Racconti di Gus


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COINTREAU

Solo leggere vibrazioni di piccole lame pendenti di una scultura di Calder, alimentate dal tenue spiffero di un finestrino antifumo aperto sulla grande vetrata a nastro dell’appartamento al piano nobile di palais La Roche, interrompevano il silenzio calato nella grande sala dei ricevimenti.
Consumato il rito del quarantesimo compleanno di Adrien, la padrona di casa si era momentaneamente assentata.
Il festeggiato aveva salutato per primo i suoi invitati, quasi tutti appartenenti alla danarosa élite parigina, scusandosi di non poter differire un piano di volo per il Guam, dove lo attendeva un impegno della sua molteplice attività aziendale.
Quando gli ospiti se ne furono andati e le servette con silente fruscio come di piccole slitte sul velluto, provvedevano al primo riassetto della ampia sala, Mario secondo il desiderio sussurratogli da Juliette si era trattenuto per ultimo.
Lo sguardo del forestiero vagava sui salotti, sui lampadari veneziani, sui tappeti, sulle tele di Mirò, Magritte, Derain, ma il suo pensiero andava all’immagine di Juliette che con disinvolta eleganza aveva condotto il cerimoniale dell’intrattenimento degli invitati.
Tutto era stato esaltato dalla flessuosa silhouette della donna, fasciata in un abito color verde smeraldo, stretto in vita e accollato, che lasciava completamente libere le spalle e la seducente schiena dei trent’anni.
La splendida signora ricomparve mentre la servitù abbandonava la sala.
Si era cambiata. Ora vestiva una gonna plissé nera, una camiciola bianca e scarpette di tela.
Aveva in mano una bottiglia ancora sigillata.
Avvicinatasi a Mario esclamò sorridendo “Et a vous Monsieur Cointreau noir d’Angers!”.
Il liquore versato nei bicchieri di cristallo sembrava gemere di vita propria
I due sorbirono l’elisir centellinandolo, complici nel rallentare il tempo del commiato.
Si guardavano negli occhi mentre passavano nella mente di entrambi immagini di momenti condivisi.
Si salutarono con la semplicità di chi avrebbe potuto rivedersi l’indomani.
Lasciato il palazzo, Mario imboccò la vicina Place Vendome diretto all’albergo.
Lo spazio tutto intorno gli apparve circondato da un’ostile insieme di simmetrie, che guardava smarrito.
Gli capitava quel senso di alienazione, di perdita di contatto con l’esterno, come gli era successo a Milano alla stazione dei pullman, quando Giulietta montò sulla macchina di Adrien che la doveva accompagnare a Parma.
 

Il loro casuale incontro era avvenuto dodici anni prima, a fine maggio del 1937 sempre nella Ville Lumiere, più che mai allora crogiolo inquieto della cultura e delle più trasgressive ideologie del mondo.
Ma quella inverosimile città rimaneva legata alla grandeur francese.
Era più continentale Milano, la città dove la convergenza delle civiltà mediterranee, con quelle nordiche, nel suo amalgama, la proiettava in una autentica vocazione europea.
La coesistenza fra le basiliche di Sant’Ambrogio di puro stile Romanico e del Duomo, che nel suo essere polistilo tradiva in ogni caso con le sue guglie e i suoi archi a sesto acuto il Gotico, ne erano monumentale testimonianza.
A questo pensava Mario, mentre era in visita all’Exposition Internationale des Artes Techniques dans là vie moderne”, rassegna ancora pregna di pur affannoso respiro di comunione neutrale fra Stati.
La manifestazione si svolgeva in prossimità della Tour Eiffel, opera che dopo l’Expo del 1889 era divenuta il più divulgato simbolo della capitale transalpina.
Giunto davanti ai due ciclopici pavillons, quello russo è quello tedesco, che si fronteggiavano con i loro vistosi emblemi, l’uno alto trenta metri, sormontato dalla colossale scultura in acciaio di Vera Mukhina, raffigurante un operaio e una colcosiana raggianti, che elevavano al cielo la falce e il martello, l’altro non meno monumentale, formato da un gelido parallelepipedo di marmo bianco, sormontato dalla grande minacciosa aquila e dalla ieratica è inquietante svastica, osservava questo corpo a corpo pesantemente ideologico di comunismo e nazionalsocialismo.
Venne distratto da una adolescente dai lunghi capelli color ebano.
La ragazza, in quel sofisticato sfoggio di raffinata moda delle visitatrici parigine, ispirata ai maggiori artisti dell’epoca da Cocteau a D’Ali, vestiva con naturale eleganza una camicetta bianca, una gonna scura al ginocchio e calzava calzette bianche corte e scarpette chiare di tela e rivolta a lui, spalancando i suoi profondi occhi neri che assorbivano integralmente la luce del sole, aveva esclamato “quanta durezza!”
“Che ci fa qui sola soletta questa giovane connazionale?” istintivamente aveva azzardato Mario.
“E voi che ci fate?” fu la pronta risposta della ragazza all’impertinente domanda.
L’interlocutore occasionale, attratto da tanta sbarazzina bellezza, rispose con tono di chi si scusa sorridendo “sono un giornalista, inviato qui da un giornale milanese”.
Lei, dopo averlo squadrato attentamente, indecisa sé continuare il colloquio, dopo una breve pausa rispose “seguo un corso su Molière, devo diplomarmi al liceo linguistico della mia città”.
Dopo un garbato saluto i due si allontanarono.
Lui pensava alla bellezza dell’espressione esclamativa della ragazza.
Lei si diceva fra sè ‘che bell’uomo’. Gli ricordava Ettore in un’effige di una litografia, dove l’eroico figlio di Priamo, toltosi l’elmo davanti ad Andromaca, guardava con sorriso bonario e paterno il piccolo Astianatte.
 

Nella metà di febbraio dell’anno dopo, lungo il boulevard des Madeleine, verso le cinque del pomeriggio, Mario s’imbatté nella giovane connazionale.
Avvolta in un cappotto di cachemire beige, legato in vita da una larga cintura della medesima stoffa, capelli raccolti in uno chignon spettinato, tacchi alti, l’adolescente ricomparve trasformata, una donna bella e intrigante.
La riconobbe dal portamento sempre altero e dai due grandi occhi neri che gli aveva spalancato all’Expò e che con la stessa intensità ora incontravano il suo sguardo.
Gradevolmente sorpreso, con tono cauto e scherzoso, ma studiatamente garbato, disse “Buongiorno, stai seguendo ancora il corso su Molière?”
La pronta risposta della ragazza fu “E voi siete riuscito a finire il vostro articolo?”.
Lui rimase stupito del fatto di essere stato riconosciuto è ricordato nel suo ruolo di giornalista e riprese “Beh continuo a relazionare il mio giornale sull’evolversi degli avvenimenti politici”.
Dopo qualche esitazione la giovane si era fermata e sembrò non voler interrompere la conversazione “In realtà mi sono diplomata in lingue straniere a Parma nel giugno scorso, adesso sono ospite collaboratrice in prova di un amico francese che ho conosciuto l’estate scorsa durante le vacanze ad Amalfi”.
“Allora, aggiunse Mario, devo darvi del voi, come si compete a una donna in carriera”.
“Preferisco il tu, riprese lei, … si declinano più facilmente i verbi …”.
Mentre parlavano si trovavano vicini a un Bistrot.
“Sono inopportuno se propongo di prendere qualcosa assieme per riscaldarci un po’ “, azzardò Mario.
La ragazza guardò l’orologio e rispose “se sarà una cosa breve, mi sta bene”.
Mentre entravano nel locale “mi chiamo Mario Vicari, disse lui”, consegnando alla giovane donna un suo biglietto da visita.
“Giulietta Marini”, rispose lei, porgendo la mano per ritirare il biglietto.
Occuparono un tavolino di marmo, unici avventori nel piccolo Bistrot.
L’anziano barman, alto, stempiato, in camicia bianca, papillon e grembiule neri, un po’ sdruciti ma lindi e curati, che si capiva essere l’uni gestore e proprietario del piccolo laicale, raccolse l’ordine.
Lei chiese un the e lui un cointreau.
Servì per primo il the e alla richiesta della donna di un goccio di latte, affermò “we, all’anglais”.
Ricomparve subito dopo con bottiglia e bicchiere da liquore ed esclamò icone voce soddisfatta, come solo i francesi sanno fare quando mostrano qualcosa di proprio “ Et a vous Monsieur Cointreau Noir d’Angers!”.
I due avventori rimasero seduti qualche minuto e quando terminarono di sorbire le loro bevande, alzatisi, salutarono il cameriere-padrone che, intascato il dovuto da Mario, esclamò “Quel beaux petits amis!”


