Racconti di Luigi Panzardi


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Il viandante
Vincenzo. Anni 52. Nato a Lucca. Residente a Molfetta. Domicilio attuale e non attuale imprecisabile.
La strada…No! Le strade! Le percorre come perennemente inebriato. Le osserva da ogni punta di vista. È uno scienziato. Studia le vie. E i loro margini bordati di palafitte. Edifici stilosi. Parallelepipedi di vetro, di calcestruzzo, dagli spigoli affilati, arrotondati; in stile classico, imponenti in architetture fasciste; moderni e già sbrecciati, come i suoi lisi indumenti. Sui quali si stende la notte. Fissa il firmamento la notte. Quando ci sono le stelle, la notte!
I suoi occhi sono due telescopi. Li ha neri, se qualcuno li osserva, anche per caso, di sfuggita, pur senza avvicinarsi molto. Per precauzione. Ma se si ha il coraggio di accostarsi un po' di più, un mezzo metro, si annega in essi, in una profondità propriamente infinita. Sembrano alieni. Sì, occhi di un extraterrestre! Nel senso della loro straordinaria peculiare espressione. Due buchi neri in cui vortica un cosmo singolare. E se si riesce a vincere la repulsione, fino ad accostarsi a lui, viso contro volto, ci si stupisce nel vedere in quei grandi buchi baluginare, a momenti, schizzi di luce d'un viola dolce, attraente, ammaliante. Purtroppo a quel punto si viene inevitabilmente respinti dal flusso di profumi che escono dalla sua bocca contornata di barba striata da tinte indefinibili. Incolta. Antica. L'odore ti fa annaspare nello stretto guado posto tra un mercato delle erbe e uno del pesce. Prevalgono le onde di aglio cipolla e di alici marinate da tempo immemorabile. Il suo vestire all'apparenza è sportivo. Consiste in un pesante giubbotto di pelle scura sopra un maglione dal collo alto, nero, pantalone forse di fustagno. Non ha il cappotto lungo e rattoppato, come da tradizione. Ma gli indumenti che indossa in realtà per le tinte, le pieghe, la consistenza e gli odori che emanano sono cartilagini deformate da un uso e abuso eppure ancora vittoriosi contro il tempo.
È una sera di gennaio. Ha fame e freddo. Per le vie traverse nascoste e buie la gente è rara. Dal corso principale giungono riverberi gialli, frivolo vociare, e all'angolo per terra in mostra borse nere. In mezzo ad esse la sagoma scura di un essere umano. Attraversa il corso con lentezza ostinata: dà tempo di evitarlo a chi si schifa di passargli vicino. Lui invece non evita un crocchio di ragazzi. Sono in cinque. Hanno, forse, quindici, sedici, diciassette anni. Vincenzo è certo che si tratta di minorenni. Li studia tutti sfiorandoli. Loro percepiscono l'aglio e, subito, ancora l'aglio ma ora intriso di un effluvio tra il delicato forte e persistente. Vincenzo ha sempre più fame. Prosegue, svolta a sinistra nella via traversa. Appena svoltato sente alle spalle un attizzato parlottio, uno sghignazzare breve e intenso. Si ferma di colpo davanti a un locale, legge sulla locandina appesa sul lato della porta metallica verde scuro: "Sollevamento pesi - Palestra - Rinforza i muscoli - Ti fa bene al cuore". Sembra colpito da una intensa scarica elettrica, nel cui lampo giallognolo gli appaiono scaduti cascami di immagini, rapidi ricordi di una storia violenta. Lo stomaco vuoto spegne la scarica elettrica e cancella le ondeggianti immagini cruenti. Entra nella mensa della carità che si trova alla fine dell'isolato.
Uno stretto ingresso, la porta a un battente spalancata e fermata al muro da un grosso fermaglio di ferro. È il modo dell'accoglienza gratuita dei reietti. Un salone rettangolare largo e lungo, il pavimento degradante verso l'interno. Tre file di tavoli coperti con bianche tovaglie. Ai due lati della fila centrale ampi corridoi per il passaggio delle assistenti volontarie. Sette le donne vigili in piedi con grembiuli celesti bordati di bianco sopra ampi abiti coprenti corpi robusti. Tutte hanno capelli grigi stirati e annodati dietro la nuca. Copre il grigio dei capelli il bianco delle cuffie. Esibiscono volti paffuti sorridenti bonari. Stasera il menu consiste in maccheroni al ragù con piccoli pezzi di carne affondati nel sugo denso. La mensa è affollata, il suo intero volume è invaso da un rumore costante, come lo scorrere di un torrente per un pendio pieno di ciottoli e fessure. Visti dall'ingresso ai tavoli non sembra ci sia posto. Vincenzo entra osserva scruta, ne scorge uno nell'angolo destro incastrato nella parete di fondo con due sedie. Su quella di spalla agli ospiti siede una donna. Percorre il lungo corridoio. Si avvicina. Lei ha capelli lunghi abbandonati sugli omeri, spettinati con piccole trecce tortuose per non essere accarezzate dalla spazzola da un tempo imprecisabile. Anche il colore della chioma è ambiguo. Oscilla tra grigio, castano e nero, contaminazioni cromatiche conseguenti a dimenticate tinture. Indossa un cappotto marrone, come nuovo, sicuramente frutto di una fortunata donazione. Lui le si pone davanti, scrutandola, mentre lei, indifferente, continua a infilzare i maccheroni e a trasferirli nella bocca, imporporando col sugo le labbra carnose. Vincenzo allora si piega sul tavolo come inchinandosi, si avvicina al volto della donna per offrirle l'assaggio degli odori che emana la sua bocca e chiede con voce greve, mettendo una mano sulla spalliera della sedia libera:
"Posso?"
La donna scrolla la testa due o tre volte, i movimenti sono così rapidi che non consentono di interpretarli. Forse è abituata a quegli odori, forse ne sente ogni giorno e notte di più nauseabondi. Del resto la domanda le è stata rivolta con cortesia. L'uomo si siede e aspetta nella luce bianca di lunghi tubi al neon che corrono per il soffitto. Non c'è da gridare al cameriere. Non c'è da chiedere. È tutto preordinato, come in un rito. Continua a guardare la donna, lei non lo degna di uno sguardo, ha gli occhi nel piatto, sui maccheroni che artiglia con la forchetta di acciaio. Che tiene stretta. Si vede: ha paura che le cada o che qualcuno all'improvviso gliela tolga. Come si aggrappasse a un relitto in mare. Una delle assistenti volontarie si avvicina con una grinza di sorriso fra le labbra e deposita davanti a Vincenzo un piatto fondo traboccante di maccheroni coperti di un sugo sanguigno con chiazze bianche di formaggio grattugiato: "Buon appetito" gli augura con voce dolce e va via. L'uomo sta per prendere