Racconti di Salvatore Presti
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UN SORRISO MAGICO 1 -Antonio, detto Silvantonio: il prestigiatore per passione. Antonio da bambino, o meglio bambinone, era nato con il sorriso in bocca. Già qualche ora dopo il parto, aveva capito come funzionava la vita e aveva cominciato con i suoi giochi di prestigio. Invece di piangere per avere una poppata dalla sua mamma, riusciva a comunicare ciò che voleva con i suoi occhi spalancati. Lui, senza saperlo, ripagava tutti facendo dei giochi con il ciuccio: prima mettendolo in bocca, poi togliendolo facendo rumore, poi nascondendolo dietro la schiena, facendolo ruotare con il dito medio fino a lanciarlo fuori dal lettino e altro ancora. Molto spesso costringeva i suoi genitori a raccogliere il ciuccio per riportarglielo. Riusciva perfino a nasconderlo sotto il cuscino o la copertina facendo vedere il palmo delle mani, e a sei mesi la sua prima parola non fu "mamma" ma: “...più!” (ovvero: “non c’è più!”). Crescendo diventò un’attrazione per tutti i suoi familiari, ma anche per vicini e conoscenti. Nel tempo, senza sapere come, gli fu dato in nomignolo di Silvantonio, in onore di un famoso mago della televisione di nome Silvan. Negli anni a seguire i suoi interessi furono sempre legati al gioco e alla magia. Gli furono regalati: mantelli, cilindri, carte, scatole magiche, fazzoletti colorati, pupazzi di pezza a forma di colomba e coniglio. Insomma, tutto ciò che può servire a un prestigiatore alle prime armi. All’età di 14 anni si iscrisse ad una master-class di giochi di prestigio tenuta dal Grande Silvan. Era la cosa che più aveva desiderato in vita sua. Lì imparò dei giochi meravigliosi da fare vedere alle persone. Allo stesso tempo, però, dovette fare giuramento che non avrebbe mai svelato i trucchi del mestiere. Crebbe circondato da tanti amici. Ogni tanto istintivamente faceva cose senza una logica e/o ragione. Era come se una forza particolare lo obbligasse ad andare in certi posti che non conosceva per incontrare persone per poter ascoltare gli altri o portare un sorriso con la sua abilità. Lui si sentiva un farmaco, anzi il farmaco del sorriso. La prima volta che gli capitò di sperimentare la sua dote fu nei bagni della scuola quando lui era in terza elementare. Durante la lezione di matematica sentì il bisogno di uscire dalla classe per prendere una boccata d’aria. Prese la scusa di andare in bagno e chiedendo alla maestra di uscire. Entrato nei bagni, si accorse che un bambino stava seduto a terra con la schiena poggiata alla parete e la testa riversa sulle gambe abbracciate. Entrando in quell’ambiente, il singhiozzo del bimbo si alternava alla goccia di un rubinetto rotto, originando una strana melodia triste. Silvantonio immediatamente indossò il suo abito immaginario di supereroe e, per attirare l’attenzione, cominciò con la bocca a borbottare una canzoncina ritmata. Il suono onomatopeico emesso era del tipo: "zu tam- zu tam, tam -tam", e di nuovo "zu tam- zu tam, tam -tam". Contemporaneamente, cominciò a fare una break dance uscendo dalle proprie tasche fazzoletti e carte cominciando il suo spettacolino di 30 secondi. Fece volare 52 carte in aria riprendendole al volo, fece scomparire nell’ordine un uovo, una moneta e una fragola dalla mano destra, ricoprendo gli oggetti con un fazzoletto, per poi farli riapparire dai luoghi più impensati. La melodia triste si interruppe, si sentiva oramai solo la goccia cadere. La testa del bambino si sollevò appena ed il suo occhio cominciò a scrutare lo spazio intorno del bagno. Dopo 20 secondi il bambino cominciò ad accennare un sorriso e dopo ulteriori 5 secondi già rideva a crepapelle. 30 secondi dopo era poggiato alla parete con le lacrime intrise di risate. Silvantonio in quell’istante si sentì un supereroe, il più forte di tutti. Non sapeva il motivo del dolore del bambino, né lo avrebbe saputo mai, ma sapeva che i suoi super poteri avevano cancellato in quel suo coetaneo la tristezza. Ritornò in classe, riprese il suo posto come se nulla fosse successo, sembrava Superman che riprende le vesti di Clark Kent. 2 Adelaide: la suora tristeDopo trent’anni da quell’episodio successo a Silvantonio, nel reparto di medicina generale di un grande ospedale pubblico di Roma, lavorava da infermiera una suora, Adelaide. Indossava una divisa bianca, tipo Croce Rossa Italiana. Lei aveva uno sguardo austero e severo. Adelaide nel suo lavoro era molto attenta, somministrava cure secondo le cartelle ospedaliere, con precisione maniacale. L'unica nota stonata era che prestava cure solo nel reparto donne, non parlava mai con gli uomini. Lei era stata cresciuta in una famiglia tradizionale, cattolica e contadina dell’appennino Calabrese. Luoghi meravigliosi e isolati dal mondo, dove la natura è ciò che lega ogni cosa. Da giovane , pero’, aveva subito una violenza di cui non parlo’ mai con nessuno e così, per allontanarsi da quei luoghi, all’età di 18 anni, aveva deciso di prendere i voti e farsi monaca. Una scelta portata forse dalla fede, ma anche dalla voglia di mettere un muro tra lei ed il mondo. Le sue giornate da sempre erano uguali a se stesse: sveglia alle 5 e 30 per le odi del mattino, autobus, attività lavorativa presso l’ospedale, nuovamente autobus di ritorno, messa del pomeriggio, tempo dedicato alle necessità del convento, cena e preghiera serale prima di coricarsi. Una vera vita monastica. L’unica cosa che si concedeva come svago era una cioccolata calda nel pomeriggio prima di cominciare le faccende. Una volta al mese un taxi la veniva a prendere in convento per recarsi da una psicologa. Lei andava sempre scortata da una sorella, Chiara, che durante la visita l’aspettava sempre nella sala d’attesa, facendo vestitini all’uncinetto per i bimbi neonati di ragazze madri. Molto spesso i credenti cercano tutte le risposte nella fede, a lei evidentemente non essendo riuscita a trovare le giuste risposte nella casa di Dio le aveva cercate altrove. La psicologa da cui andava era la n° 4, nel senso che era la quarta che cambiava. Fondamentalmente la psicologa doveva aiutarla a superare il fatto di riuscire a parlare con gli uomini. 