Era fine novembre quando, verso le due pomeridiane, un vecchio malandato torpedone ricoperto, si fermò in un desolato vicolo della banlieu parigina, dove la Gendarmerie Nationale, con un avviso di massima urgenza, aveva convocato il giornalista italiano.
Mario trovò al raduno un gruppo di stranieri di varie etnie, prevalentemente tedeschi o dell’Est-Europa.
Fra la gente scorse Giulietta avvolta in un trench Burbery invernale, che reggeva, come lui, una valigetta da viaggio e si guardava attorno smarrita.
Mentre un addetto all’ordine pubblico faceva una chiama e i nominati esibivano i loro documenti per poi essere avviati sul torpedone, Giulietta facendosi largo, si era avvicinata senza parlare a Mario, afferrando la sua mano ed aggrappandovisi come naufrago a uno scoglio.
Faceva freddo e una sgradevole foschia piovigginosa rendeva quel luogo angusto ancora più sconsolato.
Quando fu chiamato il cognome ‘Marini’, lei tirò con sé l’improvvisato compagno e raggiunto il policier che spulciava l’elenco si precipitò a dire “Monsieur il est mon ami”.
Il policier ispezionati i passaporti dei due, rimuginando fra sé ‘italiens”, chiese cosa facevano a Parigi.
Ottenute le rispettive risposte spiegò che li rimpatriavano e aggiunse “monté sur le bus est dirigë vers Milan”.
Il maleodorante mezzo aveva sedili doppi in due file divise da un vecchio sfilacciato tappetino bordeaux.
I due occuparono i primi sedili liberi sulla destra per chi guarda il conducente, verso il centro del bus.
La ragazza prese posto vicino al finestrino, dove rimase assorta a guardare fuori, tenendo sempre la mano sinistra stretta alla destra dell’improvvisato amico.
“Perché siamo qui, perché ci rimpatriano?” chiese con voce tenue e accorata. “Ho ricevuto l’avviso ieri sera di presentarmi qui con necessaire de voyage. Il mio amico Adrien non sa nulla, doveva tornare solo stasera da Londra”.
“Lo stesso è capitato a me”, rispose Mario con tono volutamente pacato”.
“Ma perché, perché siamo italiani?” richiese lei.
“Dopo il patto Ciano-Von Ribbentrop”l riprese Mario, “Mussolini ha preso ad avanzare pretese alla Francia su Corsica, Gibuti e altro e i rapporti fra le due nazioni sono tesi.
Un idea sul proprio rimpatrio Mario se l’era già fatta .
Fra il giorno nove e il dieci di quel mese di novembre del 1938, in tutta la Germania indemoniati seguaci del partito nazista, dei Reparti d’Assalto (SA) e della fanatica gioventù hitleriana, avevano devastato centinaia di case di ebrei ,
uccidendone decine, bruciando e distruggendo un centinaio di sinagoghe e oltre settemila botteghe.
Queste distruzioni, questi assassinii e questi atti di efferata violenza erano dilagati anche in Austria e nella Cecoslovacchia dei Sudeti.
Il tragico e furioso accadimento, iniziale sbocco del sanguinario clima conseguente alle disumane leggi razziali antisemite, sarebbe passato alla Storia come la Kristallnacht (notte dei cristalli) per le disseminate miriadi di scaglie di cristalleria delle vetrine infrante dei negozi.
La furibonda e apocalittica violenza notturna era esplosa dopo la divulgazione dell’episodio che vide coinvolto un ebreo diciassettenne polacco, Ernst Herschel, che per vendicare le persecuzioni subite dai suoi genitori ingiustamente espulsi dalla Germania, si era introdotto nella Ambasciata tedesca a Parigi e aveva ferito mortalmente con colpi di pistola l’alto dignitario del terzo Reich Ernst vom Roth.
Nell’articolo trasmesso telefonicamente a Milano, Mario aveva decisamente ritenuto crudele e inspiegabile il tragico evento con riferimento particolare alla rappresaglia pluri-omicida e devastatrice contro persone inermi e del tutto incolpevoli, sottolineando l’indifferenza e la presa di posizione ponzio-pilatesca di Italia, Francia e Inghilterra.
L’articolo, mai pubblicato dal giornale milanese, con tutta evidenza era stato intercettato dalla Sécurité che ne aveva certamente censurato il contenuto.
Non si spiegava, invece, il provvedimento di espulsione della giovane e rivolto a lei chiese “Hai detto che collabori col tuo amico francese, lui che fa?”
“La sua famiglia”,mi rispose lei concitata, è la maggiore azionista di imprese di fabbricazione di motori navali e di mezzi di alto mare e areonautica ad alta tecnologia”.
“Quindi”, riprese lui, “hanno rapporti con settori ministeriali. Questo comporta che tu potresti venire a conoscenza di questioni delicate, segreti di Stato.”
A queste parole Giulietta tacque e Mario con tono scherzoso, aggiunse “Per la Sécurité potresti essere una novella Matha Hari …”.
La battuta non piacque alla giovane donna che staccando la mano da quella del compagno di sfortuna si immerse a guardare fuori dal finestrino, dove la pioggia si era fatta insistente.


La giovane venne richiamata all’attenzione di quanto avveniva attorno. Sul torpedone ormai gremito, ma ancora fermo, erano saliti a bordo due personaggi in borghese i quali ricontrollavano agli imbarcati i documenti e li interrogavano sulle ragioni della oro presenza a Parigi. “Sono della Sécurité” aveva sussurrato Mario a Giulietta, “noi non abbiamo nulla da temere, stai tranquilla e rispondi alle loro domande dicendo la pura verità, senza aggiungere altro”
Quando fu il suo turno la ragazza, mal celando la sua stizzita preoccupazione, rispose: “Je suis étudiant et J’aurais dü m’inscrire à l’Université” e mostrando il biglietto da visita di Adrien aggiunse “Je suis l’invité de cet ami” (Sono studentessa e avrei dovuto iscrivermi allUniversità. Sono ospite di questo mio amico). L’agente prese appunto dell’indirizzo e del nome e cognome dell’ospite e passò a interrogare Mario, il quale mostrando la sua tessera disse “Je suis journaliste”.
Ad alcuni venne detto “suívez nous plurale plus de infirmations” (seguiteci per un supplemento di informazioni) e terminata la meticolosa ansiogena operazione di controllo, gli agenti, con i passeggeri inquisiti e una scorta di gendarmi finalmente abbandonarono il bus, lasciando a bordo due policier come guardiani dei passeggeri.
Il torpedone si mosse.
Giulietta appariva sempre più inquieta.
Mario le riprese la mano, tentando di distoglierla dal suo stato di disagio e con tono pacato da fratello maggiore le disse: “Parlami di te, dove sei nata, dove vivi in Italia, quanti anni hai…” “Sono di Parma”, rispose “dove vivo con i miei genitori, ho diciotto anni. Speravo di studiare qui, Adrien mi avrebbe aiutato, ma ora salta tutto in aria … e tu?” “Io sono di Milano, i miei vivono a Pavia, lavoro presso il Corriere. Ho esattamente dieci anni più di te. Vivo in un piccolo appartamento vicino al giornale. Nonostante mi sia laureato in Economia Politica e Matematica Finanziaria alla Bocconi cinque anni fa, la mia inclinazione era il giornalismo politico. Nel 1934, appena assolto il servizio di leva come allievo ufficiale, mi sono presentato al Corriere”.
Notando che Giulietta mostrava interesse per quanto le andava dicendo, Mario riprese “ il selezionatore del personale, dopo avermi chiesto età e titolo di studio, mi chiese se ero disposto a non guardare orari. Alla mia risposta positiva mi invitò a iscrivermi al Sindacato e tornare per essere messo in prova. Dopo tre mesi di cronaca cittadina venni assunto. Poi sono stato fortunato, mi ha favorito la conoscenza delle lingue. Mia madre è nata a Birmingham nel West Midlans e quando conobbe mio padre, che era in Inghilterra per l’architettazione di un complesso edilizio, insegnava francese agli studenti nella scuola di quella città. Dopo il matrimonio venne a vivere a Pavia e io rimasi il suo unico allievo e fin da piccolo mi insegnava francese parlandomi in inglese.
Dopo due anni di esperienza a Milano, sono stato destinato a Parigi.


La conversazione fra i due passeggeri si infittì. Mario rispose alla domanda della giovane di non aver legami sentimentali e Giulietta confessò di essere attratta da Adrien definito dalla giovane “anche lui cortese e affascinante ventottenne”.
Non erano passate due ore del viaggio verso sud per strade secondarie, quando si udì un botto e si avvertì uno scossone. Il bus si arrestò bruscamente.
Il conducente, un anziano omaccione con un grosso naso e l’aspetto rubizzo da bottaio della rivoluzione francese, dopo essere sceso dal bus accompagnato da uno dei due guardiani in divisa e aver ispezionato avanti e dietro il suo arcaico mezzo, risalito a bordo si rivolse ai suoi ospiti coatti con tono fra lo scherzoso e lo strafottente proclamò: “Mesdames et Messieurs, Je suis desolè, mon vielle voiture - e all’espressione “voiture“ fece un faceto inchino - a des tres mauvais pneus et s’est encrassèe dans un grosse pietre. Dans ces conditions il est pas possibile de continuèe la voyage avant de changer les pneus” (Signore e signori, io sono desolato, la mia vecchia vettura ha pneumatici molto malandati e si è schiantata contro un masso. In queste condizioni non è possibile continuare il viaggio prima di cambiarli).
Poi rivolto ai guardiani aggiunse “maintenant cest à vous deux de résoudre le probléme” (adesso sta a voi due risolvere il problema).
I due poliziotti confabularono fra loro e il più graduato dei due disse con tono perentorio a voce alta “attendes moi et en attendant vous pouvez descendre accompagné de mon subordonné”(Mi aspetterete qui e nel frattempo potrete scendere accompagnati dal mio subordinato).
Dopo più di un’ora il graduato fece ritorno.
Fece ridiscendere i passeggeri e li condusse in fila per due in piena campagna.
La pioggia era cessata e dopo un paio di chilometri di marcia nella umida boscaglia profumata di menta e di timo, mentre si faceva buio, il gruppo giunse alla periferia di un borgo di cui si intravedevano nel verde graziose costruzioni rurali.
I passeggeri vennero fermati davanti a una specie di cottage contrassegnato dalla insegna “Petit Auberge”.


Il gruppo venne fatto entrare nella locanda.
Il poliziotto anziano disse con tono sempre perentorio “nous devont passar la nuit ici car le bus ne serà pas pret avant la matin” (si deve passare la notte qui perché il bus non sarà pronto prima di domattina).
Furono fatti salire tutti al primo piano del piccolo edificio e venne loro spiegato che dato il limitato numero di camere, in ognuno dovevano sistemarsi almeno due persone.
Giulietta rivolta con tono accattivante al giovane inserviente della locanda addetto alla designazione delle stanze, disse con garbo “Monsieur J’amerais rester aver mon amì”.
L’addetto, senza risparmiare un’occhiata di allusiva complicità, assegnò ai due la stanza numero nove dicendo “c’est la plus larve” (è la più ampia).
“Merci” disse Mario, mettendo in mano al giovane alcune monetine.
L’ambiente a loro destinato era arredato in modo rustico essenziale.
Un letto alla francese, con a fianco un comodino e una poltroncina, alla parete dietro al letto, la riproduzione in foglio atlantico di un quadro di Delacroix raffigurante Marianna in veste di libertà che guida il popolo in armi, con bandiere tricolori e gagliardetti. Annessa alla stanza una piccolo bagno con sanitari, doccia, un accappatoio e un asciugamano di spugna azzurro.
Mario disse “Ti lascio l’accappatoio, a me va bene l’asciugamano …”
Non aveva finito queste parole quando bussarono l’uscio. Era il giovane inserviente con un accappatoio e un asciugamano rosa.
“Oh merci” disse Mario”.
Lo sguardo di Giulietta non era sereno.
La ragazza era in preda ad un irrefrenabile stato di agitazione.
 

Dopo la cena il gruppo risalì e furono occupate le stanze secondo la designazione.
Il comportamento di Giulietta non dimostrava alcun imbarazzo, ma dal viso appariva chiara una innaturale preoccupazione.
Chiesto il permesso occupò per prima il piccolo bagno.
La doccia anziché avere per lei un effetto tonificante, l procurò uno strano stato di claustrofobia e panico.
Quando ne uscì, la ragazza circonfusa da un gradevole profumo di colonia, porta cinque disinvoltura un pigiama con vestaglietta trasparente sopra il ginocchio, su cui un intreccio in arabesco scuro copriva i seni e l’addome sino alle bianche e bellissime cosce.
Mario dovette istintivamente voltare lo sguardo per non svelare il suo turbamento davanti a tanta candida involontaria provocazione e divagò il discorso sul buon profumo, spiegando che l’acqua di Colonia era stata inventata da italiani della val Vigezzo, trasferitisi per ragioni di lavoro nella città tedesca.
Poi s’infilò subito nel bagnetto, dicendo fra sé ‘ma è solo poco più che una bambina’.
 

