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2017

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28 Dicembre

Canto della pianura

di Kent Haruf

Traduzione di Fabio Cremonesi

NNEditore

www.nneditore.it

Narrativa romanzo 

Il senso della vita

Già dalla prima pagina mi è sembrato di ritornare a casa, perché Holt, questa cittadina immaginaria che tuttavia assomiglia a tante località americane a carattere prevalentemente rurale, per certi aspetti rispecchia il paese dove abito. Anche lì, come qui, si nasce, si cresce, si fa l’amore e si muore, ma gli abitanti non sono le anonime ombre che si agitano freneticamente in una metropoli, hanno un volto, un nome e anche un carattere. Non c’è nulla di eclatante nelle esistenze descritte da Haruf e proprio per questo, per quanto immaginate, sono palpabilmente vere, ma l’aspetto straordinario è che i semplici eventi che accadono appassionano, però  non come in una telenovela, di cui si vuol sapere il seguito di ogni puntata già immaginandolo dapprima, no, tutt’altro. E’ il modo semplice, ma estremamente efficace con cui vengono descritti i personaggi, è la delicatezza con cui vengono mostrati i sentimenti, è quel senso di rispetto, ma anche di umana pietà, verso ciascuno dei protagonisti che fanno di questo romanzo un gioiello. Prendiamo i fratelli McPheron, rimasti orfani da giovani e che conducono un allevamento di bestiame in una vita che è solo lavoro, perché non hanno mai conosciuto la gioia dell’amore; sembrano quasi misogini, rinchiusi in un bozzolo auto-protettivo, eppure accettano di ospitare una ragazza incinta che la madre non vuol più vedere. All’inizio sono preoccupati, ma non tanto per l’impatto che la presenza di un ospite potrà avere nella loro casa, bensì per il timore di essere inadeguati, di non essere capaci di comunicare. Poco a poco i nodi si scioglieranno e la famiglia (sì, la famiglia, perché finiscono per andare oltre una normale convivenza, come quando, se pur impacciati, trepidano nell’attesa del parto) sarà la prova evidente che i legami vanno oltre quelli di sangue, ricomprendendo il reciproco rispetto e un po’ di umano affetto.

Haruf è un grande scrittore, perché il rischio di cadere in una telenovela c’era, ma lui abilmente si è tenuto alla larga, da buon burattinaio che non si vede, ma di cui si intuisce la presenza, ha manovrato i suoi personaggi, ci ha fornito spaccati di vita vera con una serie di piccole storie che finiscono con l’intrecciarsi, con protagonisti che si ritroveranno poi anche negli altri due romanzi della trilogia. La lettura non stanca mai e procede naturalmente secondo il ritmo per lo più blando che l’autore ha impresso alla sua opera.

Così si arriva alla fine senza accorgersi, indubbiamente soddisfatti, ma anche dispiaciuti di non poter andar oltre; non c’è da preoccuparsi, però, perché ci sono ancora Benedizione e Crepuscolo, entrambi egualmente belli, anche loro ambientati a Holt, un luogo che sembra quasi magico perché lì la vita segue il ritmo delle stagioni, perché lì in fondo si vive veramente, perché in ogni azione e in ogni sentimento c’è il senso profondo di sapere in che consiste l’esistenza, in quella strada lungo cui si cammina dall’alba al tramonto, un destino comune che dovrebbe invogliare a soccorrerci, a darci una mano, proprio come fanno tanti personaggi di questa grande trilogia.

E’ un capolavoro, non aggiungo altro.

Kent Haruf (1943-2014) è stato uno dei più apprezzati scrittori americani, ha ricevuto diversi riconoscimenti, tra cui il Whiting Foundation Award e una menzione speciale dalla PEN/Hemingway Foundation. Con il romanzo Il canto della pianura è stato finalista al National Book Award, al Los Angeles Times Book Prize, e al New Yorker Book Award. Con Crepuscolo, secondo romanzo della Trilogia della Pianura, ha vinto il Colorado Book Award. Benedizione è stato finalista al Folio Prize.
Renzo Montagnoli

 

18 Dicembre

Accecate i cantori

di Angela Caccia

Presentazione con i giudizi di Lucianna Argentino, Francesco Filia e Alberto Trentin

Fara Editore

www.faraeditore.it

Poesia 

Il poeta vede a occhi chiusi

E’ da un po’ di tempo che seguo la produzione di questa poetessa e posso senz’altro dire che si presenta in continua evoluzione, e non solo per le tematiche affrontate, ma anche stilisticamente. Sì, Angela Caccia non è uno di quegli autori che si considerano arrivati, finendo poi con il riposare un po’ sugli allori, bensì ha compreso che c’è ancora tanto da esplorare dentro il suo mondo interiore, così che ogni volta che si accinge a scrivere dei versi è una ulteriore sfida con se stessa, con ciò che sente e che vuole esprimere, con quello di cui ha appena una percezione e che vorrebbe cosi tanto schiarire, fare a uscire da quell’oscurità per avere ulteriori certezze. E’ anche questo il caso di Accecate i cantori, titolo in verità un po’ spiazzante, tanto che prima di leggere le poesie contenute in questa raccolta mi sono immaginato tanti bambini dalle candide voci privati degli occhi, accecati insomma.  Ovviamente non è che Angela Caccia sia sadica e pertanto quell’accecate è in senso figurato, quasi a voler dimostrare che il poeta-cantore per vedere chiaro deve chiudere gli occhi. E in un certo senso è vero, perché la realtà dell’artista è un’immagine riflessa nel suo “io”, deformata, rivisitata, sensibilizzata, il tutto in un lavorio, probabilmente di neuroni, di cui il poeta non ha la precisa scelta o volontà; è un qualche cosa che nasce d’improvviso, una scintilla che poco a poco si fa luce; la creatività sembra indipendente, e in effetti lo è, dalla volontà dell’artista, come se dentro lo stesso ci fosse un altro, un puro spirito che si risveglia.  In quest’ottica, pertanto, nascono le poesie, si stemperano le sensazioni e le emozioni nella penna che corre sul foglio e infine non è raro che l’autore stesso, a lavoro concluso, si meravigli del suo risultato. Per il resto il mondo di Angela Caccia è fatto di ombre che riemergono dal passato, da quei ricordi che il tempo in noi ha rielaborato e che l’abilità dell’artista ripropone nel loro significato, privo di perniciosi paludamenti, un’integrità di sostanza che sapientemente proposta si fa poesia. A dire ciò può sembrare avulso da una realtà obiettiva, potrebbe anche dare l’impressione di un astruso ragionamento di un pretenzioso aspirante critico letterario, ma per fugare questo dubbio non c’è di meglio di leggere questa raccolta, di assaporare verso dopo verso la prospettiva esistenziale dell’autore e in tal senso credo che un assaggio valga più di mille parole: Ci vuole una minuziosa / e paziente / esperienza al male / quanto basta / per imparare a difendersi dalle parole / dalle mani spaiate / entrambe dispari incapaci di una stretta / dalla natura servizievole della compassione / dal fiore senza giardino /  che vive e muore nello spazio di un vaso   / non ci addestra mai al dolore / al male sì / per fronteggiarlo in qualche modo.

Non mi resta che augurare buona lettura.

Angela Caccia,  funzionaria in un ente pubblico, vive e lavora a Crotone; laurea in materie giuridiche la hanno ulteriormente abbarbicata alla poesia. Gelosa dei suoi affetti, ritiene con Octavio Paz che “I poeti non hanno biografia. La loro opera è la loro biografia”, l’unica che restituisca il riflesso più fedele di un autore –molte volte sconosciuto all’autore stesso. Ha vinto diversi concorsi ed è inserita in numerose antologie. Con Fara ha pubblicato le raccolte pluripremiate Nel fruscio feroce degli ulivi (2013) e Il Tocco abarico del dubbio (2015). Con LietoColle ha dato alle stampe Piccoli forse  (2017). Webilciottolo.blogspot.it
Renzo Montagnoli

 

14 Dicembre

Le putine del Canal Gorzone

di Fiorella Borin

Postfazione di Nicola Di Girolamo

Montedit Edizioni

www.montedit.it

Narrativa racconto

 

Il sublime amore delle madri per i figli

Sono due i fatti di cui parla il libro, non collegati fra loro, ma comunque con il medesimo tema, tanto da ritenere plausibile che l’unico racconto in effetti consti di due prose.
Soprattutto nella prima, quella dell’annegamento in Venezia del piccolo Zuanin, con la madre che lo stringe fra le braccia, consapevole della sua dipartita che tuttavia rifiuta, mi è venuto in mente un altro evento, analogo, ma non uguale, immortalato dal nostro Alessandro Manzoni nei suoi Promessi sposi, con quella povera Cecilia che la morte si è portata via. Le analogie finiscono qui, ma quel che più conta è che mi è parso che Fiorella Borin nella sua narrazione sia riuscita a cogliere la momentanea discrasia fra la certezza del fatto doloroso e l’autodifesa, volta a non accettarlo, al punto da non considerarlo reale. Indubbiamente gli studi dell’autore costituiscono un valido fondamento, ma resta il fatto che riuscire a rendere narrativamente questo contrasto è una prova di grande capacità, la stessa che poi si ritrova nel personaggio della seconda prosa, cioè di quella madre che ormai alla fine della sua esistenza nell’ospizio si aggrappa disperatamente a ciò che le resta di una sua bambina morta moltissimi anni prima nel crollo di un ponte, unitamente ad altri infanti, fatto, quello del crollo, effettivamente avvenuto e che ha costituito il pretesto o meglio lo spunto per questa narrazione breve, ma di notevole bellezza.

Se pure è un’aria di tragedia che permea il libro, l’aver saputo porre in evidenza, senza ricorrere a luoghi comuni o ad accentuate enfasi, l’amore materno costituisce l’elemento di maggior pregio, tanto più che l’autore, mantenendo un costante distacco dai suoi personaggi, toglie loro quell’artificiosità propria della scrittura d’invenzione, rendendoli veritieri e perciò maggiormente interessanti.

Le putine del Canal Gorzone è un libro senz’altro da leggere, perché è più che meritevole.

Fiorella Borin, nata a Venezia nel 1955, è laureata in psicologia. Per onorare la memoria del padre, reduce dalla Russia, ha scritto molti racconti sulla Seconda Guerra mondiale. Con Alberto Perdisa Editore ha pubblicato nel 2003 La Signora del Tempio nascosto. Con Tabula Fati ha pubblicato Il bosco dell’unicorno, il pittore merdazzèr, La strega e il robivecchi, La firma del diavolo  e Christe eleison. Ha scritto, per le Edizioni Solfanelli, Il pellegrino spagnolo,  Le voci mute. Nove storie veneziane. Con Edizioni della Sera ha pubblicato I giorni dello sgomento.
Renzo Montagnoli

 

11 Dicembre

Il piccolo caporale

Napoleone alla conquista dell'Italia, 1796-97 e 1800

di Gianni Rocca

Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Saggistica storica

 

L’ascesa irresistibile di Napoleone

Non c’è che dire: Napoleone Bonaparte deve molto all’Italia, perché se diventò nel bene e nel male quel grandissimo personaggio che è stato molto lo deve al nostro paese, grazie a quelle due campagne di guerra condotte in Liguria, Piemonte, Lombardia e Veneto fra il 1796 e il 1800 che lo consacrarono definitivamente come uno dei più grandi condottieri della storia. Era preparato, era un abile stratega, sapeva imporre un alto ascendente sulle truppe, ma, soprattutto, era anche molto fortunato perché una delle sue vittorie più belle, quella ottenuta sugli austriaci il 14 giugno 1800 nelle campagne di Marengo, fu merito di un suo generale, Desaix, che nell’occasione cadde in combattimento e che tramutò in successo una altamente probabile sconfitta dovuta a un madornale errore di valutazione di Napoleone stesso. Ciò nulla toglie alle sue qualità militari, che ben si accompagnavano a quelle politiche, visto che aveva fiutato per tempo la crisi del Direttorio e che anche ricorrendo alla forza lo aveva fatto sostituire con tre consoli, di cui lui era il primo e dotato di pieni poteri.

E’ indubbiamente interessante questo saggio di Gianni Rocca che ripercorre l’ascesa di Napoleone appunto con la conquista dell’Italia, considerato un fronte secondario nella lotta fra la Francia e gli stati monarchici europei, ma che il piccolo corso trasformerà in fronte principale, capace quindi con i suoi risultati di condizionare l’esito dell’intero conflitto. Curioso poi è il modo con cui, secondo criteri strettamente storici, viene svolto il tema, immaginando l’esistenza di un inviato speciale (l’autore stesso) al seguito dell’esercito francese in quelle campagne, un giornalista molto particolare che osserva e annota a fianco del futuro imperatore. In questo modo, senza che si finisca nel romanzo storico, la narrazione diventa molto scorrevole, a tutto vantaggio della gradevolezza della lettura.

Il Napoleone descritto da Rocca è quel genietto che ben conosciamo, vanitoso, mai contento del successo ottenuto, in preda di una fortissima stima di sé che se lo porta a ottenere grandi risultati, talvolta invece lo conduce alla catastrofe, come appunto nel caso di Marengo, evitata per un soffio dall’intuito e dall’eroismo di un suo sottoposto.

Da leggere, ovviamente.   

Gianni Rocca (Torino22 ottobre 1927 – Roma20 febbraio 2006) è stato un  giornalista italiano, fra i fondatori del quotidiano La Repubblica. A partire dagli anni ottanta si è dedicato anche a scrivere opere di riflessione storica che hanno avuto grande successo. Al riguardo, fra le più note, si ricordano Cadorna, il generalissimo di Caporetto;  Fucilate gli ammiragli. La tragedia della Marina italiana nella seconda guerra mondiale; L’Italia invasa: 1943 – 1945; Stalin: quel “meraviglioso georgiano”; Caro revisionista, ti scrivo….
Renzo Montagnoli

 

8 Dicembre

Il postale

di Vincenzo Pardini

Edizioni Fandango

Narrativa romanzo

 

Altri tempi

L’idea di narrare un po’ della nostra storia attraverso la vita del conducente di una diligenza postale è indubbiamente originale, anche perché richiama un sapore pionieristico di frontiera che noi ben conosciamo grazie ai film western, dimenticando che negli stessi anni la vita non era dissimile anche in Europa. In effetti, pagina dopo pagina, ci si appassiona alle vicende di Liberio Fraterni, di quest’uomo che alla fine dell’Ottocento recapitava la posta nell’Alta Toscana. I personaggi non sono molti e direi che l’autentico e assoluto protagonista è Balio, un cavallo nero, unico nel suo genere, capace di trainare da solo  la diligenza senza apparente sforzo e senza mai stancarsi, una bestia un po’ bizzosa, non del tutto domata e che mi sono chiesto che significato metaforico possa avere. Senza arrivare a una conclusione certa credo che il quadrupede in questione rappresenti il senso di libertà innato in ognuno di noi  e a riprova di questa opinione sta il fatto che Balio, che stranamente non invecchia mai, non appena il progresso soppianta il trasporto con la diligenza, fugge e di lui non si saprà più nulla. Peraltro, l’autore a cui non si deve negare il merito di saper descrivere con abilità situazioni e paesaggi, mostra una spiccata attitudine a relazionarsi con la natura, il che può richiamare, ma solo in parte, un’altra figura di narratore, cioè Mario Rigoni Stern. Il romanzo in sé presenta appunto il motivo di interesse in questo rapporto fra Liberio e il cavallo, mentre l’aspetto storico, che dovrebbe costituire l’ossatura, a mio avviso è un po’ carente, nel senso che pur rappresentando un periodo a cavallo di due secoli non approfondisce più di tanto. Purtroppo, più si va avanti con le pagine e con gli anni emergono alcune lacune, come riferimenti fuorvianti a personaggi  particolari, come nel caso della suora-madre o di Giovanni Pascoli, oppure anche di Giuseppe Garibaldi, sul quale il giudizio dell’autore è senz’altro opinabile, ma che in ogni caso non si capisce perché venga inserito nel testo. Con lo scoppio della prima guerra mondiale la vena fantastica si amplia  e così grazie alla massoneria Liberio farà la conoscenza di Cadorna e di Vittorio Emanuele III, in una casa posta immediatamente a ridosso della prima linea. In seguito, terminato il conflitto, il figlio Amilcare, invalido di guerra, diventerà un protagonista assoluto del fascismo. I tempi sono cambiati, tutto sembra procedere veloce verso il futuro, il passato ben presto sembra un trapassato e Liberio, che è un uomo di un’altra epoca, che non può accettare i fascisti perché così diversi da lui, comprende che il suo tempo è finito e si lascia andare. Le ultime pagine, che lo colgono nel momento della sua dipartita, non sono strazianti, ma nella misura in cui danno il senso dell’inutilità di sopravvivere a un’epoca sono veramente stupende e fanno dimenticare quelle manchevolezze di cui ho prima accennato, contribuendo non poco a un giudizio   sostanzialmente positivo.

Vincenzo Pardini (Fabbriche di Vallico, 7 luglio 1950) è giornalista e scrittore. Ha pubblicato diversi libri di narrativa (romanzi e racconti) fra i quali La volpe bianca (1981), Il falco d’oro (1983), Jodo Cartamigli (1989), La congiura delle ombre (1991), Giovale (1993), La terza scimmia (2001), Il viaggio dell’orsa (2011) e Il postale (2012).
Renzo Montagnoli


 

5 Dicembre

Il cavallante della <<Providence>>

di Georges Simenon

Traduzione di Emanuela Muratori

Edizioni Adelphi

www.adelphi.it

Narrativa romanzo

Collana gli Adelphi – Le inchieste di Maigret 

La pietà di Maigret

Scritto nell’estate del 1930, a bordo del suo yacht Ostrogoth, con cui andò su e giù per i numerosi e ben attrezzati canali navigabili francesi, Il cavallante della Providence risente di questa esperienza di navigazione, tanto che il mondo del trasporto e del diporto fluviale è talmente ben descritto da ricreare nel lettore l’impressione di essere presente, di vedere i grossi barconi trainati da cavalli sulle sponde e di udire il cigolio delle porte delle chiuse quando si  aprono o quando si chiudono. E’ un perfetto mondo d’acqua, con una vera e propria immersione nel liquido, tanto più che il cielo è ben poco benevolo e lascia trasparire raramente il sole, quasi un’illusione nei continui scrosci di pioggia. E’ un Maigret autarchico quello chiamato a risolvere il caso di una bella e giovane donna, il cui cadavere è stato trovato ricoperto dalla paglia in una stalla, autarchico perché non ricorre, per spostarsi, a un auto, ma preferisce la bicicletta, con cui un giorno arriva a percorrere, con un tempo inclemente, quasi settanta chilometri e su una strada coperta da pozzanghere e con presenza di fanghiglia. Come al solito l’ambiente e l’atmosfera sono resi in modo perfetto, così come di assoluto rilievo è l’analisi psicologica dei protagonisti, persone dell’alta borghesia o piccoli profittatori che ruotano loro intorno per partecipare almeno agli avanzi del banchetto. Maigret cerca un omicida, che ucciderà un’altra volta, ma quando lo trova, grazie al suo infallibile intuito che lo porta a lasciarsi scivolare addosso la storia, trattenendo solo l’essenziale, non avrà motivo di essere soddisfatto, perché, come in altre occasioni, l’assassino è esso stesso vittima, che pagherà le sue colpe con una morte straziante descritta in pagine di rara bellezza. Eh sì, è infallibile Maigret, ma non è un automa, è una perfetta macchina investigativa cucita intorno a un cuore che pulsa e che non si oppone all’umana pietà.

Da leggere, senz’altro.

Georges Simenon, nato a Liegi nel 1903, morto a Losanna nel 1989, ha lasciato centonovantatre romanzi pubblicati sotto il suo nome e un numero imprecisato di romanzi e racconti pubblicati sotto pseudonimi, oltre a volumi di «dettature» e memorie. Il commissario Maigret è protagonista di 75 romanzi e 28 racconti, tutti pubblicati fra il 1931 e il 1972. Celebre in tutto il mondo, innanzitutto per le storie di Maigret, Simenon è anche, paradossalmente, un caso di «scrittore per scrittori». Da Henry Miller a Jean Pauhlan, da Faulkner a Cocteau, molti e disparati sono infatti gli autori che hanno riconosciuto in lui un maestro. Tra questi, André Gide: «Considero Simenon un grande romanziere, forse il più grande e il più autentico che la letteratura francese abbia oggi»; Walter Benjamin: «… leggo ogni nuovo romanzo di Simenon»; Louis-Ferdinand Céline: «Ci sono scrittori che ammiro moltissimo: il Simenon dei Pitard, per esempio, bisognerebbe parlarne tutti i giorni».
Renzo Montagnoli

 

2 Dicembre

Stoner

di John Willians

Postfazione di Peter Cameron

Traduzione di Stefano Tummolini

Fazi Editore

www.fazieditore.it

Narrativa romanzo 

 

Uno di noi

Di questo libro ne avevo sentito parlare da tanti e sempre con giudizi ampiamente positivi, anzi entusiastici, tanto da fa supporre che fosse nata  una Stonermania. Eppure, quando il romanzo fu pubblicato nel 1965 non ottenne molto successo, anzi finì con il diventare una delle tante opere che ogni anno vengono date alle stampe e che è già molto se ha un volume di vendite discreto; infatti, il titolo ben presto finì fuori catalogo. Fu in occasione della sua ripubblicazione nel 2003 che incominciò a incontrare i favori di un numero sempre più ampio di lettori che parlandone sui social network contribuirono in modo determinante a una sua ampia diffusione. Cosa era cambiato per fare diventare best seller un libro che quasi quarant’anni prima aveva incontrato solo tiepidi favori e quale era il motivo del suo travolgente successo? Era subentrata una nuova generazione di lettori, di gente che nel soffocante neoliberismo aveva cominciato a chiedersi quale era il senso della vita, insoddisfatta dai proclami secondo i quali ogni uomo è artefice di se stesso, desiderosa di trovare una verità che, per quanto non auspicabile al massimo grado, era però la premessa indispensabile per porsi le domande che il materialismo aveva soffocato: chi sono, cosa faccio, dove vado, posso ribellarmi al destino? In questo senso la figura di William Stoner, questo figlio di agricoltori che hanno lottato sempre e solo per sopravvivere, portati ad accettare la loro condizione con rassegnazione, si identificava e si identifica con quella di un uomo qualunque, come la sua vita è una vita qualunque, senza gesta memorabili, senza eroismi, insomma una vita come quella che è propria di ognuno di noi.

Stoner riesce a lasciare la desolazione della campagna laureandosi e quasi per caso scopre la sua vera vocazione di insegnante, si sposa con la prima donna che ha occasione di conoscere e non sarà un bel menage coniugale, riesce perfino ad avere un’amante per un breve periodo, ha contrasti con un collega prevaricatore nell’università in cui entrambi insegnano, arriva alla vecchiaia e in prossimità di quella pensione che non potrà tuttavia godere. Come un giunco sotto la forza del vento, Stoner si piega, ma non si spezza, certo potrebbe anche opporsi al destino, almeno in alcuni casi, ma non lo farà, come non lo facciamo noi, poco propensi a rincorrere l’incerto restando adagiati in un certo che non ci soddisfa, ma con il timore che cambiare sia peggio. All’inizio della lettura Stoner sembra un personaggio del tutto anonimo, una comparsa quasi, ma, mentre si procede, ci accorgiamo della sua personalità, delle sue miserie e delle sue grandezze, diventa sempre più familiare, troviamo in lui caratteristiche che ci accomunano, Stoner è solo uno di noi. E come ciascuno ha una valvola di sfogo alle vicissitudini della vita, come per esempio chi trova nella religione la forza per vivere e superare le avversità, Stoner ha una sua religione, laica, la letteratura, un’arte in cui immergersi e costruire un proprio mondo, un’arte a cui ha contribuito con una pubblicazione ed è questa pubblicazione che prende con difficoltà in mano negli ultimi istanti della sua vita, ma che sfuggirà dalle sue dita con l’ultimo respiro. A proposito, le ultime pagine di questo romanzo sono dedicate alla morte del protagonista e sono un’esperienza indimenticabile, certamente struggenti, ma il crescendo di partecipazione emotiva con un uomo che ripercorre in pochi minuti la sua esistenza di cui forse ora è soddisfatto consente di arrivare a vette eccelse, permette di raggiungere il sublime.

Non aggiungo altro, e le mie parole sono superflue di fronte a un simile capolavoro che si giudica da sé.

John E. Williams nato nel 1922 in una famiglia di modeste condizioni economiche del Texas, si iscrisse all’Università di Denver solo dopo la fine della seconda guerra mondiale, durante la quale fu di stanza in India e in Birmania dal 1942 al 1945. Rimase a Denver per tutta la vita, dove insegnò Letteratura inglese presso l’Università del Missouri e dove morì nel 1994. Poeta e narratore, John Williams è stato finalmente riscoperto negli ultimi anni, diventando un vero e proprio fenomeno di culto a livello internazionale. Oltre ad Augustus, Fazi Editore ha pubblicato Stoner(2012), Butcher’s Crossing (2013) e Nulla, solo la notte (2014).
Renzo Montagnoli

 

30 Novembre

La vita segreta dei mammut in Pianura Padana

di Davide Bregola

Avagliano Editore

Narrativa romanzo 

Grande delusione

La prima domanda che mi sono fatto, ultimata la lettura, è perché mi sono procurato questo libro. Non è certo perché conoscessi già l’autore, a me quasi completamente ignoto fino a poco tempo fa, né per via del titolo, di quei mammut che avevano una vita segreta nella Pianura Padana. Il motivo è molto più semplice, ma è anche quello che ha condizionato le aspettative fin da subito: La vita segreta dei mammut nella Pianura Padana ha vinto il Premio Chiara edizione 2017. Il nome di Piero Chiara ha spalancato in me ogni porta, atteso che ho sempre stimato molto il narratore  di Luino, a mio parere uno dei più grandi scrittori italiani, cantore di quel piccolo mondo provinciale in cui, ma ancora per poco, si riescono a riscoprire il senso e il piacere della vita. Ho immaginato subito che il concorso riguardasse opere relative a queste entità circoscritte, che non sono necessariamente quelle in sponda al lago Maggiore, ma che sono presenti in ogni parte d’Italia, a patto di avere la pazienza di scovarle. Ecco, l’autore del libro premiato, Davide Bregola, è un ferrarese che si è trasferito a Sermide, nel mantovano, e quindi poco lontano dal suo luogo natio. Questo, come il mio, è un paese rivierasco del Po e in genere le  caratteristiche di chi vive lungo il grande fiume sono simili, e in ogni caso è possibile cogliere in queste piccole realtà personaggi di particolare interesse, buoni a sviluppare una storia che può oscillare dal drammatico all’ironico e che diventano assoluti protagonisti grazie all’abilità di chi scrive.   Quindi, all’inizio le mie aspettative erano molte, aspettative che purtroppo sono andate subito deluse, perché nel libro, di difficile classificazione (sempre narrativa, ma se ha poco del romanzo ha ancor meno della raccolta di racconti), si propongono tutta una serie di fatti, o di eventi se preferiamo chiamarli così, tutto sommato di scarso interesse, o addirittura banali. Ma se la vicenda può avere uno sviluppo modesto, importante resta la figura del protagonista, che grazie all’abilità del narratore, deve diventare un personaggio memorabile. Non si tratta di ricreare l’Emerenziano Paronzini della Spartizione, oppure l’Augusto Vanghetta di Il pretore di Cuvio, né del resto si potrebbe pretendere di raggiungere le vette eccelse di Chiara, ma non ha senso inserire dei protagonisti che non hanno spessore, perché è evidente che, in questo caso, attesa anche la modestia della vicenda, la lettura si trascinerà sempre più penosamente fino alla fine. Anche se devo ammettere che questa civiltà rivierasca del Po sta smussandosi nel tempo, tuttavia soggetti che possono accendere la fantasia esistono tuttora. Insomma, per farla breve, mi è rimasta l’ultima domanda, e cioè come mai un libro  di così modesta levatura si sia aggiudicato il Premio Chiara. Non credo che riuscirò a trovare la risposta, né a questo punto mi interessa.

Da leggere questo libro? Mi sembra che la risposta sia implicita in ciò che ho scritto.

Davide Bregola è nato a Bondeno di Ferrara nel 1971 e vive a Mantova. Ha pubblicato libri per adulti e bambini sulla Bellezza e la Felicità. Idea e conduce laboratori di scrittura per scuole e biblioteche. Ama leggere dattiloscritti inediti di poesie e storie per farli diventare libri. Tre allegri malfattori è stato il suo primo romanzo uscito il 4 aprile 2013 per Barbera Editore Nel 2014 è uscito il suo libro L'acchiapparime per Barney Edizioni, un manuale per costruire filastrocche, poesie in rima, raccontini. Nel 2015 per Barbera editore ho tradotto "Il piccolo principe". Progetta romanzi corali con il metodo delle "mappe di comunità". Del 2017 il libro di episodi "La vita segreta dei mammut in Pianura Padana"  (Avagliano Editore), vincitore del Premio Chiara 2017.
Renzo Montagnoli

 

27 Novembre

La casa dei Krull

di Georges Simenon

Traduzione di Simona Mambrini

Edizioni Adelphi

www.adelphi.it

Narrativa romanzo

Collana Biblioteca Adelphi

 

Il (presunto) nemico in casa

Se qualcuno pensasse che questo romanzo sia stato scritto da poco, tanto è attuale, incorrerebbe in un grossolano errore, perché l’anno di stesura è stato il lontano 1938. Viene allora da chiedersi per quale motivo Simenon abbia ideato quest’opera, in cui l’elemento cosiddetto giallo è solo un pretesto, ma a questa domanda non c’è risposta, o meglio si potrebbe dire che quelle caratteristiche di veggenza che si riscontrano sono dovute esclusivamente alle intuizioni di un autore capace come pochi di sondare l’animo umano. Siamo sinceri, nel 1938 non c’era nulla che lasciasse supporre prossimo o abbastanza prossimo il fenomeno dell’emarginazione sociale dello straniero, nel caso specifico di una famiglia tedesca, i Krull, la quale, suo malgrado, si vedrà coinvolta nelle indagini per il brutale assassinio, preceduto da violenza carnale, di una giovane ragazza. E’ proprio questo l’innesco che fa esplodere nella popolazione quell’odio a lungo sopito, quel guardare quegli esseri umani, originariamente tedeschi e poi naturalizzati francesi, come un bubbone insito nella collettività, frutto di parole dette a bassa voce, di maldicenze e anche di sciocco e inutile ostracismo. La tensione, che negli anni precedenti non si scorgeva, limitando la gente a non fraternizzare, cresce lentamente e a dismisura, si vuole passare dalle parole ai fatti e buon per i Krull che la polizia riesce a dissuadere i facinorosi. Resta in ogni caso una domanda: l’inibito Joseph Krull, prossimo alla laurea in medicina, è colpevole, oppure no, dell’orrendo delitto? Non c’è una risposta diretta, anzi ce n’è una indiretta che lascia nell’incerto e nel vago il lettore che desidera, invano, sapere il nome dell’assassino. Ma non era l’omicidio e la successiva indagine lo scopo del romanzo di Simenon, era invece  un ammonimento per il futuro, perché la gente non dovesse considerare diversi degli esseri umani solo perché di altra nazionalità. Dal 1938 di anni ne sono trascorsi molti, c’è stata una seconda guerra mondiale con le brutture naziste, con l’olocausto, e poi, dopo un periodo di relativa quiete, ha preso il via il fenomeno dell’immigrazione, un evento lasciato colpevolmente a se stesso che ha visto e vede i nativi di tanti paesi europei, il nostro compreso, insicuri e timorosi, ben poco propensi all’accoglienza e più che disponibili a ricacciare gli stranieri che approdano sui nostri lidi.

Anche in quest’opera, oltre a un Simenon dalle solite elevate inalterate capacità, troviamo un autore che lancia un allarme, ma che come Cassandra resterà inascoltato.

Da leggere, non c’è dubbio.

Georges Simenon, nato a Liegi nel 1903, morto a Losanna nel 1989, ha lasciato centonovantatre romanzi pubblicati sotto il suo nome e un numero imprecisato di romanzi e racconti pubblicati sotto pseudonimi, oltre a volumi di «dettature» e memorie. Il commissario Maigret è protagonista di 75 romanzi e 28 racconti, tutti pubblicati fra il 1931 e il 1972. Celebre in tutto il mondo, innanzitutto per le storie di Maigret, Simenon è anche, paradossalmente, un caso di «scrittore per scrittori». Da Henry Miller a Jean Pauhlan, da Faulkner a Cocteau, molti e disparati sono infatti gli autori che hanno riconosciuto in lui un maestro. Tra questi, André Gide: «Considero Simenon un grande romanziere, forse il più grande e il più autentico che la letteratura francese abbia oggi»; Walter Benjamin: «… leggo ogni nuovo romanzo di Simenon»; Louis-Ferdinand Céline: «Ci sono scrittori che ammiro moltissimo: il Simenon dei Pitard, per esempio, bisognerebbe parlarne tutti i giorni».
Renzo Montagnoli

 

23 Novembre

A un passo dalla forca

di Angelo Del Boca

Baldini Castoldi e Dalai Editori

Storia biografia 

Il leone del deserto

Angelo Del Boca è il nostro più autorevole studioso del colonialismo italiano e, probabilmente per questo motivo, ha avuto la straordinaria opportunità di poter consultare una documentazione di cui era ignota l’esistenza: le memorie di Mohamed Fekini, capo della tribù dei Rogeban e fra i maggiori oppositori, fra il 1911 e il 1930, alla conquista italiana della Libia. E’ certamente un documento di parte, ma incrociandolo con gli eventi che si susseguirono nell’arco di circa un ventennio, si trovano conferme di particolare rilievo, quali  il comportamento dei vari governatori, alcuni degne persone, altri falsi e feroci, fra i quali non si può fare a meno di ricordare il sanguinario Generale Graziani, un individuo che avrebbe meritato di finire la sua vita non nel suo letto, ma di fronte a un plotone di esecuzione. Fekini morì comunque nel suo letto, ma esule e dopo non pochi anni di stenti, un personaggio che per certi aspetti potrebbe ricordare il nostro Giuseppe Mazzini. In queste memorie, prodighe di descrizioni di avvenimenti, di giudizi su amici e nemici, è encomiabile l’obiettività dell’estensore, un uomo coerente e mai disposto a rimangiare la parola data. In verità, se c’è chi non fa una bella figura, a parte alcuni traditori berberi, sono proprio gli italiani, quasi sempre dediti al doppio gioco, prodighi di promesse, ma avari di concretezza. Se dovessimo guardare alla nostra avventura coloniale come predominio culturale di un popolo sull’altro, le parti dovrebbero essere invertite, perché i capi libici e fra questi Fekini dimostrano un livello di civiltà più elevato del nostro, soprattutto quando gli incaricati di reprimere la sacrosanta ribellione dei locali rispondono al nome di Graziani e di Badoglio, individui in tutto e per tutto spregevoli.

Poi, come si sa, la rivolta venne soffocata, provocando, fra battaglie e deportazioni in massa, non meno di 100.000 vittime fra i libici, che infatti, sconfitti, ma non domati, non poterono che perpetuare l’odio nei nostri confronti.

E’ il caso di dire che diventammo potenza coloniale tardi e male e che, a conti fatti, le nostre conquiste in terra d’Africa ebbero un costo assai rilevante, di molto superiore agli scarsi vantaggi economici che ne potemmo ritrarre.

Nella tragedia della sanguinosa repressione italiana Fekini rappresenta l’uomo fedele alla sua terra al punto di immolarsi, se necessario, e infatti lui fu vicino alla forca, anzi la evitò solo rifugiandosi in Algeria con tutta la sua tribù con una marcia nel deserto in cui morirono in molti.

Se Fekini era imparziale nei giudizi, così è anche Del Boca, e pertanto questo libro presenta, oltre a un notevole interesse, anche un apprezzabile e certamente non consueto equilibrio.

Da leggere, quindi.

Angelo del Boca (Novara 1925), saggista e storico del colonialismo italiano, ha insegnato storia contemporanea all'università di Torino. È stato insignito di tre lauree honoris causa dalle università di Torino (2000), Lucerna (2002) e Addis Abeba (2014). Tra le sue numerose e importanti opere ricordiamo: L'altra Spagna (1961), I figli del sole (1965), Giornali in crisi (1968), I gas di Mussolini. Il fascismo e la guerra d'Etiopia (1996), Il mio Novecento (2008), La guerra d'Etiopia. L'ultima impresa del colonialismo (2010), Da Mussolini a Gheddafi: quaranta incontri (2012), Gli italiani in Africa Orientale (4 voll., 1992-1996),Gli italiani in Libia (2 voll., 1993-1994), L'Africa nella coscienza degli italiani. Miti, memorie, errori, sconfitte (2002).
Renzo Montagnoli

 

19 Novembre

Il morso

di Simona Lo Iacono

Neri Pozza Editore

www.neripozza.it

Narrativa romanzo storico 

La libertà della pazzia

La protagonista del romanzo, la siracusana Lucia Salvo, è realmente esistita e di lei parla Luigi Natoli nelle sue Cronache e leggende di Sicilia, in cui si racconta che fu inviata dalla città natale a Palermo a casa dei Ramacca, una famiglia nobile antiborbonica che di lei si servì per comunicare messaggi segreti ai reclusi del carcere dello Steri. La ragazza riuscì nello scopo fingendosi sciocca, anzi meglio ancora babba, cioè pazza. E fin qui il romanzo è fedele alla storia, ma poi ne diverge per arrivare a descrivere un personaggio straordinario, ben diverso da quello vero, che ha costituito solo lo spunto per una narrazione di più ampio respiro in cui si pone in evidenza come in una società cristallizzata, immobile nei suoi riti e nella sua struttura, necessariamente chi va oltre questi confini invisibili, ma invalicabili, non può che essere considerato pazzo.

Nell’opera Lucia Salvo è epilettica, malattia ancora sconosciuta nel XIX secolo, tanto che per le crisi improvvise e imprevedibili che la caratterizzano  veniva considerata alla stregua della pazzia, ma se “il fatto” come tutti, lei compresa, chiamano l’attacco che le provoca convulsioni e le dà la sensazione di morire per poi rinascere, è una condanna che si porta appresso, per il resto è una donna, anzi una fanciulla di soli 16 anni, di grande lucidità che sa vedere, sa capire e sa anche provvedere. Una vicenda che può sembrare anche banale, una protagonista che potrebbe essere il ritratto di una donna qualunque nelle mani di Simona Lo Iacono assumono un crescente spessore, sono quasi un grido di libertà, libertà in un mondo così chiuso da far pensare che i pazzi siano quelli che lo abitano e non invece Lucia, la cui saggezza e la cui indipendenza quasi autarchica non possono non restare in ombra, e se poi aggiungiamo le crisi epilettiche va quasi da sé che per lei l’avvenire non sia che fra le quattro mura di una cella del manicomio.  Se il personaggio di Lucia Salvo resterà indimenticabile nel lettore ciò sarà anche in forza delle comparse che l’autore ha saputo metterle sapientemente intorno: i conti Ramacca, con il padre, uomo di una doppiezza incredibile, e il figlio, dall’inappagabile appetito sessuale alle cui attenzioni Lucia reagirà con un morso, i nobili Agliata, con il padre bigotto e la giovane figlia che cerca invano un matrimonio di suo gradimento, il castrato signorino alla ricerca di un’identità nuova che gli consenta di vivere quasi come gli altri nonostante la perduta virilità e il nano Minnalò, factotum della famiglia Ramacca, in particolare del conte figlio, tutte figure che sono emblemi di ruoli ben precisi in una società ammuffita e decadente.

Lucia Salvo a suo modo fu un’eroina nei moti del 1848, ma, grazie alla penna di Simona Lo Iacono, diventa il simbolo di un mondo nuovo, un tenue chiarore che annuncia l’alba in una notte buia e senza luna.   
Da leggere, indubbiamente.

Simona Lo Iacono
 è nata a Siracusa nel 1970, è magistrato e presta servizio presso il tribunale di Catania. Nel 2016 ha pubblicato il romanzo Le streghe di Lenzavacche (Edizioni E/O), selezionato tra i dodici finalisti del Premio Strega.
Renzo Montagnoli

 

16 Novembre

Lo scrivano

di Fiorella Borin

Montedit Editrice

www.montedit.it

Narrativa racconto storico

Collana Le schegge d’oro 

La gelosia

Fiorella Borin è un’eccellente narratrice specializzata in romanzi storici, di frequente ambientati a Venezia, sua città natale; è altrettanto brava nel misurarsi in prose più brevi, i cosiddetti racconti, forma tecnica che in verità da noi non appare di particolare gradimento ed è un errore, perché quando sono scritti avendo ben presente le particolarità del romanzo (una trama che così come inizia finisce) sono altrettanto validi. Al riguardo, Lo scrivano nulla ha da invidiare di opere più corpose, perché la vicenda è presente nella sua interezza ed è narrata con uno stile di raffinata eleganza, così che la lettura, oltre che facile, risulta particolarmente piacevole. La storia di Pietro Bontremolo, questo scrivano degli inizi del XVI secolo, ricco in una Venezia che è ancora nello splendore della sua potenza, è una di quelle che si snoda e si sviluppa quasi come un giallo, con quest’uomo, sposato per motivi d’interesse con una donna che non ama, e che occasionalmente ha modo di conoscere una suora, di cui si innamora follemente, peraltro ricambiato. Ma le passioni umane hanno anche nel piatto della bilancia un peso contrapposto che, in questo caso, è la gelosia, una serpe che si alleva in seno e che tramuta una passione d’amore in una lucida follia. Non intendo aggiungere altro per non togliere il giusto piacere della lettura, ma desidero richiamare l’attenzione sulla stupenda descrizione dell’ambiente, sull’atmosfera, sulla psicologia dei personaggi in un racconto in cui vengono perfettamente mescolati il genere storico, quello giallo e anche il fantasy. Sullo stile ho già detto, ma ripetersi a volte è necessario: Fiorella Borin sussurra le sue storie, non le grida, sempre distaccata dai suoi personaggi sa tuttavia far intuire la sua presenza dietro di essi quando ciò non solo è necessario, ma aggiunge valore all’opera.

Mi pare perfino superfluo aggiungere che Lo scrivano è un gran bel racconto.

Fiorella Borin, nata a Venezia nel 1955, è laureata in psicologia. Per onorare la memoria del padre, reduce dalla Russia, ha scritto molti racconti sulla Seconda Guerra mondiale. Con Alberto Perdisa Editore ha pubblicato nel 2003 La Signora del Tempio nascosto. Con Tabula Fati ha pubblicato Il bosco dell’unicorno, il pittore merdazzèr, La strega e il robivecchi, La firma del diavolo e Christe eleison. Ha scritto, per le Edizioni Solfabnelli, Il pellegrino spagnolo, Le voci mute. Nove storie veneziane. Con Edizioni della Sera ha pubblicato I giorni dello sgomento.
Renzo Montagnoli

 

14 Novembre

Caro revisionista ti scrivo...

di Gianni Rocca

Editori Riuniti

Saggistica storica

 

A chi ribalta la storia

E’ come una malattia subdola, che dapprima manifesta scarsi sintomi, ma che poi prende forza ogni giorno che passa. Di che si tratta? Di un fenomeno che nel presente secolo intende dare un’interpretazione della storia del tutto  distorta, di quel revisionismo che piace tanto a certe destre sicuramente illiberali e che, per esempio, si picca di definire la Resistenza un fatto del tutto trascurabile, una vera e propria invenzione dei comunisti. Ma la vulgata di nostalgici del fascismo non finisce qui e pretende di giustificare la nascita a suo tempo di questo movimento e di quello nazista come argine interposto fra la civiltà occidentale e il bolscevismo, così come giustifica il pronunciamento del generale Franco al fine di evitare l’incombente pericolo rosso. Insomma, la dittatura dei Soviet e il suo massimo rappresentante Giuseppe Stalin finiscono con il diventare la scusa per tutta una serie di fatti ed episodi dello scorso secolo, compresa quella tragedia che fu la seconda guerra mondiale. Sono trascorsi settantadue anni dal 25 aprile 1945 e appare logico che alcuni eventi, analizzati quando ancora esistevano emozioni recenti, possono e devono essere rivisti alla luce di criteri più distaccati, ma ciò non toglie che non possono essere completamente capovolti, come vorrebbero i revisionisti,  gente che se in buona fede deve essere considerata superficiale e tutto sommato incapace di analisi coerenti, se in mala fede invece intenzionalmente bugiarda. Sicuro e certo è che la storia è sempre frutto di opinioni, che nel tempo possono essere riviste, ma riviste non vuol dire capovolte trasformando le vittime in carnefici, come pretenderebbero certi pseudo storici di estrema destra a proposito di eccidi compiuti dai partigiani, che senz’altro ci furono, per motivi spesso abietti, ma che non furono una decisione corale, bensì il frutto della violenza di pochi, al di fuori di una linea di condotta che sempre vide la ricerca, ove possibile, della giustizia, il che non impedì tuttavia, in un contesto di reciproche violenze e timori, l’uccisione sbrigativa di taluni elementi sospettati spie dei fascisti o dei tedeschi. Questi revisionisti si guarderanno sempre dallo spiegare i motivi per i quali la popolazione, nella sua stragrande maggioranza, appoggiava i partigiani e al riguardo le testimonianze di ex camicie nere sono illuminanti: “Ci odiavano più dei tedeschi, perché eravamo con i tedeschi, perché quando si facevano i rastrellamenti i primi a subire la nostra presenza erano i contadini, i montanari, trattati non come italiani, ma come bestie.”. E anche la canzoncina che ogni tanto ritorna in ordine alle rappresaglie dei nazisti e dei fascisti, che recita quasi un motto (Se non ci fosse stati attentati dei partigiani, non ci sarebbero state rappresaglie) è una bugia bella e buona, inventata a posteriori per giustificare atti di cui gli esecutori ben sapevano la portata criminosa. Infatti, prima ancora che in Italia apparissero i partigiani, al Sud le truppe naziste compirono mostruosi eccidi della popolazione Del resto, in tutta l’Europa occupata, i massacri avvennero ben prima che sorgessero movimenti popolari di reazione. 

Qualcuno potrebbe obiettare sulla imparzialità di Gianni Rocca, le cui idee marxiste lo portarono a iscriversi al PCI, da cui uscì, per protesta, all’indomani dei fatti di Ungheria. Questa è una preoccupazione infondata, perché l’autore, nell’analisi dei comportamenti di quel dittatore criminale che fu Stalin provvede sì a giustificarne alcuni, ma mai tralasciando la sua opinione altamente negativa di colui che fu uno dei massimi protagonisti del secolo scorso, che ebbe anche alcuni meriti, poca cosa rispetto ai misfatti compiuti.

Insomma questo è un libro che merita di essere letto, soprattutto dai revisionisti in buona fede, perché smonta in modo inequivocabile le loro argomentazioni; dubito, però, che potrebbe far cambiare la loro idea, perché sono impregnati di quel fanatismo che non vacilla mai, nemmeno di fronte a quella che può essere considerata dalla logica come la verità. 

Gianni Rocca (Torino22 ottobre 1927 – Roma20 febbraio 2006) è stato un  giornalista italiano, fra i fondatori del quotidiano La Repubblica. A partire dagli anni ottanta si è dedicato anche a scrivere opere di riflessione storica che hanno avuto grande successo. Al riguardo, fra le più note, si ricordano Cadorna, il generalissimo di Caporetto;  Fucilate gli ammiragli. La tragedia della Marina italiana nella seconda guerra mondiale; L’Italia invasa: 1943 – 1945; Stalin: quel “meraviglioso georgiano”; Caro revisionista, ti scrivo….
Renzo Montagnoli

 

11 Novembre

Il Presidente

di Georges Simenon

Traduzione di Luciana Cisbani

Edizioni Adelphi

www.adelphi.it

Narrativa romanzo

Collana Biblioteca Adelphi

 

In attesa dell’ultimo tramonto

Un vecchio politico, che è stato più volte Presidente del Consiglio della Repubblica francese e che per la sua abilità ed esperienza è considerato un mostro sacro, vive l’ultimo periodo della vita nella sua villa in Normandia, attorniato da un’infermiera, da una segretaria, da un’autista e dal personale di servizio. E’ un uomo fondamentalmente solo che è rinchiuso nell’armatura del suo potere che, adesso che sembra fuori dei giochi, risiede in certe notizie compromettenti per altre personalità che abilmente nasconde fra i libri della sua biblioteca e che qualcuno, o anche più di qualcuno, sta cercando. Inoltre è intento a scrivere memorie non ufficiali (quelle ufficiali sono già state date alle stampe da tempo) della sua vita e della sua attività di politico e vi è il fondato motivo di ritenere che potrebbero dare luogo a rivelazioni del tutto inattese e sorprendenti. Quest’uomo, che si può dire abbia fatto la storia, è ormai un monumento, un simbolo vivente della repubblica francese e come tale, almeno fino a quando è in vita, deve avere le attenzioni che si merita. L’analisi psicologica di Simenon, sempre molto attenta, in questo caso è superlativa, perché la figura di questo vecchio malato, che ha la tentazione di mandare a monte l’incarico presidenziale ricevuto da un suo ex collaboratore, riflette infallibilmente certe cariatidi politiche anche di nostra conoscenza, permeate da quell’illusione che a loro il potere non verrà mai meno, combattute fra il desiderio di pesare ancora sui destini di un paese e i malanni dell’età che vanno progressivamente accentuandosi. Però l’attenzione per l’introspezione spinta non riguarda solo il protagonista, ma tutti i personaggi che gli ruotano intorno, compreso anche quelli che non ci è dato di vedere, ma che veniamo a conoscere in base alla descrizione del soggetto principale, di quest’uomo che, nella valutazione dei pro e contro della sua vita, nella convinzione che prende sempre più piede secondo la quale è stato non un soggetto, ma un oggetto della storia,  si trova di fronte a una decisione suprema. Da essere intelligente quale è comprenderà di aver ormai fatto il suo tempo e che ora ciò che conta prima di quel gran salto nel buio è di estraniarsi dalle lotte di un mondo di cui non è più parte e di attendere serenamente l’ultimo tramonto

Il Presidente, oltre a essere un capolavoro, è uno dei più bei romanzi di Simenon.

