. Gli capita di mettersi d’accordo con
qualcuno per poi ripensarci e disdire l’impegno subito dopo: non gli
va di uscire se i suoi pensieri non si distaccano dal suo lavoro. La
ritiene una mancanza di rispetto nei riguardi di un suo amico.
E’ attento alle critiche, le ascolta tutte con estrema attenzione, e
sforzandosi di essere il più oggettivo possibile, inizia a valutarne
lo spessore e l’efficacia.
Non sopporta invece quando lo sottovalutano a priori, o ancora peggio
quando una persona che lui stimava disprezza la sua attività di
scrittore, definendola una mera perdita di tempo. In quel caso lui
reagisce freddamente, interrompendo bruscamente i rapporti e senza
dare spiegazioni, considerandole ormai superflue.
Adesso sta scrivendo un romanzo breve di genere avventuroso. Va spesso
in biblioteca e si documenta cercando anche del materiale on line.
Fare delle ricerche lo stimola tantissimo, poiché gli dà l’occasione
per continuare ad imparare, per accostarsi a dei campi del sapere dove
non era preparato.
E’ proprio così: secondo le sue concezioni (ma anch’io la penso come
lui) scrivere comporta tantissimi aspetti, non ultimo dei quali la
possibilità di limitare la propria insipienza.
A volte lo aiuto in tal senso, utilizzando il mio portatile per
cercare delle informazioni servendomi dei links che lui non ha avuto
il tempo di esaminare dettagliatamente.
Sono la sua unica collaboratrice, e questo mi inorgoglisce. Dice che
il mio apporto gli è indispensabile e che sono bravissima a filtrare
le documentazioni, togliendo quelle ambigue o confuse e proponendogli
le più credibili. Sostiene che questa mia capacità non è dovuta
semplicemente al mio curriculum scolastico, alla mia laurea in lettere
e filosofia, ma a delle mie doti personali, alla mia intelligenza e
sensibilità.
Probabilmente esagera, io non ho una concezione così elevata di me
stessa, ma mi piace sentirmelo dire, soprattutto perché lui ne sembra
estremamente convinto.
Certe giornate è teso, nervoso ma lo comprendo e sorvolo sul suo
malumore, aspettando che recuperi la sua serenità. Se le tempestassi
di domande o mi mostrassi particolarmente apprensiva otterrei
l’effetto contrario.
Lui è passato attraverso vari momenti negativi, dovuti al fatto che
non si sia ancora affermato come scrittore.
Ha vinto diversi premi letterari, in altri si è classificato tra le
prime posizioni o è stato segnalato, i suoi lavori sono stati anche
inseriti in parecchie antologie, ma tutto questo ovviamente non gli
basta.
Si trova in una sorta di limbo dalla quale vorrebbe definitivamente
uscire. Sa che io lo appoggerò sempre, che lo sosterrò economicamente
senza alcuna riserva, ma è inevitabile che abbia questi cedimenti.
Gli dà molto fastidio vedere molti personaggi televisivi ai quali
tutto è concesso, che passano da una forma artistica al’altra senza
avere evidenziato delle attitudini in nessuna di esse.
Lo giudica un affronto verso chi lavora seriamente e ha avuto modo di
mostrare le sue capacità. Si augura che prima o poi vi sia
un’inversione di intendenza, un cambiamento nei criteri di
valutazione, ma lui stesso è il primo a non credervi.
Pensa che sia stato azionato un meccanismo inesorabile, sordo ad ogni
dubbio o
critica.
Per quanto lo riguarda cerca di farsi coraggio confidando nel fatto
che la sua variegata produzione verrà un giorno apprezzata a dovere, e
di riuscire a trovare un varco tra le barriere editoriali.
Gli dico di non farsi cattivo sangue, di evitare di inasprirsi
guardando determinati programmi alla tv, e mi accorgo che sta provando
a seguire il mio consiglio.
Legge almeno un paio d’ore al giorno, adesso sta rileggendo un testo
di Claude Simon e ha iniziato “Gli Incolpevoli” di Hermann Broch. Lui
affronta quasi tutti i generi narrativi, esclusa la letteratura rosa
americana, i libri autobiografici di alcuni “divetti”, o le sortite
letterarie di qualche comico spacciate subito come delle autentiche
perle da parte dei critici.
Legge rapidamente per poi riportare sui passi che lo hanno
impressionato, ripromettendosi di riguardarli ulteriormente.
Gli piacciono gli scrittori eclettici come Louis Aragon , quelli che
hanno scritto poco, spesso per cause avverse, come Prierre Drieu La
Rochelle, ma opere di valore assoluto.
Si crea dei suoi percorsi di lettura, cogliendo delle affinità tra uno
scrittore o l’altro, o esplorando un genere narrativo fino a scoprire
degli autori ingiustamente sottovalutati.
Adesso si è fermato, pronuncia il mio nome, Claudia, mi vuole accanto
a sé.
Ha preso in braccio il nostro Fox -terrier , lo accarezza.
Si sta rilassando.
Ne ha bisogno.
L'impronta
Manlio il pastore era molto contento della stima che l’avvocato Ferretti
e il notaio Mancini provavano nei suoi confronti. Gliela avevano
manifestata in svariate occasioni, soprattutto quando lui aveva fornito
dei preziosi consigli riguardo delle possibili migliorie da apportare
alla villa. L’avvocato Ferretti lo riteneva dotato di un ottimo intuito
e gli ripeteva spesso che se non si fosse accontentato nella vita o se
fosse stato sostenuto da una famiglia agiata sarebbe potuto diventare un
uomo d’affari. Lui doveva molto alla coppia di proprietari; si era
trovato improvvisamente disoccupato causa la cessata attività di una
fattoria nei dintorni, e appena appreso che due persone avevano
ereditato la tenuta dello scomparso D’Angelo si era rivolto a loro. Lo
avevano messo subito a suo agio, trattandolo in maniera familiare.
Manlio vide che l’avvocato si era messo sotto un tiglio per ripararsi
dal sole, e si era chinato per osservare qualcosa nei pressi
dell’albero. Doveva trattarsi ancora di quell’impronta, causata da una
scarpa destra che poteva essere della misura n.43 o 44. Non vi erano
altre orme lì vicino, soltanto quella, come se qualcuno avesse
intenzionalmente premuto sul terreno affinché venisse notata. L’impronta
induceva a supporre che si trattasse di una scarpa da trekking. Manlio
vide che l’avvocato aveva in mano un biglietto, che dopo averlo letto
rapidamente infilò in tasca. Il pastore era preoccupato per questa
situazione. Avvertiva una sensazione di pericolo, una minaccia
incombente, soprattutto per i due soci. Se fosse loro accaduto qualcosa
di male anche lui ne avrebbe risentito. L’avvocato tirò fuori il
cellulare e iniziò a parlare animatamente.
“Mancini, oggi c’è un biglietto…Sì, anche…Vi siete dimenticati di una
scarpa, mi avete lasciato senza…Sì, vieni qua…dobbiamo riflettere sul da
farsi…L’impronta è proprio di quella scarpa…Cosa dici? Credi che lui sia
ancora…Aspetta, no, non posso parlare…Manlio potrebbe sentirmi…non
credevo che fosse qui…”. Ferretti riattaccò, ignorando la presenza del
pastore. Si infilò un paio di occhiali scuri come se volesse isolarsi
dall’ambiente circostante, e ricostruì le vicende risalenti a circa 6
mesi prima, quando lui e Mancini divennero proprietari degli
appezzamenti di terreno di D’Angelo. Prima di attuare il loro piano lo
avevano elaborato a lungo, cercando di eliminare gli eventuali punti
deboli. Ferretti era l’avvocato di fiducia di D’Angelo, che a sua volta
conosceva da tempo Mancini. Dopo una cena a tre in casa di Giovanni
D’Angelo, i due complici misero in moto il meccanismo criminoso.
Contando sul fatto che D’Angelo aveva contratto dei debiti in paese,
Ferretti e Mancini lo costrinsero a scrivere di suo pugno una lettera,
nella quale affermava di essere costretto ad allontanarsi dal Molise per
un lungo periodo, e poi lo indussero a firmare un atto di cessione della
proprietà, che sarebbe passata all’avvocato Ferretti. Era tutto in
regola, con relativi bolli e firme.
D’Angelo, che agiva sotto la minaccia di una pistola, li ricoprì
d’insulti, poi dovette cedere. Lo fecero salire in macchina e lo
portarono giù, fino al fiume. Bisognava farlo sparire per dare
credibilità alla lettera scritta di suo pugno, Vi fu una violenta
colluttazione, Giovanni reagì con calci e pugni, Ferretti lo stordì con
il calcio della pistola, poi gli sparò sul petto a bruciapelo. Durante
la lotta D’Angelo aveva perduto la scarpa. I due complici la cercarono,
ma per paura che arrivasse qualcuno periodo bellissimo, con grosse
soddisfazioni sul piano economico. Nessuno in paese ebbe dei dubbi sulla
effettiva partenza di D’Angelo, e tantomeno sospetto di loro due,
stimati professionisti.
Ferretti vide arrivare l’auto di Mancini…Finalmente avrebbero potuto
concertare un nuovo piano d’azione…
“Ecco qui, Luca! Lo vedi che è morto?”, disse Ferretti.
“Madonna mia, che odore tremendo! Il cadavere è in uno stato…Comunque
dovevamo assolutamente controllare…”, rispose Mancini.
“E la faccenda della scarpa? C’è qualcuno che deve averci visto quella
notte e ha deciso di ricattarci…non capisco allora perché abbia atteso
così a lungo…”, osservò Ferretti.
Aveva appena finito di parlare…Da dietro un salice sbucò una robusta
figura femminile, armata di pistola. Esplose sei colpi in rapida
successione. Nonostante la breve distanza i primi due mancarono il
bersaglio, gli altri lo centrarono. Mancini morì sul colpo, mentre il
suo socio agonizzava. La donna gli mostrò una scarpa, l’avvocato la vide
a stento, per via del suo sguardo velato, poi annuì un paio di volte
prima di spegnersi.
L’attesa di Monica, la figlia di Giovanni D’Angelo era stata dunque
premiata. Era tornata da poco in Italia, ma nessuno sapeva della sua
esistenza. Il padre non aveva mai parlato con nessuno di lei. Quando era
venuta alla luce lui era già stato lasciato dalla sua compagna di
allora. Poco prima che suo padre venisse ucciso Monica era in procinto
di partire per L’Italia e lasciare per sempre la Svizzera dove viveva da
anni. Arrivata in Molise un amico di Giovanni l’aveva informata
dell’improvvisa decisione di suo padre di vendere le sue proprietà e di
andarsene.
Aveva sempre dubitato che le cosse fossero andate in questo modo, e una
notte, entrando in quei terreni che un tempo appartenevano a suo padre
aveva trovato una scarpa incastrata tra dei sassi e le radici di un
albero, coperta parzialmente da del fogliame. Da delle foto di Giovanni
che lui le aveva spedito in precedenza aveva dedotto che fosse sua.
Immaginò che fosse stata ordita una truffa ai suoi danni con conseguente
assassinio. Aveva inoltre pensato che sarebbe stato inutile tentare di
incriminare un notaio e un avvocato per vie legali. L’unica maniera di
vendicarsi era quella di tendergli una trappola e di ucciderli.
Morena guardò il viso aguzzo di Ferretti, con la bocca serrata e i
capelli biondicci scomposti, e suppose che fosse lui il più pericoloso
dei due.
Si inginocchiò per seppellire definitivamente i resti del padre. Stava
per mettersi a piangere ma si trattenne.
Non impiegò molto tempo. Tossì diverse volte a causa delle esalazioni e
si rialzò.