3- Caterina: la psicologa stupendaLa psicologa da cui andava Adelaide si chiamava Caterina. Caterina era una donna del nostro tempo: 35 anni, tipo nervino (o nevrotico), media statura, tatuaggi in tutte le parti del corpo, praticava lap dance, capelli tinti di color blu. Le sue giornate erano organizzate tra lavoro, palestra, aperitivi e viaggi. La vita sognata da ogni donna libera. Il suo telefonino era sempre in funzione, un prolungamento esterno del suo cervello. Messaggi di tutti i tipi si incrociavano: “Oggi dottoressa ho necessità di avere una visita urgente”, “Questa sera in palestra alle 22:00 dovremo mettere il completino rosso per le prove”, “Ciao Caterina ci vediamo alle 7 al Mexican bar, ho voglia di piccante”; “Buongiorno Caterina se vuole passi in agenzia stiamo organizzando un viaggio con Avventure nel Globo nell’Isola di Socotra”. Diciamo che la sua vita privata si intrecciava sempre con il lavoro, ma lei riusciva sempre a trovare un certo equilibrio: il suo. Naturalmente nei tempi morti la sua mente, che morti non erano, era sempre impegnata tramite il telefonino su piattaforme digitali, o per comprare scarpe e vestiti o per vendere gli stessi vestiti comprati qualche settimana prima. L’unico affetto vero era il suo gatto: Mielino. Mielino era stato trovato miagolante sotto una macchina tutto bagnato e cieco di un occhio. Lei lo prese come un bambino e lo crebbe con amore e affetto, che il gattino ricambiava sempre. Mielino le dava sempre la sveglia, l’accoglieva sempre a casa al suo ritorno strusciandosi fra le gambe, le faceva compagnia durante le lunghe serate d’inverno a vedere interminabili serie televisive, sempre su piattaforme digitali. L’amore, meglio il sesso, era qualcosa di fastidioso da soddisfare. Noi non possiamo annullare le nostre pulsioni, lei lo sapeva bene. Questo suo problema veniva risolto o tramite un suo carissimo amico da letto. Diciamo che era un rapporto di mutua assistenza. Quando uscivano con gli altri amici erano solo amici punto e basta. Ma appena superavano la porta del suo appartamento, potevano diventare amanti per una paio d’ore. Poi ognuno rientrava nel proprio ruolo di donna/uomo indipendente. Oppure, qualche volta capitava di voler rompere la monotonia delle sue giornate. Così Caterina organizzava un’uscita di venerdì sera con due sue amiche del cuore. La serata si svolgeva quasi sempre allo stesso modo: aperitivi in due locali diversi e poi in discoteca, accompagnate sempre dal loro autista di fiducia abusivo, nel senso che lavorava in nero, un tale Erminio. Nel locale naturalmente le tre donne bevevano superalcolici a mai finire fino a diventare sbronze come scimmie ubriache. Scopo della serata era riuscire a diventare preda per qualche bel cacciatore, per poi chiudere la serata in bellezza. L’alcool permetteva di superare tutte le barriere etiche e morali per un paio d’ore. Poi ad un orario prestabilito, Erminio, le andava a recuperare per poi riportarle ognuna alle proprie abitazioni. Tutto funzionava alla perfezione. E questa perfezione veniva continuamente fotografata e postata su varie piattaforme social, di tutte e tre, dove conta di più chi ha molti cuoricini (like) e followers. Era questo il loro competizione buona, una specie di gioco a punti, meglio a like. Il suo studio era la sua casa. Lei riceveva solitamente in una veranda-cucina con il suo Mielino. In questo ambiente la cucina funzionava da soprammobile, non veniva mai usata, la bombola del gas era la stessa da 5 anni. Le stoviglie erano tutte al loro posto in modo ordinato, in quanto Caterina utilizzava piatti, bicchieri e posate usa e getta, tutto naturalmente di tipo ecologico. Una volta le era capitato di comprare dei piatti di plastica con la scritta ecologico, poi si era accorta che sulla confezione c’era scritto che si potevano riutilizzare lavandoli, cosa che lei odiava. Non li ricomprò mai più. Il cibo che lei consumava era di tipo congelato o precotto e lo stesso veniva riscaldato sempre con il forno a microonde. Quando non aveva voglia di pigiare il pulsante del microonde, tramite un’app del telefonino, con comandi vocali, si ordinava delle cene sfiziose. Dopo 15 minuti le venivano recapitate da un rider, che come un mago si presentava dietro la sua porta con una grande valigia fosforescente dal quale estraeva il cibo desiderato, caldo e fumante. Lei concedeva sempre una mancia al genio di turno. La sua cucina era sempre pulitissima, tutt'al più poteva essere impolverata, a seconda del giorno delle pulizie del suo cameriere filippino. Le sedute con Adelaide avvenivano in modo rituale. La suora accompagnatrice si soffermava nell’ingresso salottino della casa che aveva funzioni di sala d’attesa. Adelaide entrata nello studio-cucina, che odorava di brezze marine, si accomodava sempre sul divano e sdraiandosi sullo stesso. Caterina seduta su di una sedia con abiti