Quando uscì dal bagno, mentre lui non aveva osato proferire parola sulla seducente mise notturna di lei, Giulietta si complimentò per l’elegante pigiama amaranto dell’uomo che ne esaltava le forme atletiche e statuarie.
La disinvoltura di Giulietta non riusciva a nascondere il suo stato d’animo agitato e Mario cercava, invece, di nascondere il suo imbarazzo di fronte a tanta involontaria seduzione.
Lei sedette sulla sponda del letto e lui sulla poltroncina di fronte.
Per la conversazione Mario prese spunto dalla riproduzione del quadro di Delacroix, pittore considerato il principe del Romanticismo, in contrapposizione con il perfezionismo Neoclassico di Ingres.
La ragazza seguiva con interesse i riferimenti colti del suo interlocutore, poi il discorso scivolò sulla attuale moda francese e in particolare su Coco Chanel il cui stile trasgressivo per l’epoca era il preferito di Giulietta.
A un tratto la ragazza pose la testa sul cuscino e stese le gambe sul letto.
Quando parve assopita, Mario sfilò le coperte e l’avvolse rimboccandole con la tenerezza di un fratello maggiore.
Tornò poi sulla poltroncina.
Ma Giulietta ebbe un lieve sussulto e con un filo di voce allarmata disse “ non fraintendermi, ti prego, non fraintendermi, sono sicura che mi capirai … non so cosa diavolio mi prende, ma ho bisogno del tuo contatto umano … ti prego stenditi accanto a me, aiutami a superare il panico. Continua a impadronirsi di me una strana paura irrazionale. Ho bisogno di sentire qualcuno vicino, come quando nel bus ti stringevo la mano … sono certa che capirai la purezza di questa mia supplica … è tutto accaduto così in fretta … come se la sventura avesse voluto distruggere un mondo che mi si era presentato davanti felice … Adrien non mi ha messo sull’avviso … anche lui, certo, non prevedeva nulla … mi sento una deportata per colpe kafkiane … “. Elider queste parole impaurite, aprì la coperta dalla parte della sua schiena.
Quando lei tacque, Mario, con voce pacata, disse “Tranquilla, torni a casa, da tuo padre e tua madre, avrai tempo per riflettere …”.
Poi si accucciò accanto a lei e la ragazza insistette col suo corpo a cercare il contatto.
Si sfioravano e Mario sentiva le giovani forme della ragazza torturare il suo corpo assetato come Tantalo.
 

Giulietta sembrò assopirsi abbastanza presto. Per Mario le braccia di Morfeo tardarono un pò a dargli un dolce torpore.
Una scampanellata svegliò entrambi alle sei del mattino e mentre si rivestivano una voce diffusa da un altoparlante per essere percepita dagli occupanti delle stanze proferì queste parole “Mesdames et Messieurs Bonjour, nous vous attendons dans une demi-heure pur le petit-déjeuner en salle. Le bus est prêt pour le départ. (Signore e Signori buongiorno. Vi attendiamo entro mezz’ora per la colazione nella saletta. Il bus è pronto per la partenza.
Mario, mentre guardava la ragazza, pensando fra sé ‘come si fa a non credere in Dio, davanti a tanta perfezione e grazia’, chiese “come stai?”.
Giulietta con uno sguardo più sollevato “Stamane meglio” rispose “Ieri sera ero proprio a terra. Mi era svanito di colpo un sogno. Adrien, il lavoro, l’Università a Parigi, come se la sventura si fosse impadronita del mio destino. Devo molto a te. Ti devo ringraziare. Sei stato comprensivo … rispettoso … signore. Ti confesso che a un certo momento, quando all’inizio fingevo di dormire, avevo desiderato che tu mi prendessi. Mi era sembrata l’unica soluzione per vincere il mio stato d’animo terrorizzato. Ma oggi sono contenta che sia andata così”. Mentre parlava, anche lei si deliziava guardando gli occhi color acquamarina di Mario, i suoi capelli morbidi e biondi pettinati ad onda alla Mascagni e s chiedeva se potesse esistere un uomo più bello.
Scesero in sala ben coperti dai loro eleganti soprabiti perché il rigore del tempo mattiniero era particolarmente pungente.
Fu loro offerto in una ciotola di legno latte caldo per essere stato munto da poco e un croissant appena sfornato.
Si sentiva il calpestio della gente che saliva sul torpedone e il rumore del motore in carica.
 

I due guadagnarono il torpedone e si sistemarono negli stessi posti.
Giulietta pose la testa sulle spalle di Mario e prese sonno.
Si destò dopo un paio di ore mentre il bus era fermo alla dogana Svizzera.
Entrare in un Paese neutrale fu per lei ragione di rasserenamento.
Quando giunsero a Berna, i due poliziotti scesero rammentando minacciosamente ai passeggeri che non dovevano fare rientro in Francia pena l’arresto immediato per immigrazione clandestina.
Il bus si svuotò e rimasero solo una decina di persone che preferivano Milano come capolinea del loro viaggio.
La bellezza del paesaggio elvetico fu l’oggetto della conversazione fra i due italiani e Giulietta disse che il nonno paterno dopo l’avvento del Fascismo era tornato nella nativa Engadina a Champfer con la nonna, dove lei accompagnata da suo padre e sua madre andava a passare le due settimane fra la fine dell’anno e i primi dieci giorni del gennaio. E lì lei andava a sciare nel comprensorio del Corviglia.
Respirava aria di casa e cominciava a sentirsi a suo agio.
Il faticoso viaggiò si esaurì alla stazione dei Pulmann a Milano, vicino alla magnifica Centrale.
Quando scesero dal torpedone, si udì l’accorata voce di Adrien che la cercava chiamandola “Juliette … Juliette”.
Il francese era giunto a Milano qualche ora prima avendo percorso con la sua veloce Delage strade molto più rotabili. La Sécurité lo aveva informato del luogo in cui il bus sarebbe arrivato.
 

Adrien aveva visto arrivare decine di bus che provenivano da Nord.
Finalmente apparve Giulietta fra il gruppo di persone che erano appena arrivate e corse ad abbracciarla.
“Comment ça va ma chérie, Je suis ici depuis sept heures ce matin. Quel itinéraire ce bus a pris? (Come stai mia cara. Io sono qui dalle sette di stamattina. Che percorso ha fatto questo pullman?) chiese accorato il Francese.
“En ce moment je suis très fatigué”(In questo momento io sono molto stanca) rispose Giulietta. “Je veux rentrer à la maison” (Voglio andare a casa).
“Oui … oui, je t’accompagne tout de suite” (Si, si ti accompagno io immediatamente) riprese Adrien prendendo dalla mano di Giulietta il piccolo bagaglio.
Mario si era defilato e Giulietta prese Adrien per mano e lo diresse verso di lui.
“C’è Monsieur” (Questo signore) disse Giulietta presentando Mario ad Adrien “journaliste envoyé à Paris par le Corriere di Milano, lui aussi a eu l’ordre d’expatriation. Dans ma mauvais aventure, il m’a beaucoup aidé” (giornalista inviato a Parigi dal Corriere di Milano, anche lui ha avuto l’ordine di espatrio, in questa avventura mi ha aiutato moltissimo.
Poi rivolta a Mario disse “Grazie, grazie di cuore”.
Adrien ringraziò il compagno di viaggio della ragazza e gli disse che lo avrebbe volentieri rivisto a Parigi non appena la situazione si fosse appianata.
La sua elegante biposto era parcheggiata accanto.
Giulietta strinse forte la mano di Mario dicendogli che sperava di rivederlo presto.
Quando si allontanarono con la macchina diretti Parma, Mario, mentre andava al Giornale, fu colto da una strana sensazione e le cose e le persone gli parvero estranee, come se avesse staccato la spina con l’esterno.
Camminò in questo stato di alienazione come se gli mancasse un punto di appoggio, un’ancora, gli occhi della ragazza.


Al giornale Mario venne trattato con freddezza.
Convocato in redazione dal vicedirettore, nonostante gli eventi in Europa precipitassero tragicamente, con la scusa dell’approssimarsi del Natale gli venne affidato il compito di cronista locale. Niente politica, ma la cura di una pagina interna. Avrebbe dovuto occuparsi di iniziative municipali, echi di cronaca cittadina, teatro, pinacoteche, musei e inserti pubblicitari. Tutti temi ben lontani dalle ragioni stesse che lo avevano indotto a scegliere il giornalismo, essendo sua intenzione di scalfire con garbata ironia il pensiero unico. Nonostante tutto la nuova materia rivelò la sua cultura di base e divenne apprezzato critico di arte e teatro.
Il nuovo compito venne di conseguenza prorogato e passarono alcuni mesi per lui incolori in quel ruolo ridimensionato.
Era il 1939, l’anno che avrebbe sconvolto i destini del mondo.
Il pensiero di Mario tornava spesso all’ultimo periodo parigino, a quella ragazza, ai casuali incontri, al viaggio nel bus, al Petit Auberge, a quella notte trascorsa a contatto con lei.
L’inverno milanese, particolarmente rigido si smorzò nell’aprile e col passare dei giorni il clima si temperò regalando dopo la prima metà del mese una bellissima primavera.
Il 24 aprile, un lunedì di routine, la centralinista del giornale passò a Mario una telefonata.
“Dottor Vicari, per lei la signorina Marini da Parma”.
“Ciao, sono Giulietta, come va?”
Mario tentò di trattenere la sua emozione “Non c’è male” rispose “E tu?”
“Bene grazie, avrei piacere di rivederti”
“Il piacere sarebbe tutto mio”.
“Ti andrebbe bene sabato, ti aspetterei qui?”
“Sabato no, devo seguire una prima teatrale, potrei Domenica”.
“Siccome ti ospiterei in campagna, puoi pernottare?”
“Vengo in auto, per cui potrei rientrare lunedì mattina”.
“Ascolta, allora, ti spetto Domenica mattina alle otto a Parma, in Piazza Garibaldi, il punto di riferimento è il monumento”.
“Va bene arrivederci”
“Ciao”.
Quella concisa telefonata fece tornare a Mario il buonumore che lo aveva abbandonato da tanto.


