Racconti di Mario Malgieri


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Genovese ma non tirchio, almeno secondo i parametri genovesi, 59 anni, una moglie, tre figli grandi. Talmente grandi che la mia bambina mi ha reso nonno due anni fa.
Ex dirigente di industria giramondo, in pensione non per mia scelta e comunque dopo oltre quarant'anni di lavoro. Leggere è sempre stata la preferita tra le mie attività non professionali, scrivere lo sta diventando ora, con una voragine di tempo libero da colmare. Poesie e racconti sono quindi figlie e figli di mille letture, le più diverse, e delle esperienze di una vita sin qui non particolarmente avventurosa ma abbastanza movimentata.

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Dove saranno adesso
Il rapporto tra Luigi e Maria si era logorato negli anni ed il tentativo di riaccendere se non il fuoco ma almeno un tiepido affetto si stava rivelando un fallimento. Ora quell' anniversario in Liguria, nel luogo del loro incontro e dell'accendersi della loro passione, si stava trascinando stancamente verso la conclusione del primo giorno, senza che una scintilla avesse rischiarato il buio dei loro sentimenti.
Non è che la giornata in sé aiutasse a risollevare umori malinconici.
Un vento tagliente arrivava da Punta Mesco, sfiorava le insenature delle cinque terre e si incanalava tra la Palmaria e Portovenere, portando sottili gocce di pioggia. Il mare era increspato, con piccoli riccioli bianchi a sovrastare le onde ancora basse, ma già rumorose nel frangersi sulle scogliere della grotta di Byron.
Luigi e Maria, dall'arco di pietra vicino alla chiesa, osservavano le onde scure, le nubi basse che nascondevano le cime delle montagne aspre, a ridosso della costa, ed il sentiero percorso dal poeta per iniziare la sua leggendaria traversata sino a Lerici. Ristettero immersi nei loro pensieri per molti minuti, avvolti e quasi isolati dalle loro sottili giacche impermeabili, i cappucci a proteggersi i capelli dal vento e dalla salsedine. Poi senza parlare si voltarono e si diressero lentamente verso la chiesa. Camminavano ognuno per proprio conto, Luigi un passo davanti a Maria.
Nonostante la malinconia, Luigi non poté non ammirare ancora una volta il sobrio splendore di quella costruzione di pietra tra pietre, con l'alternanza del nero della ardesia ed il bianco del marmo, le bifore ad alleggerire il campanile, il fianco con il portale ad arco rivolto al visitatore di terra ma la bella facciata luminosa visibile solo di scorcio, perché riservata alla vista del marinaio che incrocia al largo o imbocca lo stretto della Palmaria.
Maria invece aveva lo sguardo rivolto alla sua sinistra, al mare e alla vicina isola.
Luigi salì i pochi gradini ed entrò nella penombra della piccola navata, poi da una porticina uscì sul piccolo chiostro a terrazza, dove sottili colonnine collegate da una balaustra di pietra si affacciano sul mare, verso ponente.
Vide subito i due ragazzi, forse nemmeno ventenni. Stavano in piedi, la ragazza, piccolina, i capelli lunghi, in piedi sul muretto, pericolosamente, le braccia allargate. Si appoggiava al suo ragazzo, molto più alto di lei, che la teneva per la vita, in quella posizione resa famosa dal film "Titanic". Il vento le agitava i capelli mentre il mare, che si era ancora ingrossato, rumoreggiava sotto di loro, frangendosi con rabbia contro le rocce affilate come la prora di una grande nave.
Non l'avevano visto, troppo presi dalla gioia di quel loro momento. Luigi si ritrasse in silenzio, poi fece cenno a Maria di raggiungerlo, mettendo il dito sulle labbra per indicarle di non parlare. La fece affacciare alla porticina e le sussurrò in un orecchio
- guarda, siamo noi vent'anni fa, ti ricordi?
Maria osservò per qualche istante ed un sorriso le si accese sul volto bagnato
- mi ricordo eccome, e mi ricordo anche quello che accadde dopo…
La mano di Luigi prese quella di Maria e la strinse, poi, finalmente, un bacio leggero unì le loro labbra.
Nel chiostro la ragazza era scesa dal muretto ed osservava sorridendo il suo Gigi che con un pennarello scriveva i loro nomi e la data sulla parte alta della colonnina, sopra una vecchia incisione.
-Guarda Marì, questo graffito si legge ancora, avevano i nostri stessi nomi. "Maria e Luigi si amano 10-4-1985" … chissà se si amano ancora e dove saranno adesso.    

L'uomo che guardava il mare
Lui non dormiva di notte, lui guardava. Guardava il mare.
Si chiamava Rosso, l'avevano chiamato così i suoi genitori pensando ad un lontano avo venuto, secondo una leggenda di famiglia, dall' antico popolo di Eric il rosso, il vichingo che per primo sfidò il gelido mare del Nord per raggiungere l'Islanda.
Quella di Rosso era una follia tranquilla, venuta alla luce lentamente, dopo un'infanzia normale. Forse avrebbe dovuto allarmare quell'eccessiva predilezione per i giochi con barchette, navi e qualunque cosa che avesse a che fare col mare. Oppure la sua continua richiesta di storie che non avessero per protagonisti fate, streghe principesse e re, ma lupi di mare, tempeste e mostri degli abissi.
Poi, nella pubertà, l'aggravarsi, il rinchiudersi sempre di più in sé stesso e nelle sue fantasie. "Personalità schizoide, monomaniacale ma non pericoloso per se stesso o per gli altri". Questa era stata la diagnosi degli specialisti che l'avevano visitato e poi abbandonato al suo destino, visto che i famigliari non intendevano sottoporlo a problematiche e costose terapie.
Così Rosso guardava il mare. Andava accanto alla chiesa, sulla piazzetta ricavata dove antiche rocce oramai celate dal cemento, spianavano arrampicandosi più dolcemente verso il monte. Da lì, da un'altezza raggiunta solo dagli spruzzi più alti durante le libecciate invernali, si dominava con un unico sguardo sia il vecchio borgo di pescatori, abbracciato alla piccola spiaggia sassosa, sia il mare, appena limitato ad est dall'ombra inconfondibile del monte di Portofino, ma a sud ed ovest libero sino a dove poteva arrivare lo sguardo. Nella mente di Rosso, priva di confini imposti dalla logica, in quella direzione si poteva arrivare ovunque, magari sino a capo Horn, incubo e suprema laurea per i capitani dei velieri.
Lui non si curava del borgo, pure oggetto di ammirazione da parte di migliaia di turisti e soggetto di innumerevoli quadri, vedute e fotografie. Lui scrutava l'orizzonte con un enorme binocolo da marina trovato in casa, tra i cimeli di un passato che aveva visto la famiglia di suo padre tra quelle dei Capitani di Camogli, i migliori, i più coraggiosi tra tutta la marineria del Mediterraneo. Erano due i cimeli dai quali Rosso non si separava mai, uno era il binocolo, e tutti potevano vederlo. L'altro invece era segreto, custodito con amore e cura maniacale. Un anello di bronzo, un semplice cerchio di metallo brunito, che lui teneva appeso al collo con un rozzo cordone di cuoio. Secondo Rosso, quell' anello era stato ricavato dalla fusione di un'ascia da guerra vichinga. Se fosse vero o fosse una delle sue tante innocue fantasie neppure lui avrebbe potuto dirlo. La realtà ed i sogni non erano distinti nella mente di Rosso.
Rosso restava sulla piazzetta dal tramonto alle prime luci dell'alba, che fosse estate o inverno, che fosse una tiepida notte stellata od una gelida oscurità rotta da fulmini e grandine. In quelle circostanze lo si vedeva, seppure qualche coraggioso passante si fosse soffermato a guardarlo, completamente avvolto da un sudovest con il cappuccio grondante acqua e salsedine, un paio di stivali di gomma, ritto, appoggiato alla colonnina del cannocchiale turistico a moneta, come il nocchiere legato alla barra nella tempesta, l'occhio fisso in alto, a guardare la punta del campanile come fosse il pennone di maestra. O come un comandante sul cassero di poppa, una mano sulla rugginosa balaustra di ferro della terrazza come fosse un mancorrente di mogano ben levigato, immobile a dare ordini con voce stentorea per superare il muggito dei marosi e l'urlo del vento tra le sartie.
Di giorno dormiva, poco, e si nutriva il minimo indispensabile, senza gioia e senza preferenze. Semplicemente mangiava quello che gli mettevano davanti. Usciva di casa, camminava, parlava tra sé aspettando il calare della sera ed un'altra notte insonne.
Anche quella notte di Novembre Rosso era al suo posto. C'era tempesta di libeccio, la peggiore. Rosso scrutava, che cosa, nessuno lo poté dire, nessuno avrebbe potuto vedere ciò che lui vedeva, in quel buio totale rotto solo dai lampi e, verso riva, dai lampioni gialli della piazzetta che, circondati da un alone di pioggia e salsedine, riuscivano a malapena a rischiarare pochi metri di selciato ridotto a letto di un torrente. L'acqua raccolta dal tetto della chiesa e dalla vicina strada dai tombini intasati si convogliava per naturale pendenza ed innaturale incuria dalla piazzetta verso il mare.
Rosso dialogava fitto come se davanti a lui ci fosse un misterioso interlocutore, che parlava attraverso la sua bocca. Parlava, agitato, guardando un punto preciso del mare, appena oltre la scogliera dove altissimi marosi si frangevano con rabbia e forza immane.
- Tu discendi da Eric, tu appartieni al mare come tutti i suoi figli.
Rosso annuì pensoso, poi scosse la testa
- Un altro mare, un altro tempo, questo mare è dolce, è caldo, questo tempo non appartiene più alle navi dai grandi scudi, i neri drakkar dal drago sulla prora non incutono più il terrore ai popoli delle coste….Ma attenti, là, gli scogli, forza coi remi, la vela, ammainate quella vela che il vento vi trascina …
-Tu hai visto già altri mari, tu eri un Uomo del Nord, i tuoi castelli erano in Irlanda, la più verde delle terre dove approdammo
- L'Irlanda, ricordo, certo, ricordo Clontarf, la battaglia delle asce insanguinate, ed il re Brian che ci scacciò per sempre da quelle terre, e noi che tornammo a battere i mari.
No, non così, remate, remate, il timone, forza su quella barra, vi schianterete! Attenti alle linea degli scogli
- Ecco, vedi che non hai dimenticato. Dopo Clontarf, tu approdasti…. Ricordi? La Normandia e le sue dolci colline di sabbia?
- Certo, fummo potenti anche li ed i nostri guerrieri divennero Cavalieri, e molti andarono in Terrasanta. Poi alcuni, pochi, tornarono. Questa che vedi è la terra che io scelsi. Aspra, votata al mare, così diversa e così uguale alla nostra… anche la gente, dura come la loro, come la nostra terra, ma vera. E marinai, oh si, i migliori che abbiano mai cavalcato queste onde.
- Allora tu che appartieni oramai a questa terra di grandi uomini di mare, non puoi rinnegare né i tuoi avi né lei. La tua nave ha bisogno del suo capitano, tu discendi da Eric, tuoi sono stati i mari del mondo, tuo questo mare che ora ci assale. Vieni, il tuo drakkar non potrà soccombere se tu ci raggiungi. Vieni!
Le ultime parole furono un grido disperato.
C'era bisogno del Capitano, il capitano non poteva restare a terra, a guardare la sua nave infrangersi sugli scogli. Rosso si tolse la cerata e si avviò correndo, giù per la creuza di sassi e mattoni, sollevando schizzi, giù appoggiandosi al muro delle case per non cadere, giù sino alla spiaggia del borgo. Lì si tolse gli stivali, infilò una mano sotto il maglione e strinse nel pugno l'anello di bronzo.
- Rosso, figlio di Eric, torna al suo drakkar.
Intorno a lui solo acqua, a rivoli, a frangenti, dal cielo e dal mare; acqua gelida eppure sensuale, che frusciava, sussurrava, che urlava il suo invito. Rosso prese ad avanzare sulle pietre bagnate, e man mano che procedeva i sassi diventavano ghiaia, prima grossa poi fina, e da ultimo, mentre già le onde accarezzavano i suoi piedi, sabbia, morbida e cedevole. Oltre i frangenti, alla luce di un lampo, una nera testa di drago, o forse era l'ombra frastagliata di uno degli scogli affilati.
Ancora qualche metro, e la carezza della schiuma l'avvolse, come un' amante che solleva il lenzuolo di seta per accogliere finalmente nel suo nudo amplesso chi l'ha desiderata con devozione per tutta una vita.   