molto sobri, indossando una parrucca a caschetto, e tenendo in mano una rubrica nella quale appuntava le parti salienti della seduta, cominciava a chiedere alla paziente come fossero andati i 30 giorni posteriori al loro ultimo incontro. Se c’erano stati dei progressi con la sua patologia, che non le permetteva di relazionarsi con gli uomini. Dopo sei mesi di questo andazzo, Adelaide rispondeva alla sua Psicologa sempre allo stesso modo: “non ci sono stati progressi, evito sempre i luoghi dove si sofferma personale maschile ospedaliero, la mia mente mi impone sempre di mantenere una distanza con l’altro sesso.” Caterina rassicurava Adelaide dicendo che presto tutto si sarebbe risolto, che la scienza ( nuovo Dio moderno) oggi riesce a risolvere ogni problema. Poi le faceva fare esercizi di meditazione per aiutarla a liberarsi di tutte le tensioni. Grande alleato della psicologa era Mielino che con le sue strusciature riusciva a creare la giusta atmosfera di rilassamento. Finita la seduta, Adelaide ritornava speranzosa al convento in quanto durante la seduta riusciva ad accarezzare il gatto Mielino di sesso maschile. Non era certo un uomo, ma era già sicuramente qualcosa di buono. Ma questo Lei non lo disse mai a Caterina. Al convento, lei riprendeva il ritmo di quel luogo abituale, che a lei stava benissimo come un vestito comodo, in quanto una certezza c’era: non avrebbe incontrato l’altro sesso. 4- Il ricoveroSilvantonio da qualche anno ormai faceva l’informatore farmaceutico nella città di Roma e nel Lazio di una nota casa farmaceutica che produceva aspirine. Le sue giornate erano simili a se stesse: la mattina stampare la lista di medici da visitare; calcolare il percorso migliore con l’ausilio dell’Intelligenza artificiale, fare visita ai medici aspettando per essere ricevuto dopo almeno tre pazienti. Durante l’attesa nello studio lui si esercitava con giochi di prestigio. Così alcuni pazienti facevano di tutto per non farlo andare via per vedere i suoi giochi. Era l’unico informatore farmaceutico amato dai pazienti, che riusciva a portare un sorriso nelle sale d’attesa, che alcune volte somigliano alle stanze del boia che precedono l’esecuzione capitale. Silvantonio dava il meglio di se: moltiplicava caramelle che venivano poi lanciate in aria, giochi di carte che permettevano di scoprire l’età degli spettatori, carte che scomparivano e riapparivano nelle tasche di increduli presenti, monetine tolte dalle orecchie di bambini, scenette in cui si fingeva malato con mal di pancia e la successiva l’apparizione di un ovetto di cioccolato, che regalava sempre a un bambino. Se i bambini erano più di uno doveva ripetere la scenette più volte. Un po’ faticoso, ma era il gioco che preferiva. Un bel giorno, durante un’esibizione con l’ovetto al cioccolato, mentre si piegava sul ventre rimase a terra per qualche minuto. I presenti, conoscendolo, non gli diedero soccorso, pensavano che fosse una variante al suo spettacolo. Dopo 5 minuti di lamenti, una signora che non lo aveva mai visto disse: “poverino, sta male”. Immediatamente i pazienti della sala d’aspetto capirono che non era una delle solite magie e chiamarono la dottoressa nella stanza delle visite. La dottoressa, vedendo quell’omaccione a terra che si contorceva, si preoccupò, ed immediatamente, dopo averlo disteso, lo visitò. Si accorse che Silvantonio aveva un’ernia strozzata vicino l’ombelico. Rassicurò il rappresentante farmaceutico e poi disse: “chiamate un’ambulanza, non è grave, ma sicuramente deve essere operato al più presto, non è in grado di guidare”. Poi si fece una grossa risata e disse ancora: “Questa magia non la fare mai più, così la finisci di prendere in giro i miei pazienti con i tuoi giochetti dove ti metti a far finta che star male.” Arrivato al reparto di medicina dell’Ospedale pubblico, dopo aver superato il pronto soccorso, fu messo in uno stanzone con altri 5 pazienti. Nel lato sinistro del corridoio erano disposte tutte le stanze con gli uomini, in quello di destro quelle con le donne. Gli fu assegnato un letto vicino la porta dotato di tutte le attrezzature ospedaliere e gli fu detto che avrebbe dovuto fare una serie di accertamenti per essere operato. Gli fu detto, sempre dall’infermiere che lo aveva accolto con tanta gentilezza, che il suo caso non era urgente, che probabilmente avrebbe passato dei giorni di attesa in ospedale. Così Silvantonio, per ammazzare il tempo, cominciò a esercitarsi con le carte da gioco. I suoi esercizi venivano eseguiti dopo la terapia e la visita dei medici. Già il giorno seguente al suo ricovero nella sua stanza non si sentivano più lamenti, anzi espressioni di stupore tipo: “Oh! Ah!” oppure risatine e dopo uno scrosciare di applausi. Nel giro di 24 ore diventò la star dei malati, degli infermieri e dei medici. La cosa venne notata anche dalla suora Adelaide mentre passava davanti la porta della stanza 14. Era l’unica stanza dove non si sentivano lamentare i malati. Le uniche parole che si sentiva dire erano: “Ancora. Ancora!”. E questo succedeva sia di giorno che di sera, quando Silvantonio, non contento delle sue performance mattutitne, cominciava a raccontare storie proiettando con una lampadina tascabile ombre di animali e altri esseri meravigliosi sul muro della stanza. La lampadina tascabile era stata presa in prestito tra le attrezzature di sicurezza per i casi di emergenza. Adelaide il primo giorno dopo l’arrivo del mago, pur se incuriosita da ciò che succedeva in reparto, riuscì a resistere a non entrare nella stanza 14. Ma il secondo giorno con una scusa entrò nella stanza per vedere cosa succedeva lì. Silvantonio appena la vide, come faceva suo solito con tutte le infermiere, fece apparire dalle sue mani un garofano di plastica rosso e glielo donò. Lei, presa alla sprovvista, lo prese e, per la prima volta in vita sua, rivolgendo lo sguardo verso quel ragazzone, dalla faccia molto rassicurante, disse “Grazie!”