Georges Simenon, nato a Liegi nel 1903, morto a Losanna nel 1989, ha lasciato centonovantatre romanzi pubblicati sotto il suo nome e un numero imprecisato di romanzi e racconti pubblicati sotto pseudonimi, oltre a volumi di «dettature» e memorie. Il commissario Maigret è protagonista di 75 romanzi e 28 racconti, tutti pubblicati fra il 1931 e il 1972. Celebre in tutto il mondo, innanzitutto per le storie di Maigret, Simenon è anche, paradossalmente, un caso di «scrittore per scrittori». Da Henry Miller a Jean Pauhlan, da Faulkner a Cocteau, molti e disparati sono infatti gli autori che hanno riconosciuto in lui un maestro. Tra questi, André Gide: «Considero Simenon un grande romanziere, forse il più grande e il più autentico che la letteratura francese abbia oggi»; Walter Benjamin: «… leggo ogni nuovo romanzo di Simenon»; Louis-Ferdinand Céline: «Ci sono scrittori che ammiro moltissimo: il Simenon dei Pitard, per esempio, bisognerebbe parlarne tutti i giorni».
Renzo Montagnoli

 

8 Novembre

L’uva puttanella. Contadini del Sud

di Rocco Scotellaro

Introduzione di Nicola Tranfaglia

Prefazione di Antonio Melfi

Editori Laterza

Narrativa romanzo

Un amore infinito

E’ ben strana la vita: come un narratore del calibro di Tomasi di Lampedusa fu portato a conoscenza dei lettori dall’opera di un altro grande autore, Giorgio Bassani, anche nel caso di Rocco Scotellaro, se non vi fosse stato l’interessamento di un grande artista, Carlo Levi, non avremmo mai potuto apprezzare le sue stupende poesie. Peraltro, quest’uomo, la cui vita fu intensa, ma eccezionalmente breve, essendo nato a Tricarico nel 1923 per poi morire a Portici nel 1953, si rivelò anche un eccellente narratore, con uno stile tutto suo personale, ma di grande efficacia. Così, grazie a Carlo Levi, dopo la scomparsa improvvisa di Scotellaro, fu possibile dare alle stampe L’uva puttanella, un romanzo autobiografico, nonché Contadini del Sud, uno studio sociologico sulla cultura dei contadini meridionali. Entrambe le opere sono proposte  da Laterza riunite in un unico volume.

L’uva puttanella è quell’uva dagli acini piccoli costretti, per sopravvivere, a lottare con quelli più grossi, una metafora della condizione di chi lavora la terra in Meridione. Scritto in modo semplice, oserei dire perfino elementare, ricalca un po’ il parlato di quelle genti, con toni colloquiali che non appesantiscono, ma snelliscono il discorso. Ciò che emerge in tutta la sua forza è la grande insoddisfazione dei meridionali che si manifesta in uno spirito di ribellione, più che in una ribellione vera e propria, con uno stato talmente lontano da sembrare – ma in effetti lo è – assente. Non poche sono le pagine dedicate all’esperienza di carcerato dell’autore, richiuso in cella per motivi esclusivamente politici quando era sindaco di Tricarico e poi assolto in appello per non aver commesso il fatto. I compagni di galera, fatta eccezione per i delinquenti incalliti, che nascerebbero a qualsiasi latitudine, è costituita da sfiduciati verso uno stato che tutto toglie senza nulla dare e i reati sono di poco conto, sono infrazioni a norme di quell’autorità così lontana, come il contrabbando. Ci sono tanti personaggi che restano nel cuore, come Pasquale, l’artigiano pirotecnico, che ridotto in miseria e privato della casa si fa esplodere, o Zia Filomena, la baldracca del paese, un tempo, da giovane, bella, ma ora sfatta, o i braccianti, che hanno occupato la terra dei padroni e sono stati sbattuti in carcere, dove lentamente si consumano. E’ un Italia che si vorrebbe fosse diversa, un paese aperto al progresso e alla giustizia, ma purtroppo non è così e Rocco Scotellaro, innamorato della sua terra, strenuo difensore dei poveri contadini, ci fornisce un quadro che nella sostanza è così anche oggi.

Contadini del Sud è uno studio sociologico di rilevante valore che si estrinseca per lo più nelle interviste ad alcuni contadini, da cui apprendiamo la storia delle loro vite che hanno, come comune denominatore, la sfiducia nei confronti di uno stato o assente, o che pretende solo senza nulla dare. E’ gente umile, ma dignitosa, che parla senza levare un grido di dolore, ma di cui si avverte un senso di disagio per una situazione di cui non hanno colpa, perché l’essere poveri non può né deve costituire una colpa. E per finire un testo di struggente bellezza, scritto da Francesca Armento vedova Scotellaro, la madre di Rocco, che in poche misurate pagine, senza enfasi, senza pianti, racconta la vita del figlio fino a quel giorno del dicembre del 1953 della sua morte improvvisa. Si sa, le mamme sono sempre le mamme, e stravedono per i figli, ma in questa donna, che per tanti anni aveva fatto la levatrice, il ricordo dell’esistenza del figlio è solo l’occasione per imprimere nella mente una serie di immagini, per renderne partecipi gli altri, ma senza imposizioni, con un pudore a cui solo il riacutizzarsi di un’antica sofferenza per quella perdita può consentire di esprimersi liberamente, ma sempre con moderazione.

Da leggere, ci mancherebbe altro.

Rocco Scotellaro (Tricarico, Matera, 1923 - Portici, Napoli, 1953) scrittore italiano. Dalla sua sofferta esperienza di militante socialista, impegnato a riscattare, anche con l’azione politica, la secolare degradazione del sottoproletariato rurale della Lucania, Scotellaro ricavò gli elementi costitutivi di un messaggio poetico (È fatto giorno, 1954, premio Viareggio; Margherite e rosolacci, 1941-1953, 1978) che esprime una genuina assimilazione dei moduli neorealistici, evidenziati nel saggio-inchiesta sui Contadini del sud (1954) e nell’abbozzo di romanzo L’uva puttanella (1955). Le opere, pubblicate postume, hanno generato contrastanti giudizi sul suo ruolo di attivista politico, di intellettuale contestatore e di suggestivo cantore di miti ancestrali della cultura contadina.
Renzo Montagnoli

 

5 Novembre

Butcher’s Crossing

di John Williams

Traduzione di Stefano Tummolini

Fazi Editore

www.fazieditore.it

Narrativa romanzo

C’era una volta il West

John Williams ha la straordinaria capacità di stupire il lettore, con una prosa, tanto dissimile nel suo sviluppo, quanto uguale nei suoi intenti; in ogni suo romanzo parla dell’essere umano, nella sua naturale incompletezza e nel senso che cerca di dare alla sua esistenza. Che sia l’anonimo insegnante Stoner, o l’uomo più potente del mondo, l’imperatore Augusto, in ogni caso ci troviamo di fronte a esseri che vengono dall’oscurità per brillare nella migliore delle ipotesi per qualche istante e che infine ritornano nell’oscurità. Tutto è fatuo, nulla è durevole, la caducità ci è propria e possiamo solo vivere di sogni che il più delle volte finiscono con il trasformarsi in incubi, come accade a Schneider, a  Miller, a Hoge, a McDonald, quattro dei personaggi di Butcher’s Crossing, spalle del protagonista Will Andrews, un giovane di buona famiglia, che lascia l’università e che si spinge all’ovest alla ricerca del suo destino. Approderà a Butcher’s Crossing, questo misero villaggio polveroso, e parteciperà al  sogno collettivo di abbattere una mandria gigantesca di bisonti. Partono in quattro (Schneider, Miller, Hoge e Andrews) e tornano in tre, dopo che il loro sogno si è trasformato in incubo per ritrovarsi di nuovo in quella fogna di paese, sconfitti tutti, anche McDonald, tranne Andrews che considera l’esperienza una tappa del suo continuo pellegrinaggio. Il mercato delle pelli di bisonte è crollato, la ferrovia che doveva passare per il villaggio transiterà a una cinquantina di chilometri dallo stesso, tutto appare finito e superato, in una luce crepuscolare che incornicia gli ultimi giorni di un’epoca e di un’epopea. C’era una volta il West, terre libere, selvagge, battute dal vento e dal sole, calpestate da mandrie di bisonti e dagli stivali di uomini pronti a giocarsi tutto per alimentare un sogno, c’era, ma tutto sta cambiando e così anche quel mondo, che più non ritornerà.

Romanzo caratterizzato da una vena malinconica e pessimista, Butcher’s Crossing si chiude in modo enigmatico, con il giovane Andrews che riprende il suo cammino, senza sapere dove andrà, anche se in cuor suo sa che sta procedendo alla ricerca di se stesso. Opera dai ritmi lenti, anche dove forse dovrebbero essere accelerati, come nel caso della carica dei bisonti, si fa apprezzare anche per la grande abilità con cui l’autore è riuscito a ricreare l’ambiente e l’atmosfera, al punto che le pagine poco a poco si fanno immagini in movimento, tanto che si ha netta la sensazione di essere presenti nella valle solitaria dei bisonti, sotto la neve che cade impietosa, fra quegli uomini che invano cercano di dare un senso alla loro vita, alle spalle di Miller che implacabile con il suo fucile stende i grossi mammiferi, in preda a un’ansia corrosiva che lo fa assomigliare al capitano Achab di Moby Dick. Ma forse è inutile cercare di dare un senso alla nostra vita, perché tutto è già stato scritto nel libro del destino, anche che quegli uomini sono le ombre ormai di un mondo che scompare.

Imperdibile.

John Williams (Clarksville, 1922 – Fayetteville, 1994)
Romanziere, poeta e accademico statunitense, dopo la Seconda guerra mondiale, alla quale prende parte in qualità di sergente dell’aeronautica in India e in Birmania, studia all’Università di Denver. In questo perdio pubblica i suoi primi lavori: il romanzo Nothing But the Night (1948) e il libro di poesie The Broken Landscape (1949), che sarà seguito nel 1965 da una seconda raccolta: The Necessary Lie. Nel 1954 ottiene il dottorato di ricerca in letteratura inglese all’Università del Missouri e, nel 1955, torna all’Università di Denver come docente di scrittura creativa. Nel 1960 pubblica il suo secondo romanzo Butcher’s Crossing, seguito nel 1965 dal celebrato Stoner. ha curato le antologie English Renaissance Poetry (1963). Ha fondato e diretto fino al 1970 la rivista «University of Denver Quarterly». Muore nel 1994, lasciando incompiuto il suo quinto romanzo, The Sleep of Reason.
Renzo Montagnoli

 

2 Novembre

Il viaggiatore del giorno dei Morti

di Georges Simenon

Traduzione di Laura Frausin Guarino

Edizioni Adelphi

www.adelphi.it

Narrativa romanzo

Collana Biblioteca Adelphi 

L’oppressione della borghesia

L’orfano sbarca a La Rochelle all’imbrunire e inizia la sua vicenda venendo a conoscenza di essere l’unico erede di una colossale fortuna lasciatagli dallo zio, fratello di suo padre. Per uno che di certo non se la passa bene dovrebbe essere un tripudio di gioia, ma non è così, perché certe ricchezze sono frutto di insulsi ricatti, sono il termometro di una società malata in cui un’agiata borghesia ha dei conti in sospeso, e non si tratta di bazzecole. Lo zio era temuto e odiato e il nipote, per la sua qualità di erede, è pure malvisto in un mondo dalle posizioni cristallizzate, pressoché inamovibili, tanto più che, se all’apparenza potrebbe essere considerato un ingenuo, è tutt’altro, perché vuol sapere, vuol conoscere, soprattutto, come tanti, è interessato al contenuto di una cassaforte di cui ha la chiave, ma non la combinazione. Chi vorrebbe consigliarlo non è per niente un amico, bensì si tratta di persone in rapporti d’affari con lo zio, da cui erano autenticamente vessati. Il giovane, che di nome fa Gilles Mauvoisin, nel mentre cerca di penetrare i segreti del parente deceduto, amministra con rigore e anche con capacità il notevole patrimonio, quasi esclusivamente costituito da partecipazioni in lucrose iniziative. La vena gialla del romanzo affiora però quando dapprima muore avvelenata la moglie paralitica di un medico che è l’amante di Colette, moglie dello zio deceduto e relegata dal marito a semplice comparsa quando questi si accorge della tresca, e più tardi quando si scopre che anche lo zio Octave Mauvoisin era morto non per cause naturali, bensì per l’ingestione di arsenico. A complicare il tutto subentra un’altra questione e cioè che il giovane Gilles, benché sposato con Alice, si innamora della zia Colette, giovane, più carina che bella e che assomiglia, come tipo, alla defunta nonna paterna.  Gli sviluppi dei casi sono in rapida evoluzione, ma non aggiungo altro, perché altrimenti tolgo quel po’ di mistero che caratterizza il romanzo, limitandomi a dire che alla fine sarà uno di quei pochi casi in cui si potrà dire, per tutte le parti coinvolte, che vissero felici e contenti. In un certo qual modo Simenon pare sottendere che la malvagità è stata giustamente punita, ma che le colpe primigenie di questa classe arricchita non sono state purgate, sono state semplicemente auto perdonate. Il mondo chiuso della cittadina di La Rochelle che, con l’arrivo del giovane Gilles e la sua ricerca della verità, era entrato in ebollizione si assopisce nuovamente, ognuno prigioniero del suo ruolo in cui l’apparenza prevale sulla sostanza.  Non sarà così per Gilles e Colette perché in fondo hanno voluto e saputo affrontare l’ostracismo di un ambiente chiuso e che proprio per questo se ne andranno liberi per il mondo.

Il viaggiatore del giorno dei Morti è un altro stupendo romanzo di Georges Simenon.

Georges Simenon, nato a Liegi nel 1903, morto a Losanna nel 1989, ha lasciato centonovantatre romanzi pubblicati sotto il suo nome e un numero imprecisato di romanzi e racconti pubblicati sotto pseudonimi, oltre a volumi di «dettature» e memorie. Il commissario Maigret è protagonista di 75 romanzi e 28 racconti, tutti pubblicati fra il 1931 e il 1972. Celebre in tutto il mondo, innanzitutto per le storie di Maigret, Simenon è anche, paradossalmente, un caso di «scrittore per scrittori». Da Henry Miller a Jean Pauhlan, da Faulkner a Cocteau, molti e disparati sono infatti gli autori che hanno riconosciuto in lui un maestro. Tra questi, André Gide: «Considero Simenon un grande romanziere, forse il più grande e il più autentico che la letteratura francese abbia oggi»; Walter Benjamin: «… leggo ogni nuovo romanzo di Simenon»; Louis-Ferdinand Céline: «Ci sono scrittori che ammiro moltissimo: il Simenon dei Pitard, per esempio, bisognerebbe parlarne tutti i giorni».
Renzo Montagnoli

 

29 Ottobre

Caporetto: una battaglia e un enigma

di Mario Silvestri

B.U.R. Biblioteca Universale Rizzoli

Storia

Caporetto e Caporettismo

Considerato che Mario Silvestri non è uno storico di professione questo suo libro (Caporetto: una battaglia e un enigma) assume maggior valore, perché l’autore vi ha profuso la passione dell’autodidatta, ma restando vincolato, giustamente, alle ferree regole alla base di ogni ricerca che, andando a ritroso, cerca di avvicinarsi il più possibile alla verità. Di questa disfatta, di cui tanti hanno scritto e che nei testi scolastici viene presentata come un dramma senza precedenti nella storia italiana, Silvestri ci fornisce un resoconto a volte fin troppo capillare, quasi ora per ora di quelle tragiche giornate che videro un grande esercito in un’iniziale disordinata ritirata. Peraltro, non mancano le premesse, ciò che prima avvenne, in funzione soprattutto di cercare di comprendere i motivi per i quali un attacco congiunto dei tedeschi e degli austriaci, che avrebbe dovuto avere soprattutto funzioni di alleggerimento della nostra pressione sul fronte orientale, per poco non finì per trasformarsi in una vittoria del tutto insperata. Incapacità del comandante in capo, cioè di Cadorna? Pochezza dei comandanti divisionali? Stanchezza e sfiducia delle nostre truppe? Non è improbabile che concorsero insieme queste circostanze, ma ciò che stupisce in tutta la vicenda è che lo stesso soldato sconfitto, ribelle alla disciplina, logorato dalla guerra, a ritirata ultimata dietro la sponda del Piave e sul massiccio del Grappa si trasformò, come per incanto, in  un milite deciso, disposto anche al supremo sacrificio pur di difendere la propria patria. A essere sinceri al brillante arresto dell’offensiva austro-tedesca contribuì non poco anche una diversa metodologia tattica imposta più dalle circostanze che non da una tradizione, e cioè la possibilità di scelte autonome sul campo, svincolate quindi dalle lungaggini degli ordini, che partendo dal comando centrale raggiungevano dopo non poche ore le unità combattenti. I nostri, pressati, si ritiravano, ma poi, appena possibile, andavano al contrattacco, praticando così quella difesa elastica dei tedeschi che aveva vanificato tanti attacchi dei nostri alleati sul fronte occidentale. Ma Silvestri non si limita a discutere solo di Caporetto, perché giunge a formulare l’ipotesi che quella nostra disastrosa disfatta sia sintomo di un male che ci affligge da prima e anche dopo di allora. Secondo l’autore l’Italia caporetta è, innanzi tutto, l’Italia priva del senso delle proporzioni, con la carenza dei relativi freni inibitori che prepara il terreno alle Caporetto storiche e cita alcuni esempi. La sconfitta di Adua fu una Caporetto antedatata, frutto di una politica inseguitrice di obbiettivi contraddittori e se ad Adua avessimo vinto la situazione sarebbe rimasta la stessa, cioè l’Italia sarebbe restata quel che era, un paese depresso in corso di lentissimo progresso industriale. Caporettissimo fu Benito Mussolini, perché, pur predicando per tanto tempo la violenza internazionale e pur perseguendo una politica estera aggressiva, trascurò le forze armate, ridotte a poca cosa, quando invece la politica di potenza adottata richiedeva il contrario.  Non mancano strali anche per i controsensi dell’Italia attuale, per quelle spese folli e ingiustificate  di cui prima o poi si dovrà render conto, probabilmente quando il paese sarà oggetto di una Caporetto finanziaria ed economica. Può darsi che Silvestri abbia ragione, ma io non sono del tutto d’accordo. Certo, la nostra politica è tutto e il contrario di tutto, però la tragedia di Caporetto secondo me fu provocata da un comandante in capo che aveva tenuto troppo sulla corda i suoi uomini, considerati alla stregua di carne da macello, da un’impreparazione di un esercito alla difesa , essendo stato impegnato sempre prima in manovre offensive, dalla stanchezza e dal disagio morale di truppe troppo impegnate, da comandanti divisionali per lo più burocrati e privi di fantasia, e anche da alcune circostanze sfortunate, che sono sempre presenti in qualsiasi evento. Il motivo poi per cui questa massa di sbandati e sfiduciati, una volta arroccati sulla sponda sinistra del Piave e sul Grappa, ha combattuto con la massima determinazione, come anche riscontrato dal nemico, sta anche e forse soprattutto nel fatto che ora non si trattava più di conquistare territori, ma di difendere la propria casa; inoltre fra individui che avevano sperimentato un’angosciosa ritirata si era venuto a cementare uno spirito di comunione che per la prima volta li aveva fatti sentire fratelli, figli di quella stessa madre che ora difendevano con unghie e con denti.

Da leggere, perché è un libro molto interessante.

Mario Silvestri (1919-1994) fu professore al Politecnico di Milano e titolare della cattedra di impianti nucleari. Appassionato di storia e grande divulgatore, tra le sue opere ricordiamo CaporettoLa decadenza dell’Europa occidentale e Isonzo 1917, tutte disponibili in BUR.
Renzo Montagnoli

 

27 Ottobre

Le cose

di Vito Moretti

Edizioni Tabula Fati

www.edizionitabulafati.it

Poesia
 

Il linguaggio delle cose

Di Vito Moretti ho avuto occasione di leggere La polvere sul cucù, una raccolta di racconti sulla grandezza degli umili e Luoghi, una silloge poetica frutto di impressioni di viaggio. In entrambi i casi mi sono trovato di fronte a opere di gradevole lettura, per niente superficiali, ma che, senza approfondimenti eccessivi, tuttavia lasciano qualcosa dentro di sé, un incisione lieve, ma senz’altro duratura. Indubbiamente l’autore ha un talento innato, impreziosito dagli anni di studi e probabilmente anche dalle esperienze maturate in qualità di docente universitario.

Le cose, altra raccolta poetica, parte da un presupposto imprescindibile e di cui spesso nemmeno ci accorgiamo: gli oggetti, per loro natura inanimati, arrivano a un momento che diventano cose, cioè ricordando fatti ed eventi del nostro trascorso finiscono con l’essere parte inscindibile dall’esistenza stessa. Gli oggetti sono amorfi, si considerano per la loro funzione, ma nel momento in cui, invecchiando con noi, sono capaci di suscitarci la memoria acquistano come un’anima, diventando appunto cose. La penna con la quale si è scritta la prima lettera d’amore, il divano sul quale ci si  scambiate le prime affettuosità, lo scalcinato ombrello con il quale, stretti stretti, ci si è riparati dalla pioggia e via dicendo, diventano parte di noi stessi, ricordano e rievocano, sono testimoni della nostra esistenza (Ogni cosa, tutto / mi pare perfetto, / il nespolo che resiste / al gelo, la collina / che cala nel suo buio, / il fuoco che arde per me / e per il cane, la via / che si è fatta deserta./ Anche il vetro è uno spolvero / d’umido che lascia lontane / le ore, e la casa é / la memoria che vi abita / le pietre di una torre / cresciuta fino al cielo.).

Le cose hanno un linguaggio pertanto, un linguaggio per ognuno di noi, per le sensazioni che ci fanno rivivere, per le emozioni che ci fanno riprovare (Tutto ha il suo richiamo, / un modo di ripetersi / nella cavità della conchiglia, / un brusio che parla di intrecci / e di comete. /….).

Un po’ in dialetto, un po’ in italiano si esprimono le cose, parole, versi che Moretti traspone sulla carta lasciando trasparire l’emozione che prova, la sensazione che il passato riesca a dare un senso al presente e anche al futuro.

Da leggere, senz’altro. 

Vito Moretti vive tra San Vito Chetino, dove è nato, e Chieti, dove risiede; è docente universitario, scrittore e poeta in lingua e in dialetto. Ha esordito meno che ventenne e ha tenuto incontri culturali e letture di poesie in Russia, in Francia, in Irlanda, in Turchia, negli Stati Uniti e in altre località, sia in Europa che in Italia.
     Dopo alcune “plaquettes” (riproposte nel vol. Una terra e l’altra. Ristampe e inediti. 1968-1979, a cura di Massimo Pamio, Pescara, Tracce, 1995), ha pubblicato N’andìca degnetà de fije (ediz. premio, Catanzaro, 1984), La vulundà e li jurne (Roma, Ediz. dell’Ateneo, 1986), Temporalità e altre congetture (Bologna, Cappelli, 1988), Déndre a na storie (Firenze, Editoriale Sette, 1988), Il finito presente(Roma, All’Insegna de «L’Occhiale», 1989), Le prerogative anteriori (Udine, Campanotto, 1992), Da parola a parola(Bari, Laterza, 1994), ’Nanze a la sorte (Venezia, Marsilio, 1999), Di ogni cosa detta (Pescara, Tracce, 2007), L’altrove dei sensi (Lanciano, Carabba, 2007), Con le mani di ieri (ivi, 2009), Luoghi (Chieti, Tabula fati, 2011), La case che nen ze chiude (ivi, 2013) e Dal portico dell’angelo (Pescara, Tracce, 2014). 
     Ha pubblicato anche due vol. di narrativa: Nel cerchio della tartaruga. Prose, incontri e qualche storia (Chieti, Métis, 1996) e La polvere sul cucù (Chieti, Tabula fati, 2012). 
     I suoi interventi teorici compaiono in V. Moretti, Le ragioni di una scrittura. Dialoghi sul dialetto e sulla poesia contemporanea (a cura di Enrico Di Carlo, Pescara, D’Incecco, 1989). 
     Nel campo della saggistica, Moretti ha pubblicato numerosi studi sulla cultura dal Settecento al Novecento, con particolare riguardo alle aree del verismo e del decadentismo e a Gabriele d’Annunzio, di cui ha reso noto carteggi e scritti inediti; ha promosso numerosi convegni e seminari sulla letteratura abruzzese e nazionale, con la stampa dei relativi Atti, e ha curato l’edizione critica o la riproposta in volume di opere di vari autori. 
     Moretti, infine, è responsabile di alcune collane editoriali, sia per la scrittura saggistica che per quella creativa. Per la sua attività di poeta ha ricevuto prestigiosi riconoscimenti (fra cui l’«Acciaiuoli», il «Versilia-Marina di Carrara», il «Tagliacozzo», il «Bari-Magna Graecia», il «Premio Alghero», il «Pisa-Calamaio di Neri», il «Montesilvano», il «Pescara», lo «Scanno») e lavori monografici redatti da Massimo Pamio (Il filo lungo della parola. Contributi per una lettura di Vito Moretti, Chieti, Vecchio Faggio, 1991), da Vittoriano Esposito (Segni di scrittura. Aspetti e temi della poesia di Vito Moretti, Roma, Bulzoni, 1994), da Dante Cerilli (L’enigma e la forma. Introduzione alla poesia di Vito Moretti, Bari, Laterza, 1995), da Toni Iermano (Nelle più care dispute. Vito Moretti e i suoi trent’anni con la poesia, Roma, Bulzoni, 1998).
     La sua bibliografia completa compare in Studi offerti a Vito Moretti, a cura di Gianni Oliva, Lanciano, Carabba, 2012, pp. 269-293
Renzo Montagnoli

 

12 Ottobre

Il sigillo di Enrico IV

di Tiziana Silvestrin

Scrittura & Scritture Edizioni

www.scritturascritture.it

Narrativa giallo storico

 

Finti riti satanici

Era da un po’ di tempo che avvertivo la mancanza di Biagio dell’Orso, il capitano di giustizia dei Gonzaga protagonista dei primi tre libri (I leoni d’Europa, Le righe nere della vendetta e Un sicario alla corte dei Gonzaga) usciti dalla felice penna di Tiziana Silvestrin e, se devo essere sincero, ho cercato di spiegarmi più volte perché questo personaggio mi attragga così tanto. In fin dei conti è un uomo come tutti gli altri, né pavido, né eroe, uno che svolge con coscienza e con passione il suo lavoro, insomma, per non pochi aspetti, quasi un anonimo investigatore del XVI secolo. E forse è proprio questa normalità che me lo rende simpatico, che mi consente alcune volte nel corso della lettura di identificarmi con lui, soprattutto quando si prende a cuore i poveri diavoli, le vittime di tante ingiustizie. E così dopo ben più di un anno sabbatico (il volume precedente è stato edito nel 2014) ecco bussare alle porte degli appassionati di thriller storici Il sigillo di Enrico IV, come sempre pubblicato per i tipi della Scrittura & Scritture, una piccola casa editrice napoletana che si fa apprezzare di certo più per la qualità che per la quantità della sua produzione.

E’ una storia in apparenza venata di stregoneria, di riti satanici, di lotte fra i fedeli servitori della religione cristiana e gli anticristo, ma appunto è solo apparenza, è il “fumus” che cela trame e interessi ben più terreni che vengono alla luce poco a poco non appena si dissolvono i vapori di zolfo. Certo l’idea che possano esistere maghi fa un po’ sorridere noi smaliziati lettori del XXI secolo, ma appunto fa solo sorridere, perché è brava la Silvestrin a propinarci fatti incredibili senza pretendere che possiamo crederci, ma lasciando fin dall’inizio chiaramente intendere che si tratta di un escamotage. Ci sono omicidi, rapimenti di bambine, così che il nostro bravo Biagio non può stare assieme alla sua Rosa, venuta a trovarlo a Mantova per un’esperienza di menage extraconiugale, perché per risolvere l’intricato caso dovrà spostarsi prima a Cremona, poi a Torino e infine addirittura a Parigi, dove si chiarirà tutto e l’indagine potrà essere chiusa. Tuttavia, le ultime righe lasciano intendere che siano una promessa, cioè che avremo ancora il piacere di incontrare il capitano di giustizia, visto che gli perviene da Mantova una missiva con cui si reclama il suo urgente ritorno, perché un’antica profezia si è avverata e un’oscura minaccia incombe sul ducato. Altra stregoneria, altri rii satanici? Forse no, più probabilmente la conferma che dalla penna di Tiziana Silvestrin sta uscendo un’altra appassionante avventura. Quando? Non si sa e quindi per ora soddisfiamo il nostro palato di lettori con Il sigillo di Enrico IV.

Tiziana Silvestrin vive e lavora a Mantova. Entrata a far parte di una compagnia di teatro amatoriale, inizia a scrivere commedie. Alla passione per la recitazione e per la lettura, si aggiunge la curiosità per la storia. Quando, con un racconto, vince un premio letterario, le viene il sospetto che forse può mettere a frutto le sue ricerche per scrivere gialli storici. Così, mescolando fantasia, storia, personaggi reali e non, ha scritto I leoni d’Europa (2009),  Le righe nere della vendetta (2011), Un sicario alla corte dei Gonzaga (2014) e Il sigillo di Enrico IV (2017). Tutti pubblicati da Scrittura & Scritture.
Renzo Montagnoli

 

9 Ottobre

Poesie ritrovate

scritte in anni diversi

di Antonio D’Alessio

Introduzione critica di Narda Fattori

Edizioni G.C. “F. Guarini”

Poesia

 

Poesia dell’anima

Ho tenuto a lungo sul comodino questo libriccino donatomi da un padre che vive nel ricordo del figlio, l’ho sfogliato, ho letto qua e là, ho cercato di comprendere la poetica di un autore che troppo presto è venuto a mancare.

Mi piacciono questi versi che erano su fogli a mani della fidanzata, ma cerco nel limite del possibile di essere del tutto imparziale nel giudizio, che non voglia sia influenzato da questo doloroso evento che ha stroncato una giovane vita. Mi dico e mi ripeto che Antonio più che mai ora deve avere un giudizio obiettivo sulla sua arte, perché è doveroso soprattutto per lui e intendo che si ricordi la sua opera per il suo intrinseco valore e non per altre circostanze, anche perché c’è una valenza intrinseca effettiva di un autore che si può definire in itinere, che non aveva ancora maturato una consistente esperienza, ma che aveva molto da dire.

A volte sono poesie lunghe, altre notevolmente brevi, tanto da sembrare dei frammenti e si avverte chiaro che sono state scritte in epoche diverse, ma quello che è lo stile, per nulla aulico, anzi stringato – ma non per questo meno piacevole – è quello e probabilmente sarebbe stato quello, se il destino benignamente gli avesse permesso di vivere, fra trent’anni, magari un po’ più sfumato, ma pur sempre incisivo. Mi si potrà obiettare che comincio a parlare dell’opera con la forma e non è un caso però, poiché la forma è sì una modalità di espressione, ma in questa raccolta è parte stessa del costrutto, del discorso che si vuole sviscerare, della sostanza a cui si tende. Versi brevi, a volte quasi raffiche, sospensioni, arresti improvvisi, ma seguiti da tre punti che avvertono che il discorso non è cessato, ma prosegue nei sottintesi. Una bella maturità, direi, perché una forma siffatta non solo non è facile da realizzare, ma potrebbe – e non è questo il caso – rendere meno accessibile, e quindi poco piacevole, la lettura.

Certo, diverse poesie non nella stessa epoca comportano anche una tematica varia, ma a me quello che pare evidente è che il filo conduttore è la ricerca delle risposte a tante domande essenziali: perché vivo, dove vado,  che senso ha il mio essere qui? Quesiti che non sono infrequenti, ma che in genere un giovane, a meno che non sia particolarmente maturo, di certo non si pone. E invece Antonio è quasi assillato da queste domande, cerca una risposta che ognuno crede di trovare, ma che non è mai quella giusta, e lui invece probabilmente ci azzecca. Tende, sovente in modo pudico, a quel livello che generalmente chiudiamo in un vocabolo che desta stupore: l’assoluto. Si rende conto, cioè, che la terra imprigiona troppo, che l’uomo per sentirsi libero e realizzato deve avere una visione non principalmente materialistica, e questo tentativo di librarsi porta non di rado a composizioni che hanno il notevole pregio di infondere grande serenità nel lettore.  La sua non è semplice poesia, è qualcosa che viene dal più profondo, è un canto, il canto dell’anima.

Nel leggere queste poesie invito l’appassionato a coglierne l’essenza, a lasciarsi andare a quella serenità che io ho trovato nei versi, un appagamento totale che da solo già giustifica il mio giudizio ampiamente positivo di questa raccolta.

Antonio D’Alessio nasce ad Avellino il 27 febbraio 1976. Diplomato ragioniere, come tanti giovani del Sud non è riuscito a trovare un lavoro stabile, ma si è sempre occupato di assistenza domiciliare agli anziani e di cure ai meno abbienti. Appassionato di discipline orientali aveva trovato la sua ideale realizzazione nelle arti, sia nella poesia che nella musica. La sua è stata una giovinezza intensa, stroncata il 9 settembre 2008 da un male incurabile che l’aveva colpito l’anno precedente. 
Renzo Montagnoli

 

6 Ottobre

Augustus

di John Williams

Castelvecchi Editore

Narrativa romanzo

Il prezzo del potere

In attesa di poter leggere il ben più noto Stoner ho ripiegato (ma il termine è eccessivo, come emergerà con il mio giudizio) su Augustus, un romanzo storico sul primo degli imperatori romani, su quell’Ottaviano successore designato di Giulio Cesare. L’autore, molto opportunamente, riporta in una nota all’inizio dell’opera una precisazione con cui evidenzia che, per quanto abbia cercato di rispettare rigorosamente gli eventi e i personaggi, così come pervenutici dalla storia, ha dovuto, per esigenze letterarie, commettere errori voluti, inventare fatti, creare personaggi che forse non sono mai esistiti. In buona sostanza ha ritenuto doveroso evidenziare che non si tratta di un saggio, di una biografia, bensì, a tutti gli effetti, di un romanzo storico. La metodologia adottata per parlarci di Augusto è la più varia,  ricorrendo a epistole di Cicerone, a brevi brani degli Atti di Augusto e al frammento di un libro perduto della Storia di Tito Livio conservato da Seneca il Vecchio. Comunque siano state le fonti quello che mi preme evidenziare è che Williams è riuscito a darci un ritratto realistico di quello che fu Augusto, inserito perfettamente nel suo contesto storico che ci consente anche di avere un’idea, non vaga, e nemmeno allo stato di ipotesi, di quella che doveva essere realmente la società romana, dei giochi di potere che fermentavano, che dividevano, che minacciavano l’esistenza stessa di Roma, una sorta di politica nefasta e corrotta che presenta straordinarie analogie anche con l’Italia d’oggi. Ottaviano, poi divenuto Augusto, è un uomo esile, dalla salute cagionevole, ma dalla fortissima e determinata personalità, un protagonista assoluto che saprà sbarazzarsi degli assassini di Cesare e poi del rivale Marco Antonio, assicurando a Roma un lungo periodo di quiete e di prosperità. L’uomo più potente della terra, un Dio in terra, è in realtà un abile e accorto politico, che, al di fuori di quella che è la gestione dello stato, ha solo due passioni: la moglie Livia e la figlia Giulia. Per quanto le ami dovrà sacrificarle alla ragion di stato così che questa stella di prima grandezza, che splende di fuori agli occhi di tutti, è in effetti un essere profondamente infelice, che resterà progressivamente solo con la dipartita degli amici fidati, da Agrippa a Mecenate, all’adorato Virgilio. Questa intima malinconia è resa in modio splendido dall’autore, che ha anche avuto l’idea accostare  la solitudine della potenza con la serenità degli esseri umili. Al riguardo le pagine in cui si descrive l’incontro, per le vie di Roma, di Augusto con Irzia, che gli fu compagna di giochi e amica quando entrambi erano bimbi, ora una donna un po’ più anziana, non ricca, ma nemmeno povera, amata dai figli, baciata da una serenità contagiosa anche se avverte prossima la dipartita, sono forse le migliori del romanzo. Augusto riconosce l’amica, che lo chiama, come da bambina, Tavio; prova gioia, pur nella malinconia che lo permea, e i due parlano, prima del passato, poi del presente. “Ho dato a Roma una libertà di cui io solo non posso godere”. “Non hai trovato la felicità, dissi io (Irzia), nonostante tu l’abbia data.” .”Così è stata la mia vita”. Si scambiano altre parole e al momento del commiato Augusto poggia le labbra sulla guancia di lei. Credetemi, raramente mi è capitato di leggere pagine in cui il contrasto fra l’aridità del potere e la pace della vita semplice  sono state rese così bene.   Credo che Williams sia riuscito a carpire dopo tanti secoli la personalità di Ottaviano, e non solo quella, ma anche le altre di Mecenate, di Orazio, di Virgilio e della sua piccola cerchia di amici. Quando parlano sembrano vivi, non si ha cioè quella sensazione di parole messe in bocca a chi non può pronunciarle e forse accade questo perché ci siamo lasciati avvincere dall'opera e ora siamo in lei, camminiamo sul selciato del foro, ascoltiamo le gare poetiche di Orazio e di Virgilio, siamo accanto ad Augusto nei rari momenti di gioia con la moglie e la figlia, lo seguiamo in punta di piedi mentre con passo sempre più stanco si avvia verso la soglia dell’Ade.

Augustus non è stato di certo un ripiego, visto che lo considero un capolavoro.

John Williams (Clarksville, 1922 – Fayetteville, 1994)
Romanziere, poeta e accademico statunitense, dopo la Seconda guerra mondiale, alla quale prende parte in qualità di sergente dell’aeronautica in India e in Birmania, studia all’Università di Denver. In questo perdio pubblica i suoi primi lavori: il romanzo Nothing But the Night (1948) e il libro di poesie The Broken Landscape (1949), che sarà seguito nel 1965 da una seconda raccolta: The Necessary Lie. Nel 1954 ottiene il dottorato di ricerca in letteratura inglese all’Università del Missouri e, nel 1955, torna all’Università di Denver come docente di scrittura creativa. Nel 1960 pubblica il suo secondo romanzo Butcher’s Crossing, seguito nel 1965 dal celebrato Stoner. ha curato le antologie English Renaissance Poetry (1963). Ha fondato e diretto fino al 1970 la rivista «University of Denver Quarterly». Muore nel 1994, lasciando incompiuto il suo quinto romanzo, The Sleep of Reason.
Renzo Montagnoli

 

2 Ottobre

Avanti, Savoia!

Miti e disfatte che fecero l’Italia (1848-1866)

di Gianni Rocca

Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Saggistica storica

 

Avanti, ma più spesso indietro

“Una pioggia di decorazioni avrebbe successivamente cercato, trincerandosi dietro l’eroismo dei singoli, di nascondere le responsabilità dei Comandi. Sarebbe così nata la consuetudine dell’esaltazione dei caduti, che cancellando gli errori dalla memoria storica del paese gli avrebbe impedito di trarne i necessari insegnamenti, e consentito alle classi dirigenti di rivolgere l’accusa di nemico della patria a chiunque osasse criticare l’operato dei vertici militari.”

Queste lapidarie parole sono le conclusioni che Gianni Rocca trae alla fine di questo saggio storico che, se non dice nulla di radicalmente nuovo, ha però il pregio di evidenziare i motivi per i quali nelle nostre tre guerre d’indipendenza

non solo non riuscimmo ad arrivare a determinanti vittorie, ma furono costellate da una serie di confitte, spesso vergognose. E fu buon per noi se ottenemmo almeno in parte gli scopi prefissati, grazie ai successi dei nostri alleati. Non si discute sul coraggio dei nostri soldati, sempre presente tranne rari normali casi, si pone invece il dito sulla frequente disorganizzazione e impreparazione, sul basso livello degli alti comandi, spesso caratterizzati da menefreghismo, o peggio ancora, da pavidità e da invidie reciproche. Se in fin dei conti la sconfitta nella prima guerra di indipendenza poteva essere giustificata da un esercito sabaudo di non adeguate dimensioni, certi episodi avrebbero dovuto dare luogo ad approfondimenti, onde non cadere ancora nello stesso errore. Ci fu il tradimento, o meglio la disobbedienza agli ordini ricevuti da parte del generale  Gerolamo Ramorino, che ebbe il suo peso nella sconfitta patita a Novara, e che pagò la sua colpa con la morte mediante fucilazione, ma non si colse, o non si volle cogliere, la necessità di preparare al meglio gli ufficiali di rango superiore, senza che il loro unico merito fosse quello di essere dei nobili piemontesi. Andò un po’ meglio nella seconda guerra di indipendenza, laddove a San Martino fermammo l’avanzante ala destra austriaca, sostenendo così al centro i francesi che colsero una grande e sanguinosa vittoria a Solferino.  Le pene più grandi, però, vennero dalla terza guerra di indipendenza, con un’altra sconfitta sul campo a Custoza, con due comandanti in campo che non si intendevano (generali Alfonso La Marmora ed Enrico Cialdini), con la solita impreparazione, particolarmente accentuata dalla mancata conoscenza delle posizioni e della consistenza delle forze avversarie, e con un pressapochismo che avrebbe potuto trasformare una sconfitta in una disastrosa ritirata, visto che non era stato stilato un piano per questa eventualità e che non ci fu il tracollo solo perché gli austriaci, stanchi della giornata, preferirono non insistere nell’attacco. E infine, ciliegina sulla torta, il dramma di Lissa, con la nostra fortissima squadra navale comandata dall’inetto Carlo Pellon di Persano, quasi fatta a pezzi  dalla più modesta flotta austriaca ben condotta dall’abile e ardimentoso Wilhelm von  Tegetthof. Per fortuna che vinsero i nostri alleati Prussiani, così che l’Austria ci cedette il Veneto, per il tramite della Francia, come era accaduto per la Lombardia nella seconda guerra di indipendenza, insomma un esplicito riconoscimento delle nostre scarse virtù belliche.

Rocca ha eseguito un lavoro molto accurato e così emergono chiare le nostre carenze, che non mancano nemmeno in occasione della spedizione dei Mille, ma che non possono essere imputate a Garibaldi, bensì all’esercito piemontese.

Avanti, Savoia! è un libro di gradevolissima e utile lettura.

Gianni Rocca (Torino22 ottobre 1927 – Roma20 febbraio 2006) è stato un  giornalista italiano, fra i fondatori del quotidiano La Repubblica. A partire dagli anni ottanta si è dedicato anche a scrivere opere di riflessione storica che hanno avuto grande successo. Al riguardo, fra le più note, si ricordano Cadorna, il generalissimo di Caporetto;  Fucilate gli ammiragli. La tragedia della Marina italiana nella seconda guerra mondiale; L’Italia invasa: 1943 – 1945; Stalin: quel “meraviglioso georgiano”; Caro revisionista, ti scrivo….
Renzo Montagnoli

 

29 Settembre

Catilina

Ritratto di un uomo in rivolta

di Massimo Fini

Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Saggistica storica


Il rivoluzionario

Riemerge dal passato, dagli studi del latino, una frase che all’epoca mi colpì non poco, tanto risulta impregnata da un’acredine non disgiunta da un tono di sufficienza. A pronunciarla fu Cicerone, sulle cui qualità di avvocato non si discute, mentre quelle di uomo lasciano non poco a desiderare. Orbene,  il grande oratore si rivolge a Catilina dagli scranni del senato, e par di vederlo ergersi, cercare di superare la sua dimensione, tronfio e sicuro che la sua stoccata sarà quella vincente. “Quo usque tandem abutere, Catilina, patientia nostra?” “Fino a quando dunque, Catilina, abuserai della nostra pazienza?” Con l’incipit delle prime delle orazioni che poi verranno chiamate Catilinarie Marco Tullio Cicerone, con la necessaria protezione dei legionari romani, di fronte al Senato denuncia Catilina che la stessa mattina (corre l’8 novembre del 63 a.C. ) aveva inviato dei sicari a casa sua per sopprimerlo, ma la vittima designata, avvisata per tempo del complotto, si era rinserrata fra le sue mura e aveva vanificato l’opera dei taglia gole. La congiura di Catilina, volta a sovvertire la Repubblica romana con una vera e propria rivoluzione tesa a eliminare l’asfissiante oligarchia esistente, era pertanto abortita sul nascere. Il capo dei congiurati era un personaggio controverso, descritto poi come un malvagio dagli storici dell’epoca e da non pochi di quelli che seguirono, e forse buono effettivamente non era, ma non si deve dimenticare che venire considerati nemici di Roma era una consuetudine quando si intaccavano immutabili prerogative di una classe nobile che esercitava sulla plebe un sistema oppressivo, magari allietandola con spettacoli circensi, ma anche torchiandola ben bene, secondo il noto metodo del “bastone e della carota”. Un personaggio come Catilina, un vero e proprio rivoluzionario, non poteva non destare l’interesse di Massimo Fini, quasi sempre contro corrente, in forza soprattutto delle sue idee anarchiche. Ed ecco che allora con questa biografia fornisce una chiave di lettura diversa del personaggio Catilina, utilizzando le stesse fonti storiche che invece lo hanno fatto oggetto di una “damnatio memoriae”. Il risultato di questo lavoro è un libro di interessante e gradevole lettura, tanto più che l’autore, per supportare le sue tesi, ha provveduto anche a una specie di biografia di Cicerone, giusto per far vedere chi fossero i contendenti. Al riguardo, sul grande oratore esprime un giudizio per niente positivo, alle pagine 31 e 32: Ma quelle che sono le sue doti di avvocato sono anche il suo deficit di uomo: la mancanza di convinzioni, il cinismo, l’opportunismo, l’ambiguità. Per il carattere ameboide, incerto, molle, svirilizzato Cicerone assomiglia ad Aldo Moro, è una specie di protodemocristiano. Per vanità e trombonaggine ricorda invece Spadolini, ma uno Spadolini disonesto e moralmente corrotto. E’ un’opinione tranciante che, a onor del vero, non mi sento di condividere in toto, perché di personaggi come Cicerone ce ne sono a bizzeffe e sono quasi tutti i politici. Quanto a Catilina avrà avuto dei difetti, ma di certo era un uomo, di quelli con la U al maiuscolo, coerente e deciso, tanto che ebbe il coraggio di portare avanti il suo tentativo insurrezionale fino a uno scontro diretto, avvenuto nei pressi di Pistoia, in cui cadde alla testa delle truppe che gli erano fedeli. Cicerone, invece, pur non partecipando alla congiura contro Cesare, appoggiò decisamente Bruto, e opponendosi a Marco Antonio, contro il quale pronunciò le famose Filippiche,  finì nelle liste di proscrizione. Cercò di evitare la morte fuggendo in modo ignominioso, ma fu tutto inutile, e infine si rassegnò al suo destino.

Direi che l’intento, riuscito,  di Massimo Fini è di provare una contemporaneità nelle vite di Catilina e di Cicerone, con il primo che può essere considerato, soprattutto oggi, merce rara e con il secondo che è il classico esempio del politico, falso, incoerente e vanitoso.

A ben guardare sono trascorsi più di duemila anni dalla vicenda di questi due uomini ed è amaro constatare che è cambiato ben poco.

Da leggere, senz’altro.

Massimo Fini, scrittore e giornalista, ha pubblicato per Marsilio La Ragione aveva Torto? (1985, 2014), Elogio della guerra (1989, 2011), Il denaro. «Sterco del demonio » (1998, 2012), Il vizio oscuro dell’Occidente. Manifesto dell’Antimodernità e SudditiManifesto contro la Democrazia (2002 e 2006; 2004; nuova edizione tascabile in un unico volume 2012), Il Ribelle. Dalla A alla Z (2006, 2014) – i sei volumi sono raccolti in La modernità di un antimoderno. Tutto il pensiero di un ribelle (2016) –, Il Conformista (1990, 20113), Di[zion]ario erotico. Manuale contro la donna a favore della femmina (2000, 2014), Ragazzo. Storia di una vecchiaia (2008, 2012), Il Dio Thoth (2009), Il Mullah Omar (2011), Nerone. Duemila anni di calunnie (1993, 2013), Nietzsche. L’apolide dell’esistenza (2009, 2014), Una vita. Un libro per tutti. O per nessuno (2015). Per Chiarelettere ha pubblicato Senz’anima. Italia 1980-2010 (2010, 2012) e La guerra democratica (2012).
Renzo Montagnoli

 

25 Settembre

Il mio Novecento

di Angelo Del Boca

Neri Pozza Editore

Saggistica storica

 

Il testimone scomodo

Angelo del Boca, nato nel 1925, è stato, a volte suo malgrado, un testimone e anche un protagonista del XX secolo e così, con l’intento di scrivere la propria autobiografia ha fatto anche di più, ci ha dato la sua personale visione dei molti eventi, spesso tragici, che hanno caratterizzato quell’epoca, spingendosi anche fino ai primi anni del 2000, per la precisione fino al 15 aprile 2008, che definisce giornata infame con l’ufficializzazione dei risultati delle elezioni politiche vinte dalla coalizione di centro-destra e, proseguo con le sue parole, << impossibile da cancellare. Fra dieci giorni è il 25 aprile, una festività nazionale che Berlusconi non ha mai onorato. Sessantatré anni fa, in un mattino livido e piovoso, componevo nella cassa la salma di Nino Botti, un partigiano ventenne assassinato dai fascisti alle porte di Piacenza».  Non è un caso se al ricordo del partigiano ucciso dai fascisti si contrappone la commemorazione della ricorrenza della liberazione che l’ex presidente del consiglio non ha mai  ritenuto di onorare, e non tanto perché di destra, in quanto il significato di una lotta tragica e cruenta è pure avvertito da chi è per conservatore per sua indole e natura, ma perché evidentemente per lui la destra ha un significato ben diverso, non dissimile da quella che ha tiranneggiato il paese per un ventennio, portandolo all’orrore di un conflitto mondiale e alla tragedia di una guerra civile.