Il Lupo
Erano i primi giorni del Gennaio 1918. La neve imbiancava la cittadina di Thiene ai piedi dell'Altopiano di Asiago sul quale l'offensiva di Natale scatenata dall'esercito Austriaco pochi giorni prima era in pieno svolgimento. Il fronte italiano era stato sfondato in più punti e le posizioni sull'Altopiano erano state quasi tutte abbandonate, salvo la linea detta "dei tre monti", Valbella, Col del Rosso e Echele, dove l'esercito si aggrappava con le unghie e con i denti per evitare che agli austriaci si aprisse definitivamente la strada verso la pianura e, presumibilmente, verso la vittoria finale. E la strada restava ancora chiusa, nonostante un succedersi di attacchi e controffensive che aveva reso quei giorni, in tempi normali consacrati alla pace e all'amore, tra i più sanguinosi di quella maledetta guerra. Una conseguenza di quella offensiva era la lunga e disperata teoria dei profughi che abbandonavano l'altopiano, scendendo per Thiene alla ricerca di un posto sicuro dove andare, visto che Asiago e quasi tutti i paesi intorno erano stati bombardati a più riprese e conquistati dal nemico. Anche Il piccolo ospedale da campo del tenente medico Antonio Carbonari era stato trasferito in tutta fretta dalla malga Mandriele, non lontano da Gallio, e riposizionato vicino a Thiene, oltre le ultime case a monte. Lì affluivano per un primo soccorso i feriti e lì il dottore lottava con tutte le sue forze e le sue capacità per alleviarne la sofferenza e strapparne alla morte quanti fosse possibile.
Quel giorno la sofferenza e la morte avevano messo a dura prova il dottore che, dopo venti ore ininterrotte di lavoro, era rientrato nella sua tenda per concedersi un'ora di sonno.
La lanterna mandava un bagliore fioco che sembrava mettere in risalto le ombre all'interno della tenda piuttosto che rischiarare quell'ambiente angusto e disordinato. Il tempo di togliersi il camice lordo di sangue, di lavarsi mani e viso e di buttarsi sfinito sulla branda. Poi il sonno inquieto di un uomo di scienza e di pace stremato nel corpo e ferito nell'animo da quasi tre anni di orrori che si rifiutavano di abbandonare la sua mente persino nel sogno.
Nel bosco silenzioso un uomo ed un ragazzino camminavano lungo un sentiero. Qua e là macchie di neve resistevano nelle zone ombrose. L'uomo, il padre, aveva il fucile da caccia nel cavo del braccio e parlava.
- Tonino, presto troveremo il capriolo. Vedi le tracce di sangue, con quella ferita non potrà andare lontano.
- Papà, perché non lo lasciamo andare, magari non muore.
Al piccolo Antonio non era mai piaciuta la caccia, ma suo padre voleva a tutti i costi trasmettergli la sua passione. Suo padre gli spiegò pazientemente che un cacciatore non lascia mai un'animale ferito, inoltre se non lo avessero finito loro ci avrebbero pensato i lupi e per lui sarebbe stata una morte molto peggiore.
- Tonino, i lupi già lo sanno che c'è una bestia ferita, come sanno che noi siamo qui. Ma non ti preoccupare, non ci attaccheranno. Vedi, i lupi sono animali furbi e intelligenti, non attaccano chi è più forte e hanno imparato che noi siamo più forti di loro - così dicendo l'uomo diede dei colpetti al calcio del fucile e poi la mano scese a dare una ruvida carezza ai capelli del ragazzo.
I due proseguirono per un poco, poi dietro un cespuglio intravvidero una massa scura.
- Ecco, lo abbiamo trovato, vieni.
Aggirarono il cespuglio e lo videro. Ma non era il capriolo, era un uomo insanguinato, il petto squarciato da una ferita. Poi Antonio ne scorse il volto, era quello di un giovane, nemmeno ventenne e lo riconobbe per quel soldato che aveva incontrato due volte la Morte, pochi mesi prima. Restò impietrito, la bocca aperta in un urlo silenzioso mentre qualcuno gli posava una mano sulla spalla e lo scuoteva ripetutamente.
- Signor tenente, mi scusi, si svegli, è successa una brutta cosa - Era il suo attendente, un soldato di quelli anziani, assegnati come attendenti all'ospedale perché inadatti alla trincea. Era entrato di corsa nella sua tenda e lo stava scuotendo gentilmente ma insistentemente.
Il dottore abbandonò quasi con gratitudine quel suo incubo ricorrente. Erano mesi che lo tormentava, mescolando un lontano episodio della sua fanciullezza, quando andando a caccia con suo padre si imbatterono in un uomo assassinato con la lupara, con quanto aveva vissuto di recente non prestando fede al racconto di un soldato ferito che diceva di avere incontrato la Morte, incontrandola davvero in un modo inquietante nel momento in cui essa sembrava sconfitta.
- Si, si, va bene, sono sveglio, cosa c'è?
- Signor tenente, hanno appena portato Maria, la donna del latte, è morta.
Maria era una donna che viveva in un casolare isolato poco più in alto, verso la montagna. Viveva sola, da quando il marito era partito per la guerra e poi era stato dato per disperso durante la ritirata di Caporetto. Ora che il marito non c'era più, perché lei da solida contadina non si faceva illusioni sulla sorte del compagno, divideva il relativo tepore della stalla con le poche mucche cui accudiva e dalle quali ricavava il latte ed il burro. Parte di quel latte appena munto lo metteva in un grosso recipiente che, sostenuto da una rozza imbragatura, si caricava in spalla facendo a piedi mezz'ora di mulattiera sino all'ospedale. Lì lei riceveva poche ma preziose monete che il dottore le dava di tasca propria, sapendo che per i feriti quel latte era una vera benedizione.
"La donna del latte, è morta". Il dottore si ripetè quelle parole, poi quasi per chiedere conferma guardò il volto sconvolto del soldato. Eppure di morti ne aveva oramai visti tanti, ma quella particolare morte evidentemente era diversa da tutte le altre.
.Alzandosi in fretta, il dottor Carbonari rammentò che il giorno prima Maria non si era vista, ma aveva attribuito la cosa alla neve che avrebbe reso difficile il cammino alla donna. Si buttò la mantellina sulle spalle e raggiunse quasi correndo la tenda che fungeva da posto di primo soccorso. Lì trovò già le due infermiere e dei soldati che non conosceva, ma che avevano le mostrine del 4° reparto d'assalto. Il dottore si avvicinò al lettino e non poté fare a meno di notare una espressione strana sul viso delle infermiere, mentre i soldati tenevano gli occhi bassi ed evitavano di guardare verso la forma immobile che vi era distesa. Ma anche il dottore non era preparato a vedere ciò che gli si presentò. La donna indossava soltanto un golfino pesante, di lana grezza, ancora chiazzato dalla neve che aveva iniziato a sciogliersi. Qualcuno aveva pietosamente tirato l'orlo inferiore dell'indumento, sporco di sangue, sino a coprile l'inguine. Le gambe erano nude, le caviglie fasciate con pesanti calze di lana che sporgevano da un paio di vecchi scarponi di foggia maschile. Il volto era tumefatto e la mandibola fratturata, gli occhi erano sbarrati e dalla bocca semichiusa sporgeva la lingua bluastra. Intorno al collo, dei segni scuri indicavano una stretta feroce. Il dottore sollevò l'orlo del golfino e quello che vide gli tolse gli ultimi dubbi facendogli pronunciare una sorda imprecazione. La donna era stata violentata, in modo bestiale, senza alcuna pietà, prima o dopo essere stata percossa selvaggiamente e strangolata. Il dottore chiuse gli occhi sbarrati di Maria, poi la coprì con il lenzuolo. Si rivolse al giovane sottotenente della pattuglia che aveva portato il corpo.
- Dove l'avete trovata?
- Qui vicino, sarà un trecento metri a monte dell'ospedale, dietro un cespuglio sul bordo della strada. Eravamo in marcia per rientrare alle nostre trincee. Uno di noi ha aggirato il cespuglio per fare un bisogno, e l'ha trovata.
- C'erano tracce, qualche altra cosa per capire chi sia stato? E gli altri vestiti, portava sempre una mantella nera, e naturalmente aveva una gonna, le avete viste? -
- Dottore, la poveraccia era coperta dalla neve, tutto era coperto dalla neve, noi abbiamo visto e trovato solo lei, e quello - il sottotenente indicava il bidoncino del latte deposto in un angolo della tenda.
- Va bene, grazie, potete fermarvi qui a scaldarvi, a meno che non dobbiate proseguire
- Grazie signor tenente - l'ufficialetto fece uno stanco saluto - ma dobbiamo rientrare subito al reparto, siamo già in ritardo.
Il dottor Carbonari non era un medico legale, non ne aveva né le specifiche conoscenze né la vocazione. Non pensò neppure per un momento di fare esami più approfonditi, di cercare tracce o indizi per risalire all'assassino. Le cause della morte erano evidenti, la violenza subita altrettanto. Naturalmente avrebbe inoltrato un rapporto al comando. Sapeva già che non sarebbe servito ad altro che a sprecare tempo e carta. Certo, era stato commesso un gravissimo reato, ma in primo luogo non c'era alcuna prova che il colpevole fosse un militare. In secondo luogo, in un momento come quello nessuno avrebbe dedicato tempo e risorse per indagare. Erano giorni nei quali la morte violenta di un civile era un fatto doloroso ma frequente e le emergenze erano altre, con tutti quei profughi ed i problemi che essi portavano. Il dottore cercò di togliersi dalla mente l'immagine di Maria come l'aveva vista appena due giorni prima. Una donna non bella, segnata da anni di lavoro duro e dalla disperazione sulla sorte del marito, eppure forte, sempre pronta ad una parola buona per un ferito o per dare una mano se necessario. Una brava persona in meno, sospirò il dottore, ed un assassino impunito in più, sibilò tra i denti con rabbia. Poi si rivolse all'attendente che era rimasto lì vicino.
- Parisi, non abbiamo modo di tenerla a disposizione per un eventuale indagine, la faccia portare in paese, l'affidi al parroco, almeno avrà un funerale decente.
L'indagine come aveva previsto il dottore non ci fu. Erano passati tre giorni da quell'avvenimento, una violenza ed una morte oramai sbiadite in un tragico mare di violenze e di morti. Dalla sera prima aveva smesso di nevicare ma Il cielo era ancora grigio anche se le nuvole si erano alzate.
I cannoni avevano ripreso il loro canto mortale, incessante. Il rombo scendeva dalle valli, appena ovattato dal manto bianco, ma così forte ed insistente da diventare una specie di sottofondo continuo. Un'altra offensiva era imminente, quell'ossessivo battere le trincee ed i reticolati altro non era che il prologo all'ennesimo tentativo di uno dei due schieramenti di sfondare le linee avversarie, di annientare uomini e cose, di riportare quella vittoria schiacciante che avrebbe potuto portare al collasso della parte avversa. Nell'ospedale c'era un incessante via vai di barellieri. Si cercava di trovare posto ai nuovi arrivati dimettendo o trasferendo i ricoverati trasportabili mentre altri posti venivano recuperati con la morte dei feriti che non avevano potuto essere salvati. Il dottore si divideva senza riposo tra gli interventi di emergenza sui nuovi arrivi e le visite tra le affollate corsie dove il verbo soffrire veniva coniugato in tutti i modi possibili.
Due barellieri portarono un altro ferito. Era un caporale con una lacerazione ad un braccio ed un'altra, molto più grave, al petto. Il dottore stava cercando di capire quali fossero esattamente le condizioni di quell'uomo quando lo sentì irrigidirsi, poi dalla sua bocca uscì un rantolo frammezzato da alcune parole appena intelligibili - …ho peccato…la giustizia di Dio…ho ucciso…
Furono le sue ultime parole. Il dottore si tolse gli occhiali e li lasciò ricadere sul camice, trattenuti dalla loro catenella.
- In molti hanno ucciso in questi giorni, e qualcuno ha ucciso anche te, pover'uomo.
Poi con un gesto reso meccanico dall'abitudine, cercò la piastrina per aggiungerla alle altre che sarebbero state oggetto del suo rapporto giornaliero sulle perdite. Ma non la trovò, al collo solo un segno profondo, come se la catenella fosse stata strappata con forza. Guardò le mostrine, ma anche quelle erano state strappate.
- Chi era, dove lo avete raccolto? - chiese il dottore ai due barellieri che si stavano rifocillando con del pallido the caldo.
- Non lo sappiamo, lo stavano portando giù da Valbella alcuni soldati, credo del 151° Sassari, ma non ne sono sicuro, ci hanno raccomandato di fare di tutto per salvarlo. Pare che quel caporale, da solo, sia riuscito ad arrivare ad una trincea austriaca neutralizzando un nido di mitragliatrici, ha salvato così molti suoi compagni. Poi si è gettato lungo la trincea alla ricerca di altri nemici, ma è stato ferito. Insomma, ci hanno detto che è un eroe.
Il dottore guardò ancora il volto del caporale, un volto devastato dalla sofferenza.
- Già, un altro eroe morto ed un'altra croce senza nome; che follia, povera umanità… ragazzi, non c'è più nulla che io possa fare per lui, portatelo laggiù, in quella tenda, con gli altri poveri eroi.
Il pomeriggio del giorno dopo all'ospedale arrivò una colonna di muli per portare i rifornimenti, i camion avevano ancora delle difficoltà con la neve. Tra i militari che avevano raggiunto l'ospedale, il dottore riconobbe con piacere il suo amico, il cappellano Don Fiorani.
- Ciao Giovanni, come stai? - I due uomini si strinsero la mano con calore.
- Meglio di te senz'altro - rispose il cappellano - Ho temuto per te quando ho sentito che avevamo perso Gallio, mi hanno detto che hai dovuto dartela a gambe, sono felice che tu ce l'abbia fatta -
L'amicizia tra il dottore ed il cappellano si era cementata in quei mesi di frequentazioni saltuarie ma piacevoli, poi l'inquietante vicenda che qualche tempo prima aveva coinvolto profondamente entrambi aveva rivelato una forte affinità di carattere e di visione delle cose tra quei due uomini di origini e cultura così diverse.
La sera il dottore riuscì a liberarsi per l'ora di cena, così come il cappellano che aveva terminato il suo giro tra i feriti, confortando, confessando, benedicendo chi non avrebbe visto l'alba del giorno dopo e da ultimo chi già si trovava nell'obitorio. Cenarono nella tenda del dottore, un pasto frugale che l'attendente servì in modo maldestro come al solito, ma era caldo e nobilitato da una bottiglia di vino che don Fiorani aveva portato.
- Giovanni, sei un grande estimatore di grappe, ma il vino, perd…- Il dottore si fermò un istante prima di finire quella mezza bestemmia - perdiana, volevo dire, hai portato un vino eccellente, un Torcolato di queste parti, ma accidenti, non sapevi che era dolce? Così lo assassiniamo. Ma la bottiglia finì lo stesso, poi il dottore tirò fuori l'immancabile grappa.
Don Fiorani alzò il bicchiere:
- A questo punto ci vorrebbe un brindisi, di solito si fa al Re, noi a chi lo facciamo, Antonio?-
Il dottore si tormentò il pizzetto per qualche secondo, poi alzò il bicchiere a sua volta:
- Io lo farò al nostro Re, e anche al Kaiser, ma solo quando decideranno di porre fine a questo massacro indegno dell'umanità. Per ora propongo di farlo a quei poveri ragazzi lassù sui monti, che stanno morendo di freddo e si stanno uccidendo. A quei ragazzi, qualunque divisa portino!
- Caro Antonio, mi associo completamente, ma non farti sentire a dire queste cose fuori da questa tenda, non vorrei veder fucilare un amico come te. A quei ragazzi.
- A proposito di cose indegne dell'umanità - riprese il cappellano dopo aver bevuto - in paese si parla di quella povera donna violentata e uccisa qui vicino, ieri le hanno fatto il funerale. I lupi sono tra noi, è la guerra che porta l'abitudine alla morte e li scatena.
- Oh no, non mi parlare di lupi anche tu, tormentano i miei sonni da mesi - replicò il dottore - Comunque ti sbagli. Io i lupi li conosco, lì da noi sulla Sila ci sono. Quando andiamo sul monte a volte li sentiamo, soprattutto vediamo cosa fanno. Certo che uccidono, ma per sfamarsi, per sopravvivere loro ed i loro figli. Ma non sono crudeli, non uccidono per sadismo, soprattutto non si uccidono tra loro e non azzannano mai le loro femmine. "Homo homini lupus", già lo diceva Plauto duecento anni prima della nascita di nostro Signore. Qui ci sono solo gli uomini e sono mille volte più pericolosi di qualsiasi belva.
Don Fiorani assentì assaporando con visibile piacere la grappa, poi si fece serio, fissò il suo amico per qualche secondo, poi abbassò gli occhi e sussurrò in modo appena udibile.
- Lo dico con cognizione di causa; sai Antonio, io ho incontrato "quel" lupo.
Il dottore rimase un attimo incerto, non era sicuro di aver capito.
- Vuoi dirmi che sai chi ha commesso quell'azione orribile? E come puoi… - all'improvviso la verità si fece strada - vuoi dire che…lui si è confessato, ha confessato il suo delitto a te?
- Si Antonio, proprio così, lui è venuto da me il giorno dopo il fatto, mi ha confessato tutto, naturalmente sai che non mi devi chiedere cose che non potrei dire nemmeno sotto tortura.
Antonio capiva benissimo. Anche per lui la fede aveva un grande significato e sapeva che Don Fiorani, pur con i suoi limiti umani, era un sacerdote dalla fede saldissima, quindi una trasgressione al segreto del confessionale era fuori discussione.
- Penso che almeno tu mi possa dire perché l'ha fatto e se credi che lo rifarà.
- Sì, certo, posso fare anche di più. Ti posso raccontare una storia, senza riferimenti naturalmente, nulla che possa farti arrivare alla identità del peccatore. Ti posso anche dire che la storia ha un finale, ma non so davvero dirti se sia un finale bello o brutto. Dammi un altro bicchiere di quella grappa, e prendine uno anche tu, ci servirà.
Il dottore versò una generosa dose del liquore nei bicchieri e don Fiorani riprese a parlare con tono pacato.
- Allora, questo persona la chiamerò il lupo, permettimelo anche se vedo che tu hai un alto concetto dei lupi, è un militare, questo non è un segreto, non sarebbe venuto da me, cappellano militare, con tutti i bravi curati che ci sono in questi paesi. Viene da una grande città, lui ci viveva da sempre e ci lavorava. Ha persino una certa cultura. Questo lupo però aveva dei problemi. Era timido e introverso, non riusciva a fare amicizia né con gli uomini né con le donne. Così aveva preso l'abitudine di andare con le prostitute. Una sera una di quelle povere donne lo fa arrabbiare. Il lupo aveva anche qualche problema col sesso. Così lei lo prende in giro e lui la picchia, la picchia forte, fino a farla svenire. Si accorge per la prima volta che picchiare una donna gli piace e lo eccita. E così la violenta.
- Quindi mi dici che questa persona è un violento, un vero delinquente recidivo -
- Oh si, un violento, anche un recidivo, ma io credo che sia un malato, non un delinquente vero e proprio, ma non voglio invadere il tuo campo… lasciami proseguire. Lo fà altre tre volte, sempre nella sua città. Dopo la prima volta lo fà senza particolari provocazioni. Ha capito che gli piace, quindi le picchia selvaggiamente, poi le violenta. Ma non aveva ucciso, non ancora.
- Ma possibile che nessuno lo abbia fermato, la polizia?
Un sorriso amaro comparve per un attimo sul viso del sacerdote.
- La polizia, amico mio, quando picchiano e violentano una prostituta non muove un dito. Anche loro pensano, come molti, che dare qualche schiaffo e violentare una prostituta non sia in fondo un reato così grave, hanno altre cose più importanti da fare. Cosa vuoi, la lezione di Gesù sulla Maddalena non viene compresa così facilmente. Oppure non la si vuole comprendere. Comunque sia, all'inizio della guerra il lupo viene chiamato militare ed evidentemente questa nuova vita, con i suoi disagi ed i suoi pericoli, lo distoglie da altri pensieri, almeno sino all'altro giorno.
- Già, l'altro giorno, cosa è successo, te lo ha raccontato?
- Certo, mi sembrava veramente sconvolto. Ecco, lui era da solo, aveva avuto un permesso di poche ore perché, vedi caso, voleva venire qui, al tuo ospedale
- Qui, e perché?
- Perché qui aveva un amico, l'unico che si era fatto con quel suo caratteraccio chiuso. Questo amico era stato ferito e lo avevano portato nel tuo ospedale. Ma quando è arrivato, qualcuno gli ha detto che l'amico era morto. Lui era sconvolto ed arrabbiato col mondo intero; capisci, l'unico amico che avesse mai avuto. Così, in quello stato d'animo, si è avviato per rientrare al suo reparto ma sulla strada ha incontrato quella povera donna. Lui all'inizio non voleva ucciderla. Però gli era scattata quella molla che lo spingeva a fare male. La ha aggredita e picchiata. Poi la sua follia ha fatto un passo avanti. Troppa morte attorno a lui, aveva visto decine, centinaia di morti. Lui aveva anche già ucciso da soldato, e gli avevano fatto i complimenti, gli avevano detto che era stato bravo. Persino il suo amico era morto. Perché non avrebbe dovuto morire anche quella donna? Così ha stretto quel collo sino ad ucciderla…il resto lo sai…brutalità e violenza. Ma lui, il lupo, quando è venuto da me, non era più la stessa persona. Era pentito, era davvero pentito e voleva che io l'aiutassi. Aveva paura di rifarlo e non voleva. Ma io cosa potevo fare? Gli ho negato l'assoluzione e gli ho detto che per averla avrebbe dovuto completare il suo percorso di pentimento, cioè doveva costituirsi, confessare tutto e lasciare che la giustizia umana facesse il suo corso. Solo così poteva sperare nella misericordia di Dio.
- E lui cosa ha detto, lo ha fatto? Lo farà?
Il sacerdote sorrise tristemente.
- No non lo ha fatto e non lo farà. Ha scelto un'altra strada.
Don Fiorani estrasse da una tasca una lettera spiegazzata.
- Questa è sua, ha chiesto ad un soldato che tornava a casa per una licenza di consegnarmela, l'ho avuta questa mattina. Te la leggo.
"Reverendo padre,
Il peso che porto e che voi non avete potuto togliermi dall'anima mi opprime più che mai. Voi mi avete consigliato di pagare il mio debito con la giustizia umana prima di affrontare quella definitiva e irrevocabile di Dio. Purtroppo l'ultimo terribile crimine l'ho commesso da soldato. Per questo genere di cose la giustizia umana ha una sola risposta: il plotone d'esecuzione. La mia sarebbe una morte inutile, non servirebbe a me, che già sono morto nell'anima e non servirebbe alla mia patria, che vi prego di credere io amo. Infine io non voglio dare un rimorso in più a quei poveri ragazzi che dovrebbero togliermi la vita. Io una volta ho fatto parte mio malgrado di uno di quei plotoni e ho sparato ad un ragazzo di vent'anni. Ancora oggi sento nelle orecchie le sue grida, ha invocato sua madre sino a quando le pallottole gli hanno spaccato il cuore.
No, non vi meravigliate che un assassino quale io sono abbia provato pena e rimorso nell'uccidere. Quella volta non fu per mia volontà, non fu perché in me si era risvegliata la belva, ne fui obbligato. Quindi Padre, ho deciso di affrontare direttamente la più alta Giustizia, quella di Dio, sperando nella sua immensa misericordia.
Oggi ci sarà un assalto. Probabilmente morirei in qualsiasi caso, è un assalto senza speranza. Ma io la morte la cercherò con tutte le forze, a costo di gettarmi direttamente sulle baionette nemiche. Mi toglierò la piastrina, mi merito una tomba senza nome, che a nessuno venga in mente magari di darmi una medaglia. Il mio non sarà eroismo, ma semplice espiazione.
Vi prego di ricordarmi nelle vostre preghiere, e di ricordare sopratutto quella povera donna della quale sono stato il più spietato dei carnefici".
La grappa era finita, e anche la storia era finita. Don Fiorani ripiegò pensosamente la lettera
- Non so se abbia messo in pratica il suo proposito, non credo che lo saprò mai a meno che non torni da me, ma non credo che lo farà.
Il dottore si alzò lentamente, staccò la lanterna dal suo gancio e prese il mantello.
- Quando oggi hai benedetto i corpi nella tenda dell'obitorio, li hai osservati bene, tutti quanti?
Don Fiorani si alzò con lo sguardo interrogativo, poi prese a sua volta il mantello.
- Veramente non lo faccio mai, la benedizione è rivolta a tutti ed a nessuno in particolare, i defunti sono tutti uguali davanti a Dio, perchè me lo chiedi?
Il dottore uscì nell'aria fredda della notte, con la lanterna in mano, e si diresse verso la tenda obitorio. Camminando appoggiò un braccio sulla spalla di Don Fiorani che lo aveva raggiunto.
- Amico mio, il destino a volte si compie in modi strani. Il nostro lupo ha raggiunto il suo scopo. Credo proprio che sia lì, che ti aspetta. Prendi tu la lanterna. Io non entrerò con te, devo rispettare il tuo segreto, ma sono certo che se lo cerchi lo riconoscerai. Ha trovato la sua morte eroica e anonima, probabilmente salvando molte altre vite. Chissà cosa peserà di più nel verdetto finale. A quest'ora certamente lo ha già avuto, dall'unico tribunale che lo può giudicare.
Aveva ripreso a nevicare, sottile sottile. Mentre Don Fiorani si tratteneva nella tenda suscitando tenui ombre sui teli, il dottor Carbonari rimase fuori al buio, ad ascoltare il vento che scendeva dalla valle e ad assaporare l'odore della neve. Un pensiero attraversò la sua mente e lo riempì di nostalgia di altri luoghi e di altri tempi. Se non fosse stato per il rombo cupo delle cannonate che di tanto in tanto rompeva il silenzio, avrebbe potuto essere nella sua terra, dove la Sila si addolcisce verso il mare ma certe notti di inverno, se ascoltava attentamente, poteva udire lontano gli ululati del lupo.    

Il prestito
Antonio Carbonari era un uomo del sud, di quella parte della Calabria dove la Sila degrada verso lo Ionio tra boschi ed improvvise pianure, concedendo una terra fertile ma dura, sassosa e disseminata di balze rocciose. Lontano, ma sempre presente, il mare, generoso solo per coloro che sono disposti a rischiarne i capricci e le furie improvvise.
Antonio, dopo la laurea in medicina, aveva fatto il medico condotto con passione e dedizione, ottenendo stima e gratitudine ma non denaro, del quale fortunatamente non aveva un gran bisogno, né una propria famiglia che viceversa avrebbe gradito farsi ma per la quale non aveva avuto il tempo di provvedere. Così lo scoppio della guerra, nel Maggio del 1915, trovò il trentacinquenne Antonio ancora scapolo, libero da responsabilità famigliari e deciso a dare il suo contributo. Si era presentato volontario, lui che avrebbe avuto diritto all'esenzione senza che alcuna ombra potesse sfiorare il suo onore. Aveva informato con semplicità sua madre ed i suoi pazienti che né la Patria né l'odio per qualche nemico lo spingeva lontano da loro, ma solo il suo senso del servizio. Sapeva che suo padre, troppo presto, come si diceva allora, passato a miglior vita, lo avrebbe approvato, dotato com'era di un forte senso dell' onore e del dovere.
Da quasi due anni il tenente medico Carbonari si dedicava con la solita passione e dedizione ad un ospedale da campo, che si spostava di frequente seguendo l' andamento del fronte. In quel Giugno del 1917 si trovava nei pressi della Malga Mandriele, sull' altopiano di Asiago proprio a ridosso dell'Ortigara, quindi nelle immediate retrovie del teatro di battaglie tanto apportatrici di morte quanto sostanzialmente inutili.
- Dottore, questa volta lo ha addirittura messo in versi!
L'infermiera entrò nella tenda che fungeva da studio e camera da letto del dottore. Sventolava un foglio di quaderno sgualcito, sul quale si vedeva una scrittura a matita dai caratteri grandi e tremolanti, con molte cancellature.
- Di cosa state parlando signorina? Chi ha messo in versi cosai?.
La voce del dottore era stanca e leggermente irritata. La notte era stata un incubo e la giornata si annunciava altrettanto pesante. L'infermiera era entrata vociando proprio mentre lui era riuscito a chiudere gli occhi in un tentativo di prendere sonno
- Scusatemi dottore, ma parlo del soldato semplice Obialero, quel ragazzo amputato alla gamba sinistra sei giorni fa, il 13 mi pare. Il suo incubo ricorrente, lo ha messo in versi, ha scritto una poesia!
Il dottor Carbonari sospirò, prese in mano il foglio, alzò la luce della lampada a petrolio che spargeva un chiarore giallastro, poi si mise sul naso gli occhialini che teneva sempre appesi al collo assieme allo stetoscopio e cominciò a leggere a voce alta.