Alle otto del mattino di Domenica 30 aprile, Mario a bordo della sua Alfetta Zagato raggiunse la piazza Garibaldi di Parma. Posteggiò l’auto nei pressi del monumento all’eroe dei due mondi e mentre stava rimirando la struttura architettonica della piazza dominata sull’intero lato nord dal Palazzo del Governatore, l’edificio medievale cui aveva fatto metter mano la stessa Maria Luigia, che si presentava intonacato in giallo antico, con la imponente torre centrale la campana, l’orologio, la statua della Vergine e le complesse meridiane ai lati della nicchia, puntuale comparve Giulietta.
I due si abbracciarono e andarono a fare colazione nel vicino bar centrale, poi montati sull’auto, Mario, seguendo le istruzioni della giovane donna, prese la via periferica diretto a nord verso la campagna piacentina.
Ben presto l’auto si trovò ad abbandonare strade ed a percorrere sentieri appena rotabili, che si divincolavano fra faggi, castagni, aceri, querce appena rinverditi, incorniciati dai profili collinosi assediati dal risveglio della viti che iniziavano il loro germogliamento.
La natura rinascente si esprimeva in tutto il suo prorompente profumo di fioriture primaverili, viole, menta, primule frammisto a muffa, terra bagnata, erba fresca, funghi, e legname acerbo.
Questa atmosfera inebriante della natura faceva da corollario alla ammaliante bellezza della giovane donna che aveva accanto.
Giulietta era la regina della bellezza di ciò che esultava intorno.
Vestita di una leggera camicetta di seta color turchese ed una gonna chiara al ginocchio e calzata con scarpette di tela bianca senza calze, era raggiante in viso e i suoi occhi neri sembravano gelosi custodi dell’energia solare. I capelli erano avvolti ordinatamente con un fermaglio leggero e il vento penetrava fra loro facendogli un dono di ulteriore vitalità.
L’uomo, a sua volta, era sobriamente elegante, anch’egli in camicia chiara di fine cotone a colletto morbido, pantaloni larghi di flanella e scarpe artigianali di pelle beige.
Si fermarono davanti a un grande recinto chiuso da un cancelletto di dimensioni sufficienti per il passaggio di una vettura o un carro agreste.
Giulietta scese dall’auto ed estrasse dalla borsetta le chiavi. Aperto il varco vi entrarono con l’auto che venne posteggiata sotto un grande acero rosso.
Da allora proseguirono a piedi lungo un filare ordinato di tigli.
Fu allora che Giulietta interruppe il silenzio è come continuando un discorso mai intrapreso, con voce quasi stizzita disse “Si, Adrien è bello, gentile, molto intelligente, pieno di interessi, ricchissimo e io stavo innamorandomi di lui. Colpa tua, ti sei messo in mezzo tra noi.” Poi tacque.
Mario non abituato a quel tono di voce disse “Io, cosa ho fatto, che c’entro io …”.
“Si, tu, proprio tu da quel giorno all’Expo … che ci fa sola soletta questa bella giovane connazionale … da allora non sono più riuscita a toglierti dalla mia testa, hai scalzato ogni altro mio pensiero … ti scuso, so che non è colpa tua”.
Mario tacque, ma gli sembrava di toccare il cielo con un dito.


Oltre il filare dei tigli comparve un cancello in due ante in ferro battuto decorato da lavorazioni di fiori e volute, sorretto da due pilastri in pietra continuati da recinzione in muratura chiara. All’interno uno spiazzo a giardino ben coltivato e infondo immersa in un rigoglioso parco si ergeva un edificio primo novecento strutturato su due piani. Una facciata con intonaco ocra con a piano terra due finestroni uno per lato, a vetri suddivisi da bianche liste quadrangolari, mentre al centro un rettangolo in travertino chiaro con venature di grigio, incorniciava il portale in rovere con serramenti in metallo.
Il secondo piano era percorso da una balconata con ringhiera a onda in ferro battuto sorretta da un timpano, con quattro finestre eguali a quelle del piano inferiore ma di dimensioni minori.
La cornice alta della facciata era lineare, un semplice listello di marmo venato di grigio.
Alla sinistra del portale si leggeva una vezzosa scritta in tipi Bodoni “Villa Giulietta”.
“Qui ho passato molte vacanze coi miei nonni” disse Giulietta “Si chiamava ‘Villa Elena’, il nome di mia nonna. Poi, quando loro si ritirarono in Engadina, mi portarono dal notaio e me ne fecero dono, imponendo il nuovo nome che mi deriva dalla nonna materna Giulia”.
Mentre Giulietta diceva questo e Mario guardava ammirato la civettuola costruzione liberty, apparvero sulla porta Dino e Olga, i due custodi, verso i quali corse Giulietta e si abbracciarono.
“Era ora che venissi, era ora” dissero quasi all’unisono marito e moglie e Olga aggiunse, “è da luglio, si da luglio dell’anno scorso che non ti vedevamo. La signora tua madre ci ha avvertiti e abbiamo preparato le stanze”.
Poi Dino rivolto a Mario disse con riverenza “Benvenuto Monsieur”.
“Olga” riprese Giulietta “Noi adesso ci rinfreschiamo poi andiamo a fare un giro in calesse, torneremo penso per cena, prepara qualcosa di frugale per stasera , perché pranzeremo fuori”
“Preparo subito Carrarmato” aggiunse Dino.
Giulietta rivolta a Mario disse “Voglio portarti a Casteldarda il borgo dove è nata mia nonna ti va il programma agreste?” mentre il sole splendeva e rendeva più magica quella giornata.
“Nulla di più gradito” rispose Mario ancora frastornato da ciò che gli accadeva.
 

Gli ambienti interni della Villa erano spaziosi, lindi e curati. Gli arredi erano coerenti con l’epoca della costruzione. Nel salone a piano terra cui si accedeva direttamente dal portale, risaltavano il grande lampadario cilindrico soffiato in vetro veneziano, il tavolo rotondo in mogano tassello, il camino con cornice art noveau in marmo bianco, sedie e poltroncine liberty con braccioli in legno e alle pareti affreschi con scene di campagna.
Dino accompagnò Mario al primo piano e gli aprì la sua stanza. Un vano ampio, pavimentato con larghe piastrelle di ceramica chiara puntinata, letto in noce a una piazza e mezzo, in spalliera decorata e pediera bassa, comò e comodino in stile liberty una poltrona in giunco con un cuscino beige. Sul comodino un vaso di cristallo a parallelepipedo con gerani freschi color fucsia. Alle pareti affreschi ovali floreali. Da una porta bianca si accedeva al bagno interno in marmo azzurro.
Mario fatta la doccia, indossati pantaloni di cotone color ocra bruno, maglia La
Coste e scarponcini chiari leggeri da campagna, scese in giardino.
Giulietta non tardò a raggiungerlo, vestita con camicetta e gonna al ginocchio color coloniale e stivaletti in nuance.
Raggiunsero la stalla dietro la Villa all’interno del parco, dove tutto agghindato li attendeva un imponente cavallo, attaccato a un calesse decappottato, tenuto per la briglia da Dino.
“Questo è il mio primo amore” disse Giulietta carezzando il muso del bell’animale, “Ora ha nove anni, ma è sempre un vigoroso puledrone, ci guiderà lui nella campagna. È stato il nonno a chiamarlo Carrarmato per la sua corporatura full.
Montati sul calesse, Giulietta diede le briglie a Mario, dicendogli “devi solo tenerle, tenil percorso lo conosce lui. A proposito mia madre ha detto a Olga che venivo con Adrien, come le ho fatto credere, i miei lo hanno conosciuto e a loro è piaciuto molto”.
Attraversarono la campagna verde e collinosa, ed era Carrarmato a fare strada. Il “puledrone” i fermò una prima volta e irrigò abbondantemente l’erba, poi durante il percorso a piccolo trotto, la concimò. Fece sosta una seconda volta presso un rivo e si abbeverò abbondantemente ad una fontanella. Dopo alcuni chilometri di piena campagna interrotta dal piccolo sentiero giusto per il calesse, entrò in un cortile alla periferia del borgo, dove li accolse Lisandro, un nerboruto contadino che fece festa a cavallo e padroncina.
“Tornerò a riprenderlo nel pomeriggio” disse Giulietta “A disposizione” rispose Lisandro “Carrarmato è sempre fortunato, oggi ho granella fresca”.
Si salutarono e Giulietta e Mario si avviarono verso Casteldarda.
 

Il piccolo borgo, nell’agro piacentino, appollaiato sulle prime alture dell’ubertoso scenario agreste, dominava la Val d’Arda. Il contenuto agglomerato urbano gelosamente custodito di generazione in generazione, aveva conservato le antiche strutture, la storia e i suoi costumi. Giulietta e Mario passeggiavano nelle amene viuzze del paesino e la ragazza manifestava il suo orgoglio, mostrando il luogo che sentiva propria radice, essendovi nata la nonna paterna. Mentre erano seduti davanti ad una superba torre viscontea, Mario come proseguendo il discorso fatto da Giulietta quando percorrevano il filare di tigli che porta alla Villa , disse “Dopo quello che mi hai detto mi è sembrato di vivere il momento più bello della mia vita. Dopo che tu e Adrien mi avete salutato alla stazione dei Pullman, ho sentito la necessità del tuo sguardo, dei tuoi occhi. Una necessità vitale e la mancanza della tua presenza fisica mi ha fatto stare male, ho avuto la sensazione di venir meno. Poi col tempo ho cercato di distrarmi, ma il pensiero tornava a te. Il mio non era solo amore era di più era il bisogno di averti vicina. La tua telefonata, il tuo invito a rivederci mi è sembrato ira oleoso. Ma ora rifletto e la ragione mi rende vigliacco. Come posso pensare di sostituirmi ad Adrien. A un mondo straordinario che una ragazza bellissima e intelligente come te merita. Parigi, la grande ricchezza, una vita nell’ambito dell’élite mondiale, un uomo bello, intelligente di grande avvenire, l’entrata in una grande famiglia. Rinunciare a questo per un cane sciolto, di discreta origine borghese, che si sta disamorando del suo ‘mestiere’ di giornalista, che deve trovare una strada, tutto questo non è immaginabile, per una tuo pur sincero sentimenti che assomiglia a un momentaneo capriccio.”
“Hai finito!”, esordì Giulietta “Quando mi sono aggrappata a te prima che ci imbarcassimo sul torpedone, quando ti ho chiesto il contatto fisico la sera alla locanda, quando io stessa mi sono sentita triste e perduta mentre Adrien mi accompagnava a Parma, furto questo lo chiami capriccio? Lo stare così bene insieme oggi non ha alcun senso? Quando ti ho chiamato al telefono, credi che non tremassi dall’altra parte del filo, temendo la tua indifferenza? Una tua scusa per non accettare il mio invito?”
Tacquero per qualche minuto rimanendo a occhi bassi.
 

Quel silenzio corrispondeva con il pensiero di entrambi di essere reciprocamente necessari l’uno all’altra.
“Per mezzogiorno” interruppe Giulietta, “ho fatto prenotare da Lisandro la colazione in un’osteria che frequentavo col nonno. È fra il Palazzo del Podestà e il Palazzo Ducale che ora visiteremo, entrambe costruzioni del duecento. Anche l’origine dell’osteria è assai antica, sempre condotta di generazione in generazione dalla stessa famiglia i Molinari. Su narra che gli armieri dei duchi vi si abbandonassero smodatamente a mangiare, bere, giocare a carte e a dadi. Oggi il proprietario è Carlone, padrone di mezzo paese. Il menù lo fa lui. Spero che sia di tuo gradimento”.
Dopo la visita ai due superbì edifici intatti che furono sede del Governo e della Giustizia, i due turisti entrarono nella locanda, una grande struttura a volte con tavoli di granito e sgabelli di legno massiccio.
Carlo, un gigante di due metri , con due spalle da gladiatore e un volto intelligente e bonario, accolse con gran festa Giulietta, abbracciandola e informandosi di tutti i membri della famiglia Marini. Poi fece accomodare i due avventori in un angolo appartato sotto una volta a raggiera con tavolo rotondo e sedie di faggio, apparecchiato con dovizia di stoviglie, per due persone.
Venne servito un tagliere con salame, coppa, pancetta, culatello, accompagnati da riccioli di burro, funghi sott’olio, pane battuto e Malvasia bianca. Seguirono i tortelli al burro e salvia e anatra arrosto con libagione di Gutturnio.
Carlo portando della frutta fresca, chiese ai suoi ospiti se erano rimasti soddisfatti e all’unisono si di Giulietta e Mario esclamò “A questi due bei giovani offre Carlone”.
Dopo una lunga passeggiata nell’aria collinare della periferia fra sentieri profumati da roverelle, cerri, scottano e vigneti, i due tornarono da Lisandro dove li attendeva Carrarmato.
 