la forchetta... "Hai le mani sporche!" Lo rimprovera la donna che ha di fronte. Lei deposita svelta in bocca la forchettata di pasta che già aveva infilzato, prende un'ampia borsa di plastica, ne estrae un pacco di fazzoletti inumiditi e profumati, e lo porge all'uomo. Ha il volto serio, lievemente ovale, la pelle liscia e rosea, il collo lungo per la più parte nascosto da una sciarpa nera. Attraverso l'apertura del cappotto si scorgono i volumi di due seni floridi. Vincenzo non crede che superi i quaranta anni. I suoi occhi finalmente incrociano quelli chiari di lei, immersi in una languida tristezza. "Grazie!" Dice, iniziando a mangiare. Lei finisce il suo piatto consumando gli ultimi pezzi di carne. In silenzio. Le storie di ciascuno, le proprie vicissitudini giacciono in un bossolo indurito dalla diffidenza pietrificata nel tempo, le due personalità sono incastrate in armature medievali, ora arrugginite. La incallita solitudine li costringe dolorosamente a una inesprimibile invocazione di aiuto.
"Come ti chiami?" Le chiede. "Rosa". "Bel nome!" Banale osservazione ma in quel momento non ha altro.
"Già!" Rosa beve il dito di vino bianco rimasto nel bicchiere, poi lo guarda, curiosamente: "E tu?"
"Vincenzo e non dirmi che è un bel nome!"
"No, non lo dico, anche se…"
"Anche se?"
"Oggi è il tuo onomastico, auguri! Il 22 gennaio, che è oggi, si festeggia il santo". Un leggero strano sorriso increspa le guance di Rosa. Segue un minuto di silenziosa riflessione, dopo di che l'uomo ringrazia.
"Quanti anni sono passati dall'ultima volta che mi è stato dato il buon compleanno? Impossibile! Non lo ricordo più!"
Rosa finisce di mangiare, tira indietro la sedia per alzarsi. Fa con la mano un cenno di saluto, Vincenzo ricambia anche lui con un gesto, in silenzio. La segue con lo sguardo. Vedendola camminare lungo il corridoio con passo sicuro ha la conferma della prima impressione, cioè che sia stata e che è tutt'ora una donna ben fatta, che senza la palandrana che lo copre il corpo avrebbe espresso un notevole erotico fascino. Poi si concentra sui maccheroni rimasti, li addenta uno alla volta insieme ai pezzi di carne che trova callosi ma saporiti. Nel mentre continua a pensare a Rosa. La sala intanto lentamente si svuota. Piccoli gruppi di amici escono sazi, euforici. Vincenzo mastica con calma. È abituato. Sono sempre le stesse scene in cui ciascuno è protagonista e autore del proprio dramma infinito. Lui non si è mai sentito parte fissa di quel mondo. Infatti lo ama e rifiuta alternativamente. Preferisce vagare per la terra, senza confini. Apolide. E per lui i vicoli e i sentieri sono larghi come le autostrade. Le finestre accese gli sembrano occhi sulle facciate degli edifici o dei tuguri: lo attirano come le stelle gli astronomi. Dietro di esse altri universi con altre storie ricche o misere. Ripercorre parte del corso principale ora deserto. Con i negozi chiusi, le vetrine spente l'illuminazione è fioca, gli angoli sono bui. Il cielo è di un nero indistinto. Si dirige verso il sottopassaggio, dove hanno il giaciglio alcuni conosciuti tempo prima, non rammenta quando. Attraversa strade strette, osserva finestre e balconi neri spenti. Sente freddo alla vista di quel nerume. La gente annega in una vischiosa abulia davanti al televisore, dimentica del mondo esterno, del tutto indifferente ai viandanti che camminano sotto, per le strade morte. L'apparire improvviso della bocca nera del sottovia lo sorprende. All'ingresso del tunnel c'è una barriera che separa i due sensi di marcia. Ad un lato della barriera tre giovani. Si muovono a scatti, sghignazzano, emettono sorrisi brevi e sguaiati. Sembrano non vederlo, in realtà appena è vicino lo circondano boriosi e minacciosi, da sotto i neri giacconi escono grosse mazze di legno. Vincenzo è immobile, in attesa.
"Dio santo come puzzi! Sei sterco di vacca! Cammina, porco!" grida uno ficcandogli la punta del bastone nel fianco.
"Avanti!" Gli grida l'altro da dietro dandogli con la mazza una serie di colpi sulle scapole e sui glutei:
"Avanti! Cammina! Ti abbiamo preparato uno spettacolo favoloso! Godrai come mai nella tua lurida vita!" L'uomo tenta una resistenza. Si blocca. Si contorce sotto i colpi. Il terzo lo affianca. Nella mano destra ha un coltello. Lo punta verso l'inguine:
"Se non cammini ti spompo!" Vincenzo cede, si avvia, non ha alternative. Chi ha parlato prima riprende a minacciarlo: "Stasera vedrai come gode la tua scrofa…Ci divertiremo da matti!"
Uno scroscio di risa bellicose dilaga nel deserto della strada. Le facciate nere dei bassi edifici non hanno occhi, né orecchie. Nel silenzio, gridi di donna strappano l'animo a Vincenzo. Sono penetrati nel sottovia e lui ora vede Rosa in mezzo a due giovani. Agita braccia, gambe e scalcia piedi nel tentativo di liberarsi, convulsioni che ancor di più aizzano gli aggressori che le sferrano una gragnuola di pugni su ogni parte del corpo. A dar più forza ai due accorre il terzo, dà muto una violenta manganellata sulla testa della donna. Un urlo e un rivolo di sangue scorre sul volto di lei. Non sembra soddisfatto. Le pianta il bastone sul basso ventre e le urla:
"Apri le cosce, puttana! C'è il tuo spasimante! vuole vedere come godi con cinque puledri!" I cinque esplodono all'unisono in una folle sarabanda. Sono accecati dalla loro stessa folle esuberanza. Vincenzo intuisce che è il momento buono, gonfia il petto, gli fremono i muscoli memori di una antica energia, con uno scatto felino afferra per la vita il ragazzo del coltello che riesce a ferirlo a una coscia, se lo solleva in alto sopra la testa, lo rotea come un giavellotto colpendo con un piede di lui il cranio dell'altro aggressore che crolla a terra, quindi lo scaglia contro gli altri due. Cadono tutti ai piedi di Rosa. Un urlo lancinante invade il sottovia. Accorrono sei, sette uomini. Per i cenci che indossano, le barbe e i capelli incolti, per i movimenti disordinati sembrano una folla arrabbiata. E sono preceduti da due cani che abbaiano furiosamente Ai cinque aggressori resta appena il tempo di scappare. Qualcuno chiama il 118. Rosa fa in tempo a sorridere a chi l'ha soccorsa. Il suo sguardo è tenero e pieno di gratitudine. Poi viene portata in ospedale. Vincenzo è sparito. Nel buio. È solo, non come sempre. Insieme a lui ora cammina Rosa che gli infonde uno straordinario calore.