. Poi, dopo un attimo, mettendosi la mano destra sulla bocca, fece un sussulto e scappò via. Silvantonio stupito dalla reazione della suora domandò a se stesso cosa fosse successo, dove avesse sbagliato. Quale incidente diplomatico avesse azionato a sua insaputa. Poi pensò che non era cosa consueta regalare fiori di plastica profumata a una suora. Così, facendosi una risata leggera, riprese a fare i suoi spettacoli. Piuttosto, gli spettacoli ormai venivano fatti per tutti i pazienti che si affacciavano alla porta e quando si liberava un posto nella stanza molti chiedevano di essere ricoverati nella stanza del Mago. I medici avendo notato che da quando Silvantonio era ricoverato nella stanza 14 i farmaci antidolorifici non venivano più richiesti, chiesero a Silvantonio di essere aiutati in reparti particolari dove erano ricoverati dei bambini con problemi seri. Così Silvantonio, con un lenzuolo a mo’ di mantello, pantofole bianche e cuffietta da chirurgo, era diventato il mago Bianco dell’ospedale. Riusciva a calmare i bambini facendoli ridere mentre i medici e gli infermieri mettevano gli aghetti nei braccini per somministrare i farmaci e terapie. Adelaide, incuriosita degli effetti anestetici dei giochi di prestigio, ebbe il desiderio di vederli fare. Così ogni giorno con una scusa entrava nella stanza 14 e osservava il mago compiere le sue illusioni ed i suoi prodigi. Dopo un paio di giorni era diventato un divertimento vedere tutte quelle cose materializzarsi e smaterializzarsi ed il sorriso le spuntava sempre sul viso. Già da qualche giorno, avendo ripreso fiducia nella vita, cominciò a salutare il portiere del padiglione. Il portiere notò subito il cambio di comportamento della suora e ricambiò sempre il suo saluto accompagnandolo con un sorriso. Adelaide non contenta, entrò nella stanza dei manutentori e chiese di venire in reparto per regolare i termosifoni del reparto perché erano regolati con temperatura troppo bassa. Poi andò dal direttore sanitario, il magnifico super professore emerito di cui non ricordo il nome, per lamentarsi della qualità del cibo che veniva somministrato ai malati. Insomma, nel giro di qualche giorno riuscì a parlare con gli uomini di tutto l’ospedale. Il settimo giorno di ricovero, Silvantonio, fu operato in anestesia locale. Lei sapendo che il mago era stato sottoposto a intervento chirurgico, appena uscì dalla sala operatoria, lo andò a trovare e gli chiese del suo stato di salute. 5 - La guarigioneLa suora dopo una settimana dall’intervento si rese conto che lei finalmente era guarita dalla sua fobia. Si sentì in dovere di ringraziare Silvantonio. Andò nella stanza dove si riunivano le infermiere fece una telefonata a Caterina e la invitò ad andare in Ospedale perché lei doveva comuicarle importanti novità. Quando la dottoressa arrivò la fece accomodare poi chiamò Silvantonio ed in sua presenza disse: “Ti volevo presentare colui che mi ha salvato dalla mia fobia attraverso l’illusione o una magia, da oggi cara Caterina non avrò più bisogno del tuo aiuto, comunque grazie. Anzi, potresti provare a curare i tuoi pazienti con questa nuova disciplina che si chiama magia-terapia.” Silvantonio sulle prime rimase un po’ deluso, quando vide la suora licenziare la psicologa. C’era rimasto un po’ male in quanto era rimasto folgorato dalla bellezza di Caterina e del fatto che lui era la causa, involontaria, del licenziamento. Dopo un attimo di smarrimento e con un sorriso beffardo, passando la mano sulla testa della suora disse: “La fobia non c’è più”.Scoppiarono tutti e tre a ridere. Molto spesso la vita ci porta a compiere azioni da supereroi, ma noi non lo sappiamo. Tutto si era compiuto, i tre fiumi ricominciarono a scorrere separatamente. Prologo come mi piace Questo racconto, frutto di una mia personale trasposizione/invenzione di un fatto che mi è stato raccontato per telefono, che però non ha nessuna attinenza con la realtà, con personaggi, nomi e fatti, tutti frutto della mia fantasia, potrebbe concludersi con l’ultimo capoverso di cui sopra. Ma io sono uno che crede nell’amore, mi piace pensare che Adelaide nel mese successivo alla sua guarigione, dopo un corso veloce con video-chiamate con Silvantonio, diventò anch’essa maga e prestigiatrice. Dovette giurare al suo amico che non avrebbe mai svelato i segreti della magia né sotto tortura, né durante le confessioni. Lei divento il migliore anestetico naturale al dolore dei bambini, e non solo. La sua divisa usuale si era trasformata con un semplice naso rosso da clown, che indossava sempre, provocando con i suoi giochi sempre ilarità nei malati. Silvantonio, stupito dalla bellezza di Caterina, non perse l’occasione di nascondere nella borsa della psicologa una carta con il suo numero di cellulare e con su scritto: “…. potrei fare tante magie per te, anche se ti ho tolto il lavoro, regalandoti un sorriso.” Caterina una mattina trovò Mielino con in bocca una carta del re di Cuori e qualcosa scritto su di essa. La sua noiosissima vita da single stava per cambiare.
Il sindaco “Genio” rosanero " Dacci la cura, togli dalla città la spazzatura!"