Guardò i corpi degli uomini che aveva freddato e provò a fare chiarezza
nella sua mente. Non era semplice decidere il da farsi. Non intendeva
costituirsi alla polizia, e nello stesso tempo sbarazzarsi di due
cadaveri di personaggi molto noti nella zona le pareva molto complicato.
Manlio aveva visto tutto. Si stava chiedendo chi fosse quella giovane
donna…aveva anche sentito qualche frase di Ferretti e Mancini e nella
sua mente cominciò a figurarsi l’idea della loro colpevolezza. Li aveva
seguiti per cercare di dare loro un appoggio, ma quando aveva visto che
stavano disseppellendo un cadavere si era bloccato. Si domandava cosa
avrebbe fatto senza i suoi proprietari…Valutò velocemente l’eventualità
di denunciare quella donna, ma non la riteneva una buona soluzione.
Qualora la polizia non fosse riuscita a rintracciarla avrebbe potuto
addossare a lui la colpa di quegli omicidi. Si afflosciò dietro i
cespugli dietro i quali si era nascosto. Si deterse il sudore dal viso,
poi mise le mani sotto la nuca. I suoi pensieri si smarrirono in un
dedalo di ipotesi.
Monica gettò la pistola nelle acque del fiume e si allontanò vacillando.
3 Novembre 1963- L'ultimo tram
Una signora sulla quarantina si fece largo tra la folla, tenendo per
mano una bambina. che stava ben attenta a non perdere la sua bambola,
tenuta ben stretta all'altezza dell'incavo della spalla. La signora
indossava un cappotto di velluto particolarmente voluminoso, con le
maniche a mantello, e un collo ampio con risvolto. Da come muoveva
freneticamente la testa dava l'impressione che stesse cercando qualcuno.
Giovanni sorrideva guardando suo nonno Nicola, che ad intervalli di
tempo quasi regolari, preoccupato come sempre di non avere i capelli
perfettamente in ordine, sollevava il suo cappello Beechfield e si
pettinava a più riprese.
Giovanni si sentiva un po' frastornato: da un lato era impossibile non
guardare tutte le persone che seguitavano ad arrivare ed ad assieparsi
sul marciapiede, ma la sua attenzione era focalizzata anche sull'ultimo
numero di Topolino e dalla bella copertina del fumetto. Su uno sfondo
giallo, Paperon de Paperoni, munito di secchio, spazzola e pennello, è
intento a ripulire una serie di banconote tutte allineate. Un signore
teneva sottobraccio una copia del quotidiano Stadio e discuteva
animatamente con un suo amico.
"Peccato che abbiano rinviato le partite del campionato di calcio".
"Tal cred, deve giocare la nazionale contro l'URSS".
" Sì, ma la partita sarà disputata tra una settimana. I zugadur sono
degli atleti o no?"
"Certo, ma questo con i sovietici è un incontro importante. Dobbiamo
qualificarci per gli europei. Poi bisogna rifarsi, all'andata ci hanno
battuto per 2 a 0".
"Va bene, ma è un peccato interrompere la serie A. Il Bologna stava
andando benissimo".
"Credi che quest'anno sia quello buono?"
"Ma direi! Abbiamo comperato un grande portiere. Prima avevamo
Santarelli, che non era proprio Jascin".
"Dobbiamo ringraziare il nostro presidente, che continua a rinforzare la
squadra".
"E' andato di persona a prendere Haller in Germania e ce l'ha portato a
Bologna".
"Nessun altro lo avrebbe fatto".
Uno dei due si guardò intorno, imitato dall'altro.
"Ecco, sta arrivando il sindaco".
"Ci sono dei consiglieri comunali con lui, uno di loro è un mio amico".
"Sembra che tu conosca tutte le personalità della città. Sta guardando
dalla tua parte…Com'è che non ti saluta?"
"Oggi è in veste ufficiale, non può fare altrimenti".
La signora con la bambina corse incontro al sindaco Dozza, chiedendogli
se fosse prevista o meno una cerimonia per quella giornata speciale.
Il sindaco le rispose cordialmente, che tutto si sarebbe svolto con
estrema semplicità, salendo sul tram n.218 e accompagnandolo lungo il
suo ultimo tragitto verso San Ruffillo.
"Mi ero affezionata a questo mezzo di trasporto. Mi mancherà
tanto…pensi, signor sindaco, che anche la mia bambina ne è dispiaciuta.
Lo prendevamo insieme per andare a scuola".
"La capisco, signora, ma gli autobus e i filobus non faranno rimpiangere
i tram, con una presenza nella rete urbana molto più articolata".
"Ma i tram sono due!", disse la donna puntando l'indice.
"In questo modo cercheremo di fare salire più gente possibile. Temo però
che non saranno sufficienti affinché tutti vi accedano".
La signora ringraziò il sindaco e assunse subito dopo un'espressione
pensierosa. Si avvicinò al secondo tram, il 218, che si era fermato a
breve distanza dal primo, e l'osservò con attenzione, come se volesse
imprimersi nella mente ogni particolare.
I due amici che discorrevano prima di calcio, ora parlavano di Dante
Cané, il giovane pugile bolognese che sembrava destinato a una
promettente carriera.
Loro non parevano molto coinvolti; probabilmente dovevano essere dei
presenzialismi ai quali seccava perdere qualsiasi avvenimento di
rilievo.
Giovanni vide che gli autisti dei due veicoli sembravano commossi. Lo
riferì al nonno, che confermò la sua impressione. Un ragazzo aveva
acceso una radiolina, una Dinghy di colore rosso, ed ascoltava una
canzone di Francoise Hardy.
Un assessore comunale lo fissò corrucciato, ma un collega gli disse di
lasciar perdere.
La gente iniziò a salire sul tram 210. Lo faceva con calma, tutti si
dimostravano molto composti. Nonno Nicola scambiò alcune battute,
riguardo il ministro degli esteri Giuseppe Saragat, con un suo coetaneo.
Un tipo alto e rinsecchito col quale trattava argomenti politici, seduti
sulle panchine della Montagnola.
La figlia della signora col cappotto di velluto, agitò la manina davanti
a Giovanni, poi salì con la madre sul numero 218. Giovanni e il nonno si
misero in fila. Delle persone affacciate ai finestrini salutavano o
parlavano con coloro che erano rimasti giù. Il fischio di un tranviere
sancì la partenza dei due veicoli.
Un uomo anziano continuava a scattare fotografie, mentre un ragazzo
vestito in maniera sportiva riprendeva il tutto con una cinepresa Canon.
Passando a fianco dei giardini di Piazza Cavour i due tram sfiorarono
alcune macchine che non erano state parcheggiate adeguatamente.
Giovanni e il nonno si sedettero a breve distanza dalla signora con la
bambina. Questa sorrideva a Giovanni, che imbarazzato guardò fuori dal
finestrino.
"Nonno, è vero quello che ho sentito dire da diverse persone? Che i tram
non ci saranno più?" chiese.
"Proprio così".
Giovanni scrollò la testa, come se volesse scacciare questa spiacevole
realtà.
"Sapessi, ragazzo mio, quante cose, oggetti o altro. mi stavano a cuore,
e ho penato parecchio quando le ho viste scomparire o sopprimere. Data
la tua giovane età tu sei soltanto all'inizio di questo processo".
"Forse non sarei dovuto venire…"
"No, hai fatto bene. Quello che stai vivendo ora lo ricorderai a lungo,
forse per sempre. Qualcuno potrebbe pensare che io stia esagerando in
questo momento, in fondo il tram è un mezzo di trasporto…ma è un veicolo
anche di ricordi, di emozioni, di incontri…Io che l'ho preso per tanti
anni, ne avrei da raccontare…"
"In effetti me ne hai già raccontati di episodi che ti sono capitati sul
tram".
"E probabilmente uno sta per verificarsi proprio ora", disse il nonno
sorridendo.
"Eh?"
"Scusa Giovanni, quel signore alto e magro, il mio amico della
Montagnola mi ha fatto cenno di raggiungerlo. Si è liberato il posto
vicino al suo. Vado a fare due chiacchiere e poi torno".
Il nonno si alzò con uno scatto insospettato. Giovanni restò perplesso.
In un attimo il posto venne occupato dalla figlia della signora col
cappotto.
"Mi chiamo Sandra, piacere".
"Piacere, mi chiamo Giovanni".
La gente iniziò a scendere. Ci si salutava tra persone che non si erano
mai viste. Quel giorno si stava creando un senso di familiarità.
I due tram procedevano di pari passo e a breve distanza l'uno
dall'altro. Una ragazza scese con l'aria contrita e si allontanò con la
testa stretta tra le spalle.
Intanto Sandra parlava con Giovanni delle sue amiche, dei suoi hobbies,
del rapporto unico che aveva con la madre, che in quel momento le
sorrideva compiaciuta.
Giovanni si sentiva sempre più a suo agio: azzardava qualche battutina,
le raccontò di un ragazzo buffo conosciuto in vacanza al mare, della sua
passione per il calcio, soprattutto per il Bologna F.C. .
La madre disse a Sandra che dovevano scendere prima del capolinea. Aveva
una zia ricoverata all'Ospedale Sant'Orsola, e voleva approfittare di
quella circostanza per farle una visita.
Sandra si alzò a malincuore, sbuffando. Chiese rapidamente a Giovanni il
suo cognome l'indirizzo. Visto che non aveva da scrivere, usò
sagacemente una filastrocca utile a ricordare numeri e nomi.
Diede un colpetto sulla spalla di Giovanni e scese con la madre. Nonno
Nicola si tolse il cappello per salutare la signora. Questa rispose con
un breve sorriso.
Sandra osservò il tram che si allontanava. Pensò con tristezza al fatto
che non sarebbe più salita su un mezzo così bello e che le aveva sempre
trasmesso sicurezza. Si domandò inoltre se avrebbe rivisto quel
ragazzino carino.
Capolinea. Oltre a Giovanni e al nonno scesero dal tram diverse persone,
e lo stesso anche per il numero 210. Molte persone vi erano salite con
l'unico scopo di dare l'addio ai due veicoli.
Il sindaco Dozza si accomiatò cordialmente da i passeggeri. Nicola
propose al nipote di passeggiare. Non aveva nessuna intenzione di
prendere un autobus. Giovanni era d'accordo.
Nei giorni seguenti il telefono a casa di Giovanni squillò diverse
volte, ma nessuno rispose dall'altro capo. Si percepivano dei brevi
respiri e un suono simile a quello di un dito che picchietta sulla
cornetta.
Passarono un paio di settimane. Giovanni ricevette un busta chiusa,
senza il mittente. All'interno vi era un modellino di un tram, simile ai
numeri 210 e 218. Nemmeno un foglio, un biglietto…
Le telefonate mute si protrassero per alcuni mesi, poi cessarono di
colpo.
Giovanni non vide più Sandra.
Dopo molti anni conserva ancora il modellino.
La pedina della dama
Era molto tempo che non andavo a trovare Furio. Conoscevo bene i suoi
sbalzi d'umore e i suoi periodi di isolamento forzato, nei quali si
dedicava esclusivamente ai suoi hobbies e non desiderava essere
contattato. Quando un amico lo deludeva o lo innervosiva per qualche
motivo lui si rinchiudeva in se stesso e allora esisteva soltanto la sua
sfera privata. Erano diversi anni che non svolgeva un lavoro regolare, e
si arrangiava vendendo delle piccole sculture di sua ideazione o altre
composizioni eseguite con il legno.