Etimmè
Sono incastrato nell'aspro cratere della così detta luna, fisso nel giro senza tempo della trottola infinita. Come sia arrivato nello spazio asettico di questa entità io, essere libertino, non è facile raccontarlo in un'arcaica lingua e con minuscoli segni grafici. Inoltre, la storia della mia esistenza, immisurabile, di assetato del sangue degli umani comporta inevitabilmente la confutazione di molte antiche e assestate credenze terrestri.

Gli uomini hanno una concezione scenica della vita. Credono che solo il genere animale viva. Al massimo, e generosamente, regalano sprazzi di vita al grande impero vegetale, scambiando la rappresentazione per il fatto. Un fiume, viceversa, pur nascendo piccolo come un bambino e sviluppandosi durante il percorso con il nutrimento d'altri fiumi ed estinguendosi in acqua marina, se ha la fortuna di sfociare in mare, sarebbe un elemento inerte. Così questo composto di morti minerali che chiamano luna. Come se fosse vitale solo l'incessante riprodursi di nuove foglie dal proprio stelo, mentre ciò che cresce per aggregazione fra loro di elementi eterogenei non sarebbe corpo vivente, ma ammasso sterile.

E' ovvio, in cima a tutti gli esseri c'è l'uomo stesso. Perchè pensa. Dicono fra di loro con alterigia.

Quante ragnatele hanno intessuto sul cosa sia il pensiero gli umani. Sono abilissimi essi nel trasformare in sequenze di segni vergate su sottile carta colorata i loro astuti pensieri, fissati questi in modo permanente, per trasmetterli agli altri simili, pur molto tempo dopo che gli stessi autori siano decaduti, detti morti.

E che cosa sia questo che chiamano tempo, non lo sanno: hanno creato un concetto buio, un buco nero e vi si sono ficcati con presunta ingorda sapienza. Forse è la durata di un viso prima che si degrada e si trasformi in uno scempio.

C'è composizione e decomposizione continua nel polline delle cose, nella polvere dinamica finissima impercepibile dalla mente umana.

Dico della Terra e dei suoi abitanti. Perchè ho conosciuto personalmente quegli arcaici esseri, sottomessi e governati a lungo dai membri della mia razza. In tutto il cosmo solo gli umani soffrono di una costituzione così imperfetta, frutti di uno strano amalgama d'elementi. Ritengono che il pensiero sia l'essenza più evoluta dell'universo per essere capace di riverberarsi, emettere onde che viaggiando su se stesse si guardano e studiano, che possa addirittura modificare ed arricchire le forme delle onde stesse. Per questo lo chiamano coscienza, mente, anima: ogni volta ne discutono a lungo, ora con amore, spesso con odio; tentano di spiegarne i chiaroscuri involuti, rendendoli ancora più oscuri; per esso si vestono di arroganza e si esibiscono come i più sapienti delle galassie, precludendosi con il muro dell' opaco orgoglio la percezione reale di ciò che sia quel buio esercizio: una energia eclettica confinata in un campo d'elementi striminzito.

La mia è la razza prima: Energia orgiastica. Finché dura. L'universo non è un tempo, né un luogo. Nella decadenza ha già la rinascita in altri composti, ramificazioni di particelle e antiparticelle, contorsioni di aggregati, lotte fulminanti per accaparrarsi i primi posti, quelli del comando che ogni essere deve possedere. Repulsioni ed attrazioni, odii e amori nascono e muoiono ciascuno dall'altro e nell'altro, retti da un balenio di forze.

Io, come il mio popolo di aggregati, sono il risultato di una di queste infinite battaglie.

Il luogo dove sono nato? E' un'esigenza ossessiva degli uomini quella di conoscere l'origine d'ogni cosa e in particolare dei simili, amati e temuti. Credo che dipenda dal panico che colpisce le loro delicate fibre energetiche, le arterie, le vene e gli altri tiepidi organi quando non si sentono circondati da steccati fissi delimitanti il territorio, in cui le larve crescono nel riferimento costante alle risorse. Territorio che è la tomba circolare in cui giacere illudendosi di svolgervi la forza del possesso.

La mente immatura si nutre istintivamente di gingilli: li chiama idee. Conquista, ricchezza, potere, sono gli obiettivi più importanti e vi incolla sopra la sua esistenza. Il cervello ristretto in una dura scatola non intende l'essere ovunque flusso variabile. E' l'energia di ogni cosa che tramuta inesorabilmente in altre vite, come il limo del fiume che la corrente rinnova senza sosta. Il cielo animato di stelle nella notte o il giorno splendente per la luce dell'astro che lo illumina, o grigio per le nubi che lo circondano non sono solo oggetti che gli uomini percepiscono attraverso i sensi, ma anche concetti che la mente costruisce, senza avvedersi che l'argilla della sua arte è sempre e solo quella che sta intorno a tutti. Purtroppo lo sguardo che osserva il vagare lento e soffice delle nuvole in un giorno d'autunno sente il moto in maniera rozza e superficiale, per di più buona parte di quello che sente si perde durante il trasporto fino alla lontana zona cerebrale, percorrendo vie simili ad umidi ricami, con infiniti nodi e viluppi. Sui miseri frammenti di colori, odori e sapori che dopo il pericoloso viaggio gli arrivano alla mente, l'uomo ancora a fatica affastella un'idea, la bombarda d'atomi e la inchioda nella memoria. Da questo momento sa che il sole di oggi è uguale a quello che amava da fanciullo, rifiutando di scorgere la realtà che gli mostra l'astro dell'attimo diverso da quello osservato meno di un attimo prima.

Comunque confesso: anch'io ho un luogo di nascita, dove poi mi sono evoluto, acquisendo frattaglie d'energie, purtroppo però anche perdendo, con dolore, preziosa polvere cosmica che rinforzava i miei flussi vitali. Pure non dimentico che il mio è solo un luogo, non patria, né casa, ed è stato una sorta di asteroide, un aggregato galattico di notevoli dimensioni e ricco di buchi contenenti materia spenta, forme molli e refrattarie a fotoni luminosi. Ora non esiste più, distrutto dalla Terra. Nello scontro ha avuto la peggio, disintegrandosi su quel suolo più duro di tutti i compatti mondi. E' vero che fu un cataclisma imponente. Gli abitanti di un gran territorio si trasformarono in fiaccole, come fuochi fatui, di brevissima vita. Lampi che si accendevano e nello stesso istante svanivano, spenti in particelle minuscole e volatili. Instabili.

Noi siamo sopravvissuti all'urto. Aggregati senza spessore siamo rimbalzati sulla forza dello scontro e scivolati sull'aspro terreno, dove escrescenze colorate e ruvide ci graffiavano i tendini trasparenti. Storditi, finivamo tra le pieghe abissali che il nostro asteroide aveva prodotto nella Terra. Da quelle ferite uscivano enormi flussi di incandescente energia che nel primo tempo ci nutrirono,nonostante che fossero di rozza formazione e di difficile assimilazione. La struttura fisica di cui siamo costituiti tollerava quelle roventi e vischiose sostanze che intanto esaurivano il nostro impellente bisogno di minerali.

Finalmente placatasi la forza caotica e distruttiva dello scontro e gli elementi ritornati al loro consueto moto, imparammo a sfruttare l'energia dell'atmosfera, lì densa e pesante. Non si trovavano più facilmente i flussi incandescenti. In gran parte spente e fredde le crepe abissali da cui sortiva la prima energia. Era il momento di cercare, e al più presto, qualcosa di buono e utile a sostenere l'elaborazione del nostro trasformismo.

Incomiciammo ad ispezionare il pianeta in tutte le direzioni, nuvole invisibili d'aggregati atomici sorvolando e planando su superfici corrotte, crateri fumanti e abissi acquosi.