UnoQuando ero bambino in casa mia si cucinava di tutto, e secondo il periodo dell’anno, per le feste comandate siciliane, è sempre abbinato un dolce o un piatto tipico. Posso tranquillamente affermare che sono cresciuto con l’idea che l’odore di fritto è qualcosa di buono e salutare. Il fritto corrispondeva sempre ad una pietanza che poteva essere: polpette al sugo, cotoletta, panelle, ma soprattutto arancine, arancine “accarne”. Le prime arancine che mangiai erano fatte in casa, oggi mi accontento anche di quelle comprate al bar, ma non è la stessa cosa. Mia mamma e le mie zie erano, e tuttora sono, delle fabbriche di arancine. Il procedimento prevede sempre la preparazione del riso il giorno precedente, poi, il giorno seguente, la preparazione delle arancine con tutti i condimenti, rigorosamente fatti in casa. Il consumo di arancine impone una riunione di tutti i familiari in modo da gustare e condividere il piacere del cibo. Da qualche tempo faccio sempre un sogno ricorrente. Mi rivedo bambino a parlare con un Sindaco-Genio dell’arancina, tipo quello della lampada di Aladino, un tipo cicciottello, sorridente, con la pelle dorata, vestito però con una maglia rosa nero e nel petto stampata un’aquila. La sua casa non é la lampada ma un’arancina “accarne”. Per farlo manifestare si deve dare un morso all’arancina, rigorosamente calda, e pronta a sprigionare tutti i profumi, tra cui si confonde il genio-sindaco pronto a risolvere tutti i problemi atavici della città di Palermo. La scorsa notte nel sogno, dopo il primo morso, chiesi al sindaco in di risolvere un problema atavico della città: “ Sindaco-Genio dell’arancina a me vicino, che dall’arancina ti sei manifestato, dacci la cura, togli dalla città la spazzatura!”. Un inciso, problema è una parola grossa, pesante, richiama sempre situazioni che alcune volte non hanno soluzione. Per Palermo parlare del problema della spazzatura equivale a non trovare nessuna soluzione per la gestione dei rifiuti, ovvero a rinviarlo a nostri figli, nipoti e pronipoti. Il Genio, interrogato dalla mia vocina, mi rispose: “Caro Totò, far sparire in un attimo tutta la spazzatura disseminata Palermo Palermo non servirebbe a nulla, anche se in mio potere, perché domani mattina saremmo punto e a capo. Tutte le magie di questo mondo sono inefficaci contro la maleducazione di molti palermitani, ahimé in larga maggioranza.”. “Spiegami meglio .”, risposi. “ Io con le mie arti magiche potrei rendere la città pulita in un battibaleno, ma dopo qualche ora molti palermitani, impressionati da tanta pulizia diffusa verrebbero, indotti a sporcare la città peggio di prima. Per alcuni sporcare la città è un atto di affermazione della propria “panormitudine”. Un modo di manifestare la propria presenza sul territorio, un po’ come fanno i cani quando fanno la pipì per marcare il territorio.” “Ma allora, Sindaco – Genio dell’arancina, vuoi dire che non c’è una soluzione?” “ La soluzione potrebbe esserci, ma non è una cosa così immediata. La gente di una volta, fino agli anni 30 del secolo scorso, aveva un forte senso di appartenenza ai luoghi dove era nata e ne era anche responsabile. Nei paesi, nei quartieri non esisteva la spazzatura disseminata per strada, perché la spazzatura non esisteva. Tutto veniva costruito in casa, tutto veniva restituito alla natura, che avrebbe saputo cosa fare dei nostri scarti. E poi ogni persona di borgata provvedeva personalmente a spazzare e lavare i luoghi nei pressi della propria abitazione. Oggi viviamo nell’era del consumo, che viene assunto a modello di vita, e di conseguenza nell’era dello scarto, la spazzatura appunto, generata da tutti i prodotti da noi consumati a vario genere. Questo modo di vivere, in funzione del consumo, viene travisato da molti sporcaccioni palermitani, oserei dire “Mammaddrau”, i quali, quando devono liberarsi dei loro rifiuti, lo fanno in modo non consono e non secondo le regole. Questo loro comportamento rende così la città, la loro città, la nostra città, invivibile, proprio per gli spettacoli di tanti rifiuti abbandonati nel modo più irrazionale possibile. E’ difficile darne una spiegazione razionale. Molti arrivano a rendere luridi perfino gli spazi posti difronte la propria casa, rendendo impossibile l'azione di camminare usando i marciapiedi. Direi dei veri casi clinici da studiare.” “Ma allora?”. Con la mia vocina. “ Una volta un mio amico Genio mi disse che per risolvere il problema dei rifiuti di Palermo voleva cancellare i geni sporcaccioni di molti palermitani, ma secondo le leggi moderne questo non si può fare, non si può modificare il DNA dei palermitani! Fammi riflettere, fammi ritornare nell’arancina “accarne”.Per risolvere un quesito così grande, dovrò dormirci sopra”. DueLa mattina seguente mi svegliai con il sapore in bocca dell’arancina “accarne”. Meglio con il desiderio di consumare subito un’arancina. Per un vero intenditore la scelta del bar giusto o friggitoria non è facile, perché per essere soddisfatto, la sua arancina deve essere di qualità ed appena fritta. Il percorso, delle vie della città per arrivare al bar, era costellato da cassonetti traboccanti di spazzatura, divenuti ormai ristoranti a cielo aperto per ratti e gabbiani. Questa dei cassonetti aperti, pur avendo li coperchio, con tanto di meccanismo azionato a pedale, evidenzia come i palermitani si interfacciano con questi contenitori. Ogni volta che ne piazzano uno, nuovo, sono gli stessi netturbini a rimuovere il meccanismo per la chiusura. Questo venie fatto per due motivi: il primo, i palermitani tutti, non toccherebbero mai il pedale di apertura del cassonetto per motivi di pregiudizio igienico sanitario, avrebbero paura di contaminare la suola della propria scarpa dove altre scarpe hanno osato il loro appoggio; il secondo è che molti preferirebbero buttare la spazzatura vicino al cassonetto pur di non aprirlo. Questo mal costume tipico della città di Palermo offre uno spettacolo indecoroso e di degrado in alcuni quartieri dove non si effettua la differenziata porta a porta. Il bar da me scelto era situato nella borgata dell’Arenella. Un piccolo bar che manifesta la sua presenza con l’odore