Lassù all' 'Agnella non fu battaglia
col nemico crudele ed odiato.
Fu'n macello, assurdo e spietato.
Un Dio abbietto la folgore scaglia

e le menti ottunde. Tuona la mitraglia,
urla'l tenente - avanti, soldato
se ti fermi sarai fucilato-
Io correvo tra sangue e sterpaglia

ma venni colpito, caddi tra sterpi,
occhi aperti sul cielo fumoso.
Vidi Morte e le dissi -mi scerpi-

Lei si volse a guardami negli occhi
Non vuoto teschio, un volto annoso
e dolente, -oh voi, uomini sciocchi

troppe vite falciai, or m'arresto
la tua or ti rendo, ma torno presto -

Il dottore aveva sempre amato la letteratura ed era un uomo dalle molte e svariate letture
- Guarda guarda - disse con un certo interesse - un sonetto caudato. Il soldatino sa di poesia! C'è persino una citazione di Dante, con quel "mi scerpi", Inferno, canto tredicesimo mi sembra. Certo, un poco scolastico, il ritmo difetta, ma insomma, il ragazzo deve avere studiato -
L'infermiera era rimasta in silenzio e sembrava commossa.
-Dottore, il ragazzo studiava al liceo, a Torino, me lo ha detto lui ieri. Mi ha anche confidato che per venire a combattere falsificò la firma di suo padre. Quando si presentò volontario non aveva ancora compiuto i diciotto anni. Li ha fatti il mese scorso.
- Ah si, uno del '99, uno di quei poveri ragazzini idealisti - il dottore scosse il capo - ma cosa c'è di preoccupante, oltre alla metrica incerta di questo sonetto?
L'infermiera sembrava offesa dall'indifferenza del dottore.
- Non vedete? Non fa che parlare della morte. Dice che verrà presto a prenderlo, che la sua vita è solo in prestito. Lo dice a tutti quelli che gli stanno vicino. Il morale degli altri pazienti ne risente. Signor dottore, cosa possiamo fare?
Il dottore alzò le spalle in un gesto di impotenza, congedando l'infermiera con un cenno stanco della mano.
- Andate, ci sono molti altri ragazzi che hanno bisogno di voi, queste sono sciocchezze, comunque ci penserò.
Uscita l'infermiera, il dottore riprese il foglietto e batté le nocche su un verso. Pensava ad alta voce, come gli capitava sempre più spesso.
- "Un macello assurdo", figuriamoci. Sì, mi hanno raccontato della battaglia al colle dell' Agnella. E' stato un massacro davvero, in poche ore abbiamo perso quasi cinquemila uomini, ma non sono cose che si possono scrivere, magari nelle lettere a casa. Poi l'ufficiale cui allude, quello che minaccia di fucilazione chi si ferma, dev'essere quel tenente Calvi, del battaglione Bassano. Era lui al comando durante l'assalto al colle. Poveraccio, lo hanno portato qui che era già morto, una palla nel cuore. Aveva la medaglia di bronzo e pare che ora lo abbiano proposto per quella d'oro. Un vero eroe. Ed ecco la Morte, la Morte che si impietosisce e gli lascia qualche giorno ancora da vivere. E perchè avrebbe dovuto? Perché lui e non un altro povero ragazzo….
Il dottore appallottolò il foglio di quaderno e lo buttò in un angolo saturo di cartacce, bende usate e bottigliette vuote.
- Se dovesse capitare tra le mani di qualche ufficialetto zelante e carogna, il mio povero soldatino potrebbe finire addirittura alla Corte Marziale, disfattismo, mancanza di rispetto verso un ufficiale…roba da fucilazione. Io lo salvo, beh diciamo che ho aiutato Dio a salvarlo, e qualcuno me lo ammazza. Neanche a parlarne. Però l'infermiera ha ragione, per il morale degli altri può diventare un problema. Sarà opportuno che ci parli un poco io, con il soldatino.
Il dottore si mise a frugare tra le carte sparse sul rozzo tavolo di legno, alla ricerca dei pochi appunti che aveva avuto il tempo di scrivere. Si ricordava bene di quel ragazzo, ma voleva essere certo dei fatti. Qualcosa di abbastanza singolare era effettivamente accaduto. Quando due barellieri avevano portato quel soldato regnava una confusione tremenda. Il suo ospedale, come altri piccoli ospedali da campo nei dintorni, era traboccante di feriti e moribondi. C'era una pausa nella battaglia furibonda sull'Ortigara e, come tante altre volte, non c'erano state ne vittorie ne sconfitte, solo posizioni prese, poi riperse, poi prese e abbandonate per l'impossibilità di difenderle. Il tutto a prezzo di migliaia di vite italiane, austriache, ungheresi, tedesche. Il dottore aveva guardato la ferita del soldato che non dava segni di vita: La gamba destra era stata quasi strappata al di sopra del ginocchio. La vena femorale tranciata aveva causato un'imponente emorragia che tuttavia, per qualche ragione, si era arrestata. Probabilmente perchè il cuore aveva smesso di pompare. Calcolando che dovevano essere passate ore dal momento del ferimento a quando i portaferiti erano riusciti a scendere a valle, quel soldato non poteva essere vivo. Comunque per scrupolo professionale lo aveva auscultato con lo stetoscopio mentre gli controllava le pupille. Incredibilmente c'erano ancora dei segni vitali. Aveva dato ordine di mettere immediatamente il poveretto sul tavolo operatorio, poi aveva fatto del suo meglio, completando l'inevitabile amputazione, suturando e ripulendo. Quindi aveva affidato il ragazzo a Dio ed alla fibra incredibilmente forte della quale aveva dato prova.
Fosse stato l'intervento divino, la fortuna o appunto il fisico robusto, nei giorni seguenti il ragazzo aveva fatto enormi progressi. Il rischio della cancrena era scongiurato, la ferita era sana e asciutta, la febbre scomparsa. Poi il soldato si era risvegliato e da quel momento erano iniziati ad arrivare i rapporti allarmati dell'infermiera.
Il ragazzo continuava a migliorare fisicamente. Sembrava avviato ad una rapida e insperata guarigione, seppure, come ovvio, le conseguenze di quel ferimento sarebbero rimaste nella sua vita per sempre. Ma intristiva, parlava sempre del suo incontro con la Morte, dell' avere in prestito ogni ora che stava vivendo e che presto, molto presto, la Morte sarebbe tornata a pretendere indietro ciò che gli aveva prestato. Fino alla poesia di quel pomeriggio. Il dottore decise che la mattina dopo, prima ancora del consueto giro tra i pazienti, avrebbe parlato col ragazzo.
L'indomani, alle sei precise, il dottore era al capezzale del soldato. Lo osservò per qualche minuto. Dormiva di un sonno inquieto, ogni tanto atteggiava le labbra come per urlare, poi si quietava, ma le mani erano contratte, le braccia rigide, il volto sudato. Il dottore lo scosse dolcemente e lo svegliò. - Buongiorno, soldato, come ti senti oggi? -
-Molto meglio dottore, grazie - rispose educatamente. Ma lo sguardo era quello di una preda inseguita da un carnivoro
-Allora, soldato, devi finirla di spaventare i tuoi compagni con queste storie sulla morte. Certo, puoi dire che l'hai vista in faccia, ma è solo una figura retorica, hai avuto un trauma tremendo. Per la verità non capisco come tu sia sopravvissuto. Ma sei vivo e sei fuori pericolo, domani ti spedisco ad un vero ospedale, a Milano, lontano da questo inferno -
Il ragazzo ascoltava senza replicare, lo sguardo perso nel vuoto. Poi riprese a parlare con un tono piano, incolore.
-Vedete signore, io ero lì con la gamba a pezzi e la vita che mi stava uscendo dalle vene, lo sentivo che stavo per morire. Mi sono messo a piangere. Ma non per il dolore, quello non c'era più, e nemmeno per la paura. Piangevo perché ero andato via di casa senza chiedere il permesso di mio padre per arruolarmi, ero in pratica fuggito senza salutare né lui né mia madre. Io sono figlio unico, loro mi adoravano ed io li ho ripagati scappando come un ladro. Ecco, non volevo morire così, volevo almeno scrivere ai miei genitori, chiedere perdono, salutarli. Poi l'ho vista. Era una vecchia, alta, vestita di nero. Mi si è inginocchiata vicino. Era bella, un volto fiero, degli occhi penetranti ma con un' espressione stanca, dolce e severa insieme. Mi ha accarezzato la fronte e mi ha detto che quel giorno ne aveva dovuto raccogliere già troppi di ragazzi come me. Aveva ascoltato il mio animo e mi avrebbe dato qualche giorno ancora, per poter dire addio ai miei cari, ma poi sarebbe tornata, doveva tornare. Ho sentito ancora la sua mano su di me, poi…poi mi sono svegliato qui.
- Basta! Smetti di dire sciocchezze!- Il dottore era veramente irritato - tra un paio di mesi, forse anche prima, tornerai a casa. Per te la guerra è finita. Potrai riprendere i tuoi studi, magari diventerai un letterato, forse un poeta…sembra che un po' di stoffa tu l' abbia, vero?.
Finalmente ci fu un guizzo negli occhi del ragazzo
-Grazie per tutto quello che avete fatto per me, dottore, sì, è vero, volevo fare il giornalista, mi preparavo, studiavo greco e latino, studiavo la storia…ma non credo che diventerò qualsiasi cosa, non ne avrò il tempo. Però una cosa l'ho scritta.
Il ragazzo tirò fuori un foglio piegato.
-Qui c'è la lettera per i miei genitori. Gli spiego tutto e chiedo il loro perdono. L'indirizzo è scritto sul retro. Promettetemi di spedirla voi, ve ne prego, è l'unica ragione per la quale sono ancora vivo.
-Ascolta, soldato. Tu hai avuto una grande fortuna, per quello che mi riguarda potrai arrivare a cent'anni, se la smetti di dire corbellerie. Fallo per te, o almeno per i tuoi compagni qui vicino: smetti di parlare di morte, smetti per sempre. L'hai scampata bella, devi pensare al futuro. Ora vado a metterti in lista per il trasferimento di domani. Ripeto, basta parlare di morte, è un ordine, sono stato chiaro?.
Sul volto del ragazzo si dipinse un' espressione di tale disperazione e delusione che il dottore quasi si pentì di quello che aveva detto. La mano del soldato era ancora lì, tesa con la lettera in mano, come ad implorare.
- Va bene, te la spedisco io questa lettera, ma ne aggiungerò una di mio pugno ai tuoi genitori per rassicurarli, dirò loro che l'unico tuo problema, oltre naturalmente alla perdita della gamba, è questa ossessione, ma che col tempo ti passerà. Dammela.
Senza più voltarsi, il dottore se ne andò, mettendo il foglio nella tasca del camice.

Quella sera il dottore aveva visite. Era passato da lui padre Giovanni Fiorani, un cappellano militare del quale era divenuto amico in quei mesi trascorsi sull' altopiano di Asiago. Padre Fiorani era una persona di poche parole e dalla grande fede. Genovese, non si peritava di farsi scappare qualche "belin" nei momenti nei quali, diceva lui, ci voleva proprio. Anche ad un bicchiere di acquavite non sapeva dire di no. - Iddio di questi tempi è impegnato in ben altre cose, alle sciocchezze che dice e fa questo suo umile servo non ha tempo di badare - diceva al dottore quando riuscivano ad avere un poco di tempo a disposizione per scambiare quattro chiacchiere. In quelle occasioni non mancava mai una bottiglia di acquavite sul tavolino della tenda.
Il dottore aveva finito da poco di scrivere delle lettere che non avrebbe mai voluto scrivere, tranne una. Dopo la comunicazione della morte di figli o mariti, oramai le faceva tutte uguali, a memoria, aveva scritto alla famiglia Obialero dando buone notizie, se si poteva considerare buona la notizia che l'unico figlio sarebbe rimasto invalido per tutta la vita, ma era vivo e sarebbe presto tornato a casa. Poi aveva riposto la lettera assieme a quella del ragazzo. Avrebbe spedito tutto il giorno dopo, quando sarebbe arrivato da Asiago il camion della posta e dei rifornimenti.
- Giovanni, dimmi, perché Dio permette tutto questo e non ci manda per esempio un nuovo diluvio per fermarci? La mia fede è stata messa troppe volte a dura prova in questi ultimi mesi, non riesco a trovare un senso in quello che stiamo facendo; non tu o io, intendimi, ma noi come genere umano voglio dire; sopratutto non riesco a vedere la volontà di Dio dietro a questa carneficina.
Il cappellano si prese tutto il tempo di un buona tazza di acquavite sorseggiata con calma prima di rispondere
- Anche la guerra è parte del disegno di Dio. E' nella Bibbia, nell' Ecclesiaste:

"Per ogni cosa c'è il suo momento, il suo tempo per ogni faccenda sotto il cielo.
C'è un tempo per nascere e un tempo per morire,
un tempo per piantare e un tempo per sradicare le piante,
un tempo per uccidere e un tempo per guarire"

Caro Antonio, Dio tra tutti i doni che ci ha fatto, ci ha anche dato la libertà. La libertà di scegliere tra Lui, il Bene, ed il Demonio, cioè il male. Ecco, direi che in questi tempi gli uomini stanno seguendo più il Demonio che Dio. E per il Demonio, questo è un tempo per uccidere. Bada, il Demonio esiste davvero, ha un corpo e vive tra noi.
Il dottore ascoltava con attenzione, tormentando con una mano il suo pizzetto nero, come era solito fare quando pensava.
- Il Demonio esiste? Quindi anche gli Angeli e la Morte, esistono dunque tutti, non sono solamente la personificazione delle nostre buone pulsioni e delle nostre paure?-
- Il Demonio e gli Angeli certamente si, in molti hanno visto l'uno e gli altri. La Morte, ecco, non saprei, no, penso di no, la Morte come essere fisico forse non esiste.
- Vedi Giovanni, uno dei miei feriti sostiene di avere visto la Morte in persona -
Il dottore riassunse la vicenda di Obialero al cappellano che lo ascoltò con estrema attenzione. Alla fine don Fiorani appariva pensieroso.
- Sai Antonio, noi non lo possiamo escludere. Ti ho detto che io sarei portato a dire "no", però, pensandoci, se esistono gli Angeli, ed ognuno di loro ha una sua funzione nelle sfere celesti, allora può essere che la Morte sia null'altro che un angelo con un suo compito particolare. Credo comunque che potremmo stare a parlarne tutta la notte ma non giungeremmo ad alcuna conclusione. Ora ti devo lasciare, ho il caporale che mi aspetta fuori con l'automobile per riportarmi nei miei appartamenti….eh, dovresti venire a trovarmi qualche volta nel mio buco a Gallio, così forse non ti lamenteresti della tua bella tenda. Buona notte Antonio, che Dio ti benedica.
Una piccola benedizione effettivamente sembrò arrivare, la mattina dopo. Il vento da nord-est era rinfrescato ed aveva portato con sé una pioggia sottile ed insistente. Già un centinaio di metri più in alto dell'ospedale le nubi erano nebbia fitta per chi si trovava nelle trincee sul monte. Di fatto nulla di importante poteva accadere in quelle condizioni, se non qualche scaramuccia di pattuglie, mentre la visibilità scarsissima rendeva inutili i tiri d'artiglieria, che infatti si limitava a degli isolati tiri d'obice sparati a casaccio, più per tenere il nemico in apprensione che per fare veramente dei danni.
L'autocarro 15-ter era fermo nel fango che nel colore rossastro rivelava la sostanza che oramai permeava il terreno all'interno e nelle vicinanze dell'ospedale: sangue. I barellieri caricarono i feriti da trasferire a Thiene da dove un treno avrebbe completato il lungo trasferimento verso un ospedale di Milano. Il soldato Obialero venne fatto salire per ultimo, poi il telone con una grossa croce rossa venne chiuso alla meglio dall'autista. Il malandato veicolo si avviò ed in pochi minuti sparì scoppiettando giù per la pista fangosa.
Sulla stessa pista, dopo un paio d'ore, un altro autocarro risalì faticosamente sino all' ospedale. Portava i rifornimenti e la posta. Il dottore uscì della tenda ed andò incontro al camion. Ne scese un sergente che si avvicinò al dottore, affondando nel fango.
- Buon giorno dottore - disse accennando appena al saluto - ho cattive notizie, purtroppo -
- Cosa è successo, sergente?
Il sergente trovò finalmente una piccola zona pietrosa dove fermarsi senza affondare in quella melma rossastra.
- Sapete, il camion dei vostri feriti, quello che è partito da qui un due ore fa?
Il viso del dottore si fece pallido.
- Era arrivato a pochi distanza da Gallio, ma un colpo da 305 mal diretto, non si sa neppure se fosse nostro o degli austriaci, gli è esploso dietro, a pochi metri. Sulle prime sembrava che fossero tutti salvi, poi abbiamo trovato un poveraccio con una scheggia dritta nel cuore. Pensate, tutti gli altri senza un graffio, lui morto stecchito.
Un presentimento colpì il dottore come un pugno.
- Chi è la vittima?- chiese con un filo di voce.
- Ho qui la sua piastrina, vediamo, ah sì, soldato semplice Vittorio Obialero. Il sergente porse la piastrina sporca di sangue al dottore, che la prese, impietrito. Ma il sergente non aveva finito il suo racconto.
- E' stata una vera fatalità. Hanno colpito il camion solo perché si era fermato. Una donna, una vecchia, forse una vedova, forse una contadina di qui, così dice il caporale autista, certo è che era tutta vestita di nero, ha gridato di fermarsi perché voleva regalare un fiore ai feriti. Quello si è impietosito e si è fermato. Proprio allora è arrivato il colpo. Pensate dottore, la povera vecchia doveva essere proprio dove è caduto il proiettile, di lei nel cratere dell' esplosione non si è trovato più niente, come se non fosse mai esistita.
Il dottore pregò il sergente di attenderlo, aveva bisogno essere portato a Gallio. Sotto la pioggia si diresse alla sua tenda, prese dal cassetto la lettera che aveva scritto la sera prima per i genitori del soldato. La rilesse, quindi la strappò con rabbia. Mise la piastrina assieme a tutte le altre poi indossò la mantellina, prese la bottiglia della grappa ed uscì. Aveva bisogno di parlare con Don Fiorani, forse insieme avrebbero capito. E se no, era la volta che si sarebbero ubriacati.   

Le catene di Principessa
Principessa, così ti chiamava tuo padre, e ti narrava dolci fiabe dove tutte le Principesse pativano mille prove, tra perfide matrigne, streghe dal naso adunco ed orchi feroci. Ma in ogni storia, quando tutto sembrava perduto, alla fine arrivava il Principe sul bianco destriero per farle vivere per sempre felici e contente in un lontano castello fatato.
Le tue prove iniziarono presto, con una strega cattiva, così la chiamava tua mamma, che si portò via tuo padre usando per filtro d'amore l'irresistibile incanto di un corpo giovane e fresco. La seconda prova arrivò più tardi, quando l' Orco cattivo non prese te, giovinetta, ma tua madre, rapita in un castello di vetro e acciaio popolato da gnomi impotenti vestiti di bianco chiamati "dottori". Lei fuggì dal maniero delle sofferenze non in una carrozza fatata, trainata da magici topini ma su un lugubre carro nero senza cavalli.
Poi arrivò un principe, o forse anche lui era un Orco travestito, di certo era un fabbro sapiente. Veniva da te celando i suoi strumenti in un mazzo di fiori di campo. Li aveva colti - diceva - aspettando che i raggi della luna si rifrangessero sulle gocce di rugiada, per imprigionarne l'algido lume; i verdi gambi avvolti nella serica tela di un ragno, sapientemente disposti in un mazzo appena mosso dalla brezza del mattino. Tu l'ascoltavi con gli occhi sgranati e fiduciosi. E intanto lui aggiungeva una maglia, ribadiva un rivetto mentre le sue mani t'accarezzavano sapienti e amorevoli, esplorando sempre più audaci il tuo giovane paesaggio. Salivano le sue mani sulle due tenere colline, soffermandosi a lungo, oh quanto a lungo, sulle piccole vette dove i due cerchi magici circondano le prime, erette, sacre Are del piacere sottile. Poi scendevano sul tuo ventre tremante e con percorsi tortuosi una invadeva, temuta e bramata, la piccola foresta del fiore segreto. Quello che poi accadeva lo sapeva lo specchio della tua stanza, che tu attraversavi come nuova Alice per scoprire il mondo dei tuoi sensi, governato da leggi primitive, fatto di suoni e gesti e profumi aspri. Il tuo corpo non più tuo, le tue mani, la tua bocca, le tue lunghe gambe a fare, dire, stringere cose mai compiute, mai pronunciate, mai avvinte, ma a lungo sognate gemendo piano nelle notti della pubertà non più innocente.
Principessa, le tue catene ti erano state serrate piano piano, un poco alla volta. Non te ne eri accorta sino all'ultimo. Erano un capolavoro, fatte del più tenace acciaio eppure leggere, impalpabili. All'inizio le portavi con gioia, ti donavano piacere, invisibili eppure esibite con orgoglio, come un vestito disegnato per te dal più ispirato dei grandi stilisti, utilizzando la seta più fine intinta nei colori dei sogni.
E passano i giorni, passano i mesi, come in tante fiabe.
Ora il mondo è sempre là fuori, ma tu sei celata, chiusa nella torre dei suoi trofei, dove ascolti i fantasmi di altri cento amori insepolti che urlano senza voce e gemono senza lacrime. Lui ti ha catturata sottilmente, con i suoi discorsi, le sue parole sapienti, il suo affetto studiato ed imparato a memoria per le tante recite di successo, con i suoi fiori ingannatori, infine col suo corpo rapinatore, sciamano di estasianti stregonerie. Tu sei lì, inchiodata al muro della sua indifferenza con le catene che lui ti ha serrato, anello per anello, al corpo ed al cuore.
Adesso lui ogni tanto apre la cella, ti porta una crosta rinsecchita del suo amore, una coppa piena dell'acqua salata delle tue lacrime e usa il tuo corpo senza più chiedere, senza mazzi di fiori di campo comperati dal fioraio, vicino al cimitero dei sogni spezzati. Certo un giorno o l'altro verrà un altro principe con un altro cavallo bianco, scaccerà l' Orco malvagio per liberarti da quelle catene e da quella torre, portandoti un altro mazzo di fiori di campo.
Principessa, prima del bacio liberatore, osservali bene quei fiori selvaggi, che sotto l'ultimo stelo di plastica non ci sia il cartellino di un prezzo troppo alto.    

Le sue ali
C'eri riuscita. Avevi scelto una persona grigia ed appiattita nelle sue dimensioni quotidiane, una specie di ameba che sapeva solo muoversi strisciando sul foglio già scritto della propria esistenza, e gli avevi fatto vedere la terza dimensione. Gli avevi fatto capire che esisteva un "giù", proprio lì dove lui si trascinava "avanti" e "indietro", ed un "su" dove non era mai arrivato, dove brillava una luce che non aveva mai visto, dove l'aria era diversa, pura, fine, primordiale; dove volavano alti non i passeri ed i colombi che frequentavano le aiuole sporche della città, ma le rondini, i falchi e persino le aquile. Dove i suoi pensieri potevano volteggiare liberi come i palloncini fuggiti e non come le cartacce sollevate dal vento di un'automobile, destinate a ricadere nella polvere dopo pochi metri. Dove il suo sguardo poteva spaziare oltre i palazzi, vedere le strade coperte di nebbiolina fumosa, e poi, oltre le brutture della periferia, i campi, le vallate e sì, persino il fiume limpido appena sceso dai monti e non ancora imputridito dagli scarichi e dalla noncuranza.
C'eri riuscita. Gli avevi insegnato a volare, usavi il tuo spirito, il tuo brio, la tua intelligenza per fargli finalmente vedere i suoi limiti di oggi, e lassù, lontani ma non irraggiungibili, gli spazi sconfinati che avrebbe potuto raggiungere se solo avesse aperto le sue ali rattrappite ed avesse imparato a batterle nel modo giusto, se avesse usato quei muscoli che tutti abbiamo dalla nascita e poi ci lasciamo atrofizzare dall' educazione, dalle convenzioni, dalla coscienza.
C'eri riuscita. Usavi il tuo corpo per insegnargli ad usare il suo. Il corpo rattrappito come le ali, con i suoi desideri innati e la sua capacità d'amare, le sue pulsioni e le sue voglie mai confessate, tutto questo dentro, atrofizzato, imprigionato dall' educazione, dalla religione e dalle convenzioni. Volava anche il suo corpo non più giovane, forse mai stato giovane, sgraziato e goffo eppure ansioso nella ricerca del tuo, aggraziato, spensierato, avido, suscitatore di tempeste tropicali così come di grandi calme ombrose, ricche di profumi sottili, di frinire di grilli e di lievi onde d'erbe fiorite.
C'eri riuscita, Lo avevi preso per mano e sollevato verso l'infinito, quel piccolo infinito che lui non sapeva esistesse ma che forse sognava, come si sognano le cose irreali, guardando il cielo oltre il finestrino della sua automobile casa-ufficio. Gli avevi anche indicato il Paese che non c'è, oltre la Luna, terza stella a destra.
Poi tu sei tornata a volare veloce, più delle rondini e dei falchi in picchiata, troppo veloce, verso chissà dove, sapevi che lui non poteva seguirti e non ti sei voltata nemmeno per rispondere al suo ultimo disperato grido di richiamo. L'avevi lasciato a volare da solo.
Ma da solo lui non poteva. Aveva appena abbandonato il suo nido sicuro, laggiù tra i cespugli di case, nascosto al sicuro all'ombra delle sue certezze. Le sue ali erano ancora bagnate e appesantite dalle sue delusioni, i suoi muscoli fragili e dolenti, assottigliati dallo sforzo erano troppo vecchi per rimodellarsi ad eseguire esercizi mai compiuti.
Ora lui è precipitato, roteando come i semi di tiglio in autunno appesi ad una foglia ripiegata, come ripiegate erano di nuovo le sue ali.
Oh no, non è morto, la morte non è quasi mai così pietosa. Lui e lì, di nuovo a fare "avanti" e "indietro" sul suo destino già scritto. Ma non può più guardare il cielo oltre il finestrino. Perché le sue ali gli facevano paura e lui le ha tagliate per sempre, non vuole più farsi male cadendo da troppo in alto. Però ora lui sa che esiste il "su", lui sa cosa ci sia dove l'azzurro diventa più scuro, nel regno delle rondini, dei falchi e dell'aquila. E sa che la sua vita sarà sempre dov'è adesso, nel più grigio dei possibili "giù".   