Del Boca avverte chiaramente che quella libertà e quella democrazia per cui tanti si sono immolati stanno svaporando in un rigurgito di una pseudo ideologia cassata definitivamente, ma che si tende a far resuscitare. Del resto, in questo suo splendido libro, l’autore, nel ripercorrere le tappe della sua vita, offre forse maggior spazio agli eventi successivi alla fine della Seconda Guerra Mondiale, proprio perché è lì che si può vedere se con il bagno di sangue c’è stata una rigenerazione dell’umanità, una svolta decisiva verso un mondo diverso e migliore. Non è stato così, anche se il secolo scorso deve annoverare la caduta del colonialismo in Africa, senza che tuttavia gli abitanti di quel disgraziato continente abbiano potuto ritrarre benefici, e ciò perché si è verificato l’avvento del neocolonialismo con la sistematica spogliazione delle ricchezze naturali da parte delle grandi multinazionali. Fra interviste a capi di stato, ma anche a umili protagonisti della storia, fra l’analisi di  un’evoluzione italiana ben presto trasformatasi in involuzione, Del Boca procede sicuro, ci racconta del suo lungo periodo come inviato speciale, di quell’amore per il continente africano che lo portò poi a diventare il più grande storico del nostro colonialismo. E’ stato un testimone scomodo, pronto a smitizzare quanto artefatto a uso e consumo delle masse, e non è quindi un caso se ha scritto Italiani brava gente?, sì, con il punto di domanda, perché se è vero che molti furono brave persone in guerra, è pure incontrovertibile che tanti, troppi praticarono l’eccidio per diletto, senza essere perseguiti, per una ragion di stato  che, per quanto ineccepibile, è stata anteposta al senso dell’onore, al legittimo diritto delle vittime di ottenere giustizia. Del Boca è stato un socialista, uno di quei socialisti con la S maiuscola, come Nenni, Pertini, De Martino, autorevoli esponenti di un partito storico e rispettato, ma poi disgregato da un avventuriero che risponde al nome di Bettino Craxi. Ma se tanti sono i protagonisti in negativo di quel secolo, c’è spazio anche per quelli positivi, per uomini come il Dr. Schweitzer, o come Don Milani, o per donne come Madre Teresa di Calcutta (il servizio su di lei è semplicemente stupendo, mai retorico, intenso nella sua semplicità, in pratica un autentico capolavoro). Questo novecento svelato con i ricordi personali, con gli articoli, perfino con racconti, è un secolo che pare ancora vivo, di cui si avverte il respiro mai leggero, cento anni di grandi speranze e altrettante grandi delusioni, un lasso di tempo di cui Del Boca ci porta la sua personale testimonianza, fatta anche di partecipazione, come nel caso del periodo della Resistenza.

In 592 pagine, stampate peraltro in un corpo un po’ più piccolo del normale, c’è tanto e di conseguenza la lettura richiede un tempo superiore alla media, ma non c’è da spaventarsi, poiché il vantaggio di mettere bene in evidenza ciò che di veramente importante c’è stato in un’epoca, con uno stile semplice e immediato, è tale da appagare anche il più esigente; e credo che non pochi si accorgeranno al termine che il novecento di Del Boca è stato anche il loro novecento.

Bellissimo e imperdibile.

Angelo del Boca (Novara 1925), saggista e storico del colonialismo italiano, ha insegnato storia contemporanea all'università di Torino. È stato insignito di tre lauree honoris causa dalle università di Torino (2000), Lucerna (2002) e Addis Abeba (2014). Tra le sue numerose e importanti opere ricordiamo: L'altra Spagna (1961), I figli del sole (1965), Giornali in crisi (1968), I gas di Mussolini. Il fascismo e la guerra d'Etiopia (1996), Il mio Novecento (2008), La guerra d'Etiopia. L'ultima impresa del colonialismo (2010), Da Mussolini a Gheddafi: quaranta incontri (2012), Gli italiani in Africa Orientale (4 voll., 1992-1996),Gli italiani in Libia (2 voll., 1993-1994), L'Africa nella coscienza degli italiani. Miti, memorie, errori, sconfitte (2002).
Renzo Montagnoli

 

22 Settembre

Il grande male

di Georges Simenon

Traduzione di Barbara Bertoni

Edizioni Adelphi

www.adelphi.it

Narrativa

Collana Biblioteca Adelphi

 

Una dominatrice

La provincia francese fa ancora una volta da sfondo a un noir del tutto particolare, atipico nella produzione di Simenon, in cui giganteggia una figura femminile tutta d’un pezzo, dotata di una forte personalità. La vedova Pontreau, che ha sempre condotto una vita in miseria, ma con estrema dignità, anzi con un portamento permanentemente altezzoso, ha l’occasione di dare una svolta alla sua esistenza e a quella delle sue tre figlie, grazie al matrimonio di una di queste con il diafano Jean Nalliers, figlio di un ricco proprietario terriero e che per l’occasione ha ricevuto in dono dal padre una grossa fattoria (La Pré-aux-Boeufs). Il novello sposo purtroppo soffre di una malattia neurologica, un tempo chiamata piccolo male, ma scientificamente conosciuta con il termine di epilessia. Si da il caso che durante la mietitura Jean, arrabbiatosi con un lavorante, avverta l’inizio di una crisi e si trascini fino al granaio, dove cade a terra in stato di incoscienza e dove lo trova la suocera, a cui sorge l’idea di liberarsi del genero onde impadronirsi della terra.  Si limita a spingerlo attraverso una finestra così che cada di sotto e si spiaccichi sul selciato. Questo è sostanzialmente l’antefatto su cui Simenon sviluppa un romanzo che è prettamente al femminile, visto che i protagonisti, fatta eccezione per un procuratore, per un medico e per il padre del morto, relegati però a figure di comprimari, sono tutti femminili: le tre ragazze Pontreau, di cui la più giovane e minorenne Viève fuggirà di casa con il suo innamorato per non concludere l’esistenza nel grigiore di ogni giorno, a differenza della sottomessa Hermine e della psico labile Gilberte, vedova di Jean, che prima di consumarsi totalmente nel lutto si toglierà la vita; la serva svampita, per non definire pazza, Naquet, che qualcosa deve aver visto o sapere, circostanze da cui intende trarre profitto, e sopra di tutte un gigante imperscrutabile, ansioso di dominare e di essere obbedito, cioè la vedova Pontreau.

Non c’è che dire, Simenon si barcamena bene fra queste donne, con pochi tocchi di pennello ne delinea i contorni e i caratteri e dimostra ancora una volta la sua straordinaria capacità di sondare l’animo umano, di rivoltarlo come un calzino, di gettare in pasto ai lettori anche gli angoli più nascosti e segreti della psiche. L’omicidio, la ricerca del colpevole sono solo un pretesto per completare un ritratto di donna in cui più d’uno ha creduto di ravvisare la madre dell’autore.

Da leggere, lo merita.

Georges Simenon, nato a Liegi nel 1903, morto a Losanna nel 1989, ha lasciato centonovantatre romanzi pubblicati sotto il suo nome e un numero imprecisato di romanzi e racconti pubblicati sotto pseudonimi, oltre a volumi di «dettature» e memorie. Il commissario Maigret è protagonista di 75 romanzi e 28 racconti, tutti pubblicati fra il 1931 e il 1972. Celebre in tutto il mondo, innanzitutto per le storie di Maigret, Simenon è anche, paradossalmente, un caso di «scrittore per scrittori». Da Henry Miller a Jean Pauhlan, da Faulkner a Cocteau, molti e disparati sono infatti gli autori che hanno riconosciuto in lui un maestro. Tra questi, André Gide: «Considero Simenon un grande romanziere, forse il più grande e il più autentico che la letteratura francese abbia oggi»; Walter Benjamin: «… leggo ogni nuovo romanzo di Simenon»; Louis-Ferdinand Céline: «Ci sono scrittori che ammiro moltissimo: il Simenon dei Pitard, per esempio, bisognerebbe parlarne tutti i giorni».
Renzo Montagnoli

 

19 Settembre

Tutta la luce che non vediamo

di Anthony Doerr

Rizzoli Editore

Narrativa romanzo 

Non mi ha convinto

Il premio Pulitzer non è un premiettino, bensì il più importante premio americano, una vera e propria onorificenza nazionale  per il giornalismo, per la letteratura e per le composizioni musicali. Tanto per dare un’idea, nel suo albo d’oro figurano opere come Il vecchio e il mare, di Ernest Hemingway e più recentemente La strada, di Cormac McCarthy. Quindi, dovrebbe essere considerato come un riconoscimento di garanzia di qualità, tanto è vero che in alcuni anni non è stato assegnato. 

Tutto questo preambolo ha uno scopo, cioè non è fine a stesso, perché, avendo letto che il Pulitzer 2015 era stato conferito a Tutta la luce che non vediamo, di Anthony Doerr, mi è sorto subito l’interesse per quest’opera, tanto più che nelle brevi e invitanti notizie si parlava di due personaggi, due adolescenti, nella tempesta della guerra su fronti opposti. Non posso dire quindi di avere affrontato la lettura senza entusiasmo, anzi ho esaminato il testo da subito con grande interesse, ma purtroppo, pagina dopo pagina, l’ardore iniziale è andato scemando e non dico che io sia stato pervaso dalla noia, ma che ho cominciato a considerare il libro come uno di quelli che al più consentono qualche ora di svago e se devo essere sincero di questi così ce ne sono tanti, romanzi che non sono, e non hanno nemmeno la pretesa, di essere opere d’arte. Eppure le premesse non mancavano, nel senso che le figure della bimba cieca Marie-Laure Leblanc e del ragazzo orfano Werner Pfennig, che si trovano su fronti opposti, lei francese, lui tedesco membro della gioventù hitleriana, lei in un certo senso partigiana, lui cacciatore di partigiani che trasmettono con la radio sono una base di partenza notevole per sviluppare l’emblema di due giovani a cui la guerra ha negato la gioventù. Se ci poi ci mettiamo qualche personaggio accattivante, come lo zio di Marie-Laure o l’amico ornitologo di Werner ci sono tutti gli ingredienti per raccontare una storia avvincente  e c’è anche lo spazio, indispensabile, per dare un tocco artistico all’opera, magari con una condanna ferma senza se e senza ma di ogni conflitto. Dimenticavo, non manca neppure un risvolto giallo, vale a dire la ricerca di una pietra preziosa che si dice benefica per chi la possiede, ma malefica per i suoi familiari, trovata in verità un po’ ingenua e che secondo me se era uno scopo per impreziosire il romanzo ha finito invece per appesantire la narrazione e, a proposito di questa, c’è da considerare il problema di raccontare di due vite parallele. Doerr l’ha risolto come tanti autori, cioè un capitolo a testa, prima uno e poi l’altro e così via, magari alcuni di così poche pagine che non aggiungono nulla per una migliore conoscenza. Purtroppo, nello scrivere di Marie-Laure e di Wener introduce dei salti temporali: una volta si va avanti con gli anni, un’altra si torna indietro, tecnica che francamente non ho capito e che di certo non agevola la lettura. Si tratta di un romanzo che si sviluppa prevalentemente in corso di guerra e che culmina con il bombardamento di Saint Malò; dovevano essere pagine convulse, dal ritmo incalzante, quasi che il lettore dovesse sentire lo scoppio delle bombe e avere la bocca impastata dalla polvere che si leva dalle macerie, e invece no, si continua con un ritmo non letargico, ma comunque blando.

A differenza di molti che hanno giudicato l’opera un capolavoro io la considero invece modesta, per i motivi che ho esposto sopra; leggibile è leggibile comunque, ma con tutte le riserve, in primis con il sospetto, non del tutto infondato, che il premio Pulitzer conferito sia stato un generoso regalo.     

Anthony Doerr è l’autore dei romanzi Tutta la luce che non vediamo (Rizzoli 2014), vincitore del premio Pulitzer per la Letteratura nel 2015, e di A proposito di Grace (Rizzoli 2016). Suoi anche il testo autobiografico Four Seasons in Rome e la raccolta di racconti Memory Wall. Oltre al Pulitzer, ha ricevuto numerosi riconoscimenti tra cui quattro premi O. Henry, tre premi Pushcart.Il collezionista di conchiglie è la sua prima raccolta di racconti.Nato a Cleveland, Doerr vive a Boise, nell’Idaho, con la moglie e due figli.
Renzo Montagnoli

 

14 Settembre

I disperati

La tragedia dell’Aeronautica italiana nella Seconda Guerra Mondiale

di Gianni Rocca

Castelvecchi Editore

Saggistica storica 

Aquile insanguinate

Delle tre forze armate, l’Aeronautica è indubbiamente la più recente, visto che fu istituita con Regio Decreto del 1923, per volontà di Benito Mussolini che intese avere un’armata fascista. Infatti, furono profusi cospicui investimenti che, per la loro entità, avrebbero dovuto fornire al paese strumenti operativi, se non al massimo livello, comunque tali da consentire la difesa dello spazio aereo nazionale. Non fu invece così e di questo e di altro parla questo bel saggio di Gianni Rocca che, pur in una doverosa e necessaria analisi critica, nulla toglie all’impegno, al senso dell’onore e all’eroismo che furono propri dei nostri aviatori durante la seconda guerra mondiale. Nel ventennio la nostra aviazione parve un preciso punto di riferimento, grazie alle vittorie nella coppa Schneider, ai record di velocità e di durata conquistati, alle famose trasvolate atlantiche, chiaro esempio di un organizzazione curata nel migliore dei modi; questi successi, più di immagine che di sostanza, non ebbero però positivi riflessi sulla struttura e sulle dotazioni di un’aeronautica militare che, almeno nelle intenzioni del duce, avrebbe dovuto costituire uno spauracchio per tutti.

Già all’origine non furono ben definiti gli scopi della nuova arma, anche se per le diatribe subito intercorse con la Marina, si rinunciò alla costruzione di navi portaerei, ritenendo che la nostra penisola, protesa nel Mediterraneo, potesse essere considerata una portaerei naturale. Allora però si sarebbero dovuti mettere in cantiere aerei da bombardamento a lungo raggio e avviare una programma di stretta collaborazione con la Regia Marina. Nell’incertezza degli scopi, era quindi difficile avere idee chiare su che tipologie di aerei avere in dotazione, così finimmo con avere bombardieri medi, nessun bombardiere in picchiata e nemmeno un bombardiere tattico. In cambio, di modelli di aeromobili ne furono prodotti a iosa, invece di progettarne e realizzarne uno basilare, valido e competitivo, da cui far derivare delle varianti. Un’altra debolezza era data dalla scarsa potenza dei motori, a cui poi si ovviò fabbricando su licenza motori tedeschi, il che non evitò comunque una scarsa affidabilità, dovute alle componenti autarchiche. Anche la scelta di motori stellari anziché in linea non fu delle più felici, ma in ogni caso ciò che più appariva deleterio, oltre allo scarso armamento, era la mancanza di sicurezze, di serbatoi auto stagnanti, di radio di bordo, di cupolini anti proiettili, di cui invece erano dotati gli apparecchi tedeschi e inglesi. La disorganizzazione poi era cronica e quel che è peggio, già in tempo di pace, i pochi nuovi modelli non venivano sufficientemente collaudati, al punto che non di rado capitò che su cinquanta consegnati, tutti, dico tutti, furono respinti per gravissime lacune (già allora, ed è un sospetto più che fondato, circolavano numerose e veloci le “bustarelle”). Inferiori in velocità, in quota di tangenza, in sicurezza, in armamento, tuttavia i nostri piloti si batterono con grande coraggio, meritando anche il rispetto degli avversari, e quando finalmente ebbero in dotazione non gli obsoleti caccia biplano Fiat CR 42, ma i Macchi C202 Folgore o Fiat G55, divennero altamente competitivi, ma ormai era troppo tardi.

Combatterono sempre, con la forza della disperazione, uomini che con il loro sacrificio tentarono inutilmente di sovvertire i risultati di una guerra che in fin dei conti, almeno per noi, erano già conosciuti in partenza.

Il saggio di Rocca è veramente ben scritto e non tralascia nulla, in una sorta di cavalcata che dai toni trionfalistici delle grandi trasvolate si sposta gradualmente a quelli drammatici del grande conflitto, con uno stile conciso, ma avvincente, un’opera che certamente non delude le aspettative e che quindi merita di essere letta.

Gianni Rocca (Torino22 ottobre 1927 – Roma20 febbraio 2006) è stato un  giornalista italiano, fra i fondatori del quotidiano La Repubblica. A partire dagli anni ottanta si è dedicato anche a scrivere opere di riflessione storica che hanno avuto grande successo. Al riguardo, fra le più note, si ricordano Cadorna, il generalissimo di Caporetto;  Fucilate gli ammiragli. La tragedia della Marina italiana nella seconda guerra mondiale; L’Italia invasa: 1943 – 1945; Stalin: quel “meraviglioso georgiano”; Caro revisionista, ti scrivo….
Renzo Montagnoli

 

11 Settembre

I complici

di Georges Simenon

Traduzione di Laura Fausin Guarino

Edizioni Adelphi

www.adelphi.it

Narrativa

Collana Biblioteca Adelphi

 

L’unica via di fuga

Due amanti in auto, intenti a un gioco erotico (mentre lui con la sinistra tiene il volante, la destra è serrata fra le cosce di lei), il suono disperato di un clacson, l’auto che procede incontrollata e che solo in extremis il conducente riesce a raddrizzare, un autobus che la sfiora e va a finire contro un muro, prendendo fuoco.  Quarantasei saranno i morti, quasi tutti bambini al ritorno da una colonia; l’uomo e la donna, un po’ per la frenesia del gioco erotico, un po’ per paura non si fermano a prestare soccorso, né chiedono aiuto, ma si preoccupano solo di eclissarsi.

Da quel momento, e solo per l’uomo (si tratta di Joseph Lambert, titolare, con il fratello, di una nota ditta di costruzioni edili), comincia un periodo in cui  cerca di sviare ogni sospetto, comportandosi come sempre, ma c’è qualche cosa che finisce con il gravare come un macigno, e cioè il rimorso, che rode lentamente e senza rimedi, e con il rimorso la coscienza di essere colpevole, e da questo ad avere la sensazione di essere braccato il passo è breve, mentre cresce la paura di essere scoperto, una paura che diventerà terrore non appena cadrà quell’atmosfera di complicità, non solo sessuale, con l’amante Edmonde. I due, per quanto in apparenza diversi, si assomigliano non poco, con lei, di cui ignoriamo sentimenti e modi di pensare, enigmatica come una sfinge, ma altamente appassionata in un rapporto erotico quasi bestiale;  lui è un tipico rappresentante di quella borghesia tanto detestata da Simenon, un uomo che conduce una vita piatta e noiosa e che cela un irrefrenabile e mai soddisfatto desiderio di libertà. Il rapporto con Edmonde poteva lasciar presagire il raggiungimento di una libertà senza limiti, ma nelle battute finali si scoprirà che la donna, in fondo, è inferiore alle aspettative di Joseph e che in effetti non è in grado di assicurare quella complicità indispensabile per il raggiungimento del fine. Ormai braccato, con il cerchio che si stringe intorno a lui, Lambert riuscirà tuttavia a trovare una via di fuga, l’unica ormai possibile a un uomo cinico che, nel fare i conti con la propria vita, non ha trovato nulla di soddisfacente.

I complici è un altro capolavoro di Georges Simenon.

Georges Simenon, nato a Liegi nel 1903, morto a Losanna nel 1989, ha lasciato centonovantatre romanzi pubblicati sotto il suo nome e un numero imprecisato di romanzi e racconti pubblicati sotto pseudonimi, oltre a volumi di «dettature» e memorie. Il commissario Maigret è protagonista di 75 romanzi e 28 racconti, tutti pubblicati fra il 1931 e il 1972. Celebre in tutto il mondo, innanzitutto per le storie di Maigret, Simenon è anche, paradossalmente, un caso di «scrittore per scrittori». Da Henry Miller a Jean Pauhlan, da Faulkner a Cocteau, molti e disparati sono infatti gli autori che hanno riconosciuto in lui un maestro. Tra questi, André Gide: «Considero Simenon un grande romanziere, forse il più grande e il più autentico che la letteratura francese abbia oggi»; Walter Benjamin: «… leggo ogni nuovo romanzo di Simenon»; Louis-Ferdinand Céline: «Ci sono scrittori che ammiro moltissimo: il Simenon dei Pitard, per esempio, bisognerebbe parlarne tutti i giorni».
Renzo Montagnoli

 

8 Settembre

1914

di Luciano Canfora

Sellerio Editore Palermo

www.sellerio.it

Saggio storico 

I reali motivi di una guerra

Una guerra, soprattutto se coinvolge diverse nazioni, non scoppia mai per caso, non viene insomma dichiarata senza che ci sia alla base una lunga serie di eventi e di circostanze che portano alla decisione fatale; è sempre stato così ed è accaduto anche per la prima guerra mondiale, in cui l’attentato di Sarajevo fu solo il pretesto per far deflagrare le tensioni accumulate nel tempo. Luciano Canfora, che è uno storico, ma anche un filologo, abituato cioè a una analisi attenta dei testi e delle parole, ha scritto questo saggio che con le sue 180 pagine può sembrare succinto per l’evento, ma che, grazie alla capacità di sintesi dell’autore, è in grado di fornire un quadro esauriente sui reali motivi che portarono a quel conflitto che nessuno sembrava volere, anche se nessuno fece qualcosa per evitarlo. L’Europa della Belle Epoque non era poi così ridente e spensierata come ci è sempre stata descritta, ma serpeggiavano, dopo l’ultima grande guerra del 1871, in una rarefatta atmosfera di pace, tensioni che poi si sarebbero manifestate, nei loro accenni, agli inizi del secolo successivo. Già era in atto la disgregazione di un impero monolitico quale quello austriaco e quello ottomano perdeva pezzi lungo la strada, come avvenne poi con le guerre dei Balcani, di poco precedenti la Grande Guerra. Già nel 1905 c’era stato lo scontro fra russi e giapponesi, che ben evidenziò la fragilità dell’impero zarista, e non mancarono  inoltre, in Africa, scontri fra le potenze colonialiste. Insomma, a ben guardare, quella pace, che sembrava eterna dopo il 1871, in realtà era assai fragile e che fosse veramente così è provato dalle concrete mire espansionistiche della Germania del Kaiser, tesa a privilegiare la pura forza delle armi rispetto alle azioni diplomatiche.  Poi c’erano alleanze alquanto improbabili nella loro tenuta, quali quelle fra l’impero austriaco, la Germania e l’Italia, con quest’ultima che non nascondeva le sue intenzioni di chiudere la fase del Risorgimento mettendo le mani almeno sul Trentino; al riguardo, è degli inizi del XX secolo la decisione asburgica di costruire forti militari con i cannoni rivolti verso l’Italia, soprattutto sugli altipiani di Folgaria e di Lavarone.  Quindi, se c’erano Stati arrembanti (Germania e Italia) ve n’erano altri in evidente disgregazione, stati questi ultimi che non vedevano come una disgrazia un’eventuale guerra che, nelle loro intenzioni, non solo avrebbe ricompattato il popolo con i rispettivi sovrani, ma avrebbe allontanato la crescente minaccia di un socialismo che ogni giorno che passava raccoglieva sempre più consensi. Di conseguenza, l’attentato di Sarajevo può essere considerato solo il casus belli e in proposito, se si considera come avvenne, c’è da pensare che le forze reazionarie austriache, se non l’organizzarono, quanto meno non fecero nulla per impedirlo.

1914 è un saggio di agile e gradevole lettura, che cerca di portare luce su fatti e avvenimenti, sovente inficiati da falsi storici.

Da leggere, perché emergono verità sovente taciute o, nella migliore delle ipotesi, velate.

Luciano Canfora (1942) insegna Filologia greca e latina. Con questa casa editrice ha pubblicato: La democrazia come violenza (1982), Storie di oligarchi (1983), Il comunista senza partito (1984), La sentenza (1985 e 2005), La biblioteca scomparsa (1986), Vita di Lucrezio (1993), Demagogia (1993), Manifesto della libertà (1994), La lista di Andocide (1998), Un ribelle in cerca di libertà. Profilo di Palmiro Togliatti (1998), Un mestiere pericoloso. La vita quotidiana dei filosofi greci (2000), Il copista come autore (2002), 1914 (2006), 1956. L'anno spartiacque (2008, 2016), La meravigliosa storia del falso Artemidoro (2011) e La trappola. Il vero volto del maggioritario (2013). Dirige la collana «La città antica» di questa casa editrice e la rivista «Quaderni di storia». Tra i suoi libri più recenti ricordiamo: Il mondo di Atene (Laterza 2001), SpieURSS, antifascismo. Gramsci 1926-1937 (Salerno 2012), Intervista sul potere (Laterza 2013).
Renzo Montagnoli

 

5 Settembre

I Medici. Una dinastia al potere

di Matteo Strukul

Newton Compton editori

www.newtoncompton.com

Narrativa romanzo storico

 

Un’occasione persa

Il fatto che questo libro, primo di una trilogia, abbia vinto il premio Bancarella 2017 potrebbe far pensare che ci si trovi di fronte a un’opera di rilevante valore, e invece purtroppo non è così, e quel purtroppo è motivato dalla constatazione che si è persa una grossa occasione per scrivere dei Medici quali essi effettivamente erano. Del resto, giunti all’ultima pagina di questo romanzo, si è più che mai convinti che non sia bastato per farci conoscere un po’ di più questa dinastia che tanta importanza ha avuto nella storia italiana. Erano banchieri, ma come mai erano riusciti a fare una grande fortuna, come poteva essere delineata la loro abilità nell’influire sulle scelte del governo di Firenze senza farne parte, perché, fra alti e bassi, in un’epoca di Signorie Firenze continuava a restare una repubblica? Sono tutte domande che il lettore si pone, sperando di trovare delle risposte che tuttavia non arriveranno. Comprendo che si tratta di un romanzo storico e non di un libro di storia, ma una maggiore caratterizzazione di Cosimo e Lorenzo de Medici non sarebbe guastata di certo, anzi entrambi finiscono con apparire nell’opera quasi come personaggi di secondo piano a fronte di due sicuramente inventati, quali la bella e seducente Laura Ricci, che odia i Medici per un un malinteso e il tenebroso guerriero Schwartz, al soldo di Rinaldo degli Albizzi, il più grande nemico dei Medici stessi. Il rapporto fra questi due soggetti è in pratica il fil rouge dell’opera ed è una relazione tormentata, quasi di amore e odio; peccato però che le caratteristiche della donna e dell’uomo appaiano stereotipate, senza tante preoccupazione di approfondimenti psicologici, quasi sempre con comportamenti all’estremo, come si riscontrano normalmente in certe fiction a puntate. Ben poco curata è pure l’ambientazione, per non parlare dell’atmosfera appena abbozzata e quindi costituisce unico motivo di autentico interesse il dipanarsi della vicenda, con un occhio di particolare attenzione a Laura e Schwartz, quasi che fossero loro i protagonisti e non la famiglia Medici. Certo il libro si legge velocemente, ma alla fine ci si rende conto che, più che far trascorrere un po’ di tempo, null’altro può essere chiesto allo stesso e che, tutto sommato, dei Medici ne sappiamo quanto prima.

Di sicuro non leggerò gli altri due della trilogia.

Matteo Strukul  è nato a Padova nel 1973. Laureato in giurisprudenza e dottore di ricerca in diritto europeo, ha pubblicato diversi romanzi (La giostra dei fiori spezzati, La ballata di MilaRegina neraCucciolo d’uomo, I Cavalieri del Nord, Il sangue dei baroni). Le sue opere sono in corso di pubblicazione in 20 Paesi e opzionate per il cinema. Nel 2016 ha pubblicato con la Newton Compton il primo romanzo della trilogia sui Medici, Una dinastia al potere: il libro è stato il caso editoriale della Fiera di Francoforte, i diritti di traduzione sono stati venduti in vari Paesi (tra cui Germania, Spagna e Inghilterra), è stato sin dall’uscita ininterrottamente in cima alle classifiche italiane di vendita e ha vinto il Premio Bancarella 2017. Matteo Strukul scrive per le pagine culturali del «Venerdì di Repubblica» e vive insieme a sua moglie Silvia fra Padova, Berlino e la Transilvania. Il suo sito internet è www.matteostrukul.com
Renzo Montagnoli

 

1 Settembre

Maigret e il produttore di vino

di Georges Simenon

Traduzione di Elda Necchi

Edizioni Adelphi

www.adelphi.it

Narrativa

Collana gli Adelphi – Le inchieste di Maigret

 

Una vittima piuttosto odiosa

Oscar Chabut è un grande commerciante di vini, venuto dalla gavetta e che ha raggiunto il successo calpestando più di un concorrente; inoltre, è in preda a uno sfrenato desiderio di possedere quante più donne possibili, vantandosi pubblicamente delle sue conquiste, che non gli importa se siano nubili o sposate, magari mogli di amici. Così quando quattro colpi di pistola di piccolo calibro troncano la sua vita in rue Fortuny, a pochi passi da una palazzina ospitale ritrovo di amanti, le indagini si presentano da subito assai difficili perché di gente motivata a ucciderlo ce n’è parecchia; se poi a questo aggiungiamo che Maigret è in preda a una di quelle influenze che lo stroncano è  possibile capire quanto sia difficile avviare un’indagine, a meno che non ci sia il solito colpo di fortuna, in questo caso rappresentato dal colpevole che, pur non essendo pentito del delitto che ha commesso, ha in animo di costituirsi, possibilmente al celebre commissario, a cui invia sibilline missive o con il quale instaura brevi colloqui telefonici. Maigret e il produttore di vino è uno di quei gialli in cui si scopre chi è l’omicida abbastanza per tempo, eppure ha il pregio di mantenere un’apprezzabile tensione fino all’ultima pagina, e ciò nonostante si vada progressivamente instaurando una sorta di simpatia del commissario per il reo, tanto che ancora una volta rifulge la straordinaria umanità di Maigret, tanto propenso ad aiutare, ove possibile, gli umili e i diseredati quanto capace di mostrare il suo disprezzo per certi pesci cani capitalisti avvezzi a offendere l’altrui dignità. Un Simenon al meglio attrae il lettore con un Maigret, come al solito bravo, ma sempre capace di comprendere le ragioni degli altri, nei confronti dei quali dimostra il suo senso di pietà.

Da leggere.

Georges Simenon, nato a Liegi nel 1903, morto a Losanna nel 1989, ha lasciato centonovantatre romanzi pubblicati sotto il suo nome e un numero imprecisato di romanzi e racconti pubblicati sotto pseudonimi, oltre a volumi di «dettature» e memorie. Il commissario Maigret è protagonista di 75 romanzi e 28 racconti, tutti pubblicati fra il 1931 e il 1972. Celebre in tutto il mondo, innanzitutto per le storie di Maigret, Simenon è anche, paradossalmente, un caso di «scrittore per scrittori». Da Henry Miller a Jean Pauhlan, da Faulkner a Cocteau, molti e disparati sono infatti gli autori che hanno riconosciuto in lui un maestro. Tra questi, André Gide: «Considero Simenon un grande romanziere, forse il più grande e il più autentico che la letteratura francese abbia oggi»; Walter Benjamin: «… leggo ogni nuovo romanzo di Simenon»; Louis-Ferdinand Céline: «Ci sono scrittori che ammiro moltissimo: il Simenon dei Pitard, per esempio, bisognerebbe parlarne tutti i giorni».
Renzo Montagnoli

 

30 Agosto

I Celti in Italia

Storia di un popolo

di Venceslas Kruta e Valerio Massimo Manfredi

Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Saggio storico

 

Guai ai vinti

Credo che ben pochi non abbiano mai ascoltato un brano di musica celtica e che sempre pochi non l’abbiano apprezzato, non siano rimasti impressionati da uno stile melodico che, pur espressione della musicalità di poche identità nazionali, tuttavia trova larghi consensi un po’ in tutto il mondo. Dei Celti, di questo grande popolo, resta al giorno d’oggi ben poco, uno sparuto numero di discendenti concentrato soprattutto all’estremo dell’Europa occidentale, prevalentemente in Irlanda e Scozia. E’ naturale pertanto chiedersi chi erano i Celti che, divisi in tribù, sovente nemiche, occuparono fra il V e il III secolo avanti Cristo larga parte del nostro continente, dalle rive dell’Oceano Atlantico all’Anatolia e che ovviamente furono presenti anche in Italia, dove diedero del filo da torcere a Roma repubblicana.  Chi non ha mai sentito parlare dei Galli alzi la mano, perché la figura imponente di questi guerrieri, che usavano come copricapo un elmo con ai lati due corna di toro, sono entrati nell’immaginario collettivo, complici anche i fumetti e le pellicole con protagonista Asterix. Benché i Romani amassero definire gli stranieri come barbari, termine che in epoca odierna ha un significato spregiativo, i Celti erano colti, evoluti, in possesso di tecniche di coltivazione particolarmente efficienti, erano capaci di costruire città, come l’attuale Milano, di coniare monete, di realizzare armi e gioielli di pregevole fattura. I Celti in Italia, che sarebbe improprio definire un libro scritto a quattro mani – e più avanti spiegherò il perché – ha il pregio di fare abbastanza luce sull’insediamento di queste popolazioni nella nostra penisola, che a volte avvenne senza traumi nell’incontro con i popoli che vi dimoravano, in primis gli etruschi, e altre invece furono il risultato di guerre aspre e feroci. Al riguardo memorabili furono gli scontri con Roma che venne addirittura conquistata, evento ricordato negli insegnamenti scolastici con la famosa frase di Brenno, il condottiero dei Galli, che a fronte delle rimostranze dei senatori che pagavano in oro la libertà e che si erano accorti che la bilancia su cui veniva pesato era stata volontariamente starata a loro sfavore, sbottò con un “Guai ai vinti”, buttando la sua spada sul piatto di contrappeso e aumentando così lo sbilanciamento. Poi, dopo numerose guerre, che non si protrassero solo per alcuni anni, ma addirittura per dei secoli, Roma la spuntò e i Galli vennero assoggettati. La particolarità di questo saggio e che i due autori hanno scritto “a solo” ognuno alcune parti dello stesso, e così Venceslas Kruta  ha stilato l’Introduzione, il capitolo I, parte del capitolo III (dalla pagina 130 alla 143) parte del IV e del V (rispettivamente, dalla pagina 163 alla 166,e dalla pagina 194 alla 202), nonché l’intera Bibliografia; Valerio Massimo Manfredi, invece, ha scritto il capitolo II e parte dei capitoli III (dalla pagina 101 alla pagina 130), del capitolo IV (dalla pagina 145 alla 163, dalla pagina 166 alla 168)  e del capitolo V (dalla pagina 169 alla pagina 194). Si potrebbe pensare che questo modo di procedere abbia avuto influssi negativi sull’opera, ma non è cosi: a fronte  di un Kruta che procede con la nota prudenza dello storico esperto e che, pur fornendo notizie assai interessanti, mostra tendenzialmente uno stile accademico che a volte può risultare un po’ greve, c’è l’esposizione più fluente e anche più coinvolgente di Manfredi, studioso probabilmente più noto per i suoi romanzi storici.

Il libro, comunque, si legge con piacere ed è anche per questo che lo consiglio.  

Venceslas Kruta (Saumur, 4 novembre 1939) é un archeologo e storico francese, specializzato nella protostoria d’Europa. Professore emerito della Sorbona, è giustamente famoso per i suoi studi sui Celti.

 Valerio Massimo Manfredi (Modena, 1943), scrittore, archeologo, topografo del mondo antico, ha condotto spedizioni archeologiche in molte località del Mediterraneo.
Dopo essersi laureato in Lettere Classiche all'Università di Bologna è subito entrato nel mondo dell'archeologia, specializzandosi in topografia del mondo antico all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
Ha insegnato nella stessa Università Cattolica dal 1980 all'86, per poi iniziare un’intensa carriera accademica prima all'Università di Venezia (1987) e dopo presso prestigiose Università americane fino alla Loyola University of Chicago, all'Eçole Pratique des Hautes Etudes della Sorbona di Parigi e alla Bocconi di Milano.
Tra gli anni Settanta e gli Ottanta ha progettato e condotto le spedizioni Anabasi per la ricostruzione sul campo dell'itinerario della ritirata dei Diecimila, ma sono numerose le sue partecipazioni a campagne di scavo: Lavinium, Forum Gallorum, Forte Urbano in Italia. Prestigiose quelle condotte in terra straniera come ad Har Karkom, in Israele e la Campagna di ricognizione e rilievo con Timothy Mitford sul sito del “Trofeo dei Diecimila” in Anatolia orientale (2002). Ha tenuto conferenze e seminari in alcuni dei più prestigiosi atenei come il New College di Oxford, University of California Los Angeles, lectio magistralis alla National University of Canberra (Australia), inoltre lectio magistralis all'Università dell'Avana, Cuba, Universidad de Antiochia, Medellin (Colombia), Universidad de Bilbao, Universidad Internacional Menendez Pelayo (Tenerife) e molte altre.
Saggista, giornalista, sceneggiatore e brillante divulgatore, si è affermato come scrittore di grande successo internazionale con la trilogia "Aléxandros", da cui è stato tratto un film. Tra i suoi saggi: La strada dei Diecimila (1986), Le isole fortunate (1990); con Luigi Malnati Gli Etruschi in Val Padana (1991); con Lorenzo Braccesi Mare greco (1992) e I greci d'Occidente (1996); con Vencenslav Kruta I celti d'Italia (1999). Tra le opere di narrativa: PalladionLo scudo di TalosL'oracoloLe paludi di HesperiaLa torre della solitudineIl faraone delle sabbieChimairaIl tiranno (2003), L'impero dei draghi (2005), L'ultima legione (2007), Idi di marzo (2008), Otel Bruni (2011), la serie "Il mio nome è Nessuno" (2012-2014). Per ragazzi ha pubblicato Il romanzo di Alessandro (2005) e Il romanzo di Odisseo (2014). 
È autore anche di alcune raccolte di racconti e di saggi. 
Ha scritto inoltre la sceneggiatura di "Gilgamesh". Ha adattato per il cinema Le Memorie di Adriano di M.Yourcenar per John Boorman. Conduce programmi culturali televisivi in Italia e all'estero, collabora con "Il Messaggero" e "Panorama".

Renzo Montagnoli

 

27 Agosto

Senz’anima

Italia 1980 – 2010

di Massimo Fini

Chiarelettere Edizioni

www.chiarelettere.it

Politica e attualità

 

E ogni giorno che passa è sempre peggio

Da buon giornalista e acuto osservatore del mondo che ci circonda Massimo Fini ha scritto numerosi articoli pubblicati su quotidiani e su periodici e in questo volume (Senz’anima) riporta quelli che hanno visto la luce fra il 1980 e il 2010, lasso di tempo in cui finisce la prima repubblica e nasce la seconda. A onor del vero non mi sono accorto di questa cessazione e di quest’inizio, perché nella tormentata storia italiana è una continua involuzione che vede uno stato divorare se stesso. Ha ragione Massimo Fini quando parlando dell’Italia scrive che è un paese privo di princìpi, votato solo al Dio denaro, senza dignità e senza onore, appestato dalla mafia, corrotto, con le sue arcinote bellezze naturali che corrono il rischio di diventare un ricordo. Un punto di vista drastico, assolutistico? No, condivisibile senz’altro ove si tenga conto che le parole che i politici spendono sono solo bla bla bla, intrise di una retorica da avanspettacolo e senza peso, se non quello del fastidio alle orecchie di chi ascolta, sempre che sia abbastanza disincantato per prenderle per quello che sono: delle puttanate.  Le conclusioni che ho tratto da questa interessantissima lettura sono motivo anche di grande dispiacere, ma non posso, né devo ignorarle e, soprattutto, credo sia giusto che altri possano venirne a conoscenza.

La storica dicotomia destra e sinistra è sparita, con la sinistra che vuole assomigliare alla destra, e viceversa, con il risultato che le idee non esistono più. Non bastasse tutto questo, abbiamo avuto all’incirca un altro ventennio con Silvio Berlusconi, il Cavaliere dello sfascio, con la sua corte di nani, leccaculi e puttane. Credevamo che si fosse toccato il fondo, ma per il peggio c’è sempre spazio. E poi, dopo gli anni di piombo, i risvolti delle logge massoniche, gli intrecci con le mafie fanno dire che si è perso il senso della stato, ma lo stato non c’è mai stato, è sempre stata un’entità incorporea dietro cui si trinceravano i potenti di turno e quindi lo stato non siamo noi, sono loro, i pochi, fortunati imbroglioni. Va bene che qualcuno potrebbe obiettare che sono le opinioni di un anarchico, e Massimo Fini lo è, ma esulando da questo preconcetto a guardar bene le cose ci si accorge che è anche colpa nostra, colpa della nostra incapacità a considerarci a tutti gli effetti un unico popolo, come se cento anni di unità d’Italia fossero trascorsi invano, e quella nazionalità diventata Stato fosse un’imposizione a cui non eravamo interessati. Forse è stato così, ma in ogni caso oggi siamo una Nazione e come tale dobbiamo cercare di farla andare per il meglio, con qualsiasi mezzo, togliendo anche forza a chi ostinatamente da anni rema contro.

Imperdibile.

Massimo Fini, scrittore e giornalista, ha pubblicato per Marsilio La Ragione aveva Torto? (1985, 2014), Elogio della guerra (1989, 2011), Il denaro. «Sterco del demonio » (1998, 2012), Il vizio oscuro dell’Occidente. Manifesto dell’Antimodernità e Sudditi. Manifesto contro la Democrazia (2002 e 2006; 2004; nuova edizione tascabile in un unico volume 2012), Il Ribelle. Dalla A alla Z (2006, 2014) – i sei volumi sono raccolti in La modernità di un antimoderno. Tutto il pensiero di un ribelle (2016) –, Il Conformista (1990, 20113), Di[zion]ario erotico. Manuale contro la donna a favore della femmina (2000, 2014), Ragazzo. Storia di una vecchiaia (2008, 2012), Il Dio Thoth (2009), Il Mullah Omar (2011), Nerone. Duemila anni di calunnie (1993, 2013), Nietzsche. L’apolide dell’esistenza (2009, 2014), Una vita. Un libro per tutti. O per nessuno (2015). Per Chiarelettere ha pubblicato Senz’anima. Italia 1980-2010 (2010, 2012) e La guerra democratica (2012)
Renzo Montagnoli

 

24 Agosto

Il porto delle nebbie

di Georges Simenon

Traduzione di Fabrizio Ascari

Edizioni Adelphi

www.adelphi.it

Narrativa romanzo

Collana gli Adelphi – Le inchieste di Maigret


Indagine nella nebbia

Pubblicato nel 1932 Il porto delle nebbie fu scritto a bordo dell’Ostrogoth, il cutter che Simenon si era fatto costruire e attrezzare a Fécamp, ancorato nel porto di Ouistreham, dove si svolge l’intera vicenda. Avvolta sovente dalle nebbie la località marittima della Bassa Normandia è il teatro di una trama piuttosto intricata, in un’atmosfera di costante e inclemente tensione, in cui accade di tutto, perfino che il celebre commissario Maigret sia costretto a trascorrere una piovosa nottata legato come un salame e disteso sul molo. Ben conoscendo (ormai ne ho letti diversi) i gialli con protagonista l’infallibile detective è uno dei pochi casi in cui prevale l’azione. Beninteso non è che Maigret si metta a effettuare spericolati inseguimenti o sia costretto a sparare, ma la dinamica delle indagini è tale da riservare frequenti colpi di scena in cui addirittura si arriva a un furioso corpo a corpo. C’è un ex capitano di lungo corso, poi in pensione e diventato responsabile del porto di Ouistreham, che viene trovato a Parigi a vagare in stato confusionale, e che soccorso non capisce nulla di quel che gli si chiede e nemmeno parla.

E’ solo un caso fortuito che permette di scoprire chi é e sulle sue condizioni di salute grava una ferita da proiettile al cranio, peraltro operato con notevole perizia. Chi gli ha sparato? Perchè? Proprio per questo Maigret avvia le indagini e accompagna il capitano Joris (così si chiama quello che per un po’ era uno sconosciuto) alla sua casa a Ouistreham, da cui mancava da parecchi giorni. Nel corso della notte tuttavia l’uomo muore, avvelenato dalla stricnina.  Il piccolo borgo, umido di nebbia, popolato di marittimi e di pescatori diventa così il teatro dell’indagine, in cui tutti, o comunque quasi tutti i soggetti interessati sanno, ma non intendono parlare, in una sorta di omertà che manda in bestia il commissario. Fra fortunali e ancora nebbie il massiccio investigatore si muove con la massima determinazione e dà l’impressione sin dalle prime battute di aver capito molte cose, di cui tuttavia, invano, chiede le conferme. Si arriva così alla fine con il colpevole che non viene assicurato alla giustizia, ma che paga la sua colpa in altro modo,  con soddisfazione di Maigret che manifesta la sua grande umanità nei confronti degli altri sospettabili, vittime in altro modo del reo che è un esponente di quella borghesia di provincia che Simenon non solo non ha mai amato, ma che ha dipinto nelle sue opere quasi sempre in modo impietoso.

Il porto delle nebbie,  che nulla ha a che fare con il famoso film dall’eguale titolo diretto nel 1938 da Marcel Carné,  è un ottimo poliziesco, capace di avvincere il lettore dall’inizio alla fine, ed è pertanto da me più che consigliato.  

Georges Simenon, nato a Liegi nel 1903, morto a Losanna nel 1989, ha lasciato centonovantatre romanzi pubblicati sotto il suo nome e un numero imprecisato di romanzi e racconti pubblicati sotto pseudonimi, oltre a volumi di «dettature» e memorie. Il commissario Maigret è protagonista di 75 romanzi e 28 racconti, tutti pubblicati fra il 1931 e il 1972. Celebre in tutto il mondo, innanzitutto per le storie di Maigret, Simenon è anche, paradossalmente, un caso di «scrittore per scrittori». Da Henry Miller a Jean Pauhlan, da Faulkner a Cocteau, molti e disparati sono infatti gli autori che hanno riconosciuto in lui un maestro. Tra questi, André Gide: «Considero Simenon un grande romanziere, forse il più grande e il più autentico che la letteratura francese abbia oggi»; Walter Benjamin: «… leggo ogni nuovo romanzo di Simenon»; Louis-Ferdinand Céline: «Ci sono scrittori che ammiro moltissimo: il Simenon dei Pitard, per esempio, bisognerebbe parlarne tutti i giorni».
Renzo Montagnoli

 

19 Agosto

Teresa Raquin

di Émile Zola

BUR Biblioteca Universale Rizzoli

Narrativa romanzo

Il delitto non paga mai

Probabilmente Teresa Raquin è il romanzo più famoso di Emile Zola e, per certi aspetti, differisce da altri del medesimo autore, in particolare dallo splendido Germinal.  La vicenda narrata non è una storia di lotte di classe, ma è un quadro intimistico di insoddisfazioni e lacerazioni latenti a cui i protagonisti si illudono di porre rimedio con un delitto, quello del marito di Teresa, annegato dall’amante Lorenzo. L’opera è caratterizzata da un colore dominante, il grigio, perché grigia è l’esistenza della scialba Teresa come anche quella di Lorenzo, due protagonisti che in apparenza sembrano in antitesi, ma che in realtà, nelle contorte vie delle menti malate, sono la coppia ideale; fra i due però non c’è amore, c’è solo passione bestiale, erotismo sfrenato in un’insaziabile e inconsapevole voglia di autodistruzione. Fra i personaggi di contorno, la vecchia zia di lei e madre del marito Camillo, Camillo stesso e altri minori scorrono come ombre su un palcoscenico dominato in tutti i sensi dagli amanti diabolici. La passione carnale che nasce fra i due, i piani per sopprimere il marito terzo incomodo sono descritti in modo perfetto da Zola, senza mai una caduta di ritmo, così come il periodo di vedovanza, con l’astensione dal manifestare una relazione sempre tenuta accuratamente nascosta, al fine di non destare sospetti nella polizia. Quello che può sembrare un delitto perfetto, e lo sarà perché mai l’autorità giudiziaria supporrà qualcosa di di diverso dalla disgrazia, si rivelerà però un boomerang per i colpevoli, che nel lungo periodo in cui abilmente reciteranno l’una la sofferenza della vedova, l’altro lo sconforto per aver perso un amico, finiranno dapprima per affievolire e poi per far cessare del tutto la passione animalesca che tempo prima li aveva permeati. E anche quando, abilmente, faranno in modo che gli stessi amici e la madre dell’ucciso favoriscano il loro matrimonio, l’unione non sarà che una conseguenza di un patto stabilito nel momento in cui venne loro l’idea di togliere di mezzo il povero Camillo. Il senso di colpa comincerà a rodere, e con lo stesso subentreranno le paure, le notti insonni, gli incubi, le visioni del morto che li osserva, quasi come un romanzo horror, con il risultato di problemi psichiatrici ben più gravi e se la soluzione sembra essere trovata nell’eliminare il compagno, e a ciò pensano entrambi, in un momento di autentica pietà per se stessi comprenderanno che non ha più senso vivere.