Finché arrivammo in un territorio gobbuto con innumerevoli alberi e fiumi intorno ai quali s'agitavano forme per noi inusitate. Corpi che si esprimevano con numerose protuberanze ruvide e pelose, gambe e braccia lunghe come tronchi e rami giganteschi. Avvicinandoci a quegli aggregati, noi invisibili e inudibili, percepimmo nel loro corpo lo scorrere della linfa, di temperatura al confronto con l'altra dell'impatto molto più fresca, ma sicuramente ricca di sostanze. Con stupefatta attenzione ne osservammo i movimenti guizzanti, nonostante la mole, e del resto i loro lunghi colli con in cima la testa attraverso i cui diversi organi scorgeva le direzioni da prendere nella ricerca del cibo, e le fauci per le quali lo ingurgitavano, colpivano ben prima che il resto del corpo arrivasse all'obiettivo. Capimmo che dovevamo penetrare quelle forme rozze e pesanti, costruire sul loro comportamento rude la nostra strategia di alimentazione e sopravvivenza. Il territorio aveva caratteristiche affatto diverse da quelle cui eravamo abituati. Sul nostro asteroide avevamo convissuto con forme più lente, sia nei movimenti che nelle traslazioni. Si poteva contare su risorse stabili che era sufficiente utilizzare per il soddisfacimento dei bisogni energetici e per nient'altro che fosse inutile lusso.

Sul suolo terrestre scoprimmo che per nutrirsi era necessario distruggere. Il che rappresentava una grossa difficoltà per la nostra specie.

Eravamo numerosissimi, una popolazione folta che se avesse distrutto la fonte della propria ricarica sarebbe rimasta già dopo il primo pasto senza più cibo. Osservavamo quelle fiere sbrandellare i corpi delle vittime, squarciare le materie, ingoiare le parti molli e buttare le grigie e dure. Durante queste orrende manipolazioni si vedeva sgorgare a fiotti quel flusso rosso e fumante di sangue, così appetitoso per noi, e cadere in gran parte sul terreno che invece ingordo lo assorbiva avidamente. C'era uno spreco folle di energie che noi avremmo dovuto al più presto scongiurare. Presto constatammo che avevano l'abitudine di vivere in gruppi tribali, ove i singoli esibivano identici appetiti e simili comportamenti di fronte alle specie di cibo, per conquistare il quale lottavano insieme contro la comune vittima, salvo poi al momento di sbranarla, darsi reciproci morsi e unghiate che aprivano profonde ferite nei loro stessi corpi, allo scopo di afferrare la parte più carnosa dell'organismo sconfitto. Ritenemmo che fosse sufficiente comunque di apparire come vecchi membri del gruppo per riuscire ad influenzare a nostro favore il loro comportamento. Se fossimo riusciti ad inserirci nelle comunità fino ad ottenere col fascino delle nostre superiori abilità la loro completa fiducia e devozione e se avessimo dimostrato che la nostra alimentazione fosse stata in realtà una cura di buona salute per i loro corpi, avremmo potuto nutrirci col sangue che essi stessi sarebbero stati felici di offrirci in segno di sottomessa gratitudine. D'altronde i flussi rossicci e dinamici li rimpinguavano senza soste con l'abbondante cibo di carne cruda di cui erano ghiotti.

Fra di noi non era mai esistita la guerra. La distruzione di chiunque o delle cose ci è sempre stata aliena. La traslazione universale svolge la funzione di ricreare le forme. Era fuori d'ogni logica anticipare e provocare prima del tempo, che sarebbe certamente venuto, la degradazione degli esseri.

Essendo di natura inconsistenti e trasparenti abbiamo la facoltà di assumere le forme che vogliamo. Come duttile cera possiamo modificare a piacere il nostro aspetto, ma non per capriccio, vi ricorriamo solo quando è necessario mimetizzarci in forme comuni all'ambiente in cui stimiamo necessario entrare, per non suscitare reazioni indesiderate o addirittura violente. E' una funzione elastica che ci appartiene per costituzione, ma che per applicarla richiede l'uso di una energia tremenda.

Così incominciò la colonizzazione della Terra.

Precipitammo sul pianeta col nostro asteroide, agglomerati di borioni e bosoni irretiti in una ragnatela di idrogeno e svariati altri aggregati cosmici, siamo diventati composti forniti di un sistema raziocinante vagamente simile al cervello umano, con la grande e sostanziale differenza che la nostra mente vede e sente senza l'aiuto dello schermo d'ulteriori particelle o aggregati spesso detti occhi ed orecchi. Infatti non copre il nostro essere la limitata e strana struttura della carne. Ricordo perfettamente l'ilarità beffarda che mi suscitava l'espressione umana puro spirito. Tutto ciò che i sensi di quella razza non percepivano direttamente, ma di cui la ragione intuiva l'esistenza, veniva chiamato spirito. Tant'è vero che nel loro gergo sonoro venivamo spesso identificati come anime, talvolta anche morti viventi per la nostra capacità di renderci invisibili e riapparire nei tempi e modi più imprevedibili.

Studiammo con diligenza la straordinaria varietà delle forme, abitudini e costumi, poi prendemmo ad assumere le loro sembianze ed a diffondere con prudente parsimonia la nostra incommensurabil-

mente evoluta saggezza.

Il loro corpo informe, coperto da una folta peluria grassa e maleodorante, massiccio e grottesco custodiva, e ne veniva come illuminato, una forza sentimentale fresca e limpida, talvolta così delicata da sommuovere i nostri flussi, solitamente indifferenti a questo strano tipo di soffi.

Toccò a me per primo farne un'esperienza dolcissima.

Il suolo terrestre meno tormentato di quello del nostro asteroide, dove erano predominanti foreste di combinazioni calcaree grigie e taglienti, le cui ramificazioni talvolta percosse da aliti di vagante energia, emettevano melodie suggestive. Là le foreste erano morbide e spugnose, sempre percorse da venti leggeri e profumati, spesso però anche da tempeste che le attraversavano scuotendole furiosamente. Da anfratti, da dietro montagne dai fianchi rovinosi, dalle valli profonde ed umide sciamammo, pochi alla volta, tra le grotte in cui si ritiravano gli abitanti dopo le cacce al cibo.

Penetrai in una di queste, invitato dalla tiepida penombra che eccitava i sensi del corpo di cui avevo assunto le vesti e trovai, steso su fili d'erba, un corpo di forma meravigliosamente armonica.

Pazienza. Presso gli umani ho imparato a far uso di questa definita virtù. Le condizioni in cui mi trovo mi costringono a fare una pausa. La forza che mi sostiene è scemata e debbo ricaricarmi. Proseguirò con i miei ricordi quando nuova energia mi rinfrancherà.
 