Il Natale di Castadiva
Castadiva aveva quasi cinquant'anni e li dimostrava tutti. Si strinse addosso il soprabito corto, che dalle ginocchia in giù lasciava scoperte le gambe protette solo da calze a rete a maglie molto larghe. Il trucco pesante non riusciva a nascondere l'età, anzi la sottolineava marcando il contrasto tra il rosso troppo acceso delle labbra ed il pallore di una pelle tirata e solcata da piccole rughe. Gli occhi, un tempo chiari e luminosi erano arrossati dal vento e vistosamente segnati con la matita.
Il suo vero nome era Norma, ma un cliente, molti anni prima, l'aveva chiamata così, Casta Diva, tra l'ironico e l'affettuoso. Poi le aveva spiegato che quel nomignolo aveva a che fare con un' altra Norma, che Diva in quel caso non significava stella del cinema, voleva dire Dea, e lei, Norma, era bella come una dea. Casta, beh quello era proprio uno scherzo, visto che lei di professione faceva la prostituta. La volta dopo lo stesso cliente le aveva regalato una cassetta. Vi aveva registrato la romanza cantata dalla Callas. A Norma quel nome piacque e la romanza ancora di più, l'aveva addirittura commossa. Da allora nell'ambiente si fece chiamare Castadiva, così, tutto attaccato.
Faceva freddo. Dal mare arrivava a tratti il rumore delle onde che si rompevano sulla scogliera artificiale lì vicino, a poche decine di metri. Il traffico era molto meno intenso del solito sul largo vialone, illuminato da alti lampioni a luce gialla.
Castadiva guardò l'orologio, le dieci e trenta. Si disse che aveva sbagliato; la notte della vigilia di Natale doveva starsene a casa, nessuno era così disperato da cercare una puttana cinquantenne. Quella sera si trovava in una strada che non frequentava più da anni. Da molto tempo lei si offriva nei vicoli bui, nella zona che una volta era frequentata dai marinai e da tutto il mondo seminascosto e brulicante di un grande porto. Venti euro servizio completo, dieci per chi si accontentava di una cosa veloce lì, in piedi in un angolo buio. Il grande porto non c'era più, ed i marinai neppure. I clienti erano cambiati, ma quello che volevano era sempre lo stesso.
Lei quella sera era uscita dal suo mondo ed era andata dove di solito si mettevano le ragazzine nuove venute dall'est, giovani e belle. Quello era diventato il loro territorio, difeso spietatamente da sfruttatori feroci e sprezzanti di qualsiasi valore non fosse il denaro. Ma "quelle" non c'erano. Si sapeva che sarebbero forse arrivate più tardi, all'una, alle due oppure si erano prese la serata libera, come i loro sfruttatori. Allora lei si era vestita meglio che poteva, si era truccata con cura ed era persino andata a farsi pettinare da un suo vecchio cliente che aveva una botteguccia da barbiere lì nei vicoli. Per una volta Castadiva voleva riassaporare il gusto del palcoscenico di lusso, dove da giovane aveva la coda di automobili che si accostavano e lei poteva persino permettersi di scegliere il cliente, quello che le piaceva di più. O la disgustava di meno.
Ma delle poche auto di passaggio nessuna si fermava e nemmeno rallentava. Solo qualche passante frettoloso le gettava uno sguardo tra lo stupito e l'ironico, quindi allungava il passo.
Ancora dieci minuti, si disse Castadiva, poi avrebbe preso l'autobus e sarebbe tornata in quel buco nei vicoli che lei chiamava casa. Era stata un' idea stupida, si disse amareggiata.
- Buona sera, signorina.
Non lo aveva sentito arrivare. Era sbucato dai portici, silenzioso. Norma lo guardò: un anziano, forse sulla settantina. Ordinato, un cappotto dalla foggia antica, un cappello con visiera, una sciarpa di lana ed un sorriso educato. L'aveva chiamata "signorina" e le dava del "lei"!
- Buonasera, rispose Castadiva con un mezzo sorriso, sulla difensiva.
- Ecco, mi chiedevo, avrei piacere della sua compagnia, vorrebbe ….?
Era una persona educata e gentile, Castadiva aveva freddo e la serata era infruttuosa. Certo che voleva.
- Volentieri, ma non hai una macchina?
- Veramente vorrei che venisse a casa mia, abito qui vicino.
Ah, ecco, pensò, il vecchietto vizioso con la moglie più viziosa di lui, vogliono fare i giochetti a tre. E chi se ne frega, se pagano…
- Senti, se vuoi che venga su a giocare con te e tua moglie, si può fare, ma ti costerà parecchio.
L'uomo arrossì di colpo e rimase muto per un istante, poi rispose quasi balbettando
- Nnno, ecco, io vivo da solo, non c'è nessuno in casa. Io vorrei solo la sua compagnia, davvero.
Castadiva si chiese se si poteva fidare di quell' aspetto così perbenino, di quel rossore. Ma sì, concluse, poi è un vecchietto, all'occorrenza lo posso sistemare come si deve.
- Beh, a casa ci vuole più tempo, cinquanta Euro per un ora e ti faccio tutto quello che vuoi
- Non mi sono spiegato bene, mi scusi, io vorrei che mi facesse compagnia tutta la notte, ecco, insomma, mi dica, quanto vuole per tutta la notte?
Tutta la notte? Certo, magari gli ci voleva più tempo, alla sua età, ma cosa pensava di fare tutta la notte? Affari suoi, comunque. Castadiva fece rapidamente i conti, i soldi le servivano eccome, se aveva trovato un merlo…perché no?
- Senti, se proprio vuoi tutta la notte, sono duecento.
Sul volto dell' uomo si dipinse un'espressione di delusione così evidente che Castadiva per un istante si pentì di quella richiesta.
- Ecco, veramente non me lo posso permettere, non basterebbero centocinquanta?
Il viso dell' uomo esprimeva tanta ansia ed aspettativa che alla donna veniva quasi da ridere. Ma sì, tanto quello che offriva era certamente di più di quello che lei avrebbe guadagnato restando lì in piedi tutta la notte, probabilmente per nulla.
- Va bene, proprio perché è Natale, vada per centocinquanta, ma me li dai subito e poi smettila di darmi del lei, io sono Norma. - Chissà perché non le andava di farsi chiamare Castadiva da quell'uomo.
- Certo, Norma, io sono Giorgio - e così dicendo tirò fuori il portafoglio e contò tre biglietti da cinquanta, nuovi nuovi.
Camminarono in silenzio per una decina di minuti, poi entrarono in un palazzo vecchio ma dignitoso. Presero un ascensore cigolante che si fermò al terzo piano.
Quando arrivarono nell' appartamento, Castadiva fu sorpresa nel trovare un albero di Natale illuminato ed un piccolo tavolo apparecchiato per due. La sorpresa fu ancora maggiore quando Giorgio la invitò a sedersi, che la cena sarebbe stata pronta in un attimo.
- Tu sei suonato, scusa, vuoi che io ceni con te? A parte che ho già mangiato qualcosa, ma non mi sembra proprio il caso.
- Ascolta,,,,scusa mi ripeti il tuo nome, ah sì, Norma, a me farebbe molto piacere passare quello che resta di questa vigilia di Natale cenando con te. Ho ordinato tutto fuori, basta scaldarlo….non sarà come al ristorante ma…
In fondo, pensò Castadiva, lui l'aveva pagata per tutta la notte. Se intanto preferiva cenare, non c'era niente di male.
Giorgio stappò un bottiglia di vino, poi iniziarono a mangiare, con Giorgio che andava e veniva dalla cucina, indaffarato e gentile. Man mano che la bottiglia di vino scemava, la
conversazione dapprima formale e timida si faceva sempre più disinvolta. Fu stappata una seconda bottiglia.
- Da piccolo e poi da ragazzo, fino a quando me ne sono andato a vivere per conto mio, i miei cambiavano casa e città ogni due o tre anni, per via del lavoro di mio padre. Io non ho amici di infanzia o di scuola, mai avuto il tempo di farmeli. Poi ho vissuto all'estero per
tanti anni, sai, il lavoro… in Canada, poi in Australia, sono tornato stabilmente in Italia da quando sono andato in pensione.
- Ma ti sarai sposato, avrai dei figli….
- Oh si, mi sono sposato, Grazia, una Italiana conosciuta a Ottawa, ma figli.. purtroppo mia moglie non poteva averne. E' tornata in Canada da qualche anno, non mi amava più. Così mi ha detto, nessun'altra spiegazione, nulla. Fino all'anno scorso ancora ogni tanto mi scriveva. Poi più nulla.-
Castadiva notò che lo sguardo dell'uomo si era fatto triste, perduto in chissà quali ricordi. Lei pensò che fosse arrivato il momento giusto. Si alzò dalla sedia e cominciò a sbottonarsi la camicetta.
- Dai Giorgio, non essere triste, abbiamo cenato, abbiamo bevuto e chiacchierato, ora ti faccio dimenticare io le tue malinconie, andiamo di là. -
Giorgio la guardò. La camicetta era oramai completamente sbottonata ed un reggiseno da pochi soldi, rosso con dei pizzi, era stato slacciato in un attimo. I seni ancora pieni ma un po' cascanti erano a pochi centimetri dagli occhi dell' uomo. Giorgio scosse la testa.
- Norma, sei bella, ma vedi, no, non è necessario, io….io non sono più interessato a queste cose. C'è stato un tempo in cui il sesso mi interessava, eccome. Quando ci siamo sposati, con mia moglie, sapessi com'era bella…, eravamo sempre a letto, appena ci era possibile. La Domenica per esempio, non ci alzavamo mai prima di mezzogiorno. Per me era quasi un'ossessione. Io l'amavo molto, ho avuto solo lei e lei solo me. Ne sono sicuro. Solo, ecco, io non ho mai fatto sesso senza amare, non so nemmeno se ne sarei stato capace. E adesso alla mia età… no, davvero, non mi interessa più. Scusa, con tutto il rispetto per te, tu non mi puoi amare, tu puoi solo fare il tuo mestiere….oh sono sicuro che lo fai bene e che i soldi che gli uomini spendono per te sono spesi bene, ma l'amore, quello non lo si compra. E neanche lo si può vendere.-
Norma per la prima volta in tanti anni si sentì davvero quello che era, una puttana. Si vergognò della sua nudità e portò istintivamente le mani al seno per coprirlo. Si sentì invadere da sentimenti contrastanti. La rabbia femminile, di una donna che si offre e viene respinta. La paura, di essere diventata così brutta da non riuscire a farsi desiderare nemmeno da un uomo che doveva essere anni che non faceva l 'amore. Poi la pietà, forse davvero Giorgio era impotente, ma allora si poteva tentare qualcosa, lei di morticini ne aveva fatti resuscitare parecchi, sapeva come fare.. Lasciò di nuovo cadere le braccia, spostò la sua seggiola e si sedette a fianco all'uomo.
- Giorgio, lasciami fare, vedrai, io sono davvero brava, magari sei stanco, è tanto che non lo fai, non sei mica malato, no?
- Oh si, sono malato. Niente a che vedere con il sesso, ma sono davvero malato. Io ho l' Alzheimer.
Norma lo guardò sorpresa, con uno sguardo interrogativo. Aveva sentito parlare di quel male, vagamente, ma non sapeva cosa fosse esattamente.
- Per ora è appena all'inizio. I miei ricordi sono intatti, chiedimi di parlarti di quando avevo vent'anni e ti terrò sveglia tutta la notte. Ecco, invece ieri o due ore fa può essere un problema. Mi rendo conto di non ricordarmi cosa ho fatto ieri. Se devo dirti la verità, non mi ricordo dove ti ho incontrato. So di essere uscito per cercare compagnia, ma …
- Mi hai incontrato in corso Italia, qui vicino.
- Vedi, lo avevo dimenticato. Una cosa però me la ricordo. Il dottore mi ha detto che non si guarisce, non posso che peggiorare. E nel mio caso la malattia progredisce molto velocemente, a volte succede.
Tra sei mesi o tra un anno non potrò più stare da solo. Non mi ricorderò che giorno è, non mi ricorderò se ho mangiato o no, magari non mi ricorderò dov'è il gabinetto e me la farò addosso. - i suoi occhi questa volta erano pieni di paura - questo potrebbe essere per me l'ultimo Natale da persona indipendente. Io non volevo passarlo da solo, e devo dire che sono stato fortunato, sei una persona con la quale si parla bene, sei una brava donna.
Norma rimase in silenzio, si rivestì, poi, istintivamente, si avvicinò di nuovo a Giorgio e gli diede un bacio sulla fronte, accarezzandogli i capelli grigi.
Si spostarono sul divano, uno accanto all' altra e continuarono a parlare per molto tempo. Sentirono la gente tornare dalla Messa di mezzanotte, poi i rumori della strada farsi sempre più radi. Finirono anche una bottiglia di spumante ed un panettone. Ora che Norma sapeva la verità, notava nella conversazione di Giorgio piccole lacune, ripetizioni di cose dette poco prima, improvvisi vuoti su cose accadute da pochi minuti, piccoli segni del male che in breve avrebbe del tutto travolto quella mente e cambiata la personalità di quell'uomo ancora così apparentemente integro e presente.
Verso le quattro Norma si assentò per qualche minuto per andare in bagno. Quando tornò,
Giorgio si era addormentato. Respirava pesantemente, la testa reclinata sulla spalla. Sembrava sereno. Norma andò in camera, prese un cuscino ed il plaid che erano sul letto. Tornò in sala, gli sistemò il cuscino a sorreggere bene il capo. Era chinata a coprirgli le gambe col plaid quando lui, senza svegliarsi, sollevò una mano e le fece una carezza sulla mano, mormorando qualcosa. A Norma sembrò di sentire "Grazie", o forse era "Grazia", ma non aveva importanza.
Norma sollevò con dolcezza la mano e la posò sul bracciolo del divano, poi si attardò nella stanza per qualche momento.
Tornò nel bagno, si guardò allo specchio e quello che vide non le piacque. Era il viso di Castadiva. Si lavò la faccia strofinandola sino a far sparire ogni traccia di trucco dal viso. Si guardò di nuovo, era il viso di una donna di cinquant'anni, con le rughe, stanca, ma era Norma.
Quando uscì dal portone si sentì in imbarazzo, come un animale notturno che si fosse trovato allo scoperto in pieno sole, ma erano solo le cinque, la città era ancora immersa nel buio e nel silenzio. Norma affrettò il passo verso la fermata dell' autobus. La prima corsa doveva arrivare a minuti. Mentre aspettava, ripensava a quello che aveva appena fatto.
- Devi essere uscita pazza - le diceva una voce dura - buttare via così una intera notte di lavoro.
- No, hai fatto bene - un' altra voce ribatteva - quel poveretto ti ha offerto la cena, è stato gentile, ti ha fatto passare una notte di Natale come non avevi più avuto da tanto tempo. Non è stato un lavoro. Era giusto così.
Norma aveva lasciato un biglietto in vista sul tavolo. Diceva: "Chiamami tutte le volte che ti senti solo, verrò sempre volentieri. Grazie di tutto, Buon Natale" e poi il numero di telefono. Sotto al biglietto, le tre banconote da cinquanta euro.
Sì, ho fatto bene, concluse Norma, sono una bagascia, ma non sono una figlia di puttana.
L' autobus era arrivato. Si sedette e si mise a frugare nella borsetta, Da qualche parte doveva esserci il numero di Elisa, una sua ex compagna di vicoli. Si era messa con una cooperativa diretta da uno di quei preti impegnati nel sociale, insieme ad altre ex-prostitute ed ex drogati facevano assistenza agli anziani. Elisa le aveva detto che il lavoro era duro, ma non come quello che si faceva nei vicoli, e si riusciva a campare. Non si diventava certo ricchi, ma oramai neanche col mestiere lo si diventava. La cosa positiva era che c'era sempre bisogno di persone disposte a fare quel lavoro.
- Non oggi -si disse Norma - è Natale, domani sì, forse domani chiamerò Elisa.   