Furio era inoltre un eccellente giocatore di dama, che aveva praticato
con successo quando era stato iscritto alla federazione italiana. Ogni
tanto riceveva delle visite da qualche appassionato desideroso di
misurarsi con lui, di rinverdire antiche sfide. Quando giocava non
muoveva neanche un muscolo, non distoglieva mai lo sguardo dalla damiera
per continuare a valutare la posizione, alla scoperta di una eventuale
strategia vincente. Si comportava in modo leale e non tollerava una
condotta scorretta da parte dell'avversario. Esprimeva il suo parere
senza riserve, creandosi così sia simpatie che antipatie. Colorava ogni
set di pedine di legno in maniera differente e le utilizzava con
determinate caratteristiche a seconda del suo antagonista. In ogni sua
manifestazione non mancava mai la componente artistica.
Quando vidi sul greto di un fiume una pedina dipinta di un rosso rubino,
capii subito che qualcosa era successo. Il pezzo era incastrato tra due
sassi, ma era stato facile individuarlo poiché si trattava di una pedina
di discrete dimensioni. Aveva scritto una R con un pennarello dal segno
permanente, che al momento nemmeno l'acqua era riuscita ancora a
sbiadire. Quella R era un'aggiunta voluta da Furio, scritta certamente
all'insaputa dell'avversario. Avevo un brutto presentimento…corsi in
direzione della casa del mio amico, che si trovava vicino al fiume.
La porta era semiaperta, la piccola stanza dove Furio passava quasi
tutto il suo tempo era in un disordine totale. Il corpo di Furio era
accanto alla finestra. Da lì doveva aver gettato nell'acqua la pedina.
La damiera si trovava a terra, in mezzo alle pedine. Furio aveva
ricevuto un colpo fortissimo all'altezza della tempia, inferto con uno
scalpello, che infatti presentava tracce di sangue. Trovai un appunto
nel cassetto del tavolo rovesciato. Era stato scritto dal mio amico,
riconoscevo la sua calligrafia. "Oggi verrà a trovarmi Rigoni. L'ho
incontrato casualmente a Lecco e mi ha detto che vuole sfidarmi per
vendicarsi di una sconfitta nel corso di un torneo disputato qualche
anno fa. E' un tipo rissoso, ma io non mi tiro mai indietro quando mi
chiedono di giocare. Sono convinto di batterlo ancora. Lui non coglie
certe sottigliezze in una partita. Io riesco a contemplare un maggior
numero di mosse. Lo farò cadere in un'apertura di gioco che conosco
bene, così lo metterò in difficoltà".
Guardai Furio, i suoi baffi con parecchi fili grigi alla Salvador Dalì,
e i suoi capelli lunghissimi e brizzolati che sembravo essersi annodati
intorno al suo viso. Se lui mi avesse avvisato avrei fatto il possibile
per intervenire, anche se sapevo che lui non aveva il telefono fisso e
non usava nemmeno il cellulare. Non credevo che Rigoni avesse agito in
modo premeditato. Supposi che il suo gesto fosse stato causato da un
eccesso d'ira, da un forte senso di frustrazione nei confronti di un
avversario del quale non voleva ammettere che gli fosse superiore.
Sulla parete spicca una foto del padre di Furio, che aveva voluto
chiamarlo così in onore del protagonista di un vecchio fumetto "Furio
Almirante".
Sul mobiletto sottostante erano collocati manuali di pittura e di
scultura e parecchi volumi sul gioco della Dama. In mezzo ad uno di essi
spuntava un biglietto scritto da una donna, un suo amore di vecchia
data, con una dedica particolare: "Un caro saluto dalla tua dama
preferita".
Forse avrei dovuto subito precipitarmi a chiamare la polizia, ma pensai
che Rigoni non avrebbe avuto scampo, e che il mio contributo sarebbe
stato comunque determinante.
Rimasi ancora per un po' in quella casa. Coprii il corpo di Furio,
guardai i volumi della Storia dell'Arte che aveva acquistato a rate da
un negozio d'antiquariato. Composi il numero della polizia, poi uscii e
mi sedetti a gambe incrociate su un grosso sasso nei pressi del fiume.
Un gambero rosso spruzzò un po' d'acqua intorno a sé.
Spazi dilatati
Guglionesi,
23/7/2002-mattino
Vito, l'autista del pullman diretto a Termoli, sta scherzando con il benzinaio. Intervengono anche Peppino, appena uscito dal bar e stringe in mano il suo terzo boccale di birra della mattinata, e Nando, l'avvocato, che muove nervosamente braccia e mani, e contemporaneamente si rivolge ad un altro gruppetto di persone, alternando brevissime frasi in italiano a battute in vernacolo. Dal modo di comunicare si manifesta una certa energia; quasi tutti sono attivi dalle prime ore del mattino, e questo influisce sul buonumore generale. Sul pullman salgono diverse ragazze, una delle quali indossa un vestito da mare a fiori di cotone leggero. I capelli lunghi e ricci mi ricordano la pettinatura di alcune attrici hollywoodiane degli anni cinquanta. Generalmente le giovani donne non sono molto truccate, le più carine tendono a mostrarsi senza tanti artifici. Questi aspetti positivi li avevo notati fin da ragazzo, e queste conferme non possono che farmi piacere. E' una giornata calda ma ventilata, non c'è l'umidità che si percepisce a Termoli. Riconosco un vecchio compagno di giochi, è un poco appesantito, i capelli sono radi e brizzolati, disposti forzatamente (causa le perdite) a ferro di cavallo. Alza la testa come se avvertisse il mio sguardo, sembra che mi abbia riconosciuto…Qui in genere sono molto fisionomisti, soprattutto nei confronti di persone con le quali hanno condiviso esperienze durante l'infanzia. Quand'ero ragazzino parlavo anche in molisano, usavo alcuni espressioni idiomatiche e mi impegnavo a costruire dei periodi di senso compiuto. I miei coetanei all'inizio ridevano della mia pronuncia, che riuscii a correggere grazie all'impegno e a qualche lezioncina estemporanea impartita dai miei compagni di gioco. Vorrei stare qui a lungo, ma fra qualche giorno mi toccherà inevitabilmente ripartire. Torino mi aspetta con una serie di impegni pregressi, come il bar da ristrutturare che ho preso in gestione in società con un amico e le questioni burocratiche legate a dei piccoli finanziamenti. Inoltre dovrò stare vicino ad una delle mie zie, che ha dei problemi di stabilità dovuti ad una operazione alla caviglia e le relative difficoltà nella deambulazione. Lei è seguita anche da due mie cugini, che sarebbero sufficienti per seguirla a dovere, ma lei sembra che conti anche sulla mia presenza. Vedremo…Credo che la mia situazione sia ancora irrisolta, e questo contribuisce alla mia irrequietezza. Qui ho ancora qualche parente, ma per non disturbare nessuno mi sono sistemato in un albergo situato fuori dal paese.
Là mi trovo bene; le stanze sono arredate in modo piacevole, la sala da pranzo è spaziosa e luminosa. All'esterno spicca un bellissimo gazebo, dalla cui base è possibile accedere in piscina. Da lì posso vedere la spiaggia di Termoli, dove sarò domani. Adesso sono a casa di una mia cugina, che mi guarda incuriosita mentre sto scrivendo. Ignorava che io tenessi un diario, e vedermi all'opera in diretta, curvo sul davanzale della finestra, mentre osservo quello che accade in strada, sembra spiazzarla.
La gente sale sul pullman, ma non c'è lei la persona che volevo incontrare.
Guglionesi,
23/7/2002-sera
Il passeggio a Guglionesi segue delle regole ben precise. La gente cammina lungo i due lati del cosiddetto lungomare, arriva fino ai grandi giardini di Castellara, costruiti con un bel disegno circolare, compie alcuni giri all'interno procedendo lentamente e fermandosi frequentemente a salutare i conoscenti. Poi si torna sul lungomare, che viene percorso in senso inverso, e si ricomincia da capo. Vengo ignorate le strade laterali, dato che non ci sono tante possibilità di incrociare dei volti familiari. Passeggiare rappresenta un grande rito collettivo, che non prevede una scelta individuale. Adesso scenderò anch'io in strada. Vorrei incontrarla. Ricordo che l'anno scorso camminava in compagnia di un paio d'amiche. Anche lei ha quel fascino di una volta, poco trucco, andatura naturale, occhi espressivi. Comunicativa senza mai essere sfacciata, un sorriso che si distende armonioso. Me l'hanno presentata a Termoli e le ho subito chiesto se per caso fossimo parenti. Non perché il suo cognome fosse simile al mio, ma col tempo ho scoperto di avere un'infinità di cugini di 2°, 3°, 4° grado. Lei ha circa quarant'anni, non si è mai sposata. Non è accaduto ancora nulla tra di noi, ma ricordo che da queste parti non mi sono sbagliato nel valutare l'autenticità di un gesto o di una parola. E' come se tutto fosse molto chiaro sia in senso positivo che negativo.
Scendo in strada.
Guglionesi,
24/7/2011-mattina
L'ho incontrata mentre passeggiava con le sue amiche, come avevo previsto. Ho intuito da qualche suo riferimento che sapesse già del mio arrivo. Qui il passaparola corre rapido, senza arresti.
Mi sono affiancato a lei con la massima naturalezza. Rosanna, così si chiama, mi ha chiesto se fossi qui in vacanza, ed io le ho risposto che mi trovavo a Guglionesi per una serie di motivi, cosa assolutamente vera. Con le sue amiche abbiamo parlato della leggenda del tesoro di Sant'Adamo, il benedettino che divenne abate, intorno alla metà del secolo XI, nel monastero di Santa Maria delle isole Tremiti, e le contese sul piano patrimoniale con il monastero di Montecassino. Mi è tornato in mente un libro scritto da un mio carissimo parente che riguardava questo argomento. Lorena, un'amica di Rosanna, sembrava particolarmente informata. Grazie a lei ho recuperato delle informazioni inerenti la nascita del comune di Guglionesi e la genesi del nome. Sono anche riuscito ad appartarmi per qualche istante con Rosanna, non sufficienti ad approfondire questioni di cuore. Sto ritornando alle mie radici, quelle di mio padre, degli zii e dei miei nonni. Ora non sto scrivendo sull'emozioni del momento, ma tratto episodi ancora molto freschi nella mia mente. Parlando con Rosanna ho provato una sorta di strappo tra questa realtà e le prospettive future legate al posto in cui vivo durante il resto dell'anno. I progetti si scontrano con le istanze del momento. E' probabile che debba modificare alcuni obbiettivi, stanno cambiando le priorità.
Guglionesi,
24/7/2011-ore 14
Rosanna ed io stiamo andando al mare. Lei guida un'Autobianchi del padre, più volte restaurata, che ha superato tantissime revisioni. E' una bellissima giornata, e quello che mi colpisce di più del paesaggio sono gli splendidi girasoli, con le loro corolle che seguono lo spostamento del sole. Mi piace il contrasto tra questa esplosione di colori che sto vivendo e i racconti, di Rosanna e delle sue amiche, di singolari personaggi ,di strane apparizioni di persone tornate per qualche attimo nel regno dei vivi.
C'è un bel rettilineo, Rosanna accelera.
Incontro con la letteratura francese
Lo sperimentalismo di Claude Simon, il solido impianto narrativo della
Nathalie Sarraute, le descrizioni capillari di Alain Robbe-Grillet,
talmente minuziose da rasentare il delirio, il felice connubio tra
oggettività e sensibilità, rintracciabile nella prosa di Michel Butor, il
cerebralismo raffinato di Remy de Gourmont, la sensualità di Pierre Louys,
il surrealismo di Louis Argon, la raffinatezza di Barbey d'Aurevilly….Se
ne potrebbero citare tanti altri, esponenti di diverse epoche e con una
fortissima personalità artistica. C'è qualcosa che accomuna tutti questi
autori: il desiderio di spingersi oltre ciò che hanno letto ed assimilato,
l'abilità di cogliere le istanze dell'epoca e di filtrarle attraverso il
proprio vissuto, l'estrosità, differente in ognuno di loro, ma sempre
presente, un'originalità che emerge senza forzature.