Teresa Raquin è un romanzo a forti tinte, anche se vi domina il grigio, è un’opera in cui un naturalista come Zola è riuscito a dare il meglio di se stesso, con una tensione crescente e angosciante dal momento del delitto e che l’autore mantiene fino quasi alla fine, allorché la suprema decisione di Teresa e di Lorenzo sembra indicare il modo per regolare gli errori, per indicare a se stessi quella via che avrebbero dovuto prendere molto prima, per uscire dal grigio anche senza trovare il sole.

Il romanzo è un capolavoro.

Émile Zola (1840-1902), caposcuola del naturalismo francese, fu al centro di numerose polemiche artistiche (ad esempio, si schierò a favore degli impressionisti) e, nel famoso affaire, col suo J'accuse difese Dreyfus denunciando il complotto militarista reazionario e antisemita. Il ciclo dei Rougon-Macquart - avviato nel 1871 e concluso, dopo venti romanzi, nel 1893 - prende in esame tutti gli strati della società attraverso le vicende di personaggi appartenenti allo stesso ceppo familiare, ineluttabilmente condizionati da malattie e vizi ereditari, nonché, spesso, da condizioni sociali degradanti. L'assunto un po' schematico, che assomma determinismo e teorie dell'ereditarietà, è superato dalla capacità dello scrittore di condensare in personaggi e immagini memorabili le contraddizioni della modernità.
Renzo Montagnoli

 

3 Agosto

Tutte le poesie 1940 – 1953

di Rocco Scotellaro

Cura e nota di Franco Vitelli

Arnoldo Mondadori Editore S.p.a.

Poesia

 

Mai fu più intensa una così breve vita

Spesso ignorato, a volte appena oggetto di un accenno, l’opera del poeta ha rischiato di affondare nelle sabbie mobili dell’oblio, evento nefasto a cui non poco ha contribuito la figura dell’autore, poliedrica, interprete genuina di un ceto diseredato a cui ha tentato di dare una speranza. Certo la figura di Rocco

Scotellaro, sindacalista, uomo politico sindaco di Tricarico, avvolta nel mito ancor più reso incisivo dall’improvvisa scomparsa a soli 33 anni di età, splende a tal punto da correre il rischio di oscurare lo Scotellaro poeta, nonché narratore, artista di non poco conto, anzi fra i grandi della seconda metà dello scorso secolo.  Il rischio più grosso, però, fu che questa notevole produzione poetica restasse nei cassetti, ma per fortuna Carlo Levi, che aveva conosciuto Scotellaro negli anni del confino, la  rese nota con la pubblicazione nel 1954 di una raccolta intitolata E’ fatto giorno. Ci troviamo quindi di fronte all’atipico caso di un poeta postumo, giacché nella sua breve vita non ebbe la gioia di essere alla ribalta, almeno in questo campo. Successivamente seguirono pubblicazioni di altre raccolte, fino a quando non si decise di provvedere organicamente alla messa in stampa dell’opera omnia ed ecco allora il presente volume, secondo una ricostruzione e un accorpamento dei vari testi effettuata da Franco Vitelli che, nella nota introduttiva, precisa di averli divisi in quattro blocchi (E’ fatto giorno; Margherite e rosolacci; Frammenti ed epigrammi; Canti popolari). Credo che questa impostazione, oltre a rendere più omogenea la pubblicazione, abbia anche il pregio di cercare un accomunamento di tematiche che tendono meglio a delineare l’intrinseca elevata qualità di questa poesia neorealista.

In ogni caso le liriche, armoniche, sono di particolare bellezza nella loro varietà e, per dimostrarlo, eccone due: da Lucania ( M’accompagna lo zirlio dei grilli / e il suono del campano al collo / d’un inquieta capretta. /…) e da L’acqua piovana (Salute, miei parenti morti, / l’acqua piovana vi lava la faccia. /…).

Sullo sfondo c’è sempre la terra natia verso la quale il suo amore deve essere stato viscerale, come viscerale era quello per i suoi abitanti, per i miseri contadini delle valli, e in genere per tutti gli ultimi di questo mondo. Ecco che ritorna, in poesia, il forte impegno civile e sociale, come in Pozzanghera nera il diciotto aprile (Carte abbaglianti e pozzanghere nere…/hano pittato la luna / sui muri scalcinati!/ I padroni hanno dato da mangiare / quel giorno si era tutti fratelli, / come nelle feste dei santi / abbiamo avuto il fuoco e la banda. / Ma è finita, è finita è finita / quest’altra torrida festa / siamo qui soli a gridarci la vita / siamo noi soli nella tempesta. / E se ci affoga la morte / nessuno sarà con noi, / e col morbo e la cattiva sorte / nessuno sarà con noi. / I portoni ce li hanno sbarrati / si sono spalancati i burroni. / Oggi ancora e duemila anni / porteremo gli stessi panni./ Noi siamo rimasti la turba / la turba dei pezzenti, / quelli che strappano ai padroni / le maschere coi denti.). Direi che questa poesia è quella che meglio di tutte delinea Rocco Scotellaro sindacalista, politico e poeta, una fusione più unica che rara, un’immagine che  di per sé non ha bisogno di commenti. Le poesie di questo volume sono tante (468) e mi piacerebbe riportarne delle altre, ma sarebbe superfluo, perché non c’è di meglio che di leggerle piano piano, centellinando i versi, correndo con la mente a un mondo arcaico, a una civiltà contadina bruciata da un travolgente progresso industriale, e di cui non restano più nemmeno le ceneri, se non nei versi, spontanei, magari sofferti, ma appassionati di un uomo la cui vita, alquanto breve, fu intensa come una lunga combattuta esistenza.

Da leggere, perché i capolavori devono essere letti. 

Rocco Scotellaro (Tricarico, Matera, 1923 - Portici, Napoli, 1953) scrittore italiano. Dalla sua sofferta esperienza di militante socialista, impegnato a riscattare, anche con l’azione politica, la secolare degradazione del sottoproletariato rurale della Lucania, Scotellaro ricavò gli elementi costitutivi di un messaggio poetico (È fatto giorno, 1954, premio Viareggio; Margherite e rosolacci, 1941-1953, 1978) che esprime una genuina assimilazione dei moduli neorealistici, evidenziati nel saggio-inchiesta sui Contadini del sud (1954) e nell’abbozzo di romanzo L’uva puttanella (1955). Le opere, pubblicate postume, hanno generato contrastanti giudizi sul suo ruolo di attivista politico, di intellettuale contestatore e di suggestivo cantore di miti ancestrali della cultura contadina .
Renzo Montagnoli

 

31 Luglio

Fucilate gli ammiragli.
La tragedia della Marina italiana nella Seconda Guerra Mondiale

di Gianni Rocca

Castelvecchi Editore

Storia 

Non fu una grande Marina

Il 22 maggio 1944 gli ammiragli Inigo Campioni e Luigi Mascherpa furono giudicati a Parma dal Tribunale speciale per la difesa dello Stato; erano imputati di essersi arresi dopo l’armistizio dell’8 settembre, o addirittura di aver preso le armi contro gli ex camerati germanici. Tutto si svolse nell’udienza di un giorno, al termine del quale furono riconosciuti colpevoli e condannati a morte. C’era tuttavia la speranza, anche in parte dei fascisti, di una grazia da parte di Mussolini, che però si rifiutò di firmare il provvedimento di clemenza, così che all’alba del 24 maggio entrambi vennero fucilati. Perché così tanta ferocia, soprattutto nel Duce? Perché si riteneva che all’infausto procedere del conflitto molto avesse contribuito la Marina e in effetti, come le altre armi, anch’essa ci mise del suo, ma la colpa più grande era di chi, sapendo della nostra impreparazione a una guerra, decise lo stesso di parteciparvi, confidando nella buona sorte e nelle vittorie dei tedeschi. Mussolini aveva bleffato come un giocatore di poker e ora non restavano più carte da giocare; quindi, in una sorta di autodifesa, il duce andò a cercare dei capri espiatori, ben sapendo che le loro colpe erano di molto inferiori alle sue.

Fucilate gli ammiragli è un bel saggio storico di Gianni Rocca, in cui vengono messi in evidenza pregi (pochi) e difetti (molti) di quella che sulla carta pareva una fra le massime Marine al mondo. Avevamo, infatti, un apprezzabile numero di corazzate e di incrociatori e di naviglio minore, nonché la più grossa flotta sottomarina. Non c’erano però portaerei, perché non si erano volute, e anche la collaborazione con l’Arma Aeronautica lasciava alquanto a desiderare; se poi consideriamo che le decisioni strategiche e perfino tattiche spettavano a un organismo centrale (Supermarina) lontano anche più di mille miglia dal luogo dello scontro, lasciando quindi ben poca autonomia al comandante della flotta in mare, si può comprendere quanto faraginoso dovesse diventare un piano di battaglia, con inevitabili ricadute negative. Anche i mezzi erano inadeguati e pochi e in parecchi casi inferiori alle aspettative (i nostri incrociatori, che alle prove, alleggeriti e senza armamento, risultavano velocissimi, in battaglia diventavano lenti); non avevamo il radar, non eravamo addestrati al combattimento notturno, le salve dei nostri cannoni avevano una notevole dispersione e infine anche il mezzo che ci diede maggiori soddisfazioni, il sommergibile, aveva un castello troppo sviluppato, così che era lento a immergersi e i nostri siluri non erano elettrici, ma ad aria compressa, con le bolle che lasciavano una inequivocabile scia che permetteva di localizzare meglio l’arma subacquea. Notevoli risultati invece ottenemmo, per opera di pochi, con i siluri a lenta corsa, detti anche maiali, grazie ai quali furono gravemente danneggiate due corazzate britanniche nel porto di Alessandria. 

In ogni caso in nostri marinai non vennero mai meno al senso dell’onore e si impegnarono sempre al massimo delle possibilità. Tuttavia, fra i gerarchi non pochi furono quelli che a fronte di ripetute strane coincidenze arrivarono a pensare all’esistenza di uno o più traditori fra gli alti gradi della Marina; troppi infatti erano i convogli, che allestiti in segretezza, venivano attaccati, con gravi perdite di uomini e di materiali; purtroppo non si era a conoscenza che gli alleati, grazie a una copia di Enigma, la macchina cifratrice e decifratrice tedesca, catturata in modo rocambolesco, potevano mettere in chiaro tutti i messaggi in codice fra i nazisti e anche fra questi e i loro alleati.

Sì, anche la Marina avrà avuto le sue colpe, ma l’unica grande colpa fu quella del capo, di un Mussolini  che si illuse che l’Italia fosse una grande potenza, anche se  - e questo doveva ben saperlo – non lo era.

Da leggere.

Gianni Rocca (Torino22 ottobre 1927 – Roma20 febbraio 2006) è stato un  giornalista italiano, fra i fondatori del quotidiano La Repubblica. A partire dagli anni ottanta si è dedicato anche a scrivere opere di riflessione storica che hanno avuto grande successo. Al riguardo, fra le più note, si ricordano Cadorna, il generalissimo di Caporetto;  Fucilate gli ammiragli. La tragedia della Marina italiana nella seconda guerra mondiale; L’Italia invasa: 1943 – 1945; Stalin: quel “meraviglioso georgiano”; Caro revisionista, ti scrivo….
Renzo Montagnoli

 

29 Luglio


Sinossi di presentazione del volume

SINOSSI:
Un romanzo ambientato a Cesenatico negli anni ottanta, quando ancora non c’erano i telefonini, i computer ed i social network; quando per condividere una sensazione bisognava incontrarsi, parlarsi, toccarsi.
E’ la storia di Michele, un ragazzo del sud, che finita la scuola, per evitare lavori troppo manuali, “mette su di un treno la propria fantasia”,  per andare a fare la stagione in Romagna come aiuto-cuoco.
Parte a malincuore lasciando giù al sud la sua ragazza.
A Cesenatico incontra tante persone nuove e soprattutto  vive una forte amicizia con  Marco, ed un coinvolgimento emotivo, un “non amore”, solo per la paura di ammetterlo a se stesso, con Anna.
Casualmente  poi incontra   Sara che fa la prostituta, pur non sentendosi tale. Tra i due nasce subito una complicità, un’affinità di intenti,  di pensieri e tanta voglia di condividere ore e giorni, vita e tante parole.
Dopo una prima parte descrittiva il romanzo entra nel vivo della storia dando vita alle emozioni dei suoi giovani protagonisti.
Un lungo racconto  ironico e agrodolce come la vita.
Una storia di ventenni, di lavoro, di amicizia, di delusioni e riscatti,  di amore. Sì, di “amore”, perché se come dice qualcuno,  non esiste, c’è poco da fare o da recriminare,  non siamo altro che “Figli di uno schizzo”.
Michele, Sara e Anna con le loro prospettive di futuro, con la  loro voglia di lottare e cambiare riusciranno a dimostrarci il contrario, vivendo e raccontandosi con semplicità ed onestà. Regalandoci progetti, sorrisi, lacrime ed emozioni.


Scrivo da sempre. Ho sempre raccolto le idee su pezzi di carta.
Dal 2000 ho cominciato  ad unire le parole e a formare racconti. Fino al 2007 ho pubblicato due libri ( 2001 LUNGO LA STRADA DEL TEMPO edizioni Spartaco – 2007 CHIEDILO ALL’AMORE Albus edizioni), pubblicato racconti in diverse raccolte, organizzato siti e concorsi letterari, ho avuto esperienze editoriali. Poi una decina d’anni di distrazioni mi  hanno portato su altre strade.
“Figli di uno schizzo” è il primo romanzo di un nuovo inizio.
Giuseppe Bianco

 

 

23 Luglio

Come le mosche d’autunno

di Irène Nèmirovsky

Traduzione di Graziella Cillario

Edizioni Adelphi

www.adelphi.it

Narrativa

Collana Piccola Biblioteca Adelphi

 

Il rimpianto

E’ indubbio che nei romanzi si ritrova anche l’esperienza maturata dall’autore, un po’ della sua vita e in Irene Némirovsky ciò è particolarmente accentuato, esule come aveva dovuto essere e inevitabilmente con una sorta di rimpianto per il paese natio. In questo senso la figura della protagonista di Come le mosche d’autunno, la vecchia njanja Tat’jana Ivanovna, governante di casa Karin, riassume, per quanto spinta all’eccesso, quell’innata nostalgia che doveva aver provato la narratrice russa.  In quella casa si ha l’impressione che ci sia sempre stata e il rapporto di lavoro, poco a poco, ha assunto caratteristiche diverse, si è radicato in Tat’jana un affetto per quella famiglia non sua perfino superiore a quello che avrebbe provato se lei stessa ne fosse stata membro dalla nascita. I vecchi padroni, i signorini, insomma i padroni per lei non sono tali, sono quasi dei padri, dei fratelli. Un tempo lì la vita era trascorsa tranquilla, ma poi, con l’avvento del nuovo secolo, si era manifestata in Russia un’agitazione per molti incomprensibile e, fra rivendicazioni di una maggior libertà, si era arrivati allo scoppio della prima guerra mondiale e infine alla rivoluzione, alla fuga dal paese dei nobili e dei ricchi. Questa era stata la sorte della famiglia Karin, esule in Francia, a Parigi, sempre presente la governante Tat’jana.  Ambientarsi a una nuova vita non è sempre facile e se ciò non risulta difficile per i giovani rampolli, che non hanno fatto in tempo a fossilizzarsi in un’esistenza sul suolo russo e avendo davanti a sé molti anni per abbracciare un nuovo corso, per i genitori, più anziani, è un vero problema e dapprima trascorrono il tempo camminando da una parete all’altra del loro appartamento, come le mosche in autunno, e infine riescono a dare una svolta, perché l’istinto di sopravvivenza è nei più duro a morire. Non sarà così per Tat’jana, legata visceralmente ai propri ricordi, alla neve che in quella città le manca tanto.

Come le mosche d’autunno, più che un romanzo breve, mi pare un racconto lungo, intenso, drammatico, venato da una dolente nota di malinconia, permeato dal rimpianto per ciò che fu e che poi non sarà più.  Le pagine scorrono veloci, avvincono il lettore, l’analisi dei personaggi è approfondita, ma lo stile snello non appesantisce, è in grado di fornire una serie di quadri che restano scolpiti nella mente come memorie non nostre, ma fatte nostre.

Irène Némirovsky   (Kiev, 11 febbraio 1903; Auschwitz, 17 agosto 1942).

Figlia di un ricco banchiere ebreo, si trasferì con la famiglia in Francia all’avvento del regime sovietico. Nella sua breve vita scrisse numerosi romanzi di grande successo, sovente pubblicati postumi.  Fra questi si ricordano Suite francese, David Golder, I doni della vita, I cani e i lupi, Il vino della solitudine  e Il ballo.
Renzo Montagnoli

 

16 Luglio

Benedizione

di Kent Haruf

Enne Enne Editore

www.nneditore.it

Narrativa romanzo


Così è la vita

Holt in Colorado, una cittadina rurale che probabilmente non esiste, ma che è in tutto e per tutto simile ad altre piccole realtà degli Stati Uniti; in questo luogo, lontano dai richiami delle grandi città, come Denver, che nel romanzo ogni tanto appare, si consuma l’esistenza dei suoi abitanti, senza scossoni, senza velleità, ma anche senza particolari patemi, assenti per una sorta di innata rassegnazione. Lì si nasce, si cresce, si fa sesso, si invecchia e si muore, nè più né meno come in ogni altro posto del nostro pianeta e in sé le storie dei suoi abitanti non avrebbero nulla di particolare o di interessante se a raccontarle non fosse un artista di grandissimo talento che risponde al nome di Kent Haruf. Giunto al successo piuttosto tardi questo narratore che taluni tendono a paragonare per la sua scrittura asciutta a Hemingway, ma che io credo possa essere meglio comparato per lo stile sì senza fronzoli, ma incalzante, a Faulkner, ha stilato un trittico di opere a cui è stato dato il titolo di Canto della pianura. Certo lì montagne non ce ne sono e forse canto può apparire un po’ pretenzioso, ma se guardiamo la straordinaria umanità con cui Haruf ha disegnato i suoi personaggi, esseri umani normalissimi, ognuno con un suo segreto, devo riconoscere che è riuscito a confezionare un romanzo capace di toccare le corde più sensibili di ognuno di noi, senza enfasi, senza stimoli assidui, ma semplicemente narrando di protagonisti che non sono né eroi, né martiri, sono semplicemente vite che appaiono in strade polverose e scompaiono nelle stesse.  A fronte di un soggetto principale, Dad Lewis, non più giovane, anzi anziano, che si appresta al commiato definitivo dalla sua famiglia, perché il male di cui soffre è incurabile, compaiono altri personaggi, nessuno inferiore e nessuno superiore agli altri: la moglie, che non si rassegna alla futura perdita, la figlia, che per l’occasione è tornata alla casa dei genitori e che porta con sé il dolore per la scomparsa della sua bambina investita da un’automobile, le vicine di casa, di cui le dirimpettaie sono una nonna vedova con una nipotina orfana, un’anziana madre, pure vedova, e sua figlia, ormai incamminata verso un sicuro zitellaggio dopo una combattuta storia d’amore con un uomo sposato, il pastore Lyle, esiliato in una parrocchia minore perché, fervido credente, cerca di praticare alla lettera, e invita a farlo anche gli altri, quanto c’è scritto nel Vangelo, attirandosi le ire di non pochi fedeli e, soprattutto, della moglie e del figlio, che lo considerano un buono a niente. Le loro storie si sviluppano, si dilatano, finiscono per venire a contatto e, senza essere travolgenti, riescono ad avvincere al punto che l’immaginazione sembra quasi materializzarsi. Alla fine il povero Dad lascia questo mondo, come era logico, ma non c’è niente di drammaticamente commovente, perché Haruf sembra dire che la vita è così: si nasce, si cresce, si muore, perché non siamo che di passaggio. Dopo verranno altre genti, altre stagioni, in un ciclo senza mai fine.

E’ un romanzo senz’altro stupendo e che lascia alla fine il lettore in uno stato di appagante serenità.

Kent Haruf (1943-2014) è stato uno dei più apprezzati scrittori americani, ha ricevuto diversi riconoscimenti, tra cui il Whiting Foundation Award e una menzione speciale dalla PEN/Hemingway Foundation. Con il romanzo Il canto della pianura è stato finalista al National Book Award, al Los Angeles Times Book Prize, e al New Yorker Book Award. Con Crepuscolo, secondo romanzo della Trilogia della Pianura, ha vinto il Colorado Book Award. Benedizione è stato finalista al Folio Prize.
Renzo Montagnoli

 

12 Luglio

Versi di lotta e di passione

di Vincenzo D’Alessio

Edizioni Gruppo Culturale F. Guarini

Poesia

 

La dignità, nient’altro che la dignità

Non è un caso se questa raccolta poetica riporta, dopo la dedica ai figli, gli ultimi quattro versi di Pozzanghera nera il 18 aprile (Noi siamo rimasti la turba / la turba dei pezzenti, / quelli che strappano ai padroni / le maschere coi denti), poesia in cui il grande Rocco Scotellaro riassume in modo encomiabile il profondo disagio delle genti meridionali e, per estensione, di tutti coloro che, schiacciati dalla prepotenza dei padroni, sono gli ultimi, benché non secondi a nessuno. Carlo Levi coniò per questo grandissimo autore lucano l’appellativo di poeta della “libertà contadina”; purtroppo lasciò questo mondo che aveva appena trentanni, ma se la morte lo colse troppo presto i semi della sua passione hanno attecchito, pochi forse, ma sufficienti a perpetuare un ideale che sempre esisterà fino a quando uomini prevarranno sistematicamente su altri uomini. Uno di questi semi ha il nome di Vincenzo D’Alessio, un meridionale pure lui, che ha nel cuore la sofferenza di tanti, troppi oppressi. Non si tratta di una scelta politica in senso stretto, ma di un fuoco sempre vivo che lo ispira, lo porta a scrivere versi come questi: Il dolore dei poveri / fa sorridere il mondo / La morte fa notizia /dal telegiornale/…; oppure Attenti al sistro del vento / al ventaglio dei politici / alla falsa materia. Cristo / viene ucciso su questa terra / in ogni momento e non si / chiama Roma!.  Certo la realtà di un meridione dagli eterni e  stridenti contrasti fra bene e male, fra ricchezza e miseria, fra la tanta gente onesta che subisce e la malavita che soffoca, che condiziona, che toglie ogni speranza, influiscono notevolmente sulla produzione letteraria di D’Alessio, ma si sbaglierebbe a considerarlo solo il cantore del sogno del Sud, di un mondo più giusto, di una dignità totale e non effimera, perché i Sud del mondo sono tanti, sono le favelas del Brasile, le baraccopoli dell’Africa, la rassegnazione di tanti giovani, in meridione come in settentrione, che non trovano lavoro. No, D’Alessio è di più, è la voce di un impegno civile che sgorga dal petto e che non si rassegna mai, non demorde, continua in una lotta a oltranza, sorretto dalla passione propria di chi non può restare indifferente. Il suo è un grido pacato, ma è un grido, una luce che brilla, un faro per una torma di naviganti cenciosi che anelano a un mondo migliore.  Non c’è astio, non c’è violenza in questa lotta verbale, ma forse sono proprio le parole che, restando, feriscono più di una spada, sono i silenzi attoniti a rimbombare all’intorno, è un canto che ha la levità di una preghiera e la forza di un pugno che colpisce allo stomaco.

Questo e altro è Versi di lotta e di passione e credo che se Rocco Scotellaro potesse leggere questa silloge ne sarebbe contento e direbbe: “Non ho seminato invano.”.  

Vincenzo D’Alessio   è nato a Solofra nel 1950. Laureato in Lettere all’Università di Salerno è stato l’ideatore del Premio Città di Solofra, nonché il fondatore del Gruppo Culturale “Francesco Guarini” e dell’omonima casa editrice. Acuto e attento critico letterario, ha pubblicato anche saggi di archeologia e storia (v. bibliografia Polo SBN di Napoli). Diverse le raccolte poetiche che anno ricevuto premi e riconoscimenti, la più recente è La valigia del meridionale ed altri viaggi (Fara 2012, seconda edizione 2016 ). Nel 2014 vince con Il passo verde la pubblicazione in Opere scelte (Fara 2014). La tristezza del tempo è inserita in Emozioni in marcia (Fara 2015). Con Alfabeto per sordi è tra i vincitori del concorso Rapida.mente ed è stato inserito nell’omonima antologia (Fara 2015). Tutte e tre le sillogi sono riproposte in appendice a Immagine convessa.
Renzo Montagnoli

 

9 Luglio

Il popolo che manca

di Nuto Revelli

Edizioni Einaudi

Saggistica storica

 

C’era una volta

C’era una volta, come nelle favole - ma qui di favola non si tratta - una vita imperniata sull’agricoltura, di gente che appena sopravviveva alle quotidiane tempeste di un destino ingrato e classista. I contadini, di cui ha raccolto numerose e variegate testimonianze Nuto Revelli, sono quelli della campagna piemontese, delle prospettive collinari del cuneese specialmente, gente sopravvissuta e che racconta come era un certo mondo nemmeno tanto tempo fa. Se Ferdinando Camon ha descritto mirabilmente nei suoi romanzi la fine della civiltà contadina, a parlarcene in Il popolo che manca sono i diretti interessati, superstiti di un mondo che si stenta a credere possa essere esistito. Sono storie di miseria, di quella nera, dei bambini che non hanno un’infanzia, perché già subito chiamati a un lavoro estremamente disagiato; sono episodi rammentati e che vengono svelati nei tormenti dei ricordi di cui rari sono quelli buoni, quelli che ancora muovono al sorriso chi li ha estratti dai reconditi antri della memoria. Un’umanità dolente popola queste pagine in cui nulla sfugge, nessun aspetto di una vita quasi da inferno viene taciuto. Non c’è enfasi nella narrazione di chi parla di se stesso e del suo passato, non c’è nemmeno un’inclinazione a un vagheggiato eroismo, resta solo la consapevolezza di essere appartenuti a una società atavica, perennemente immobile, poi di colpo cancellata da  un progresso dirompente.  Come si nasceva, come si viveva, come si moriva, il lavoro bestiale e pure tanto agognato, perché sempre non c’era, l’emigrazione, unica estrema risorsa, le relazioni fra uomini e donne,  la fede e la superstizione, le guerre, le solitudini dei montanari, sembrano quasi un film, o meglio un documentario, su una civiltà scomparsa. Le voci sono piemontesi, ma potrebbero essere lombarde, venete, abruzzesi , perché fra questi paria non c’erano differenze e la fame era uguale per tutti.

Eppure, nel tono di chi ricorda c’è una sottile vena di rimpianto per un’età che, se d’oro non è mai stata, però aveva una caratteristica ormai desueta: la solidarietà; e la solidarietà fra poveri vuol dire anche donare quello che non si possiede dalla nascita, ma che la durezza della vita ha fatto sorgere: la pietà per se stessi da cui scaturisce la disponibilità ad aiutare gli altri.

Il popolo che manca è semplicemente bello, è uno di quei libri che si leggono facilmente e volentieri e che fanno capire quanto la nostra opulenta società sia debitrice di un passato che reclama almeno il ricordo.

Nuto Revelli (Cuneo, 1919-2004), ufficiale degli alpini in Russia e protagonista della Resistenza nel cuneese, si è battuto per anni per dare voce ai dimenticati di sempre: i soldati, i reduci, i contadini delle campagne piú povere. Tra i suoi libri, tutti editi da Einaudi, La guerra dei poveri (1962), La strada del davai (1966 e 2010), Mai tardi (1967 e 2008) , L'ultimo fronte (1971 e 2009) , Il mondo dei vinti(1977), L'anello forte (1985) Il disperso di Marburg (1994 e 2008), Il prete giusto (1998 e 2008), Le due guerre (2003 e 2005). 
Renzo Montagnoli

 

6 Luglio

Cadorna

Il generalissimo di Caporetto

di Gianni Rocca

Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Storia biografia

 

Il macellaio

Non credo che le conclusioni che si ritraggono da questo libro possano infangare l’onore di un uomo, perché non si tratta di illazioni, bensì di fatti, di circostanze ampiamente documentate da cui emerge che, al di là degli errori di un comandante in capo, il suo comportamento verso i sottoposti era tipico di chi, illudendosi di essere un superuomo, considera gli altri delle totali nullità, dei numeri, una massa indistinta buona solo da mandare al macello.

In buona sostanza, non è tanto la disfatta di Caporetto che può essere considerata una macchia indelebile nella carriera di questo militare, ma è soprattutto quel suo cinismo, quella sua mancanza di umanità che lo portava a non considerare gli altri, i subordinati.

Se avesse avuto un minimo di cuore, avrebbe almeno provato a cambiare tattica nelle sanguinose battaglie dell’Isonzo, a evitare morti del tutto inutili per difendere un fazzoletto di terra indifendibile. Qualora, poi, non avessero provveduto il fuoco nemico o le malattie a far strage dei nostri soldati,  un errato concetto di disciplina di questo macellaio gli faceva credere che si dovessero temere più i propri superiori che l’avversario austriaco, e così anche semplici, spontanee e giustificate proteste sfociavano nell’aberrante pratica della decimazione. Era il fronte interno, erano i socialisti a fomentare la truppa, secondo Cadorna, che non si chiese mai in che reali condizioni combattessero i nostri fanti, immersi nel fango, quasi sempre all’addiaccio, un rancio poco stimolante e povero di calorie, nessun periodo lontano dalla prima linea, se non sovente dopo mesi, insomma l’inferno in terra.  Per il comandante in capo era diverso, lontano dal fronte, al sicuro, in un comodo alloggio e con cibo squisito e abbondante. Questo è il Cadorna peggiore dal lato umano, ma non è che anche come militare fosse una cima; lui credeva di esserlo, non aveva autocritica e in cambio guai a esprimere pareri in contrasto con le sue idee, perché era l’immediato trasferimento di un generale a un incarico minore, magari in prossimità o nel bel mezzo di una battaglia. E a proposito di tecnica militare, se forse come tattico era passabile, come stratega era una nullità; non si spiegherebbero così le 11 battaglie dell’Isonzo che sono ognuna la fotocopia della prima o come lo stesso disastro di Caporetto dovuto quasi esclusivamente non solo alla sua incompetenza, ma alla ben poca fiducia nel nostro Ufficio informazioni. D’altra parte, non si poteva pretendere di più da uno che soffriva di manie di persecuzione, che vedeva il governo come un covo di nemici e di massoni, un governo che non riconosceva pubblicamente la sua genialità nominandolo “generalissimo”. Tutti questi elementi emersero dall’inchiesta effettuata subito dopo  i fatti di Caporetto e le conclusioni della commissione furono unanimi sulla sua responsabilità di quel disastro. Lui, rimosso dall’incarico, ovviamente non fu d’accordo e scrisse memoriali su memoriali per difendere la sua posizione. Sarà il fascismo a riabilitarlo, ma non perché convinto della sua estraneità alle accuse mossegli, bensì perché all’epoca conveniva così.

Questo saggio storico di Gianni Rocca è estremamente interessante, perché l’autore, pur non parteggiando per la colpevolezza o l’innocenza, riesce a fornire un quadro preciso e completo delle caratteristiche psicologiche e militari di Cadorna, non solo un macellaio, ma anche un vigliacco, al punto che a ritirata ancora in corso in un comunicato dichiarò che unici responsabili del disastro erano i soldati che non avevano combattuto. Non era vero che si erano arresi giulivamente, tranne qualche caso isolato, era vero invece che pur considerati dei sotto uomini per non pochi anni questi militari dimostrarono in quelle giornate di essere migliori dei loro capi e diedero poi prova del loro coraggio e del loro eroismo difendendo, con le unghie e con i denti, il Piave.

Cadorna, il Generalissimo di Caporetto è un libro senz’altro da leggere.  

Gianni Rocca (Torino22 ottobre 1927 – Roma20 febbraio 2006) è stato un  giornalista italiano, fra i fondatori del quotidiano La Repubblica. A partire dagli anni ottanta si è dedicato anche a scrivere opere di riflessione storica che hanno avuto grande successo. Al riguardo, fra le più note, si ricordano Cadorna, il generalissimo di Caporetto;  Fucilate gli ammiragli. La tragedia della Marina italiana nella seconda guerra mondiale; L’Italia invasa: 1943 – 1945; Stalin: quel “meraviglioso georgiano”; Caro revisionista, ti scrivo…
Renzo Montagnoli

 

3 Luglio

La Marie del porto

di Georges Simenon

Traduzione di Gabriella Luzzani

Edizioni Adelphi

www.adelphi.it

Narrativa

Collana Biblioteca Adelphi

 

Una donna determinata

Per questo romanzo, che presenta una caratteristica particolare, oltre al fatto che non è né un giallo né un noir, Simenon ha voluto andare sul sicuro e se la novità è il ritratto di una donna, abile stratega e in possesso anche di notevoli capacità tattiche, il resto è tipico della sua produzione, reso come pressoché sempre nel migliore dei modi. L’ambiente è  quello della provincia francese, un paesino di pescatori, dove si vive secondo le maree, con personaggi che sembrano scolpiti nel legno, ma che rivelano insospettabili caratteristiche e per scoprire quali la mano del chirurgo Simenon é ferma, incide sicura e rivolta la carne, scopre il lato più oscuro di ognuno. L’atmosfera grigia, plumbea è già presente nelle prime pagine con il funerale del povero Jules, morto lasciando soli i figli, giacché la moglie era deceduta alcuni anni prima. C’è tutto il paese al funerale, una coralità di altri tempi se raffrontata a oggi, ma che è in grado di dare l’idea della stima di cui godeva il morto, la cui famiglia, composta per lo più da figli piccoli, ormai viene smembrata fra i parenti, fatta eccezione per Odile, la più grande, che si mormora faccia la vita a Cherbourg, e la giovane Marie, che nonostante l’età è un tipo molto determinato; al riguardo, si è prefissa lo scopo non solo di trovare un uomo di suo gradimento, e il compagno di Odile lo è,  ma anche che abbia la possibilità di uscire in mare a pesca con un’imbarcazione sua e che voglia vivere nel paesino, aspirazioni queste ultime che l’uomo in questione non ha.

Simenon, procedendo con cautela, ma anche con sicurezza, ci accompagna a vedere l’abile tattica che Marie adotta, una tattica che rivela una notevole intelligenza, perché non è facile irretire un uomo quando non si è una bellezza, anche se lei non è brutta; non è facile soprattutto portarlo quasi all’esasperazione per fargli fare quello che vuole lei, e senza dimostrare disponibilità a concedersi, anzi tenendo le giuste distanze in un raro equilibrio che  poco a poco darà i suoi frutti. Stupisce in Simenon l’abilità nel descrivere la psicologia femminile nella seduzione, nel far sorgere il desiderio che diventa un’ossessione e che per concretizzare dapprima rende disponibili a tutto e poi trasforma, quasi che l’uomo in mano a Marie fosse un abbozzo di terra creta che le mani abili della donna vanno plasmando.  

E così alla suspense tipica dei gialli e dei noir si sostituisce il desiderio del lettore di vedere se la strategia si dimostrerà valida e di osservare e capire l’importanza della tattica, che si svolge pagina dopo pagina in un crescendo di tensione.

La Marie del porto è certamente meritevole di lettura ed è una ulteriore conferma delle eccelse qualità del suo autore.

Georges Simenon, nato a Liegi nel 1903, morto a Losanna nel 1989, ha lasciato centonovantatre romanzi pubblicati sotto il suo nome e un numero imprecisato di romanzi e racconti pubblicati sotto pseudonimi, oltre a volumi di «dettature» e memorie. Il commissario Maigret è protagonista di 75 romanzi e 28 racconti, tutti pubblicati fra il 1931 e il 1972. Celebre in tutto il mondo, innanzitutto per le storie di Maigret, Simenon è anche, paradossalmente, un caso di «scrittore per scrittori». Da Henry Miller a Jean Pauhlan, da Faulkner a Cocteau, molti e disparati sono infatti gli autori che hanno riconosciuto in lui un maestro. Tra questi, André Gide: «Considero Simenon un grande romanziere, forse il più grande e il più autentico che la letteratura francese abbia oggi»; Walter Benjamin: «… leggo ogni nuovo romanzo di Simenon»; Louis-Ferdinand Céline: «Ci sono scrittori che ammiro moltissimo: il Simenon dei Pitard, per esempio, bisognerebbe parlarne tutti i giorni».
Renzo Montagnoli

 

29 Giugno

Balbo

di Giorgio Rochat

Edizioni Utet

Storia biografia
 

Il rivale di Mussolini

Quando prendo in mano un libro è talmente il desiderio di scoprirlo che passo direttamente al testo, riservandomi, a lettura ultimata, di affrontare le frequenti introduzioni e/o prefazioni. Nel caso di Balbo ho invece ritenuto di procedere in ordine logico con la Premessa dello stesso autore e direi che è stato provvidenziale, perché Rochat, storico di razza, precisa subito che Italo Balbo, personaggio molto esaltato e altrettanto discusso,  fino alla stesura di questa biografia, non era stato studiato seriamente, tranne per quanto concerne la nascita dello squadrismo. Per il resto, abbonda un’agiografia mitizzante in cui non è facile, fra tanta esaltazione, trovare qualcosa di veritiero; di conseguenza, non potendo ancora mettere mano sull’archivio di Balbo, chiuso alla consultazione, si è trattato di fare un lavoro certosino di accostamenti fra i vari scritti su di lui, onde almeno avvicinarsi un po’ alla verità. Che l’uomo sia stato una delle maggiori figure del fascismo è indubbio e non a caso era, pur ancor giovane, uno dei quadrumviri che con la marcia su Roma aveva coronato il suo desiderio di contrapporsi non solo al crescente bolscevismo, ma anche a un concetto liberale, di tipo ottocentesco, dello stato. 

Al ritorno dalla Grande Guerra, dove si era distinto per coraggio e capacità organizzativa, trovò largo credito fra gli agrari del ferrarese, timorosi che il marxismo-leninismo prendesse piede fra le migliaia di braccianti della zona. Le sue squadre imperarono a lungo, infestando la Romagna, ma spingendosi anche oltre, fino a Parma. Era diventato amico di Mussolini, che lo stimava per le sue capacità, ma che, già nei panni del futuro dittatore, cominciò a temerlo come possibile rivale. Concretizzato il colpo di stato con quello che più che una marcia è più logico definire una marcetta, cominciarono ad arrivare gli onori. Prima deputato, poi sottosegretario all’Economia  (dall’ottobre del 1925 al novembre del 1926), nonostante su di lui cominciassero ad addensarsi delle ombre, a seguito di giochi di potere, quel potere a cui aspirava sommamente, tanto da indurlo nel 1920 a iscriversi alla Massoneria. L’incidente di percorso più eclatante fu l’omicidio di Don Minzoni, reato di cui fu accusato di essere il mandante, ma ormai il fascismo era entrato in ogni apparato e ovviamente finì assolto.

Dopo il periodo rivoluzionario venne quello più tranquillo, in cui, diventato ministro dell’Aeronautica, si rese autore delle celebri trasvolate atlantiche, organizzate in modo perfetto e che colpirono positivamente l’opinione pubblica mondiale, al punto che Balbo, al suo arrivo negli Stati Uniti, fu portato in trionfo. Era un aspetto propagandistico del fascismo di grande effetto, ma la fama dell’aviatore ferrarese rischiava di oscurare la figura del suo capo che preferì condannarlo a una sorta di esilio, indubbiamente dorato, nominandolo nel 1934 governatore della Libia, incarico in cui, occorre dire, ben si comportò, promuovendo un riavvicinamento fra libici e italiani, costruendo strade, acquedotti, insomma dotando la colonia di moderne e indispensabili infrastrutture. Tuttavia, il fascismo era ormai prossimo al punto più alto della parabola e già si avvertiva un diffuso malcontento per i cronici problemi  nazionali irrisolti. Al riguardo, una delle motivazione della guerra d’Etiopia fu proprio quella di rinsaldare il legame fra partito e paese e inoltre si sperava di dare una soluzione al problema, sempre presente, della larga disoccupazione, a cui non poco aveva contribuito lo stesso Mussolini con la campagna di natalità. L’Etiopia, conquistata, ma non domata, non fu un rimedio e fu allora Balbo ad avere l’idea di portare coloni italiani in Libia, affinché coltivassero quelle terre, una stretta fascia limitata alla costa. Furono costruite case coloniche, stalle, magazzini, insomma si voleva che una volta arrivati i coloni potessero mettersi subito al lavoro, come in effetti fu. Grandiosa fu la spedizione, organizzata sotto la supervisione di Balbo, con cui, in nave, furono portate in Libia famiglie di contadini di tutta l’Italia. Dal punto di vista propagandistico l’operazione riuscì perfettamente, ma se l’idea assicurava a Balbo dei successi grandi ed effimeri, il privare la popolazione locale delle sue risorse tradizionali non poteva assicurare un futuro alla colonia, un aspetto altamente negativo caratteristico della politica imperialistica dell’Italia fascista, di cui il grande trasvolatore era un protagonista certamente non secondario. Poi venne la guerra, quella guerra con i tedeschi che sembrava fortemente avversata da Balbo, ma che in fondo non gli dispiaceva, perché sperava, grazie alle sue virtù militari, di poter diventare comandante in capo in luogo di Badoglio. Nel conflitto, appena iniziato, non fu un militare da tavolino, ma continuò a manifestare la sua presenza fra le truppe, spostandosi di continuo in volo con il suo SM 79, che pilotava personalmente, e fu in uno di questi voli che, giunto sul cielo di Tobruch dopo un violento bombardamento aereo, fu abbattuto per errore dalla nostra contraerea.  Non fu quindi un omicidio istigato da Mussolini per liberarsi del rivale, anche se è certo che al Duce la cosa non dovette dispiacere.

Resta alla fine da chiedersi che personaggio sia stato veramente Italo Balbo.  Senza togliere nulla ai suoi meriti di grande organizzatore, era un uomo incapace di vedere lontano, senz’altro ardimentoso, ma ammalato di protagonismo. Nonostante il suo passato di squadrista violento, avrebbe potuto fare molto bene all’Italia, soprattutto evitandole i dolori di una guerra crudele, ma non lo fece e nemmeno tentò di farlo, sembrò aiutare i braccianti della campagna italiana trapiantandoli in Libia, ma a discapito degli arabi e innescando così un conflitto che fu a lungo solo latente, avrebbe potuto sostituirsi al duce, ma con ogni probabilità si sarebbe poi comportato come lui; in tutte queste caratteristiche si rispecchiava pertanto il tipico esemplare del fascista.

Da leggere e rileggere.    

Giorgio Rochat (1936) è stato professore di Storia contemporanea e poi di Storia delle istituzioni militari nelle Università di Milano, Ferrara e Torino. Ha studiato e studia la storia militare, coloniale e politica dell'Italia contemporanea. Tra le sue opere più recenti: La Grande Guerra 1914-1918 (con Mario Isnenghi, Bologna 2000 e 2008); Le guerre italiane 1935-1943 (Einaudi, 2005 e 2008).
Renzo Montagnoli

 


Cari amici, è con gran piacere che vi presento l’ultima proposta poetica  del nostro ottimo amico

Bruno Castelletti

avvocato in Verona, politico appassionato e poeta nell’anima

che ha dato alle stampe (per Gabrielli editori - 2016 –S. Pietro in Cariano, Vr) la splendida silloge “Robe da ciodi e sbasi de seren” (robe da chiodi e squarci di sereno), dove le tematiche espresse nella sua precedente “Stele da l’Orsa” (stelle delle valle dell’orsa –in Ferrara di Monte Baldo- per Gabrielli editori - 2012), preannunciate dalla dedica “A me mama, a la me fameia, a la me zente”, qui si vestono d’acuta e, talvolta, umoristica, attenzione, nei confronti di questo nostro vivere, pur continuando ad esprimere un commovente amore per la sua terra e la gente che la abita.

L’incipit “A quei che val poco. Ai pori pitochi. A l’amor e la speranza.” è programmatico per tutto ciò che nel volume si può leggere.

Di questo grande della poesia dialettale veronese, a tutto titolo ormai nella storia della lirica in vernacolo (e non solo) vi presento alcune, significative composizioni, ricche d’humor e di sentimento. Composizioni che vengono dall’anima di Bruno che non dimentica, a buona ragione, d’usare abile tecnica poetica, fatta di perfetti ritmi e classici modi poetici.

Robe da ciodi

Se no volì scoltar metìve i tapi.
Democristiani e comunisti ensieme
e po scusème tanto, perdonème,
a Roma ancora vivi gh’è du Papi.
 
No l’è question che gh’enteressa ai capi
ma quel che crede e ci stà soto i teme
se possa baratar santi e biasteme
e scancelar parole scrite a lapi.
 
E no gh’è pì rispeto né creansa
no se ragiona pì come a sti ani
co ‘n poco de servel, ma co la pansa.
 
Tuti che vol saver anca se nani
l’è deventà sotile la speransa
de tègnerse per man come cristiani.
 
E quanti pori cani!
Ensoma mi voi dirve en tuti i modi
che propi le me par robe da ciodi

Cose da non credere: Se non volete ascoltare mettetevi i tappi/Democristiani e comunisti assieme/e poi scusatemi tanto, perdonatemi/a Roma ancora vivi ci sono due Papi//Non è questione che interessi a chi comanda/ma coloro che credono e sono governati temono/si possano barattare santi e bestemmie/e cancellare parole scritte a matita.//E non c’è più rispetto né creanza/non si ragiona più come un tempo/con un po’ di cervello ma con la pancia//Tutti che vogliono saperla lunga anche senza adeguata preparazione/è diventata esile la speranza/di tenersi per mano come fratelli//E quanti poveretti!//Insomma io voglio dirvi in tutti i modi/che mi sembrano proprio cose da non credere.//

L’Alfredo

Picolo, tracagnoto
lustro come en poèo
i oci che rideva.
E quando el t’encontrava
te se slargava el cor da l’alegria
ma tuto l’entusiasmo se smorsava
pena che ‘l te vegneva lì darente
perché, sto sacramento
el gheva sempre en mente
de tòrte le misure
per prepararte en tempo
en bel vestito novo,
fato de legno duro,
da mètertelo entorno
ne l’ora de l’adio.
Maestro de la musica
gran sonador d’armonica
a olte el n’envidava
zo ne la so bottega.
Lì se faseva festa enfin matina.
E quando i goti più no se contava
e i canti i se missiava co le stèle,
alora se rideva a crepapèl,
se scancelava i debiti e le tasse
vardando quei pì curti de servel
che i se proava drento ne le casse.

Alfredo: Piccolo, tarchiato/con la faccia linda come un bambino/gli occhi che ridevano/E quando ti incontrava/ti si allargava il cuore dalla gioia/ma tutto l’entusiasmo si smorzava/appena ti veniva lì vicino/perché, questo simpaticone/aveva sempre in mente/di prenderti le misure/allo scopo di prepararti per tempo/un bel vestito nuovo/fatto di legno duro/da metterti addosso/nel giorno della dipartita.//Maestro di musica/gran suonatore d’armonica/a volte ci invitava giù nella sua bottega//Lì si faceva festa fino al mattino//E quando i bicchieri di vino più non si contavano/e i canti si mescolavano con le stelle/allora si rideva a crepapelle,/si cancellavano i debiti e le tasse/guardando quelli più corti di cervello/che facevano le prove dentro le casse da morto.//

Desso che son rivà

Desso che son rivà en cao a la bina
e somenà i me versi en tera bona,
no stème dir ch’i è fati a la carlona.
Pitosto dovarì spetar na nina
 
almancco da la sera enfin matina
e po farme saver come i ve sona
perché gh’è drento l’estro de me nona
 e la sincerità de l’aria fina.
 
Ensieme a l’intension de farve rider
en meso a le miserie de sto mondo
i ò scriti per sercar de farve veder
 
che quel che par quadrato, l’è rotondo.
Ma son convinto che bisogna crèder
e seito a rumegar sempre pì fondo.
 
El gran l’è squasi biondo
na sghia de cel ancora la me vansa
torno a cantar l’amor e la speransa.

Ora che sono arrivato: Ora che sono arrivato in fondo al solco/e seminato i versi in terra fertile/non venitemi a dire che sono scritti in qualche maniera.//Piuttosto dovrete aspettare un pochino/almeno dalla sera fino al mattino/e dopo mi farete sapere come vi sembrano/perché c’è dentro l’estro di mia nonna/e la sincerità dell’aria frizzante.//Insieme all’intenzione di farvi ridere/in mezzo alle miserie di questo mondo/li ho scritti per cercare di farvi vedere//che ciò che sembra quadrato è tondo./Ma sono convinto che bisogna credere/e continuo a scavare sempre più in profondità.//Il grano è quasi maturo/una scheggia di cielo ancora mi rimane/torno a cantare l’amore e la speranza.//

E vegni via con mi

E vegni via con mi
no sta lassarme.
Te portarò en montagna
a respirar l’udor de la me tera
de l’erba che rebuta
enprofumà de viole e de narcisi.
E te farò scoltar
la osse del silensio
la sinfonia del bosco che sverdesa.
Te ensegnarò a discorer
co i fiori e co le piante
le nugole curiose che se sconde,
a consegnarghe ne le man del vento
voie e speranse che no pol morir.
Enventaremo ensieme le parole
per scriver poesie e cante nove
da far sognar el Baldo e le so greste
nel caldo de l’istà
nel coro de i colori dell’autunno
de soto al ninsol bianco de l’inverno.
E quando spuntarà la luna piena
te cuertarò de basi e de caresse
e sarà festa granda
come la prima sera.
 

