Racconti di Angela Mori


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Il ballo
La sala era bellissima. Ornate di pregiata carta da parati le pareti, dove fiori di ogni luogo, farfalle e arabeschi giocavano tra loro restando immobili ed eterni. Mura dagli armonici colori circondavano la musica del pianoforte, del violino e del violoncello. L'aria era umida e grave di gocce di sudore, odor di violette e zagare che fra tutti spiccavano per il loro effluvio; l'una dalle calde terre meridionali ricorda la Sicilia e il canto delle pastorelle, l'altra da Parma, un tocco di Italia settentrionale su damigelle di ogni Stato. In alto, sfavillanti luccichii di cristallo che come caleidoscopi riverberano luce mutevole in scintillii d'arcobaleno, tenuti sospesi da braccia forti di ferro e d'ottone trattati con artigianale maestria. E sotto questi metallici sguardi severi danzavano le coppie. Abiti che si snodavano come nuvole, che volteggiavano come colombe bianche che parevano perle australiane immacolate, lucenti ali di corvo nere come onice d'Egitto. Alcuni sembravano zaffiri azzurri d'Occidente, come l'empireo quando è più celeste, altri rifulgevano come smeraldi colombiani e sembravano stille di rugiada sulle fronde di primavera ai primi barlumi del sole. Vi erano abiti scarlatti come rubini della Thailandia, vermigli come le labbra delle loro dame che sapevano di Mesopotamia e della bellissima Cleopatra ereditavano il fascino. I volti erano chiari come mai, baciati dall'astro mattutino e le curve di quelle signore erano cedevoli e tondeggianti. Sabot di legno ornati con fiocchetti, o stivaletti dello stesso colore delle vesti, si muovevano sotto le pesanti crinoline senza badare alla stanchezza. Sorrette in un abbraccio quasi allontanato dal corpo ma non dall'espressività' degli sguardi dei loro uomini, si allontanavano per bere qualcosa o per boccheggiare la dame, davanti alle enormi finestre che cinte ai lati da tendine di velluto pesante incorniciavano la veduta dei giardini. La luna irraggiava alta nel cielo e il rumore lontano di qualche carrozza che si avvicinava era solo riservato all'orecchio sopraffino di qualcheduno, agevolato dall'attimo di riposo dei musicisti. Coppe eleganti di sling dolciastri, aromatici distillati dal lieve gusto d'anice e menta vicini all'assenzio e ambrati vini pregiati erano toccasana per le aride bocche. Stava appoggiato vicino a un camino, in marmo di Carrara Luigi Filippo, e coppa d'argento in mano a sorseggiare il suo alcolico verdastro. Ai piedi portava dei mocassini neri, lustrati per la sera da qualche ragazzetto di strada pagato pochi centesimi in una delle vie principali del centro. Il pantalone era beige e saliva avvolgendo la muscolosa e ben tornita coscia fino alla vita, dove la patta era costellata da cinque bottoni centrali tutti color dell'oro. La camicia dal colletto molle e ripiegato, gli conferiva un lieve aspetto d'artista seppur la cravatta fosse annodata in modo inappuntabile. Il carrick nero non era ancora stato levato seppur la temperatura paresse alzarsi di continuo nonostante la mezzanotte fosse già giunta, dodici rintocchi delle lancette dell'orologio Parigina Impero sul caminetto. Capelli biondi, sciolti e ondulati, gli coprivano quasi del tutto la fronte. Poco più in basso due occhi neri circondati da fitte ciglia, osservavano attoniti quell'ammasso di corpi e tessuti, quelle energie frenetiche che sembravano barcollassero a un inesistente, potente vento. Iniziò a odiare quelle risate che guastavano le note dei suonatori e più correvano gli attimi più si rese conto che odiava quelle donne, quegli uomini, quelle pareti ricamate di fiori, l'enorme lampadario, il caminetto, l'effluvio di viole e delle zagare. Odiò le tende, l'aria che non perveniva perché fuori pareva si fosse fermato il tempo e poi la musica, i musicanti, le coppe di vetro e quelle d'argento. Sentì freddo e righe di lacrime gli solcarono il viso mentre una mano alle sue spalle gli serrò la gola. Si voltò di scatto, dimenando le braccia. Dietro di lui soltanto la parete, le farfalle e i colori. Sospirò pochi passi verso la folla.
Tolse goffamente il cappotto facendolo scivolare sul pavimento, ,slegò la cravatta e allargo il colletto della camicia. Si passò le mani tra i capelli, poi si accarezzò il collo, percependo un crescente calore. Attorno a lui, le coppie danzavano senza sosta. Di nuovo la mano, rigida e spietata, gli cinse la gola. Sentì il fiato mozzarsi, lottando e dimenandosi come impazzito tra la folla che non inibiva il ballo. Il cuore era un tamburo africano che rullava arcane melodie e gli esplodeva nel petto. Girava su se stesso alla ricerca del suo assalitore, cercando senza soluzione alcuna quell'arto assassino che gli stritolava la vita. I suoi capelli biondi danzavano nella festa, come in un assolo paranoico. Giunse come un ubriaco alla finestra e, non facendo in tempo a spiccare un volo liberatorio che sarebbe durato otto metri appena, stramazzò a terra tra la festa e i suoi strepiti.

Come un filo d'erba
Lei era come un filo d'erba. Del vento che soffiava non le importava, seppur sapesse che poteva ucciderla. A volte temeva di finir calpestata dalla lurida suola di una scarpa, ancor peggio colta dalla mano di un folle ragazzo. Molti erano i modi per morire, e lei li conosceva sin dal primo istante di vita. Sbocciata da una terra giovane che seme di brutalità aveva inseminato, cresciuta nell'aridità di quel suolo che non l'amava e inaspriva con il vino le sue viscere, rinnegando fino a che poteva quel filo d'erba che la impediva. Era un filo d'erba e lo sapeva. E come tutti i fili d'erba, anche Lei stava lì a dormire nei prati. Poco importava se fossero chimici gli elementi che la saziavano e alcoliche le sostanze che la dissetavano. Prima o poi, anche Lei sarebbe finita come finiscono tutti i fili d'erba, la sorte che accomuna anche quelli più lucidi, di quel verde brillante che si esalta con le spennellate mattutine di rugiada. Il fumo che spesso inalava era naturale seppur illecito; quello innaturale era legale, ma Lei non ci badava e da ambedue pareva prendesse sospiri. Le mani che la accarezzavano erano come quelle paffute dei bambini che colgono il primo fiore di primavera, delicati e quasi chiedendo il permesso. Tremavano per timore di farle male e quando smettevano e andavano via, si giravano ancora un'altra volta a salutarla, certi di ritornare e trovarla ancora bella. Altre mani la lambivano: erano violente, forti e arroganti. A volte, temeva che giungesse la fine per mano d'esse, che cattive le percuotevano il gracile corpo. Non si volgevano mai indietro a salutarla quando finivano, e lei sapeva che sarebbero tornati a procurarle amarezza. Le stagioni si alternavano, l'inverno arrivava sempre, rigido e acuminato, ma si stupiva di come non rabbrividisse più, seppur la neve tutta la coprisse. In altre, non paventava di bruciarsi al sole d'estate, di essiccare come tutti gli altri manti o di ingiallire in autunno per poi rinascere in primavera. Era come un filo d'erba e non aveva paura. La vita le sfuggiva di dosso, non sapeva piangere né sorridere e una volta, un appassionato artista sconsolato e malinconico le scattò una fotografia Una foto sola, ora posata su di un'umile tomba. Adesso che Edera è morta e nessuno sa come sia successo.


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