di fritto nel raggio di più isolati. Luogo di pellegrinaggio delle 7 del mattino per molti intenditori. Lì vi trovai tanti estimatori dell'arancina dell’alba e non solo. La luce del giorno non si era manifestata del tutto e questo passaggio di luce faceva presagire qualcosa di buono, l'inizio di un giorno diverso per Palermo. Comprai l’arancina, ed essendoci poco spazio nel locale, mi recai fuori per consumarla. Al primo morso vidi come se un fantasma si stesse materializzando, ma era solo fumo e profumo di arancina. Mi tornò in mente il sogno, la sporcizia che attanagliava la città e la fiducia che il mio io bambino riponeva nello stesso sogno benefico. Lavorai tutto il giorno, e la sera, dopo aver cenato mi addormentai davanti alla TV seguendo uno programma televisivo demenziale, che passava per uno spettacolo d'intrattenimento, realizzato con i pacchi. Ottimo per annoiarsi e prendere subito sonno. Cominciai nuovamente a sognare e di trovarmi dentro ad un bar con il Sindaco- Genio dell'arancina seduto vicino a me. Mi guardava fisso negli occhi e rideva, poi disse: “ Sai piccolo Totò credo di aver trovato la soluzione al tuo desiderio.” “Bene!” Risposi saltellando di felicità sul posto, come fanno tutti i bambini quando, per l’eccitazione, hanno bisogno di scaricare tutta l’adrenalina che hanno in corpo. Il genio riprese:” Per mettere tutto a “posto”, come si dice a Palermo, bisogna scatenare il Dio-Mito della Creduloneria ed il Dio-Mito del Denaro Facile, avendo i Palermitani dimenticato il Dio-Mito della Buona Educazione”. “Non capisco Genio cosa tu voglia dire ? ” “Ora ti spiego. Il mondo si muove su delle leve, nel senso che tutti gli uomini fanno qualcosa perché una certa leva interiore glielo chiede,glielo impone. Una volta le persone avevano le leve della buona educazione, del rispetto altrui, della semplicità, della concretezza della lentezza. Questi tempi invece sono caratterizzati da altre leve tipo: denaro, forza, potenza, bellezza esteriore, mito dell’eterna gioventù, velocità, viaggi. A queste leve, che ho elencato, alcuni palermitani associano anche la leva degli sporcaccioni, una specie di malattia mentale che gli fa provare piacere quando sporcano le strade dove abitano. Molti, poi, sono gravemente malati; non si limitano a lasciare per strada solo i sacchi di spazzatura, ma anche tutti i propri elettrodomestici non più funzionanti, vecchi mobili e tanto altro, creando alcune volte delle vere e proprie barricate su strade e marciapiedi. Vere immagini apocalittiche, post guerra. Ora ti spiego brevemente il mio piano. Fase uno: dobbiamo fare credere a tutti, scatenando il Dio-Mito della Creduloneria che la spazzatura abbia un valore economico altissimo; Fase due: dobbiamo creare una App da installare nei telefonini che dia dei punti, tipo buoni pasto, a coloro che porteranno la spazzatura differenziata negli appositi centri di raccolta disseminati nei quartieri della città. Naturalmente diremo che i punti acquisiti potranno essere spesi convertiti in buoni per acquistare di tutto: macchine, moto, viaggi, cene, soggiorni, entrate in locali vip, prodotti di bellezza, esperienze sensoriali, servizi di bellezza trattamento del corpo sia per uomo che per donna… Insomma racconteremo la più grande frottola del secolo, anche se in questo secolo è difficile capire ciò che è vero e ciò che è falso. Diremo quello che tutti vogliono credere. Diremo anche che gli uffici per convertire i buoni sono in fase di allestimento e che ci vorrà un po di tempo per riscuotere. Fase tre: racconteremo che il servizio punti verrà gestito da una super società, finanziata con fondi pubblici, che avrà il compito di gestire il tutto. Così quando questa società fallirà, il fallimento sarà più credibile. “Genio- arancino non capisco cosa tu voglia fare?.” “ Con la storiella dei punti molti palermitani che adorano il Dio- Mito Denaro saranno indotti a uccidere il Dio-Mito dello Sporcaccione, involontariamente, con l’abitudine saranno costretti a ripristinare in Dio-Mito della pulizia delle buona educazione. Quando tutto funzionerà alla perfezione, la città sarà pulitissima, diremo che il Manager della super società, finanziata con fondi pubblici, per rendere credibile in racconto, sarà scappato con il bottino dei soldi dei buoni in un paradiso fiscale. A quel punto pur se non sarà rimborsato più nulla ai tanti raccoglitori volontari creduloni, ex sporcaccioni, molti avranno provato la sensazione di vivere in una città pulita e ordinata e tornare indietro sarà impossibile.” Io con la mia Vocina: “Geniale! Sindaco- Genio dell’arancina.” TreLa mia sveglia suonò, erano le 6:30 del mattino. Le prime luci dell’alba annunciavano un nuovo giorno. Vidi dalla finestra un mio vicino sporcaccione, uno sporcaccione seriale, che rovistava nel cassonetto dell’immondizia. Non capivo cosa stesse facendo. Lui che per il suo status di sporcaccione non riconosceva il cassonetto come luogo del conferimento era buttato a testa in giù e piedi in aria dentro quel maleodorante contenitore per raccogliere un ultimo pezzettino di carta. Poi gli vidi differenziare tutta la spazzatura e con dei sacchi enormi dirigersi verso la propria macchina per chissà quale destinazione. Aveva anche un telefonino in mano. Sembrava che facesse dei conti. Ogni tanto emetteva un giubilo di gioia, gioia vera; “ EVVIVA!!! SARO RICCO!!”. Non capii cosa stesse succedendo. Andai a farmi un caffè con la mia moka. Lo feci per darmi tempo per riflettere. Misi il caffè nella tazzina e mi affaccia dalla finestra della mia veranda per sorseggiare il mio caffè con l’aria del mattino. Il mio vicino indaffarato mi vide, stranamente mi salutò, non lo faceva mai. Poi,con un sorriso compiacente, mi disse: ” Signor Salvo, le dispiacerebbe, se salgo un attimo a casa sua per ritirare la spazzatura. Ho fatto un sogno, ho sognato che diventerò ricco con i punti della spazzatura. Metta naturalmente anche il tufo del caffè della moka, per tutto il resto ci penso io.” Mi diedi due sberle in faccia, non capendo se stessi ancora dormendo, non mi svegliai perché ero già sveglio. Allora scoppiai in una grossa risata. Era il 4 di Settembre del 2050.