L'ispirazione era varia e multiforme, con trame e sottotrame, tante
diramazioni che potevano essere sviluppate fino a trovare compimento in
altri racconti o romanzi. Non si è trattato,dunque, di un'unica stagione
felice, ma del segno di una tradizione consolidata, continuamente
impreziosita da nuove voci. Probabilmente gli editori osavano di più,
erano alla ricerca di proposte stimolanti, l'autenticità di un autore era
ritenuta fondamentale. Rileggersi le opere di questi scrittori potrebbe
essere, oltre che un'operazione di recupero, un punto dal quale ripartire,
e porre ulteriori considerazioni e riflessioni sull'andamento della
letteratura contemporanea.
Atto dovuto
Gentile Direttore,
forse questa mia presente non la sorprenderà dato che costituisce, a
mio avviso, l'atto conclusivo dopo un lungo periodo di deterioramento
dei nostri rapporti.
Quando mi assunse alle sue dipendenze, mi parlò di un ambiente di
lavoro stimolante sotto tutti i punti di vista.
Io avevo bisogno di trovare un impiego, ma lei mi allettò
prospettandomi una dimensione quasi idilliaca, ben lontana da altre
realtà lavorative.
Il quadro da lei illustrato si rivelò ben presto illusorio.
Capii infatti di essere finito nella solita ragnatela di piccole
invidie, di sospetti, di vane attese di mansioni di livello superiore.
Lei diceva di apprezzare tantissimo la mia conoscenza di altre lingue,
perché allora non mi ha mai permesso di esserle utile in tal senso?
Lei mi ha sempre rimproverato qualsiasi iniziativa personale,
contenendo ogni mia proposta, e questo in palese contraddizione con i
suoi proclami iniziali.
La lista sarebbe ancora lunga, ma mi fermo qui, ponendo fine al mio
calvario, e probabilmente anche al suo.
Licenziandomi toglierà dall'ufficio un elemento dissonante, che minava
la pseudo armonia che vi regnava.
In fede
La ricaduta
Alberto Forni si stirò le gambe sotto il tavolo in formica e si alzò di
scatto. L'effetto dei sedativi stava finendo, e si sentiva nuovamente
agitato. Percorse il perimetro della stanza per un paio di volte, prese in
mano un libro già letto, e lo scagliò sulla poltrona. Fuori la nebbia si
era alzata e il sole richiamava il suo spazio. Alberto sollevò la persiana
e guardò in direzione del giardino sottostante. Un uomo anziano, piegato
in due, lavorava con una cesoia intorno a delle ortensie. Un gruppetto di
conifere copriva parzialmente l'entrata principale della clinica.
Alberto vide che stavano entrando 5-6 persone…si bloccò, il viso
schiacciato sul vetro della finestra. Riconobbe la professoressa Giunti,
quella lo aveva contestato in presenza del Preside, e inducendolo a
rinunciare alle sue escursioni nei parchi e nei giardini assieme ai suoi
alunni.
Scorse l'insegnante di storia, col quale aveva a lungo discusso circa la
riforma scolastica, che Alberto riteneva scriteriata, e rigidamente
conservatrice dietro la sua apparente spinta innovatrice. Per reazione
quell'uomo aveva in seguito fatto di tutto per danneggiarlo
professionalmente, e ottenendo il proprio scopo con una mirata strategia
denigrante. Alberto si accorse anche della Melloni, la professoressa di
italiano, che manovrava sott'acqua per farlo trasferire, dato che non
tollerava il suo stile originale. Altri colleghi entrarono dal cancello.,
e non c'erano dubbi che fossero lì per lui, per consolarlo dopo aver fatto
di tutto per distruggerlo.
Alberto Forni iniziò a percuotere il vetro con un movimento sincrono delle
mani e gridando: "Non fateli avvicinare! Non li voglio più vedere!!!".
Due infermieri irruppero nella stanza, e vincendo la sua resistenza gli
impedirono altri movimenti.
Uno dei due commentò:"E' strano questo attacco di nervi, sembrava già
sulla via della guarigione…"
Caro Augusto,
spero che verrai presto in Italia, così avrai modo dei visitare e (spero)
di apprezzare Bologna, la mia città. Conoscendoti, sono convinto che ti
piaceranno i suoi musei, le sue chiese, e i suoi giardini(anche quelli
meno grandi sono comunque graziosi. Ne conosco due o tre dove è anche
possibile rilassarsi). La vastità e varietà di piante è notevole, pensa
che in un parco abbiamo addirittura un esemplare di ginko biloba. In
centro ci sono tanti bar e locali che soddisfano un po' tutte le esigenze.
Tu che ami leggere, rimarrai soddisfatto delle varie librerie e negozi di
fumetti, dove potrai sbizzarrirti a piacimento nelle tue ricerche (so che
segui alcuni autori sudamericani e che sei solito acquistare dei comics
prodotti in altre nazioni. Hai completato quella tua raccolta di poesie?
Se verrà editata ci terrei moltissimo ad averne una copia. Non possiedo
ancora nessun libro in portoghese, e sarei molto contento se il tuo fosse
il primo della serie. Ho studiato la lingua, completando il programma con
un'insegnante brasiliana, ma ho bisogno di praticarla. A proposito, è
successo qualcosa di particolare a Lisbona o in Portogallo in quest'ultimo
periodo? La televisione occupata tratta poco o nulla di questioni inerenti
la tua nazione, e non so come procurarmi dei giornali o riviste
portoghesi. Magari me ne porterai tu qualcuno quando arriverai a Bologna.
Dalla tua ultima lettera mi sono accorto che ormai hai un'ottima
padronanza dell'Italiano, e questo mi permette di esprimermi liberamente
con te. Ricordo ancora quando ci siamo conosciuti a Lisbona. Tu eri con
una tua amica, una turista tedesca, e stavate conversando in Inglese, poi
io mi sono seduto al tavolo vicino al vostro e abbiamo iniziato a
chiacchierare amichevolmente, in maniera molto naturale. Ho ancora
impresse nella mente le belle piazze di Lisbona e quei mini tram che ti
portano ovunque, compresa la zona collinare. Girando per le vie principali
è molto facile incontrare le stesse persone, e questo dà un senso di
familiarità. C'era una signora che sembrava provenisse dalla San Francisco
degli anni sessanta, che vendeva fiori ai passanti e stabiliva il prezzo
sul momento, cercando di non scontentare il cliente. Ho assistito a
qualche scena che mi ha veramente impressionato, come certe persone con
gravi menomazioni fisiche, che si ritrovavano a tarda sera su delle
panchine, come se quello fosse il momento giusto per scacciare i timori e
riprendersi il proprio posto all'interno della comunità. Sì', queste
immagini non riuscirò mai a dimenticarle.
Tornando a parlare di Bologna, prima ho accennato agli aspetti positivi,
che sono parecchi, ma non mancano quelli negativi, come una certa
massificazione e una rigida suddivisione in gruppi a seconda del modo di
vestire, delle scuole frequentate e via dicendo. Questo è forse un
problema che riguarda molte altre città d'Italia, ma io comunque lo
avverto. Dipenderà anche dalle mie origini(ti avevo detto, infatti, che i
miei genitori e i miei nonni sono meridionali), ma non credo soltanto da
loro. Ad ogni modo il punto di vista di un turista è sempre differente
dalle persone che ci vivono in quel posto.
Augusto, mi raccomando, ricordati di portarmi quel libro di Antonio Munoz
Molina e quella monografia su Eusebio.
Ti aspetto!
Un abbraccio
Giuseppe
Squali
Che meraviglia guardare la costa che si allontana, la Lanterna che
somiglia ad una matita, il diadema delle luci e le montagne che svaniscono
nella foschia…Non ero mai stata in crociera prima d'ora, certo che una
nave di queste proporzioni, così elegante, così bianca, suscita emozioni
intense. La mia roba è già sistemata in cabina, mi guardo intorno sul
ponte, lui non si vede…ah sì, eccolo! Stiamo per scendere a cena. La sala
è immensa, come tutto il resto, e luccicante, con tanti tavoli rotondi.
Sono la solita sfigata:mi hanno sistemato con una famigliola con bambini,
che dopo soli dieci minuti farei volare fuori bordo, una befana danarosa
evidentemente in caccia, a meno che la preda non sia lei, e una coppia gay
che sono gli unici con i quali riesco a conversare serenamente,
intelligenti e garbati. Ad un certo punto sento una scarica di adrenalina:
non ho dimenticato niente? Apro la mia trousse di raso e controllo senza
farmi notare: sì, ho tutto quello che mi serve…
Lui mi guarda intensamente, ed io lo contraccambio. Stasera è
particolarmente elegante, con quel magnifico spezzato che gli calza a
meraviglia, e con quelle scarpe stile "british", impreziosite da un
delizioso ricamo all'altezza della punta. Prima di partire è andato dal
barbiere ed ora porta i capelli decisamente più corti, un po' arricciati
sulla fronte, che gli conferiscono un aspetto giovanile.
Il cameriere ci serve un antipasto con gamberi, aragoste e altre crostacei
assortiti, conditi con olio leggero e limone, e con delle foglie
d'insalata ai bordi. Uno dei bambini si avvicina alla mia sedia, lo
allontano con freddezza. Uno dei due gay, un tipo alto e coi capelli
ossigenati, sottolinea la mia azione con un applauso appena accennato.
La befana, Clara è il suo nome, mentre chiacchiera con l'altro gay, il
riservato Andrea, segue con la coda dell'occhio ogni mio movimento.
1
Do questa crociera ne farò certamente delle altre, non ho intenzione di
fermarmi qui. Andrò via da sola, o con colui che sarà il mio nuovo ed
eventuale compagno.
L'uomo che mi siede di fronte non avrà un futuro con me, come lui avrebbe
desiderato, e come io gli ho forzatamente lasciato credere. Piero non può
dirsi un brutto uomo, anche se dovrebbe calare di peso di almeno 6-7 kg e
i suoi occhi, di colore verde ma dalla forma un po' troppo arcuata non
sono di mio gradimento. Il guaio è che non sono mai stata attratta da lui,
e non mi ci sono neanche affezionata. I suoi interessi, e di conseguenza i
suoi discorsi, sono limitati, come seduttore è ai minimi termini, con le
sue lunghe e scontate pause studiate, e la sua serie infinita, quasi
spossante, di inviti a cena a lume di candela. Con altre donne ha
funzionato, ma non con me, che ho bisogno di essere spiazzata, stupita,
stordita. Con lui ho finto semplicemente di cadere nella sua rete. Venivo
da un brutto periodo, dopo che Mario, il mio uomo era finito in carcere
dopo una tentata rapina in banca. Ero anche una sua complice, ma in una
posizione defilata, come ho sempre fatto con altri uomini con cui sono
stata, e finora sono riuscita a rimanere incensurata. Ho conosciuto Piero,
in un locale del centro di Bologna, presentatomi da Nadia, una mia amica
scafata, informata su tutto quello che riguardava i più ricchi
frequentatori del posto. Mi accorsi subito Che Piero era attratto dal mio
corpo, e mi calai immediatamente nel ruolo di finta preda.
Da ragazza sbandata e disadattata, mi stavo trasformando in un'abile
arrampicatrice sociale, ma col tempo mi accorsi che la metamorfosi non era
completa. Sentivo di essere una criminale completa, senza mezzi termini, e
scelsi di non reprimere queste mie "aspirazioni". Mi ero stancata di
essere la compagna di uomini perdenti, e non mi bastava diventare la donna
di personaggi affermati, volevo io stessa diventare una vincente dominando
uomini e situazioni.