E vieni via con me: E vieni via con me/non lasciarmi./Ti porterò in montagna/a respirare l’odore della mia terra/dell’erba che rinasce/profumata di viole e di narcisi//E ti farò ascoltare la voce del silenzio/la sinfonia del bosco che verdeggi//Ti insegnerò a parlare con i fiori e con le piante/con le nuvole curiose che giocano a nascondersi,/a consegnare nelle mani del vento/desideri e speranze che non possono morire//Inventeremo assieme le parole/per scrivere poesie e nuovi canti/da far sognare il Baldo e le sue creste/nel caldo dell’estate/nel coro dei colori dell’autunno/sotto il lenzuolo bianco dell’inverno//E quando spunterà la luna piena/ti coprirò di baci e di carezze/e sarà festa grande/come la prima sera.//

Attendiamo l’ottimo Bruno ad una prossima impresa poetica. Nel frattempo gli giungano i più sinceri complimenti, assieme ad un grazie per quanto ha saputo e continuerà a fare per la poesia.
Piero Colonna Romano

PS: per chi fosse interessato alla completa lettura di “Robe da ciodi e sbaci de seren” informo che l’ISBN è 978-88-6099-302-1

 

25 Giugno


Mi fido del mare

di Carla De Angelis

Prefazione di Alessandro Ramberti

Saluto in versi di Enzo Berardi

Postfazione di Gastone Cappelloni

Fara Editore

www.faraeditore.it

Poesia

Collana Il filo dei versi



Policromia poetica

E tre, nel senso che con questa sono tre le raccolte poetiche di Carla De Angelis che ho avuto il piacere di leggere: da quella con titolo di fantascienza, anche se non lo è (A dieci minuti da Urano) a questa Mi fido del mare, passando per I giorni e le strade.  Con l’esperienza la scrittura si fa più raffinata, più precisa, ma quella che è la sostanza e che potremmo così chiamare il succo dei versi non è mutata: dall’esplosione magmatica senza clamore di A dieci minuti da Urano al valore della parola di I giorni e le strade, per giungere a un caleidoscopio di immagini e sensazioni colorate di Mi fido del mare, una raccolta policroma in tutti i sensi (…/ I colori mi sommergono: /  il bianco, il nero e il verde del bosco che apre /  la folle corsa per ritrovare il cielo / Nell’azzurro nuotano i sogni di chi deve  / migrare /... ) e non si tratta solo di rossi, di verdi o di bianchi, ma è un rimando continuo a una realtà trasognata dominata da una natura amica (I merli danzano lontano dall’uva  / sanno che i tempi non sono maturi / nessuna traccia di succo dolce / …). In questo ricorrente abbandono all’estasi di una natura primitiva c’è un ritorno a immagini antiche - non obsolete però – e che altri ci hanno tramandato quando il mondo non era come ora disperato, e mi riferisco soprattutto a Publio Vergilius Maro che con le sue Bucoliche ha saputo descrivere magnificamente quel tesoro che andiamo distruggendo. Però, non si creda che nei versi di Carla ci sia solo un futile richiamo agli animali, anzi, come nel caso del favolista Fedro, sono emblematici di comportamenti umani come si vorrebbe che fossero. E lo spazio per invenzioni poetiche così diventa ampio (- Il grano maturo sembra mare / ma profuma di pane /…; Per accordare il suono al respiro / bisogna ricercare quel frammento di musica / che vive nella mente /…; …/ la corsa dell’auto prende il buio /  il vento soffia il sapore del ritorno /…; Le mie parole sono come le pulci / quando sto per scriverle saltano via / e se le scrivo di fretta non so rileggerle /…; La candela finiva in silenzio / restava un poco di fumo con il suo odore acre / bisognava deporre un bacio con le dita / sul picciolo per darle pace).

E’ un susseguirsi di immagini, di suoni, di colori, di metafore, ma in tutti questi emblemi non c’è disaccordo, non ci sono stridii o peggio annichilenti cacofonie, ma, sempre ben lungi da qualsiasi retorica, è un fluire armonico, è un pacato romantico ruscello a cui è piacevole abbeverarsi.  E il mare del titolo? Pur con tutto quanto di bello c’è da leggere, avverto la necessità, quasi impellente, di dare una risposta a questo immancabile quesito: perché mi fido del mare? Perché magari non fidarsi della montagna, della collina o della pianura?  Innanzitutto si tratta di un amore viscerale, considerati i versi che seguono:  Amo così tanto il mare / che vedrei azzurra anche la morte / se mi cogliesse mentre nuoto / verso l’altra sponda. E poi, in una raccolta dove la natura, nelle sue manifestazioni, è così privilegiata c’è sempre una parte di essa che preferiamo, che avvertiamo essere in contatto con noi, con cui comunicare in un linguaggio muto di sensazioni, e per Carla De Angelis questa parte è il mare.

Da leggere, senz’altro. 

Carla De Angelis è nata e vive a Roma. Sue poesie e racconti sono presenti in riviste e antologie edite da Perrone, Estroverso, David & Matthaus, Limina Mentis, Delta3, Pagine, Aletti. Ha ricevuto vari premi e riconoscimenti. Con Fara ha pubblicato in poesia: Salutami il mare (2006), A dieci minuti da Urano (2010), I giorni e le strade (2014). Con Stefano Martello ha realizzato i saggi: Diversità apparenti (2007), Il resto (parziale) della storia (2008), Il valore dello scarto (2016). Suoi versi nelle antologie Il silenzio della poesia (2007), Poeti profeti? (2008), Chi scrive ha fede? (2013) e nelle antologie del Concorso “Come farfalle diventeremo immensità” (ultima Il coraggio del bene, 2017). Nel 2011 esce Mi vestirei di mare (Progetto Cultura). Ha ideato e curato le antologie Corviale cerca poeti per la Biblioteca “Renato Nicolini” di Roma con la quale collabora tutt’ora.
Renzo Montagnoli

 

22 Giugno

Bel – Ami

di Guy de Maupassant

Con un saggio di Carlo Bo

Traduzione di Maria Pia Tosti Croce

Newton Compton Editori

www.newtoncompton.com

Narrativa

 

Tutto, pur di arrivare

Il romanzo, scritto nel lontano 1885, è tuttavia di un’attualità sorprendente. Infatti, la storia di Georges Duroy, conosciuto nella buona società parigina dell’epoca come Bel-Ami non è solo quella di un uomo attraente che si avvale di questa sua qualità per intraprendere una scalata sociale, ma è anche, soprattutto, quella di un personaggio notevolmente contemporaneo, con il suo desiderio esagerato di raggiungere il successo e di ottenere la ricchezza con qualsiasi mezzo. Grazie all’aiuto di un amico, un vecchio compagno d’armi, che poi morirà di tubercolosi e di cui lui sposerà la vedova, entrerà nel mondo del giornalismo e poco a poco, grazie a una frenesia arrembante, che fa leva soprattutto sulle donne, specialmente quelle che contano, in quanto consorti di uomini potenti, raggiungerà il suo scopo. É certamente un seduttore, ma le signore che conquisterà con il suo fascino sono solo le pedine della battaglia che ha intrapreso; verso di loro non prova amore, perché in effetti ama solo se stesso. Nella società intellettuale, economica e finanziaria della fine del XIX secolo, popolata di altrettanti arrivisti, grazie anche alla sua innata astuzia procederà intrepido e con la convinzione che il successo sia a lui dovuto. Personaggio di poche capacità professionali, sa cogliere con precisione le occasioni che via via gli si presentano.  Dell’arrivista ha tutte le caratteristiche:

un innato egoismo, la certezza, accompagnata da un intimo compiacimento, che ogni persona può essere usata per il raggiungimento del suo scopo. É un parvenu in quel mondo, ma ben presto diventerà un autentico pescecane, capace di aggirare ogni ostacolo, di galleggiare nel marasma, e ciò malgrado l’odio che raccoglie intorno a sé. Maupassant è fenomenale nel descrivere la mediocrità di Duroy e della società parigina di fine ‘800; il suo stile è snello, ma è preciso come non pochi nel ritrarre un mondo vuoto e privo di ideali. Se ci si ferma un attimo per una breve riflessione, sembrerebbe un romanzo scritto oggi; è trascorso più di un secolo, ma il mondo attuale non è diverso, fatto di tanti che sgomitano per farsi avanti con qualsiasi mezzo pur di raggiungere la ricchezza e il successo. É quindi proprio vero che un “classico” è tale quando è senza tempo, o meglio ancora quando non tramonta mai, perché le situazioni raccontate, i temi trattati hanno il raro dono di essere presenti in ogni epoca.

In queste pagine vengono presentati aspetti che non ci sono sconosciuti, quali

l’influenza del potere mediatico sulla politica e le commistioni di affari pubblici e privati. Da buon naturalista Maupassant, nel rappresentare la realtà, è capace, con sobrietà, di mostrarci una situazione complessa, in cui se non esiste il bene assoluto, non figura tuttavia anche il male assoluto. Il suo personaggio, così teso a rinnegare un passato da travet senza riuscire a cancellarlo, in preda a un egoismo totale finisce con l’essere artefice e vittima della sua vicenda. Il bello di tutta la faccenda è che al lettore Duroy non suscita né simpatia, né antipatia; anche in questo Bel Ami è un mediocre, un vestito che non riuscirà mai a togliersi nonostante le apparenze.

Questo romanzo non è solo un bellissimo, è uno dei grandi capolavori della letteratura mondiale di tutti i tempi.

Guy de Maupassant nacque nel 1850 presso il Castello di Miromesnil, vicino a Dieppe, in Francia. Compiuti gli studi a Yvetot e poi a Rouen, si arruolò come volontario nella guerra franco-prussiana. Gustave Flaubert lo prese sotto la sua protezione, accompagnandone i primi passi nel giornalismo e in letteratura: esordì nel 1880 con la novella Palla di sego. Incoraggiato dal successo della sua prima opera trascorse gli anni tra il 1880 e il 1891 in una produzione incessante e torrenziale: otto romanzi, più di trecento racconti, cronache, poesie, opere teatrali, diari di viaggio. Dopo una lunga malattia che ne compromise anche la lucidità, morì a Parigi nel 1893.
Renzo Montagnoli

 

18 Giugno

Liberty Bar

di Georges Simenon

Traduzione di Ida Sassi

Edizioni Adelphi

www.adelphi.it

Narrativa romanzo giallo

Collana gli Adelphi – Le inchieste di Maigret

 

La grande umanità di Maigret

Un grande allevatore di pecore australiano, straricco, tutto dedito al lavoro,  viene in Europa dove scopre che la vita riserva ben altri piaceri, meno monotoni di quello dell’accumulo del denaro, così che finisce per darsi alla bella vita (donne, champagne, panfili), dimenticando quello che ha lasciato nell’emisfero meridionale, famiglia compresa; ma presto questa vita lussuosa e vorticosa viene a noia ed è pertanto necessario scendere i gradini della scala sociale fino quasi a scomparire, trascorrendo alcuni giorni del mese in un bar, bevendo smodatamente in compagnia della padrona, di una prostituta e del suo magnaccia. Proprio fra le mura di quel locale, il Liberty bar, l’uomo ottiene ciò che ha sempre desiderato e cioè un’esistenza anonima e indolente, e tutto filerebbe liscio se non gli accadesse un giorno di tornare nel villino, dove normalmente risiede con una donna e sua madre, gravemente ferito per una pugnalata che lo condurrà alla morte senza nemmeno la possibilità di entrare in casa. É un delitto sulla Costa Azzurra, fuori dai perimetri operativi di Maigret, che tuttavia viene inviato a risolvere il caso con la raccomandazione di andare con i piedi di piombo, alquanto vaga, ma che lascerebbe supporre che la vittima rivesta una particolare attenzione per il governo francese.

Sarà la stagione balneare, sarà una generale atmosfera di rilassamento che accolgono il commissario al suo arrivo, ma sta di fatto che anche lui sembra intorpidirsi, come un gigantesco basilisco al sole. Ciò nonostante arriva anche abbastanza rapidamente alla soluzione, senza tuttavia assicurare alla giustizia un assassino che ha ucciso per gelosia e a cui resta ben poco da vivere, dimostrando un’umanità che già abbiamo avuto di vedere in altre circostanze, ma che qui non è disgiunta da una certa simpatia per il reo, tanto da costituire un’eccezione. Per il resto, in una vicenda tutto sommato semplice, si ritrovano tutte le caratteristiche di Simenon, quali le descrizioni puntuali, l’atmosfera sapientemente ricreata, l’analisi psicologica dei personaggi, una marcata antipatia nei confronti di un’alta borghesia che crede con i soldi di poter comprare tutto.

Da leggere, lo merita.

Georges Simenon, nato a Liegi nel 1903, morto a Losanna nel 1989, ha lasciato centonovantatre romanzi pubblicati sotto il suo nome e un numero imprecisato di romanzi e racconti pubblicati sotto pseudonimi, oltre a volumi di «dettature» e memorie. Il commissario Maigret è protagonista di 75 romanzi e 28 racconti, tutti pubblicati fra il 1931 e il 1972. Celebre in tutto il mondo, innanzitutto per le storie di Maigret, Simenon è anche, paradossalmente, un caso di «scrittore per scrittori». Da Henry Miller a Jean Pauhlan, da Faulkner a Cocteau, molti e disparati sono infatti gli autori che hanno riconosciuto in lui un maestro. Tra questi, André Gide: «Considero Simenon un grande romanziere, forse il più grande e il più autentico che la letteratura francese abbia oggi»; Walter Benjamin: «… leggo ogni nuovo romanzo di Simenon»; Louis-Ferdinand Céline: «Ci sono scrittori che ammiro moltissimo: il Simenon dei Pitard, per esempio, bisognerebbe parlarne tutti i giorni».
Renzo Montagnoli

 

13 Giugno

L’animale a sei zampe

di Vincenzo Celano

Edigrafema edizioni

www.edigrafema.it

Narrativa romanzo

 

Una civiltà scomparsa

E’ indubbio che una civiltà plurisecolare come quella contadina sia venuta meno nel volgere di pochi anni seguenti la fine della seconda guerra mondiale. Di questo evento epocale, e francamente straordinario, ha parlato Ferdinando Camon in una serie di romanzi, uno più bello dell’altro.  Era però logico aspettarsi che il narratore padovano non dovesse avere il privilegio dell’esclusiva, relativamente a questo grande tema, e così altri hanno avvertito la necessità di parlarci, dal loro punto di vista, della fine di questa civiltà. Fra questi c’è un narratore lucano che ha fatto in tempo a vedere come era il mondo contadino, benché da ragazzo (è nato nel 1935), scrivendo un romanzo in proposito (L’animale a sei zampe). Si tratta della storia di una famiglia lucana nella prima metà del secolo scorso, i cui grandi eventi (La Grande Guerra, l’imporsi del fascismo e la seconda guerra mondiale) sono visti dal basso, cioè da chi li ha subiti. E questa è anche la prospettiva migliore per scoprire i prodromi, i contesti, per avere un’idea abbastanza precisa di come una famiglia dell’epoca, non ricca, ma nemmeno povera, conducesse la sua esistenza. Se i personaggi sono parecchi, i protagonisti principali sono due, il Capitano (è un appellativo) che conduce una piccola azienda agricola di proprietà, e la sua giumenta, la cavalla Ida; entrambi sono complementari l’uno all’altro, in un rapporto di padronanza e sudditanza che non esclude, anzi prevede, una sorta di reciproco affetto. Sono loro il filo conduttore dell’opera che si snoda implacabile, senza liturgie retoriche, nell’arco di mezzo secolo, sconvolgente per i fatti che lo caratterizzarono, ma che non lasciava intravvedere o presupporre che a pace raggiunta un mondo che si credeva eterno sarebbe invece scomparso. Il ritmo è volutamente lento, come certamente non rapide erano le giornate in quell’epoca in campagna, e insieme alla storia di questa famiglia, grazie alle frequenti digressioni, anche altri personaggi hanno modo di mettersi in luce per le loro caratteristiche, finendo con il concorrere a formare un grande affresco con al centro loro, il Capitano e la giumenta, e tutti all’intorno affacciati sul mondo uomini, donne e anche animali, in un’atmosfera rarefatta, un po’ polverosa, tipica delle cose antiche, un bianco e nero virato seppia che infonde una pacata malinconia. Scritto con un italiano eccellente, anche se un po’ inconsueto ai giorni nostri, L’animale a sei zampe, pur non avvincendo in modo particolare per il suo ritmo, riesce ad attrarre per le continue scoperte di una realtà che mai a noi sarà dato di provare e che pare talmente lontana da far pensare a un parto di fantasia. Ci si chiede se si viveva così, se la superstizione s’accompagnava, sovente soverchiandola, alla religione, se erano più felici di adesso, avendo poi poco o quasi nulla. Sotto questo aspetto Celano non si pronuncia e da naturalista, forse inconsapevole, si limita a rappresentare vicende, paesaggi, atmosfere, stati d’animo, il tutto con meticolosa e certosina precisione. E in questa asetticità dell’autore sta un altro dei meriti di questo romanzo, certamente riuscito, anche se lontano dall’essere un capolavoro; bello è bello, è pure interessante e inoltre le pagine scorrono sì lentamente, ma anche gradevolmente, insomma mi sembra che sia più che meritevole di lettura.

Vincenzo Celano (Castelluccio Inferiore, 1935) è giornalista e scrittore. Già autore di racconti, I pesci non hanno oroscopo per la sera (Manni, 1989 – con un’introduzione di G. Bàrberi Squarotti), narrativa venatoria, La beccaccia e il professore (Editoriale Olimpia, 2006) e pubblicazioni di linguistica, La pentola dell’esistenza. 1000 e più proverbi e sentenze castelluccesi (EditricErmes, 2009), è un “narratore passionale e misterioso che racconta l’uomo e la natura con la veemenza di Verga e l’erotismo di Lawrence” (R. Nigro). Nel 1981 ha vinto il Premio di poesia “Città di Legnano Giuseppe Tirinnanzi” con i versi Non alghe d’oro, ma frutti di vivissimo fuoco. Nel 2006, il Museo Civico di Storia Naturale di Jesolo gli ha conferito la medaglia d’oro con diploma di merito alla carriera letteraria. Ama definirsi un “navigatore di boschi” e accarezza l’idea che un giorno la propria lapide riporti incise le parole di Cesare Pavese: “Fin da ragazzo, mi pareva che andando per i boschi senza un cane avrei perduto troppa parte della vita e dell’occulto della terra”.
Renzo Montagnoli

 

9 Giugno

Ragazzo.

Storia di una vecchiaia

di Massimo Fini

Marsilio Editori

www.marsilioeditori.it

Narrativa romanzo autobiografico 

De senectute

Nella vita, salvo nel malaugurato caso che si debba perderla ancora giovani, o come si è soliti dire “prima del tempo”, inevitabilmente si arriva a una certa età che viene definita vecchiaia. In genere comincia a sessant’anni, ma, proprio perché non ce ne accorgiamo, inizia molto prima, quando si è toccato l’acme della giovinezza. La vecchiaia non è ben vista, perché al di là del fatto che termina con la morte, comporta un radicale mutamento, fisico e mentale, del nostro modus vivendi. Ne ha parlato, con l’originalità che gli è propria, Massimo Fini in questo libro non lungo e di gradevole lettura, in cui si alternano passato e presente, grazie ai ricordi della gioventù, che con l’avanzare dell’età assumono contorni quasi fiabeschi, di un’epoca d’oro in cui non potremo più tornare. La figura del vecchio, termine che gli interessati ben poco amano, accettando meglio la parola “anziano”, è la protagonista indiscussa di un’opera che a tratti può sembrare anche un pamphlet, una smitizzazione di tanti luoghi comuni propri della “terza età”. In questa analisi dei vecchi, con le loro manie, la tirchieria, la presenza ai riti funebri quasi a voler esorcizzare la morte, emergono tuttavia delle perle di saggezza che danno valore a un’opera che altrimenti sarebbe francamente di non rilevante caratura. Al riguardo basti pensare a quanto Fini scrive: “l’aspetto più drammatico della vecchiaia non è tuttavia la decadenza fisica, ma l’impossibilità di un progetto di vita” ed è vero, perché non è possibile sognare di realizzare qualcosa in futuro quando si sa che, se non imminente, è assai prossimo quel salto nel buio. Avevano ragioni gli antichi quando parlavano della vecchiaia come qualcosa di orribile e allora non resta altro, per renderla più tollerabile, di abbandonarsi all’ironia, all’autoironia, al sarcasmo, all’humor nero, ma quando non si riesce più a utilizzare questi strumenti è perché la situazione è degenerata, è emersa la demenza senile, l’arteriosclerosi, l’alzheimer, insomma siamo noi senza più esserlo. 

La morte, tanto esecrata, non fa paura in sé se non fosse perché ci precipita in un viaggio senza ritorno e di frequente il vecchio, se ci pensa, si sente attanagliato da un’angoscia esistenziale tale da fargli balenare l’idea del suicidio, un sistema autarchico per disporre noi stessi della nostra vita, senza dover attendere che questa ci venga tolta. E’ raro, però, che l’idea si concretizzi, perché il paradosso dei vecchi, è che desiderano morire, ma vogliono vivere.

E un ulteriore paradosso concerne questo libro, che potrebbe costituire un’interessante lettura per un giovane, ma che non potrebbe comprenderlo, e che invece finisce per essere letto dai vecchi, gli unici che possono capire e che, pur non trovandolo avvincente, avranno conferma di quanto rimuginano giorno dopo giorno sulla loro sorte di esseri senza domani.

Da leggere, comunque, perché lo stile è snello e, se ben predisposti, c’è anche da divertirsi.

Massimo Fini, scrittore e giornalista, ha pubblicato per Marsilio La Ragione aveva Torto? (1985, 2014), Elogio della guerra (1989, 2011), Il denaro. «Sterco del demonio » (1998, 2012), Il vizio oscuro dell’Occidente. Manifesto dell’Antimodernità e Sudditi. Manifesto contro la Democrazia (2002 e 2006; 2004; nuova edizione tascabile in un unico volume 2012), Il Ribelle. Dalla A alla Z (2006, 2014) – i sei volumi sono raccolti in La modernità di un antimoderno. Tutto il pensiero di un ribelle (2016) –, Il Conformista (1990, 20113), Di[zion]ario erotico. Manuale contro la donna a favore della femmina (2000, 2014), Ragazzo. Storia di una vecchiaia (2008, 2012), Il Dio Thoth (2009), Il Mullah Omar (2011), Nerone. Duemila anni di calunnie (1993, 2013), Nietzsche. L’apolide dell’esistenza (2009, 2014), Una vita. Un libro per tutti. O per nessuno (2015). Per Chiarelettere ha pubblicato Senz’anima. Italia 1980-2010 (2010, 2012) e La guerra democratica (2012)
Renzo Montagnoli

 

6 Giugno

Faccetta nera.

Storia della conquista dell’impero

di Arrigo Petacco

Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Saggistica storica

 

Un Petacco ondivago

Mi corre l’obbligo di un’opportuna premessa e cioè che il miglior storico in tema di impero coloniale italiano è, non solo a mio parere, Angelo Del Boca. Ciò non toglie che altri studiosi abbiano cercato di approfondire l’argomento, scrivendo dei saggi nel complesso accettabili. Mi spiace, pertanto, dover parlare non positivamente di questo Faccetta nera di Arrigo Petacco, autore che peraltro stimo per non poche riuscite biografie. E quel che forse meno mi è garbato in questo libro non è tanto l’approssimazione, il liquidare fatti importanti in due parole, ma un atteggiamento ondivago, tanto che a tratti, soprattutto a proposito della conquista dell’Etiopia, Petacco potrebbe essere considerato un fascista, mentre in altre pagine c’è uno smarcamento e ritroviamo il saggista antifascista. Comprendo che, sebbene uno storico dovrebbe essere apolitico,  tuttavia non gli si può impedire di avere un atteggiamento politico, ma almeno che questo sia continuo e non come ho precisato prima, tanto che ho ricavato l’impressione che Petacco, nel timore di scontentare qualcuno, ha finito con lo scontentare tutti. Avevo già notato questo strano comportamento leggendo L’uomo della provvidenza e mi ero stupito, perché là a voler considerare Mussolini un grande statista almeno fino alla guerra d’Etiopia vuol dire mettersi i paraocchi, visto che uno dei motivi, non secondario, che spinsero il duce a conquistare quel paese era un diffuso malcontento popolare di un regime che ogni giorno che trascorreva si rivelava sempre più mendace e incapace di condurre un paese sia sotto l’aspetto politico che quello economico. Cosa c’è di meglio di una guerra per ricompattare un popolo accanto al suo capo? E se poi l’avversario, almeno sulla carta, è facile da sconfiggere, si ottiene la quadratura del cerchio, coronata dal pomposo nome dell’Impero, che inorgoglisce, ma non riempie la pancia. 

Ecco, dopo aver letto questo libro, di primo acchito l’impressione è che la nostra esperienza coloniale sia stata motivo di vanto, soprattutto con la guerra d’Etiopia, ben condotta, magari con qualche eccesso (basti pensare ai gas utilizzati conto la popolazione inerme), insomma ancora una volta rifulge l’immagine degli italiani eroici, bravi e buoni, ma è falsa, e se questo lo scrive il regime è logico, meno logico è invece se lo si evince da mezze frasi buttate qua e là da uno storico che continuo a stimare, anche se non mi sarei aspettato che nel corso del tempo il suo modo di pensare dovesse cambiare, e non di certo in meglio.

Arrigo Petacco è nato a Castelnuovo Magra (La Spezia) e vive a Portovenere. Giornalista, inviato speciale, è stato direttore della «Nazione» e di «Storia illustrata », ha sceneggiato film e realizzato programmi televisivi di successo. Nei suoi libri affronta i grandi misteri della storia, ribaltando spesso verità giudicate incontestabili. Fra gli altri ricordiamo, pubblicati da Mondadori:Dear Benito, caro Winston, I ragazzi del '44, La regina del Sud, Il Prefetto di ferro, La principessa del Nord, La Signora della Vandea, La nostra guerra. 1940-1945, Il comunista in camicia nera, L'archivio segreto di Mussolini, Regina. La vita e i segreti di Maria José, Il Superfascista, L'armata scomparsa, L'esodo, L'anarchico che venne dall'America, L'amante dell'imperatore, Joe Petrosino, L'armata nel deserto, Ammazzate quel fascista!, Il Cristo dell'Amiata, Faccetta nera, L'uomo della Provvidenza, La Croce e la Mezzaluna, ¡Viva la muerte!, L'ultima crociata, La strana guerra, Il Regno del Nord, O Roma o morte, Quelli che dissero no, Eva e Claretta, A Mosca, solo andataNazisti in fugaLa storia ci ha mentito e Ho sparato a Garibaldi.
Renzo Montagnoli

 

3 Giugno

Félicie

di Georges Simenon

Traduzione di Ida Sassi

Edizioni Adelphi

www.adelphi.it

Narrativa

Collana gli Adelphi -  Le inchieste di Maigret

Diavolo di una ragazza!

Maigret potrà sembrare di primo acchito un burbero, ma se poi lo si osserva con attenzione rivela, in alcune circostanze, una tenerezza che lui cerca di dissimulare accentuando i tratti, a volte spigolosi, del suo carattere.  É questo il caso dell’indagine che conduce in ordine all’omicidio di un ex contabile, un uomo solitario che viveva in una casa facente parte di un progetto di vasta lottizzazione; sì, era solitario, nel senso che non aveva amici, ma ospitava una domestica, una giovane ragazza che lo accudiva e che beneficerà della sua eredità. Ma chi può avere assassinato, e per quale motivo, un individuo di cui quasi si ignorava l’esistenza? Che cosa ha da nascondere Felicie, la domestica, che tiene testa alle domande del commissario con una sfrontatezza e un’abilità

perfino superiore a tutti i duri che lui aveva sbattuto in galera? Più che nei risvolti dell’indagine e nella ricerca del colpevole il romanzo sta tutto in questo dualismo, in questa tenzone che agli occhi di Maigret pare un gioco. Lui è consapevole dell’innocenza della ragazza e avverte chiaramente che il suo comportamento è votato alla difesa di qualcuno che lei crede innocente. Tutto qui? Assolutamente no, perché questo romanzo fa perno più sugli innocenti che sui colpevoli, sul carattere di questa giovane che, non contenta del mondo che la circonda, si è chiusa in un bozzolo in cui ama fantasticare, al punto che è cruciale il suo innamoramento per il figlio del padrone, convinta che lui contraccambi e invece non sa quasi nemmeno che lei esista. Questo carattere é senz’altro spinto all’eccesso, ma non era poi raro per l’epoca (il romanzo fu scritto nel 1942), con tante giovani sognatrici che, magari sulla modesta trama di un fotoromanzo, costruivano un’illusoria realtà per sfuggire a situazioni non soddisfacenti e guarda caso si era nel pieno della seconda guerra mondiale. É un Maigret che forse può sembrare irretito da questo personaggio femminile, ma non è in cerca di avventure, perché anche lui ha in fondo bisogno di sognare, di far uscire dal suo intimo quell’affetto paterno per un figlio o una figlia che non ha mai avuto.

Se lo sviluppo dell’indagine e l’arresto del colpevole sono di ordinaria amministrazione, questo duetto fra due sognatori è veramente formidabile, tanto che Félicie è forse uno dei migliori gialli scritti da Simenon con protagonista Maigret.

Georges Simenon, nato a Liegi nel 1903, morto a Losanna nel 1989, ha lasciato centonovantatre romanzi pubblicati sotto il suo nome e un numero imprecisato di romanzi e racconti pubblicati sotto pseudonimi, oltre a volumi di «dettature» e memorie. Il commissario Maigret è protagonista di 75 romanzi e 28 racconti, tutti pubblicati fra il 1931 e il 1972. Celebre in tutto il mondo, innanzitutto per le storie di Maigret, Simenon è anche, paradossalmente, un caso di «scrittore per scrittori». Da Henry Miller a Jean Pauhlan, da Faulkner a Cocteau, molti e disparati sono infatti gli autori che hanno riconosciuto in lui un maestro. Tra questi, André Gide: «Considero Simenon un grande romanziere, forse il più grande e il più autentico che la letteratura francese abbia oggi»; Walter Benjamin: «… leggo ogni nuovo romanzo di Simenon»; Louis-Ferdinand Céline: «Ci sono scrittori che ammiro moltissimo: il Simenon dei Pitard, per esempio, bisognerebbe parlarne tutti i giorni».
Renzo Montagnoli

 

31 Maggio

Il calore del sangue

di Irène Némirovsky

Traduzione di Alessandra Berello

Edizioni Adelphi

www.adelphi.it

Narrativa

Collana Piccola Biblioteca Adelphi

 

Passioni segrete

Fino ad adesso ero convinto che nessuno, meglio di Georges Simenon, fosse capace di descrivere il ristretto mondo della provincia francese, un’entità socio-economica legata strettamente alla terra, in cui tutto sembra, ed è, immobile, pur seguendo il ritmo delle stagioni. Gente ottusa, questi agricoltori, rinchiusi in comunità dove ognuno sa tutto degli altri, anche dei segreti che spesso sono tipici di questi esseri, ma che li difende strenuamente onde non superino l’ideale limite invalicabile che si sono costruiti. É stata una sorpresa, pertanto, apprendere che anche Irène Némirovsky abbia analizzato queste piccole realtà, riuscendo a descriverle in modo completo e più che comprensibile. Il romanzo da lei utilizzato per questo scopo è Il calore del sangue, un’opera relativamente breve (in tutto 155 pagine), ma estremamente avvincente. Ogni personaggio cela passioni, emozioni, desideri inconfessabili e perciò repressi, così che se in apparenza tutto scorre tranquillo, sotto sotto ci sono fremiti d’amore, odi implacabili, amori adulterini. Nello scorrere delle pagine poco a poco emergono questi vizi privati, in netto contrasto con l’apparenza delle pubbliche virtù; e nessuno ne è immune, anche quelli a cui va la nostra simpatia, soggiogati da comportamenti che sembrano frutto di animi puri e perfino casti. La penna della Némirovsky è impietosa, con donne e uomini che non sanno resistere al calore del sangue e si lasciano travolgere dalle passioni, al punto di arrivare anche al delitto, di cui tutti sanno, ma nessuno parlerà mai alla polizia, perché il mondo là è così e anche un reato deve rimanere la faccenda privata di una comunità. Ma come è riuscita irène, che non era francese, a penetrare così profondamente in un tessuto sociale? Va detto che il romanzo è stato da lei scritto con ogni probabilità nell’estate del 1941 e, guarda caso, è ambientato nello stesso paese (Issy-l'Évêque) dove con la famiglia  aveva cercato riparo dalle persecuzioni negli ultimi giorni di maggio del 1940 e in cui sarà arrestata per essere poi avviata ai campi di sterminio. Un’altra particolarità dell’opera è che la voce narrante è quella di Silvio, un proprietario terriero che ha alienato gran parte del suo patrimonio e che vive un’esistenza quasi solitaria, ma che gli consente di osservare meglio gli altri. Anche lui ha provato in gioventù il calore del sangue, ma ormai si è incamminato lungo il viale del tramonto; pur tuttavia, nel ricordo del passato, che si intreccia con il presente, avvertirà anche lui un ultimo calore del sangue, rafforzandosi un desiderio che pareva ormai sepolto sotto la cenere. Ma non è una fiamma, è una brace che lenta, come lui, si spegne.

Dire che il romanzo è bello è riduttivo, perché a mio parere è veramente stupendo.

Irène Némirovsky   (Kiev, 11 febbraio 1903; Auschwitz, 17 agosto 1942).

Figlia di un ricco banchiere ebreo, si trasferì con la famiglia in Francia all’avvento del regime sovietico. Nella sua breve vita scrisse numerosi romanzi di grande successo, sovente pubblicati postumi.  Fra questi si ricordano Suite francese, David Golder, I doni della vita, I cani e i lupi, Il vino della solitudine  e Il ballo.
Renzo Montagnoli

 

27 Maggio

I Gonzaga

Quattro secoli per una dinastia

di Roberto Brunelli

Tre Lune Edizioni

www.trelune.com

Saggistica storica 

Una grande dinastia

La città di Mantova, città d’arte, deve le sue fortune ai Gonzaga, una famiglia che vi regnò per circa 4 secoli e che l’abbellì e le diede lustro. Poiché si tratta di una dinastia, fra le più importanti e famose in Europa, non pochi storici ne hanno scritto, con opere anche ponderose e approfondite, ma per il curioso, per il turista che intende visitare la mia città è assai più utile questo libretto di Roberto Brunelli, che è riuscito a compendiare la vita dei maggiori esponenti di questa famiglia in poche pagine, con precisi riferimenti anche ad architetture, o comunque a opere d’arte, che hanno lasciato ai posteri e che sono visibili e accessibili. Pochi forse sanno che il nome di questo casato non era Gonzaga, perché invece si chiamavano in origine, allorché erano solo ricchi agricoltori, Corradi e vivevano appunto a Gonzaga, un borgo rurale a sud del Po. Trasferiti a Mantova, allora libero comune, diventarono presto una delle famiglie più in vista fino a quando, liberatisi dai Bonacolsi, loro concorrenti nel dominio della città, avviarono quel ciclo che li renderà famosi in tutta Europa e li farà assurgere alla nobiltà; fu solo allora, con il conferimento del titolo di marchese,  che decisero di privilegiare, per il nome della loro dinastia, il luogo d’origine. Nell’opera di Brunelli troviamo la biografia di tutti quelli che contarono, da Luigi, Primo Capitano (1328 - 1360), a Gianfrancesco, quinto capitano (1407-1433) a primo Marchese (1433 – 1444), e poi Federico Ii, quinto Marchese (1519 – 1530) e primo Duca (1530 – 1540); a seguire tutti gli altri, per arrivare ai Gonzaga Nevers, duchi di Mantova e del Monferrato fino all’ultimo, Ferdinando Carlo, decimo Duca di Mantova e ottavo Duca del Monferrato (1665 – 1707), accusato di fellonia dall’imperatore e deposto e con il quale finì la dinastia. Il lavoro di Brunelli non comprende però solo queste biografie, ma si estende ai cadetti, fornisce ampi spazi in ordine alla storia dei principali edifici realizzati e molte altre notizie che consentono una visione d’insieme, utili per capire chi fossero veramente i Gonzaga e per visitare ciò che ci hanno lasciato. Al riguardo sono numerose le fotografie in bianco e nero e a colori e fra queste non potevano mancare i particolari della celebre camera picta, meglio conosciuta come Camera degli sposi, un affresco di incredibile bellezza realizzato da Andrea Mantegna, pittore di corte di Ludovico II.

Alla luce di quanto esposto, sono dell’opinione che sia più che consigliabile la lettura di questo libro, agevole, facile e piacevole, costituendo, fra l’altro, la base indispensabile per una visita alle bellezze della città di Mantova.

Monsignor Roberto Brunelli è scrittore, critico d’arte e direttore del Museo diocesano di arte sacra Francesco Gonzaga, è autore di testi di argomento religioso, di storia dell’arte e di narrativa. Negli anni ’80 ha collaborato con Mondadori come curatore e traduttore di alcuni titoli della popolare collana enciclopedica per ragazzi I grandi libri e come autore del Grande libro della Bibbia (1983). Fra le sue opere thriller ricordiamo “Delitto in sagrestia, la ricostruzione storica di “Giallo a corte”, dedicata ad alcuni delitti irrisolti di epoca gonzaghesca, “Requiem in rossoe il racconto “Papa a sorpresa”, dove l’autore, prima della diffusione della notizia delle dimissioni di Benedetto XVI, ipotizzava che cosa sarebbe potuto accadere con le dimissioni di un pontefice. Nella sua opera ricorrono in particolare i saggi storici e artistici di argomento mantovano, oltre a un filone di narrativa noir.
Renzo Montagnoli

 

24 Maggio

La guerra d’Etiopia

L’ultima impresa del colonialismo

di Angelo Del Boca

Casa Editrice Longanesi

Saggistica storica

 

Voglia d’Impero

L’Italia fascista aveva mire di espansione in Africa e poiché questo continente, in cui pure erano ricomprese colonie italiane, era già stato da tempo occupato, o direttamente o attraverso protettorati, dalla Gran Bretagna, dalla Francia e dal Belgio, rimaneva ben poco, in pratica solo l’Etiopia. Ed è a questo stato che già dal 1930 Mussolini iniziò a rivolgere l’attenzione, tanto più che occuparlo avrebbe anche significato una rivincita della cocente sconfitta subita ad Adua il 1° marzo del 1896. Fu così che vennero predisposti con largo anticipo i piani di guerra, anche perché prima si sarebbe dovuto ottenere, se non il consenso, la tacita indifferenza delle altre potenze coloniali. Inoltre, fra i motivi per l’intervento, c’era una situazione economica interna per niente soddisfacente, con una gran massa di disoccupati che avrebbero potuto essere utilizzati per coltivare le terre fertili dell’altopiano etiopico. L’avversario, peraltro, era piuttosto facile da sconfiggere, visto che la struttura statale era ancora embrionale, così come quella dell’esercito, non armato modernamente e privo di aeronautica, tutti elementi positivi per il Duce in quanto la pressoché assoluta certezza di vittoria, con conseguente istituzione dell’impero, avrebbe galvanizzato gli italiani, la cui simpatia per il fascismo si era alquanto intiepidita. D’altra parte, l’eventualità, se pur remota, di una sconfitta avrebbe avuto conseguenze catastrofiche per il regime e per scongiurare questa infausta ipotesi si preparò la guerra con una larghezza di mezzi  mai vista prima e con un onere economico, di cui non si è avuto mai un conto esatto, ma del tutto astronomico e che l’aggiunta delle sanzioni degli altri stati contribuì a far lievitare tanto da indurre il regime a effettuare una sottoscrizione straordinaria mediante il conferimento volontario dell’oro (fedi d’oro contro fedi metalliche, per esempio).  Nonostante la nostra netta superiorità di mezzi corremmo il rischio di essere battuti, almeno fino a quando il Negus Hailé Selassié condusse una campagna di guerriglia, senza mai arrivare al confronto aperto in una battaglia campale, che invece sostennero a Mai Ceu il 31 marzo 1936, subendo una batosta da cui non si sarebbe più ripreso. Vi è da dire che, oltre all’armamento moderno degli italiani e il ricorso massiccio alla nostra aeronautica, i due comandanti in capo (erano due le nostre direttrici d’attacco), cioè il maresciallo Pietro Badoglio e il generale Rodolfo Graziani, stimolati da Mussolini, non esitarono a ricorrere a un’arma proibita dalle convenzioni internazionali, sottoscritte anche dall’Italia, e cioè i gas, soprattutto il fosgene, che provocò un’ecatombe fra le truppe e la popolazione etiopica. Formalmente, almeno per noi, con il Negus in fuga e poi in esilio, la campagna terminò il 5 maggio 1936, con l’ingresso nella capitale Addis Abeba delle nostre truppe al comando di Badoglio. Ma la guerra non era terminata, perché avevamo occupato solo un quarto del territorio, al punto che intorno alla capitale pullulavano i guerriglieri etiopi e rendevano difficoltosi i rifornimenti.  É pur vero che Graziani, diventato governatore della nuova colonia, usò il pugno di ferro per reprimere i partigiani, con massacri inauditi di cui furono vittime ribelli e popolazione, ma il territorio restò sempre insicuro, al punto che di nostri coloni ne arrivarono ben pochi. Intanto il costo della spedizione aumentava ancora, per fare strade, acquedotti, insomma per dare una struttura al paese; si arrivò così alla seconda guerra mondiale e alla rapida occupazione dell’Etiopia da parte di truppe inglesi ed etiopiche, queste ultime sotto il comando del Negus che non infierì sugli italiani, dando prova di una misericordia che ebbero ben pochi capi di stato e dimostrando così al mondo che lui non era la belva, il senza Dio dipinto da Mussolini, che volutamente non teneva conto del fatto che gli etiopici erano cristiani prima di noi.  Aveva inizio così la fine della nostra avventura coloniale (a breve sarebbe seguita la perdita dell’Eritrea e della Libia), con miliardi buttati al vento e un costo nostro in vite umane veramente ragguardevole (fra guerra e guerriglia circa 50.000 morti).

La grande riconciliazione con Hailé Selassiè si ebbe solo il 6 novembre 1970, quando su invito del nostro Presidente della Repubblica Giuseppe Saragat il Negus venne in visita ufficiale in Italia.  Si chiuse così un capitolo, che era proseguito in piena democrazia negando l’estradizione dei non pochi soggetti che si erano macchiati di orrendi crimini in Etiopia, in primis Pietro Badoglio e Rodolfo Graziani.

Il saggio di Del Boca parla di tutto questo e di altro ancora, e lo fa con il rigore proprio dello storico di razza, cioè verificando sempre prima l’attendibilità delle notizie con riscontri documentali, riportati nell’ampio elenco delle fonti e bibliografia di supporto; lo stile è snello, la narrazione appassionante e, per quanto l’autore cerchi di mantenersi equidistante, più di una volta trapela una simpatia per gli etiopi, per questi coraggiosi e ben pochi armati soldati che si immolarono per difendere la loro patria.

La guerra d’Etiopia è un libro che non delude le aspettative, è una di quelle opere la cui lettura è quasi d’obbligo.

Angelo del Boca (Novara 1925), saggista e storico del colonialismo italiano, ha insegnato storia contemporanea all'università di Torino. È stato insignito di tre lauree honoris causa dalle università di Torino (2000), Lucerna (2002) e Addis Abeba (2014). Tra le sue numerose e importanti opere ricordiamo: L'altra Spagna (1961), I figli del sole (1965), Giornali in crisi (1968), I gas di Mussolini. Il fascismo e la guerra d'Etiopia (1996), Il mio Novecento (2008), La guerra d'Etiopia. L'ultima impresa del colonialismo (2010), Da Mussolini a Gheddafi: quaranta incontri (2012). Da Mondadori ha pubblicato: Gli italiani in Africa Orientale (4 voll., 1992-1996),Gli italiani in Libia (2 voll., 1993-1994), L'Africa nella coscienza degli italiani. Miti, memorie, errori, sconfitte (2002).
Renzo Montagnoli

 

22 Maggio

I giorni dello sgomento

di Fiorella Borin

Edizioni della Sera

www.edizionidellasera.com

Narrativa romanzo storico 

La speranza

A leggere il breve stralcio riportato nella quarta di copertina si sarebbe indotti a credere che I giorni dello sgomento sia uno dei non pochi romanzi aventi per tema la resistenza e di ciò non ci sarebbe da meravigliarsi, attesa l’attitudine di Fiorella Borin che del romanzo storico ha fatto il suo pane. E invece, mano a mano che scorrono le pagine, ci si accorge che, pur nell’ambientazione storica di quel tragico periodo italiano, l’opera presenta caratteristiche diverse. Senza rinnegare i valori della resistenza, di questa guerra civile che insanguinò per quasi due anni il nostro paese, il romanzo  affronta una tematica molto più ampia e, purtroppo, sempre di attualità: l’insensatezza della guerra.

Non ci sono eroi, ci sono solo esseri umani con le loro paure, ma anche con la loro dignità, ci sono quei sentimenti sempre presenti, che magari si rafforzano in tempo di guerra, quali l’amore e l’amicizia. Sono umili della cui umiltà fanno la loro bandiera, persone come tante che incontriamo durante la vita e di cui nemmeno ci accorgiamo. Le figure di questi tre reduci dalla disastrosa campagna di Russia, accolti freddamente dalla gente del loro paese in quanto sconfitti, danno la giusta misura dell’impotenza di ogni uomo di fronte a qualcosa di troppo grande per lui e che non potrà mai capire; i tre sono sgomenti, ma quel che sanno è che l’amicizia è più forte di ogni astio e di ogni odio e che la guerra, che li ha offesi fisicamente e moralmente, è un’orrenda realtà con cui misurarsi ogni giorno. Sì, ogni giorno, perché il loro paese sarà devastato da un grande bombardamento, con numerose vittime, e poi perché, dopo l’8 settembre del 1943, con l’occupazione tedesca, la nascita della Repubblica Sociale Italiana e la ribellione che prende sempre più piede, la tanto auspicata pace sarà solo un ricordo. In poche, pagine le ultime, c’è tutta la sofferenza di quel periodo nelle scorrette prose del diario di Luigino, che frequenta con scarso profitto le elementari, c’è un abbozzo infantile di resistenza che non è un NO deciso verso il nazifascismo in quanto ideologia contraria, ma è un’avversione per quanto di male ha comportato il suo avvento, soprattutto per la guerra che ha scatenato. E, nelle riflessioni che chiudono l’opera, in Cesare, padre di Luigino e unitosi ai partigiani, c’è l’amarezza per la tragica fine dei suoi due compagni in un silenzioso e immaginario colloquio con loro, ci sono i patimenti morali per aver dovuto lasciare la famiglia e per aver dovuto battersi contro degli altri italiani; eppure, proprio perché domani può essere un altro giorno, alla voce dolente di Cesare segue quella meno malinconica di Mariella, sua moglie, che chiude il libro con una speranza, vale a dire che tutte quelle sofferenze non siano state vane e che un giorno i loro discendenti possano vivere in un mondo migliore, un mondo senza più guerre.

I giorni dello sgomento, proprio per la sua atipicità, per la pacatezza che si alza dalle righe, per il messaggio universale che porta è un romanzo che merita di essere letto.   

Fiorella Borin, nata a Venezia nel 1955, è laureata in psicologia. Per onorare la memoria del padre, reduce dalla Russia, ha scritto molti racconti sulla Seconda Guerra mondiale. Con Alberto Perdisa Editore ha pubblicato nel 2003 La Signora del Tempio nascosto. Con Tabula Fati ha pubblicato Il bosco dell’unicornoIl pittore merdazzèrLa strega e il robivecchiLa firma del diavolo e Christe eleison. Ha scritto, per le Edizioni Solfanelli, Il pellegrino spagnolo e Le voci muteNove storie veneziane. È autrice dell’ebook Premiata Ditta Marina & Piccina (Edizioni Cento Autori).
Renzo Montagnoli

 

18 Maggio

Piccoli forse

di Angela Caccia

Edizioni LietoColle

www.lietocolle.com

Poesia

Il forse è d’obbligo

se mi chiedi un per sempre
ti rispondo forse

se (anche) il tuo infinito
è di tanti piccoli forse

potrei scegliere di camminarti
accanto. Forse

All’inizio del libro, prima ancora della eccellente prefazione di Davide Rondoni, ci sono questi sei versi, un’introduzione dell’autore alla sua opera, che già sono esplicativi della finalità dell’opera stessa, di questa indeterminazione che da sempre accompagna ogni essere umano nel corso di una vita la cui unica certezza è che non sarà eterna. Anche le precedenti sillogi di Angela Caccia non sono meri esercizi poetici, ma riflettono una continua analisi filosofica che coinvolge soprattutto il proprio “io”, ma che inevitabilmente si estende agli altri (e gli altri, non sono forse un complesso di tanti “io”, pur nella loro diversità?). In questa raccolta, forse più che in altre, la trasposizione delle riflessioni in versi è quanto mai varia e scandita con un ritmo pacatamente costante. Nulla viene gridato, ma nemmeno sussurrato, è un canto lento e assorto che qualsiasi orecchio può udire, che qualsiasi mente può comprendere. E’ solo così, infatti, che le mille incertezze, i perduranti e affioranti dubbi possono trovare una letterale forma e costituire la base di quell’ideale dialogo che si svolge fra poeta e lettore. La parola è l’unica certezza dell’autore e questa appare ricercata, non frutto di un istinto, bensì il risultato di un laborioso percorso con cui ciò che è nell’animo viene esplicitato per una maggiore e più coerente conoscenza.