Fumo una storia di ordinaria indifferenza e vigliaccheria palermitana Quel pomeriggio con la mia ragazza era stato splendido, il mare di Mondello ci aveva saziato gli occhi con la sua bellezza, il verde caraibico del mare siciliano non aveva nulla da invidiare a quello delle isole che scoprì Colombo, anzi era più bello: la baia protetta dal vento dai monti posti sui due lati con alle spalle floridi giardini mediterranei rendeva, e rende tuttora, quella località un posto unico al mondo per le sue condizioni climatiche. Allora avevo 18 anni, era il 1977, e mi trovavo in compagnia di Maria, quella che oggi è diventata mia moglie, erano i primi approcci di un amore puro come lo era il mio cuore di allora, anche l’aria sapeva di fresca salsedine, di pulito. Così soddisfatti della giornata ci dirigemmo alla fermata di dell’autobus, quella in prossimità della piazza di Valdesi, il luogo che delimita il confine tra la località balneare la Favorita, il parco di Palermo che divide la città dalla famosa località marina. L’attesa stranamente non fu molto lunga come al solito, erano circa le sei del pomeriggio, ed i bagnanti dei lidi, come noi, erano già sulla strada del ritorno, anzi molti si trovavano sull’autobus della linea Sei Bello per tornare in città. Gli autobus di allora non erano capienti come quelli di oggi, non avevano ampi finestrini, aria condizionata, posti per disabili, nastrini a cui tenersi nelle rapide curve, ma erano sempre il mezzo di tutti i palermitani, del popolo, per recarsi in paradiso. Il prezzo da pagare naturalmente, sia all’andata che al ritorno, a parte il biglietto era quello di dovere viaggiare costipati come le sardine, ed i corpi dei viaggianti si scambiavano nel viaggio di andata creme solari, al ritorno indistintamente sudore e piccoli granelli di sabbia finissima rimasti attaccati alla pelle. Tutto sommato il disagio si poteva accettare, solo un quarto d’ora di tempo fra la città ed il mare. Io come mio solito, per evitare troppi contatti, preferivo stare nella parte retrostante l’autobus, appoggiato con le spalle al vetro, così pure Maria vicino a me. Era un continuo guardarsi negli occhi per trovarci ed annullare tutto ciò che stava intorno, ma ad un certo punto quel nostro amoreggiare fu interrotto da un suono non familiare: non era il rumore del cambio, né quello della marmitta bucata, del mezzo, né quello giocoso dei bambini, né il civettare delle donne che continuavano il cuci e scuci che avevano iniziato nelle piazzole dei lidi, era il pianto, anzi no, era il lamento di un’anziana signora seduta vicino la bussola dell’apertura posta a metà del mezzo. Cercai di capire cosa stesse succedendo, ma non riuscivo a vedere bene. L’unica cosa che sentivo era: “ Non ce la faccio più, staiu moreennuuu! Non respiro aiuto! Pi favuri a finissi i fumare”. ( “ Non ce la faccio più, sto morendo! Non respiro, aiuto! Per favore la finisca di fumare.) Guardando meglio mi accorsi che vicino alla signora c’era un giovane, una specie di bue, in canottiera e pantaloncini, che a me dava le spalle e che fumava tenendosi allo stesso tempo con il braccio agganciato ad un bastone di sostegno; lui portava con disinvoltura la sigaretta in bocca e dopo emetteva del fumo a suo piacimento: una volta sulla signora anziana seduta, una volta facendo anelli verso il soffitto, una volta nella direzione del finestrino aperto, come a voler misurare la velocità di crociera. Era un ciclo di azioni a caso che veniva stabilito istante per istante. Tutto ciò era: una specie di meditazione Zen e allo stesso tempo una forma di piacere ludico e sadico, ed ancora uno studio del moto dei gas. Dopo qualche minuto dal primo lamento, la signora cominciò il secondo come il primo, però stavolta accompagnato da un pianto interrotto. Tutti i presenti per un istante si voltarono, ma dopo un attimo, facendo finta di niente ritornarono, come dire, ai loro passatempi; solo un giovane si fece avanti e chiese al tizio,che però era spalleggiato da altri due come lui, di smettere di fumare. Non poteva essere, pensai, una giornata così bella, da ricordare negli anni avvenire, non poteva concludersi con quel pianto di dolore. Il mio orgoglio di giovane pieno di buoni propositi, fece scattare una molla dentro di me, che Maria aveva subito avvertito prima che pronunciassi queste parole: “ Ora ci vado e lo faccio smettere!”. Allo stesso tempo avevo valutato che essendo il fumatore incallito ed i suoi amici tre ed io, essendo allora un bel ragazzone con fisico sportivo, dando manforte a quel giovane coraggioso avremmo avuto buone chance per far terminare quell’azione maleducata. Maria cercò di fermarmi, mi strinse la mano, ma non ci fu nulla da fare. Ero deciso così chiesi permesso e pian piano tra quella calca umana mi avvicinai, nel dondolio del viaggio, a quel delinquente. Trasformai la mia mano destra a forma di cono, unendo le dita sulle punte, e con una certa forza bussai alla spalla di quel tipo. Dopo alcuni secondi con un movimento lento del collo si voltò verso di me e fumando mi disse: “Unnu u viri ca un po passari!”( Non vedi che non puoi passare?); e lentamente ritornò nella sua posizione iniziale, poi voltandosi verso la signora emise con soddisfazione una boccata di fumo, tipo motore scarburato. La signora, ormai, era rassegnata, riusciva a malapena a singhiozzare . Nuovamente bussai alla spalla e finalmente il tizio capì che non si trattava di una richiesta di passaggio, ma di qualche altra questione. “ si po sa piri chi buooi?”( Si può sapere cosa vuoi?). Ed io subito, in perfetto, italiano: “ Ma non lo vedi che questa povera vecchietta sta male? Che infastidisci sia lei che le persone che ti stanno vicino? Che in somma dovresti smettere di fumare?”. E lui : “ e secunno tia aiu a ghiccare na malboro c’addumavu na stu minuto, ma comu si…..?”