Quella magnifica giornata che trascorrevano Giulietta e Mario si poneva come felice parentesi in un periodo storico che avrebbe portato l’intero mondo alla peggiore catastrofe della umanità. Il periodo fascista in Italia, nel quale Mussolini aveva temuto e contrastato l’affermarsi di Hitler che era apparso un suo emulo, era finito e si erano rovesciati i relativi rapporti. Ora il maestro era diventato succubo del suo allievo. Le leggi, le ordinanze, le circolari che istituivano in Italia le leggi razziali antisemite promulgate nel 1938, segnarono un primo gravissimo attestato di sottomissione del Regime dittatoriale fascista all’imperante nazismo che si era affermato con grande rapidità in Germania nel breve volgere del decennio. Ormai il destino delle due Nazioni si andava amalgamando e sarebbe stato ben presto, di li a pochi giorni, cementato con il patto di acciaio che legava indissolubilmente le sorti delle due Potenze in caso di guerra. Di contro un modo avverso, provocatorio e insensibile. Abituato ad aver tenuto sotto tallone più dei due terzi della gente che abitava le terre emerse e che ora andava convergendo verso una altrettanto assetata dittatura pessima interprete dei diritti dei popoli calpestati.
Carrarmato, ben rifocillato da Lisandro, riprese il suo percorso di ritorno alla Villa, facendo una sola sosta davanti ad una cappella votiva della Vergine Maria prediletta della nonna Elena e Giulietta scesa dal calesse recitò un Pater un Ave e un Gloria, seguita in devoto silenzio dal compagno.
Assorto nei pensieri di quel tragico presagio, tornò nella mente a Mario il primo incontro del suo sguardo con quello di Giulietta.
Negli occhi di quella ragazza e nella sua esclamazione si condensava la ribellione dell’Umanità contro se stessa. “Quanta crudezza!”. E quanta comprensione istintiva che simboli come quelli che le si erano parati davanti contenessero il peggiore destino cui il mondo dei vivi andava incontro per trasformarsi in un mondo di morti, di devastazioni che avrebbero scaturito altre devastazioni, lutti e sofferenze.
Quanta insania suicida può scuotere il genere umano in modo irrefrenabile per estirpare la inebriante bellezza della Natura e rendere brulla ogni zolla di terra!.
Quel calesse che percorreva la generosa terra piacentina recando con sé i più splendidi sentimenti umani era un magico emblema di pace, l’estremo apice della sapienza.


Tornati alla Villa, Giulietta e Mario passeggiavano conversando nel rigoglioso parco nel quale erano immerse le costruzioni fra cui la graziosa dependance dove abitavano Olga e Dino.
Tutto attorno profumava fra querce, faggi, aceri campestri, castagni in terra fungosa, rose canine, prugnoli selvatici, cornioli scarlatti e mille altre fioriture primaverili.
“Politicamente come sei orientato?” chiese all’improvviso Giulietta.
“Oggi” rispose Mario “Non è facile essere orientati. Non è facile schierarsi. Ad esempio io apprezzo moltissimo quella minoranza, fra cui alcuni, pochi in verità, intellettuali, che apertamente si oppone al Regime pagando in proprio le efferate conseguenze. Ma d’altro lato non mi schiero né con coloro che aizzano la gente a sostituire al Regime fascista quello ancora peggiore, cioè il comunismo nato dalla Rivoluzione di ottobre in Russia, né tantomeno le classi privilegiate, che considerano il popolo un animale da tener quieto e sono amiche di Inghilterra e Francia, Nazioni imperialiste che tolgono la libertà di autodeterminazione a popoli in interi continenti. Noi li abbiamo spietatamente imitati con l’invasione di uno stato libero appartenente alla Società delle Nazioni quale l’Etiopia, perseguendo un disegno antistorico di impero che non ci appartiene più.
Il Regime dittatoriale la cui conduzione giornaliera è troppo spesso affidata a beceri gambaloni che spavaldeggiano nelle periferie, ha tolto la libertà di Stampa e di pensiero autonomo, va, però, diviso in due momenti storici: il Fascismo populista che ha fatto bene in campo previdenziale, edilizio, di bonifiche, di alfabetismo e tecnologico, e il Nazifascismo. Momento che stiamo vivendo servilmente e che ci porterà alla catastrofe.
Una guerra è ormai alle porte e ci coinvolgerà del tutto impreparati”
“Quindi” riprese Giulietta “Non sei fascista”
“No, ma da italiano mi sento corresponsabile, non indenne da colpe, incapace di contribuire a ridare al nostro popolo la piena libertà. Mussolini è troppo osannato dal popolo che vede in lui il nuovo Cesare, senza essere in grado di contestualizzare. Il fascio littorio non ricrea le condizioni storiche dell’antichità. Ogni popolano si sente elevato al ruolo di tribuno dell’antica Roma. Lui non fraternizza con i suoi migliori compagni di viaggio come Balbo e D’Annunzio, anzi li teme, li detesta, mentre sono gli unici, forse insieme a Ciano, che potrebbero evitargli la deriva. Ma ora, Giulietta, se non ti spiace, lasciami godere questa meravigliosa giornata che mi hai regalato


All’ora di cena li attendeva Olga nell’accogliente taverna primo novecentesca con muri tortora, pavimenti in cotto e volta a raggiera. La donna aveva imbandito un tavolo per due, su piano grezzo di faggio, posate e piatti e bicchieri rustici, un tagliere di formaggi piacentini, un insalatiera d’acacia con funghi porcini affettati, rucola e scaglie di grana padano, pane fatto in casa, una brocca in terracotta con Lambrusco e altra con acqua di fonte.
“Molto bene” disse Giulietta, “Grazie, Olga”, poi rivolta a Mario “ Ti piace l’insalata di funghi freschi?” … “Mi piace molto tutto quanto vedo su questo tavolo” rispose Mario con tono entusiasta.
“Olga si allontanò soddisfatta salutando e dando la buonanotte”.
Consumata la prelibata cena, Mario si soffermò ad elogiare tutti i momenti e i modi dell’ospitalità di Giulietta, dicendole che tutto gli era sembrato una magica avventura.
“Ma proprio per un mio innato senso di responsabilità” aggiunse Mario “penso debba rimanere un irripetibile, indimenticabile episodio della mia vita. Questo miracolo di bellezza che ho davanti a me, questa bambina irrequieta che mi suscita sentimenti abissali per la loro profondità che non avevo mai conosciuti prima d’ora, mi terrorizzano, come se dovessi essere artefice di un sacrilegio”.
“Ma se solo con te mi sento integralmente viva” lo interruppe Giulietta “ sacrilegio sarebbe privarmi di questa gioia immensa che la tua sola presenza, la tua sola compagnia, lo starti vicino mi da, quando pare che questo valga anche per te. Non a tutti è dato innamorarsi nella vita, corrispondersi così e tu vorresti barattarlo con una mia presunta grandiosa vita in seno alla famiglia di Adrien? Non bastiamo noi due per crearci un’esistenza più che dignitosa?”.
Mario non rispose, si limitò a prendere la mano sinistra di Giulietta e a baciarla.
Quindi si alzò, uscirono dalla taverna e presero la via delle loro stanze.


La mattina alle sei, Mario, mentre Giulietta era ancora assopita nella propria stanza, bevuto un caffè preparato da Olga, salutati i custodi con un “Merci beaucoup”, raggiunta l’auto si diresse verso Milano.
Mentre guidava gli sembrava che le sue labbra sfiorassero ancora il corpo profumato e fragrante della giovane amica.
Un leggero rintocco alla porta lo aveva scosso dal primo piacevole torpore del sonno.
Giulietta si era introdotta silenziosamente nella stanza e Mario aveva acceso l’Abat-jour del comodino.
La ragazza era apparsa così in tutta la sua venerea vitalità adolescente.
Era a piedi scalzi, in sottoveste di leggera seta nera che lambiva la parte alta delle cosce lasciando nude le lunghe gambe dritte e affusolate.
La scollatura integrale era trafilata solo da due minuti strisce del tessuto e raccoglieva ai lati i morbi capelli neri.
Sulla seta si disegnavano i seni turgidi e acerbi.
La giovane si avvicinò e Mario presto si ritrovò fra le braccia quel miracolo della natura.
I due corpi si cercarono, mani e labbra si posavano ovunque su di essi.
Unirsi fu naturale e dolce perché anche le due anime erano legate l’una all’altra.
Durante la guida Mario si sincerava della fascinosa femminilità di Giulietta.
Dopo avergli d’improvviso confessato il suo amore di giorno, ora di notte aveva scatenato la tempesta dei sensi. Tutto premeditato con la sua spregiudicata e candida determinazione.
Avrebbe voluto tornare indietro, ma sentiva la sua inadeguatezza. Sentiva il sacrilegio di chi avrebbe potuto snaturare lo svolgersi di una esistenza destinata alla grandeur della vita nel Gotha della splendida Parigi, accanto ad un uomo bello, giovane e potente.