La vita, nei suoi eventi, impone, in chi non si ferma a una loro supina accettazione,  una ricerca approfondita per arrivare a chiarimenti, forse, però...

Il senso del giorno, l’esistenza della notte, la vita, la morte, sono fatti ricorrenti, ma anche grandi temi su cui tanti hanno ragionato per cercare i motivi, gli scopi, giungendo anche a delle risposte, ovviamente non certe, cioè può essere così, oppure, forse, tutt’altro. Queste riflessioni già non sono facili da esporre in prosa, immaginiamoci allora in poesia, ma ancora una volta ricorre quel “forse”, perché per Angela Caccia sembra molto più facile la seconda forma.

No, non sono in verità piccoli, questi forse, perché tutto ciò che è parte dell’esistenza appare infinitamente grande, proprio perché non sappiamo perché sia così; piccolo, forse, lo è nella misura in cui, essendo comune a tutti, non ha quell’evidenza di eccezionalità propria di altri.  In fin dei conti nulla vi è di grande, né di piccolo nei temi oggetto di queste approfondite riflessioni, c’è solo la vita, nei suoi variegati aspetti, c’è solo il bisogno di una conoscenza a cui ci sforziamo di arrivare inutilmente, o a cui crediamo di arrivare, ma sempre con quel ricorrente e indifferente “forse”.

Piccoli forse è un’altra tappa della ricerca poetica di Angela Caccia, è un’altra raccolta che merita di essere letta. 

Angela Caccia, vive e lavora a Crotone. È funzionaria in un ente pubblico. Laureata in scienze giuridiche, la sua passione è da sempre la letteratura. Ama la pittura e, in particolare, la poesia. Ha pubblicato: Il canto del silenzio, ICI, Napoli, 2004, Nel fruscio feroce degli ulivi, Fara Editore, 2013 Il tocco abarico del dubbio, Fara Editore, 2015
Renzo Montagnoli

 

15 Maggio

I clienti di Avrenos

di Georges Simenon

Traduzione di Federica Di Lella, Maria Laura Vanorio

Edizioni Adelphi

www.adelphi.it

Narrativa romanzo

Collana Biblioteca Adelphi 

I vitelloni in Turchia

Non so se Federico Fellini abbia letto I clienti di Avrenos prima di girare  I vitelloni, suo eccellente film del 1953, ma fin dalle prime pagine ho ritrovato la stessa atmosfera in cui trascinavano stancamente la loro esistenza i protagonisti della pellicola, ambientata a Roma, anziché a Istanbul come nel libro. E questo, né giallo né noir, è uno di quei romanzi – rari in verità – in cui Simenon, pur distaccandosi  dalle tensioni proprie dei thriller, riesce a ricreare un’atmosfera ovattata, lattiginosa in cui i personaggi si muovono come ombre. Del resto, definirli ombre non è esagerato: tutti rappresentanti di un ceto medio decadente, più che vivere, vegetano, senza impeti sentimentali, incapaci di scuotersi dal torpore in cui da troppo tempo sono immersi.

Si tratta di un gruppo di amici, turchi ed europei, non in grado di dare un senso alla loro vita e che fra una bevuta e una fumata di hashish sembrano avere come unico scopo quello di far trascorrere le ore.  Spicca, in mezzo, una donna, una ballerina di night, l’ungherese Nouchi, non proprio bella, ma comunque desiderabile, che proviene dal proletariato e che fra gli amici è forse  quella che ha uno scopo, e cioè illudersi di essere diventata ricca, mettendo in pratica continuamente il famoso motto “Carpe diem”. Civettuola, anche se a primo colpo può essere considerata una donna disposta ad andare con tutti, ha la capacità di attrarre e respingere, rendendosi così più desiderabile, una vera e propria esperta nell’arte della seduzione. La quasi totalità dei componenti della combriccola non lavora, vivendo di piccole o medie rendite, oppure si è trovata un’occupazione che lascia molto tempo libero, come nel caso del francese Bernard de Jonsac, interprete dell’ambasciata del suo paese. Da quanto ho esposto appare quindi logico farsi venire in mente il film di Fellini, perché anche qui nel libro siamo in presenza di vitelloni, di esseri che appaiono nati stanchi e incapaci di risvegliarsi, privi di sentimenti autentici e di passioni, a differenza di Lelia, una bella e ricca ragazza che entrerà nel gruppo e ne uscirà come una meteora .

E il titolo? Chi è Avrenos? É il nome di un locale, per la precisione di un ristorante, quello più frequentato dai vitelloni, il campo base per organizzare improvvisate spedizioni verso il nulla.

Da leggere.

Georges Simenon, nato a Liegi nel 1903, morto a Losanna nel 1989, ha lasciato centonovantatre romanzi pubblicati sotto il suo nome e un numero imprecisato di romanzi e racconti pubblicati sotto pseudonimi, oltre a volumi di «dettature» e memorie. Il commissario Maigret è protagonista di 75 romanzi e 28 racconti, tutti pubblicati fra il 1931 e il 1972. Celebre in tutto il mondo, innanzitutto per le storie di Maigret, Simenon è anche, paradossalmente, un caso di «scrittore per scrittori». Da Henry Miller a JeanPauhlan, da Faulkner a Cocteau, molti e disparati sono infatti gli autori che hanno riconosciuto in lui un maestro. Tra questi, André Gide: «Considero Simenon un grande romanziere, forse il più grande e il più autentico che la letteratura francese abbia oggi»; Walter Benjamin: «… leggo ogni nuovo romanzo di Simenon»; Louis-Ferdinand Céline: «Ci sono scrittori che ammiro moltissimo: il Simenon dei Pitard, per esempio, bisognerebbe parlarne tutti i giorni».
Renzo Montagnoli

 

13 Maggio

La valigia del meridionale e altri viaggi

(poesie 1975 – 2011)

di Vincenzo D’Alessio

Prefazione di Anna Ruotolo

Copertina di Luca Castroni

Fara Editore

www.faraeditore.it

Poesia 

L’aedo del Sud

Non me ne voglia l’autore, che infatti stimo molto, ma nel leggere le poesie che compongono questa raccolta mi è venuto in mente un altro uomo del Sud, un grande poeta che troppo presto ci ha lasciato: Rocco Scotellaro.  Infatti, nei versi ritrovo quel misto di nostalgia e rimpianto, non dissociato peraltro anche da un sentimento di ribellione all’ingiustizia che erano propri del poeta di Matera. Più che somiglianze, direi che c’è lo stesso spirito che, accomunando un lucano con un campano, riesce a dare voce a un meridione avaro di ricchezze materiali, ma ricco di di sentimenti e di aspirazioni, le stesse che nella sua veste di emigrante si porta dietro nella valigia colui che, pur amando la sua terra, è costretto ad andare altrove, per sfuggire alla miseria (noi giovani emigrati del Sud / pietre staccate da montagne / restiamo a Nord vestiti /di lutto per la terra nemica /…). Costretti quasi all’esilio i meridionali  vivono nel ricordo di ciò che hanno lasciato, a quelle cose buone di una volta di cui noi, al Nord, non abbiamo più memoria (Ti elogio pane di Montefusco / impasto di grano solare / e acqua leggera di fonte / lievitato di notte pronto / all’alba per salire nel forno /…) (La mia terra ha capelli / spettinati di donna acerba / faggete colme di aquiloni / siepi al sole /….). Ma se la nostalgia può placare il rimpianto, l’assenza di una speranza di ritorno in un sud diverso, volto a riabbracciare i figli dispersi, si traduce in una sorda rabbia per quello che potrebbe essere e forse non sarà mai  (Il Sud ha sapori / di ruggine e tradimenti / del poco lavoro della sofferenza /…) e rende ancora più stridente il confronto con un ricco artificioso Nord, dipinto con quei giochi di luce che solo un poeta può vedere (Ci sono notti di pietra. / Milano non dorme / strade arse di petrolio /rombo sopra l’urlo / delle chiese /…). E’ tuttavia una rabbia senza rancore, è il dolore della rassegnazione che mitiga l’affanno nel ricordo, latente, ma sempre pronto a emergere quando necessario (Canto meridionale dove sei? / bussi alle porte antiche / delle case, scendi le scale ripide / che vanno verso il mare / svegli i miti / nel verde dei lecci / sopra sassi puri / reggi le armonie dei cieli. /…).

E’ un meridione che riappare nella nebbia del tempo e la cui debolezza, fonte di un’eterna diaspora, intenerisce il cuore, riluce come una vampa nel focolare e fa sognare anche chi mai l’ha conosciuto.

Una raccolta semplicemente stupenda.

Vincenzo D’Alessio   è nato a Solofra nel 1950. Laureato in Lettere all’Università di Salerno è stato l’ideatore del Premio Città di Solofra, nonché il fondatore del Gruppo Culturale “Francesco Guarini” e dell’omonima casa editrice. Acuto e attento critico letterario, ha pubblicato anche saggi di archeologia e storia (v. bibliografia Polo SBN di Napoli). Diverse le raccolte poetiche che anno ricevuto premi e riconoscimenti, la più recente è La valigia del meridionale ed altri viaggi (Fara 2012, seconda edizione 2016 ). Nel 2014 vince con Il passo verde la pubblicazione in Opere scelte (Fara 2014). La tristezza del tempo è inserita in Emozioni in marcia (Fara 2015). Con Alfabeto per sordi è tra i vincitori del concorso Rapida.mente ed è stato inserito nell’omonima antologia (Fara 2015). Tutte e tre le sillogi sono riproposte in appendice a Immagine convessa.
Renzo Montagnoli

 

10 Maggio

La Società del Benessere Comune

Rivoluzione personale e cambiamento sociale per vivere molto meglio senza consumare sempre di più.

di Francesco Gesualdi e Gianluca Ferrara

Arianna Editrice

www.ariannaeditrice.it

Saggistica economica e sociale

Il sogno di un nuovo mondo
Crescente disoccupazione, lavoratori che vanno perdendo le tutele frutto di decenni di lotte, l’insicurezza che aumenta ogni giorno di più, il mito della crescita che sembra sempre più una chimera, la mancanza di una speranza che qualcosa possa cambiare in meglio fanno sorgere spontanea una domanda: che cosa sta succedendo alla nostra società?

A queste e altre domande hanno cercato di rispondere Francesco Gesualdi e Gianluca Ferrara con un interessante libro edito da Arianna.  Lo scopo dell’opera è evidente: trovare i motivi che ci hanno portato allo stato attuale e suggerire i necessari rimedi. Così la prima parte, piuttosto corposa, tende a mettere in evidenza la crisi generale, economica e sociale, indotta dal pensiero neoliberista, che politicamente ha trovato fra i suoi paladini George Bush e fra i suoi teorizzatori il premio Nobel per l’economia Milton Friedman. Non è che abbiano scoperto un’idea nuova, in quanto è propria del capitalismo, e già a metà del XVIII secolo trionfava il laissez faire, laissez passer, cioè una netta repulsione a qualsiasi intervento dello stato in campo economico, nella convinzione che eventuali storture del liberissimo mercato si sarebbero aggiustate da sé. Sappiamo che non è così, tanto è vero che proprio in seguito alla grande crisi economica del 1929, una bolla finanziaria, si decise, dapprima negli Stati Uniti, di ricorrere anche all’indebitamento per avviare grandi opere pubbliche che potessero fornire occupazione e sostentamento a milioni di disoccupati. Fu tuttavia un fuoco di paglia, per quanto nel dopo guerra, anche per contrastare il timore dell’avanzata del comunismo sovietico, venissero adottate misure volte a integrare l’iniziativa privata con quella pubblica. Venuto meno, come è ben noto, il pericolo rosso, il capitalismo, che pur in precedenza non disdegnava l’intervento dello stato quando fosse a sostegno delle sue necessità, rialzò la testa e, influente grazie alle disponibilità finanziarie, ha avviato pressioni sui politici affinché quello stato sociale, frutto di battaglie e faticosamente raggiunto, venisse smantellato. É stata una guerra a tutto campo, che ha coinvolto i mezzi di comunicazione, il mondo della scuola, insomma tutto quanto potesse servire per ridurre il già limitato potere dei lavoratori; inoltre, sono stati indotti i governi a non effettuare investimenti pubblici per sanare la piaga della disoccupazione, al fine di creare una netta sperequazione fra offerta e domanda di lavoro, presupposto indispensabile per avere bassi salari.

Ho esposto solo in parte e in modo molto succinto le problematiche, a cui va aggiunta da qualche anno una riduzione tendenziale della crescita, circostanza che però, a patto di introdurre diversi correttivi, può non essere considerata negativa, anzi una sana e corretta decrescita salverebbe anche noi e il pianeta dal disastro ambientale e dal rischio sempre più concreto di esaurimento delle sue risorse. E con questo scopo si arriva alla parte seconda, alle formulazioni di fini e metodi per ottenere la Società del benessere comune, in cui si lavora meno, in cui il monetarismo tende a diventare un ricordo, dove la solidarietà impera a vantaggio di tutti. La finalità è senz’altro condivisibile, ma i metodi per raggiungerla presupporrebbero un essere umano diverso, un individuo che finalmente ha recepito e fatto proprio il pensiero sociale di Gesù Cristo. Ci si entusiasma anche a leggere le soluzioni, ma poi sorge inevitabile una domanda: si potrà fare? Forse sì, ma ripeto che è il materiale umano che deve essere diverso, altrimenti il tutto resta nel campo delle buone intenzioni. Comunque resta valida la traccia fornita dagli autori e chissà che un giorno dimostri di non essere una semplice chimera, ma dilaghi sul pianeta creando una nuova società, meno ricca, ma più umana.

Francesco Gesualdi
Allievo di don Milani, partecipa alla stesura di Lettera a una professoressa. Fequenta il corso annuale per quadri sindacali della CISL e completa la sua formazione in ambito economico.
Dopo 2 anni di volontariato in Bangladesh, si trasferisce a Vecchiano (Pisa) per vivere un'esperienza semi-comunitaria con altre famiglie decise a dare solidarietà concreta a situazioni di difficoltà.
Fonda il Centro Nuovo Modello di Sviluppo per affrontare, da un punto di vista politico i temi dell’insostenibilità ambientale, della povertà, della fame, del disagio.
Ha già pubblicato diversi saggi in materia economica e romanzi.

Gianluca Ferrara
Laureato in Scienze Politiche, è un saggista noto per la sua analisi dei fenomeni politici e degli scenari economico- sociali.
Ha scritto per diverse riviste e quotidiani nazionali. Ai suoi libri hanno partecipato: Andrea Gallo, Alex Zanotelli, Beppe Grillo, Vandana Shiva e Paul Connett.
Ha fondato Dissensi Edizioni una casa editrice di cui è direttore editoriale che a lui piace definire un laboratorio culturale di contro-informazione e partecipazione.
Collabora con Il FattoQuotidiano.it.
Renzo Montagnoli

 

6 Maggio

Afonie indispensabili

Incontri di – versi

di Gavino Puggioni

Nota dell’autore

Prefazione di Laura Vargiu

Edizioni Thoth

www.thoth.it

Poesia

Noi e l’infinito

Nella breve nota introduttiva dell’autore c’è un cenno a Giacomo Leopardi, con la citazione dell’ultimo verso dell’Infinito (e il naufragar m’è dolce in questo mare), quel perdersi negli spazi incommensurabili dell’infinito, una riflessione che può portare allo sgomento, ma anche a una dolce struggente malinconia. E questo infinito è un motivo ricorrente nella poesia di Gavino Puggioni che, pur tuttavia, resta ancorata alla realtà di ogni giorno, ma tiene conto dell’umano dolore, delle tragedie che accompagnano l’esistenza, quali le ingiustizie e le guerre. Il poeta si chiede giustamente, visto che noi siamo un nulla di fronte a uno spazio temporale che trascende ogni umano concetto, perché mai non dobbiamo condurre un’esistenza di affetti e di pace, senza prevaricazioni, ma solo aprendo il proprio animo agli altri. E ciò appare tanto più indispensabile quando si consideri che la solitudine permea quell’attimo fuggente che è la vita di ognuno di noi. Nascono così dei versi di pacata riflessione, si instaura un dialogo con il proprio “io” volto al coinvolgimento di terzi, si apre un cancello nel muro che altrimenti rinchiude e isola, un desiderio di comunicazione in cui il poeta si libera da vincoli innati e acquisiti nella convivenza, esprime una sincerità offerta in pegno di un reciproco comprendere.

Sono molte le poesie di questa silloge e anche varie, pur nel rispetto di quel fil rouge di cui ho accennato, scritte in una metrica libera che comunque non prescinde dal raggiungimento di un equilibrio strutturale convergente in un’apprezzabile armonia. Non mancano quelle del ricordo, legato alla propria terra e in cui è ben espresso il percorso seguito per cercare di dare un senso alla propria vita (Era la vita / in quelle verdi vallate / bruciate dopo dal solleone / ridente / nell’arcobaleno delle stagioni/…) (Pietra di mare / arsa dal sale / amore nel sole / neve fissata/ nella croce / del tempo). Quella che però esprime meglio il pensiero dell’autore, permeata da un pessimismo esistenziale, è secondo me Questa vita, che merita di essere riportata integralmente perché compendia abilmente quell’infinito senso di solitudine per cui è giustificabile l’accostamento a Leopardi (Questa vita / come l’amore / Questa vita / fatta di terra / e di nuvole / di fumo e di fuochi / Questa vita / che sembra correre / e invece è ferma / fatta di parole inutili / Questa vita / che corre senza argini / nella culla di pensieri  / arrugginiti dal tempo / Questa vita / come l’amore / vive di trasparenza / nell’attesa di una porta / che rimarrà chiusa / per sempre).

Ecco, credo che Gavino Puggioni sia riuscito a scrivere una silloge che rappresenta, non solo per lui, il frutto di una lunga serie di riflessioni sull’esistenza, in modo chiaro e senz’altro di gradevole lettura; a mio avviso Afonie indispensabili è il suo capolavoro, magari irripetibile, anche se auguro all’autore di ripetersi, di allietarci con altre e nuove pregevoli raccolte.  

Gavino Puggioni è nato a Porto Torres (Sassari) nel 1939. Scrive dall'età di 18 anni ed ha pubblicato le sue prime poesie in alcune riviste letterarie nel 1959. Dopo una lunga parentesi dedicata al lavoro, nel 2003, pubblica 'Finagliosu', con dodici racconti giovanili e, dal 2004 al 2013, le raccolte: 'L'arcobaleno in giardino', 'Nel silenzio dei rumori', editi dalla Magnum Edizioni di Sassari. Negli ultimi anni: 'Le nuvole non hanno lacrime', altra silloge, pubblicata da Edizioni Il Foglio Letterario, di Piombino; 'Nelle falesie dell'anima', silloge autopubblicata. Diverse sue poesie sono state premiate in vari concorsi letterari, nazionali e internazionali, ed altrettante pubblicate in una decina di antologie.
Renzo Montagnoli

 

3 Maggio

La cappella di famiglia

e altre storie di Vigata

di Andrea Camilleri

Sellerio editore Palermo

www.sellerio.it

Narrativa

 

Si sorride e, anche, si ride

Vien da dire che Vigata non ci sarebbe se non ci fosse Camilleri e infatti questa località siciliana è frutto di esclusiva fantasia, per quanto lo stesso narratore  abbia voluto identificarla con Porto Empedocle. Certo, l’escamotage così architettato è stato un artificio che gli ha consentito di tessere una fitta trama di vicende, tutte di fantasia, partendo da un modesto, ma concreto piano di verità. A parte gli episodi del commissario Montalbano che si svolgono appunto a Vigata, è tutto un fiorire di racconti lì domiciliati. Al riguardo, mi viene in mente Gran Circo Taddei e altre storie di Vigata,  ma anche Il birraio di Preston che è a mio avviso un autentico e irripetibile capolavoro.  Ora, la creatività, ma anche la verve comica di Camilleri possono – e lo fanno – stupire per la genialità di alcune trovate, per una serie cospicua di trame mai uguali.

Anche in questi otto racconti  ci si lascia volentieri trascinare in una Sicilia sì immaginata, ma che compendia perfettamente tutte le caratteristiche di una qualsiasi realtà abitativa dell’isola. Le avventure possono essere le più disparate e per divertire e interessare non devono essere necessariamente boccaccesche, ma devono presentare un paradosso, un qualcosa spinto al limite in base al quale qualsiasi fatto di normale amministrazione deve diventare un evento unico e addirittura irripetibile.  E’ questo il caso di Il morto viaggiatore, con un cadavere che non riesce a trovare pace, sbattuto di qua e di là e “ più vivo da morto che da vivo”. Ma anche Il palato assoluto pare l’esaltazione di ciò che non può essere, cioè la totale genuinità del cibo. Il racconto che però ha una valenza più generale, impietoso con un popolo che da sempre vive di piccole astuzie e soprattutto di sogni è L’oro a Vigata, un classico per certi aspetti di un modo di mettere in evidenza le nostre miserie, qui rese ancora più stridenti dall’epoca fascista. Come dicevo, sono otto racconti, qualcuno migliore degli altri, in cui a volte si sorride  e altre, più raramente, in cui si ride, una risata amara , come quella che accompagna Lo stivale di Garibaldi, con il quale si comprende come la distanza dallo stato sia stata una costante dalla spedizione dei mille in poi.  Lì infatti troviamo una

serie di incomprensioni, da parte di chi non vuole comprendere, che condanna la Sicilia a un isolamento senza appello e la protervia del potere centrale, rappresentata da un ottuso prefetto, non può che far sembrare simpatici quei carcerati che hanno deciso di prendere la via della libertà.

Insomma, si legge con piacere e, anche se non ci troviamo di fronte a un capolavoro, non possiamo che constatare l’apprezzabile svolgimento dei temi, pur confezionati in quel particolare siculo-italiano, che non è né l’una né l’altra lingua, ma solo il marchio di fabbrica di un sempreverde Camilleri.

Andrea Camilleri (Porto Empedocle, 1925), regista di teatro, televisione, radio e sceneggiatore. Ha insegnato regia presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica. Ha pubblicato numerosi saggi sullo spettacolo e il volume, I teatri stabili in Italia (1898-1918). Il suo primo romanzo, Il corso delle cose, del 1978, è stato trasmesso in tre puntate dalla TV col titolo La mano sugli occhi. Con questa casa editrice ha pubblicato: La strage dimenticata (1984), La stagione della caccia (1992), La bolla di componenda (1993), Il birraio di Preston (1995), Un filo di fumo (1997), Il gioco della mosca (1997), La concessione del telefono (1998), Il corso delle cose (1998), Il re di Girgenti (2001), La presa di Macallè (2003), Privo di titolo (2005), Le pecore e il pastore (2007), Maruzza Musumeci (2007), Il casellante (2008), Il sonaglio (2009), La rizzagliata (2009), Il nipote del Negus (2010, anche in versione audiolibro), Gran Circo Taddei e altre storie di Vigàta (2011), La setta degli angeli (2011), La Regina di Pomerania e altre storie di Vigàta (2012), La rivoluzione della luna (2013), La banda Sacco (2013), Inseguendo un'ombra (2014), Il quadro delle meraviglie. Scritti per teatro, radio, musica, cinema (2015), Le vichinghe volanti e altre storie d'amore a Vigàta (2015), La cappella di famiglia e altre storie di Vigàta (2016), La mossa del cavallo (2017); e inoltre i romanzi con protagonista il commissario Salvo Montalbano: La forma dell'acqua (1994), Il cane di terracotta (1996), Il ladro di merendine (1996), La voce del violino (1997), La gita a Tindari (2000), L'odore della notte (2001), Il giro di boa (2003), La pazienza del ragno (2004), La luna di carta (2005), La vampa d'agosto (2006), Le ali della sfinge (2006), La pista di sabbia (2007), Il campo del vasaio (2008), L'età del dubbio (2008), La danza del gabbiano (2009), La caccia al tesoro (2010), Il sorriso di Angelica (2010), Il gioco degli specchi (2011), Una lama di luce (2012), Una voce di notte (2012), Un covo di vipere (2013), La piramide di fango (2014), Morte in mare aperto e altre indagini del giovane Montalbano (2014), La giostra degli scambi (2015), L'altro capo del filo (2016).
Premio Campiello 2011 alla Carriera, Premio Chandler 2011 alla Carriera, Premio Fregene Letteratura - Opera Complessiva 2013, Premio Pepe Carvalho 2014, Premio Gogol’ 2015.
Renzo Montagnoli

 

1 Maggio

La linea d’ombra

di Joseph Conrad

Introduzione di Cesare Pavese

Traduzione di Flavia Marenco

Edizioni Einaudi

Narrativa 

 

Istruzioni per la vita

Accade, talvolta, che nel leggere le presentazioni o le recensioni di alcuni libri si dica espressamente che si tratta di un romanzo di formazione. Ecco, se si vuol comprendere cosa intenda con questa dizione mi pare opportuno che si provveda alla lettura di La linea d’ombra, un capolavoro e un classico della letteratura mondiale. L’opera venne pubblicata da Conrad nel 1917, un anno che si rivelò uno dei più sanguinosi fra quelli della prima guerra mondiale ed è risaputo che il romanzo, breve, venne dedicato al figlio ferito sul fronte occidentale; più che una dedica, è però da considerarsi un compendio di istruzioni per la vita. Infatti, la linea d’ombra, da cui il titolo, è quel confine indefinibile che segna il momento del passaggio dalla spensierata giovinezza alla concreta maturità, dal desiderio che il domani sia oggi al sogno che il tempo invece possa rallentare; in ogni uomo c’è un periodo di gaia spensieratezza e un altro in cui si comprende di essere diventati indipendenti e responsabili. Non c’è dubbio che La linea d’ombra racconti di un’esperienza dell’autore, una sorta di confessione che, partecipandola ad altri, gli fornisce la conferma del vissuto. La vicenda del secondo ufficiale che sbarca per tornarsene a casa e poi si ritrova comandante di una nave che non naviga certo in acque tranquille, fra bonacce, tempeste della natura e dell’equipaggio, è un po’ la metafora dell’uragano che si scatena nell’intimo quando da giovani si diventa adulti, quando si abbandona il beato stato d’incoscienza per confrontarsi con gli altri e anche con se stessi con i mille problemi della vita. Proprio per comprendere pienamente quel senso di inadeguatezza che ci coglie nel passaggio dalla gioventù alla maturità è uno di quei romanzi che possono essere letti, e ben capiti, solo da un adulto, che avrà fra l’altro il piacere di verificare come anche lui ha navigato in acque infide, fra bonacce e tempeste, fra uomini disperati e trasognati, per poter prendere infine coscienza di se stesso; e così, essere riusciti ad avere la consapevolezza dei propri difetti e dei propri pregi permette di lasciare alle spalle un periodo di gioiosa incoscienza di cui non resterà che un ricordo e a cui più avanti negli anni si guarderà con malinconica nostalgia.

Mi pare superfluo aggiungere che la lettura è da me più che raccomandata.

Nato in Ucraina, ma rimasto ben presto orfano di entrambi i genitori, Joseph Conrad (Berdicev, Podolia, 1857- Bishopsbourne, Kent, 1924) fu affidato alla tutela di uno zio e, appena diciassettenne, partí per Marsiglia spinto da un'irresistibile vocazione per la navigazione. Per vent'anni viaggiò in quasi tutti i mari. L'attenzione suscitata dal suo primo romanzo lo indusse a lasciare la Marina e a stabilirsi in Inghilterra (aveva ottenuto nel frattempo la cittadinanza inglese) per dedicarsi all'attività letteraria. Della sua opera, Einaudi ha pubblicato: Heart of Darkness. Cuore di tenebra(«ET Classici»); The Shadow-Line. La Linea d'ombra (serie bilingue);VittoriaTyphoon. Typhon. Tifone (serie trilingue ed «Einaudi Tascabili»). Racconti di mare e di costaLa freccia d'oroVittoria. Un racconto delle isole e Fra terra e mare.
Renzo Montagnoli

 

27 Aprile

Giallo a corte

di Roberto Brunelli

Universitas Studiorum

www.universitas-studiorum.it

Saggio storico 

Indagini su casi irrisolti

E’ risaputo che più il tempo passa, più diventa difficile trovare l’autore, o gli autori, di un delitto.  Quando poi non si tratta di anni, ma di secoli la cosa diventa praticamente impossibile. E allora, con quale fine Roberto Brunelli racconta in questo libro di delitti accaduti in territorio mantovano addirittura a partire dal 6 maggio 1052? La risposta è semplice ed è rinchiusa nello scopo dello storico, cioè quel desiderio e quel tentativo di avvicinarsi il più possibile alla verità. Nei casi esaminati, oggetto di questo testo, Brunelli non cerca il colpevole (per un delitto del resto è già notorio), ma si propone di dare una risposta a due semplici domande: quali furono le cause e quali le finalità. Del resto, ancor oggi, il movente è uno degli elementi basilari di un’indagine, come anche il sapere chi può trarre beneficio dall’evento.  Credo sia superfluo evidenziare che l’autore formula delle ipotesi, tutte egualmente valide, ma pressoché impossibili da verificare, dato il tempo trascorso. Ne esce così un quadro storico di non comune efficacia, che aiuta a comprendere come si vivesse in epoche in cui le lotte per il potere non erano mai incruente, con la ragion di stato che quasi sempre si identificava nel tornaconto personale.

Si passa così dall’omicidio del marchese Bonifacio di Canossa (6 maggio 1052), trafitto da una freccia durante una battuta di caccia sulle rive del fiume Oglio, a quello del vescovo Guidotto da Correggio, passato a fil di spada il 14 maggio 1235 mentre si recava all’abbazia per presiedere il Capitolo che avrebbe dovuto eleggere il nuovo abate. Stranamente di veri e propri gialli a corte ce ne sono pochissimi, se per corte intendiamo quella dei Gonzaga, che in effetti ricorsero al delitto in misura assai inferiore a quella di altri Signori coevi.  Fra i pochissimi ci fu l’esecuzione di Agnese Visconti Gonzaga, sposa di Francesco Gonzaga IV Capitano di Mantova, e del suo presunto amante Antonio da Scandiano. Esecuzione presuppone un processo, che in effetti ci fu, ma è più che mai logico pensare che questo adulterio sia stato artatamente predisposto, con testimonianze non veritiere, e che quindi i rei non fossero colpevoli, tanto da poter parlare di assassinio di stato. Un omicidio vero sotto tutti i crismi fu invece quello del dotto James Crichton, il mirabile Critonio, infilzato dalla spada del  bel Vincenzo I, figlio e successore di Guglielmo Gonzaga, duca di Mantova e del Monferrato, vicenda peraltro molto ben descritta nel riuscito romanzo storico I leoni d’Europa, scritto da Tiziana Silvestrin. Anche in questo caso conosciamo l’assassino, ma il movente e gli scopi lasciano adito a non pochi dubbi. E infine, a dimostrazione che il giallo non riguarda solo un fatto di sangue, Brunelli nell’ultimo capitolo (Duchesse di Mantova rifiutate:tre) ci porta per mano a comprendere come una dinastia, quella dei Gonzaga, un tempo potente, sia pervenuta alla sua estinzione, un tracollo dovuto all’insipienza e alla disonestà degli ultimi duchi, che non riuscendo anche ad assicurarsi una discendenza, incolparono di ciò le incolpevoli consorti.

Lo stile è snello, i casi interessanti, insomma qui i motivi per leggere il libro sono ben chiari e non danno adito a dubbi..

Monsignor Roberto Brunelli è scrittore, critico d’arte e direttore del Museo diocesano di arte sacra Francesco Gonzaga, è autore di testi di argomento religioso, di storia dell’arte e di narrativa. Negli anni ’80 ha collaborato con Mondadori come curatore e traduttore di alcuni titoli della popolare collana enciclopedica per ragazzi I grandi libri e come autore del Grande libro della Bibbia (1983). Fra le sue opere thriller ricordiamo “Delitto in sagrestia”, la ricostruzione storica di “Giallo a corte”, dedicata ad alcuni delitti irrisolti di epoca gonzaghesca, “Requiem in rosso” e il racconto “Papa a sorpresa”, dove l’autore, prima della diffusione della notizia delle dimissioni di Benedetto XVI, ipotizzava che cosa sarebbe potuto accadere con le dimissioni di un pontefice. Nella sua opera ricorrono in particolare i saggi storici e artistici di argomento mantovano, oltre a un filone di narrativa noir.
Renzo Montagnoli

 

24 Aprile

Gli intrusi

di Georges Simenon

Traduzione di Laura Frausin Guarino

Edizioni Adelphi

www.adelphi.it

Narrativa romanzo

Collana Biblioteca Adelphi

La resurrezione dell’avvocato Loursat

Da quando sua moglie Geneviève se ne era andata la vigilia di Natale di diciotto anni prima con il suo amante Bernard, l’avvocato Hector Loursat de Saint-Marc si era rinchiuso in una sorta di bozzolo  in cui esistevano giornate sempre uguali, trascorse bevendo e fumando, in una casa troppo grande ormai, benché abitata anche dalla figlia Nicole  e dalla cuoca  Joséphine, soprannominata Fine, oppure la Nana, una donnetta brutta e magra.  Era scattato qualche cosa nella sua testa che gli impediva di vivere, lui che poteva  essere considerato un principe del foro e che, di ricca famiglia, poteva permettersi di condurre l’esistenza anche senza lavorare. Nessun dialogo con la figlia, isolato dall’esterno, più che vivere Hector vegetava, fino a quando una sera uno sparo nell’abitazione darà corpo a una serie di eventi che lo indurranno ad affacciarsi al mondo, a rientrare nella società, a essere di nuovo il grande avvocato, temuto e rispettato da tutti.  Gli intrusi, scritto nel 1938 e pubblicato l’anno successivo, è un romanzo che in altre mani non sarebbe riuscito bene, ma quando l’idea viene sviluppata da un genio come Simenon non ci sono limiti alla bellezza di un’opera, in cui tutto, dico tutto, risulta in perfetto equilibrio. Se la trama è piuttosto originale, ritroviamo quello stile attento che è proprio dell’autore, con un’ambientazione che oserei definire perfetta e con un’atmosfera  che, di pari passo con la rinascita di Hector, passa  dal cupo grigio di giorni di pioggia all’azzurro di cieli sereni, e con un’analisi psicologica dei protagonisti  - punto di forza di Simenon – che desta ancora una volta meraviglia.  Inoltre, e non è una novità, scopo del romanzo è di mettere bene in evidenza le piccinerie della borghesia, un ceto fatto di stolte apparenze e di modeste sostanze,. Non c’è tuttavia cattiveria in Simenon quando descrive  il procuratore della repubblica Rogissart, suo cugino per parte di moglie, il suo impegno ad evitare che lo scandalo dell’omicidio travolga anche lui, per effetto della parentela, o quando parla di una certa  gioventù, in cui si mescolano ricchi e poveri, questi ultimi invidiosi dei primi, una gioventù che vive di noia e di alcool.

Hector Loursat sembra essere l’unico personaggio positivo, risorto dalla tomba e tornato alla vita cittadina, ma sarà così? Forse, anzi probabilmente no, perché alla radice c’è il problema di base, cioè quell’appartenenza a una borghesia che in ogni caso conduce una vita vuota.

Da leggere, ci mancherebbe altro.

Georges Simenon, nato a Liegi nel 1903, morto a Losanna nel 1989, ha lasciato centonovantatre romanzi pubblicati sotto il suo nome e un numero imprecisato di romanzi e racconti pubblicati sotto pseudonimi, oltre a volumi di «dettature» e memorie. Il commissario Maigret è protagonista di 75 romanzi e 28 racconti, tutti pubblicati fra il 1931 e il 1972. Celebre in tutto il mondo, innanzitutto per le storie di Maigret, Simenon è anche, paradossalmente, un caso di «scrittore per scrittori». Da Henry Miller a JeanPauhlan, da Faulkner a Cocteau, molti e disparati sono infatti gli autori che hanno riconosciuto in lui un maestro. Tra questi, André Gide: «Considero Simenon un grande romanziere, forse il più grande e il più autentico che la letteratura francese abbia oggi»; Walter Benjamin: «… leggo ogni nuovo romanzo di Simenon»; Louis-Ferdinand Céline: «Ci sono scrittori che ammiro moltissimo: il Simenon dei Pitard, per esempio, bisognerebbe parlarne tutti i giorni».
Renzo Montagnoli

 

21 Aprile

La signora della Vandea

di Arrigo Petacco

Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Storia biografia

 

Alla conquista del trono di Francia

Arrigo Petacco è un bravo autore di eccellenti biografie nelle quali, pur restando fedele alle risultanze storiche, è capace di far sembrare come vivi i personaggi che in un modo o nell’altro, nel bene e nel male, meritano di essere meglio conosciuti. Sono soprattutto quelli femminili i più riusciti, donne nate troppo presto, cioè in un’epoca nella quale le loro idee risultavano di gran lunga avveniristiche, come  nel caso di Cristina Trivulzio di Belgioioso, oppure troppo tardi, ancorate a concetti desueti o comunque prossimi a essere considerati tali, appunto come nel caso di Maria Carolina di Borbone. Costei era la figlia di Francesco I, re delle Due Sicilie, e dell’arciduchessa Maria Clementina d’Asburgo Lorena, figlia a sua volta dell’imperatore Leopoldo II. Minuta, non bella, ma graziosa, anzi charmant, andò in sposa a Carlo Ferdinando d’Artois, duca di Berry, figlio minore del conte d’Artois, il futuro re di Francia Carlo X. Lo sposo aveva vent’anni più di Carolina, ma ciò nonostante

e benché si trattasse di un matrimonio combinato, i due si vollero veramente bene e tutto sembrava procedere per il meglio, nell’attesa che dalla coppia uscisse un figlio maschio, tanto più atteso poiché sarebbe stato l’erede al trono, allorché il duca di Berry venne assassinato. Poco tempo dopo nasceva il tanto sospirato maschio, che prese il nome di Enrico e a cui furono attribuiti, quali titoli nobiliari, quello di Duca di Bordeaux e Conte di Chambord. Tuttavia, con la Rivoluzione di Luglio, nota anche come rivoluzione del 1830, Carlo X fu spodestato a beneficio di Luigi Filippo di Borbone e dovette riparare in esilio in Inghilterra, seguito dall’intera corte e anche da Maria Carolina e dal figlio Enrico. Poiché Carlo X aveva abdicato, restava come legittimo pretendente solo il conte di Chambord, ancora minorenne, e fu per questo che Maria Carolina

cercò di farsi proclamare come reggente.  Ma reggente di una corona senza potere sarebbe stato inutile e fu per questo che lei brigò a lungo e tanto fece per addivenire a una sollevazione legittimista, che sarebbe dovuta partire dalla Vandea, con lo scopo di rimettere sul trono  quello che era da considerare a tutti gli effetti il naturale successore di Carlo X e cioè il giovane Enrico. Non intendo andar oltre, perché la vicenda è ricca di colpi di scena, di tutti i tipi, al punto che viene da dire che qualche volta la realtà supera la fantasia.

Oltre alla trama particolarmente avvincente il libro è interessante anche per conoscere un po’ di più il periodo della restaurazione in Francia, periodo per certi aspetti caotico e nel quale chi comandava doveva dimostrare una particolare elasticità, tenendo conto, nel riproporre l’assolutismo a cui aveva posto fine la rivoluzione del 1789, delle idee proprie di quella rivoluzione che avevano attecchito in modo incancellabile in parte dei sudditi, soprattutto in quella borghesia che sarà poi il motore pulsante per riportare la Francia alla potenza economica del passato.

Petacco si destreggia bene e non nasconde una certa simpatia per questa donna, che si mette in gioco con l’energia di un uomo e l’entusiasmo di un bambino, senza rendersi conto che non ci sono speranze, che il mondo, il suo mondo, è cambiato in modo irreversibile; eppure si batte, rischia anche la vita, ma sarà tutto inutile, perché perderà.

Da leggere, senza dubbio.

Arrigo Petacco è nato a Castelnuovo Magra (La Spezia) e vive a Portovenere. Giornalista, inviato speciale, è stato direttore della «Nazione» e di «Storia illustrata », ha sceneggiato film e realizzato programmi televisivi di successo. Nei suoi libri affronta i grandi misteri della storia, ribaltando spesso verità giudicate incontestabili. Fra gli altri ricordiamo, pubblicati da Mondadori:Dear Benito, caro Winston, I ragazzi del '44, La regina del Sud, Il Prefetto di ferro, La principessa del Nord, La Signora della Vandea, La nostra guerra. 1940-1945, Il comunista in camicia nera, L'archivio segreto di Mussolini, Regina. La vita e i segreti di Maria José, Il Superfascista, L'armata scomparsa, L'esodo, L'anarchico che venne dall'America, L'amante dell'imperatore, Joe Petrosino, L'armata nel deserto, Ammazzate quel fascista!, Il Cristo dell'Amiata, Faccetta nera, L'uomo della Provvidenza, La Croce e la Mezzaluna, ¡Viva la muerte!, L'ultima crociata, La strana guerra, Il Regno del Nord, O Roma o morte, Quelli che dissero no, Eva e Claretta, A Mosca, solo andataNazisti in fugaLa storia ci ha mentito e Ho sparato a Garibaldi.
Renzo Montagnoli
 

 

18 Aprile

Germinale

di Émile Zola

traduzione di Camillo Sbarbaro

contributi di Francesco De Sanctis

Edizioni Einaudi

Narrativa romanzo 

J’accuse

Nelle ultime pagine del romanzo si comprende il motivo del titolo: Germinale è un mese del calendario che corrisponde all’inizio della primavera e con essa di nuove foglie, di fiori, insomma di una rinascita; infatti, mentre il protagonista Stefano lascia le miniere per recarsi a Parigi passando per i campi, d’istinto accosta i minatori ai vegetali che nascono dalla terra e germogliano, così che questa fioritura diventa la metafora dell’insurrezione operaia, di quel lunghissimo sciopero con cui, pur se usciti sconfitti, hanno acquisito la certezza di costituire una forza che prima o poi finirà per trionfare su una esosa e crudele borghesia.

Per scrivere il suo romanzo l’autore, come sua abitudine, si documentò con certosina pazienza, andando addirittura a visitare delle miniere, a vedere con i suoi occhi le inumane condizioni di lavoro a cui erano costretti gli operai, remunerati solo di quel tanto che consentiva loro di sopravvivere.

Zola, uno fra i capostipiti di quella corrente letteraria frutto del positivismo e che prenderà il nome di naturalismo, si prefigge lo scopo di rappresentare la realtà nel modo più oggettivo che sia possibile, osservando, descrivendo e, con lo scopo di mostrare le grande distorsioni di una società. All’epoca della stesura (correva il 1884), a fronte di una borghesia che aveva di fatto soppiantato l’antica nobiltà, esisteva un vasto proletariato, ampiamente sfruttato e spesso abbrutito dalle condizioni di miseria. In questa classe sociale indubbiamente ai minatori spettava la palma dei più disgraziati, costretti a far lavorare sotto terra anche i figli più giovani, senza ritrarre un guadagno dignitoso, ma anzi con una remunerazione appena sufficiente per non morire. E se la paga era inadeguata, l’ambiente di lavoro e i rischi erano infernali; inascoltati, vessati dai padroni questi disgraziati mancavano di tutto, ma specialmente della speranza di un miglioramento della loro condizione. La vicenda descritta del romanzo, cioè quella del giovane meccanico Stefano Lantier, giunto in quelle terre di miniere dopo essere stato licenziato  per avere alzato le mani sul suo capo, sceso nelle viscere della terra per trarre il minimo indispensabile per vivere, e che, smanioso di avere un po’ di giustizia per sé e per gli altri, diventa capo popolo, organizzando un colossale sciopero a oltranza, è una di quelle che non può lasciare indifferente il lettore. Zola, poi, sa toccare i tasti giusti, descrive in modo mirabile l’ambiente, ricreando un’atmosfera lugubre, quasi gotica, in cui si muovono, si agitano, si spengono più che degli esseri umani, dei dannati. Se lo scopo iniziale di Stefano era di reclamare per sé e per gli altri un po’ di dignità, mano a mano che si accorge di essere seguito e osannato, di aver realizzato un po’ di potere personale, subentra, pur restando presente lo scopo civile, l’ambizione, il desiderio di primeggiare, di disporre degli altrui destini. Pur con le debite proporzioni, Stefano diventa simile a quei borghesi che combatte, a dimostrazione che è insanabile nell’uomo la sua natura di essere bestiale, portato, qualora circostanze e occasioni lo mettano in luce, al predominio sui suoi simili, in barba a qualsiasi concetto di uguaglianza. É un’amara constatazione quella che lascia trasparire Zola, ma non può sottacere quello spirito di corpo che ha compattato i minatori per uno sciopero da cui non trarranno vantaggi, ma che lascerà una lunga e disperata scia di lutti e di sangue. Senza mai indulgere alla facile commozione, l’autore ha la capacità di stemperare il furore della massa con la struggente visione della giovane Alzira, una dei figli di Maheu, nata rachitica, con la gobba, e che muore di inedia  nei lunghi giorni dello sciopero. Come un regista che sa ben manovrare la macchina da presa ci offre immagini memorabili dello scontro con le truppe, in una tensione che arriva a coinvolgere ai massimi livelli il lettore, ma poi c’è tutta una dolcezza di rara bellezza nell’unico rapporto, nella mota, fra Stefano e Caterina, un’altra figlia di Maheu; sono due righe, scritte con un tenero pudore che tutto dice senza malizia e solo con grazia.

Dall’uomo del j’accuse della vicenda Dreyfus, quindi Germinale è un altro j’accuse a una borghesia gretta e insensibile, all’uomo in sé, ricco di egoismo e avaro di altruismo.

É un grande capolavoro, da leggere, rileggere e meditare.

Émile Zola (1840-1902), caposcuola del naturalismo francese, fu al centro di numerose polemiche artistiche (ad esempio, si schierò a favore degli impressionisti) e, nel famoso affaire, col suo J'accuse difese Dreyfus denunciando il complotto militarista reazionario e antisemita. Il ciclo dei Rougon-Macquart - avviato nel 1871 e concluso, dopo venti romanzi, nel 1893 - prende in esame tutti gli strati della società attraverso le vicende di personaggi appartenenti allo stesso ceppo familiare, ineluttabilmente condizionati da malattie e vizi ereditari, nonché, spesso, da condizioni sociali degradanti. L'assunto un po' schematico, che assomma determinismo e teorie dell'ereditarietà, è superato dalla capacità dello scrittore di condensare in personaggi e immagini memorabili le contraddizioni della modernità.
Renzo Montagnoli

 

8 Aprile

Un covo di vipere

di Andrea Camilleri

Sellerio Editore Palermo

www.sellerio.it

Narrativa romanzo giallo 

Discesa nello squallore

Certo che ci sono vittime che sembrano aver meritato la loro fine, come nel caso del ragionier Cosimo Barletta, uno squallido personaggio, usuraio, profittatore e gran donnaiolo, ma con attenzioni rivolte solo verso giovani ragazze. E vien da pensare che in fondo, con i non pochi nemici che aveva, non è forse un caso se è stato ammazzato due volte, la prima con il veleno e la seconda con un colpo di pistola. Del resto la vittima era di una bassezza quasi unica, usa al ricatto nei confronti di diverse giovani, anzi il ricatto costituiva quasi una prassi, avvalendosi di numerose fotografie scattate in momenti compromettenti, la cui divulgazione avrebbe senz’altro disonorato la ragazza di turno. Più Montalbano,  Augello e Fazio vanno avanti nelle indagini, più si rendono conto di scendere poco a poco in un covo di vipere, a cui non è estraneo neppure l’ambiente familiare, con un figlio che ha  più di un motivo per odiare il padre Cosimo e desiderarne la morte, e con una figlia che, all’apparenza sembra la migliore, la più presentabile, ma che nasconde inconfessabili tendenze. In questa vicenda di sesso, di amore e di odio Camilleri pare trovarsi a suo agio, senza mai correre il rischio di scivolare nel pornografico o, forse peggio, nella farsa ridanciana. In fondo il ragionier Barletta è sì squallido, ma anche il mondo di cui si circonda non è da meno, e non è facile per un pur bravo investigatore come Montalbano giungere alla conclusione, ma ci riuscirà, trovando il reo che tuttavia non apparirà mai in un’aula di tribunale.

Un covo di vipere è un bel poliziesco, forse uno dei migliori della serie con Montalbano, anche grazie alla capacità di Camilleri di sondare l’animo umano, di mettere a nudo quanto di peggio vi si cela, e il tutto con la consueta prosa scorrevole che non potrà che risultare gradita al lettore. 