Blu e Celeste
Il cielo era stupendo, nessuna nuvola, una leggera velatura di umidità e qualche refolo di brezza che di mattina presto risaliva la valle, tutto esattamente come era stato nei cinque giorni precedenti.
- Hai sentito le previsioni meteo? mi aveva chiesto Carla, la mia compagna di vita e di camminate.
- No, veramente mi sono sfuggite, ma questo mi sembra proprio un bel tempo stabile.
In seguito mi sarei ricordato delle mie "ultime parole famose", sembrava proprio che ne avessi pronunciato qualcuna quella mattina, mentre uscivamo dal piccolo monolocale affittato in paese.
Gli zaini contenevano il pranzo frugale - pane, formaggio, una tavoletta di cioccolato- le bevande abbondanti -rigorosamente acqua con integratori salini- i consueti ricambi di magliette, le giacche a vento leggere e le mantelline impermeabili, portate più per abitudine che per qualche forma di preveggenza. Ci incamminammo lungo il sentiero che ci avrebbe portato ai laghetti racchiusi in un vallone sotto al ghiacciaio, una meta già raggiunta altre volte ma molto amata. Quei tre laghi, disposti su altrettanti gradoni, sono piccole perle grigie, verdi e azzurre disseminate sui fianchi rocciosi della grande montagna, oltre la linea dei larici e dei pini mughi. Il più alto è anche il più piccolo, quasi una grande pozzanghera alimentata direttamente dai ghiacci. Ha le acque grigie, perennemente increspate dal vento che scende lungo il ghiacciaio e si frange rimbalzando sulla superficie, per ricadere placato verso gli altri laghi più a valle. Un piccolo ruscello esce dal lago Alto, questo il nome poco originale che gli è stato dato, e si disperde tra i massi e lo sfasciume precipitati per millenni dai fianchi della montagna. Il ruscello si ricompone e torna visibile solo poco prima di alimentare il secondo lago chiamato, con un altro bello sfoggio di fantasia, Lago Scuro per il fatto di essere sempre in ombra. Da lì, con un salto di una decina di metri, l'acqua va a formare il lago Blu, il nostro lago preferito. Abbastanza grande e di forma irregolare, quasi una mezzaluna, ha una caratteristica particolare. L'acqua, per qualche magia della chimica e dei riflessi, non è trasparente, ma possiede un'indicibile tinta blu con sfumature verdoline, indipendentemente dal colore che abbia il cielo in una qualsiasi giornata. La sua sponda Sud, soleggiata, riparata dal vento e addolcita da una riva erbosa, era la nostra meta, il nostro luogo di sosta preferito.
Dopo oltre tre ore di salita e qualche litro di sudore c'eravamo affacciati al lago Alto, per poi aggirarlo a monte, discendere sulla pietraia sino al lago Scuro ed infine fermarci sulla riva del lago Blu.
Era un Martedì di metà Giugno, c'era poca gente in montagna e su quel particolare sentiero, ripido, faticoso, in alcuni tratti esposto in modo tale da richiedere un passo fermo e l'immunità da vertigini, non avevamo incontrato anima viva, né alcuno era in vista quando dall'alto avevamo potuto vedere un buon tratto del sentiero percorso.
Ci eravamo tolti le magliette sudate e Carla era rimasta a prendere il sole in mutandine e reggiseno. Io, a torso nudo e calzoni al ginocchio, esploravo i monti circostanti col binocolo, sperando di avvistare stambecchi e aquile. Dopo un po' avevamo consumato il nostro pasto frugalissimo, concluso con la tavoletta di cioccolato. Era quasi ora di scendere a valle, ma la selvaggia bellezza del posto e la totale solitudine ci fecero uno strano scherzo. Lasciarsi andare di fronte alla natura primordiale, tornare a nostra volta esseri primordiali, liberi dai condizionamenti della civiltà così come dai nostri vestiti, ancora abbandonati sull'erba, fu dapprima una tentazione, poi una fonte di eccitazione irresistibile.
Il tempo scorreva veloce, come le acque scroscianti nella valle, e noi ci attardammo a lungo, come presi e compenetrati in quella natura stupenda. Solo dopo parecchio tempo e molte splendide sensazioni tornammo le due persone di sempre, in possesso non solo degli istinti che ci accomunano alle altre creature, ma anche di quei sentimenti, di quella razionalità e di quella consapevolezza che innalzano e differenziano gli esseri umani dai loro coinquilini pelosi, pennuti, scagliosi o chitinosi.
- Carla, amore, non riesco ad esprimerlo bene, ma è stato come se fossimo davvero parte di questa natura, una cosa così spontanea, vorrei dire quasi… ma non mi fraintendere… animalesca nel senso più puro della parola.
- Anche per me, sì, hai ragione, animalesca ma non …anzi, sei stato dolcissimo, ecco, mi sembrava di essere un camoscio, un' aquila, mi sembrava di far parte di quest'erba, di essere fatta di questa acqua, di sentirmi, vedi, come quelle marmotte guardone laggiù- e Carla si mise a ridere- che ci hanno osservato tutto il tempo.
Ci rivestimmo in silenzio e stavamo rimettendo in ordine gli zaini quando sentimmo il primo tuono lontano. Anche il vento era cambiato, ce ne accorgemmo dalle piccole increspature sulla superficie del lago e dal senso di freddo che ci aveva improvvisamente attanagliato. La famiglia di marmotte alla quale si era riferita Carla e che sull' altra riva aveva continuato ad osservarci con composta e seriosa curiosità per tutto il tempo della nostra permanenza, era sparita all'improvviso, al sicuro nelle inaccessibili tane tra i massi.
- Sbrighiamoci, un temporale quassù è l'ultima delle cose che vorrei affrontare.
- Ho paura che sia tardi - mi aveva risposto Carla, ed aveva ragione.
Avevamo indossato le mantelline impermeabili perché il sole si era ritirato in buon ordine, coperto dai grandi nuvoloni neri ravvicinati che, arrivando da nord sospinti da una tramontana gelata, avevano ridotto la luce ad un vago chiarore opalescente.
Le vette al di sopra di noi erano completamente invisibili, avvolte nell' abbraccio umido delle nubi, poi iniziammo ad udire il rombo dei tuoni, dapprima un indistinto brontolio echeggiante in vallate lontane, quindi accompagnamento rotolante e rimbalzante dei bagliori dei fulmini. Il rumore sovrastava a tratti lo scroscio di una pioggia gelida che trascinata dal vento aveva iniziato a colpirci quasi orizzontalmente sotto i cappucci. Nel volgere di un'ora era come se il clima fosse avanzato di due stagioni: la tarda primavera tiepida e secca era stata improvvisamente scacciata da un freddo autunno inoltrato. E noi eravamo lassù, ad oltre duemila metri, tra le rocce ed il laghi.
Se c'era una cosa che avevo sempre temuto era il temporale in quella situazione. Quando si cammina su un sentiero allo scoperto, circondati solo da massi e bassa vegetazione, gli oggetti più alti e acuminati pronti ad attirare un fulmine sono proprio coloro che camminano.
- Dobbiamo sbrigarci a trovare un riparo, il temporale è troppo vicino, può diventare pericoloso.
- Torniamo su, al lago Alto, mi pare di ricordare un posto…
Carla aveva delle doti di memoria visiva notevoli, avevo imparato da tempo a rispettarle. Si ricordava di un enorme masso conficcato profondamente nel terreno, con la sua parte superiore a formare una specie di tettoia naturale proprio sul lato protetto dal vento, sulla riva del lago Alto. Evidentemente lo aveva notato inconsciamente, catalogandolo tra "possibili ripari" ed archiviandolo in qualche nascosto recesso del suo cervello.
- D'accordo, torniamo subito su, in fretta, dai.
In dieci minuti arrivammo al posto ricordato da Carla e ci stringemmo sotto quel riparo dove, con una decina di metri di solida roccia sopra le nostre teste, solo qualche goccia riusciva ad infiltrarsi tra le fessure e arrivava a schizzare sulle nostre mantelline rosse. Mentre ci toglievamo i cappucci grondanti, iniziammo a percepire un suono, come un ronzio, anzi uno sfrigolare irregolare. Il suono salì di intensità e sulla sommità di una piccola roccia sulla riva del lago, ad una decina di metri da noi e proprio sul sentiero appena percorso, apparve come un alone bluastro. La luce abbagliante e lo scoppio improvviso ci fecero urlare dallo spavento. Carla mi strinse convulsamente, terrorizzata, ma io non lo ero di meno. Il fulmine aveva colpito quella roccia, spaccandola in senso verticale ed aprendosi la strada verso l'acqua, dove si era disperso. Aveva lasciato un intenso odore di ozono ed una nuvola di vapore, presto dispersa dal vento. Se fossimo stati ancora sul sentiero probabilmente saremmo stati noi a fare la fine della roccia, annientati da quell'energia spaventosa. Restammo al riparo, abbracciati, mentre la nuvole temporalesche transitavano sopra di noi per poi allontanarsi verso la lontana pianura. Qualche altro fulmine era caduto nei pressi, ma non così vicino da preoccuparci. Infine, dopo che per molti minuti nessun altro tuono ci era sembrato così vicino e la pioggia si era fatta meno battente, decidemmo di rimetterci in cammino, nel timore che un altro temporale potesse seguire al primo bloccandoci magari sino al buio. In quel caso saremmo stati davvero nei guai, senza indumenti pesanti e viveri di scorta.
Riprendemmo il sentiero con prudenza, perché l'acqua rendeva viscidi ed infidi i sassi e certi passaggi che in salita e col sole erano elementari, nello scendere in quelle condizioni potevano diventare veramente pericolosi.
Tutto andò bene e mentre il sole beffardo rispuntava per qualche istante per poi tramontare dietro la montagna, riuscimmo a rimettere piede nel nostro buchetto di abitazione, che mai ci era sembrato così accogliente.
Quella avventura lasciò tuttavia in noi alcuni insegnamenti ed un ricordo che ci hanno cambiato la vita.
Ora noi non partiamo più per qualsiasi camminata, anche facile, senza esserci informati bene sulle previsioni del tempo, senza indumenti pesanti e senza viveri in abbondanza, anche a costo di fare sorridere di compatimento i nostri amici.
Ancora più importante, nelle nostre camminate siamo sempre almeno in tre, ci accompagna il "ricordo", una bella bambina di due anni, un po' in un "tacco" come lei chiama l'apposita sacca, un po' camminando per mano dove il sentiero è più facile. E' nata nove mesi dopo quella avventura.
Non potendo chiamarla Blu, almeno l'abbiamo chiamata Celeste, e quando sarà più grande forse le racconteremo anche di dove fu concepita e del perché in un angolino della fronte, nascosta sotto dei bellissimi ricciolini, ha una piccola voglia a forma di saetta.    

Un pomeriggio con gli amici
La salsedine mi entra nei polmoni ad ogni respiro. Le onde schiumanti rabbia distruttrice si abbattono sui massi posti a protezione della piccola terrazza sulla quale mi trovo, unico cliente di un infreddolito e triste barista che guardava i quattro tavolini pateticamente vuoti. Il cielo è in perfetta sintonia col mare: nembi neri e disordinati si accalcano da ovest cambiando continuamente forma e transitando minacciosi sulla verticale del mio tavolino. Credo che non lascino cadere la pioggia per puro calcolo economico -il piccolo ometto seduto a quel tavolino sul mare sarà presto spazzato via da qualche raffica di vento, inutile sprecarci anche l'acqua- questo è quello che pensano.
Io, stoico, sorseggio un pessimo Daiquiri al kiwi. Mentre poso il bicchiere, mi sembra di vedere delle piccole onde sollevarsi persino dalla superficie del drink, con i cubetti nella parte di maestosi iceberg nell'oceano artico. Al largo, tra porta-containers e traghetti, laggiù verso Sud-Est dove le nubi nere sembrano tuffarsi in mare e tutto si perde in una specie di scura foschia, mi pare di scorgere la sagoma di un veliero. Potrebbe essere la "Vespucci", mi dico allungandomi sulla sedia e scrutando il mare con più attenzione. Che fascino i velieri, quante letture, quanti personaggi attendono nella mia libreria che io vada a risvegliarli; vero Achab? E tu, Long John Silver, l'hai trovato il tesoro? Horatio, congratulazioni per la tua promozione a Commodoro!
-Due mani di terzaroli, signor Bush, barra tre punti a dritta.
Horatio Hornblower, il comandante, passava gli ordini al suo secondo con voce ferma e chiara.
-Aye aye, capitano.
Il Sutherland, un vecchio vascello da 74 cannoni costruito in Olanda, avanza sobbalzando sulle onde.
-Ecco, arriva
Il signor Bush, il secondo ufficiale, indica l'orizzonte mentre un lampo rischiara i flutti ed il tuono secco e vicino copre per lunghi istanti il rombo dei marosi. La nave rolla spaventosamente. I comandi di Hornblower si susseguono rapidi e sicuri. Un miglio più avanti, il "Courage" nave francese di linea da 90 cannoni su tre ponti, se la passa peggio. Una raffica improvvisa gli spezza il pennone del trinchetto e la nave si pianta tra le onde. Il Sutherland che lo sta inseguendo da due giorni gli scivola sul bordo di sinistra a meno di cinquanta metri .
- Cannoni di dritta, fuoco a volontà.
Hornblower osserva impassibile l'effetto delle scariche che si susseguono rapide. Vede pezzi di fasciame strapparsi dalla nave francese, l' albero di maestra spezzarsi all'altezza del pennone.
-Adesso tocca noi, signor Bush, non possiamo evitarlo.
Finalmente i cannonieri del Courage si sono riorganizzati e un ondata solleva la nave Francese, che si era inclinata a babordo rendendo inservibili la batterie di quel lato. Ora le bocche da fuoco sono puntate dritte sul Sutherland ed una tremenda salva a palla e mitraglia ne spazza il ponte. Sangue e urla, sartie spezzate e brandelli di vela. Una palla porta via di netto la gamba al guardiamarina Hampton, a due passi da Hornblower.
La tempesta è scemata. Il Sutherland, ferito ma vittorioso grazie alle doti di Hornblower, pronto a sfruttare la maggiore velocità e manovrabilità della sua nave, scarroccia sospinto da un vento leggero, uno strallo per governare, le altre vele superstiti terzarolate. Sull'oceano, pochi relitti fumanti indicano la tomba del Courage e di tutti i suoi marinai.
-Signor Bush, un'altra vittoria per la Corona, ma faccia l'appello degli uomini, voglio sapere qual è stato il prezzo
-Sono tre Euro e cinquanta, ma veramente mi chiamo Giovanni, mica Bush.
Il cameriere è in piedi vicino a me, lo scontrino in mano. Già, lui vuole le palanche, che gli importa dei miei sogni. Gli allungo cinque euro e gli lascio il resto, mica sempre si può fare il taccagno, poi lo devo ringraziare, mi guardava come se fossi un matto ma non ha chiamato il 113.
Mi avvio su per la scalinata, le raffiche di vento mi fanno rabbrividire. Rialzo il bavero del mio vecchio impermeabile e allaccio la cintura. Arrivato sulla strada principale, sento dei passi affrettati dietro di me. L'impermeabile col collo rialzato e la cintura stretta in vita, l'uomo che cammina frettoloso (e freddoloso nel mio caso), situazione tipica, basterebbe aprire a caso un libro di Hammet, o di Spillane.
Mi chiamo Mike Hammer, faccio l'investigatore privato. Oggi sono solo in questa strada buia.
Anzi, credevo di essere solo. Mi volto, saranno una ventina di passi e vedo che mi viene dietro un tipo sospetto. E' grosso, ha la faccia cattiva, scommetto che sotto quella giacca ha pure l'artiglieria.
Me lo aveva detto Velda, la mia segretaria, questa mattina.
- Attento a quello che fai Mike, Arnold è un duro e ha giurato di fartela pagare.
- Non aver paura, piccola, il piombo che deve ammazzare il vecchio Mike Hammer non è stato ancora estratto dalla miniera! Dico io, ma tocco nervosamente il calcio della mia 45, nella fondina sotto l'ascella. Un conto sono le puttanate che si dicono alla bella Velda, un conto è la pellaccia. Arnold è un duro, di quelli capaci di ficcarti una dum-dum nella pancia e guardarti crepare sorseggiando un bourbon con ghiaccio.
L'altra volta mentre indagavo in quel pasticcio del cambiavalute morto ammazzato nel quartiere cinese, ho dovuto piantare una libbra di piombo nella testa di suo fratello. Arnold era in galera a Chicago, ma non l'ha presa bene. Nell'ambiente mi hanno già messo in guardia in parecchi, c'è un sacco di gente che mi deve dei favori.
- C'è un bel mucchio di fessi la fuori che ti farebbero la festa volentieri anche gratis, ma Arnold ha promesso diecimila dollari a chi ti farà fuori. Stai in campana, Mike.
L'ultimo avvertimento me lo aveva dato Tony il rosso, ieri sera al bar di Happy sulla ventiduesima. L'avevo ringraziato stendendo con un gancio destro un tale che lo stava prendendo per il sedere. Già, Tony il rosso è un dannato finocchio e non fa nulla per nasconderlo, ma per il resto è un tipo a posto.
Intanto il tizio continua a seguirmi. Faccio finta di niente, mi chino ad allacciarmi una scarpa. Dannazione, oggi ho messo i mocassini, forse non sono troppo convincente. Comunque il tizio si ferma anche lui e si mette a leggere il giornale. Allora segue proprio me! Ora lo semino, la stazione della metropolitana della terza strada è a due passi.
Ecco, arriva il treno, aspetto di sentire il sibilo dell' aria compressa che chiude le porte e salto sopra. Il ciccione non ce la fa e rimane a terra. Mi guardo intorno, non vedo altre persone sospette. Ora posso rilassarmi e togliere la mano dalla pistola. Sono arrivato, scendo, il mio ufficio è a due passi. Velda, la bella e calda Velda, mi starà aspettando per darmi il ben tornato a modo suo.

- Pulisciti le scarpe, imbranato che non sei altro, non vedi che ho dato la cera?
- Sì cara, è pronta la cena?
- Un accidenti. Tu tutto il pomeriggio a zonzo, ma dove vai poi con questo tempo, sei mica più un giovanotto. Io qui ad ammazzarmi in casa. Ma dove sei stato, cosa hai fatto?
- Nulla di particolare, Ve… cara, ho passato il pomeriggio in giro per la città in compagnia di un paio d'amici di gioventù.   

Di Autore Ignoto
Mio padre aveva uno strano hobby. Quando era solo gli piaceva parlare ad alta voce e registrare tutte le sue parole con un piccolo, superato apparecchio a minicassette.
"Un giorno" diceva sempre "da queste annotazioni che raccolgo da tanti anni, prenderò lo spunto per scrivere dei racconti, magari un romanzo, chissà".
Oggi, nell'anniversario della sua morte, voglio realizzare uno dei suoi desideri: scrivere un racconto usando le sue parole. Quella che segue è la trascrizione fedele di ciò che ho trovato inciso sull' ultima cassetta, registrata proprio il giorno in cui lui morì stroncato da un malore. Lo trovai proprio io, il giorno dopo. Era sul pavimento, Il suo computer rovesciato vicino a lui ancora acceso, il registratore arrivato alla fine della cassetta si era invece spento da solo.

Oggi ho iniziato un lavoro lungo e noioso ma necessario.
Tutti noi abbiamo in testa di dover fare qualcosa che sappiamo ci porterà via molto tempo e cerchiamo di rimandare il più possibile. "Lo farò nelle ferie", poi naturalmente nelle ferie c'è sempre qualcosa di più piacevole da fare. "Lo farò durante la convalescenza", guardando la gamba ingessata. Ma il dottore ovviamente ci sconsiglia di stare a lungo accovacciati, o in qualunque posizione si debba essere per fare quel lavoro. "Lo farò quando sarò in pensione". Ecco, quello proprio taglia la testa al toro.
In pensione, specie se abbastanza giovani ed in discreta salute, non si può proprio evitare.
Oggi ho iniziato a catalogare i miei libri, sia quelli lasciati da mio padre, sia quelli che mi sono arrivati da mia moglie, Lei se ne è andata l'anno scorso per un incidente, senza neanche darmi il tempo di dirle quanto l'amassi ancora. Altri libri hanno provenienze misteriose, forse antichi prestiti mai restituiti o acquisti accantonati in attesa del tempo di leggerli e poi dimenticati. Qualunque fosse la loro provenienza, i libri si sono radunati a migliaia in casa mia, molti nei posti più probabili, come una vecchia libreria, molti altri in quelli più improbabili, come i grandi cassetti di un comò in disuso o gli scaffali un tempo occupati da un impianto HI-FI.
Devo assolutamente fare ordine, ma per fare ordine occorre prima di tutto catalogare. Per fare un esempio, inutile avere l'edizione del 1935 delle "memorie di guerra" di Lloyd George se uno non si ricorda più di averla o, anche ricordandosene, non sa assolutamente dove sia.
Così oggi è il grande giorno. Mi sono seduto davanti al primo mobile da esaminare e ho sistemato il mio PC portatile sulle ginocchia. Inserirò in una lunga tabella il titolo, il nome dell' autore, il genere letterario e l'attuale collocazione. Poi potrò fare ciò che voglio di questi dati decidendo come organizzare la futura Grande Biblioteca Di Casa.
Sono passate due ore. Che confusione! Ho già catalogato un centinaio di volumi. Si va da un improbabile "I figli di mu" di URANIA, alla "Storia della letteratura Italiana" del De Sanctis.

Ora ho in mano un libricino strano. Copertina anonima, di cartoncino blu scuro. Nessun titolo a fronte e neppure sul dorso. Vediamo di cosa si tratta. Perdiana che titolo strano : "Genealogia Futura". Non c'è il nome dell' autore o altre indicazioni. Mi toccherà sfogliarlo per capire di cosa si tratta.
I caratteri sembrano abbastanza antichi ma i fogli non sono ingialliti.

"Capitolo 1
Astolfo Madovio (982 - 1018)
A.D. 1016. Un contingente di guerrieri Normanni arrivò a Salerno per aiutare Guaimaro a combattere i Saraceni, sbarcati sulla costa ed intenzionati a stabilire una testa di ponte proprio a Salerno. Tra questi valorosi Cavalieri, un Barone di nome Astolfo Madovio. Verso la fine di quell'anno, Madovio si trasferì a Capua, per combattere i Bizantini.
A Capua il Barone Madovio conobbe una fanciulla del popolo di nome Atesia, la sposò e non fece più ritorno al suo piccolo maniero presso la foce del fiume Cousnon, su una collina da cui si poteva vedere l'Atlantico e, vicino alla costa, l'isolotto di Mont-Tombe con il suo piccolo oratorio eretto in onore di San Michele"

Mont-Tombe, l'oratorio di San Michele, ma certo! Dopo l' ampliamento di quel primitivo oratorio l'isoletta sarebbe diventata famosa come Mont S.Michel. Allora il Barone Madovio veniva dalla Normandia, già un Normanno di Normandia, cosa c'è di strano!
Madovio nell' Ottobre del 1018 partecipò a quella che passò alla storia come la seconda battaglia di Canne. Questa volta non furono Romani e Cartaginesi ad insanguinare la pianura solcata dall' Ofanto.
Forte di circa tremila uomini e guidati da Mello, l' esercito dei ribelli Pugliesi e dei loro alleati Normanni si scontrò con l'esercito Bizantino di Bojannes. Dalla sconfitta e dalla carneficina si salvarono soltanto in cinquecento tra Pugliesi e Normanni. Tra essi non vi fu Madovio, morto da valoroso per proteggere la fuga di Mello.
Tuttavia il breve matrimonio fu benedetto da due figli maschi, Arnolfo, nato nel 1017 e Adalberto nato nel 1018 dopo la morte di suo padre. Essi diedero origine al ramo italiano del casato Madovio."

Il casato Madovio? Che coincidenza. Io di cognome faccio Maddove, e non vi dico le battute che ho dovuto sopportare a scuola. "Maddove sei?" "Maddove vai" erano le più gentili.
Che il libro tratti delle origini della mia famiglia? La cosa mi incuriosisce, ma non ho tempo e voglia di leggere tutta la cinquantina di pagine, leggerò qualcosa qua e là.

"Capitolo 30
Giovanni Madovo (1622 -1647) figlio di Antonio, nacque a Napoli il 2 Giugno 1622"

Ecco, visto? Il cognome ha perso una "i", Madovo invece di Madovio. Ho proprio l'impressione di aver visto giusto.
"Aveva seguito la professione del padre, dal quale nel 1640 ereditò la bottega di sartoria in Vico Rotto"
Però, che carriera la famiglia! Da Barone Normanno a Sarto Napoletano, non c'è male.
"Giovanni aveva ereditato dai suoi antenati uno spirito nobile ed ardito. Tra i suoi compagni di gioco e poi di gioventù, il più caro era Tommaso Aniello, che passerà alla storia come Masaniello. Idealista, sognatore e dal temperamento artistico, Giovanni era anche un buon pittore dilettante. Presto, con il suo amico Tommaso, entrò nella cerchia di giovani artisti emergenti: Aniello Falcone, Cicco Cataro e Salvator Rosa. Una cugina di Micco Spataro, Antonia, divenne la sua amante e poi nel 1643, rimasta incinta, la sua sposa. Con gli stessi compagni fece parte della temuta "compagnia della morte" che seminava il terrore tra gli Spagnoli di Napoli, uccidendoli senza pietà nei vicoli e, favoriti dal buio della notte, persino nelle piazze."
Caspita, sarà mica che ho avuto un terrorista ante-litteram tra i miei antenati?
"Quando Tommaso, dopo i famosi moti da lui capeggiati, oramai divenuto Masaniello e di fatto quasi vicerè di Napoli, diede segni di squilibrio mentale, Giovanni tentò più volte di ricondurlo alla ragione. Masaniello, reso sospettoso dai molti tentativi di congiura ai suoi danni, lo fece uccidere da un sicario il 15 Luglio 1647, cioè il giorno precedente alla morte dello stesso Masaniello per mano di uno dei suoi nemici, tale Ardizzone.
Triste fu anche il destino di Antonia, la moglie. Rimasta vedova con un figlio di 4 anni, Tommaso, seguì Bernardina, sposa di Masaniello e sua amica, giù per una china senza speranza. Entrambe ridotte alla infima prostituzione nei vicoli di Napoli, morirono di peste nel 1656."

Mamma mia, se davvero Antonia è una antenata della mia famiglia, abbiamo rischiato di essere tutti dei figli di p…, mah, poveraccia, a quei tempi se restavi vedova giovane, con un figlio da sfamare, avevi poche scelte possibili, ma cosa ne sarà stato di Tommaso? Vediamo.

"Capitolo 31
Tommaso Madovo (1643-1720).."

Bene, è sopravvissuto ed è pure stato longevo. Allora posso saltare avanti, la cosa diventa sempre più intrigante.