Il custode del canile
Un tempo fu una palude, poi, convogliata l'acqua con
quattro canali che la incorniciarono come un quadro,
quell'ampia campagna infossata, anche se ripulita, non è
mai riuscita a produrre un albero e quindi un'ombra.
Sul margine orientale di quella landa confinante con la
periferia dell'abitato, il Comune di Lerano fece costruire
qualche anno fa un canile. Costruire riferito a
quell'opera è un termine aulico. In realtà fu recintata
una vasta superficie rettangolare con un'alta rete
metallica. L'interno fu diviso in sezioni, ciascuna a sua
volta recintata con identica rete e alle quali si accedeva
attraverso cancelli tenuti chiusi con spezzoni di fil di
ferro. Sul lato più stretto, ad occidente, occupandone
l'intera ampiezza, fu eretta una bicocca precostruita, che
aveva l'alloggio per il guardiano e altre gabbie per
quegli animali che necessitavano di stare al coperto.
Tutto al risparmio e al provvisorio. E, come spesso accade
nei confini italiani, il provvisorio veniva sempre
procrastinato, tanto da essere in realtà un definitivo che
ci si ostinava a definire temporaneo. L'alloggio del
custode era un sudicio cubo dalle sottili pareti e con
poche suppellettili riciclate.
In tutto il recinto venivano stivati i cani randagi del
territorio comunale ed affidati alla custodia del
guardiano Corrado, trentaduenne disabile, assunto con
quei contratti a tempo e con l'incarico di vegliare da
subito su un mondo di problemi di sopravvivenza, di fame,
sete e rabbia.
Tra gli ospiti di quel campo era stata portata da poco una
cagnetta, sicura derivazione da un incrocio con un
chihuahua, che Corrado aveva battezzato Malavoglia, non in
memoria del verga, ma per una macchia nera che circondava
l'occhio sinistro dell'animale, s'allungava come una
stretta lama sul piccolo capo rotondo e strisciava su
tutto il dorso del grande orecchio, anch'esso sinistro. Il
resto del corpo era bianco, un bianco totale, perfetto.
Tra Corrado e Malavoglia si stabilì ben presto un legame
stretto. Le due esistenze s'integravano perfettamente, le
lacune fisiche si compensavano generando un'intesa
affettuosa, anche se quasi tutta istintiva. Per il resto,
la vivacità spigliata della cagnetta ben si armonizzava
con la levità fanciullesca del disabile.
Corrado ogni giorno faceva il giro per distribuire pasto e
beveraggio a tutti i cani ospiti e Malavoglia lo precedeva
lungo i corridoi, abbaiando ai ringhiosi, svegliando i
pigri, generando con le sue moine un coro fragoroso di
latrati e guaiti; arrivavano insieme fino alla gabbia
dell'angolo più lontano, quella del cattivo. Incrocio
discendente da un rottweiler, il molosso sembrava nato
feroce, tale era la rabbia che mostrava digrignando i
denti e sbarrando gli occhi sanguigni. Il pelo corto e
nero, il corpo frastagliato di cicatrici, i piedi ben
artigliati incutevano inevitabilmente una istintiva paura
in chiunque l'avvicinasse.
Malavoglia guaiva davanti a quella gabbia, piegava la
testa come per nasconderla tra le gambe anteriori ed
alzava la coda. Corrado col suo sorriso sereno si
frapponeva tra la cagna e la gabbia, scioglieva il filo
metallico che teneva fermo il cancello, la apriva, vi
entrava incurante del ringhiare dell'animale, vi
depositava la scodella col cibo, riempiva d'acqua l'altra,
ed usciva richiudendo il cancello sgangherato.
"Hai visto, Malavoglia? Anche lui infondo è buono", diceva
spesso, sorridendo. E la cagna ogni volta lo guardava
fisso e l'occhio immerso nella macchia nera sembrava che
dicesse furbescamente:
"Non mi prendi in giro, quello è cattivo e basta".
Dar da mangiare al Rottweiler era l'ultima operazione di
ogni imbrunire. Dopo Corrado e Malavoglia tornavano nel
tugurio, l'una sempre davanti uggiolando felice, l'altro
sorridente, nel silenzio di quella campagna ricamato solo
dal guaire dei cani.
Il Comune, a suo tempo, aveva dato l'incarico a due operai
di provvedere alla pulizia dei recinti, ma essendo la
cassa vuota di denaro, questa si effettuava una volta al
mese. L'ultimo giorno di Agosto di l'altr'anno il caldo
era opprimente ed i cani soffrivano particolarmente.
Corrado si affannava a non far mancare mai l'acqua ed
aveva steso su tutte le gabbie esterne teli e stracci per
procurare un po' d'ombra ai relegati. Quel giorno vennero
anche i due uomini addetti alla pulizia, poco prima di
mezzogiorno. Aprirono una alla volta le gabbie,
sostituirono il pagliericcio, pulirono il terreno. Durante
questi lavori i cani uscivano assaporando un momento di
libertà, ma poi ritornavano docilmente nei recinti
bisognosi d'acqua e di cibo. Quando quei due giunsero
all'ultima gabbia e l'aprirono anche il Rottweiler uscì
immediatamente. Finita la pulizia e non vedendolo
rientrare gli operai lasciarono il cancello aperto ed
andarono via, non prima d'aver raccontato a Corrado quel
particolare. Questi ordinò a Malavoglia di non muoversi
dal locale: la cagna rimase ferma, scodinzolando. L'uomo
si avviò e, percorsa appena metà strada, se la vide
davanti saltellante, come felice per lo scherzo. Corrado,
contagiato da tanta allegria, si mise a saltellare anche
lui, così giungendo all'ultima gabbia, ancora vuota.
Davanti al cancello aperto Malavoglia si irrigidì di
colpo, poi emise un guaito flebile e tremante. Il
Rottweiler stava arrivando come un fulmine lungo il
corridoio, caracollava imponente e furioso. In corsa saltò
sulla cagna, le addentò il capo, il collo, tutta quella
macchia nera che la rendeva unica, vi conficcò le zanne e
ne strappò la carne. Con gli artigli delle zampe le lacerò
tutto il corpo. Malavoglia si allungò a terra. Il cane le
addentò il dorso, la sollevò e la buttò in aria. Il corpo
di Malavoglia ricadde sul terriccio con la testa quasi
staccata.
La rapidità dell'evento aveva lasciato Corrado immobile e
attonito. Egli fissava incredulo il corpo inerte di
Malavoglia e poi il Rottweiler, il quale, ormai placato
dal sangue, era entrato nella gabbia e beveva schioccando
la lingua. Il disabile raccolse il corpo straziato della
cagnetta e se ne tornò tremante nel tugurio. Ora era
solo. Posò Malavoglia sul tavolo. Su questo gli operai
avevano lasciato un lembo di giornale servito per le
pulizie. Corrado vi lesse un titolo ancora tutto intero:
"Un cane si lascia morire d'inedia dopo il decesso del
padrone." In quel momento il sorriso gli ritornò sulle
labbra.
"Va bene" pensa, "per una volta facciamo il contrario."
Si adagiò sul letto, vicino ai resti di Malavoglia,
sorridente.
Fu il latrare infinito dei cani a dare l'allarme, molti
giorni dopo.  
 