2
Col tempo ho capito che non mi era possibile fare diversamente, che era
l'unica soluzione possibile per me.
Sto osservando Piero, che guarda incuriosito in direzione della sala
adiacente, adibita ai giochi, e in mezzo alla quale c'è un tavolo da
roulette.
So che alcune volte ha vinto delle somme importanti nel corso dei suoi
viaggi d'affari. Diceva scherzando di avvertire la presenza di un "angelo
custode" che vegliava su di lui, che sapeva consigliarlo al momento
giusto.
Le mani di Piero mi sembrano quelle di un morto, e il suo volto abbastanza
pieno mi pare ora quello scarnificato di un teschio. E' così che adesso
che me lo figuro…
Ci vorrà molto tempo prima che ritrovino il suo corpo in mare, e non sarà
facile risalire alla causa della morte. Piero ha anche qualche nemico per
via di un affare in ambito edilizio, e uno di questi, Fabio Marani, si
trova proprio su questa nave.
E' già tutto stabilito, queste sono le ultime ore di vita di Piero Borgo,
e mi auguro per lui che sappia gustarsele.
Mi chiede se vado con lui al tavolo della roulette. Non ho nulla in
contrario, mi alzo, e si muove dalla sedia anche Clara, che sembra aver
adocchiato un tipo interessante intento ad osservare lo svolgimento del
gioco.
Sono le due di notte. Siamo sul ponte, accanto alla balaustra. Piero parla
in maniera concitata, non riesco ad interromperlo. Stasera ha vinto
ancora! Ha la giacca sgualcita e la fronte è bagnata di sudore. Fuori ci
sono circa 25 gradi. Mi avvicino a Piero e dalla trousse tiro fuori una
bottiglietta d'acqua. Dentro ho disciolto del tallio, ridotto in polvere
finissima.
Piero mi ringrazia, poi barcolla! Sul ponte non c'è nessuno. Lo spingo
giù, non voglio che cada proprio qui.
3
Il suo corpo fa un bel tonfo. Siamo nei pressi dell'isola di Malta, e qui
vi sono degli esemplari di squalo bianco. E' probabile che il suo corpo
non venga più ritrovato. Erediterò il suo conto in banca, oltre che alcune
case sparse nel mondo.
Un corpo urta violentemente contro il mio. Si tratta di Clara, la befana.
Deve aver visto tutto…mi sta ricoprendo di insulti. Credo di aver capito:
Piero mi aveva parlato di una sua zia che viaggiava in incognito con lui,
con lo scopo di rivelargli la presenza di individui sospetti.
Ha visto che ho ucciso Piero, e vuole vendicarlo. E' molto forte. Ha delle
spalle da nuotatrice e la sua stretta è micidiale.
Cadiamo in acqua, seguitando a lottare. Le sue mani mi serrano il
collo…faccio lo stesso nei suoi confronti. Il suo viso è deformato. Le dò
un pugno in testa e una ginocchiata nello stomaco, ha mollato la presa.
Sprofonda!
Mentre cerco di risalire alla disperata ricerca di ossigeno.
Vedo una massa sotto di me che si sta approssimando.
Una bocca si spalanca…vedo i denti aguzzi…
Muoio di paura prima di venire addentata…
Cambio di continente
Davanti alla solida e fascinosa Gibilterra, un branco di delfini,
perfettamente armonici nei loro tuffi, procede parallelamente alla nave.
Il loro colore non dissona con quello delle rocce dell'isola, e lo
spettacolo risulta suggestivo sia dal punto di vista scenografico che
coreografico. Sono curioso di scoprire se vi siano differenze profonde e
significative tra la Spagna e il Marocco. E' fresco il ricordo delle
deliziose casette arroccate di Torremolinos, delle facciate colorate o
rivestite di semplici azulejos, con delle curiose colonne di vetro
attraverso le quali si intravedono le scale. Edifici modernissimi si
affiancano a vecchie costruzioni in pietra, palazzi con un forte sviluppo
orizzontale si succedono ad altri tozzi e quadrati. Ricordo anche la
gentilezza spontanea delle persone, la loro disponibilità e la grande
educazione. Gli spagnoli sono comunicativi ma non invadenti. Amano ballare
e divertirsi, e lo fanno con reale partecipazione, senza scadere in
atteggiamenti volgari, con un grande senso della misura. La componente
ludica è ben presente, ma non così spiccata come ci viene presentata dai
mass media. E' piacevole immergersi nella folla, i passi spediti e i
rapidi movimenti del corpo manifestano vitalità, Ovunque fiori e piante
(agavi, cactus, pini mediterranei, aloe…), che con garbo sembrano
richiedere spazio. L'Andalusia non dista molto dall'Almeria, dove si
respira l'atmosfera dei vecchi western all'italiana, e si riconoscono
addirittura le location dove furono girati. Ecco, siamo a Ceuta, che è
ritenuto ancora territorio spagnolo. Saliamo frettolosamente sul pullman e
ci inoltriamo nel Marocco. Mentre la guida ci racconta con voce opacizzata
dalla routine la storia in pillole del paese, i viaggiatori più curiosi si
incollano ai finestrini. La strada si allarga e si restringe in modo
imprevisto, e noto con piacere la presenza di asini e muli, animali che
non vedevo da tempo in Italia. La costa si dilata e assottiglia in
continuazione. Bellissime spiagge si alternano a ciuffi di sterpaglia, in
un contrasto estremo e stordente. Tantissimi i cumuli di auto rottamate,
davanti alle quali corrono dei ragazzini, agitando dei bastoni sottili.
Giunti a Tetuan si è presi d'assalto da frotte di bambini che ti chiedono
insistentemente delle pesetas. La guida ci raccomanda di restare uniti,
guai ad allontanarsi dal gruppo. Ci incamminiamo verso la casbah e
attraversiamo una strada lunghissima, dove centinaia di donne, in
maggioranza anziane sono sedute con la schiena appoggiata al muro e
vendono frutta e verdure. Non c'è spazio, è tutto caotico, ammassato,
l'effetto è ubriacante. Finito il mercato inizia una serie di piccole case
dalle grandi finestre.
All'interno persone di varie età (più o meno dagli otto agli ottant'anni),
lavorano febbrilmente il cuoio e il metallo. La scena si ripete un po'
dappertutto, ma non dà il senso della monotonia; c'è sempre qualche
particolare da cogliere, dalle emissioni vocali degli abitanti, fatte di
grida, incitamenti,, discorsi concisi, proferiti anche con una certa
musicalità, alle interazioni tra loro e noi turisti. Mi sfrecciano davanti
innumerevoli volti dai differenti tratti somatici. Cerco di rintracciare
(a volte con difficoltà), gli elementi caratteristici del tipo berbero
(colorito chiaro, corporatura robusta, viso ovale, naso largo…), arabo
(alta statura, testa regolare, fronte diritta, naso stretto…) e di quello
propriamente marocchino. Sono impegnato con la mente, i sensi e lo
spirito. Un venditore ambulante reclama spazio con un timbro di voce
gutturale; ottenutolo, dispensa un caldo sorriso. Un uomo,
ultranovantenne, culla una bambina di 3-4 anni, cantandole una filastrocca
araba. Assimilo e filtro: a dopo le conclusioni.
La sintesi
Amedeo continuava a soffermare la sua attenzione sulle opere che l'avevano
più colpito tra quelle esposte nella Pinacoteca. Era rimasto
particolarmente impressionato dal settore dedicato al Trecento, ritenuto
il secondo per importanza dietro la Galleria degli Uffizi di Firenze.
Amedeo sembrava ipnotizzato dal polittico di Jacopino di Francesco,
colpito soprattutto dalla rigorosa ma insieme viva suddivisione dello
spazio e dalla complessità del lavoro inteso nella sua globalità. Amedeo
pulì i suoi occhiali con un panno, quindi si girò istintivamente per
guardare dei nuovi arrivati. Si trattava di studenti universitari iscritti
al D.A.M.S., sezione arte, guidati dalla loro insegnante, una distinta
signora sulla quarantina che parlava scandendo le parole con regolarità da
metronomo. Amedeo diede un'occhiata generale alle espressioni dei visi
degli studenti, che variavano moltissimo, comprendendo in piccola parte
anche quelle che denotavano un'attenzione ostentata più che effettiva.
Amedeo sorrise, rammentando i giorni (non molto lontani) nei quali si
trovava nella medesima situazione di quei ragazzi. Lui aveva interrotto
gli studi al terzo anno di Università per dedicarsi totalmente alla sua
grande passione, la pittura. Questa scelta, dopo i grossi sacrifici
iniziali, aveva comportato per lui anche un discreto riscontro sotto il
profilo economico, con un certo successo ottenuto in occasione di una sua
personale presso un affermato gallerista di Bologna. Il tratto di Amedeo
era nervoso ed espressivo, con campiture piuttosto scure. Privilegiava dei
soggetti femminili che collocava in contesti agresti ma spesso
inquietanti. Non ricorreva quasi mai a delle modelle, preferiva lavorare
di fantasia o ispirarsi a delle figure di donna che l'avevano colpito in
passato. Amedeo notò una ragazza sui venticinque anni, coi capelli mossi e
castani, corti davanti e che terminavano con una lunga coda. Visto di
profilo, lo sguardo della giovane era caratterizzato da una forte
sensualità mista a languore. Ad Amedeo ricordava una donna, protagonista
di un quadro importantissimo ma che in quel momento non riusciva a mettere
completamente a fuoco. La ragazza ricambiava in modo inequivocabile le sue
attenzioni. Passando davanti all'"Erminia tra i pastori", Amedeo non ebbe
più dubbi: era quello il quadro in questione. La ragazza assomigliava in
maniera impressionante ad Erminia. Con un atteggiamento disinvolto, Amedeo
le si avvicinò e le chiese di mettersi vicino al quadro. Soddisfatto della
sua intuizione, domandò alla giovane se le sarebbe piaciuto posare per
lui, per dipingere una sorta di Erminia moderna e situarla in uno scenario
differente. La risposta positiva della giovane lo rese raggiante.
Avvertiva già un sentimento crescente, che immaginava potesse espandersi
ulteriormente durante la realizzazione dell'opera. Da anni inseguiva una
sintesi tra arte e vita, e forse quello poteva essere il giusto percorso.
Con voce sottile ma ferma, la ragazza gli disse che era stato il primo a
notare la suddetta somiglianza, e che la cosa la rallegrava. Amedeo la
prese sottobraccio e visitarono insieme le altre sale della Pinacoteca.
Sovrapposizioni
Ricordo bene il lungo edificio rettangolare dove vivevo con la mia
famiglia, a fianco della casa a forma di torre, che mio padre aveva
adibito a magazzino. Quel giorno mia nonna aveva appena sfornato dei
biscotti alle mandorle. Piacevolmente stordito dal profumo, ne misi una
decina in un sacchetto e uscii dalla porta sul retro, dove delle giovani
lavoranti pigiavano chiassose sui grappoli d'uva. L'odore dei biscotti si
confondeva con quello del mosto, sortendo uno strano aroma. Fornito di un
ottimo udito, percepii un grido in lontananza. Quell'acuto mi risultò
subito familiare. Corsi puntando verso il grosso tiglio dove ero solito
trascorrere i miei pomeriggi di ozio. Un uomo, lo stalliere, sbucò dal
cespuglio. Aveva le mani macchiate di sangue. Ne percepivo l'odore. Nella
foga non avevo nemmeno gettato il sacchetto coi biscotti. Dalla tasca dei
pantaloni dello stalliere spuntavano un paio di forbici, anch'esse sporche
di rosso. Scorsi una gamba che spuntava da un cespuglio. Anch'io gridai.