"Capitolo 33
Alfonso Madovo (1703 - 1765) Nato ad Avellino, manifestò sin da giovane una forte vocazione religiosa. Entrato nel Seminario di Avellino, ne uscì nel 1721 ordinato sacerdote. Le sue doti di intelligenza ed energia gli fecero rapidamente salire i gradini della gerarchia ecclesiastica sino alla nomina a Vescovo di Telese nel 1735. Nel 1736 Alfonso era già circondato da una fama di santità…"

Qui c'è qualcosa di strano. Un vescovo, per giunta in odore di santità, non si sposa, quindi come può entrare questo Alfonso nella genealogia della famiglia? Sarà la fine di un ramo ?
"…quando nella sua vita entrò Maria Immacolata Derita. Maria Immacolata, allora trentenne e già vedova, era nipote della vecchia governante del Vescovo. Donna insolitamente libera ed istruita per i tempi, presto Maria Immacolata attirò l'attenzione di Alfonso che ne divenne il confessore. La santità del Vescovo venne messa a dura prova dalla bellezza matura e consapevole di Maria Immacolata, a sua volta attratta da quel giovane Vescovo così dinamico ed intelligente. In breve la reciproca attrazione vinse ogni spiritualità ed i due divennero amanti, con la vecchia governante complice degli incontri clandestini della coppia nella casa Vescovile"
Ah, però, sua Eminenza! E la nonnina, brava! Beh, si sa il sangue non è acqua, poi due trentenni intelligenti, attivi, per la santità della famiglia Madovo si dovrà attendere un'altra occasione.
"Naturalmente una relazione di quel tipo in un piccolo centro come Telese non poteva essere nascosta a lungo, soprattutto poi da quando Maria Immacolata iniziò a lamentare frequenti malesseri che le comari locali non tardarono ad identificare per quello che erano, cioè i sintomi di una scandalosa maternità. E lo scandalo naturalmente esplose, tanto più clamoroso quanto fosse stato inaspettato. Alfonso fu costretto a rinunciare alla tonaca vescovile ed anche al sacerdozio. Ridotto allo stato laicale, si trasferì presso uno zio che viveva a Milano, dove riuscì ad inserirsi dignitosamente come istitutore nella famiglia di un nobile e per nulla scandalizzato Marchese. A Milano Alfonso sposò Maria Immacolata la quale, dall' Ottobre 1737 al Dicembre 1743 diede alla luce ben 9 figli, l'ultimo dei quali ne causò la morte di parto. Di quei 9 figli, solo tre superarono l'infanzia: Carola, la primogenita, e i due gemelli Onofrio e Orsello. Dato che lo scandalo aveva avuto vasta risonanza, per maggiore tranquillità Alfonso riuscì a registrarli tutti con un cognome leggermente diverso, Maddove."
Ah, ecco la conferma. Dunque i miei antenati erano nientemeno che Baroni Normanni, e probabilmente ho persino un Vescovo tra i miei trisnonni. Non è da tutti, anche se qualcuno può vantare tra i propri avi dei Cardinali e persino dei Papi, direi che non sono messo male. Ma comincio ad essere stanco. Ora salto un po'' di generazioni, vediamo.

"Capitolo 40
Giovanni Maddove (1899-1968)"

Ma questo è mio padre! Eccolo lì, nome, cognome e date, è proprio lui, ma, santo cielo, ci sono altri capitoli dopo, come è possibile..vediamo

"Capitolo 41
Francesco Maddove (1942-2004)"

Sono io! Ma come 1942-2004? cosa vuole dire, come può essere…io sarei morto, anzi no, morirò quest'anno? Dio mio ma chi ha scritto questo libro! E non è l'ultimo capitolo.

"Capitolo 42
Claudio Maddove 1970 …"

Mio figlio, no! no! non è possibile….

Poi nel nastro si sentono solo più dei suoni: il computer che cade a terra rumorosamente, dei passi concitati, un piccolo oggetto, dopo capirò che si trattava di un accendino, e di qualche altra cosa che cade sul pavimento. Infine si sente il rumore di un corpo che si affloscia senza un grido. Il registratore che teneva in tasca, col microfono attaccato ad una clip sulla camicia, ha girato ancora per trenta minuti sino alla fine della cassetta.
Mio padre ha portato il segreto della data della mia morte con se. Del libro misterioso ho ritrovato solo delle ceneri nere e qualche resto di pagina bruciata parzialmente. Su una delle ultime, appena un frammento, si legge solo una parola: "Claud", ad un paio di centimetri di distanza un numero, "6".
Il prossimo anno, il 2006, per me e la mia famiglia sarà tremendo. E così dopo dieci anni, se ancora ci sarò.   

L'angelo bianco
Il mondo gira gira ed esplode, bianco candido abbagliante lancinante. Freddo gelo silenzio fruscio gocce gocce gocce.
Sono qui soffoco la bocca piena di freddo, sputo tossisco manca l'aria manca l'aria . Abbaiano i cani abbaiano gridano gli uomini io sono qui sono qui non posso più parlare non vedo nulla, freddo respiro il ghiaccio. Sto morendo adesso, perché ora così? Mamma mamma vieni a prendermi.

La vedo, la distesa di neve traditrice. Da una parte, vicino ad un grosso cingolato di quelli che battono le piste, Angela, avvolta in una coperta, piange tra le braccia di un soccorritore. Vedo la gente con le giacche a vento rosse ed i lunghi bastoni che frugano nelle profondità, mi cercano.
Un cane è più vicino di altri e mi fiuta, ma sente anche l'odore della morte. Non abbaia festoso, mugola e geme piano, chiamando gli uomini all'opera pietosa. Ecco, anche loro hanno capito ma cercano in fretta di liberarmi, vogliono sperare ancora, ma io non spero più, io sono morto oggi, a ventisei anni.
L'avevo incontrata nel bar della stazione. Era vestita di nero, elegante e sobria. Il viso tirato, il trucco in disordine, stava litigando con un uomo anziano, anche lui vestito di scuro. L'uomo era sconvolto e veniva trattenuto per un braccio da una donna, chiaramente sua moglie, che piangeva e supplicava di finirla "Smetti, ti prego, in nome di Carlo, smetti, lasciala stare quella troia, vieni via". Alla fine l'uomo si era calmato e la coppia era uscita. Lei, Angela, aveva ordinato un cognac e si era seduta ad un tavolino. Intorno era ripreso il brusio solito, lo spettacolo era finito. Era stupenda, mi sembrava una Dea. Il volto arrossato dalla collera, guardava intorno fiera, con aria di sfida. Nessuno osava incrociare il suo sguardo. Io osai.
Pochi giorni dopo uscivamo insieme. Sembrava si fosse ripresa e avesse bisogno di tornare a vivere. Quel giorno, alla stazione, era venuta per andare al funerale del suo ragazzo, morto in un incidente di moto. Alla stazione aveva trovato i genitori di lui. La aspettavano per dirle che non la volevano, che lei era stata la rovina di loro figlio, che tornasse da dove era venuta. Non mi disse altro di quella storia, né io volli sapere altro. Mi inebriavo di lei, ne ero pazzo. Quando accettò di passare il fine settimana con me, nella casa di montagna dei miei, mi sembrò di avere toccato il cielo con un dito. Fu una cosa fantastica. Angela era calda, appassionata, esperta come mai mi era capitato di trovare. Mi sapeva portare così in alto, così lontano, così fuori dal tempo e dalla realtà, che quando tornavo sulla terra, accanto a lei, non poteva più esistere nient'altro, il mio unico pensiero era quello di ripartire al più presto per un altro incredibile viaggio nel mondo dei sensi e dell'estasi.
Il mio amore per lei era totale, non avevo tempo per altro. I libri sui quali stavo preparando due esami erano rimasti aperti sulla mia scrivania al punto al quale ero arrivato prima di quel fine settimana. I miei amici non mi vedevano più. I miei genitori non sapevano se essere contenti della mia visibile, esplosiva, felicità o preoccupati per quella dedizione così esclusiva, così totale.
E siamo a questa settimana. E' caduta la prima neve, Angela mi ha chiesto di andare in montagna a sciare. Io sono un ottimo sciatore e ho scoperto che anche Angela lo è. Quest'anno la neve è precoce, ne è venuta troppa e tutta insieme, senza il tempo per consolidarsi bene. Poi la temperatura è risalita e l'indice di rischio valanghe è salito a 3, molto alto. Ma noi siamo bravissimi, invulnerabili. Oggi abbiamo sfruttato a fondo l'abbonamento settimanale. Veramente io non vedo l'ora di tornare a casa, al caldo, dove Angela si spoglia e mi offre il suo corpo sul tappeto, vicino al caminetto. Dio, anche ora la desidero. Si può essere morti, perché io adesso lo vedo, laggiù il mio corpo coperto da un telo mentre attendono la slitta per portarmi a valle, e desiderare ancora una donna?
Angela si è fermata all'incrocio della pista nera. C'è un nastro colorato teso tra due alberi con un cartello: PISTA CHIUSA - RISCHIO VALANGHE.
"Dai" dice Angela " buttiamoci, non c'è nessuno e non è battuta, sarà magnifico"
"Ma è pericoloso, non si può"
"Meglio, il rischio mi eccita. L'ultima discesa, poi subito a casa…" e mi guarda con quell' espressione che conosco bene, è come se dicesse "ti darò il paradiso e l'inferno, ti farò andare ancora oltre ogni limite".
Non ci penso più, al rischio. Mi butto e lei mi segue, anzi, mi supera sciando magnificamente nel canalone ripido e spaventoso nella sua selvaggia solitudine. Lei è là, più avanti, ma sento un rumore alle mie spalle e giro la testa. Mio Dio, la valanga. Anche Angela la sente, ma si butta in verticale, poi scarta a destra in piena velocità ed è salva. Io cerco di fare lo stesso, ma uno sci si pianta in un cumulo di neve marcia. La valanga mi raggiunge.
Ecco, è arrivata la slitta, in due la guidano a valle. Angela è salita sul cingolato, accanto al guidatore. Il fondo del canalone ora è deserto, rimane la neve smossa e calpestata mentre scende l' oscurità. Accanto a me vedo due ombre. Sono due ragazzi come me. Uno è vestito da motociclista, il casco spaccato in mano. L'altro è in costume da bagno. Mi sorridono tristi.
"Ciao, io sono Carlo. Angela mi aveva sfidato ad una gara in moto, lungo i tornanti dei Giovi. Lei è stata più brava di me".
L'altro mi sfiora la spalla con una mano.
" Ciao, io sono Renzo. C'erano le bandiere rosse e onde di due metri che si frangevano sugli scogli. Angela mi ha sfidato ad attraversare la baia, lei nuotava troppo bene".
Ora siamo amici, Carlo, Renzo ed io. Attendiamo chi sarà il prossimo ad unirsi alla nostra compagnia.    

Il compleanno di Olga
I fari allo xeno della sua costosa coupé illuminavano perfettamente la strada di quell' angolo di Brianza. A quell'ora di Venerdì notte, anzi, Sabato mattina pensò Piero guardando l'orologio sul cruscotto, non c'era traffico. Certo, molta gente era uscita a divertirsi la sera prima. Il giorno dopo, oltre che Sabato era anche festa, però alle cinque non c'era più nessuno. Piero era solo e guidava piano, ripensando all' incredibile nottata appena trascorsa.
Quarantacinque anni, fisico non proprio da Adone con qualche chilo di troppo, titolare di una piccola e florida azienda di elettronica in Brianza, divorziato e senza figli, Piero non aveva certo problemi con le donne. In pratica facevano la fila sulla sua agenda per cercare di aggiudicarsi quella preda ambita, mettere un anello al dito a quel simpatico, non brutto e soprattutto benestante signorino. Per raggiungere lo scopo, le dolci aspiranti non lesinavano né tempo né sesso, che anzi elargivano a piene mani ad un Piero non certo riluttante.
Quella sera doveva essere la tipica cena di seduzione. L'occasione era il compleanno di Olga, una magnifica, giovane ragazza alla quale Piero, da un mese, stava facendo una corte tanto serrata quanto stranamente infruttuosa. Quella ragazza non era una delle tante pronte a sfilarsi la biancheria ad una sua semplice richiesta, e questo fatto inusuale lo intrigava parecchio.
Il ristorante dove l'aveva portata era appartato ed elegante, con un ottima piccola orchestra che permetteva alle coppie di ballare al centro del salone. Lì vicino, un buon albergo aveva una stanza già prenotata, Piero preferiva non portare le sue conquiste a casa propria, gli sarebbe sembrato quasi una promessa di futuri sviluppi. L'albergo doveva essere l' inevitabile conclusione della serata. Almeno questo era il copione già sperimentato molte volte con successo.
Ma le cose quella sera erano andate in modo diverso, estremamente diverso. Piero rallentò ad una rotonda, poi imboccò il raccordo per l'autostrada. Ora con la mente meno impegnata nella guida, passava in rassegna la concatenazione degli eventi che avevano portato a quella sera del 24 Aprile 2004.
L'inizio era facile da ricordare: 11 luglio 1982, una data impressa per sempre nei ricordi dei tifosi di calcio Italiani. Era la data della vittoria del campionato del mondo di calcio. Ma per Piero, ventitre anni, tecnico elettronico, quel giorno era solo una partenza per una trasferta di dieci giorni a Mosca, trasferta non voluta e poco gradita.
Quando la settimana prima il capo lo aveva chiamato non per discutere la cosa, ma per comunicargli la decisione, Piero aveva messo in campo tutte le scuse possibili, dalla classica mamma malata alla ragazza gelosa che non voleva che lui stesse lontano da lei per più di un giorno. Tutto vano. Era il più qualificato, parlava inglese e francese ed aveva il passaporto in regola. Bastava fare di urgenza la pratica per il visto.
Se la sporcizia ed il servizio a bordo del Tu-154 Milano-Mosca non migliorarono il suo umore, le cosiddette formalità doganali lo resero addirittura isterico. Al controllo passaporti dell' aeroporto Sheremetevo c'erano tre varchi aperti. Ognuno aveva una coda di almeno una ventina di persone. Piero osservava le procedure: non riusciva a capire perchè, ma alcuni, indipendentemente dal passaporto, venivano sbrigati in pochi minuti. Altri in una decina. Qualcuno bloccava la coda anche per venti minuti. A Piero, quando finalmente arrivò il suo turno, toccarono i venti minuti.
Dopo quasi due ore di attesa, Piero uscì dalle grinfie del controllo passaporti, cambiò un poco dei dollari della società in rubli ed infine riuscì ad infilarsi in un Taxi, un vecchio Ziguly dai sedili lerci. Diede al tassista il foglietto sul quale la segretaria aveva scritto il nome e l'indirizzo dell' hotel. "Da, Mezhdunarodnaya", disse il tassista con un sorriso, pregustando una mancia generosa.

Piero lampeggiò furiosamente ad un imbecille che gli aveva tagliato strada ed interrotto il filo dei ricordi. Lo riallacciò pensando al Mezhdunarodnaya, al suo maledetto carillon ed allo stramaledetto gallo. Nell' atrio dell'hotel, costruito da americani secondo dettami yankee, campeggiava un enorme complesso allegorico-folcloristico con fontanelle e statuine, culminante in una specie di obelisco che si innalzava sino alla balconata del decimo piano. In cima all'obelisco, un enorme gallo di ceramica. Il tutto, fatalmente, inesorabilmente, scandiva le ore con una musichetta allegra, sempre quella, ed una serie di sonori chicchirichì. Piero sorrise al pensiero, aveva ancora quella musica negli orecchi dopo tutto quel tempo.

Nei due giorni seguenti Piero venne messo al corrente dai colleghi, arrivati la settimana prima per preparare la fiera, degli usi e costumi locali. La mattina di buon ora si doveva andare alla fiera, in Parc Sokolniki, una mezz'ora di taxi. La fiera chiudeva alle cinque del pomeriggio e verso le quattro iniziava il divertimento. Arrivavano le "ragazze delle quattro". Giovani, ventenni o anche meno, sciamavano da uno stand all'altro attaccando discorso con qualunque straniero. Lo scopo era quello di prendere appuntamento per la serata. E non sarebbero state serate mano nella mano al chiaro di luna. Piero ancora sorrideva pensando alle sue notti a Mosca. Lui bel ragazzo italiano, simpatico e soprattutto scapolo attirava le ragazze come il miele attira le mosche. Quando alle cinque usciva dalla fiera, con i colleghi nel taxi vagliava i vari bigliettini con i nomi delle ragazze, l'ora ed il luogo dell' appuntamento, di solito fuori dall'albergo o davanti ai magazzini Gum. C'era solo l'imbarazzo della scelta. Una doccia, il cambio degli abiti, e Mosca diventava il terreno per l' avventura. Piero a volte saltava tutti questi passaggi. Se trovava una ragazza di suo gusto, le diceva di aspettare fino alle cinque, poi via, a visitare Mosca. Le ragazze erano tutte piacevoli, colte e felici che non si volesse arrivare subito al dunque. Il "dunque" arrivava a notte inoltrata, in qualche misero appartamentino di periferia, puzzolente di cavolo, sempre condiviso con amiche o addirittura con la famiglia. Vivere in un appartamento da sole a Mosca era assolutamente impossibile, anzi, vietato. Andare in albergo, impensabile. Gli alberghi erano tutti sorvegliatissimi dalla polizia e qualunque cittadino russo fosse stato sorpreso in una stanza di albergo con uno straniero sarebbe stato arrestato.
Molte di quelle ragazze non erano prostitute come generalmente si intende. Le si faceva felici con una cena in un ristorante per loro inavvicinabile e con lunghe chiacchierate sul mondo fuori dalla cortina di ferro. Poi, se ci fosse stato un regalino acquistato in valuta in uno dei negozi riservati agli stranieri, certo non lo rifiutavano. Piero trovava sorprendente il livello di cultura di quelle ragazze, parlare con loro era sempre piacevole ed interessante. Dopo la nottata la ragazza accompagnava Piero per strada, gli cercava un taxi o fermava un' auto di passaggio. Bastava dare 10 rubli al guidatore e quello l'avrebbe portato dentro al Kremlino. Un bacio e tutto finiva così, con Piero che rientrava in albergo giusto a tempo per la doccia ed il cambio dei vestiti, scandito dal chicchirichì del gallo di ceramica.
Un TIR zigzagante richiese nuovamente l' attenzione di Piero, poi nella sua mente apparve Marina.
Due sere prima della partenza Piero aveva deciso di prendersi una notte di riposo. Era stanco, nei giorni precedenti aveva dormito due o tre ore per notte. All' ora di chiusura attraversò da solo i saloni della fiera. I suoi colleghi si erano già tutti accasati per la serata, tranne quelli che, sposati e fedeli, avevano eroicamente resistito a tutte le tentazioni. In un corridoio vide una ragazza alta e bellissima, di quella bellezza slava che hanno solo le donne di quei paesi. La ragazza era vestita sobriamente e portava una cartellina da documenti. Chiaramente non era una delle "ragazze delle quattro". Piero si fermò a fissarla incantato, tanto che lei se ne accorse.
"Si è perduto o ha avuto un' apparizione ?" gli disse sorridendo, in un perfetto italiano, appena venato dall' accento russo che rendeva la sua voce ancora più sensuale.
"Mi scusi" disse Piero sbalordito "si, forse ho avuto un' apparizione, ma come fa a sapere che sono italiano?"
"Vede, oramai noi abbiamo occhio per gli stranieri. Da come è vestito, dalle scarpe, dalla giacca. Lei certo non è tedesco, non può essere né inglese né americano, forse potrebbe essere confuso con un francese, ma la sua cravatta mi ha detto: italiano"
"Si, è vero, mi chiamo Piero, Piero Algrati, italiano, ovviamente"
"Ed io" disse la ragazza porgendogli la mano "mi chiamo Marina, Marina Godisova, di Mosca, ovviamente"   