Il ritorno di Mario al giornale, accompagnato dallo zoccolio delle impiegate che ad ogni suo rientro si affrettavano alle finestre del cortile, per ammirare il bel giornalista, ebbe tutte le componenti di quello che i nostri padri antichi riassumevano nella locuzione latina “promoveatur ut amoveatur”(sia promosso al fine di essere rimosso).
Venne chiamato in direzione e lo stesso responsabile per la destinazione dei ruoli ai giornalisti, dopo i consueti convenevoli gli disse : “Caro dottor Vicari, altrettanto soddisfacente per il giornale, quanto lusinghiero per voi personalmente, è giunta inaspettata in redazione, una graditissima segnalazione proveniente dalla Berlin Philharmonic Orchestra. Una motivata e sostanziosa nota, a firma dello stesso Wilchem Furtwängler, di cui vi trasmettiamo copia, tesse dettagliatamente un grande elogio per la ‘profondità’ e la ‘radicata e penetrante’ conoscenza della musica tedesca, dimostrata negli articoli da voi redatti nella Rubrica affidatavi dal nostro giornale . Ci hanno richiesto di poter ripubblicare i brani sulle loro edizioni specialistiche e ci hanno rivolto l’invito a complimentarsi con voi, incitandovi a continuare nelle vostre recensioni critiche musicali, definite ‘magistrali’. La direzione sarebbe lieta e favorevole ad esprimere il nostro entusiasta consenso, se voi siete d’accordo.”
In realtà né il giornalista italiano, cui era stato diretto L’’inatteso ed autorevole elogio, né il maestro, forse il più insigne direttore d’orchestra tedesco di tutti i tempi, erano accomunati dal fatto che non avevano mai manifestato simpatia per Hitler e per il Nazismo e questi personaggi, per quanto ammirati nel loro ambito, andavano contenuti in spazi propri in cui la politica non doveva avere cittadinanza.
Mario, masticata la foglia, non avendo altra scelta, accettò, manifestando gratitudine, la conferma in quel ruolo, solo apparentemente asettico ed ottenne anche alcune modifiche, nel senso di ampliamento degli spazi della sua Rubrica, portata a due importanti pagine interne con esclusione di inserti pubblicitari e di poter operare la scelta di coautori, invitati esterni e di richiami ad opere di noti critici della materia musicale, previo ovviamente il placet della redazione.
Nemmeno la predisposizione redazionale della nuova veste editoriale della sua Rubrica, potè, però, giungere al termine, in quanto Mario, nella sua qualità di ufficiale di complemento, di lì a poche settimane, venne improvvisamente ed immediatamente richiamato nell’Esercito di terra di Sua Maestà Vittorio Emanuele III, e destinato in Cirenaica, regione libica divenuta nel gennaio di quel 1939, territorio nazionale italiano. Qui avrebbe dovuto ultimare il riaddestramento personale e istruire lui stesso lac Compagnia che avrebbe poi, lui stesso, istruito e comandato.


La Cirenaica e la Tripolitania, costituivano teste di ponte ad ovest, secondo il portentoso, quanto tardivo, arduo e spericolato progetto mussoliniano, da congiungere alle teste di ponte ad est, costituite dai territori della Etiopia di Hailé Selassié, già libera componente della Società delle Nazioni , appena sottomessa, della Somalia e dell’Eritra , costituenti le altre ganasce entro le quali attanagliare Egitto e Sudan e completare il dominio italiano dell’ Africa Orientale.
La realizzazione del temerario piano , coperto in Adriatico dalla possente flotta della Regia Marina Militare, con sponde sicure anche in Albania e in Egeo nelle isole del Dodecaneso, da un lato sopravvalutò la protezione tedesca, che si vedrà presto nel suo folle progetto di dominio assoluto in Europa, impegnata sui fronti occidentali e orientali anglo-francesi e dall’altro non tenne conto, non tanto delle coraggiose resistenze autoctone, ma soprattutto delle gelose ostilità di Inghilterra e Francia, nazioni dominatrici nel mondo di quasi quaranta milioni di chilometri quadrati delle terre emerse, che non vedevano di buon grado il tardivo riaffacciarsi nella Storia di questa neonata nazione che si richiamava alle sue origini imperiali romane.
Per le grandi Potenze occidentali, l’Italia doveva rimanere la bella terra dal clima temperato, dove passare le vacanze e ammirare le anticaglie, doveva rimanere, cioè, quell’espressione geografica definita anche dalle potenze centrali o stesso Metternich.
I giovani di leva, sbarcati in Libia, non solo non avevano sentore delle colossali imprese in progetto, e della tragedia incombente, ma vi stazionavano fra, come truppe di riserva, tutte da addestrare per possibili interventi in media acie solo in caso di estrema necessità.
Fra questi giovani, improvvisamente sottratti alle loro cotidiane pacifiche incombenze lavorative e alle loro abitudini di vita pacifica, si trovava il tenente Mario Vicari, posto a capo della sua Compagnia di reclutati di prima leva, forte di circa duecento unità, cui spesso venivano collocati o ridislocati altri ceppi nel ridimensionamento del generale assetto in zona del Regio esercito.
Col suo temperamento bonario, ma autorevole e deciso, il tenente Mario Vicari divenne presto l’imprescindibile punto di riferimento è il beniamino dei ragazzi in armi, cui era stato preposto.
I primi mesi furono poco meno che una serie di pacifiche esercitazioni militari, con qualche facilmente rintuzzabile scorreria di isolati gruppi di insorti, nelle zone desertiche attorno a Bengasi, in attesa di ordini di rafforzamento operativo nelle altre zone meno pacifiche.
 

I giorni vissuti da Giulietta e Mario, appartenevano al secolo più tragico della Storia umana. A centinaia di migliaia si contarono fra civili e militari, i morti, i feriti e i mutilati considerando solo la prima delle due apocalittiche guerre mondiali dello stesso secolo, la cosiddetta Grande Guerra, che di per sé coinvolse l’Europa dal 1914 al 1918, lasciando al suo cruento epilogo, carico di micidiali strascichi e vendette, il vecchio continente nel pianto per lutti e macerie ed essa fu solo conseguenza e insieme prodromo delle sciagure che infestarono anche l’intero suo successivo decorso.
Ma, riuniti a Versailles nel 1919, per inscenare un patto di pace, i rappresentanti dei popoli vincitori non si accontentarono di aver sconfitto gli imperi centrali, ma imponendo la vendicativa resa dei conti, non fecero che gettare ovunque semi e fermenti di nuovi odi e interminabili conflitti.
Thomas Woodrow Wilson rappresentante degli States, Sir David Lloyd George per il Regno Unito, Georges Eugène Benjamin Clememenceau, per la Francia (a nulla contò il nostro povero Vittorio Emanuele Orlando), dettarono le condizioni del trattato di Pace che pose fine alla prima guerra mondiale.
Gli Imperi sconfitti di Germania, Austria e Ungheria non parteciparono alla conferenza, ma furono costretti a sottoscrivere il trattato, sotto la minaccia che altrimenti sarebbe continuata la guerra distruttiva, peggiorate lePerché
Le condizioni, sottoscritte da quarantaquattro Paesi furono durissime sia per la dilanazione territoriale dei territori dei vinti, che per l’insostenibile peso dei risarcimenti materiali e pecuniari loro imposti.

                                                                                                                                    ***
Sul versante territoriale fu prevista la globale revisione dei confini della Germania.
L’ Alsazia-Lorena, dopo secoli di sanguinose controversie, venne attribuita definitivamente alla Francia, cui venne aggiudicata anche la proprietà esclusiva delle miniere della Saar, il cui integrale bacino, pochi anni addietro, nel 1935, era stato annesso alla Germania con un plebiscito superiore al 90% dei cittadini della regione.
La Renania fu smilitarizzata e posta sotto controllo della Società delle Nazioni.
I distretti di Eupen e Malmedy vennero assegnati al Belgio. La Slesia settentrionale venne annessa alla Polonia. Danzica divenne città libera sotto l’amministrazione della Società delle Nazioni. Pomerania e Prussia Orientale vennero separate da un Corridoio ceduto alla Polonia che così si ebbe uno sbocco sul Baltico.
Venne inoltre abolita la Coscrizione obbligatoria. Venne posto all’esercito un limite di 100.000 effettivi, privati dell’Artiglieria pesante e dell’Areonautica. La Flotta venne ridimensionata, avendo il consenso la Germania di mantenere solo sei navi da battaglia obsolete, pre-dreagnouth, delle classi Deutschland e Braunschweig ed altre due unità in riserva, sei incrociatori più altri due in riserva, dodici cacciatorpediniere più altri due in riserva e dodici torpediniere più altre quattro in riserva. No potevano essere posseduti nè costruiti sommergibili.
Tutto il resto della flotta imperiale tedesca (Kaiserliche Marine) ancorato nella rada inglese di Scapa Flow nelle isole Orcadi, che contava ancora 74 navi in piena efficienza bellica, in attesa della propria sorte, secondo il dettato dell’armistizio di Compiègne, doveva essere consegnato intatto alle Marine Vincitrici, che se lo sarebbero spartite.
La consegna dei convogli doveva avvenire per mano del Contrammiraglio Ludwig von Reuter, in quanto l’Ammiraglio in capo Franz von Hipper, si era rifiutato di compiere l’umiliante operazione.
Gli inglesi che avevano scortato le navi tedesche con un numero di navi da guerra triplo, occupati da incombenti quali l’intimazione dell’ammainabandiera a una flotta che non era stata piegata con le armi, allentarono un pò il controllo.
Alle 19,30 del 21 giugno 1919, confusi da segnalazioni inusuali, i Vincitori dovettero assistere colti di sorpresa, all’ordine di Von Reuter di auto affondamento della flotta tedesca.
Il Contrammiraglio in alta uniforme fatta issare la bandiera di battaglia, guidò lui stesso l’operazione.
Nove marinai tedeschi furono uccisi dagli inglesi nel tardivo tentativo di evitare l’operazione. Ma la sorte vide 52 su 74 navi tedesche andare definitivamente a picco, una sola inservibile rimase a galla, le altre incagliate dagli inglesi nei bassi fondali riportarono danni irreversibili che ne comportarono la demolizione.
                                                                                                                                    ***
L’Impero Coloniale Tedesco (Deutsche Kolonien und Shutzgebiete) subì la inflessibile legge dettata dai vincitori che proibiva alla Germania possedimenti di qualsiasi genere, esterni al proprio territorio nazionale, già ridimensionato , determinandone la dissoluzione.
L’ Africa Tedesca del Sud-Ovest venne affidata al Sud-Africa, l’Africa Orientale Tedesca, fatta eccezione per Ruanda e Burundi che vennero assegnati al Belgio, mentre i restanti due terzi vennero assegnati alla Gran Bretagna. La Nuova Guinea e le Isole Samoa tedesche spettarono alla Nuova Zelanda, Palau, Kiau-Tschou/Tsingtau, le isole Caroline, l Marianne e le Marshall al Giappone. Il Camerun e il Togoland vennero ripartiti fra Francia e Impero Biritannico e simili sorti ebbero altri protettorati o territori coloniali
                                                                                                                                     ***
Altrettanto incommensurabili, quanto non sopportabili per il popolo dei vinti, furono le misure risarcitorie economiche imposte all’estenuata popolazione tedesca dal trattato di Versailles.
La Germania fu condannata a pagare agli Stati vincitori la iperbolica somma di 134.000 marchi d’oro. Cifra incompatibile con la contemporanea situazione economica del popolo tedesco. Molti ritennero che l’enorme imposizione mirasse alla definitiva dissoluzione della Germania come entità statale. Inglesi e Italiani ritennero eccessiva la gravosissima sanzione, ma i Francesi furono inflessibili quanto poco preveggenti.