Andrea Camilleri (Porto Empedocle, 1925), regista di teatro, televisione, radio e sceneggiatore. Ha insegnato regia presso l’Accademia Nazionale d’Arte Drammatica. Ha pubblicato numerosi saggi sullo spettacolo e il volume, I teatri stabili in Italia (1898-1918). Il suo primo romanzo, Il corso delle cose, del 1978, è stato trasmesso in tre puntate dalla TV col titolo La mano sugli occhi. Con questa casa editrice ha pubblicato: La strage dimenticata (1984), La stagione della caccia (1992), La bolla di componenda (1993), Il birraio di Preston (1995), Un filo di fumo (1997), Il gioco della mosca (1997), La concessione del telefono (1998), Il corso delle cose (1998), Il re di Girgenti (2001), La presa di Macallè (2003), Privo di titolo (2005), Le pecore e il pastore (2007), Maruzza Musumeci (2007), Il casellante (2008), Il sonaglio (2009), La rizzagliata (2009), Il nipote del Negus (2010, anche in versione audiolibro), Gran Circo Taddei e altre storie di Vigàta (2011), La setta degli angeli (2011), La Regina di Pomerania e altre storie di Vigàta (2012), La rivoluzione della luna (2013), La banda Sacco (2013), Inseguendo un'ombra (2014), Il quadro delle meraviglie. Scritti per teatro, radio, musica, cinema (2015), Le vichinghe volanti e altre storie d'amore a Vigàta (2015), La cappella di famiglia e altre storie di Vigàta (2016), La mossa del cavallo (2017); e inoltre i romanzi con protagonista il commissario Salvo Montalbano: La forma dell'acqua (1994), Il cane di terracotta (1996), Il ladro di merendine (1996), La voce del violino (1997), La gita a Tindari (2000), L'odore della notte (2001), Il giro di boa (2003), La pazienza del ragno (2004), La luna di carta (2005), La vampa d'agosto (2006), Le ali della sfinge (2006), La pista di sabbia (2007), Il campo del vasaio (2008), L'età del dubbio (2008), La danza del gabbiano (2009), La caccia al tesoro (2010), Il sorriso di Angelica (2010), Il gioco degli specchi (2011), Una lama di luce (2012), Una voce di notte (2012), Un covo di vipere (2013), La piramide di fango (2014), Morte in mare aperto e altre indagini del giovane Montalbano (2014), La giostra degli scambi (2015), L'altro capo del filo (2016).

Premio Campiello 2011 alla Carriera, Premio Chandler 2011 alla Carriera, Premio Fregene Letteratura - Opera Complessiva 2013, Premio Pepe Carvalho 2014, Premio Gogol’ 2015.
Renzo Montagnoli

 

3 Aprile

Immagine convessa

di Vincenzo D’Alessio

Presentazione di Alessandro Ramberti

con nota critica di Anna Ruotolo

in copertina: Antonio D’Alessio

Fara Editore

www.faraeditore.it

Poesia 

Quando il silenzio è più forte di un grido

La poesia sa essere immagine, o acuto grido di dolore, e anche tanto altro, perché nei versi si può ritrovare l’anima dell’autore. In genere ogni poeta ha una tematica preferenziale, più volte sviluppata, scavata e ricercata; meno facile che in uno stesso artista si ritrovino argomenti diversi e che questi riesca a fonderli in un equilibrio sostanziale che dona integrità alla lirica, capace di proporsi come autentico specchio delle innumerevoli sfaccettature dell’anima.  É questo il caso di Immagine convessa, una raccolta di Vincenzo D’Alessio dedicata al figlio Antonio, scomparso troppo presto e innaturalmente prima dei genitori. Sì, innaturalmente è il termine più adatto, perché se la scomparsa di un proprio caro è sempre dolorosa, qualora questi sia molto più giovane di chi resta appare talmente contro ogni logica che al dolore si aggiunge l’angoscia. Non vorrei, però, che chi legge queste mie righe dovesse pensare che si troverà di fronte a una serie di lamenti continuati, perché non è così, perché il dolore è prima di tutto una lacerazione individuale e interna. Il dolore, per essere tale, non deve essere gridato, si deve convivere con lo stesso, giorno dopo giorno, in un silenzio che di per se stesso è un urlo. Eppure, il figlio ogni tanto ritorna, in versi sommessi (Dio del vento / riportami la voce / di mio figlio / ora tuo figlio / per un attimo di eterno.).  E se lì il riapparire nel ricordo è esplicito, meno evidente, ma ancor più presente, è la presenza del figlio nei versi dedicati ai giovani del sud , giovani come quello perduto. Pur tuttavia,

nella presenza saltuaria di una tendenza naturalistica, non manca e anzi è preminente un grande senso civico, una ferma volontà di affermare un’idea di umanità lontana dal materialismo, ma fatta di giustizia e di sostanza.  (Solofra terra d’inganni / rubi l’innocenza ai poveri / senza ascoltarne il pianto / distruggi la memoria / con il facile guadagno. /…). E in questo quadro, nel solco di un altro poeta che l’ha preceduto, quel Rocco Scotellaro, che ha saputo vedere la sua terra con il cuore e con la mente, prorompono vitali, quasi anatemi, ma senza violenza, i versi dedicati a un meridione sempre più senza speranza (Non dormiamo sottoterra / l’anima fugge le distanze / il vento accompagna il fischio / dell’uomo dentro le montagne,. / Sud di miseria e tradimenti / strada ferrata senza più ritorni / dove veglia il cuore? / è nuova l’alba, è nuova!).

Se ciò non bastasse, troviamo pure il solco del ricordo che si rincorre, si apre, si chiude, si riapre, ma la memoria non è mai fine a se stessa, è un pozzo a cui attingere per lasciarsi andare a un dolce rimpianto.

Quindi, si tratta di una silloge che presenta una grande ricchezza di varietà tematiche e che probabilmente è il compendio di un lungo lavoro, con poesie più lunghe e più brevi, e fra queste ultime ce n’è una di soli quattro versi che, forse a causa della mia non più verde età, mi si è fissata bene nella mente e nel cuore: Ride il vecchio nello specchio / ha divorato la giovinezza / avidi occhi puntati ai fogli / dell’ultimo quaderno.

Non aggiungo altro, se non la mia calda raccomandazione a leggere questa bellissima raccolta.   

Vincenzo D’Alessio   è nato a Solofra nel 1950. Laureato in Lettere all’Università di Salerno è stato l’ideatore del Premio Città di Solofra, nonché il fondatore del Gruppo Culturale “Francesco Guarini” e dell’omonima casa editrice. Acuto e attento critico letterario, ha pubblicato anche saggi di archeologia e storia (v. bibliografia Polo SBN di Napoli). Diverse le raccolte poetiche che anno ricevuto premi e riconoscimenti, la più recente è La valigia del meridionale ed altri viaggi (Fara 2012, seconda edizione 2016 ). Nel 2014 vince con Il passo verde la pubblicazione in Opere scelte (Fara 2014). La tristezza del tempo è inserita in Emozioni in marcia (Fara 2015). Con Alfabeto per sordi è tra i vincitori del concorso Rapida.mente ed è stato inserito nell’omonima antologia (Fara 2015). Tutte e tre le sillogi sono riproposte in appendice a Immagine convessa.
Renzo Montagnoli

 

30 Marzo

L’amante dell’imperatore

di Arrigo Petacco

Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Storia Biografia

 

Le grazie della contessa per l’Unità d’Italia

Nelle tormentate e complesse vicende che portarono all’Unità d’Italia è ben chiara la figura di Virginia Oldoini, contessa di Castiglione, all’epoca considerata la più bella donna d’Europa.  Infatti, nel complesso progetto di Cavour volto ad assicurare al Piemonte l’alleanza della Francia nella guerra contro l’Austria lei ebbe  un ruolo importante, facendo perdere la testa a Napoleone III. É un po’ difficile pensare che la contessa di Castiglione si sia sacrificata per il bene supremo del paese, poiché il provocare l’interesse degli uomini, per poi portarseli a letto, era una sua caratteristica, così come amava anche carpire notizie, segreti, cercando di ritrarre un vantaggio economico personale. É evidente che non ci troviamo di fronte a una novella Giovanna d’Arco, ma a una avventuriera capace di sfruttare ogni occasione, rivelando in ciò un’intelligenza che in genere non è riscontrabile in una donna di facili costumi.

Abile civetta, consapevole che la sua bellezza era tanto più preziosa quando non facilmente accessibile, nei suoi incontri galanti non era mai disinteressata, ma spesso e volentieri riceveva dall’occasionale compagno regali di notevole valore. Questa ampia disponibilità di ricchezze la portava a scialare, senza che tuttavia non le rimanesse in cassa qualcosa per la vecchiaia che impietosa arrivò anche per lei.  Vanitosa e narcisista come era deve essere stato un trauma notare la comparsa delle prime rughe, le carni che diventavano meno sode, ma soprattutto il diminuito interesse per lei degli uomini.

Né si può definirla una grande amatrice nel senso più nobile del termine, poiché non ebbe il minimo interesse per un marito che pure si svenò per assicurarle l’agiatezza che lei pretendeva; ancor più desolante era il rapporto con il figlio, da lei mai voluto, in quanto di impedimento alla sua libertà.

Alla fin fine, tirando le somme e pur non disconoscendo i suoi meriti per aver favorito l’alleanza con i francesi, era un personaggio che amava solo se stesso, talmente egoista da risultare  spesso antipatico; il libro di Petacco descrive la sua vita con la nota abilità, ma l’autore, senza voler apparire come un moralista, ne parla con distacco, perché con la girandola di amanti che aveva (anche dodici contemporaneamente, ognuno all’insaputa dell’altro) non ci sono parole per descrivere l’immoralità di una donna che fu protagonista del nostro risorgimento.

Arrigo Petacco è nato a Castelnuovo Magra (La Spezia) e vive a Portovenere. Giornalista, inviato speciale, è stato direttore della «Nazione» e di «Storia illustrata », ha sceneggiato film e realizzato programmi televisivi di successo. Nei suoi libri affronta i grandi misteri della storia, ribaltando spesso verità giudicate incontestabili. Fra gli altri ricordiamo, pubblicati da Mondadori:Dear Benito, caro Winston, I ragazzi del '44, La regina del Sud, Il Prefetto di ferro, La principessa del Nord, La Signora della Vandea, La nostra guerra. 1940-1945, Il comunista in camicia nera, L'archivio segreto di Mussolini, Regina. La vita e i segreti di Maria José, Il Superfascista, L'armata scomparsa, L'esodo, L'anarchico che venne dall'America, L'amante dell'imperatore, Joe Petrosino, L'armata nel deserto, Ammazzate quel fascista!, Il Cristo dell'Amiata, Faccetta nera, L'uomo della Provvidenza, La Croce e la Mezzaluna, ¡Viva la muerte!, L'ultima crociata, La strana guerra, Il Regno del Nord, O Roma o morte, Quelli che dissero no, Eva e Claretta, A Mosca, solo andataNazisti in fugaLa storia ci ha mentito e Ho sparato a Garibaldi.
Renzo Montagnoli

 

27 Marzo

Le finestre di fronte

di Georges Simenon

Traduzione di Paola Zallio Messori

Edizioni Adelphi

www.adelphi.it

Narrativa romanzo

Collana Biblioteca Adelphi

 

L’amore ai tempi di Stalin

Georges Simenon, nella primavera del 1933, fece un viaggio nell’Unione Sovietica, toccando diverse località sulle sponde del mar Nero e fermandosi per otto giorni a Odessa, dove, accompagnato da una guida locale, ebbe modo di toccare con mano gli spaventosi effetti della carestia che travagliò a lungo quella nazione. Ritornato in Francia, intese parlare di quella sua esperienza , scrivendo un romanzo intitolato Le finestre di fronte che costituisce un preciso e non propagandistico atto di accusa contro il regime staliniano.  In quest’opera l’autore è riuscito a rendere con straordinaria abilità una condizione di vita spersonalizzante, cupa, tenebrosa, in cui parlare era pericoloso, ma lo era anche stare zitti, in un grigiore di giorni ripetitivi in cui la popolazione locale si trascinava stancamente alla ricerca di un cibo, che già in quantità inadeguata, sovente mancava del tutto. E’ così’ una folla di cenciosi che popola le vie di Batum, la località dove è ambientata la vicenda,  e non sono sufficienti gli slogan del partito comunista per incantare individui che ormai hanno perso ogni speranza.  Ovunque è presente la polizia politica che vigila e schiaccia, che imprigiona e uccide, e in questo contesto avviene la vicenda del nuovo console turco Adil bey, arrivato per sostituire il precedente morto improvvisamente; lui, i consoli iraniano e italiano, e il direttore americano della Standard Oil che gestisce la raffineria di petrolio sono gli unici stranieri che risiedono in città e, a dispetto delle convenzioni internazionali, sono essi stessi prigionieri dell’invisibile ragnatela con cui le autorità li hanno avvolti. Il diplomatico turco cercherà di uscirne, coinvolgendo anche la segretaria russa di cui è innamorato; ce la farà, ma ciò che ha visto, ciò di cui è stato testimone, attore e vittima al tempo stesso, lo accompagnerà per il resto dei suoi giorni.

Le finestre di fronte non si può considerare un noir tipico, anche se c’è un tentativo di omicidio, ma è una sorta di apologo sull’incapacità dell’uomo di essere completamente libero, anche nell’amore, qui riproposto secondo il classico dualismo di eros e thanatos. É incredibile la capacità di Simenon di descrivere il “paradiso” staliniano, di farci scendere progressivamente nella cripta degli uomini senza domani, senza oggi e senza ieri, esseri che vegetano in una condizione chiusa e senza speranza.

Da leggere, è un capolavoro.

Georges Simenon, nato a Liegi nel 1903, morto a Losanna nel 1989, ha lasciato centonovantatre romanzi pubblicati sotto il suo nome e un numero imprecisato di romanzi e racconti pubblicati sotto pseudonimi, oltre a volumi di «dettature» e memorie. Il commissario Maigret è protagonista di 75 romanzi e 28 racconti, tutti pubblicati fra il 1931 e il 1972. Celebre in tutto il mondo, innanzitutto per le storie di Maigret, Simenon è anche, paradossalmente, un caso di «scrittore per scrittori». Da Henry Miller a JeanPauhlan, da Faulkner a Cocteau, molti e disparati sono infatti gli autori che hanno riconosciuto in lui un maestro. Tra questi, André Gide: «Considero Simenon un grande romanziere, forse il più grande e il più autentico che la letteratura francese abbia oggi»; Walter Benjamin: «… leggo ogni nuovo romanzo di Simenon»; Louis-Ferdinand Céline: «Ci sono scrittori che ammiro moltissimo: il Simenon dei Pitard, per esempio, bisognerebbe parlarne tutti i giorni».
Renzo Montagnoli

 

23 Marzo

Diario di una dama di corte

di Isabella Bossi Fedrigotti

Edizioni TEA

www.tealibri.it

Narrativa romanzo storico 

Come era l’Austria felix

Alla fine del XIX secolo  (corre l’anno 1898) una giovane della piccola nobiltà di provincia viene assunta, come dama di compagnia, di un’Arciduchessa, e in tale veste vive alla corte di Vienna, permeata dalla presenza dell’imperatore Francesco Giuseppe. Dato il suo rango è quanto di meglio le potesse capitare e ha tutti i motivi di essere soddisfatta; lontana dall’ambiente rurale di famiglia, potrà assaporare i fasti di una corte che, imperterrita, trascina la sua esistenza indifferente ai cambiamenti di un’epoca, verso quella guerra che segnerà la fine di una dinastia.  Le scoperte che farà in quel mondo ovattato e frivolo e le sue giornate sono riportate in un diario attraverso il quale anche noi potremo esserne, figurativamente, parte, un mondo talmente lontano dal nostro modo di vivere che appare, a tratti, ammantato da un velo magico, in una situazione irreale, quasi da favola. Le feste, ma anche e soprattutto la quotidianità sono riportate in modo encomiabile e suggestivo, così che, oltre che per le riuscite illustrazioni, alla fine della lettura si potrà capire come era la vita di corte, sottoposta a rigidi rituali che ci portano involontariamente a sorridere, ma che rappresentavano il perpetuarsi di una tradizione, di usi e di costumi avulsi dal tempo. I bei vestiti, i gustosi manicaretti, i viaggi, i balli si susseguono come in un sogno di cui è contenta e soddisfatta la nostra dama di corte e per lei non poteva mancare anche l’amore, con un misterioso J., tuttavia destinato a un matrimonio di mero interesse. Il libro è scritto benissimo ed è brava Isabella Bossi Fedrigotti nel ricreare quell’atmosfera viennese di fine secolo, un’atmosfera di cui, ancor oggi, esistono molti nostalgici, pur non avendola sperimentata. Devo dire che pure io sono rimasto affascinato da quel mondo, ma, sarà forse perché con il senno di poi so della sua tormentata fine, ho alla fine pensato che sia stato tutta apparenza e niente sostanza, una vita che tutto sommato si reggeva su un precario equilibrio, chiusa in una dorata prigione, lontana dall’esterno, da quei sudditi che cominciavano sempre di più a reclamare quell’autonomia sempre negata e che otterranno solo dopo una sanguinosa guerra. Era forse una bella “epoque”, in cui tutto sembrava immutabile, come se il tempo non scorresse mai, con sullo sfondo la figura paterna, ma autoritaria di un imperatore vissuto troppo a lungo per capire che ogni cosa ha le sue stagioni; se dentro le mura del castello si viveva in un’eterna primavera, fuori dominava un autunno fatto di foglie ormai morte, pronte a cadere, come le parti di quell’impero.

Da leggere, indubbiamente. 

Isabella Bossi Fedrigotti, nata a Rovereto da madre austriaca, è giornalista al Corriere della Sera. Con il romanzo Casa di guerra (1983) è stata finalista al Premio Strega e al Campiello. Il successo al Premio Campiello è arrivato nel 1991 con il terzo romanzo, il bestseller Di buona famiglia. Ha pubblicato altri libri, fra i quali Il catalogo delle amiche (Rizzoli, 1998), Cari saluti (Rizzoli, 2001), La valigia del signor Budischowsky (Rizzoli, 2003) e Il primo figlio (Rizzoli, 2008).
Renzo Montagnoli

 

18 Marzo

L’uomo della provvidenza.

Mussolini, ascesa e caduta di un mito

di Arrigo Petacco

Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Storia  

Chi fu veramente?

Data la fama del personaggio e la sua particolare personalità, scrivere di Benito Mussolini si può considerare una delle massime aspirazioni di uno storico. Arrigo Petacco non fa eccezione ed è stato tentato di stilare una biografia del duce, ma, consapevole delle difficoltà e del fatto che già tanto ha scritto in proposito Renzo De Felice, ha preferito strutturare la sua opera sulla base degli eventi più significativi della vita politica di Mussolini. Non è un caso, quindi, se interi capitoli sono dedicati, per esempio, al Concordato o agli attentati di cui fu vittima. In questo modo è infatti possibile farsi un’idea di quel che fu l’uomo che la Chiesa cattolica considerò mandato dalla Provvidenza, un’idea se vogliamo parziale, ma che porta a mettere in chiaro risalto i pregi (pochi) e i difetti (tanti) che furono propri di Mussolini. La tentazione, però, di trarre delle conclusioni deve essere stata particolarmente forte, tanto che Petacco provvede a dedicare un intero capitolo – e peraltro il primo – per cercare di determinare se ci si trovi di fronte a un grande, oppure a un mediocre protagonista della sua epoca.

Purtroppo, il tempo ancora poco trascorso (nemmeno un secolo), episodi oscuri su cui è indispensabile fare luce (il famoso presunto carteggio Mussolini – Churchill), le varie vulgate costruite ad arte a vantaggio ora dei suoi sostenitori, ora dei suoi detrattori, non ancora sopite, costituiscono difficoltà allo stato insormontabili per poter addivenire almeno a un giudizio parziale. Petacco mi sembra che lo intenda considerare un grande almeno per le decisioni prese fino alla guerra d’Etiopia, quando ancora non era succube di Hitler. Non ho nulla da eccepire sulle capacità politiche e soprattutto su quelle di irretire milioni di italiani, che gli tributarono ampia e non del tutto meritata fiducia, ma al di là della indubbia abilità di essere presente nei momenti più cruciali, per il resto non vedo che cosa ci sia di tanto positivo in quest’uomo e anche se le note fossero le migliori possibili, restano le macchie che cancellano qualsiasi pregio, quali le famose leggi razziali e l’entrata in guerra dell’Italia, pur nella consapevolezza della nostra totale impreparazione. La portata di questi fatti è tale da oscurare ampiamente quel poco di buono che Mussolini aveva fatto in precedenza. Se poi aggiungiamo la scellerata decisione di presiedere lo stato fantoccio voluto da Hitler, cioè la Repubblica Sociale Italiana, contribuendo così in modo determinante allo scoppio della guerra civile, si vede come il giudizio debba essere ridimensionato. Personalmente sono dell’idea che è troppo presto per giungere a delle conclusioni e che c’è anche il rischio da valutare della incompletezza delle informazioni.

Se non ci fossilizza quindi sulla domanda  “Mussolini si può definire grande?” questo lavoro di Petacco si fa apprezzare in alcuni capitoli per la capacità di sintesi dell’autore, che non va tuttavia a discapito della chiarezza. Appare in tal modo evidente che le divisioni tematiche sono in grado di arricchire le nostre conoscenze del personaggio, ma finiscono con il costituire solo un esile tassello del mosaico che si va a comporre , troppo poco per poter formulare un giudizio compiuto e in sintonia con la verità.

Arrigo Petacco è nato a Castelnuovo Magra (La Spezia) e vive a Portovenere. Giornalista, inviato speciale, è stato direttore della «Nazione» e di «Storia illustrata », ha sceneggiato film e realizzato programmi televisivi di successo. Nei suoi libri affronta i grandi misteri della storia, ribaltando spesso verità giudicate incontestabili. Fra gli altri ricordiamo, pubblicati da Mondadori:Dear Benito, caro Winston, I ragazzi del '44, La regina del Sud, Il Prefetto di ferro, La principessa del Nord, La Signora della Vandea, La nostra guerra. 1940-1945, Il comunista in camicia nera, L'archivio segreto di Mussolini, Regina. La vita e i segreti di Maria José, Il Superfascista, L'armata scomparsa, L'esodo, L'anarchico che venne dall'America, L'amante dell'imperatore, Joe Petrosino, L'armata nel deserto, Ammazzate quel fascista!, Il Cristo dell'Amiata, Faccetta nera, L'uomo della Provvidenza, La Croce e la Mezzaluna, ¡Viva la muerte!, L'ultima crociata, La strana guerra, Il Regno del Nord, O Roma o morte, Quelli che dissero no, Eva e Claretta, A Mosca, solo andataNazisti in fugaLa storia ci ha mentito e Ho sparato a Garibaldi.
Renzo Montagnoli

 

14 Marzo

Il mondo dei vinti

Testimonianze di vita contadina. La pianura. La collina. La montagna. Le Langhe

di Nuto Revelli

Postfazione di Mario Fazio

Edizioni Einaudi

Saggistica storica

Collana ET Classici 

La memoria

Questo libro ha un’introduzione che deve essere assolutamente letta prima di passare al testo vero e proprio, perché Nuto Revelli spiega il metodo seguito per parlare, con estrema concretezza e lucidità, del triste destino della campagna e della montagna del cuneese nel dopoguerra.  Per estensione lo stesso fenomeno avvenne in tutta Italia nel mondo legato alla coltura dei campi, un fenomeno che in breve può essere definito la fine della civiltà contadina, di cui ha parlato anche con i suoi appassionati romanzi Ferdinando Camon.  Certo le singole realtà possono essere diverse, ma quello che è stato un mondo immutato per secoli le accomuna tutte.  Nel caso del cuneese, se la campagna non viene sfruttata all’eccesso o peggio ancora industrializzata, resta una realtà di miseria senza speranza; la montagna, se non è oggetto di insediamenti turistici, viene abbandonata e diventa quasi un deserto. Revelli, forte di quanto appreso durante la drammatica ritirata dal Don circa il dovere della memoria, ci racconta nel suo libro come era una civiltà che ora non c’è più e lo fa sulla falsariga di un’inchiesta, intervistando gente anziana della pianura, della collina e della montagna. Il suo è stato un lavoro certosino, perché munito di registratore ha interpellato ben 270 persone, poi ha provveduto alla trascrizione rispettando, per quanto possibile, la forma del parlato. A tratti sembra una delle interessantissime inchieste di Sergio Zavoli, solo che qui non ci sono immagini, ma egualmente si crea un’atmosfera che consente alla fantasia di farsi un’idea di come possa essere l’intervistato: anziano, rinsecchito da anni di duro lavoro, con la malinconica tristezza di chi si sente un vinto. E in effetti, da questi ricordi emerge un mondo di profonda  miseria, fatto di duro lavoro, talmente malpagato che il guadagno sembra quasi un’elemosina; peraltro era gente che si accorgeva di non contare nulla, anzi di essere, oltre che emarginata, buona solo per essere sfruttata. E per quasi tutti c’è la memoria della Grande Guerra, il massimo dell’infelice vita personale, ognuno considerato solo uno dei tanti, in pratica un numero, niente di più che carne da cannone. 

Eppure, questo mondo di sofferenza e di ignoranza presentava valori oggi ormai sconosciuti, univa persone dove oggi si dividono, trovava nel poco e niente il necessario per vivere.

Adesso non é più così e ha ragione uno degli intervistati quando dice che il povero di adesso è più ricco del ricco del suo tempo, perché esisteva in passato anche nelle classi meno disagiate quella continua incertezza del futuro che le portava a essere sparagnine, insomma  che si conteneva nelle spese , limitando quei consumi che oggi invece sono lo scopo continuo di ognuno di noi.

Il mondo dei vinti é una testimonianza irripetibile di ciò che fu e di questo dobbiamo ringraziare Revelli, perché ci porta a conoscere le nostre lontane radici , ci aiuta a comprendere da che passato veniamo.

Nuto Revelli (Cuneo, 1919-2004), ufficiale degli alpini in Russia e protagonista della Resistenza nel cuneese, si è battuto per anni per dare voce ai dimenticati di sempre: i soldati, i reduci, i contadini delle campagne piú povere. Tra i suoi libri, tutti editi da Einaudi, La guerra dei poveri (1962), La strada del davai (1966 e 2010), Mai tardi (1967 e 2008) , L'ultimo fronte (1971 e 2009) , Il mondo dei vinti (ultima edizione ET Scrittori 2016)), L'anello forte (1985) Il disperso di Marburg (1994 e 2008), Il prete giusto (1998 e 2008), Le due guerre (2003 e 2005), Il popolo che manca (2013), Il testimone. Conversazioni e interviste. 1966-2003 (a cura di Mario Cordero).
Renzo Montagnoli

 

10 Marzo

La casa del giudice

di Georges Simenon

Traduzione di Vittoria Marinetto

Adelphi Edizioni

www.adelphi.it

Narrativa romanzo giallo

Collana gli Adelphi – Le inchieste di Maigret
 

Una piacevole lettura

Questo giallo è del tutto atipico e in questa peculiarità rivela l’attenzione di Simenon a cercare sempre qualche cosa di nuovo affinché un personaggio così amato come Maigret non venga a noia. Prima di tutto il celebre commissario non è più di stanza a Parigi, ma è stato relegato in un oscuro paese della Vandea perché caduto in disgrazia e senza che se ne sappiano i motivi. Lì soffocherebbe nella noia se non ricevesse la visita di una vecchietta tanto minuta quanto intraprendente e che gli accenna a un cadavere che da qualche giorno è disteso sul pavimento di una stanza del villino di un suo vicino, un giudice di pace in pensione.  Ecco l’occasione per risvegliare dal torpore il commissario e fargli avviare un’indagine che, dopo le prime fasi piuttosto lente, diventa un susseguirsi di colpi di scena con un ritmo incalzante e crescente, quasi si trattasse di un lavoro scritto sull’onda delle note del celebre Bolero di Ravel. Una piccola comunità, dove tutti si conoscono o credono di conoscersi, una stagione che alterna sole a pioggia, la vita regolata dal movimento delle maree che si riflette sul lavoro dei mitilicultori, insomma una provincia francese non rurale, ma marittima e che Simenon descrive con la consueta sorprendente abilità. Maigret giganteggia su tutti, non solo per la sua mole, a tratti sembra il gatto che gioca con il topo, ma non c’è nessuna ferocia in lui, c’è quel senso di pietà che spesso lo caratterizza e che lo porta ad avere compassione nei confronti di certi assassini.  La vicenda può apparire forse piuttosto intricata,ma il gomitolo si sbroglia progressivamente in itinere e la conclusione è come al solito logica e plausibile. 

Di sicuro la lettura  di La casa del giudice consentirà di trascorrere in modo veramente piacevole alcune ore, il che non è poco; le indubbie qualità letterarie, inoltre, contribuiscono a rendere questo romanzo meritevole di attenzione.

Georges Simenon, nato a Liegi nel 1903, morto a Losanna nel 1989, ha lasciato centonovantatre romanzi pubblicati sotto il suo nome e un numero imprecisato di romanzi e racconti pubblicati sotto pseudonimi, oltre a volumi di «dettature» e memorie. Il commissario Maigret è protagonista di 75 romanzi e 28 racconti, tutti pubblicati fra il 1931 e il 1972. Celebre in tutto il mondo, innanzitutto per le storie di Maigret, Simenon è anche, paradossalmente, un caso di «scrittore per scrittori». Da Henry Miller a Jean Pauhlan, da Faulkner a Cocteau, molti e disparati sono infatti gli autori che hanno riconosciuto in lui un maestro. Tra questi, André Gide: «Considero Simenon un grande romanziere, forse il più grande e il più autentico che la letteratura francese abbia oggi»; Walter Benjamin: «… leggo ogni nuovo romanzo di Simenon»; Louis-Ferdinand Céline: «Ci sono scrittori che ammiro moltissimo: il Simenon dei Pitard, per esempio, bisognerebbe parlarne tutti i giorni».
Renzo Montagnoli

 

6 Marzo

I doni della vita

di Irène Némirovsky

Traduzione di Lauta Fausin Guarino

Edizioni Adelphi

www.adelphi.it

Narrativa

La grande forza dell’amore

Non c’è che dire: la Némirovsky sa toccare le corde giuste e ogni pagina riserva una particolare emozione, senza tuttavia mai esagerare, senza scivolare nel melodramma. I doni della vita è un’ appassionante saga di una famiglia dell’alta borghesia, gli Hardelot, lungo un arco di tempo che va dagli inizi del XX secolo, fino al 1940. I contrasti insanabili fra le classi sociali sono ben rappresentati, con il padrone del vapore che vuole comandare in tutto, anche negli affetti, ma per fortuna che c’è un nipote che si ribella per sposare la ragazza dei suoi sogni, un’esponente della piccola borghesia. La rigida presa di posizione del grande vecchio, l’acquisita consapevolezza che qualcosa deve cambiare del figlio imbelle, padre del giovane ribelle, la tenera storia d’amore di quest’ultimo con la delicata Agnes, il dramma della Grande Guerra che travolge ogni certezza, ma che non riesce a sradicare un’ottusa mentalità capitalistica, l’invasione tedesca della Francia nel 1940  scorrono sotto gli occhi del lettore come in una pellicola cinematografica, con descrizioni degli ambienti e approfondimenti psicologici che risultano di grande efficacia, seppure espressi con uno stile per nulla ridondante, anzi semplice, e perciò immediato. La Nèmirovsky riesce a parlare di tutto, a mostrarci la vita come essa è, senza banalità, ma con precisione e delicatezza, tanto che sono frequenti le pagine di vera e propria poesia. É evidente che parteggia per il giovane ribelle e che confina il grande vecchio nel suo cuore di granito, una costante direi della sua produzione che ha sempre avuto come bersaglio il potere e la ricchezza per il potere. La descrizione dell’incedere della guerra, la fuga disperata degli inermi cittadini di fronte al nemico creano uno stato d’animo incredibile e così si finisce con il trepidare con questa gente che non sa che fare, se non scappare. E poiché in questa saga si racconta vita, ci sono le morti, ma anche le gioie e, soprattutto la gioia più grande, l’amore.  Fra il giovane rampollo Pierre e la dolce Agnes é un idillio capace di vincere le difficoltà, perché l’amore reciproco è un sentimento che dà forza, che consente di saper cogliere quelli che, se non sono molti, sono pur sempre i doni della vita.

Per alcuni aspetti, il romanzo può sembrare una prova per quello che sarà, benchè incompiuto, il grande capolavoro della narratrice: Suite francese. Tuttavia sarebbe ingiusto ridurlo a un semplice canovaccio, a un mero esperimento, perché mostra delle grandi qualità, tanto da raccomandare la sua lettura.

Non ve ne pentirete, perché I doni della vita finisce con l’essere, esso stesso, un dono della nostra vita.  

Irène Némirovsky  (Kiev, 11 febbraio 1903; Auschwitz, 17 agosto 1942).
Figlia di un ricco banchiere ebreo, si trasferì con la famiglia in Francia all’avvento del regime sovietico. Nella sua breve vita scrisse numerosi romanzi di grande successo, sovente pubblicati postumi. Fra questi si ricordano Suite francese, David Golder, I doni della vita, I cani e i lupi, Il vino della solitudine e Il ballo.
Renzo Montagnoli


 

3 Marzo

Joe Petrosino

di Arrigo Petacco

Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Storia biografia

 

Un uomo che amava la giustizia

Era un uomo giusto che valeva la pena di conoscere, sono addolorato per la perdita del mio amico Joe (Theodore Roosevelt ai funerali)

La mafia si è macchiata nel tempo di orrendi delitti, giungendo a eliminare uomini delle Forze dell’Ordine (per esempio il capo della Squadra Mobile di Palermo Boris Giuliano) e della magistratura, come i sostituti procuratori Giovanni Falcone e Paolo Borsellino.  Ma è indubbio che il nome di Joe Petrosino sia ormai entrato nella leggenda, conosciuto da noi e, soprattutto, negli Stati Uniti. Infatti, se non fu la prima vittima fra i poliziotti, fu però anche quello che, operando a New York, si impose con ferrea volontà di sradicare quell’associazione a delinquere che nel tempo prese il nome di Cosa Nostra e che attecchì in America grazie all’immigrazione di mafiosi italiani. Fra questi, senz’altro di spicco per aver saputo strutturare e organizzare questa congrega criminale fu Vito Cascio Ferro. 

La biografia che ha scritto Arrigo Petacco cerca di uscire dal mito vero e proprio, per soffermarsi sui fatti, ma è indubbio che la personalità di questo poliziotto di origine campana, giunto con la famiglia negli Stati Uniti quando ancora era un ragazzo, è una di quelle che non può che destare ammirazione. In un’epoca in cui nel Nuovo Mondo gli italiani non erano benvisti, trovarne uno che appassionò milioni di americani resta un caso unico, anche perché è il tipico uomo che si fa da sé. Da netturbino a poliziotto, da graduato a tenente comandante della squadra italiana, attraverso una serie di successi dovuti al metodo seguito e alla totale dedizione, appaiono evidenti i motivi di così tanta fama. Era un onesto e con la vocazione di eliminare i disonesti, era uno capace di organizzare, dando l’esempio, era insomma l’uomo giusto per l’incarico che gli era stato conferito: combattere il crimine organizzato. Se gli si può attribuire un difetto, che è difficile da trovare, uno, particolarmente pericoloso, si manifestò nell’ultima missione di cui era stato incaricato. Arrivato in segreto in Italia per creare appunto un servizio segreto volto a identificare i mafiosi prima che si imbarcassero per l’America, la sua dedizione fu tale che continuò nell’impresa benché, a seguito di incaute dichiarazioni del capo della polizia di New York, la sua presenza nella nostra nazione fosse diventata notoria; quel che è peggio, però, è che nonostante questo grave handicap, lui finì per fidarsi di qualcuno, qualcuno che incontrò in una piazza buia e che lo uccise. Quel qualcuno – ma lo si apprenderà dopo molti anni – era nientemeno che Vito Cascio Ferro.

Resta, però, un chiaro esempio di uomo di legge, sempre accorto, tranne che nell’ultimo giorno della sua vita, e che riuscì a mettere in luce il collegamento in Italia fra mafia e polizia, nonché fra mafia e potere politico. Non si può sapere se sarebbe riuscito nell’impresa, ma c’è più di un dubbio, vista la fine fatta da chi, indagando su questa associazione criminale, stava per avvicinarsi al suo vertice.

Da leggere, senz’altro.

Arrigo Petacco è nato a Castelnuovo Magra (La Spezia) e vive a Portovenere. Giornalista, inviato speciale, è stato direttore della «Nazione» e di «Storia illustrata », ha sceneggiato film e realizzato programmi televisivi di successo. Nei suoi libri affronta i grandi misteri della storia, ribaltando spesso verità giudicate incontestabili. Fra gli altri ricordiamo, pubblicati da Mondadori:Dear Benito, caro Winston, I ragazzi del '44, La regina del Sud, Il Prefetto di ferro, La principessa del Nord, La Signora della Vandea, La nostra guerra. 1940-1945, Il comunista in camicia nera, L'archivio segreto di Mussolini, Regina. La vita e i segreti di Maria José, Il Superfascista, L'armata scomparsa, L'esodo, L'anarchico che venne dall'America, L'amante dell'imperatore, Joe Petrosino, L'armata nel deserto, Ammazzate quel fascista!, Il Cristo dell'Amiata, Faccetta nera, L'uomo della Provvidenza, La Croce e la Mezzaluna, ¡Viva la muerte!, L'ultima crociata, La strana guerra, Il Regno del Nord, O Roma o morte, Quelli che dissero no, Eva e Claretta, A Mosca, solo andataNazisti in fugaLa storia ci ha mentito e Ho sparato a Garibaldi.
Renzo Montagnoli


 

27 Febbraio

La solitudine dell’assassino

di Andrea Molesini

Rizzoli Editore

Narrativa romanzo 

Delitto e castigo

La solitudine dell’assassino, ultimo lavoro di Andrea Molesini, narra dell’incontro fra il traduttore e scrittore Luca Rainer e l’ergastolano Carlo Malaguti, incontro voluto dall’editore affinché il suo autore scriva una biografia di quest’uomo, ormai vecchio, che dopo aver trascorso dietro le sbarre venti anni della sua vita viene messo in libertà per buona condotta. Non è  però che la notizia della liberazione rallegri in modo particolare il carcerato che, anzi, sembra piombare, nonostante le apparenze, in un grave disagio, come se la colpa dell’omicidio che a suo tempo ha commesso non fosse stata totalmente espiata. C’è qualche cosa che avvolge come una cappa Malaguti, un segreto che si porta dentro e su cui Rainer, sempre più incuriosito, vorrebbe far luce.  Non aggiungo altro perché la trama ha la giusta tensione di un giallo e un giallo in effetti è, anche se è un pretesto per mettere a confronto due anime: quella complessa di un Malaguti che ha maturato, nel lungo soggiorno in galera, una filosofia di vita per nulla disprezzabile e quella di Rainer che, nonostante non sia proprio un giovanotto, rivela una certa immaturità. I dialoghi fra i due protagonisti hanno il pregio di non essere banali, ma sono fatti da piccole perle rappresentate da osservazioni filosofiche, da dei piccoli cammei sull’esistenza che finiscono per interessare il lettore forse ancor più della vicenda.  Alla fine l’alone di mistero sarà squarciato, ma si potrà anche constatare come ogni essere umano debba imparare a vivere con i propri errori, con i sensi di colpa, accettandoli, come parte integrante di un “io” che, accanto ad aspetti positivi, ne ha pure di negativi, insomma siamo quel che siamo e come tali dobbiamo accettarci.

É da un po’ di tempo che leggo i libri di Andrea Molesini e quindi ritengo opportuno evidenziare le caratteristiche dell’autore presenti appunto nelle quattro opere fino a ora edite. Il comune denominatore è il dramma della guerra, alternando la prima alla seconda, entrambe quelle mondiali (ed è di quest’ultima l’origine della vicenda di La solitudine dell’assassino); la scrittura, fresca e semplice, propria di Non tutti i bastardi sono di Vienna, si è fatta via via più complessa e non sempre è riuscita; la struttura è sovente esile, ma non per questo fragile e infine la capacità di descrivere situazioni, paesaggi e protagonisti permane di buon livello. Personalmente sono affezionato a Non tutti i bastardi sono di Vienna, ma non è che le opere successive siano poca cosa; il fatto è che ogni tanto ritraggo l’impressione che qualche cosa gli sia rimasto nella penna, che ci sia un che di incompiuto  al di là delle apparenze.

Resta in ogni caso il fatto che, come gli altri, anche La solitudine dell’assassino è meritevole di lettura.

Andrea Molesini ha pubblicato  Non tutti i bastardi sono di Vienna, che nel 2011 ha vinto, tra gli altri, il Premio Campiello e il Premio  Comisso, tradotto in inglese, francese, tedesco, spagnolo e molte altre lingue,  La primavera del lupo (2013) e Presagio (2014), tutti e tre editi da Sellerio.
Renzo Montagnoli

 

24 Febbraio

Teutoburgo

di Valerio Massimo Manfredi

Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Narrativa romanzo storico
 

Lo scontro di due civiltà

E’ il 9 d.C. e nella fitta selva di Teutoburgo i Romani subiscono una delle più tragiche disfatte della loro storia; sono ben tre le legioni che vengono sterminate da una coalizione di Germani capeggiata da Arminio, figlio del defunto re dei Cheruschi, portato con il fratello in ostaggio a Roma quando ancora erano ragazzini in pegno dell’alleanza con il loro padre.  I due, cresciuti come romani e con tutto il rispetto, sono diventati in breve due guerrieri formidabili, tanto da ricoprire, soprattutto Arminio, incarichi di grande responsabilità nell’esercito. Ma mentre il fratello ha compreso il significato della potenza dell’impero e ne è stato soggiogato, Arminio, pur divenendo addirittura per alti meriti cittadino romano, è rimasto legato alle sue genti tanto che a un certo punto decide di cambiare casacca e di attirare in un tranello le legioni del suo amico Varo.  Vincerà la battaglia, dei soldati romani verrà fatto scempio, ma non riuscirà a debellare Roma e, nonostante altri scontri, per lo più infausti, il suo sogno di diventare re di tutti i popoli germanici si infrangerà, anzi lui verrà assassinato dai suoi stessi soldati. Teutoburgo, l’ultimo romanzo di Valerio Massimo Manfredi, ci parla di tutto questo, con toni sovente epici e con

precisi riferimenti storici laddove è stato possibile. Credo che l’impegno dell’autore sia stato notevole, a cominciare dalla struttura, in altre sue opere carente, ma qui ben progettata; inoltre è riuscito a ricreare il fascino di una grande civiltà nei confronti di un’altra senz’altro rozza e primitiva, incapace di paragonarsi a quella romana sotto tutti gli aspetti, ivi compreso quello militare, perché se è vero che i romani non riuscirono mai a sottomettere i Germani, tanto da rinunciare ad estendere i confini dell’impero dal Reno all’Elba, é altrettanto vero che queste popolazioni, abituate a vivere in selve oscure, divise e spesso in guerra fra di loro, non potevano competere in nessun campo con uno stato monolitico, pur se multietnico, come quello romano.  Il romanzo presenta diversi aspetti interessanti, come appunto il contrasto fra le due civiltà, la progressiva consapevolezza dell’importanza dello Stato in chi non ne fa parte, il significato del valore non tanto come pregio individuale, ma in funzione dello sforzo collettivo. La scrittura è semplice, ma non è un difetto, perché l’opera, abbastanza lunga, se ne avvantaggia, così che le pagine scorrono piacevolmente e consentono al lettore di unire allo svago anche un po’ di nozioni storiche, insomma il romanzo è meritevole di attenzione.

Valerio Massimo Manfredi (Modena, 1943), scrittore, archeologo, topografo del mondo antico, ha condotto spedizioni archeologiche in molte località del Mediterraneo.
Dopo essersi laureato in Lettere Classiche all'Università di Bologna è subito entrato nel mondo dell'archeologia, specializzandosi in topografia del mondo antico all'Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano.
Ha insegnato nella stessa Università Cattolica dal 1980 all'86, per poi iniziare un’intensa carriera accademica prima all'Università di Venezia (1987) e dopo presso prestigiose Università americane fino alla Loyola University of Chicago, all'Eçole Pratique des Hautes Etudes della Sorbona di Parigi e alla Bocconi di Milano.
Tra gli anni Settanta e gli Ottanta ha progettato e condotto le spedizioni Anabasi per la ricostruzione sul campo dell'itinerario della ritirata dei Diecimila, ma sono numerose le sue partecipazioni a campagne di scavo: Lavinium, Forum Gallorum, Forte Urbano in Italia. Prestigiose quelle condotte in terra straniera come ad Har Karkom, in Israele e la Campagna di ricognizione e rilievo con Timothy Mitford sul sito del “Trofeo dei Diecimila” in Anatolia orientale (2002). Ha tenuto conferenze e seminari in alcuni dei più prestigiosi atenei come il New College di Oxford, University of California Los Angeles, lectio magistralis alla National University of Canberra (Australia), inoltre lectio magistralis all'Università dell'Avana, Cuba, Universidad de Antiochia, Medellin (Colombia), Universidad de Bilbao, Universidad Internacional Menendez Pelayo (Tenerife) e molte altre.
Saggista, giornalista, sceneggiatore e brillante divulgatore, si è affermato come scrittore di grande successo internazionale con la trilogia "Aléxandros", da cui è stato tratto un film. Tra i suoi saggi: La strada dei Diecimila (1986), Le isole fortunate (1990); con Luigi Malnati Gli Etruschi in Val Padana (1991); con Lorenzo Braccesi Mare greco (1992) e I greci d'Occidente (1996); con Vencenslav Kruta I celti d'Italia (1999). Tra le opere di narrativa: PalladionLo scudo di TalosL'oracoloLe paludi di HesperiaLa torre della solitudineIl faraone delle sabbieChimairaIl tiranno (2003), L'impero dei draghi (2005), L'ultima legione (2007), Idi di marzo (2008), Otel Bruni (2011), la serie "Il mio nome è Nessuno" (2012-2014). Per ragazzi ha pubblicato Il romanzo di Alessandro (2005) e Il romanzo di Odisseo (2014). 
È autore anche di alcune raccolte di racconti e di saggi. 
Ha scritto inoltre la sceneggiatura di "Gilgamesh". Ha adattato per il cinema Le Memorie di Adriano di M.Yourcenar per John Boorman. Conduce programmi culturali televisivi in Italia e all'estero, collabora con "Il Messaggero" e "Panorama".
Renzo Montagnoli

 

21 Febbraio

Maigret a scuola

di Georges Simenon

Traduzione di P.N. Giotti

Edizioni Adelphi

www.adelphi.it

Narrativa romanzo giallo

Collana gli Adelphi – Le inchieste di Maigret
 

L’emarginazione

E’ una bella giornata di sole che annuncia l’imminente primavera quella che vede Maigret raggiungere il suo ufficio al commissariato. In sala d’attesa c’è un ometto dall’aspetto insignificante che è lì da un bel po’ per parlare con lui. Lo riceve e il commissario apprende che si tratta di un maestro, nonché segretario comunale, di un paesino presso La Rochelle, e che inoltre è sospettato del delitto di una vecchia conosciuta come accidiosa, insomma una strega. Maigret vuol vederci chiaro e così, benché il caso sia fuori dalla sua giurisdizione, accompagna al paese il suo interlocutore, convincendolo a costituirsi.

Inizia così questo giallo scritto da Simenon nel 1953 nel periodo del suo soggiorno negli Stati Uniti, un romanzo che ripropone il mondo chiuso proprio delle piccole realtà locali, argomento che l’autore conosce particolarmente bene e che gli offre la possibilità di esaminare la psicologia rozza, e tutto sommato semplice, dei suoi abitanti.  Tuttavia, forse l’atmosfera del Nuovo Mondo, per certi aspetti così lontana da quella della vecchia Europa, mette un po’ in ombra le indubbie capacità di Simenon che, con il problema dell’emarginazione dello straniero, tipica delle piccole comunità, se non si trova a proprio agio, comunque appare un po’ sotto tono. Anche la trama, che non presenta colpi di scena, nella sua linearità contribuisce a togliere un po’ di mordente alla vicenda, così che, se la lettura è comunque sempre gradevole, non avvince come invece in altri romanzi. Non si arriva mai, pertanto, a momenti di particolare emozione, perché tutto scorre liscio, tranquillo, e anche i personaggi non hanno una personalità tale da contribuire a tenere attaccato alle pagine il lettore, desideroso di arrivare a scoprire la verità. Inoltre,  il commissario sembra in vacanza in questo giallo; arriverà sì alla soluzione del caso, ma l’impressione è che non si sia applicato più di tanto, quasi si trattasse di normale routine.

Quindi, da leggere, ma senza aspettarsi chissà cosa, un romanzo insomma adatto a trascorrere tranquillamente qualche ora, e non di più.  

Georges Simenon, nato a Liegi nel 1903, morto a Losanna nel 1989, ha lasciato centonovantatre romanzi pubblicati sotto il suo nome e un numero imprecisato di romanzi e racconti pubblicati sotto pseudonimi, oltre a volumi di «dettature» e memorie. Il commissario Maigret è protagonista di 75 romanzi e 28 racconti, tutti pubblicati fra il 1931 e il 1972. Celebre in tutto il mondo, innanzitutto per le storie di Maigret, Simenon è anche, paradossalmente, un caso di «scrittore per scrittori». Da Henry Miller a Jean Pauhlan, da Faulkner a Cocteau, molti e disparati sono infatti gli autori che hanno riconosciuto in lui un maestro. Tra questi, André Gide: «Considero Simenon un grande romanziere, forse il più grande e il più autentico che la letteratura francese abbia oggi»; Walter Benjamin: «… leggo ogni nuovo romanzo di Simenon»; Louis-Ferdinand Céline: «Ci sono scrittori che ammiro moltissimo: il Simenon dei Pitard, per esempio, bisognerebbe parlarne tutti i giorni».
Renzo Montagnoli

 

16 Febbraio

Ira Domini.

