Racconti e testi di Terence


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Siamo inutili, noi che deliriamo giocando con le parole?
A ben vedere è senza senso questa insana insistenza su tal superflua sentenza. Dovrem noi esser più sicuri, spinti e discinti, come sinti o zingari rom, senza cd, originali, ma tarocchi e tabacchi e sali in camera immediatamente a dormire senza cena, che oggi non hai fatto un tubo, razza di idraulico fallito, nullafacente patentato!
Consideriamo la nostra scemenza, e mieteremo quel che ci spetta. Noi spargiam chicchi di profondissima saggezza, “chi siamo, da dove veniamo, dove andiamo, perché esiste Marzullo”. Dovremmo forse prendere delle pillole per la memoria, e non solo quelle contro i cattivi cettivi?
Non siamo inutili, siamo solo superflui, come peli sulla lingua, che non ci sono, e se ci sono non son nostri, specie nel caso di quella meretrice che andò a far giurisprudenza, giurando prudenza nel trattare le altrui pelvi, e prese ottimi voti in diritto penale, visto che alla fine la verga di quel professore era un ben poco diritto pene e un mal molto moscio uccello.
Noi pensiamo, quindi siamo, coito ergo cum. Che vuol dire inutile? Che vuol dire dire? E qui ho come un deja vu… Che dire di vuol? Sì così colà cocà sniffà?
Dicendo che siamo inutili mi chiudo in una categoria, la categoria del siete, e poi butto la chiave, anche se è un bel film, un film dove chiavano l’uscio di sotto e dove dei comunisti si mangiano i bambini mentre fanno oh, che bocca grande che hai!, e poscia Povia schiaccia una biscia liscia che dolorante allo stomaco è costretta a digiunare, da cui il detto evangelico coniato da Buddha: “poscia, più che il dolore potè il patè”.
Così mi chiudo, e mi cristallizzo autoetichettandomi, mentre invece dovrei diamantizzarmi prendendo due compresse di carbonio al giorno.
Appartiengo già a troppe specie: primate guinneggiante e gigioneggiante, uomo-che-deve-insistere-sempre, eccitante giovane aitante come tante tante tante alichieri. Voglio far parte della schiera dei futili inutili, tra droidi umanoidi e gallici druidi.
Magici fluidi scorrono nelle mie reni, crasse risate scorrazzano nel mio colon, rette parallele mi si scontrano al finito, crashando in un gigantesco bug bang, un esplosione a salve dalla quale dunque ci si salva, come furbi kamikaze blindati.
Forse non sono più inutile di qualsiasi altra persona. Forse son utile anch’io, nel ricercare la verità, nel tentare di orientarmi, nel conoscere, nel capire, nel formulare domande e cercare risposte, nel domandare formule e rispondere per parabole a cerchie iperboliche di rombi inquadrati.
Siamo tutti nella stessa barca, e sta affondando. Siamo tutti alla ricerca di un sesso, o meglio di un senso, anzi di un Benso, Camillo Bowles marchese di Aznavour e granduca di Cornovaglia, o almeno questo & quello è quello & questo che penso quando penso di pensare al pensiero, pensando alla pansa sopra alla quale si campa, ma sotto la capra c’è ombra e dentro c’è buio.     

Poeta, pazzo, o bevitore? Comico, giullare, o giocoliere?
Chi sarà mai davvero quell’assurdo buffone delirante, guitto istrionico e clownesco, grottesco pagliaccio burlone, metafisico menestrello che grida nel nulla, bambino centenario che scorrazza nella storia? Avrà mai gloria per la sua bonaria boria?
Boria come bora, ventoso presagio di fredde future sventure, scirocco di vita per deglutire la tosse del male, tramontana crepuscolare che vellica il perverso pensiero, siero della vanità, poiché tutto è vastità, immane immensità immanente ed imminente.
Mente la mente a se stessa, crede la voce di dire, ma che vuol dir dire? Che vuol dir che? Che dir si voglia di una qualsivoglia quaglia?
Si squaglia la certezza come neve all’alba bianca di un vecchio giorno stanco, come sangue in vane vene, come nave incagliatasi a morte. Terribile sorte, gioco d’azzardo, sorge la luna e miete la notte, stelle pulsanti, schiacciate da dita invisibili, sogni infranti come specchi affranti.
Rantoli di nulla, nella culla pullula la vita, già condannata a morte troppe volte, archi, cupole e casupole, tuguri e stamberghe, castelli ed alberghi, dove alligna il buio del cuore di uomini troppo soli per essere veri, o forse troppo rattrappiti per essere altro.
Scaltro si aggira come lupo famelico il dolore, cinico malore, in malo modo scanna vite inermi, fermi, non muovetevi, è là dietro in agguato, come il fato.
Destino certo di perdizione nel caos, disordine casuale di immani frattali e mortali frontali, scontri e incontri, vite intrecciate dal vuoto, un nulla che ingoia, impastoia, rasoia la soia e miete la troia, inzacchera la barbabietola di dolce e orrendo fango, mentre fingo un tango, e intingo un tanga nel pozzo infido della mia libido.
Ibrido di contraddizioni irrisolte, delirante patafisico einsteiniano comatoso, a che gioco gioca la luce fioca che accompagna il nostro divenire quando un coma ci comanda di spegnerci? Ahi serva Talia, del timor di Otello tu ti prendesti gioco, e poscia più non puote il tremore, che il digiuno da alcool è ormai finito.
Epatica insensatezza, epica sfrontatezza, gastrica dissennatezza, enterica erica tantrica, intrico di plichi di coliche eoliche, bufere di malessere che la psiche mal sopporta, febbre malarica di mosche azzannanti, leoni volanti, tigri sbraitanti, zebre e cavalli e muli e bardotti, ibridi viadotti di asine geniali, di colpe veniali, di viaggi siderali, e di vite mortali.
Il boccale prese in man tutto tremante, alcool che appen bevuto ebbrezza dona. Stremato alfin si arrese, stordito da una ciarita che ti sfascia, schiantato da una sì mortal deboscia, sguscia la caloscia dalla cranica calotta, sbotta l’oste assai stizzito, quando l’occhio ormai zittito più non vede e il cuore ormai scoppiato più non duole.


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