Non miglior sorte ebbe l’Impero Austro-ungarico (Österreichisch-Ungarische Monarchie) nato dal compromesso (Ausgleich) del 1867 tra la nobiltà ungherese e la monarchia asburgica Sotto lo stesso sovrano, convivevano due Regni distinti e in condizioni di parità, per cui il Regno di Ungheria si autogovernava e gli Asburgo erano sia imperatori d’Austria che re di Ungheria (terre del Concilio Imperiale e della Corona di Santo Stefano).
L’Impero coni suoi 680.000 chilometri quadrati, in Europa, per estensione era secondo solo alla Russia. Le capitali erano Vienna, giunta a 2.200.000 abitanti prima della guerra e Budapest, e oltre ad Austria e Ungheria, aveva sovranità tra l’altro sulla Croazia, la Slavonia, la Bosnia, l’Erzegovina, la Dalmazia, la Carniola, il Banato, la Tranzsilvania, la Galizia, parte della Slesia, la Moravia la Boemia e in Italia su Trento e Trieste.
Dopo la sonfitta l’Austria firmò il trattato di Saint Germain il 10 settembre 1919, con le Potenze Alleate. All’Italia cedette l’Alto Adige, l’Istria le isole adriatiche e parte della Dalmazia. La Bucovina passò alla Romania. Le ex provincie slave meridionali di Slovenia, Croazia e gran parte della Dalmazia, di Bosni ed Erzegovina si unirono alla Iugoslavia, mentre Sarajevo, città in cui era stato assassinato l’arciduca Francesco Ferdinando per mano di Gavrillo Princip, fervente iugoslavo, appartenente alla Biada Bosna (Giovane Bosnia), venne posta sotto il controllo slavo.Venne riconosciuta l’indipendenza di Ungheria, Polonia e Cecoslovacchia.

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Le iugulatorie e insostenibili condizioni imposte alle popolazioni degli ex Imperi Centrali, ora ridotti a stremate Repubbliche fantoccio, col passare degli anni resero profetiche le previsioni fatte subito dopo il patto di Versailles dal generale Foch, comandante in capo dell’Esercito Francese di terra. L’alto Ufficiale, commentando il c.d. patto imposto ai vinti nel 1919, pronunciò le fatidiche parole “That is not a peace. It is an armistice for twenty years” (Questo non è un trattato di pace. È un armistizio di venti anni).
Come si poteva pensare che un popolo altero e bellicoso come la Germania, diventasse un gregge di pavide pecore.
I tedeschi, infatti, lontani dallo starsene cheti, elusero facilmente il fiacco controllo della Società delle Nazioni, non sorretta dalla strana indifferenza di Francia e Gran Bretagna
e dovunque proliferarono moti insurrezionali.
Il Paese, disastrato dalla fame, dall’inflazione che raggiunse una tale dimensione da ridurre il marco a mera carta straccia insieme con le costanti privazioni cui ogni singolo cittadino era sottoposto giornalmente, fecero sorgere spontanei e giornalieri disordini che la debole Repubblica di Weimer non riusciva a tenere a bada. Erano moti in cerca di autore, addirittura in parte favoriti dalla crescente instabilità sociale ed economica creatasi in tutti Paesi, resa ancor più insicura dalla inarrestabile ideologia comunista che nel 1917 aveva determinato la rivoluzione d’ottobre nella sterminata Russia, ora bolscevica e prendevano sempre più piede in Germania, in Austria nei Balcani e nella stessa Italia.
Un o sconosciuto cittadino di Braunau reduce di origine austriaca, Adolf Hitler, che attribuiva la sconvolgente sconfitta bellica soprattutto agli ebrei, comunità da lui ritenuta corpo estraneo e nemico del popolo tedesco.


Nato il 20 aprile 1889 nel villaggio austriaco di Braunau am In, Adolf Hitler il 16 agosto 1914 quando, la Germania era già coinvolta nel conflitto mondiale contro le dichiaranti Francia e Inghilterra, si arruolò volontario nell’esercito del Kaiser Guglielmo II. Venne assegnato al Reggimento bavarese di Fanteria di riserva (Rir 16) agli ordini del colonnello Julius List, impegnato sul fronte franco- E se le umilianti condizioni che avevan potuto far prevedere una reazione bellicosa nel tempo, quale reazioneb del popolo umiliato ed estenuati, chi avrebbe mai potuto immaginare che un caporale dell’esercito, senza altra qualifica, con un suo breve opuscolo, contenente le ragioni della sua “battaglia” personale (Mein kampf), avrebbe sedotto decine e decine di milioni di tedeschi inducendoli a credere che la ragione di tutti i mali fosse la pacifica comunità ebraica di Einstein e Freud. Avrebbe ricostituito il complesso bellico più forte del mondo in meno di due lustri costituito la poderosa Whermact, la Panzerwaffe forte di oltre tre mila potenti e modernissimi carri armati oltre a migliaia di scorte, rifondato la Luftwaffe affidata all’asso della guerra del 14-18, Herman Goring, la Kriegsmarine in grado di incrociare padroneggiandogli gli oceani? Tutto ciò accadeva, mentre le conclamate democratiche potenze occidentali di Francia e Inghilterra stavano a guardare?
Emulo, dell’assai meno potente dittatore italiano, Benito Mussolini, capo del Fascismo che per primo seppe cogliere l’inettitudine dei partiti e del liberalismo in dissoluzione, Rea do la dittatura, Hitler, abilissimo, invasato, furente e visionario oratore, ne copiò le strutture formali dalle camice, alle divise, dal saluto alle formazioni paramilitari, dalle insegne rievocative di passati divini, alle fanatiche formazioni volontarie gioventù ossesse. In breve volgere di anni come un’irrefrenabile onda anomala, Hitler travolse ogni opposizione. Il vecchio Presidente della ormai decrepita Repubblica di Weimer, Paul von Himdenburg, fu costretto dalle preponderanti forze paramilitari imperversanti nel Paese, organizzate seguaci del partito Nazionalsocialita, il 30 gennaio del 1933, nominò Cancelliere Adolf Hitler e da allora il mondo tedesco sotto il tallone ormai incontrollabile della furia, della inflessibile disciplina e della mistica nazista, non solo assistette, ma fu compartecipe di devastazioni, uccisioni, prevaricazioni sempre crescenti a danno in specie della inerme comunità ebraica, indicata come causa di tutti i mali e corpo estraneo alla Germania. L’onda che da ciò era stata sollevata, riuscì, infine, a provocare la guerra più sanguinosa della storia umana.


Lo spettacolo della rinata potenza bellica integrale della Germania, avveniva sotto gli occhi minacciosi, ma solo a proclami, delle potenze “democratiche” apparse come ipnotizzate dalle evidenti mire espansionistiche di Hitler, ormai divenuto incontrastato e incontrastabile Fuhrer (Guida assoluta), titolo che il dittatore tedesco attribuì a se stesso nel 1934 dopo la morte di Hindemburg. Le mire divennero vero e proprio progetto esecutivo, dopo la firma del patto di non aggressione stipulato d Von Ribbentrop per i tedeschi e Molotov per i Russi.
Il nuovo accordo in pratica lasciava liberi i due Paesi firmatari di muoversi avvverso le regioni limitrofe. Si trattava solo di trovare un escamotage per giustificare l’aggressione di Paesi facenti parte della chimerica Società delle Nazioni ed Hitler ne mise in atto il primo, nonostante Francia e Inghilterra avessero preannunciato la dichiarazione di guerra qualora il Terzo Reich avesse prevaricato i limiti nazionali. Per l’aggressione della Polonia, Hitler e i suoi generali architettarono una vera e propria pantomima per legittimare di fronte al mondo l’invasione dello Stato Polacco.
Una pattuglia formata da quattro affiliati delle SS (Shutz Staffel - milizia speciale tedesca destinata a compiti di polizia) e otto delinquenti comuni, scelti fra i maggiori criminali nelle carceri di Stato, cui era stata promessa in cambio della partecipazione alla combine, la libertà e la cancellazione dei loro efferati crimini, travestita da soldati polacchi, mise in scena una proditoria irruzione armata contro una postazione radio del Reich. La sede della radio si trovava a Gleivitz un borgo tedesco a pochi chilometri dal confine dei due Stati. Non ci furono riguardi per le ciniche uccisioni dei tecnici tedeschi che presidiavano la radio e dalla stessa postazione venne divulgato in lingua polacca un proclama di aperta sfida contro la Germania Hitleriana.
A operazione compiuta, gli otto criminali che avevano partecipato all’impresa vennero passati per le armi.
Il Fhurer in persona dichiarò urbi et orbi che il primo settembre del 1939 truppe regolari polacche avevano aperto il fuoco in territorio tedesco, per cui si rendeva improcrastinabile l’immediato contrattacco. La Francia e l’Inghilterra non poterono di fronte alla sfrontata aggressione della Polonia, lasciare ancora lettera morta le loro minacce e il 3 settembre successivo dichiararono guerra alla Germania.
L’Italia mobilitò l’esercito, ma restò neutrale. Tale stato di non belligeranza fu solo provvisorio e dopo le fulminee vittorie dei tedeschi in Danimarca, Norvegia e aggirata la pletorica linea Maginot, dopo la massiccia invasione del territorio Francese, Mussolini il 10 giugno 1940 dichiarò a sua volta guerra a Francia e Inghilterra.
In Cirenaica, dove Mario rendeva sempre più pronta all’azione la sua compagnia, queste notizie arrivavano con toni trionfanti, ma la truppa comandata dal tenete Vicari rimaneva in pace, di complemento in attesa di sviluppi in Africa Orientale.
 

A metà giugno del 1940 dopo la repentina occupazione di Parigi da parte delle truppe del III Reich, che interrompendo la drôlle guerre aveva aggirato con le truppe corazzate la linea Maginot, passando per il Belgio, il Lussemburgo e le Pays Bass e l’esercito francese si trovò allo sbando, anche a causa di insufficienza, contraddittorietà e stato confusionale creato da ordini provenienti del governo precipitosamente riparatosi alla bene meglio a Bordeaux.
L’esercito in parte si disperse a gruppuscoli in punti disparati del territorio occupato dai tedeschi, tentando di organizzare la Resistenza. I paesani e i contadini francesi, per lo più donne, si prodigarono nell’appoggio ai partisans, correndo grave rischio perché chiunque fosse stato scoperto a portare aiuto ai fuggiaschi, veniva immediatamente fucilato in loco, dagli invasori.
Tra i gruppi alla macchia, nascosti qua e là nei molteplici dipartimenti delle regioni invase, che avevano accolto il proclama del Generale Charles De Gaulle diffuso dalla voce di Radio Londres, che incitava i connazionali a continuare le ostilità con ogni mezzo, si era già particolarmente distinto un drappello di guastatori scelti, capitanati da Furia, che non era altro se non il nome di battaglia di Adrien La Roch, il brillante manager parigino amico di Juliette. In poche settimane il giovane comandante e i suoi ragazzi, avevano fatto deragliare tre convogli di militari tedeschi che si dirigevano al nord, interrotto due strade essenziali per il ricongiungimento delle truppe e fatto saltare alcuni ponti per evitare il guado di arterie dei fiumi come la Loire, la Garonne e la Senne. Tutte pericolose e ardite operazioni di sabotaggio in punti strategici diversi contro i tedeschi invasori e in contrasto con il governo collaborazionista di Wichy di Philippe Peten.
Il drappello di Furia si prodigava inoltre per creare collegamenti con strumentazioni trasmittenti cifrate, atte a tentare di intessere una rete di collegamento e dare un corpo unitario alla Resistenza, coordinando i gruppi clandestini che sorgevano su tutto il territorio come funghi.
Il giovane comandante cominciò a creare una mappa segreta cifrata, consegnata al Comitato Provvisorio Parigino della Resistenza , che potè in tal modo promulgare ordini omogenei ai fuggiaschi.
Il manipolo agile, i cui componenti erano vestiti con abiti di contadini e truccati da persone anziane, era grado di raggiungere rapidamente le più disparate postazioni dei Partisans, anche grazie alla straordinaria conoscenza dei luoghi sparsi nei numerosi dipartimenti delle Regioni sia montane che di pianura, dove le segnaletiche venivano spesso invertite, quando non addirittura sostituite, per confondere il percorso degli invasori.
Fu così che a migliaia di chilometri di distanza Adrien e Mario si trovarono a combattere su fronti opposti in scenari di guerra completamente diversi.
Operava attivamente nella Mitteleuropa il francese, mentre nell’Africa Orientale il tenente italiano, a capo dei circa duecento uomini della sua Compagnia di Fanteria, per ora era fermo, essendo di complemento in Cirenaica alle truppe italiane che unitamente a quelle tedesche, al comando del generale Rommel, fronteggiavano le multietniche forze nemiche del generale Montgomery, nelle aride e assolate
terre per la supremazia del nord-est del Continente al di là del Mediterraneo.