( Secondo te io dove buttare una malboro che ho acceso in questo minuto, ma dai di testa?). ed io: “forse non sono stato chiaro, altrimenti….”; detto alzando gli occhiali da sole e con gli occhi usciti di fuori dalle orbite. In quell’istante vi fu la moltiplicazione degli orchi. A causa della mia irruenza, non mi ero accorto dei passeggeri che erano seduti lì vicino che si alzarono di colpo. Il clan era completo, tutti e cinque erano ben messi con delle pance molto pronunciate che non potevano essere contenute dalle canottiere, e che lasciavano intravedere degli enormi ombelichi. In quell’istante capii subito che i miei calcoli non erano stati fatti bene. Mio nonno me lo diceva sempre: “ Quannu viri un cani i mannara, sta sicuro che cinni stannau autri vicino.”( Quando vedi un cane da mandria, stai sicuro che ce ne sono altri vicino). Poi il fetore di vino cominciò ad arrivare alle mie narici: era come se si fosse aperta la porta dell’inferno. Cercai subito aiuto con gli occhi. Il giovane coraggioso si era dileguato, non lo vidi più, pensai che fosse sceso dall’autobus. Ero solo. L’autista che dallo specchietto retrovisore si era goduta la scena, continuò la sua guida tranquilla attraverso il parco, che in alcuni tratti sembra una galleria di foglie. La sua riga fra i capelli non si mosse, era come una bussola con la sua direzione predefinita immutabile. Un signore con la moglie fece finta di niente e guardò l’orologio. Due giovani come me, ben messi con il loro pallone supersantos vicino ai piedi continuarono i passaggi di calcio che avevano fatto tutto il giorno sulla battigia, trasformandoli in micro passaggi, senza alzare gli occhi. Sentendomi veramente solo, il mio sguardo impacciato andò a Maria e con un sorriso forzato feci un gesto con la mano come per dire non ti muovere, stai tranquilla. Ma lei già piangeva, anzi piangeva a dirotto. La banda allora mi accerchiò ed il più magro dei grassi mi disse: “ ta firi a dillo arriere? Che dici Paluzzu i corna ci rumpenu ca o u facemu scinniri e ci rumpemu doppu”.( Sei capace di ripetere nuovamente quello che hai detto? Che ne dici Paolino…. La testa( le corna della testa) gliela rompiamo qua o lo facciamo scendere e la rompiamo dopo?) Immediatamente pensai che il mostro si combatte alla testa mi feci coraggio e mi diressi da Paluzzo, il capo dei capi e questo, contemporaneamente, si avvicinò a me fino a portare il suo naso vicino al mio. Immediatamente sentendo il fetore di vino mi tornò in mente l’odore di zagara di Maria che incautamente avevo lasciato. Paulazzo allora disse: “ Ora si si omo a scinnniri!”( Ora se sei uomo devi scendere dall’Autobus) . Io non mi feci intimorire. Capii che dovevo acquistare tempo. Allora risposi in siciliano: “ io un mi scanto di voi,anche se vuatri fussivu u duppio, picchì sugnu certo ca prima ca moro mi ne purtari appresso na para e u primo si proprio tu.”( io non ho paura di voi, anche se voi altri foste il doppio, perché sono certo che prima di morire con me ne devo portare un paio e li primo sei proprio tu). Poi con aria bonaria da sacerdote nel momento della predica: “ Ma dimmi na cosa, Paluzzo,se sta donna fussi to zia, to nonna o to matri, TU MI AVISSI A VANTARE A NON CONTRASTARE. E poi dimmi ri unni si?”( Ma dimmi una cosa, Paolino, se questa donna fosse ta zia, tua nonna o tua madre, tu mi dovresti vantare e non contratsare. E poi dimmi.. di dove si?)– e l’altro spavaldamente: “ru Buurgo.” ( del quartiere Borgo) Allora continuai:” ti rico una cosa che si scinno maviti ammazzare, picchì altrimenti vegno o Burgo come ricu io e poi viremu.” ( ti dico una cosa che se scendo mi dovete ammazzare, perché altrimenti vengo al Borgo, come dico io, e poi vredremo…) Questa reazione spiazzò il mio interlocutore. Lui era il capo. Quello che pensava per tutti. Quello che dava il via all’inizio della guerra. Ma sicuramente si pose una domanda: “ Ma cu è chistu? Contro cu mi staiu mittennu? Pisci grosso mancia pisci nicu, ma mai pisci grossu.”( Ma chi è quest’uomo? Contro chi misto mettendo? Pesce grosso mangia pesce piccolo ma mai pesce grosso) Capita l’esitazione continuai:”un pozzo scinniri no parco, prima aiu a fare arrivare da picciuttedda in palemmo e poi na potemu discurrere come vulemo, vi darò complete soddisfazione.”(Non posso scendere nel parco, prima devo far arrivare quella ragazza a Palermo, dopo possiamo discutere come vogliamo, vi darò completa soddisfazione) Paluzzu guardò, non era un cretino, troppi testimoni, e accettò il patto con un movimento di testa. Poi fece cenno ai compari con il dito di accerchiarmi e di bloccarmi. Mi sentivo intrappolato in una cassa puzzolente con pareti sudate e appiccicaticce. Prima di togliere gli occhiali da sole, chiaro segno di sfida, guardai Maria e feci capire con gesti delle mani che la prossima fermata dovevamo scendere a piazza Croci e che lei avrebbe dovuto andarsene di fretta. Ero rassegnato. Arrivati alla piazza un gran numero di passeggeri scese dall’autobus, così Maria che invece di allontanarsi si spostò una decina di metri sia per cercare aiuto che per vedere quello che stava per accadere. Gli energumeni mi spinsero da dietro e l’ultimo rimase Paluzzo, ma quando questo stava quasi per scendere disse ai suoi compari: “picciò.. acchianate scinnemo all’altra, ca c’è a taverna”. ( ragazzi, salite, scendiamo alla prossima fermata che c’è la taverna) Sull’asse delle bussole dell’autobus ancora aperte, allungai il mio braccio in segno non di pace ma di rispetto nei riguardi, come dire, in un pari grado, per rendere più veritiero il mio bluff. Lui alla stessa maniera rispose con la sua mano sudata come la mia del resto, e mi disse: “ qualche atra vota na riscurremu megghiu, dopo tutta stu cauro e stu fumo aio troppo siti”. ( qualche altra volta la questione la discuteremo meglio, dopo tutto questo caldo e questo fumo ho troppo sete.) Appena partì l’autobus Maria si butto al mio collo, felice. Io intontito, freddo e sudato al caldo di un pomeriggio d’estate dissi: “Che bella giornata e che culo!”
p.s.
Natale 2009
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