L'assolo
Fermo sul bordo erboso della provinciale, Fiore, capelli
brizzolati, occhi assonnati, statura media, viso, naso,
bocca normali, pensieri riflessi su se stesso poco
normali, aspettava. Dall'altro lato della strada gli
giungeva sommesso il gorgoglio di una roggia. Alla sua
sinistra, saldata al palo arrugginito, c'era la targa
della fermata.
Egli era in anticipo, la corriera in ritardo, come al
solito.
Non ricordava un novembre più umido e nebbioso di questo:
erano le sette di un mattino scialbo, perso in un'aria
densa e grigia. La strada già ad una ventina di metri
sfumava nel muro di nebbia. Nella piatta campagna, alla
sinistra della roggia guardando verso Milano, una duplice
fila trasversale di scuri cipressi segnava il confine tra
il visibile e l'invisibile.
Alle sue spalle, poco lontano, sbiadiva la sagoma di un
vecchio cascinale; le zolle rosse dell'arato emanavano un
profumo di terra che stimolava il galleggiare sulla
superficie della coscienza di vaghe atmosfere
fanciullesche, di sottili falde profumate, sovrastate
tutte, come divinità totemica, dall'effetto presenza
paterna. Il padre! Da quanto tempo fosse morto gli era
impossibile ricordare. Della madre sapeva gli anni
trascorsi dalla sepoltura, all'incirca. Si strinse
addosso il cappotto, si aggiustò il bavero alzandolo fin
quasi a nascondervi la testa, in una infantile pretesa di
protezione dall'indumento.
"Quanto avrebbe dovuto aspettare, quel giorno?" Pensava.
"Cacchio d'un lavoro disumano in fonderia. Lì, alla
fermata, le ossa s'infradiciavano di umido, in fabbrica si
essiccavano al calore del forno, bollivano insieme al rame
durante il pinaggio. Così, i suoi cinquantatre anni erano
arrivati di botto! con gli acciacchi dei settanta!
conseguenze di una vita difficile, e con l'amarezza della
scoperta che le energie migliori se ne erano andate senza
cimeli." In quel pingue silenzio grigio l'assalivano i
sentimenti tipici della solitudine, quelle scaglie
depressive che mostrano la vita con immagini che
trascorrono in un'altra dimensione, attigua ma
inafferrabile, eppure lucida come un delirio; quei brevi
frangenti rivelatori della impotenza mentale a deviare il
flusso degli eventi; incombente il disperato desiderio di
riprendere il filo per tentare un altro ricamo. "No! il
filo ammagliato non si può scucire, rimangono solo i buchi
enormi, perversi, che più si sfaldano col passar degli
anni." Mormorava, arreso al fatale prosieguo
dell'esistenza. Querulo, un uccello nero, "un corvo?"
svolò nel molle della nebbia. Fiore si scosse, ebbe un
tremito, guardò a sinistra, da dove sarebbe dovuta
arrivare la corriera dei pendolari, ma scorse solo il fumo
grigio. Si girò a destra, distrattamente, vide il lieve
noto arcuarsi della strada per il ponte costruito
sull'altra roggia che irrigava trasversalmente la campagna
e, a sinistra della strada, proprio sulla gobba, uno
sgretolato muricciolo a protezione. Solo quella mattina
gli venne di constatare: "A destra? Perché non c'era a
destra il muro? Chi fosse andato da quel lato avrebbe
corso il rischio di cadere nell'acqua, e tanto peggio per
lui! Che modo di organizzare la cosa pubblica." Appena
dopo questi pensieri, lo sfiorò il sentore di un'immagine
già trascorsa, ma la cui impressione viveva ancora in un
ganglio mentale. Girò di nuovo lo sguardo. Lentamente. Ed
eccolo! Seduto, tranquillo sul muricciolo, con le gambe a
ciondoloni, pantaloncini corti, scarpe sdrucite, maglietta
a righe di indefinibili colori, capelli lisci e neri sopra
un viso giovane. Un volto strano: gli sembrava familiare,
molto. "Perché mi impressiona quella faccia con gli occhi
chiari, malinconici? Il ponte mi sembra più vicino! Sicuro
che è un'illusione, ma il ragazzo no, è vero, ed ora lo
vedo a dieci metri, come se il reale segmento di distanza
si fosse accorciato. Cosa fa là seduto, a guardare proprio
me, poi? E soprattutto, perché mi è tanto familiare?"
Fiore non capiva e per questo si sentiva infastidito,
sempre più a disagio e curioso. Era stravagante la
presenza di quel ragazzo, vestito in quel modo, a
bighellonare su un muretto, in una strada deserta, nella
nebbia silenziosa, e corroso dall'umido. Mentre pensava,
si sentì invadere da un freddo intenso. Lo percepì come un
colpo di frusta sulle carni vive. Poi non sentì più!
Niente. Né freddo, né umido.
La curiosità montante lo assillava con le domande: "Sei
nuovo?" chiese brevemente al ragazzo. Questi strabuzzò gli
occhi, stupito: "Chi, io?"
"C'è un altro forse?"
Il ragazzo continuava a fissarlo con aria ora amorevole,
con rispetto.
"Allora, sei nuovo? E' così difficile rispondere?"
"Non capisco perché vuoi sapere se sono nuovo: cosa
significa?"
"Ma niente, è un modo di dire! Siccome credo di non averti
mai visto prima, vorrei sapere, così, per semplice
curiosità, se abiti o no da queste parti."
"Perché? vedersi e conoscersi sono condizioni necessarie
dei vicini di casa?"
Ora a Fiore quel presunto ragazzo appariva ancora più
strano, per via di un fascio di luce scialba che, forando
la massa nebbiosa, ne aveva illuminato il viso, rendendo
però la valutazione dell'età, anziché agevolarla, ancora
più incerta; anzi in quel momento non gli si poteva
attribuire di certo quella di ragazzo, del quale, oltre
l'aspetto generale, soprattutto la cadenza della voce, ma
anche lo sguardo, venato d'ironia, davano all'uomo, che
l'osservava con curiosità morbosa, una forte sensazione di
familiarità, eppure confusa, come proveniente da ombrose
fratte della memoria, tra le quali giaceva, morta da molti
anni, una secca sterpaglia di ricordi. E che ora quella
visione riesumava.
Rammentò all'improvviso il suo argomentare involuto nei
discorsi con i coetanei, quando era lui un ragazzo. Gli
sembrò di ripercorre un tunnel, lungo il quale bagliori
intermittenti guizzavano nel buio proiettando immagini con
confini evanescenti, come larve nell'intermezzo dello
sviluppo, quando non hanno le forme definitive né dell'uno
che hanno lasciato, né dell'altro organismo che
diventeranno. Involuzioni verbali che miravano ad irritare
gli interlocutori, a forzare il dialogo e a contorcerlo
con ghirigori sintattici, che sovente si concludevano in
bisticci.
"Non è questione di necessità" disse Fiore,"ma di
occasioni. Se sei di questa zona, per tutte le volte che
sei uscito di casa e rientrato percorrendo gli stessi