Quello fu l'inizio della più bella avventura di Piero a Mosca. Marina accettò di accompagnarlo a fare un giro per il centro della città "Solo quello, però, non speri altro" disse Marina.
Girarono e parlarono a lungo, Piero apprese che Marina era una guida professionista che dipendeva dal Ministero del turismo, parlava perfettamente, oltre all' italiano, il tedesco e stava studiando l'inglese, non era sposata e viveva in un appartamentino di periferia che divideva con un' amica.
"Il suo nome è italiano, Marina, come mai?"
"Oh, colpa vostra. Si ricorda di quella canzone italiana che diceva: Marina, Marina, Marina…qui da noi era molto popolare quando io nacqui. Mosca è piena di Marine, non ne ha incontrate altre?" e sorrise maliziosamente. Durante la passeggiata per il centro, Marina ad un certo punto si fece seria, indicando un brutto palazzo a due passi dalla Piazza Rossa: "La sede del KGB, mettere piede li dentro per noi significa entrare in un incubo". Passato quel momento di gelo, Marina continuò ad affascinare sempre di più Piero. Se la bellezza era un fatto visibile, sotto gli occhi di tutti, il suo spirito e la sua cultura erano delle doti più nascoste, che Piero andava scoprendo con curiosità e piacere. Alla fine Piero la convinse ad andare a cena insieme "Si " disse Marina, "però non in quei ristoranti da turisti dove si mangia orribilmente ed è pieno di spie del KGB. Io non posso rischiare troppo di farmi vedere con te, ti porto io in un posto modesto, ma devi vedere un vero ristorante russo e gustare i veri piatti di Mosca. Inoltre lì nessuno sorveglia, voi occidentali non ci andate mai". Erano passati al tu e Piero ne fu felice.
Il ristorante era grande, fumoso e certo non lussuoso secondo gli standard occidentali. Ma aveva un'atmosfera calda e genuina, la cucina, almeno quel poco che c'era, era buona e la vodka ottima. C'era anche un'orchestrina e Piero e Marina mangiarono, ballarono, bevvero, risero ed ebbero una serata magnifica. Quando fu quasi ora di andare, durante l'ultimo ballo, Piero sussurrò a Marina
"Marina, tra due giorni io parto, torno a casa. Vorrei poterti fare la corte per settimane e anche mesi, se fosse necessario, ma non ho che questa sera e domani. E' stata una serata stupenda, sta a te renderla indimenticabile"
Marina si strinse a lui e gli disse di sì.
Marina telefonò alla amica con la quale divideva l'appartamento, parlottò in russo per qualche minuto "Tutto sistemato, Irina andrà a dormire dai suoi genitori, abitano vicino, andiamo a casa mia".
Fu una nottata indimenticabile, cui seguì una mattinata ancora migliore. Alle sette Piero aveva telefonato in albergo, al suo capo, chiedendo la mattina libera. L'aveva avuta a prezzo di ridacchiamenti e battute scurrili. Piero e Marina fecero l'amore, parlarono, fecero ancora l'amore, ridendo, esplorandosi e comprendendosi al volo, felici come se si fossero conosciuti da sempre ed avessero raggiunto una intesa ed una intimità che raramente una coppia sperimenta se non dopo mesi od anni. Quando fu l'ora di separarsi, Marina gli chiese se non potesse fermarsi almeno un giorno in più per stare con lei. Stabilirono di cercare di spostare il volo di ritorno di Piero al giorno dopo, prolungando la prenotazione in albergo di un altra notte. Le due cose erano necessariamente collegate. Uno straniero che avesse passato una notte in Russia senza avere un albergo prenotato avrebbe sicuramente avuto dei problemi col KGB e chi, russo, gli avesse dato ospitalità avrebbe avuto dei guai molto seri. Piero lasciò a Marina il suo passaporto ed il biglietto aereo. Marina si sarebbe data da fare con le sue conoscenze per cercare di avere quel giorno in più che, per tutti e due, era diventato un bisogno primario.
Si sarebbero rivisti quella sera, sperando che non sarebbe stata la loro ultima sera insieme.
Piero tornò a Parc Sokolniki e passò il pomeriggio a schivare le domande e le battutine dei suoi colleghi. Non vedeva l'ora di uscire, si erano dati appuntamento per le sei davanti all'albergo dove Piero doveva per forza passare a recuperare un ricambio di biancheria ed una camicia pulita.
Erano le quattro e mezza, quando vicino allo stand si fece un silenzio strano. Le ragazze che stavano parlando e scherzando con alcuni colleghi di Piero si azzittirono di colpo e, senza spiegazioni, si allontanarono frettolosamente. Alcuni visitatori russi fecero altrettanto, scusandosi e dicendo che sarebbero tornati l'indomani. A Mosca gli agenti del KGB li riconoscevano a vista, e due di loro stavano avvicinandosi senza fretta allo stand.
Uno dei due si fermò e tirò fuori un foglio da una tasca. L'uomo fece un cenno chiamando l'interprete che era stato assegnato allo stand. Gli disse qualcosa sottovoce, indicando il foglio. L'interprete si voltò verso Piero con aria preoccupata
"Signor Algrati, il compagno Gevorkian vuole parlarle, è del Komitet Gosudarstvennoi Bezopasnosti, si , insomma della polizia"
Piero notò che l'interprete aveva evitato di pronunciare semplicemente la sigla KGB, ed aveva volutamente tradotto impropriamente in polizia quella sigla così carica di minaccia. Ma Piero aveva capito lo stesso chi fossero quelle persone. Il giorno prima Marina gli aveva spiegato il significato di quella temutissima sigla. Tra lo sconcerto dei suoi colleghi, Piero accompagnò i due agenti e l'interprete nel salottino riservato normalmente agli incontri con i clienti.
La persona che era stata presentata come Gevorkian si rivolse a Piero in inglese.
"Signor Algrati, lei parla inglese?"
"Si, certo"
"Bene, parleremo meglio". Gevorkian fece un cenno secco all' interprete, che si allontanò visibilmente sollevato.
"Signor Algrati, posso vedere il suo passaporto per favore?"
Nel cervello di Piero squillarono decine di campanelli d'allarme. Solo in quel momento si rese conto della colossale fesseria che aveva commesso.
"Veramente in questo momento non l'ho qui con me" disse Piero con un tremito nella voce.
"Ah si? e dove è il suo passaporto, signor Algrati ?" Piero percepì chiaramente il tono di minaccia nella domanda
"Veramente l'ho dato ad una persona per sbrigare una pratica burocratica"
"E chi sarebbe questa persona, e dove è ?"
Piero si sentì gelare. Sapeva che dire il nome di Marina significava metterla in guai tremendi. Ma non dirlo avrebbe messo lui in guai ancora peggiori di quelli nei quali indubbiamente già era. Improvvisamente si rese conto che non poteva rispondere alla seconda domanda: non conosceva l'indirizzo di Marina, non aveva assolutamente pensato di averne bisogno. Aveva solo un numero di telefono che non aveva ancora provato ad usare. Piero cominciava a capire quanto fosse stato imprudente: aveva lasciato il suo passaporto ed il suo biglietto aereo ad una persona appena conosciuta, della quale sapeva solo il nome che lei gli aveva detto, e che quindi poteva benissimo essere falso, e non aveva nemmeno preso nota dell'indirizzo! Si diede dell'imbecille.
"Signor Algrati" la voce tagliente di Gevorkian lo scosse "devo ritenere che lei non sappia chi è in possesso del suo passaporto e dove sia?" Piero stava per rispondere qualcosa ma il secondo agente, che sino a quel momento era stato in silenzio intervenne.
"Signor Algrati, lei naturalmente si rende conto che il fatto stesso di non poter esibire il suo passaporto la rende passibile di arresto?" Piero impallidì. Alla sua mente si affollarono immagini di film e romanzi nei quali si parlava delle misteriosi carceri del KGB, di terribili interrogatori, di persone mai più viste dopo essere entrati in quel lugubre palazzo che Marina gli aveva mostrato il giorno prima.
"Si, lo capisco" bisbigliò Piero.
Il secondo agente tirò fuori una busta. La aprì laboriosamente e ne estrasse qualcosa che Piero riconobbe come il suo biglietto aereo
"Dobbiamo pensare che lei abbia dato anche il suo biglietto aereo alla stessa persona?".
"Si, signore, è così"
Gevorkian e l'altro agente si scambiarono uno sguardo, poi Gevorkian tirò fuori da una tasca il passaporto di Piero.
"Il suo passaporto ed il suo biglietto aereo, come vede, li abbiamo noi. Erano in possesso di una donna, la compagna Marina Godisova. Glieli aveva dati lei?"
"Si"
"Cosa avrebbe dovuto farne, la compagna Godisova, di questi documenti?"
"Mi doveva aiutare a spostare la mia partenza di un giorno"
"E perché voleva restare un giorno di più, signor Algrati ?"
Piero si rese conto che il KGB sapeva già tutto e che mentire sarebbe stato inutile e pericoloso
"Volevo, anzi, volevamo, io e la signorina Marina, passare un giorno di più insieme" disse Piero.
I due si guardarono, poi Gevorkian, che doveva essere il capo, riprese a parlare in tono secco
"Già, è quello che ci ha detto anche la compagna Godisova" Gevorkian lasciò passare qualche secondo, poi sospirò e si rivolse a Piero con un tono più pacato, quasi paterno.
"Signor Algrati, lei è giovane ed è la prima volta che è ospite, ripeto ospite, dell' Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche. Lei ha commesso una grave leggerezza che potrebbe costarle molto cara. Potrebbe essere espulso, potrebbe persino finire in prigione per parecchio tempo". Piero si sentì gelare "Lei è qui per lavorare, e probabilmente dovrà tornare qui in futuro per il suo lavoro. Se vuole essere sempre un gradito ospite e non una di quelle persone indesiderabili alle quali non viene dato il permesso di venire qui, segua i nostri consigli. Lavori, magari si diverta anche, ma con giudizio. Lasci in pace i nostri lavoratori e soprattutto le nostre compagne lavoratrici".
Gevorkian prese il passaporto ed il biglietto aereo e li mise sul tavolo, davanti a Piero.
"Lei è fortunato, per questa volta ignoreremo questa trasgressione, la considereremo una stupida leggerezza dovuta alla sua inesperienza ed ai suoi ormoni" Gevorkian si concesse una specie di ghigno "Ignoreremo anche i suoi diciamo, peccatucci precedenti, come quei rubli che ha in tasca ed ha ottenuto illegalmente in cambio dei suoi dollari. Ma sarà l'ultima volta. Se ci dovessimo rivedere, temo che non ne serberebbe un buon ricordo. Ah, mi raccomando, questa sera vada in albergo, mangi qualcosa se ha ancora appetito, faccia una buona dormita, dato che sono molti giorni che dorme pochino, e domani non perda il suo volo. Per nessuna ragione".
Gevorkian lasciò che quell'ultima frase detta in tono minaccioso si imprimesse bene nella mente di Piero, poi fece un cenno al suo collega ed i due se ne andarono senza salutare. Piero si sentiva ancora tremare le gambe. Poi si dette del vigliacco: non aveva chiesto cosa era successo a Marina.


Piero vide una stazione di servizio e decise di fermarsi a prendere un caffé. Posteggiò ed entro nell' autogrill semideserto. Mentre aspettava il caffè pensò ancora a Marina. Naturalmente aveva seguito i "consigli" di Gevorkian, ma la mattina, dall' aeroporto, aveva provato a chiamare quel numero di telefono. Rispose una voce di donna, che parlava solo russo. Quando Piero chiese di Marina, sentì solo delle parole incomprensibili dette in tono arrabbiato, poi il telefono venne riagganciato.
Piero nei due anni seguenti tornò altre due volte a Mosca per lavoro. Tentò molte volte di chiamare quel numero ma il telefono squillava libero e non rispose mai nessuno. Poi Piero lasciò quel lavoro per creare con un suo amico quella società della quale era oggi unico proprietario. Non tornò mai più a Mosca, ma il ricordo di Marina non sbiadì, restando tra le esperienze più intense e piacevoli della sua vita, così come incancellabile e sgradevole era il ricordo del suo incontro col KGB.

Piero finì il caffè e tornò alla sua automobile. Si immise sull' autostrada e tornò a quello che era accaduto al ristorante, poche ore prima.

Lui ed Olga avevano parlato molto, di tante cose. La ragazza era piacevolissima, intelligente e spiritosa anche se quella sera aveva un atteggiamento un po' enigmatico. L'aveva conosciuta un mese prima in una agenzia di viaggi. Piero era rimasto colpito da Olga ed aveva iniziato a farle una corte discreta ma insistente. Grazie alla sua rete di amicizie, aveva avuto l'indirizzo ed il numero di telefono di Olga.
A sua insaputa, Olga aveva messo in moto le sue amicizie ed aveva avuto a sua volta molte informazioni su Piero. Piero la interessava parecchio.
Erano già usciti insieme una volta, una innocente gita di Sabato a visitare una mostra d'arte a Mantova, nel magnifico Palazzo Te. Una giornata gradevolissima, ma puramente amichevole. Olga poi si era fatta pregare inutilmente per altri appuntamenti. Infine aveva accettato di vedere Piero il 24 sera, il compleanno di Olga, come lei stessa gli aveva rivelato nel corso di una lunga telefonata.
Già, Venerdì sera, ieri sera, pensò Piero. Bellissima serata, che aveva preso una svolta imprevista al momento dell'ottimo dolce, che stavano gustando con piacere

"Piero, per telefono ti avevo detto che non volevo assolutamente un regalo da te, ricordi?"
"Certo, infatti mi è spiaciuto molto, ma ho rispettato il tuo desiderio, ma mi spieghi perché?"
"Si, certo" Olga aveva un' aria misteriosa, ma sembrava anche imbarazzata. Si prese del tempo bagnandosi le labbra con l'ottimo passito che aveva davanti.
"Vedi, questa sera sarò io a fare due regali, uno a te ed uno a me stessa. Ma non ci sono pacchetti da aprire, i regali sono già qui, tu lo hai davanti, ed anch'io ho il mio regalo davanti a me"
Piero rimase un attimo sbalordito, poi sentì un'ondata di emozione, seguita da una immediata reazione fisiologica. Quella ragazza aveva davvero qualcosa di diverso da tutte le altre.
"Si, certo, Olga, credo di capire. Un regalo a me ed uno a te. Per quello che mi riguarda, è quello che più desidero al mondo; spero che sarà bello anche per te. Se vuoi, possiamo andare via subito conosco un posto…".
Lo sguardo di Olga divenne serio, il sorriso si spense. La ragazza finì in un unico sorso il bicchiere di passito.
"No, Piero. Lasciami finire, tu sei per me una persona veramente speciale, ma non verrò nel tuo letto questa sera, e nemmeno un'altra sera".
Piero ritrasse la mano che aveva appoggiato su quella di lei.
"Non capisco, ho detto qualcosa di sbagliato? Ti ho offeso? Mi sembrava…"
"No Piero, non mi hai offeso" gli occhi chiari di lei erano lucidi, sorrideva ma sembrava commossa. Piero non l'aveva mai vista così bella, così dolce. Il desiderio tornò ad invaderlo, prepotentemente. Non si ricordava di aver desiderato così una donna da molto, molto tempo.
Visto che Olga non parlava più, Piero le riprese la mano
"Cara, sei dolcissima e bellissima, sei forse la donna più desiderabile che abbia avuto la fortuna di incontrare da molti anni, mi sembrava anche di non esserti indifferente. Perché dici di no?" Olga non lo guardava negli occhi, poi parlò a voce bassa, tanto bassa che Piero faticò a sentire le parole, nella musica di sottofondo del ristorante.
"Perché Piero, io sono stata felice di conoscerti, voglio anche continuare a vederti. Però devi sapere una cosa. Io sono nata, come sai, il 24 Aprile del 1983, ma non in Italia, sono nata a Mosca. Mia madre si chiama Godisova, Marina Godisova". Olga guardò negli occhi Piero. Vi vide la sorpresa, poi l'attenzione. Le parve di sentire i meccanismi di una calcolatrice che dentro il cervello di Piero stavano facendo i conti. Infine fu come se la verità esplodesse di colpo nella sua mente.
"Sei Russa? Sei la figlia di Marina….cristosanto, non mi dirai che tu, che tu sei nata…"
"Sono nata dal tuo incontro con Marina Godisova, sono la tua bambina russa" lo interruppe Olga con calma, sorridendo "Io oggi mi sono regalata un padre, tu hai ricevuto una figlia, due regali piuttosto inconsueti, vero Piero?"

Il casello dell'autostrada richiese per un attimo la sua attenzione. Piero imboccò la strada che in pochi minuti lo avrebbe portato a casa, di nuovo immerso nei ricordi.
Olga, sua figlia Olga, Piero pronunciò "figlia" ad alta voce, quasi per imprimersela meglio nella mente, gli aveva raccontato il resto della storia.

Marina aveva passato dei momenti orribili quando il KGB era venuta in ufficio a cercarla. Come aveva appreso poi, uno dei suoi colleghi, che riteneva un amico fidato ed al quale aveva chiesto aiuto per spostare il volo di Piero, era un informatore del KGB. Cosa non sorprendente, visto che il KGB aveva informatori ovunque. L'interrogatorio da parte dello stesso Gevorkian e del suo collega non era stato così relativamente gentile come quello toccato a Piero. Furono brutali. Le dissero che era una puttana, che per quello che aveva fatto c'era l'arresto, il licenziamento dal ministero ed il trasferimento in qualche remota cittadina sperduta nell'immensità dell' Unione Sovietica. Alla fine, dopo un'ora di paura, le dissero che solo per il fatto che suo padre era un pezzo grosso della burocrazia statale e che lei, Marina, non aveva precedenti di quel genere, per quell' unica volta, se la sarebbe cavata con la sospensione dal lavoro per sei mesi, senza paga e senza sussidi.
In seguito, accortasi di essere incinta, Marina decise di tenere il bambino. Si trasferì dai suoi genitori che vivevano in un vecchio e dignitoso quartiere riservato agli alti burocrati. Per questa ragione Piero non ebbe mai risposte alle sue telefonate. Con l'aiuto dei genitori, Marina continuò il suo lavoro che, due anni dopo, le consentì di conoscere Giovanni Brembi, un professionista di Bergamo sulla cinquantina, una bravissima persona. Giovanni si innamorò di Marina e della sua splendida bambina. Marina non era innamorata di lui, ma aveva visto la bontà e l'onestà di quell' uomo ed aveva colto l' occasione per dare a sua figlia una possibilità di vita incomparabilmente migliore di quella cha avrebbe potuto avere a Mosca.
Con molte difficoltà, Giovanni riuscì a sposare Marina ed a portare lei ed Olga in Italia. Giovanni fece anche di più, adottò Olga e le diede il suo nome. La famiglia visse tranquilla e senza preoccupazioni sino a quando, erano trascorsi due anni, a Giovanni venne diagnosticato un male incurabile che lo portò via in poche settimane. Marina soffrì molto, era veramente devota e grata a Giovanni per tutto quello che aveva fatto per lei e sua figlia.
"Perché", aveva chiesto Piero a Olga, "tua madre non mi aveva cercato quando aveva saputo di essere incinta? Aveva visto il mio passaporto, sapeva dove trovarmi"
"Certo, ma mia madre è molto onesta ed orgogliosa. Non voleva assolutamente prenderti in trappola, non voleva che tu pensassi ad un espediente per farsi sposare e portare in Italia".
"Sarei stato felice d'aiutarla, nessuna trappola, figuriamoci. Ma un' altra cosa, come fai a sapere di me, come hai fatto a trovarmi, non capisco"
"Sei tu che hai trovato me, non ricordi? "
"Si, ma io non avevo la minima idea di chi tu fossi veramente"
"Caro Piero, non riesco a chiamarti papà, quando ti sei presentato mi è venuto un colpo, mia madre mi aveva detto il nome di mio padre, ma pensavo fosse un' omonimia. Da queste parti il tuo nome è abbastanza comune. Poi a casa, quando ho raccontato a mia madre di te, perché io le racconto sempre tutto, che avevo conosciuto un certo Piero Algrati, più anziano di parecchio, ha voluto che ti descrivessi, che le dicessi quel poco che sapevo, poi è scoppiata a piangere e mi ha raccontato tutta la storia".
Uscirono dal ristorante in silenzio, poi Piero mise un braccio sulle spalle di Olga.
"Io ero innamorato perso di tua madre. Era meravigliosa. L'ho cercata tante volte, poi mi sono rassegnato…senti, adesso ti riaccompagno a casa, magari potrei venire su a rivederla?"
"Era quello che speravo tu dicessi, Piero. Mia madre mi ha detto che non ha mai smesso di pensarti. Le telefono per avvisarla, ne sarà felice"
Marina era ancora una donna bellissima. Le piccole rughe agli angoli degli occhi verde-chiaro ed una certa durezza nei lineamenti tradivano l'età, ma il tempo era stato straordinariamente generoso con lei. Piero trattenne il fiato, non sapeva cosa dire, poi, spontaneamente, aprì le braccia e Marina vi si buttò, stringendolo a sé. Poi lui, Olga e Marina rimasero a parlare per molte ore.

Piero azionò il telecomando del cancello, l'alba iniziava a rischiarare il profilo della sua bella villetta in mezzo agli alberi. Viveva da solo in quella villa da dopo il divorzio. Piero lasciò la macchina nel box e si avviò per la scala interna con un sorriso. Doveva andare a dormire, doveva riposarsi. Quella sera stessa aveva un appuntamento importante. Usciva con Marina. Se tutto fosse andato come aveva ragione di sperare, un mucchio di ragazze che conosceva sarebbero rimaste deluse. Lui avrebbe presto chiesto in moglie una bella quarantacinquenne di origine russa, era tempo di riunire la famiglia.

Non si può cogliere un fiore …
L'aria era carica di odori. Per l'ape che stava svolgendo il suo compito di raccoglitrice, era una giornata piena di soddisfazioni. Ancora un ultimo carico di nettare, poi sarebbe tornata all'alveare distante qualche centinaio di metri. Due profumi raggiunsero contemporaneamente i sensibilissimi recettori dell'ape. Uno proveniva da un carnoso fiore rosso. Era intenso e speziato. L'altro, più distante, era emanato da un grande fiore bianco, ed era sottile, intrigante, ricco di promesse di grande dolcezza. I centri nervosi dell'ape elaborarono le informazioni in pochi millesimi di secondo, e la decisione fu di dirigersi verso il fiore bianco. Terminato il suo lavoro, che l'aveva portata fuori dal percorso abituale, l'ape si diresse verso l'alveare lontano. Fu così che si trovò intrappolata nella ragnatela tesa tra il ramo basso di una quercia ed un vicino cespuglio. Il ragno avvertì gli scossoni sulla tela e dal suo osservatorio all'estremità di uno dei tiranti si diresse velocemente dove l'ape si dibatteva. La raggiunse ed iniziò il suo lavoro di carnefice, avvolgendola strettamente nei fili che andava estrudendo dal suo corpo.

Ai piedi delle collina c'era un piccolo lago dalle acque fangose vicino alla riva, ma limpide e verdi là dove si facevano profonde. Il lago ospitava un villaggio di palafitte. Dei tronchi tagliati rozzamente e infilati a forza nel fango sorreggevano, circa due metri sopra il pelo dell'acqua, le piattaforme di rami robusti e disposti con ordine, sulle quali si ergevano poche capanne circolari di legno, fango e paglia, collegate tra loro da piccole passerelle di tronchi.
Non si vedevano uomini, erano tutti fuori per una battuta di caccia. Sulla riva, alcune donne erano intente ai lavori quotidiani mentre numerosi bambini giocavano o, i più grandicelli, aiutavano le madri nei loro lavori. Una delle donne stava seminando qualcosa in una specie di orto. Con un bastone appuntito scavava piccole buche nel terreno sassoso, vi depositava un seme che poi ricopriva di terra. Vicino a lei, all'ombra di una grande quercia, riposava un neonato avvolto in un ruvido tessuto di lana.

Il grande predatore aveva fame. Era vecchio, il corpo robusto coperto da cicatrici di cento lotte per la supremazia nel branco. Alla fine aveva perso. Un giovane vigoroso e coraggioso aveva sfidato il vecchio capo, lo aveva vinto e scacciato, impossessandosi del suo potere e delle sue femmine. Quello che era più grave per il vecchio despota era la solitudine. Non c'era più la forza del numero che consentiva al branco di cacciare le prede più grosse e pericolose, delle quali lui, il capo, pretendeva ed otteneva le parti migliori. Ora era ridotto allo stremo e per la prima volta in vita sua, accucciato tra l'erba in una posizione leggermente sopraelevata, stava spiando una creatura piccola e indifesa, che sino a ieri avrebbe guardato con disprezzo: un cucciolo di uomo, che dormiva sotto una quercia vicino al villaggio. Cauto e silenzioso iniziò ad avvicinarsi.