Era mia sorella, colpita a morte in pieno ventre. Emise un urlo
terrificante ed io mi lanciai contro lo stalliere. Delle braccia mi
trattennero. Accorsero altre persone. Io continuavo a gridare. Arrivò la
polizia. Emozioni sconvolgenti, tanti odori miscelati all'eccesso. Mia
sorella era morta a causa di un maniaco. Lei che non aveva mai
incoraggiato nessuno a farsi avanti. Mi chinai su di lei; profumava di
sapone e borotalco. Quella fragranza svanì presto.
Sta per entrare il dottore. Mi somministrerà degli altri farmaci. Lui dice
che lo fa per il mio bene. Il mio cervello lavora a intermittenza. Non mi
sono mai ripreso del tutto, e spero, per il resto della mia vita, di non
avvertire mai più certi odori.
So che lo stalliere è in procinto di uscire di persona: pare che sia per
buona condotta. L'aspetterò fuori e con me porterò un paio di forbici…
Ruoli
Dopo aver parlato a lungo col sindaco, Moreno si aggiustò il colletto
della camicia, il risvolto della giacca e la cintura dei pantaloni. Ripeté
ancora le operazioni, come se una forza coercitiva gli impedisse di fare
altro. Inizialmente, attribuì la causa di questo suo comportamento al suo
colloqui col sindaco, a tratti punteggiato da polemiche e disaccordi,
soprattutto per quanto concerneva l'esecuzione di piani di sviluppo
riguardanti la cittadina. Eppure Moreno pensò che il motivo di questa sua
agitazione fosse un altro, assai più profondo e sottile. La sua emotività
gli aveva già giocato dei brutti scherzi, ma stavolta intuiva l'esistenza
di dinamiche differenti, che però stentava a precisare e delimitare. Il
suo ruolo di assessore era delicato, e molte persone lo avevano ritenuto
inadeguato a tale carica (per un insieme di ragioni spesso vacue e
superficiali), inducendolo a continue e per lui spossanti smentite,
costringendolo a rimettersi sempre in gioco. Gli sudavano le mani e la
fronte, che sciacquò con la delicatezza di un rito biblico presso la
fontana della piazza principale, proprio davanti alla chiesa romanica
dall'esterno ristrutturato. Passò la signora Badessi, il cavalier Rondoni,
l'avvinazzato Claudio, la signorina Gherardi…Gli sembrava che tutti lo
guardassero in modo insolito, con un'intensità e un'insistenza negli
sguardi che prima d'allora non aveva mai riscontrato. Rimase stupito dalla
replica villana di un garzone ad un ordine impartito con estrema
gentilezza dal fornaio, e subito dopo notò che due persone stavano per
mettersi le mani addosso, saltando la fase iniziale dello scontro verbale,
per un motivo utilissimo. Moreno raccoglieva quei dati, che riteneva
significativi, ma era incapace di dar loro ordine e coerenza. Percepiva
una sorta di macchie scure che gli attraversavano la mente. Le respingeva
con fermezza, ormai certo che la spigolosa chiacchierata col sindaco non
c'entrasse assolutamente nulla col suo stato d'animo. Alzò lo sguardo,
puntandolo contro il sole che pareva opacizzato, anche se la giornata era
piuttosto tersa. Comperò un quotidiano e diede un'occhiata rapidissima ai
titoli, che non riportavano notizie di rilievo, così come la cronaca
locale, con servizi standard e un paio di articoli che fungevano da
riempitivi. La Valeria lo salutò con un cenno frettoloso, quasi a smentire
l'interesse che gli aveva sempre manifestato. Lui fece per avvicinarsi, ma
lei scartò di lato, con un movimento inequivocabile. L'atmosfera si stava
facendo pesante, e Moreno pensò che fosse il caso di uscire dalla
cittadina e di incamminarsi per la strada che conduceva al colle
soprastante. Doveva raccogliere le idee e respirare un'aria meno cupa e
tesa.
Un daino, probabilmente quello che era già stato avvistato nella zona, gli
attraversò la strada emettendo un verso strano, insolito per l'animale.
Saltellava da una parte all'altra, indeciso su quale direzione prendere,
poi infine spari nella macchia del bosco. Moreno udì ancora il suo verso,
ancora più accentuato. Una taccola volò sopra di lui, gracchiando
spaventata. Si ricordò di un altro episodio inconsueto, accaduto il giorno
precedente e raccontatogli da un contadino, che aveva visto un falco
pellegrino puntare un topolino delle risaie e arretrare incerto un attimo
prima della cattura. Anche fuori dal paese, dunque, qualcosa stava
cambiando. Ruoli ribaltati o da ridisegnare, le identità mutate, le
interazioni sconvolte…Moreno stava resistendo, ma si chiedeva fino a
quando ce l'avrebbe fatta. Chi o che cosa aveva stravolto quegli
equilibri? Si interrogò sulla possibilità che altre località vicine
avessero subito tali sconvolgimenti, e si ripropose di informarsi. Un urlo
lontano ma distinto gli ferì le orecchie. Una voce giovane, simile a
quella di un ragazzino, che implorava aiuto. Proveniva dall'interno del
bosco. Moreno seguì subito la traccia vocale con uno scatto bruciante.
Saltò rami secchi e spezzati, cumuli di foglie e le nodose radici di
grossi alberi. Cadde anche, ma i rialzò all'istante e riprese la sua
corsa. Si fermò al limitare di una radura, nei pressi di una casa color
bianco sporco e col tetto a forma leggermente conica. Un altro grido,
inequivocabile. Moreno deglutì e si nascose istintivamente dietro un
albero. Una voce cavernosa ma dall'accento indefinibile, enunciò quello
che sembrava un comando. Col respiro frammentato, Moreno forzò le gambe
molli e arrivò accanto alla finestra. Vide dei simboli incomprensibili
tracciati sul muro con dei profondi segni rossastri. Mise l'occhio tra le
fessure della persiana. Fece un salto all'indietro, poi tornò a guardare.
All'interno della stanza c'era un ragazzino legato ad una sedia. Davanti a
lui, un uomo vestito di nero, alto, con un cappuccio sulla testa e una
maschera sugli occhi, stava disegnando dei triangoli equidistanti sul
pavimento, circoscritti ad un grosso cerchio. Moreno capì che gli
avvenimenti che lo avevamo turbato erano in stretta relazione con quel
rito. Risuonò ancora la voce di quell'individuo, facendo rabbrividire
Moreno. Temeva che se avesse tentato di sfondare la porta quell'uomo
avrebbe accoltellato il ragazzino. C'era inoltre l'eventualità che
quell'essere inquietante avesse comunque deciso di sacrificare la vita del
giovane. Non poteva più aspettare; da una piccola costruzione in legno,
adiacente alla casa e adibita probabilmente a magazzino, estrasse un
acuminato piccone.
Cominciò a percuotere la porta d'entrata con l'attrezzo. Udì la voce
dell'individuo pronunciare lentamente delle parole misteriose. Il
ragazzino piangeva e strillava. Moreno si aprì un varco e irruppe nella
stanza. Dell'individuo non vi era più nessuna traccia, aparte il lungo
vestito nero e il cappuccio. Il ragazzino supplicò Moreno di liberarlo.
Questi suppose che non si fosse trattato del solito rito satanico compiuto
da un fanatico, ma qualcosa invece di molto più inquietante e pericoloso,
tipo un'entità maligna che si fosse materializzata per chissà quale
criminoso disegno. "Te la senti di raccontarmi cos'è successo?" domandò
Moreno. "Io abito qui vicino, stavo passeggiando nel bosco quando
questo…questo mostro mi è apparso davanti, mi ha messo una mano sulla
bocca e mi ha trascinato di peso fino a qui. Non capivo una parola di
quello che mi diceva, parlava una lingua che non conoscevo e poi…quella
voce era terribile…"
Moreno consolò il ragazzino e lo condusse all'aperto, per fargli prendere
dell'aria. Moreno osservò il cielo; il sole non era più oscurato, mentre
il canto degli uccelli si ripropose nitido e sicuro. Gli equilibri si
stavano ripristinando.
Il profilo
"Signorina Giaccio, si accomodi pure su questa sedia. Noi docenti ci
disporremo davanti a lei, formando una sorta di semicerchio. Lo spazio
nell'aula è quello che è, bisogna adattarvisi."
Il professore di Diritto Lavorativo accompagnò le sue parole on un gesto
eloquente, poi sorrise all'insegnante di Greco Moderno, un'avvenente
signora bruna di 45 anni.
Lina Giaccio abbozzò un sorriso, poi si sedette. Il professore di
"Elementi Commerciali" la scrutò a lungo, prima di sussurrare
nell'orecchio dell'insegnante di "Strutture Legislative".
Il Preside aveva intanto tirato fuori la cartella personale della Giaccio
e stava suddividendo i fogli in diversi blocchi, poi li suddivise in
schede. Dal cassetto di un armadietto estrasse delle altre cartelle, che
riguardavano gli studi precedenti di Lina, dalle elementari fino
all'ultimo anno di "Liceo Multidisciplinare".
Il Preside sfogliava lentamente il materiale; si toccava la fronte, i
grandi occhiali, si passava la mano sul mento. Lina Giaccio era molto
tesa, sapeva che l'esame vero e proprio sarebbe iniziato soltanto dopo una
sorta di giudizio emesso dal Preside. Il percorso compiuto da uno
studente, comprensivo di voti e pareri, risultava fondamentale in sede di
esame. Bisognava che non vi fossero slabbrature e incongruenze. Veniva
ricercata una compattezza, un'organicità di rendimento.
"Signorina Giaccio, noi siamo responsabili del suo futuro. Non ci devono
essere ombre di nessun tipo che possano compromettere il suo ingresso nel
mondo del lavoro. Una volta erano sufficienti i voti, ma adesso i giudizi
di merito sono imprescindibili e anche quelli di tipo morale e
psicologico. Vede, esaminando i suoi trascorsi scolastici, emerge un
andamento totalmente incoerente. Lei era bravissima alle elementari, poi
appena sufficiente alle medie, infine discontinua qui al Liceo
Multidisciplinare. Da un punto di vista caratteriale lei è stata ritenuta
via via estroversa, timida, indecifrabile, tetra. Questo mi sconcerta, mi
creda. Il mondo del lavoro ha bisogno di personalità solide e integre, le
complessità caratteriali sono un vero e proprio disastro in un ambiente
produttivo. Esaminando le sue schede è anche emerso che lei ha legato con
una compagna che ha evidenziato problemi nell'apprendimento e dei disturbi
comportamentali quando le toccava relazionarsi con gli altri studenti. Lei
cos'ha da dire a riguardo?"
Gli occhi color nocciola di Lina guardarono il Preside in modo
interrogativo.
"Non ho una risposta signor Preside, o per meglio dire dovrei dargliene
tante a seconda delle varie circostanze, delle situazioni che ho dovuto
affrontare".
"Tante risposte…Questo indica un evidente disagio da parte sua, ma adesso
non voglio insistere. Spero che lei si sia preparata adeguatamente, e che
dia una bella immagine di sé".
Lina si sentiva già stanca, come se qualcuno le avesse sottratto
gradualmente le energie. Il preambolo del Preside non le era piaciuto, e
temeva, anzi ne era quasi certa, che ogni sua lacuna o un'eventuale
incertezza nel rispondere sarebbe stata rimarcata da parte della
commissione. Lei aveva avuto delle difficoltà in qualche materia, in
particolar modo con le ultime inserite nel piano di studi. Aveva patito i
repentini cambiamenti ma anche dei subitanei ravvedimenti con il ritorno
alle vecchie impostazioni. Nella scuola moderna tutto sembrava oscillare o
spostarsi verso delle direzioni non molto chiare. La infastidivano i
pareri pronunciati con frettolosa superficialità nei suoi confronti, e i
continui tentativi da parte degli insegnanti di classificarla
definitivamente, senza tener conto delle sue difficoltà che erano state
anche di altri studenti, forse più abili di lei nel mascherarle o più
acquiescenti con i professori.