pochi viali, avremmo dovuto incontrarci talvolta, ti
pare?"
"A me si! A te non pare che potremmo esserci incontrati
senza esserci visti? Ogni giorno, per una vita, anche tu
hai percorso questa strada, non scorgendone tutti, ma
proprio tutti, i particolari; lungo gli anni tuoi hai
frequentato infiniti luoghi, ma di essi cosa hai visto?
Solo una parte! Quella potuta osservare dal tuo punto di
vista; e nei tuoi ricordi ce n'è ancor meno. Nella parte
che manca alla tua memoria evidentemente c'è anche il mio
volto: lo specchio riflette l'immagine fino a quando il
corpo gli sta davanti."
"Vorresti dire che non ho memoria? Come puoi dire questo
se non mi conosci?"
"Se io non ti conosco, neanche tu conosci me: allora
perché mi rivolgi la parola e mi fai l'intervista?"
"Il tuo aspetto mi sembra familiare. In te c'è tutto
quello che fa dire ad un amico, ad un parente: ci
somigliamo come due gocce d'acqua! Ed è questo che è
strano, perché sono sicuro di non averti mai visto prima
d'ora, né mi risulta che in qualsiasi parte del mondo
vivano ancora miei parenti."
"Vedi che mi dai ragione? Hai la memoria ma non sai
leggerla, sei come il cieco davanti allo specchio, questo
continua ad esercitare la sua funzione."
"Ma io non mi vedo, vuoi dire!"
"Sei stato come il vento su un campo di fiori: esso passa
ramingo, spesso rabbioso e mai si accorge della bellezza
che ha sotto. Tu sei volato sulla tua vita, senza
assaggiarne il profumo. Ora hai perso le narici. Comunque
sappi, anche se non vale più nulla, che io ti ho sempre
voluto bene!"
Lo stomaco di Fiore ebbe un sussulto, come colpito da un
crampo. Si stava incaponendo, voleva stare al gioco a
tutti i costi, tanto da essere determinato a non prendere
la corriera se fosse arrivata in quel momento. Un chiarore
argenteo avvolgeva come in una sfera il sito; il palo
della fermata al suo fianco sembrava luccicasse dove non
c'era ruggine, il muricciolo svelava con nitore le crepe,
nelle quali si intravedevano i merletti delle ragnatele, i
cipressi, come chiusi in adorazione, sembravano in fila
lungo il viale di un cimitero; i capelli del ragazzo a
qual bagliore erano diventati improvvisamente bianchi, ora
sembrava invecchiato di colpo.
"Anch'io ti ho amato!" Lo disse per reazione, senza
riflettere e capire il valore di quella assurda
dichiarazione.
"Lo so!"
Era nervoso. Il ragazzo stava vincendo, forse per merito
della sua età, o forse semplicemente perché a Fiore
sembrava più giovane, il che lo metteva in una situazione
di inferiorità, perché, magari, si era solo convinto che
fosse più giovane per l'impressione avuta dai primi
sguardi superficiali, ma che poi, a scrutarlo
attentamente, sembrava più in età, adulto, anzi, ora era
sicuro che fosse anziano, diciamo della sua stessa età.
In tal caso, che senso aveva quella dichiarazione d'amore?
E da dove nasceva la ferma sicumera ostentata da quel
personaggio?
"Se sai che ti voglio bene perché dici che non ci siamo
mai visti?" Chiese Fiore dopo un lungo silenzio.
"Io non ho detto questo: sto solo cercando di rispondere
alle tue assurde domande."
Fiore era interdetto, non capiva in quale gioco assurdo
fosse stato invischiato. Aveva già cambiato idea. Ora
imprecava contro la corriera in ritardo: la scusa di dover
andar in fabbrica, per svolgervi il suo lavoro di operaio,
lo avrebbe liberato da quella contesa in cui, ormai ne era
convinto, avrebbe avuto la peggio: le sue domande
"assurde"? Perché le sue parole avevano dato a lui questa
impressione? O forse bluffava!
"Sei un giocatore di pocher?" Gli chiese, nel tentativo di
spiazzarlo.
"Non ho mai giocato a carte."
Fiore ricordò di aver avuto sempre avversione per quei
giochi.
"Sai perché le tue domande sono strane?" Chiese il ragazzo
piegato in avanti, col palmo delle mani premuto sul
muretto, dondolando con più ritmo le gambe.
Straordinario, ora prendeva lui l'iniziativa, gli faceva
l'interrogatorio, lo sottoponeva a quesiti. La curiosità
prepotente mise a forza la domanda in bocca a Fiore.
"Perché?"
"Sai già le risposte!"
"Ad esempio, di quale domanda?"
"Di quella con cui mi chiedevi se mai ci fossimo visti."
"E allora?" Non ne poteva più, voleva scappare da quella
nebbia equivoca, da quella fermata ormai inutile, dal
silenzio corposo che avvolgeva il posto, dove i suoni
vagavano come ombre lontane, circondati da bianco e poroso
polistirolo. Così gli giunse la voce dell'interlocutore,
come un oggetto fragile immerso in una nuvola di bianchi
frammenti.
"Noi siamo stati sempre insieme, come puoi non saperlo?"
La risposta sgorgò immediata ed offesa:
"Io non ti conosco, perché sei arrogante con me?"
"Non mi conosci? Guardami bene!"
Stava tremando. Stupore e sconforto aggiungevano nebbia a
nebbia. "Perchè si trovava in quella situazione pazzesca?"
Pensava, Fiore. "Forse non era sveglio, o forse l'aria
infetta per le esalazioni delle fabbriche gli aveva
drogato la mente. Non poteva essere che questa la
spiegazione: era drogato, in qualche modo, e in qualche
tempo, doveva aver assunto sostanze allucinanti e si
trovava ora per questo in una dimensione irreale, in cui
le forme variavano in maniera lenta ma incessante le
proprie linee, arrotondando o aguzzando le loro immagini,
avvicinando o allontanando il piano di visione, come in
un proscenio mobile, scivoloso, davanti all'immenso
sipario della nebbia." "Guardami bene!". La richiesta
perentoria a ondate sussultava nella mente, ripetendosi
all'infinito. Fiore dilatò gli occhi in uno sforzo
estremo: l'interlocutore sembrò avvicinarsi, quasi a
stabilire un contatto. Constatò che gli somigliava. No, di
più: era il suo sosia! Perfetto. Non capiva, ragionava
come in delirio. "Perché gli somigliava così tanto? Che
era questo mistero?"
"Mi hai riconosciuto?" chiese dolcemente il finto ragazzo,
ora così vicino da sentirne lui l'alito freddo. Fiore in
preda ad un indicibile sgomento chiese balbettante:
"Non so, non credo. Aiutami! Chi sei?"
"Scettico fino all'ultimo! Io sono te stesso!
"Perché . perché mi prendi in giro?"
"Non ti prendo in giro: siamo morti, ora!"
"Ma se sono qui, alla fermata; aspetto la corriera per
andare al lavoro!"
"Questa è la nostra ultima fermata!"
Fiore alzò con uno sforzo immenso la testa per guardare in
alto: la targa sopra di lui era bianca, senza scritte.
Abbassò gli occhi, steso sulla terra. L'ultima visione di
sé stesso era svanita.  
 