Sangue sui Navigli

di Franco Forte

Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Narrativa romanzo
 

Assai inferiore al primo della serie

Ira Domini, il seguito di Il segno dell’untore, non smentisce il fatto che, normalmente, in un ciclo di opere con la stessa tematica e i medesimi protagonisti, tutte quelle successive alla prima ne sono inferiori.

Nel caso specifico, poi, si evidenzia un netto peggioramento sotto tutti gli aspetti e una disarmonia fra le varie parti che lascia supporre che l’autore si sia accinto a scrivere il romanzo senza aver prima steso un adeguato progetto.

Pure in questo ci sono due indagini che procedono appaiate, ma una, relativa a un rapimento con tanto di ostaggi, é banale e mal supportata; l’altra afferente la ricerca di un misterioso balestriere che con la sua arma uccide diverse persone a Milano è in nuce ben più interessante, ma l’autore non le dà né il giusto risalto, né un interessante sviluppo.

Il risultato è francamente deludente, tanto più che le soluzioni dei due gialli sono ben poco logiche e paiono affrettate, come se Forte volesse concludere alla svelta quel romanzo che anche per lui cominciava a venire a noia.

Ed é proprio la noia che accompagna il lettore più o meno dalla metà dell’opera fino alla fine, vista come una liberazione. Rispetto a Il segno dell’untore la descrizione della città in preda alla peste é raffazzonata e anche i protagonisti sono solo abbozzati, anzi il notaio criminale Niccolò Taverna perde molto del suo smalto, mentre un’eccessiva importanza viene data alla sua fidanzata Isabella, fin troppo volitiva e intrepida e senz’altro fuori dai canoni delle donne dell’epoca, ma gli eccessi, come sempre, danno fastidio e contribuiscono non poco a stancare chi legge, perché il personaggio diventa ben poco credibile.

L’impressione complessiva che ho ricavato è che l’autore, visto il successo di Il segno dell’untore, abbia deciso di dare un seguito prima non preventivato e in tutta fretta, per battere il ferro finché era caldo. Il risultato è purtroppo quello che si evince da quanto ho finora scritto e se è tale da non sconsigliarne la lettura, non è però meritevole da consigliarne la stessa.

Nato a Milano nel 1962, Franco Forte cura le collane da edicola Mondadori (Il Giallo Mondadori, Segretissimo, Urania) ed è considerato uno dei più importanti autori italiani di romanzi storici. Molti dei suoi libri sono stati pubblicati da Mondadori. Tra questi i due titoli della serie "Il romanzo di Roma" Carthago (2009) e Roma in fiamme (2011), i gialli storici con protagonista il notaio criminale Niccolò Taverna Il segno dell'untore (2012) e Ira Domini. Sangue sui Navigli (2014) e Gengis Khan. Il figlio del Cielo (nuova edizione 2014) e il romanzo storico Caligola. Impero e follia (2015). Ha inoltre lavorato per la televisione, come autore delle serie Distretto di Polizia e RIS: Delitti imperfetti e dei film TV Giulio Cesare e Gengis Khan. È anche opinionista sportivo in vari talk show televisivi dedicati al calcio.
Renzo Montagnoli

 

11 Febbraio

Ammazzate quel fascista!

Vita intrepida di Ettore Muti

di Arrigo Petacco

Arnoldo Mondadori Editore SpA

Storia biografia

Tanti muscoli e poco cervello

Se ci fu un uomo che incarnò la figura del perfetto fascista fu proprio Ettore Muti. Bello, aitante, audace, sempre pronto a gettarsi nella mischia, amante della velocità e delle belle donne, mai domo e anzi sempre determinato questo ravennate, nato il 22 maggio 1902 e morto il 24 agosto 1943, era ancora un ragazzo quando cercò di arruolarsi per partecipare alla Grande Guerra. Scoperto, fu rimandato a casa, ma esperì un ulteriore tentativo e questa volta gli andò bene, tanto che prese parte al conflitto nei reparti degli Arditi, meritando encomi e medaglie. Partecipò poi all’impresa fiumana, conclusasi infelicemente, e fu uno dei primi ad aderire al partito fascista, dandosi non poco da fare nelle lotte contro i “rossi”. Da perfetto fascista, difettava un po’ di materia grigia, ma ciò non gli impedì di fare una rapida carriera nel partito, nonostante l’attentato del 13 settembre 1927 in cui rimase gravemente ferito, una vicenda oscura e mai completamente chiarita, in cui tuttavia pare assodato che il mandante del sicario fosse da cercare fra i suoi camerati del ravennate.

Partecipò gloriosamente in qualità di aviatore alla guerra d’Etiopia e a quella di Spagna, dopo di che, grazie all’appoggio dell’amico Galeazzo Ciano, venne nominato da Mussolini segretario del partito in sostituzione dell’inviso Achille Starace. Benchè poco disponibile al ruolo amministrativo, si diede da fare non poco per svecchiare il partito dagli imbolsiti gerarchi, epurando anche i numerosi funzionari corrotti. Era onesto e, giustamente, non poteva sopportare i disonesti. L’incarico però gli andava stretto e chiese allora di partecipare, sempre come aviatore, alla seconda guerra mondiale; accontentato, anche qui diede prova del suo grande valore, almeno fino a quando, per problemi di vista,  fu costretto a non alzarsi più in volo. Nel frattempo era stato sostituito alla segreteria del partito e aveva ricevuto il modesto incarico di membro del Servizio informazioni dell’aeronautica.  Era poco intelligente, ma ciò non gli impedì di accorgersi che a quella guerra partecipavamo del tutto impreparati e che Mussolini aveva tradito da tempo l’originario ideale, tanto che con i congiurati del 25 luglio 1943 si era dichiarato disposto di far fuori il duce e sicuramente alla famosa seduta del Gran Consiglio avrebbe votato l’ordine del giorno Grandi se fosse arrivato in tempo. Dopo l’arresto di Mussolini, si ritirò in una villetta a Fregene in riva al mare e nei pressi della stessa, nella pineta, fu assassinato il 24 agosto 1943 in circostanze oscure, tipiche del delitto di stato, su cui non si volle mai far luce anche a guerra finita. Le ipotesi al riguardo sono diverse e vengono ben esplicitate nel libro di Petacco, ma ognuna è plausibile, senza che tuttavia possa essere suffragata da prove concrete.

La vita di Muti fu spezzata da un proiettile nella nuca, una vita condotta sempre con sprezzo del pericolo; era un uomo stimato perfino dagli antifascisti, ma sovente odiato da alcuni dei suoi stessi camerati, insomma un personaggio ampiamente meritevole della biografia stilata con la consueta equidistanza e serietà da Arrigo Petacco.

Da leggere, quindi. 

 Arrigo Petacco è nato a Castelnuovo Magra (La Spezia) e vive a Portovenere. Giornalista, inviato speciale, è stato direttore della «Nazione» e di «Storia illustrata », ha sceneggiato film e realizzato programmi televisivi di successo. Nei suoi libri affronta i grandi misteri della storia, ribaltando spesso verità giudicate incontestabili. Fra gli altri ricordiamo, pubblicati da Mondadori:Dear Benito, caro Winston, I ragazzi del '44, La regina del Sud, Il Prefetto di ferro, La principessa del Nord, La Signora della Vandea, La nostra guerra. 1940-1945, Il comunista in camicia nera, L'archivio segreto di Mussolini, Regina. La vita e i segreti di Maria José, Il Superfascista, L'armata scomparsa, L'esodo, L'anarchico che venne dall'America, L'amante dell'imperatore, Joe Petrosino, L'armata nel deserto, Ammazzate quel fascista!, Il Cristo dell'Amiata, Faccetta nera, L'uomo della Provvidenza, La Croce e la Mezzaluna, ¡Viva la muerte!, L'ultima crociata, La strana guerra, Il Regno del Nord, O Roma o morte, Quelli che dissero no, Eva e Claretta, A Mosca, solo andataNazisti in fugaLa storia ci ha mentito e Ho sparato a Garibaldi.
Renzo Montagnoli

 

4 Febbraio

L’affare Kurilov

di Irène Némirovsky

Traduzione di Marina Di Leo

Edizioni Adelphi

www.adelphi.it

Narrativa 

Il rivoluzionario e il tiranno
Più leggo le opere di questa straordinaria narratrice, più mi stupisco, e non solo per la qualità indubbia delle stesse, ma per la versatilità dell’autore, capace di passare dal romanzo storico (Suite francese) a quello dissacrante, e che ora, con L’affare Kurilov, affronta un genere che tutto sommato dovrebbe esserle ostico, vale a dire un vero e proprio thriller. Ma, quando si è capaci di scrivere, quando si è dotati di un grande talento naturale, nulla è impossibile e si può eccellere in tanti campi. La vicenda del rivoluzionario Lev M. e del ministro zarista dell’istruzione Valerian Aleksandrovič Kurilov, quest’ultimo un uomo crudele soprannominato il pescecane, non è di per sé nuova, cioè che ci sia un intellettuale che intenda sopprimere un tiranno non è infrequente, ma qui ciò che fa la differenza è che il primo vive abbastanza a lungo a stretto contatto del secondo, addirittura in casa sua, a cui ha approdato nella sua qualità di medico. Che sia per effetto del giuramento di Ippocrate, che sia per il conoscere a lungo e negli aspetti più intimi la vittima designata, sta di fatto che i propositi di Lev vacillano. Entrambi malati, di malattie che non perdonano, poco a poco si avvicinano e trovano di avere non pochi elementi caratteriali in comune. Ogni tanto si strappa qualche cosa nella corazza dietro cui si nascondono, ma poi si rattoppa tutto, perché in fin dei conti i due personaggi, se non uguali, sono perlomeno simili. La loro analisi psicologica é un gran pezzo di bravura della Némirovsky, che non parteggia per nessuno dei due, ma cerca di mostrarceli così come sono. Lev riuscirà a compiere la missione? Non anticipo nulla, per non far cadere la palpabile tensione che cresce a ogni pagina. Il romanzo comincia in sordina, ma con un colpo ad effetto, in una Nizza anni ‘30, poi progressivamente il ritmo cresce e si viene avvinti dalla trama e dalla straordinaria semplicità del linguaggio che, pur tuttavia, non è acerbo, ma assai maturo, capace di avventurarsi in approfondimenti di non poco spessore con una facilità disarmante.

Da leggere, lo merita.

Irène Némirovsky   (Kiev, 11 febbraio 1903; Auschwitz, 17 agosto 1942).
Figlia di un ricco banchiere ebreo, si trasferì con la famiglia in Francia all’avvento del regime sovietico. Nella sua breve vita scrisse numerosi romanzi di grande successo, sovente pubblicati postumi.  Fra questi si ricordano Suite francese, David Golder, I doni della vita, I cani e i lupi, Il vino della solitudine  e Il ballo.
Renzo Montagnoli

 

28 Gennaio

La scala di ferro

di Georges Simenon

traduzione di Laura Fausin Guarino

Edizioni Adelphi

www.adelphi.it

Narrativa romanzo

Collana Biblioteca Adelphi 

Il sospetto

E’ difficile arrivare all’ultima pagina senza essere presi dall’ansia di chi vuol sapere, di chi paventa una fine che magari non sarà come quella immaginata, perché La scala di ferro è un vero e proprio thriller che riserva non poche sorprese e l’ultima di certo è quella meno prevedibile, anche se logica.  Étienne, entrato nel cuore di un’avvenente, ma più anziana donna, che sospetta aver avvelenato e in tal modo ucciso il marito, poco a poco si convince che la prossima vittima designata non potrà che essere lui. Certi atteggiamenti della moglie, che ha sposato dopo un anno della sua vedovanza, e soprattutto le analisi di un medico gli confermano la fondatezza dei suoi sospetti. Già accusa dei disturbi causati dall’arsenico che gli viene propinato gradualmente in alcuni piatti ed Etienne, invece di andarsene, rimane perché senza quella donna non può più vivere e anche perché la nuova situazione rende più attiva la sua vita. Il tema del sospetto é un classico in questo genere di letteratura ed é stato introdotto con notevole successo nel cinema da Alfred Hitchcock, tanto da dirigere una pellicola intitolata appunto Il sospetto con interpreti  Cary Grant e Joan Fontaine. E come nei film del  grande regista inglese, nelle pagine di La scala di ferro troviamo una progressiva e crescente tensione che nel caso specifico non direi causata dalla paura perché ciò che si instaura fra Etienne e la moglie è un conflitto, con lei che procede nel suo disegno omicida e lui che cerca di salvare la pelle; inoltre, se lui sa dei propositi del coniuge, non è improbabile che anche lei si sia accorta che il marito nutre dei sospetti. É quasi una partita a carte scoperte, i cui contendenti tuttavia preferiscono nascondere, proprio per il sottile piacere provocato dalla tensione. Chi uscirà vincitore? Ovviamente non dico nulla lasciando a chi leggerà l’affannosa ricerca della verità.

La trama é particolarmente avvincente e l’analisi psicologica dei personaggi è assai approfondita, come è d’uso con Simenon; si entra piano in questa spirale di sospetti, ma poi tutto scorre rapidamente sotto ai nostri occhi, con sullo sfondo sempre quella scala di ferro, quella che porta dal negozio all’appartamento, l’ideale congiunzione fra la vita pubblica di tutti i giorni e le violente passioni private, che i protagonisti si sforzano di occultare.

Da leggere, ovviamente.

Georges Simenon, nato a Liegi nel 1903, morto a Losanna nel 1989, ha lasciato centonovantatre romanzi pubblicati sotto il suo nome e un numero imprecisato di romanzi e racconti pubblicati sotto pseudonimi, oltre a volumi di «dettature» e memorie. Il commissario Maigret è protagonista di 75 romanzi e 28 racconti, tutti pubblicati fra il 1931 e il 1972. Celebre in tutto il mondo, innanzitutto per le storie di Maigret, Simenon è anche, paradossalmente, un caso di «scrittore per scrittori». Da Henry Miller a JeanPauhlan, da Faulkner a Cocteau, molti e disparati sono infatti gli autori che hanno riconosciuto in lui un maestro. Tra questi, André Gide: «Considero Simenon un grande romanziere, forse il più grande e il più autentico che la letteratura francese abbia oggi»; Walter Benjamin: «… leggo ogni nuovo romanzo di Simenon»; Louis-Ferdinand Céline: «Ci sono scrittori che ammiro moltissimo: il Simenon dei Pitard, per esempio, bisognerebbe parlarne tutti i giorni».
Renzo Montagnoli

 

25 Gennaio

Il tempo del castagno

Racconti nel vento

di Franca Oberti

Introduzione di Stefano Martello

Fara Editore

www.faraeditore.it

Narrativa racconti
 

Mai dimenticare

Mi viene da sorridere se penso che, quando ero giovane, i vecchi erano soliti dire che con la mia generazione tutto era cambiato, e ovviamente in peggio.  C’era in me un’incredulità che mi impediva di comprendere, c’era  invece quel desiderio di gettarmi a capofitto nel futuro, cancellando il passato.  E invece ora, a distanza di tanti anni, pure io incanutito mi rendo conto che quell’affermazione era veritiera e che nell’arco di poco tempo una civiltà millenaria, quella contadina, era scomparsa.  Fissare i ricordi, non tanto per se stessi, ma per chi verrà dopo di noi è l’unico modo per fare un empirico giudizio della nostra vita, ma riportare le memorie raccolte dai nonni quando si era piccoli è molto di più, è concatenare delle epoche, è verificare ciò che c’era di buono e ciò che c’era di insano. Ci ha provato Franca Oberti con questa raccolta di racconti,  Il tempo del castagno, che prende il titolo da uno di essi, per la precisione l’ultimo.

L’autore, legato per tradizione familiare all’attività agricola, in forza degli squarci che gli si aprono nella memoria propone delle prose brevi in cui il respiro di un tempo andato e che mai ritornerà è forte, tale da far comprendere che se la vita condotta dai suoi avi a coltivar la terra non era di certo paradisiaca, non era tuttavia da sminuire o denigrare. Il lavoro manuale era preminente, il tenore di vita, per lo più, era tale da garantire i pasti, se pur magri e poco  vari, insomma quando non era proprio miseria, era ciò che oggi definiremmo una povertà diffusa, assai più marcata del concetto che adesso abbiamo di povertà. Eppure, a quei tempi, a quelli della civiltà contadina probabilmente si viveva meglio di oggi, perché non rientravano nel paniere della ricchezza quei mezzi materiali per cui ogni giorno lottiamo, ma erano bensì presenti i valori, le canoniche basi che in quest’epoca frenetica in cui viviamo sono spariti completamente, sostituiti da un unico scopo per il quale valga la pena di vivere: la continua ricerca del denaro per soddisfare bisogni che accortamente ci vengono inculcati.

La scrittura dell’Oberti è semplice, priva di fronzoli, così che si ricava l’impressione che i racconti siano uguali a quelli ascoltati da bambina dalla bocca del nonno o della nonna. E in questa letteratura orale, di cui da molto tempo non si nota più nemmeno l’assenza, è piacevole, pagina dopo pagina, immaginare di stare ad ascoltare davanti a un camino con un bel fuoco , su cui, in un paiolo, viene rimestata la farina gialla per quello che era un alimento diffusissimo: la polenta.

Così si sogna, si sogna a occhi aperti, e non si può non condividere quanto a pagina 12 scrive l’autore: “……/  A guardare bene sono sempre stati loro, i contadini, che ci hanno insegnato la sopravvivenza: insegnavano alle nuove generazioni come tramandare la vita, in ogni sua forma” 

E’ vero, tanto che, scomparsa questa civiltà, oggi siamo come alberi a cui hanno tagliato le radici e, senza memoria del passato, continuiamo a correre verso un futuro nebuloso, incapaci di saper vivere il presente.

Da leggere.

Franca Oberti è nata a Genova, ma vive in Brianza da più di trent’anni. Dopo un periodo lavorativo vario e dopo aver fatto la mamma, ha conseguito il diploma di Operatrice Bio-Naturale presso l’A.MI. University di Milano, specialità Pranopratica e Counselor. Oltre a svolgere diverse attività di volontariato ed aver ricoperto cariche amministrative nel pubblico, scrive poesie e racconti, pubblica articoli di saggistica su varie testate locali e riviste di ispirazione cattolica. Ha vinto numerosi premi letterari, è inserita in diverse antologie, è stata presidente e membro di giuria in concorsi letterari. Ha pubblicato tre raccolte di poesie, quattro antologie natalizie, tre volumi di saggistica e un libro di cucina curativa. Ama le tradizioni e la vita semplice che condivide con la sua famiglia da quarant’anni. Tiene conferenze su temi vari inerenti la medicina complementare. Web: www.facebook.com/franca.oberti.dbn
Renzo Montagnoli

 

22 Gennaio

L’oro del mondo

di Sebastiano Vassalli

Edizioni Einaudi

Narrativa romanzo

 

Per noi stessi

L’oro del mondo è un romanzo atipico nella produzione letteraria di Sebastiano Vassalli, un lungo racconto che a volte entusiasma e altre invece sconcerta, sospeso com’è fra ironia, satira, dissacrazione, il tutto accompagnato da una vena anche di struggente malinconia. Dovrebbe essere anche una parziale autobiografia, con particolare riguardo agli anni immediatamente successivi alla seconda guerra mondiale, in un’Italia distrutta, un paese in cui si muove come tante ombre un popolo di cenciosi, disposti a fare qualsiasi lavoro pur di trovare qualcosa da mettere sotto i denti. Vassalli, abbandonato da un padre imbroglione e infame e da una madre che sogna un’eredità assistendo un capitano di marina invalido, è in pratica allevato dallo zio Alvaro, un candido che tuttavia ha compreso, a sue spese, come vada il mondo. Al riguardo è particolarmente significativo un dialogo con il nipote che si trova a pagina 150: ‹‹Perché viviamo?››, domandai. ‹‹Per noi stessi, – rispose lo zio Alvaro. – ‹‹Per la nostra memoria: e per che altro?›› Spiegò: ‹‹Per quelle poche pagliuzze di felicità che rimangono in fondo alla memoria, come l’oro sul fondo della bàtea…››. Può sembrare una filosofia spiccia, a buon mercato, ma il senso della vita è poi questo, né più, né meno, e qualunque cosa se ne dica, è proprio di tutti noi. É solo la memoria che ci fa capire di aver vissuto, una serie di ricordi spesso impalpabili, sovente per nulla piacevoli, ma che, nei pochi casi in cui abbiamo toccato, magari per un attimo, la felicità, sono la misura di quanto la vita meriti di essere vissuta.  Ma non c’è solo questo orientamento filosofico, perché è pure presente e determinante un’impietosa descrizione di noi italiani, capaci in un giorno e anche meno di trasformarci tutti da fascisti in antifascisti, restando però sostanzialmente quel popolo arruffone, menefreghista e in cui ognuno guarda solo se stesso. Se la figura del padre di Vassalli, grande fascista prima e durante la guerra, e rimasto sostanzialmente tale anche dopo è esemplarmente negativa, non lo sono di meno altri personaggi che si agitano, scalpitano, sgomitano per conquistarsi un posto al sole. In tal modo quella che doveva essere una sia pur parziale autobiografia, diventa l’analisi del trascorso di un’intera nazione, vista nel dramma del passaggio dal fascismo alla democrazia, e caratterizzata, allora come oggi, da un endemico malcostume e da un diffuso trasformismo, il quadro di una collettività che sembra incapace di una evoluzione positiva. Oggi, come un tempo, si seguono i miraggi, si sogna un capo a cui affidare incondizionatamente il proprio destino, e il desiderio principale è quello della ricchezza facile, quello del denaro, dell’oro, come era cercato da dei poveri disperati negli anni tristi del dopoguerra, ore e ore di lavoro per delle pagliuzze che non ripagavano la fatica, ma che perpetuavano l’illusione.

Con la fine del conflitto sembrava tutto cambiato, ma, come la polvere, sollevata e non raccolta che poi si deposita nuovamente, senza aver fatto i conti con il passato nulla può cambiare; siamo sempre stati così e così saremo sempre, sembra dirci Vassalli, un amaro giudizio di cui nemmeno ci vergogniamo.

Da leggere, ovviamente.

Sebastiano Vassalli è nato a Genova nel 1941 ed è morto a Casale Monferrato nel 2015. Ha pubblicato diverse opere, fra cui La notte della cometaSangue e suoloL'alcova elettricaL'oro del mondoLa chimeraMarco e MattioIl Cigno3012Cuore di pietraUn infinito numeroArcheologia del presenteDuxStella avvelenataAmore lontanoLa morte di Marx e altri racconti, L'ItalianoDio il Diavolo e la Mosca nel grande caldo dei prossimi mille anniLe due chiese e Comprare il sole.
Renzo Montagnoli

 

18 Gennaio

L’armata scomparsa.

L’avventura degli italiani in Russia

di Arrigo Petacco

Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Storia

Quante croci nella neve!

Sulla nostra tragica partecipazione alla Campagna di Russia, nel corso della seconda guerra mondiale, hanno scritto in molti, soprattutto sul suo drammatico epilogo, quasi tutte testimonianze dirette di chi là c’era e che riuscì fortunosamente a mettersi in salvo.  Ma di come ebbe inizio, di come si svolse e finì, e del seguito della stessa per quanto concerne i nostri soldati prigionieri dei russi, non vi sono molte opere e quindi L’armata scomparsa di Arrigo Petacco é da considerarsi un saggio storico indispensabile per comprendere tante cose.

Il libro, articolato organicamente in diversi capitoli, per lo più temporali, ha il notevole pregio di evidenziare da subito la scelleratezza di Mussolini che, benché consapevole della nostra impreparazione, non esitò a gettare allo sbaraglio migliaia di uomini, confidando nelle capacità militari dei tedeschi, i quali all’inizio non accolsero favorevolmente la nostra offerta di partecipare all’impresa, ma poi, viste le insistenze del duce, Hitler dovette cedere. Mancavamo di tutto:  il fucile era il vecchio Carcano-Manlicher del 1891, l’artiglieria risaliva alla prima guerra mondiale, i carri armati erano semplicemente ridicoli, i mezzi di trasporto erano pochi e per lo più superati, il vestiario e le scarpe erano del tutto inadatte al clima, insomma fu inviata un’armata Brancaleone, in cui non pochi si distinsero per coraggio e abnegazione, ma tali caratteristiche furono del tutto insufficienti per colmare un divario che si può definire senz’altro enorme..

Quello che contraddistingue soprattutto la campagna di Russia fu la tragica ritirata, in cui non solo si verificarono numerosi casi di congelamento, ma che si concluse con una vera e propria strage della nostra armata. In pochi riuscirono a tornare in Italia, molti di più restarono sulla neve, anche fra quelli presi prigionieri e avviati ai campi di prigionia in Siberia. Lì, nei gulag, il freddo, il vitto insufficiente, il tifo petecchiale fecero il resto al punto che, a guerra finita, ritornarono in ben pochi, più o meno uno su dieci. E c’è da considerare che gli italiani furono trattati meglio dei tedeschi, in quanto non colpevoli di odiose violenze!  

Alla fine viene quasi naturale porsi una domanda, sorretta più da speranza che da logica: fra quelli non ritornati, può essere che non pochi siano rimasti là di loro spontanea volontà? Forse è il ricordo del film I girasoli, con Marcello Mastroianni e Sofia Loren che influenza questa idea, ma secondo la razionalità la probabilità che qualche disperso sia di fatto in vita e in Russia è molto limitata, se non altro perché per diversi anni dopo la fine della guerra nel Paradiso sovietico l’esistenza era molto difficile e il tenore di vita ben inferiore a quello italiano, quest’ultimo se pur condizionato dalle distruzioni della guerra.

Da leggere, quindi, per non dimenticare.   

Arrigo Petacco è nato a Castelnuovo Magra (La Spezia) e vive a Portovenere. Giornalista, inviato speciale, è stato direttore della «Nazione» e di «Storia illustrata », ha sceneggiato film e realizzato programmi televisivi di successo. Nei suoi libri affronta i grandi misteri della storia, ribaltando spesso verità giudicate incontestabili. Fra gli altri ricordiamo, pubblicati da Mondadori:Dear Benito, caro Winston, I ragazzi del '44, La regina del Sud, Il Prefetto di ferro, La principessa del Nord, La Signora della Vandea, La nostra guerra. 1940-1945, Il comunista in camicia nera, L'archivio segreto di Mussolini, Regina. La vita e i segreti di Maria José, Il Superfascista, L'armata scomparsa, L'esodo, L'anarchico che venne dall'America, L'amante dell'imperatore, Joe Petrosino, L'armata nel deserto, Ammazzate quel fascista!, Il Cristo dell'Amiata, Faccetta nera, L'uomo della Provvidenza, La Croce e la Mezzaluna, ¡Viva la muerte!, L'ultima crociata, La strana guerra, Il Regno del Nord, O Roma o morte, Quelli che dissero no, Eva e Claretta, A Mosca, solo andataNazisti in fugaLa storia ci ha mentito e Ho sparato a Garibaldi.
Renzo Montagnoli

 

15 Gennaio

La sinfonia di Parigi e altri racconti

di Irene Némirovsky

Elliot Edizioni

Narrativa racconti  
 

Tre piccole perle 

La Nemirovsky fu affascinata dal mondo del cinema, forse anche perché il suo primo romanzo pubblicato (David Golder) ebbe una felice trasposizione cinematografica. Indubbiamente le immagini che si vedono sullo schermo hanno un senso di immediatezza che è superiore a quello che si ritrae leggendo un libro, ma non si deve dimenticare che la scrittura della narratrice ucraina privilegia sempre la visione delle scene, pur lasciando margini di autonomia alla fantasia del lettore. Dal risvolto di copertina di La sinfonia di Parigi e altri racconti si comprende quanto sia stata grande la fascinazione del mondo di celluloide, atteso che queste tre prose sono state scritte nel 1931 con il preciso obiettivo di considerarle dei soggetti cinematografici, i canovacci indispensabili per realizzare in futuro eventuali film. Nondimeno, nulla hanno delle sceneggiature, salvo forse la capacità descrittiva degli avvenimenti qui più minuziosa del solito, ma comunque per niente affaticante. Ciò che più conta in questi tre racconti è che parlando dell’amore sembra di vedere susseguirsi davanti agli occhi, pagina dopo pagina, i fotogrammi di una pellicola; in La sinfonia di Parigi si respira, sfogliando, l’atmosfera di una città come Parigi negli anni ‘30, il mondo degli artisti, un caleidoscopio di personaggi che, pur essendo emblematici, sono dotati di una loro indiscussa e particolare personalità, come Mario Cavalhére, il musicista che arriva nella Ville Lumiere per completare e approfondire gli studi, si segue il suo stupore e perfino pare risuonare nelle orecchie la successione di suoni e accordi che la fontana di Place Concorde crea con i suoi zampilli, di cui prende nota affinché costituiscano lo spunto per comporre la sinfonia di Parigi; Natale é una storia più convenzionale, di seduzione e di abbandono, ma dato che questa festività dovrebbe scaldare i cuori c’è comunque un lieto fine, a differenza di Carnevale di Nizza impostato sul classico triangolo amoroso. In ogni caso non si può non apprezzare lo stile fluido, pulito, senza fronzoli, ma capace di suscitare in silenzio emozioni, nonché di avvincere senza forti contrasti, tanto da risultare serenamente appagante. Non metto in dubbio che la Nemirovsky abbia scritto di meglio, ma sono convinto che questi tre racconti siano delle piccole perle nel grande scrigno della produzione letteraria dell’autrice.

Irène Némirovsky   (Kiev, 11 febbraio 1903; Auschwitz, 17 agosto 1942).
Figlia di un ricco banchiere ebreo, si trasferì con la famiglia in Francia all’avvento del regime sovietico. Nella sua breve vita scrisse numerosi romanzi di grande successo, sovente pubblicati postumi.  Fra questi si ricordano Suite francese, David Golder, I doni della vita, I cani e i lupi, Il vino della solitudine  e Il ballo.
Renzo Montagnoli

 

11 Gennaio

Si può suonare un notturno su un flauto di grondaie?

di Mariangela De Togni

Prefazione di Rosa Elisa Giangoia

Fara Editore

www.faraeditore.it

Poesia

L’essenza di Dio

Di Mariangela De Togni avevo già letto un’altra silloge (Frammenti di sale), che mi aveva colpito in modo particolare per l’abbandono mistico che la caratterizzava, frutto di interazione con il Creato, una sorta di sensazioni ed emozioni derivanti non solo dall’osservazione della natura, ma dalla continua ricerca di compenetrarsi in essa. Stupore, meraviglia, ma soprattutto una grande serenità emergevano dai versi delle sue poesie. Anche in questa nuova raccolta ho potuto constatare quanta gioia interiore traspaia nelle singole poesie e come l’autore abbia saputo cogliere indirettamente l’essenza di Dio in tutto ciò che naturalmente ci circonda.  Non si può che essere partecipi di questa emozione quando ci si accosta a versi come questi: “Si fece leggera la sera / nel penetrare l’ombra /della volta antica, / i candelabri accesi / dall’oro del tramonto. /...”.  Di fronte ai miei occhi si è materializzata un’immagine ieratica, ma al tempo stesso semplice, quale può essere quella dello spettacolo di un tramonto, e mi sono sentito pervaso da un romantico languore, mi sono sentito trasportare in un’altra dimensione diversa da quella del mondo frenetico a cui appartengo. Nulla sfugge all’analisi della poetessa e così anche il tempo, il fuggevole tempo, diviene protagonista (Fugace il tempo / appare come sospeso / fra bianchi petali di pruno / in contrappunto / al silenzio dei cipressi. /…). Credo proprio che Mariangela De Togni abbia colto l’essenza di Dio, quel Suo esserci ovunque, nell’umile fiore come nella cima innevata, una presenza che si può avvertire a ogni passo, purché lo si voglia, purché non si dimentichi che anche noi siamo parte della natura, in un equilibrio talmente perfetto, in un disegno talmente complesso che se ci risulta troppo difficile per capirlo, però ci consente di gioirne perché anche noi vi rientriamo. E sono dell’idea che in una specifica poesia di pochi versi Mariangela sia riuscita a sintetizzare tutto il suo pensiero. Si tratta di Il mio cuore (Il mio cuore é rimasto / fra le onde del mare. / Conchiglia piena /  della sua voce.) E in questo cuore immenso c’è tutto il mondo, lei compresa, e c’è anche Lui, il Dio Creatore di tutto.

Da leggere, senza dubbio.       

Mariangela De Togni, nata a Savona, è suora delle Orsoline di Maria Immacolata (Piacenza). Insegnante, musicista, studiosa di musica antica. Membro dell’Accademia Universale “G. Marconi” di Roma, ha pubblicato le raccolte di versi: Non seppellite le mie lacrime (1989), Nostalgia (1991), Una Voce è il mio silenzio (1995), Chiostro dei nostri sospiri (1998), Profumo di cedri (1998), Un saio lungo di sospiri (2000), Flauto di canna (2004), Nel sussurro del vento (in Quaderni di Letteratura e arte, 2005), Le visioni del Verso (2008), Cristalli di mare, Fiori di magnolia, Frammenti di sale (2013). È presente in agende, antologie e riviste di poesia contemporanea. Numerosi i premi e le segnalazioni di merito.
Renzo Montagnoli

 

8 Gennaio

Il segno dell’untore

di Franco Forte

Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Narrativa


Un convincente giallo storico

Corre l’anno 1576 e a Milano imperversa la peste. Il notaio criminale Niccolò Taverna, unitamente ai suoi due aiutanti, viene incaricato di far luce sul furto di un candelabro realizzato in età giovanile da Benvenuto Cellini e che era conservato nel Duomo ancora in corso di costruzione.  Non fa in tempo ad avviare le indagini che è costretto a interromperle perché gli viene affidato un caso ben più importante: scoprire chi ha assassinato padre Bernardino da Savona, commissario inquisitoriale presso il Consiglio dell’Inquisizione Generale e Suprema di Milano.

Non sarà un lavoro facile, perché esiste una lotta sotterranea fra i poteri forti, tra gli spagnoli che reggono il Ducato con la presenza cupa dell’Inquisizione e Carlo Borromeo, il famoso arcivescovo, in un contesto in cui tutto ciò che appare non risponde mai al vero, in un ambiente di dolore, di lutti, di centinaia di morti per peste.

Il segno dell’untore è un giallo storico particolarmente complesso, ma ben architettato e che riesce ad avvincere il lettore dalla prima all’ultima pagina, accuratamente sorretto dalla penna dell’autore  capace di non far perdere il filo del racconto fra i tanti colpi di scena e le tante ipotesi investigative. L’ambiente e il particolare periodo storico sono resi molto bene, così come attenta è la descrizione dei non pochi personaggi, per quanto, per alcuni, maggiori approfondimenti psicologici non avrebbero guastato. Niccolò Taverna arriverà poi a risolvere entrambi i casi, seguendo un convincente criterio logico che non delude certamente.

Lo stile di Forte é snello, teso a privilegiare l’azione, anche se talvolta ama dilungarsi nella narrazione, ma senza mai risultare comunque greve.

Il segno dell’untore é uno dei quei romanzi in cui, come si inizia la lettura non si vorrebbe mai interromperla, perché la vicenda non annoia, anzi si è costantemente assillati dalla necessità di conoscere quel che presenteranno le prossime pagine, di come si articoleranno le ipotesi investigative e anche dal crescente desiderio di sapere il perché, il per come e il motivo di un feroce omicidio.

É evidente, quindi, che lo consiglio caldamente.

Nato a Milano nel 1962, Franco Forte cura le collane da edicola Mondadori (Il Giallo Mondadori, Segretissimo, Urania) ed è considerato uno dei più importanti autori italiani di romanzi storici. Molti dei suoi libri sono stati pubblicati da Mondadori. Tra questi i due titoli della serie "Il romanzo di Roma" Carthago (2009) e Roma in fiamme (2011), i gialli storici con protagonista il notaio criminale Niccolò Taverna Il segno dell'untore (2012) e Ira Domini. Sangue sui Navigli (2014) e Gengis Khan. Il figlio del Cielo (nuova edizione 2014) e il romanzo storico Caligola. Impero e follia (2015). Ha inoltre lavorato per la televisione, come autore delle serie Distretto di Polizia e RIS: Delitti imperfetti e dei film TV Giulio Cesare e Gengis Khan. È anche opinionista sportivo in vari talk show televisivi dedicati al calcio.
Renzo Montagnoli

 

6 Gennaio

Le streghe di Lenzavacche

di Simona Lo Iacono

edizioni e/o

www.edizionieo.it

Narrativa romanzo 

Beata la diversità

Ci voleva poco un tempo perché una donna, già considerata essere inferiore e tentatore, fosse marchiata come strega: bastava che rivendicasse il suo naturale diritto di esistere e di condurre una vita non uniforme agli ottusi dettami religiosi, a una ridda di comportamenti a cui tante, per timore, ma anche per assuefazione, invece si uniformavano. L’essere diversi, insomma, era non solo un peccato, ma addirittura un reato. Superati i confini del tempo, arrivando fino a quasi i giorni nostri, nell’anno 1938 a Lenzavacche  la storia sembra ripetersi, facendo tornare alla memoria quelle femmine, che nello stesso paese, nel 1600 furono chiamate streghe perché, nella loro condizione di mogli abbandonate, ripudiate o più semplicemente in fuga da un’esasperante emarginazione, si riunirono in una casa alla periferia dell’abitato, iniziando a condividere un’esperienza di vita comunitaria e anche letteraria.  In quell’anno fascista vive una strana famiglia, composta dal piccolo Felice, che a dispetto del nome, disabile come é, sembra riassumere su di di sé tutte le possibili disgrazie, sua madre Rosalba e la nonna Tilde, con entrambe le donne che rivendicano di essere discendenti dalle streghe del 1600. E certo il loro comportamento, così inusuale, finisce con il dar credito a questa asserzione: donne che non si sposano, che rivendicano una personale libertà e che attribuiscono, giustamente, alla conoscenza, alla cultura un ruolo fondante non possono che destare ampi sospetti in un mondo chiuso e ancora feudale quale quello della Sicilia dell’epoca. Non intendo, però, andare oltre, nel senso che non voglio anticipare la trama, preferendo soffermarmi sugli aspetti salienti dell’opera e in primis sul messaggio nella stessa contenuto.  La salvezza dell’umanità é riposta nella convinzione che solo una cultura che non si esaurisca nel semplice atto dell’apprendimento, ma vada oltre diventando un atto creativo, teso a liberare l’animo da ogni preconcetto, consente, nell’accettare noi, anche di accettare gli altri, permettendo di cogliere nella diversità ciò che non si ha, rompendo il circolo delle apparenze e facendo rinascere due sentimenti che da soli elevano l’uomo: la purezza dell’amore e la pietà. L’epoca, come detto, é quella fascista, che vive e vegeta sull’uniformità, ma che attecchisce in modo perfetto laddove, per ignoranza, per un errato concetto di religione, tutto deve essere immutabile e scritto da regole tramandate di generazione in generazione. Allora era senz’altro così, ma siamo sicuri che ancora oggi, in altri luoghi, ben lontani, non sia presente in modo corrosivo questa distorta mentalità?. Ed ecco che allora quello che a prima vista potrebbe sembrare un romanzo storico travalica il suo tempo e appare ancora attuale e con ogni probabilità sarà così anche in futuro. La carne al fuoco non é poca, perché ricorrono temi cari all’autore, quali la diversità, la difesa dei più deboli, il valore salvifico di una cultura che non sia fine a se stessa, ma la mano è sicura e anche se le prime pagine richiedono un certo grado di assuefazione, poi la lettura si  fa più veloce e anche più appagante, tanto che posso dire che ci troviamo di fronte all’ennesima prova positiva di Simona Lo Iacono, che di certo offre, ancora una volta, tanta sostanza.   

Simona Lo Iacono è nata a Siracusa nel 1970. Magistrato, presta servizio presso il tribunale di Catania. Ha pubblicato diversi racconti e vinto concorsi letterari di poesia e narrativa. Sul blog letterario Letteratitudine di Massimo Maugeri cura una rubrica che coniuga norma e parola, letteratura e diritto, dal nome “Letteratura è diritto, letteratura è vita”.
Il suo primo romanzo, Tu non dici parole (Perrone 2008), ha vinto il premio Vittorini Opera prima. Nel 2010 le sono stati conferiti il Premio Internazionale Sicilia “Il Paladino” per la narrativa e il Premio Festival del talento città di Siracusa.
Nel 2011 ha pubblicato Stasera Anna dorme presto (Cavallo di Ferro), con cui ha vinto il premio Ninfa Galatea ed è stata finalista al Premio Città di Viagrande. Nel 2013, sempre per Cavallo di Ferro, ha pubblicato il romanzo Effatà, vincitore del Premio Martoglio e del premio Donna siciliana 2014 per la letteratura.
Attualmente conduce sul digitale terrestre un format letterario dal nome BUC, trasmissione che mescola al libro varie discipline artistiche, e cura sulla pagina culturale della Sicilia la rubrica letteraria “Scrittori allo specchio”. Presta inoltre servizio presso il carcere di Brucoli come volontaria, tenendo corsi di letteratura, scrittura e teatro, tutti mezzi artistici con i quali intende attuare il principio rieducativo della pena sancito dall’art 27 della Costituzione.
Renzo Montagnoli

 

4 Gennaio

Il  Regno del Nord

1859: il sogno di Cavour infranto da Garibaldi

di Arrigo Petacco

Arnoldo Mondadori Editore s.p.aA.

Storia

 

Il progetto irrealizzato di Cavour

Certo é che fra la storia che insegnano a scuola e quella che si apprende leggendo saggi di illustri autori c’é una bella differenza. Ricordo a tal proposito che l’insegnante ci spiegò che arrivammo all’unità d’Italia grazie all’abilità e alla perseveranza di Camillo Benso conte di Cavour, a cui sembrava proprio calzante l’appellativo di “Grande tessitore”.  In verità, già allora mi era sorto qualche dubbio, anzi dubitare é sempre bene, perché è l’unico modo, poi, per avvicinarsi, se non proprio a raggiungerla, alla verità. Ora questo saggio di Petacco sembrerebbe provare che le cose non andarono proprio così, che il ministro piemontese aveva scopi ben diversi e che, operando esclusivamente nell’interesse dei Savoia, avesse delle idee che con l’unità nazionale nulla avevano a che fare. Diciamolo francamente: se si sostiene un onere corposo, quale quello di una o più guerre, deve essere più che compensato da tangibili risultati economici e l’idea di sottomettere al regno sabaudo l’Italia settentrionale con la ricca Lombardia e il non povero Veneto finì con l’essere il fine a cui il Cavour mirava intessendo le sue trame di ragno paziente. Fu in tal senso che, durante un abboccamento diretto con colui che avrebbe dovuto diventare il principale alleato nella guerra contro l’Austria, vale a dire Napoleone III, gli fu prospettato – e l’interlocutore si dichiarò d’accordo – un piano per dare un assetto all’Italia, a quel territorio che non a caso il Mtetternich ebbe a definire una pura espressione geografica. In buona sostanza il progetto si articolava così:

1)  piemontesizzazione dell’Italia settentrionale, nel senso che il Regno di Sardegna si sarebbe annesso la Lombardia, il Veneto, fino all’Istria e alla Dalmazia;

2) un regno dell’Italia centrale con capitale Firenze comprendente l’Emilia, la Toscana;

3) un regno del Sud, comprendente, oltre a quello delle due Sicilie, l’Umbria e le Marche, sottratte allo Stato Pontificio;

4) Una federazione di questi tre stati con presidente, a titolo onorario, del Pontefice, quest’ultima idea piuttosto bislacca, poiché il Papa, contro una perdita consistente del suo territorio, avrebbe avuto solo un incarico simbolico.

Vista l’approvazione del futuro alleato Napoleone III, sembrava cosa già fatta, ma i guai cominciarono quando i Borboni di Napoli, bigotti e papalini, si accorsero che il vantaggio che a loro ne veniva (annessione di Umbria e Marche) derivava da un esproprio dello stato pontificio e ovviamente non aderirono.

Cavour tuttavia non demordeva, brigando ancora per la realizzazione del suo progetto che, a mio parere, se concretizzato avrebbe avuto vita breve, ma poi sappiamo che il colpo decisivo, il definitivo impedimento venne con la spedizione dei Mille, autorizzata in segreto dal re, caldeggiata dalla massoneria e dagli inglesi e avversata appunto da Cavour.

Quindi, addio stato federale e anzi inizio di un nuovo organismo unitario, basato su un forte e anti autonomista potere centrale.

E’ un pezzo importante della nostra storia, poco conosciuto, in quanto volutamente ignorato nell’insegnamento scolastico, e quindi direi che la lettura di Il Regno del Nord è quanto mai utile e opportuna. 

Arrigo Petacco è nato a Castelnuovo Magra (La Spezia) e vive a Portovenere. Giornalista, inviato speciale, è stato direttore della «Nazione» e di «Storia illustrata », ha sceneggiato film e realizzato programmi televisivi di successo. Nei suoi libri affronta i grandi misteri della storia, ribaltando spesso verità giudicate incontestabili. Fra gli altri ricordiamo, pubblicati da Mondadori:Dear Benito, caro Winston, I ragazzi del '44, La regina del Sud, Il Prefetto di ferro, La principessa del Nord, La Signora della Vandea, La nostra guerra. 1940-1945, Il comunista in camicia nera, L'archivio segreto di Mussolini, Regina. La vita e i segreti di Maria José, Il Superfascista, L'armata scomparsa, L'esodo, L'anarchico che venne dall'America, L'amante dell'imperatore, Joe Petrosino, L'armata nel deserto, Ammazzate quel fascista!, Il Cristo dell'Amiata, Faccetta nera, L'uomo della Provvidenza, La Croce e la Mezzaluna, ¡Viva la muerte!, L'ultima crociata, La strana guerra, Il Regno del Nord, O Roma o morte, Quelli che dissero no, Eva e Claretta, A Mosca, solo andataNazisti in fugaLa storia ci ha mentito e Ho sparato a Garibaldi.
Renzo Montagnoli

 

1 Gennaio

Poeta al comando

di Alessandro Barbero

Arnoldo Mondadori Editore S.p.A.

Narrativa romanzo storico 

All’avventura

Poeta al comando parla degli ultimi giorni dell’avventura fiumana di Gabriele D’Annunzio, l’unica in cui si cimentò da politico e capo di stato, senza essere tuttavia convincente sia nell’uno che nell’altro ruolo, e del resto lui stesso, il Vate, ne era consapevole. Si era gettato nell’impresa con l’impeto che gli era usuale quando riteneva di aver trovato il mezzo e il fine per suggestionare folle e accrescere il proprio mito; con lui partecipò un‘accozzaglia di reduci della Grande Guerra, per lo più Arditi, ben lieti  di avviare un periodo all’insegna della massima libertà, senza che fosse necessario prendersi sul serio. Incapace di restare inattivo, D’Annunzio, nel periodo dell’occupazione della città (dal  12 settembre 1919 al 31 dicembre 1920), senza che ne prevedesse i futuri sviluppi, curò i rituali di cui poi si sarebbe appropriato il fascismo, ma scrisse anche una costituzione assai libertaria. Colto nel romanzo di Barbero nell’ultima parte dell’impresa, ormai in evidente declino, prima ancora che gli occupanti dovessero smobilitare, troviamo D’Annunzio nella sua tipicità di essere tutto e il contrario di tutto, con l’aggiunta però della malinconica consapevolezza che gli anni sono trascorsi e che quindi è già entrato nell’incerto e gramo periodo della vecchiaia. Pur nell’incoscienza di questa combriccola, che non è un’ Armata Brancaleone, ma che tuttavia si è gettata nell’impresa solo per spirito d’avventura, a Fiume si vive alla giornata in una sorta di baldoria in cui utopie, desiderio di ebbrezza e anche libero amore sembrano un anticipo di Woodstock 1969.

L’impressione che ne ho ricavato é che il mito abbia finito per travolgere il personaggio e che questo, che comincia a ricordarsi che la vita non é eterna,  si immalinconisca, facendolo diventare più umano, così da scendere fra noi, comuni mortali, dal piedistallo su cui si era posto. L’idea di Barbero é geniale e porta a una lettura assai gradevole, tanto più che chi narra non é D’Annunzio , ma il suo segretario Tom Antogini, che nel 1944, in un bar di Salò ritrova dopo molto tempo e nelle vesti di ufficiale delle ausiliarie della RSI Cecilia, una ragazza più brutta che bella e che tuttavia a Fiume riuscì a irretire il poeta, divenuto da cacciatore di donne a preda. Fra l’altro, il fascino di Cecilia, che viene soprannominata da D’Annunzio Cosetta, é tale che doveva aver fatto breccia anche nel cuore dell’Antogini, tanto che a distanza di più di venti anni quella brace si ravviva e così ottiene quell’ amplesso che non gli era riuscito nei giorni dell’occupazione di Fiume.

Occorre riconoscere a Barbero la capacità non indifferente di presentarci un evento e dei personaggi in modo del tutto convincente e senz’altro gradevole, tanto che la lettura è da me consigliata.

Alessandro Barbero, nato a Torino nel 1959, è professore ordinario presso l’Università del Piemonte Orientale a Vercelli. Studioso di storia medievale e di storia militare, ha pubblicato fra l’altro libri su Carlo Magno, sulle invasioni barbariche, sulla battaglia di Waterloo, fino a Lepanto. La battaglia dei tre imperi (2010). È autore di diversi romanzi storici, tra cui: Bella vita e guerre altrui di Mr. Pyle gentiluomo (Premio Strega 1996), Gli occhi di Venezia (2011), Le ateniesi (2015). 
Renzo Montagnoli

 

 


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