Un uccello in cerca di cibo per la sua nidiata scorse dall'alto un grosso ragno che si dava da fare al centro della sua tela, vicino ad una quercia. Il piccolo volatile si lanciò velocissimo verso il suo bersaglio, lo colse di sorpresa, sfondando senza la minima fatica la tela tessuta con maestria ma non certo in grado di reggere un simile impatto. La donna che stava china nell'orto scorse con la coda dell'occhio il movimento vicino alla quercia sotto la quale riposava suo figlio. Si rialzò e cercò di capire cosa l'avesse messa in allarme. La vicina foresta era piena di pericoli e reagire velocemente al minimo movimento inconsueto era fondamentale per sopravvivere. La donna, visto un uccello che si allontanava, si stava rassicurando, non c'era nulla di pericoloso in vista. Improvvisamente però, in quella stessa direzione, le parve di scorgere qualcosa di scuro e minaccioso tra l'erba alta. Aguzzò lo sguardo e trasalì, vedendo due occhi gialli fissi verso di lei. La donna si precipitò ad afferrare il piccolo e contemporaneamente lanciò un grido d'allarme.

Abituate a non fare domande ma a reagire, tutte le donne lasciarono all' istante le loro occupazioni, radunarono i bambini incitandoli a correre e si diressero verso la passerella di tronchi che univa il villaggio alla riva. Giunte alla prima capanna ritirarono i tronchi e si trovarono al sicuro, in un luogo inaccessibile a qualsiasi animale terrestre.
Il vecchio predatore capì di aver perso la partita e si ritirò nella foresta, alla disperata ricerca di qualcosa con la quale placare la sua fame.

Quel piccino sfuggito alla morte non era un bambino qualsiasi, era il figlio del capo di quel villaggio.
Egli crebbe e diventò a sua volta un capo. Ebbe molti discendenti, alcuni dei quali si distinsero per forza e valore. Nei secoli e nei millenni successivi, aiutata dalla fortuna, dall'abilità e dall' intelligenza ereditata dai suoi progenitori, la stirpe di Heran, quello era il nome del bambino, si diffuse in gran parte del mondo conosciuto. Nella maggioranza dei casi si trattò di persone che transitarono sulla terra senza lasciare traccia. Al contrario, altri furono guerrieri, navigatori, principi, artisti e scienziati i quali, ognuno nel proprio campo, contribuirono alla storia dell'uomo vincendo o perdendo battaglie, portando oggetti sconosciuti da posti lontani, influenzando la cultura con le loro opere e facendo progredire le conoscenze.

La navetta sperimentale Cronos x1 si materializzò dal nulla a circa 400 metri di quota, silenziosamente, tranne che per lo spostamento d'aria generato inevitabilmente. All' interno tre uomini osservavano dei monitor.
- Apparentemente siamo arrivati, comandante. Parametri x, y z: posizione 42° 22' Nord, 26° 31' Est. altezza 1300 metri sul livello standard, 422 metri dal terreno. Parametro T non definibile. Presunto N-10000. L'ufficiale aveva recitato questi dati con voce incolore, ma il pallore del viso tradiva una forte emozione.
Il comandante guardava su di un altro monitor la superficie sotto di lui. Scorse una grande foresta, un piccolo lago, una serie di radure verdi ed invitanti. Non c'era molto tempo per scegliere, la navetta non era stata costruita per volare, ma solo per posarsi a terra nel modo meno drammatico possibile.
- Portala giù, in quella radura vicino al lago. Da li inizieremo ad esplorare per verificare il parametro T. Piano, mi raccomando. Parafrasando quello che disse un nostro famoso predecessore: è un piccolo passo per noi, un grande balzo per l'umanità.
Il terzo membro dell'equipaggio, il pilota, manovrò con dolcezza alcuni comandi. La navicella obbediente si posò sull'erba della radura, senza rumore. All' interno, i tre uomini si congratularono a vicenda e si prepararono ad uscire.

L'ape si diresse decisa verso il fiore rosso e carnoso, poi fece ritorno incolume al suo alveare. Non poteva saperlo, ma aveva appena evitato una trappola mortale.
Il ragno restò in paziente attesa ben nascosto dove un tirante della tela si attaccava alla quercia.
Un uccello in cerca di cibo per la sua nidiata sorvolò la grande quercia, non vide nessuna possibile preda e rivolse la sua attenzione ad una vistosa farfalla che volava poco lontano.
Il grande predatore continuò ad avvicinarsi furtivo al piccino addormentato all'ombra della quercia. La madre, poco lontano, coprì di terra il seme appena messo nella piccola buca. Quando udì un rumore di erba mossa e sentì il ruggito, era troppo tardi. Veloce e preciso, il predatore raggiunse il bambino con un ultimo balzo, lo prese tra le fauci e si diresse trionfante verso la vicina foresta, incurante delle urla che sentiva dietro di se. La stirpe di Heran non sarebbe mai esistita.

In quel preciso istante la navicella Cronos x1, la prima macchina del tempo ideata e costruita dalla razza umana, svanì con i suoi occupanti, lasciando dietro di se uno schiocco di frusta quando l' aria andò ad occupare lo spazio dove un attimo prima si trovava la navicella. Anche la civiltà e la cultura che l'avrebbero prodotta, da lì a diecimila anni, erano scomparse. La storia dell' uomo, delle sue conquiste e delle sue scoperte era completamente cambiata.
Al suolo, nella radura, restò solo un segno circolare di erba schiacciata, con al centro un grande fiore bianco tranciato alla radice.   

Casa, dolce casa
Certo che mangiare pesante ed un poco d'alcool possono fare dei brutti scherzi anche ad una persona equilibrata e perfettamente sana di mente come il sottoscritto.
Ho buttato giù questi appunti in fretta, sin tanto che ho ancora i ricordi chiari, ma sentite un poco che razza di incubi ho avuto questa notte, dopo una cenetta alla piemontese. Dodici antipasti compresa la bagna cauda, agnolotti al Barolo, bolliti misti, bunette, grappini, ah si, dimenticavo, un paio di bottiglie di Dolcetto di Dogliani, di quelle toste.

Pensate un po', sono in casa mia, sento ...scrach scrach scach, un rumore di passi dentro all' armadio! Apro un' anta con un po' di timore. Erano i vestiti. Stavano passando di moda. Non faccio a tempo a chiudere l'armadio che sento dei lamenti in cucina. Ci vado, era il rubinetto, disperato perché perdeva sempre. Lo consolo e mi ritrovo a letto. Poi, non so come, ecco un corteo che attraversa la stanza: fischietti, tamburi, slogan ritmati. Erano i miei quadri, venivono dalla sala, manifestavano per la promozione a dirigenti. Finita anche questa odo delle vocine disperate…"ahi, ahi, cattivo, basta, ahi". Mi libro in aria e vedo, in corridoio quell'energumeno del pendolo che stava battendo le ore, povere piccole…
Mi ricordo di essermi rivoltato e di aver abbracciato il cuscino.
Baaaau, bababau, wooof, auuuu, una cagnara dell'accidenti. Questo non mi ha turbato, ho fatto finta di niente, nel sogno ero abituato alla treccani lassù in libreria, che faceva così tutte le notti di luna piena. Faccio un ultimo tentativo di dormire, in realtà ero lì che sudavo e smaniavo nel sonno…driiin, driin, dannazione, quel suonato del campanello dell'ingresso! Vado ad aprire e mi inchino: erano i conti che tornavano, ma si erano scordati le chiavi.
Pensate, ho avuto anche, hmm, mi vergogno, ecco, si, insomma, delle visioni erotiche. C' era in freezer un minestrone surgelato che faceva vedere alle coppe gelate che lui aveva il pisello…anzi tanti piselli…pensava forse di scaldarle? Ma il culmine è arrivato quando, cambiando improvvisamente scena come succede in tutti i sogni, mi sono ritrovato seduto alla mia scrivania, con in mano una scatola di fiammiferi con i quali ho acceso il computer. Che bel focherello! Alla luce del piccolo falò ho potuto individuare da dove proveniva un rumore di passi veloci e cadenzati: dal calendario, correva l'anno 2004, mamma mia, come correva!.

Buffo, vero? Ripeto, guardate come può ridursi una persona perfettamente sana di mente quando mangia pesante e sogna. Ma adesso devo lasciarvi, ho sentito la tromba delle scale suonare, deve essere la società di traslochi.
Come, non ve l'ho detto? Lascio questa casa, vado a vivere in una baracca. Ricordate? Casa dolce casa. Bene, io sono diabetico. Ci tengo alla salute.
Ma perché quelli dei traslochi sono vestiti di bianco? Strano, anche il camion è strano, sembra un'ambulanza.   

La scelta
"Cerchi di tirarsi su, signora, che le facciamo vedere il suo bambino", Il dottore entrò nella stanza, frettoloso. Era seguito dallo sferragliare di una piccola culla malandata, sospinta da un'infermiera.
Greta cercò di fare quello che le diceva il dottore, sentiva dolori dappertutto, specialmente dove era stata ricucita a seguito del parto cesareo. L'infermiera sistemò meglio i cuscini, attese che Greta trovasse una posizione sopportabile, poi prese con cura il fagottino dalla culla e lo porse ala neo mamma, tra l'affettuosa curiosità delle compagne di stanza.
"Ciao Alfonso, come sei bello" sussurrò Greta al fagottino addormentato. Bello come tutti i neonati di poche ore; aveva le grinze sul visino, le labbra più viola che rosa, gli occhi chiusi ed un po' cisposi. Ma era il suo bambino e lo trovava stupendo. Lo strinse dolcemente, ripensando a tutti gli avvenimenti che l' avevano condotta in quell' ospedale di Brescia a tenere tra le braccia la sua creaturina.
Greta non era più giovane, per essere al primo parto. Nel 1945 partorire il primo figlio a 37 anni non era comune, era anzi considerato molto a rischio. La sua corporatura minuta, le anche strette ed i postumi di gravi patimenti subiti di recente, avevano reso praticamente obbligata la scelta del suo dottore di praticare il parto cesareo. Greta e suo marito Antonio erano rientrati da pochi mesi dall' Etiopia, dove si erano conosciuti. Lui era un funzionario del governo coloniale, un uomo del sud, molto religioso. Lei era di lontana origine tedesca, come tradiva il suo nome, pragmatica, dura ma passionale. Si erano conosciuti ad Addis Abeba e si erano sposati dopo pochi mesi. In breve la guerra per l'Italia volse al peggio. Ad Addis Abeba arrivarono gli Inglesi. Come tutti i civili Italiani che non si diedero alla macchia (alcuni di loro vissero in capanne nella foresta sino alla fine del conflitto), Greta ed Antonio videro confiscati i loro beni, dalla casa agli spiccioli che avevano in tasca. Vennero poi trasportati in Eritrea, ad Asmara, e rinchiusi per mesi in un campo di concentramento, stipati in baracche di lamiera. Fuori la temperatura toccava i 50 gradi e le baracche diventarono dei forni. Alcuni morirono, altri, come Greta ed Antonio, ebbero delle gravi forme di insolazione e disidratazione, ma sopravvissero. Nel Gennaio del 1943 i due coniugi, insieme a quasi tutti i sopravvissuti del campo di Asmara, vennero affidati alla Croce Rossa che li imbarcò su una vecchia carretta con le insegne della Croce, non sempre rispettate dai sommergibili dell' uno o dell' altro contendente. Il canale di Suez era impraticabile quindi si dovette scegliere un'altra rotta. Dopo aver puntato a Sud, la nave doppiò il Capo di Buona Speranza per poi risalire la costa occidentale dell' Africa. Entrò in Mediterraneo da Gibilterra per approdare finalmente a Genova dopo un viaggio di due mesi, duro, faticosissimo e rischioso. Ma almeno non erano stati separati, erano rimasti con gli stracci che avevano addosso ma vivi ed insieme. Si ritennero fortunati. Non avevano più una casa, ma trovarono rifugio a Brescia, presso lontani ma umani parenti di lei. La vita continuava, ed a riprova di ciò, Greta restò presto incinta.
Nei giorni precedenti al parto, Antonio aveva dovuto andare a Milano, per cercare degli amici che gli avevano promesso aiuto e forse un lavoro. La cosa gli prese molto più tempo del previsto, in quei tempi non era facile né viaggiare nè rintracciare delle persone. Antonio riuscì a ritornare a Brescia solo quattro giorni dopo la nascita del bambino. Si precipitò all'ospedale per abbracciare sua moglie e conoscere finalmente suo figlio. Stavano chiacchierando felici, guardando il loro piccino, quando udirono le sirene dell'allarme aereo. Il dottore accorse insieme ad una suora "Presto, tutte quelle che possono camminare fuori, svelte, al rifugio, le altre verranno prelevate dai barellieri; veloci, veloci!" . Tra la confusione generale, Antonio aiutò Greta a mettersi addosso un impermeabile, avvolsero il bambino nello scialle che Greta teneva sulle spalle, poi, con Antonio che sosteneva Greta, si diressero verso il rifugio.
L'ospedale era vicino ad una antica chiesa, Sant'Afra. Sotto la chiesa, una robusta costruzione di pietra, si trovava una cripta abbastanza spaziosa da contenere parecchie persone. C'era anche un piccolo altare. La cripta era stata adibita a rifugio antiaereo e Greta ed Antonio vi entrarono, scendendo una ventina di gradini. Intanto gli aerei, uno stormo di bombardieri B24 "Liberator", erano sul cielo di Brescia e già si udivano i primi scoppi. "Liberator", un nome di un macabro umorismo per un ordigno destinato a "liberare" dalla vita soprattutto i civili delle città bombardate a tappeto. Nella cripta vi era una ventina di persone, tra le quali un sacerdote che andò all'altare e cominciò a celebrare la Messa. Tutti si fecero il segno della croce e incominciarono a pregare.
I boati delle bombe si facevano sempre più vicini, mentre le lampade appese al basso soffitto della cripta cominciarono ad oscillare violentemente.
"Greta", disse Antonio, "vieni, andiamo vicini all' Altare, sono sicuro che Dio ci proteggerà". "No", Greta replicò con tono fermo "Mettiamoci invece lì, vicini a quel muro, mi sembra più sicuro". I due discussero brevemente ma animatamente, a bassa voce, poi una decisione fu presa, proprio mentre il grappolo di bombe da 250 chili, sganciate pochi secondi prima dalla pancia di un B-24 stava completando il suo tragitto. Le bombe sfondarono il tetto della chiesa, ma non erano costruite per esplodere ad un impatto così leggero. Un istante dopo trovarono il pavimento di pietra. Li finalmente liberarono tutta la loro potenza distruttrice. La Chiesa sembrò rigonfiarsi, poi esplose a sua volta. I muri secolari si sbriciolarono, il pavimento venne in parte ridotto in polvere, in parte venne scagliato giù, verso la cripta, come un maglio impazzito. Della chiesa rimase una nuvola di polvere di marmo e pietra e qualche cumulo di detriti.

L'uomo si rivolse alla ragazza che aveva a fianco e che contava di sposare appena possibile. "Vedi, qui esisteva una chiesa, si chiamava Sant'Afra. Venne rasa al suolo nel Marzo del '45 da un bombardamento dei nostri amici americani. Sotto, nella cripta, c'era un piccolo rifugio antiaereo. Ora non si chiama più Sant'Afra, sopra le rovine hanno costruito un nuovo tempio dedicato a Sant'Angela Merici. Vieni, entriamo, ti devo far vedere una cosa". L'uomo, quasi trent'anni, alto e con un pizzetto nero, era emozionato. Cinse le spalle della ragazza che lo guardava con curiosità. Erano venuti da Genova a visitare Brescia, una specie di pellegrinaggio politico. Avevano voluto vedere con i loro occhi piazza della Loggia e rendere omaggio alle vittime dell' orrore e della follia omicida esplosa inaspettata pochi mesi prima. Percorsero una navata, poi, dopo qualche esitazione l'uomo trovò la porta che cercava. Era evidente che fosse già stato lì altre volte. Scesero alcuni scalini dall' aspetto antico. "Qui siamo in quello che rimane della cripta della vecchia Sant' Afra. Ecco, vedi quella lapide? Riporta la data, 2 Marzo 1945, poi ci sono tutti quei nomi", disse l'uomo indicando un riquadro di marmo sul muro." Ci sono tutti, tutti quelli che erano qui quel giorno. Veramente, quasi tutti, in quella lista mancano tre nomi, quelli di una madre, un padre e del loro bambino di pochi giorni. Pensa, si misero, per una strana intuizione, a ridosso di un muro. Il pavimento della chiesa soprastante resse proprio li sopra, per quei pochi centimetri sufficienti a fornire loro una specie di tetto. Tutti gli altri, sepolti, compreso un sacerdote che stava dicendo la messa. Quella famigliola si salvò. Terrorizzati, mezzi soffocati, ma praticamente incolumi. Un miracolo. Quel bambino si chiamava Alfonso". La ragazza guardò Alfonso con stupore e comprensione poi lo prese per mano e si avviarono all'uscita. "Sai, cara" disse Alfonso "mio padre mi raccomandava sempre di rispettare le scelte delle nostre compagne, loro, diceva, hanno una intuizione che a noi uomini è negata".   

Ricordi in libertà
Oggi non ho nulla da fare. Mi aggiro qua e la per la casa, prendo il giornale, quasi quasi vado al cinema, vediamo cosa c'è.
Multisala al Porto Antico, che buffo, qui ci attraccava il Conte Biancamano, lo vedevo sempre da bambino. Vedevo anche il Saturnia, l' Andrea Doria, quella l'ho vista addirittura varare e poi l'ho vista salpare per il suo ultimo dannato viaggio. Uffa, è ancora chiuso, sono in anticipo come sempre, tutta colpa di una sfilza di antenati tedeschi da parte di madre. Tutti precisi, teutonici. Mezz'ora qui come una belina. Una signora porta a spasso il cagnone, che bello, sembra il mio Ras di quando ero piccolo.
Ras era un pastore bergamasco, con molti dubbi sull'onestà di sua madre, visto che il muso era da spinone. Dolcissimo ma non succube di nessuno, di una intelligenza incredibile. I propri cani sono sempre i più intelligenti. Avevo dodici anni, abitavamo in un paesone di mezza montagna, a due passi da Genova. Chi si stupisce non conosce Genova. Si passa dal mare ai monti come attraversare una strada., oggi si direbbe con un click del mouse. Click, sei al mare in corso Italia. Click, sei in montagna tra castagni e funghi. In questo paesone, Bargagli, di cinema ce n'erano due. Uno bellino, dava addirittura seconde visioni. Era sullo stradone statale, all'ingresso del paese. L'altro era parrocchiale, tutti film selezionati rigorosamente di ultima visione, ma edificanti, almeno secondo il concetto del nostro parroco. Il cinema era vicino alla chiesa, in una frazioncina a monte, dieci minuti a piedi da casa. A volte nei pomeriggi dove non si prevedeva tanta gente, mia madre mi permetteva di andare al cinema con Ras. Il parroco chiudeva un occhio. Mi sedevo subito a lato del corridoio centrale e lui, Ras, si metteva seduto a fianco, stretto alla mia sedia per non farsi pestare la coda da qualche sbadato che, entrando a film iniziato, fosse transitato da quelle parti. Non era mica come oggi, che non si entra dopo l'inizio e guai a parlare. Li la gente andava e veniva, chiacchierava commentando il film o scambiando battute con vicini e passanti. Al parroco interessava poco l'incasso. Una volta rifattosi delle spese di noleggio, suppongo minime, di quei film vecchi e poco richiesti, di chi entrava con o senza biglietto gli importava poco; aveva le sue pecorelle lì, sotto la sua ala protettrice, e se erano li non potevano essere altrove, pensava giustamente il buon uomo. Non all'osteria a bestemmiare o, peggio, nell' altro cinema dove davano persino, orrore ed anatema, i film vietati ai minori di sedici anni!. Credo che a Ras importasse veramente poco della trama del film, o almeno, non manifestava mai le sue preferenze o il suo dissenso. Stava li, tranquillo, felice di stare con me, di potermi sorvegliare e proteggere dai mali del mondo. E faceva sul serio, persino mia madre che si fosse avvicinata a me con l'intenzione di darmi qualche meritato scapaccione, doveva fare i conti con il suo sguardo di rimprovero, rafforzato da cinque centimetri di zanne scoperte. Figuriamoci un estraneo. Una Domenica volevo andare al cinema, chiesi a mia madre gli spiccioli necessari ed il permesso di portare Ras. Ebbi gli spiccioli ma non il permesso, secondo mia madre quel giorno ci sarebbe stata troppa gente, davano un film con Jonny Dorelli!. Lui, Ras, dalla sua cuccia ascoltava la nostra conversazione, sonnacchioso e indifferente. Dopo aver pranzato, aprimmo la porta per far fare a Ras la sua passeggiata igienica. Anche lui doveva avere qualche tedesco, suppongo un pastore, tra i suoi avi: era sempre preciso, usciva, andava nel bosco di fronte a casa, espletava le sue formalità, annusava per vedere se ci fosse qualche gatto nelle vicinanze, nel qual caso si dava da fare per farlo arrampicare precipitosamente sul castagno più vicino. Poi un discreto bau per farsi aprire la porta, e tornava beato nella sua cuccia. Quel giorno non fù così. Aspettai il tempo normale, un quarto d'ora, poi mezz'ora, poi un ora: nessuna traccia. Preoccupato non volevo più andare al cinema, ma mia madre mi convinse dicendo che Ras sapeva quello che faceva e lo avrei trovato di sicuro a casa al mio ritorno. Mi avviai di malavoglia su per la strada che portava alla Chiesa. Ero talmente in pensiero che per una volta ignorai il mio terreno di caccia preferito. I muretti a secco a fianco alla strada, popolati di lucertole multicolori, e persino di ramarri, che mi divertivo a catturare con i laccetti di erba, per poi lasciarle andare incolumi. Oddio, qualche volta ci rimettevano la coda, ma quella poi ricresceva.
Arrivai alla cassa del cinema e mi venne un tuffo al cuore. Seduto li a fianco, con un sorriso canino largo venti centimetri, c'era Ras che mi aspettava. Lui, il sornione, aveva sentito e capito tutto ed aveva deciso la strategia più opportuna per mettere nel sacco chi pensava di essere più furbo di lui.
La signora col cagnone è scomparsa da un pezzo, le porte delle sale dei sogni si sono aperte.
Ciao, Ras, vado a scegliermi un posto a fianco del corridoio, così magari ti siedi vicino a me, la coda stretta stretta, e mi dai un colpetto col muso per dirmi che ci sei, che mi proteggi ancora.    


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