La pecora
La strada a T: via san Domenico. In salita. Corta. Entrandovi da piazza san Giovanni si ha subito la vista dell'edificio a due piani, macilento e antico di almeno sessant'anni. Visto dal basso l'occhio scorge dapprima il parapetto smerlato che circonda il terrazzo e poi, intristito, i due balconi con persiane d'un verde scolorito ed ulcerato come un lebbroso. Alla persiana di destra quattro stecche sono appiccicate con nastro adesivo marrone, a quella di sinistra ne mancano alcune e il buco è nero, triste e povero. Le inferriate arrugginite e tra i ferri nessun vaso e fiore a far capolino.
Al primo piano spiccano invece il verde fresco degli infissi e i vasi pensili tracimanti fiori. Fili bianchi, luccicanti, sono tesi da una estremità all'altra dei ferri. Appeso ad essi un lenzuolo bianco, come il cielo coperto da un velo di nuvole, oggi svolazza sopra il portone che è grande, di legno marrone, chiuso. Tranne che per una porticina a cupola intagliata in quella robusta superficie legnosa, sempre aperta per via della serratura rotta, e per la quale spesso entrano persone che lasciano l'urina negli angoli, da dove s'alza un fetido puzzo.
All'interno del portone, nella penombra, sui primi quattro gradini, quelli che portano al pianerottolo da dove parte la rampa che sale ai piani, sta Lucia. Nella posizione della pecora. Poggia i piedi sul pavimento, il palmo delle mani sul quarto gradino. A vederla così si ha la certezza che l'hanno piegata per avere un più comodo accesso al suo corpo. Ed è ancora in quella posizione, come pecora che brucata l'erba sta ferma a meditare sul ciglio di un burrone.
L'aspettavano nel portone, al buio. L'hanno posseduta in quattro. In tutti i modi.
Lucia ora è sola. Con i suoi sedici anni, non più vergini. Ha ancora la fronte poggiata sul dorso della mano di cui sente il profumo lasciato dalla saponetta comprata al mercato rionale. Sente il dolore vivido attraversare il suo corpo. Sente le cadenze dei loro canili guaiti. Come se fossero ancora su di lei.
Durante quell'orgia ha sentito il cigolio di un uscio che si apre, per un attimo ha sperato in un aiuto, ma il cigolio si è ripetuto dietro il silenzio, segno del richiudersi spaventato della porta.
"Aiuto!" Ora la riconosce, è la sua voce che le ritorna all'orecchio, come dal fondo di un dirupo, lacerata dalle rocce, disperata. Sente sé stessa sospesa sul dirupo, priva di risorse. Percepisce il corpo come trasfigurato in quello di un animale, che caracolla nell'imminenza di precipitare nel vuoto.
Al di sopra di sé ancora il cigolio di un uscio le ricorda la realtà. Sente lo sfregare incerto di ciabatte sul pavimento, il tonfo dei passi che scendono sui gradini di pietra. La sente sedersi, ne percepisce l'odore buono e familiare, il calore del corpo.
E' la nonna Maria che le prende con delicatezza il capo e se lo poggia sulle ginocchia magre e vecchie.
I genitori di Lucia sono divisi e lontani. La madre si guadagna da vivere a Calolziocorte come cameriera in un albergo e ogni mese le manda un po' di denaro. Il padre a Copenaghen, operaio, spedisce mensilmente alla nonna una somma più consistente. Nulla di più. Niente abbracci e baci, né carezze la sera prima di coricarsi, né consigli per la giornata di domani.
- Ho chiamato la polizia - dice la vecchia lisciandole i capelli neri.- Li ho visti, li ho riconosciuti. Li possiamo denunziare, se vuoi.
Lucia finalmente solleva il capo e fissa negli occhi la nonna debole di ottantaquattro anni vissuti in miseria e fame. Vede in quegli occhi grigi paura e rassegnata stanchezza .
- Temo per te, lo sai. Qua così si vive. E' il più forte che detta legge e gli altri a testa in giù come pecore. Zitti. E noi siamo sole.
La sente parlare, a singhiozzi. E pensa, Lucia, alle sue amiche cresciute con lei in quel borgo, seviziate come lei per tutti i santi giorni, fin dalla nascita, tormentate dai bisogni sempre inappagati, dai desideri sempre pencolanti, come frutti posti troppo in alto per poter essere raccolti, sempre sulla strada per le case troppo piccole a contenere il loro entusiasmo giovanile, alle gare in bicicletta tra le macchine parcheggiate in divieto di sosta e tra i passanti minacciosi sui marciapiedi. questo pensa Lucia, quando un rumore affrettato e pesante di passi alle sue spalle la distraggono. Gira il capo e vede due uomini in divisa che la guardano, ostili, le sembrano. Allora finalmente si ricorda del suo corpo di pecora, a fatica si alza e poi si siede al fianco della nonna.
- Allora? Che è successo qua? - chiede bruscamente un poliziotto.
Lucia lo guarda senza paura. Un'idea all'improvviso le si è ficcata nel cervello. Agevolata anche da quelle divise. Bisogna seguire la corrente: rispettare l'omertà, le leggi imposte dalla malavita del borgo, di quel mondo vermicolante, per ricavarne vantaggi .Amalgamandosi con quel modo di vivere, sfruttando ora la sua posizione di vittima silenziosa, potrà servirsi del ricatto per ottenere da quella sorta di comunità tanti privilegi da vivere lei e la nonna con tranquillità, e forse anche rispettata.
- Qua non è successo proprio niente - risponde al poliziotto con un velato sorriso.
- Chi ha telefonato, allora?
- Mia nonna. Me l'ha detto lei. Poverina, vede poco e sente male. Deve aver scambiato i sorrisi per pianti.
- Se volete denunciare qualcuno vi portiamo al commissariato - dice l'altro poliziotto.
- No, non dobbiamo denunziare niente. Chi dobbiamo accusare se nessuno ci ha fatto del male?- risponde in fretta Lucia ormai decisissima a fingere, per sempre.
- Ha ragione mia nipote. Mi sono sbagliata. L'ho vista con dei ragazzi, non so perché, mi sono spaventata. Alla mia età, vivere da sola, la debolezza… la paura si attacca addosso, come un'altra pelle.
- Va bene, diciamo che l'allarme è falso - conclude il primo poliziotto, poco convinto, ma impotente per quelle dichiarazioni così definitive. - Possiamo andare, allora?
- Si, qua è tutto a posto. Scusateci tanto per il disturbo - dice Lucia fissando gli occhi nel vuoto della penombra.
- Per carità, è dovere!
I poliziotti, con calma pensierosa, esitano un attimo sulla soglia del portone, poi spariscono.
Lucia si volta a guardare la nonna che la sta osservando.
- Figlia mia - dice la vecchia abbracciandola, - perché non hai detto quello che ti è successo? Ti ho vista così decisa da non sentirmela di contraddirti. Ma sei sicura d'aver fatto bene? Perché non vuoi denunziare quei delinquenti?
- Nonna! Siamo io e te! Sole! I genitori lontani, con i loro problemi, io minorenne, tu anziana e debole: dove vuoi trovare la forza di far la guerra a questo ambiente? Questi si coalizzeranno, diranno tutti assieme che siamo due matte visionarie. E poi ci minacceranno, io sarò additata come la ragazza stuprata, goduta da tanti, una disgraziata che getta fango su bravi ragazzi. Al contrario, il mio silenzio costringerà quei quattro farabutti a non vantarsi. Indurrò i loro genitori con il ricatto a tenerli buoni. Pigliamo le loro stesse armi e difendiamoci. Ci temeranno. Col timore nascerà il rispetto. Il loro rispetto, ma ci basta perché noi è qui che dobbiamo vivere.
Lucia ora si scioglie dall'abbraccio della vecchia, nell'animo della quale la paura andava affievolendosi, la prende per mano e salgono al secondo piano dov'è il loro appartamento. All'improvviso sente d'aver smarrito per sempre il senso della sua vita, per recessi oscuri del suo essere sente già le prime unghiate dei rimorsi, coi quali capisce che dovrà rassegnarsi a convivere e a far tacere, lacerando ogni volta quell'immagine pulita che s'era fatta di sé, costruita così chiara e dorata dalla sua ancor giovane fantasia. Stranamente le viene di vedersi pecora sotto un cielo bianco. Il cigolio accompagna il chiudersi della porta alle sue spalle.


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