Il professore di "Imprenditoria" iniziò a tempestarla di domande.
Lina Giaccio non si diplomò in quella occasione e interruppe
definitivamente gli studi.
Il viaggio di Muliero
Muliero non riusciva a concentrarsi; ormai era arrivato alla pagina n.
18674 del romanzo di Brezzham Vithalis, "Le Angosce di un pastore
armeno". Il vento entrava con veemenza attraverso i finestrini,
fracassati dai tifosi dell'Acqualagna, rabbiosi per non aver trovato la
località dove si esibiva la loro squadra del cuore. L'aria infastidiva
Muliero che tossiva a ripetizione, disturbando l'ottuagenario venditore
di lampadine usate, intento in quel momento a recuperare il suo
parrucchino, finito tra i seni di una zingare albanese. Questa stava
sonnecchiando ed emetteva dei suoni simili a gargarismi. La fauna dello
scompartimento comprendeva anche un ragazzino dai capelli tinti e
mesciati, intento a giocare con un finto computer portatile. Il treno si
fermò in una piccola stazione. Muliero aprì la porta difettosa dello
scompartimento. Davanti a lui c'era un bambino, impegnato da ore
nell'ascolto di un Cd nonuplo, contenente le registrazioni di una tournee
di Carmen Consoli.
Due intellettuali discutevano dei grandi innovatori del pensiero
contemporaneo, soffermandosi ad analizzare in primis le riforme culturali
apportate da Claudio Cecchetto e di Maurizio Mosca.
Muliero richiuse la porta. Le voci degli annunciatori uscivano confuse
dagli altoparlanti. Il nuovo regolamento imponeva che le comunicazioni
venissero tradotte in 33 lingue.
Il viaggio di Muliero si sarebbe concluso a Budapest, dove l'attendeva
Jutka, la ragazza conosciuta tramite la rivista internazionale "I
Derelitti". Lei gli scriveva in ungherese, lui in italiano, ma dopo
accurati esami psicografici avevano capito di essere fatti l'uno per
l'altra. Muliero cercò di calmare la zingara albanese, che stava inveendo
contro l'ottuagenario, reo di averle palpato i seni. Il ragazzino col
computer rideva in falsetto, mostrando i suoi denti finti.
Muliero si asciugò la fronte zuppa di sudore; La temperatura aveva
superato i 40° gradi e il tasso di umidità aveva raggiunto il 98%. Non
era ferrato in geografia, e dopo aver vagato per tutta l'Europa, aveva
preso finalmente il treno giusto.
Butto nel bidone delle immondizie l'involucro della pasta al cioccolato e
pistacchio, che aveva ritrovato in un angolo del frigorifero dopo una
ricerca biennale. Accantonò definitavemte ogni proposito di riprendere la
lettura del romanzo, e ripose il tomo di 18 kg nella sua valigia
sdrucita., che conteneva un paio di mutande e una camicia, quanto bastava
per un soggiorno di un paio di settimane.
Dalla tasca della giacca di pelle tirò fuori uno specchietto e diede una
controllata al suo aspetto. Fece delle smorfie per verificare la sua
mobilità facciale e abbozzò una serie di sorrisi.
Il treno decelerava, e dopo qualche minuto sentì pronunciare la parola
Budapest.
Se ne uscì dallo scompartimento dopo qualche epiteto irripetibile rivolto
ai suoi compagni di viaggio.
Sul primo binario c'era tanta gente assiepata. Muliero scese dal treno e
attese che la folla si diradasse.
Una ragazza dai capelli radi e in soprappeso di una sessantina di chili
stava guardando una fotografia. Alzò poi la testa sorridendo a Muliero.
Lui aveva mandato la sua foto a Jutka, ma lei si era sempre rifiutata di
fare altrettanto. Ora era chiaro il perché.
"Tu sei Jutka?" le chiese con voce esitante,
"Sì" rispose lei con tono squillante.
"Non sono Muliero!" ansimò lui, imboccando rapidamente il sottopassaggio.
Ai bordi dello sport
"Borzov è imbattibile, non ho mai visto nessuno come lui!" esclamò un
tifoso russo in un discreto italiano. Nando De Socio non raccolse la
provocazione. Era lì per seguire Pietro Mennea, e riteneva che il
velocista di Barletta fosse in grado di sconfiggere il fenomeno russo. La
mina vagante era rappresentata dall'americano Larry Black, nuova stella
tra gli sprinter statunitensi. Jerry Bruce, seduto sulla gradinata
sottostante a quella di De Socio, credeva ciecamente in Black, aveva
persino puntato sulla sua vittoria. Bruce aveva grandi possibilità
nell'atletica leggera, ma un incidente patito in motorino aveva
compromesso l'uso della gamba sinistra, confinandolo nel ruolo di semplice
tifoso. Crudele ironia del destino, il suo allenatore gli aveva predetto
che un giorno sarebbe stato in grado di battere dei record. Dopo quel
giorno infausto, Bruce si era smarrito nei meandri della vita, con una
serie di fallimenti scolastici e lavorativi. Qualsiasi obbiettivo diveniva
ai suoi occhi sempre più sfuocato, e diminuiva di conseguenza l'energia
necessaria per raggiungerlo. Durante le olimpiadi aveva simpatizzato con
Nando De Socio, tra l'altro erano ospiti dello stesso albergo, e si
divertiva ad ascoltare quell'Inglese misto a dialetto meridionale
pronunciato dal suo amico.
Bruce staccò lo sguardo dalla pista d'atletica per concentrarsi sul
panorama offerto dalla città di Monaco, che sembrava avvolgere l'Olympiapark
e le sue modernissime costruzioni collegate da una copertura a rete.
Entrarono gli atleti per disputare la finalissima dei 200m. A Jerry
piacevano tantissimo tutte quelle emozioni concentrate in pochi secondi.
Il poderoso Borzov sembrava più rilassato rispetto ai suoi concorrenti.
Mennea pareva sprigionare una sorta di elettricità. La voce dello speaker
si frammischiava con le grida degli spettatori. Il boato si trasformò in
brusio, poi il silenzio. Partiti. Dopo pochi metri non vi erano più dubbi
su quello che sarebbe stato il vincitore: Borzov. Mennea, dopo la curva,
si scatenò in una delle sue devastanti progressioni, e si piazzò alle
spalle del sovietico e di Larry Black. Bruce ebbe un moto di stizza,
mentre De socio applaudì comunque l'atleta di Barletta. Bruce aveva perso
i soldi della scommessa, e al ritorno in patria avrebbe dovuto restituire
i soldi che un suo amico gli aveva prestato per pagarsi l'albergo. De
Socio propose a Jerry di andare a bere qualcosa, ma quest'ultimo rifiutò
cortesemente l'invito.
5 Settembre 1972.
Bruce non aveva sonno, passeggiava nervosamente tra le costruzioni del
villaggio olimpico. Erano le prime ore del mattino. Sentì alcune
detonazioni. Provenivano dall'edificio che si ergeva davanti a lui. Poco
dopo ne uscirono 3 uomini, atleti israeliani. Erano terrorizzati. Uno di
loro strillò la parola"Fedayn". Si radunarono tantissime persone. Qualcuno
disse che quell'azione era nell'aria, che bisognava attendersi che i
terroristi palestinesi attaccassero prima o poi la squadra israeliana.
Nessuno sapeva bene cosa fare. Bruce pensò per un istante di compiere un
gesto decisivo, che gli sarebbe valso il riconoscimento di tutto il mondo.
Sarebbe entrato finalmente nella storia, probabilmente per non uscirvi mai
più. Arrivarono auto delle polizia. C'erano stati dei morti e i terroristi
avevano intenzione di servirsi dei prigionieri israeliani come ostaggi. La
situazione si era complicata, e diminuivano le possibilità per Bruce di
tentare qualcosa, dato che i poliziotti avrebbero proibito qualsiasi
intervento esterno. Pensò di intervenire con un gesto apparentemente
sconsiderato, di gridare qualcosa, un motto o uno slogan in lingua araba,
della quale conosceva pochi vocaboli, ma forse sufficienti per formare una
frase di senso compiuto. L'urlò gli si smorzò in gola, lui lo aveva
volontariamente soffocato, per nulla convinto degli impulsi che
seguitavano a scuoterlo. Bruce si allontanò da quel luogo, rimuginando
sulle eventuali possibilità di tornare protagonista.
Il nostro delirio
Alberto raccolse le scarpe di tela e si tolse la sabbia, che era piuttosto
fine, dai piedi. Con lo sguardo velato dal sudore vide che stava arrivando
un'automobile tedesca, con a bordo una famigliola di 4 persone. Il
guidatore, somigliante ad Helmut Haller ma ancora più appesantito, disse
alla moglie che gli sarebbe piaciuto praticare lo sci nautico. Alberto
capiva il tedesco, ma conosceva bene anche l'inglese e da un anno aveva
cominciato a studiare il cinese. Si lasciò alle spalle la spiaggia e si
avvio verso l'interno. La strada saliva leggermente e le pendenze erano
discrete. Un villino recintato chiudeva il percorso. Alberto spinse il
cancello e trovò un biglietto attaccato con lo scotch ad una sedia di
bambù:"Vieni avanti e goditi i limoni!"c'era scritto. Alberto evitò di
farsi pungere da un ramo spinoso, poi sfiorò una foglia dal color verde
scuro e la forma ellittica. I frutti erano oblunghi, appena appuntiti. Ne
colse uno, lo tagliò a metà con il coltellino che teneva nello zainetto e
lo addentò con gusto. Vicino alle radici dell'ultimo albero di limone
scorse un altro biglietto:" Bene, ora ammira i cedri!" Alberto poté
apprezzarne i rami dal color rosso sfumato e le grandi foglie glabre.
Essendo i cedri alberi a ramificazione bassa non gli fu difficile
afferrare un frutto, dalla forma più arrotondata di quella del limone.
Assaggiò con piacere anche quest'altro agrume. Sul sentiero erboso
recuperò un foglio bianco: "Vieni avanti, e sarai contento!" Alberto
avanzò e si fermò davanti ad un albero di chinotto. Stava per staccare un
frutto da un ramo quando udì una voce a lui nota: "Sono qui alla tua
sinistra, Alberto!" Lui si girò e vide lei, Fumi, seduta su una sedia di
paglia e davanti a un tavolino rotondo con sopra i pezzi degli scacchi
cinesi. A fianco della scacchiera una bottiglia ancora chiusa di un
analcolico a base di chinotto e due bicchieri con dei simboli in cinese.
Fumi liberò i capelli corvini dal lungo spillone che li teneva fermi e
invitò Alberto a baciarla. L'uomo si asciugò il sudore dalle tempie
brizzolate con il fazzoletto profumato che lei gli tese e poi la baciò a
lungo, alternando il contatto bocca a bocca con delle sorsate di
aperitivo. "Grazie di essere entrato nel mio mondo, Alberto. Mi hai
seguito e ti ho accolto. Questo è il nostro delirio!" Lui chinò il capo in
cenno di assenso.
La soluzione
Il ministro dello "sviluppo economico" Aristolfo Incrementi si slacciò la
cintura dei pantaloni e il colletto della camicia. Addentò una coscia del
maiale dopo averla strappata dalle mani di Cifinia Blesi, ministro delle
"libagioni", che lo insultò con un accento lucano mutuato da inflessioni
lombarde. Gli altri commensali stavano finendo di ingurgitare i resti di
73 suini, cucinati arrosto e infarciti di mortadella, uovo sodo, maionese,
mostarda, olive, capperi, acciughe, impreziositi da fettine di anguria ed
avocado e bagnati nel whisky e vodka. Il ministro Blorpi, preposto alla
"salvaguardia delle aree dismesse", sentendosi affaticato, prese una
pillola di Tardigex, medicinale sotto sequestro da 8 anni, passatagli dal
ministro della "sanità retrospettiva, l'onorevole Chiocli, noto anche come
autore dei libri "Conflitti Ospedalieri" ed "Efferatezze Medicali".
Incrementi si affacciò sul balcone rostrato e abbellito di palloncini dai
colori cangianti, e si rivolse alla folla sottostante. "Fate come noi,
cari cittadini, rimpinzatevi di carne di suino, che infonde buon umore e
preserva la salute. I prezzi hanno subito un ribasso e la potete trovare
in tutti i supermercati della catena produttiva gestita dal ministro
Crobbiari, addetto alle "opportunità dei disagiati". Delle urla
provenienti dall'interno dell'abitazione spaventarono Incrementi, che
rientrando vide alcuni onorevoli che stavano rantolando a terra. Lui
stesso avvertiva da circa mezz'ora delle acute fitte al fegato. Gi
tornarono in mente le parole dell'onorevole Avidi, che lo aveva avvisato
di non acquistare la carne in giacenza nei magazzini Crobbiari. Infatti,
Avidi non era presente tra gli invitati. Sospinto dal suo animo generoso,
Incrementi pensò di dover condividere quel cibo con la massa degli
indigenti. Ritornò sul terrazzo per lanciare alla gente una testa di
suino, ma si accasciò tra violenti spasmi. Prima di perdere i sensi si
vide ricoverato nella villa del ministro dei "ricoveri d'elite".
Il maniscalco
Il nuovo negozio di telefonia mobile aveva preso il posto della vecchia
latteria. C'era voluto molto tempo per disfare la vecchia struttura
all'interno e approntarne una nuova, adeguata a dei criteri moderni. I
banconi erano due, entrambi di forma ricurva, uno rosso e l'altro blu, con
tantissimo spazio tra questi e l'entrata. Appeso alla parete, a fianco
degli accessori inseriti dentro delle buste colorate, un poster, un viso
di donna ripreso di profilo, truccata con un fondo tinta leggero e le
labbra dischiuse in un sorriso compiaciuto. La titolare, Silvia Bellini,
lisciò la foglia più grossa di una Lantana, poi aprì la porta per
posizionarsi come suo solito, con le braccia conserte e la gamba destra
inclinata. Sul lato opposto della strada batteva ancora il sole. Silvia
inviò un rapido messaggio, contenente anche un errore grammaticale, ad una
sua amica, una vicina di casa che non vedeva da tempo, ma con la quale
manteneva i contatti via sms. Nel frattempo le erano arrivate altre
comunicazioni, una dal bar di fronte, dalla sua amici Cinzia che le diceva
di andarla a trovare; non si trattava in fondo che di pochi metri…
Con lo sguardo Silvia percorse la fila di negozi sull'altro lato, da
sinistra a destra e viceversa, soffermandosi sulla grossa bottega
all'angolo, separata dalla parrucchiera da alcuni metri liberi, e in mezzo
un basso pitosforo per colmare il vuoto. Dentro la bottega Carlo Orselli
stava controllando se la fucina fosse in ordine. L'esame lo soddisfò, poi
aprì l'agenda dove venivano segnati gli appuntamenti. Cancellò un
nominativo e a fianco di quello sotto aprì una parentesi per scrivervi
"Chiamare il veterinario". Una cavallo aveva dei seri problemi alla parte
anteriore dello zoccolo, e prima di ferrarlo era necessario consultarsi
con uno specialista. Carlo, seguendo la stessa linea di suo padre, era
molto scrupoloso a proposito. Non voleva avere sulla coscienza la salute
di un animale, e soprattutto quella di un cavallo. Quando viveva coi suoi
nella casa in collina alleva cavalli di due razze diverse: la Maremmana,
la sua preferita per le sue affinità con la Spagnola, e la Landese, dopo
che aveva ricevuto in regalo due esemplari da un suo amico, un esperto
allevatore francese. Gli erano piaciuti subito anche per via della
somiglianza con la razza Araba. Ammirava anche la loro linea snella ed
agile.
Pur non essendo un veterinario si documentava su ogni tipo di malattia che
potesse riguardarli, leggendo libri e riviste, frequentando una biblioteca
specializzata e andando a dei convegni sul tema. A volte aveva avuto
l'impressione di accostarsi a quegli animali con una passione persino
eccessiva, ma dopo si giustificava dicendosi che in fondo non vi era nulla
di sbagliato in qualsiasi forma di sentimento, quando questo fosse sano e
lecito. In più di una circostanza la sua affettuosità era stata ampiamente
ricambiata da parte dei cavalli con delle manifestazioni inequivocabili.
Dopo che i suoi genitori andarono in pensione, la fattoria venne venduta
per sopperire a dei disagi economici, e con la sua cessione finì anche la
sua esperienza come allevatore. Questa esperienza gli era servita
successivamente, durante il periodo in cui aveva frequentato la scuola per
diventare maniscalco e nell'esercizio di questo mestiere. Suo padre gli
era stato vicino sia durante il suo tirocinio che in seguito,
infondendogli fiducia e mettendovi le conoscenze maturate dopo tanti anni
da allevatore. Ora viveva con sua madre in una piccola casa vicino a
Gubbio, ma lo sentiva spesso per telefono. Carlo non conosceva un altro
modo per comunicare oltre la lettera. Non possedeva un telefonino, e
nemmeno un computer. Non era contrario alla tecnologia e alla sua
evoluzione, ma non aveva ancora provato un vero e proprio interesse verso
questi oggetti. Li aveva semplicemente sperimentati, riscontrandone pregi
e difetti, ma non riusciva ancora ad amarli. Forse sarebbe venuto il tempo
anche per questo. Forse…
Il suo inserimento in paese non era stato semplice; c'era stato un
contenzioso contro chi rivendicava per sé lo spazio poi utilizzato per
aprire l'attività. Il sindaco Valeri assieme ad altre personalità del
paese lo aveva sempre osteggiato, sostenendo che un mestiere come quello
del maniscalco non era più attuale, che strideva con il concetto di
modernità, e che oltretutto tutto il paese avrebbe risentito di questo
passo all'indietro. Valeri era intenzionato a dare un volto nuovo al
paese, spogliandolo di tradizioni arcaiche, e l'arrivo di Orselli aveva
minacciato di compromettere tutto. Il sindaco continuava a ripetere a
Carlo che non c'era nulla di personale, ma che lo riteneva indubbiamente
un grosso ostacolo allo sviluppo della comunità.
Orselli si affacciò sulla strada. Vide la Bellini che lo fissava. Il corpo
aveva un atteggiamento rigido, innaturale. I capelli tinti di biondo erano
mossi dal vento e si dividevano in modo scomposto. Fino a qualche anno
prima la considerava una bella donna, ma col passare del tempo questo
aspetto non aveva più nessun rilievo.
Aveva sentito dire che una parente della Bellini aveva delle mire sulla
sua bottega, e che progettava di impiegare il suo spazio per aprire una
grossa boutique.
Carlo aveva imparato a dare retta a quelle voci, che quasi sempre
prendevano corpo.
Bibi Edwall stava scendendo lungo la strada in pendenza che conduceva
verso la parte sud del paese. Con una mano stringeva il filetto legato ad
un cavallo non molto alto, con le spalle forti ed inclinate, ed una gabbia
toracica piuttosto estesa. Sopra gli occhi presentava un ciuffo scuro.
Seguiva mite la sua padrona, che procedeva spedita.
Era una donna sulla quarantina, dai lunghi capelli biondi e fini, legati
con un nastro rosso. Indossava un paio di pantaloni da cavallerizza
ricamati all'altezza della caviglia.
Gli zoccoli del cavallo avevano bisogno di una nuova ferratura e non aveva
esitato a rivolgersi a Orselli, con il quale si era sempre trovata bene.
Anche in Svezia aveva fatto l'allevatrice,e giunta in Italia aveva pensato
di continuare questa attività. Fedele alle proprie tradizioni, aveva
seguitato ad occuparsi della razza North Swedish, una delle migliori sotto
il profilo della robustezza e della longevità.
Bibi aveva tante amicizie nella zona, ma gli sarebbe piaciuto approfondire
la conoscenza con Orselli, che sapeva ancora scapolo e che doveva avere
grosso modo la sua età.
Arrivata in prossimità della bottega scorse Orselli in strada, mentre
sull'altro lato Silvia Bellini stava confabulando con sua cugina Patrizia,
mentre il sindaco e l'assessore chiacchieravano a pochi passi dalle due
donne.
La presenza di quelle persone innervosì Bibi, che pensò subito che
stessero tramando qualcosa contro Orselli. L'allevatrice era al corrente
delle loro manovre, e parteggiava naturalmente per Carlo.
Orselli salutò calorosamente la donna e la fece accomodare nella bottega.
Accarezzò lievemente il cavallo, poi diede un'occhiata allo zoccolo.
"Eh, sì, qui c'è da fare un bel lavoro."
Carlo tolse con delle tenaglie il vecchio ferro, poi limò l'unghia in
eccesso dello zoccolo. Prese un altro ferro, lo scaldò, e lo mise ancora
rovente sull'incudine per modificarlo in qualche punto. Lo immerse
nell'acqua fredda finché non cambiò la sua temperatura.
Pose il ferro contro lo zoccolo e martellò i chiodi. Tolse infine una
sporgenza in modo che un'estremità aderisse perfettamente allo zoccolo.
"Ecco fatto, signora Edwall!"
"Bibi, la prego mi chiami così. Mi ha tolto un gran peso, e oltre a
pagarla per il lavoro, avrei piacere di invitarla a bere qualcosa."
"Sì, ma sono io ad invitarla se me lo permette. Sa, non ci sono molte
occasioni di parlare con qualcuno. I miei contatti li ho generalmente con
persone come lei, che vivono fuori dal paese e che mi cercano per il mio
lavoro. Qui ci sono delle persone che non vedono di buon occhio nemmeno i
cavalli. Già…li ritengono "sorpassati".
Bibi abbozzò un sorriso. Aveva visto che il sindaco e l'assessore, insieme
alle altre due donne, si stavano dirigendo verso la bottega.
Fece un cenno a Carlo, che capì la situazione. Invitò Bibi a seguirla,
mentre il cavallo rimase nella bottega.
Carlo guardò il quartetto e strinse un braccio di Bibi. Il sindaco si girò
verso l'assessore, che si grattò la testa calva. Silvia Bellini si voltò
di scatto a parlare con la cugina, che sembrava fra tutti la più tesa. Lei
ci teneva moltissimo a impadronirsi e a trasformare la bottega di Orselli,
e temeva di non riuscire a realizzare la sua aspirazione.
Bibi guardò a muso duro il quartetto. Il sindaco si sfiorò con l'indice la
guancia perfettamente rasata e con un movimento del sopracciglio e un
movimento minimo del campo indusse gli altri tre a seguirlo e a
posizionarsi sull'angolo diametralmente opposto.
Carlo aveva compreso che quel giorno non vi sarebbero stati attacchi
frontali.
"Forse non è il caso di rimanere qui. Se mi accompagna a casa le preparerò
del tè".
Carlo giocò con i suoi ricci scuri e allargò le braccia chinando il capo,
in segno di una gradita resa.
Bibi afferrò il filetto del cavallo.
Dopo un paio di salite il terzetto era già fuori dalla vista dei curiosi. |