(Segue)


 

Statistica e … sfortuna

Il Temi, che prendeva il nome dalla Dea della Giustizia, era una associazione di fatto degli avvocati milanesi che organizzava gare sportive di calcio, sci e tennis cui erano ammessi sia avvocati che magistrati milanesi. Un torneo tennistico prevedeva la partecipazione di sei squadre formate a loro volta da sei componenti misti di uomini donne avvocati e magistrati. Alla fine del torneo che cadeva negli ulti i giorni di luglio, i trentasei componenti delle squadre e i loro supporter, una dozzina fra organizzatori e amici, persone tutte connesse dalla frequentazione del Palazzo di Giustizia, ci riunimmo per una cena sociale, durante la quale vennero consegnate le coppe e gli attestati ai vincitori e ai migliori piazzati. Alla fine della gioiosa cena, dato che era sabato di estate inoltrata e tutti i coniugi e i bambini erano in montagna o al mare, venne accolto l’invito di un collega di andare a casa sua per finire la serata con un Wisky è un pò di musica. Arrivati tutti verso l’una di notte davanti al cancello dell’elegante palazzo dell’appartamento del collega, nel momento in cui stavamo per entrare, usciva dallo stesso palazzo un noto collega, di cui tutti conoscevamo la moglie, con sottobraccio una giovane ... amica. Il malcapitato, nella immensa città milanese, era sicuro di mantenere l’ incognito in quell’ora notturna. Invece si vide davanti gran parte dell’élite del Palazzo di Giustizia. Alla vista di tanti involontari testimoni, sbiancò in viso e sgattaiolò via. Il giorno dopo gli telefonai e gli dissi che su mia iniziativa tutti noi avevamo fatto un giuramento: avremmo potuto dire … il peccato ma non il peccatore. Mi rispose “mi fai rivivere e vi sarò grato per tutta la vita”.

 

La Madonna del pittore

Capitolo Primo.
Nasceva proprio il giorno in cui Dio aveva chiamato a sè il grande Cosimo della famiglia De Medici. E sua madre, da buona contadina, per non far dispetto al padrone di Firenze, non sopravvisse al parto. Il padre era un solito soldato di ventura, che dopo aver ingravidato la madre del nascituro, non era più tornato da una delle campagne di guerra. Fu così che il povero Masetto venne preso in casa da una zia che vantava discendenze dai Rucellai, ma che viveva del suo lavoro in un opificio di albume, facendosi aiutare per le faccende domestiche da un'anziana parente, la Nina. Nè i Fiorentini si potevano interessare della sua nascita, sia perchè era uno sconosciuto, sia perchè accorsero tutti a San Lorenzo a vegliare la salma del grande Signore.
Gli anni passarono, la Nina se ne andò a raggiungere gli avi e la zia Ghismunda, chiamata così dal padre letterato che aveva letto il Decamerone, pensò che fosse ora che il nipote che aveva compiuto nove anni, andasse a bottega a guadagnar qualche fiorino.
Lo prese con sè mastro Chirico, un anziano artigiano, che si intendeva di pittura murale, cioè dipingeva i muri delle case, quello che oggi riduttivamente chiamiamo imbianchino, ma che invece allora doveva saper creare i colori, che lui stesso impastava da sè, macinando terre, triturando pietre e servendosi di materiali di cui manteneva il segreto ed era geloso custode.
Masetto, acuto osservatore, imparava l'arte, ma non ne faceva menzione a mastro Chirico, che di lui si serviva per portar secchielli, spostare scale, staccar carte di parati e far pulizia sui pavimenti delle stanze che intonacava.
Un giorno, però, Masetto, di nascita piuttosto maldestro come diceva il vecchio, finalmente combinò un guaio, perchè salito sulla scala per porgere al pittore il secchiello del colore, lo fece cadere a terra.
Fu così che dopo aver pulito e tirato a lustro il pavimento si ebbe il ben servito e si trovò a dodici anni per strada, perchè nel frattempo la zia Ghismunda, poichè allora si moriva presto, pensò di abbandonarlo.
 

Capitolo Secondo
Il piccolo Masetto appena dodicenne, fu anche costretto in malo modo dai padroni a lasciare la casa che la zia aveva in locazione, perciò d’un botto si trovò solo, per la strada e senza un centesimo di fiorino in tasca.
Pensò, e che altro poteva fare,di essere nato sotto una cattiva stella.
Ma il fato una ne fa e una ne pensa ed un ricco signorotto fiorentino di un ramo cadetto della famiglia dei Donati, che lo aveva visto darsi da fare ancora piccino nella bottega di mastro Chirico, saputolo in disgrazia da una delle sue serve, lo mandò a chiamare.
“Mi hanno detto che è morta tua zia, che sei rimasto solo e che ti hanno buttato fuori casa”, disse .
Masetto annuì.
“Perché non lavori più a bottega da mastro Chirico" ? gli chiese.
Il ragazzetto raccontò la sua storia infelice.
“Se tu la mattina alle cinque mi vai a prendere il pane e il latte che serve in casa, poi durante il giorno dai una mano alle domestiche e con gli stallieri impari a sbrogliare il crine e a strigliare i cavalli, qui lavoro da fare ne troverai e troverai anche un posto da dormire e un tozzo di pane per sfamarti”.
Il ragazzo fu ben lieto di accettare e ben presto, sistemato in un bugigattolo della barchessa, si fece ben volere dalla servitù, facendo con lena tutto quello che gli veniva comandato.
Se non che, un giorno, poichè diceva di essere pittore murale, fu messo alla prova e il padrone in persona lo introdusse in una cappelletta chiusa e abbandonata che doveva essere rinfrescata.
"Devi ridare colore a questi muri" disse il padrone "Vediamo che sai fare".
 

Capitolo Terzo
Masetto diede un occhiata ai muri della cappelletta ed all’altare e chiesti quattro spiccioli al signorotto si die’ da fare per approvvigionarsi del materiale idoneo a creare i colori necessari.
Andò in primo luogo in riva d’Arno, dove raccolse sabbia di fiume fine e alcune pietre arenarie.
Si fece dare, poi, da un marmoraro carrarese che aveva bottega a Firenze polveri di marmo e spese gli ultimi spiccioli che gli erano rimasti da un bottegaio da cui, come si ricordava, faceva i suoi acquisti mastro Chirico, e lì comprò un sacco di polvere di lapilli e della calce.
Stette due o tre giorni a macinare pietre, ad impastare terra e polveri e il signorotto, che in verità era il proprietario dell’opificio di allume dove aveva lavorato la povera zia Ghismunda e da lei aveva appreso la laboriosità del ragazzo, entrando nella cappelletta a spiare disse “Ehi giovinotto, ancora non combini nulla, che fai mangi pane a tradimento”? Il ragazzo arrossì, ma spiegò che per preparare l’intonachino era necessario un impasto ben preparato.
“Ma tu che vuoi fare, il Ghirlandaio, disse scherzando, manco dovessi stendere un affresco …devi solo rinfrescare i muri”, poi riprese, “ti do tempo sino a fine mese, mancano cinque giorni, ricordatelo”e se ne andò.
Masetto continuò alacremente a miscelare pietre e polveri picchiando nel mortaio e si ripromise di cominciare il lavoro sui muri all’indomani.
 

Capitolo quarto
Masetto, di buon' ora, approvvigionata la casa di latte e pane secondo gli ordini del suo padrone, si rintanò nella cappelletta, che prendeva a stento la luce del mattino da un malandato rosone aperto sulla fronte del piccolo fabbricato.
Era quell'opera talmente trascurata nel tempo che appariva un cerchio nero quasi uniforme.
Ma il giovane imbianchino lavorando di gomito e servendosi di piccoli stracci e di un solvente creato da lui stesso con ogli essenziali tratti da bucce di agrumi e moccoli di cera stagionati trovati su candelabri arruginiti, si mise a rimuovere le incrostazioni terrose e calcaree della vetrata.
A poco a poco, con l'avanzare della pulitura, la luce, grazie anche alla bella stagione marzolina, inondava la piccola cappella, mettendo a nudo le macchie sporche delle pareti e le magagne dell'altare che il semibuio aveva pietosamente nascoste.
Ma, intanto, ritornava ad antico splendore quel rotondo luminoso composto da linee radiali e istoriato qualche secolo prima da mastri vetrai con mirabili miniature di passi del vangelo.
Coperto il risone all'interno ed all'esterno della facciata con carta chiara che non diminuiva il penetrare della luce solare, il giovane cominciò a pulire i quattro vecchi candelabri che posavano a due a due sui lati opposti dell'altare, servendosi di acqua, sale e polvere di sodio, curando di togliere la patina che si era formata e così fece per le altre icone in argento che addobbavano l'altere di marmo.
Il primo giorno di lavoro fu così dedicato alla ripulitura di cose che il tempo aveva umiliato.
Il ragazzo ricoprì tutto con stracci di tela e sfamatosi con un pezzo di focaccia di farro datogli in cucina, restò a dormire su di un giaciglio di paglia adagiato nella piccola cappella, quasi a voler custodire il suo lavoro.
 

Capitolo Quinto
Levatosi sul far del giorno dal suo giaciglio, il ragazzo, sbrigate le commesse e bevuta una scodella di latte dopo avervi inzuppato un tozzo di pane raffermo, tornò lestamente al suo lavoro.
Scrostò meticolosamente con acqua e raschietto quel che rimaneva del vecchio disomogeneo intonaco sino a trovare la pietra murale delle pareti, salvando , lunghe linee di disegni geometrici correnti sovente lungo il muro, che man mano affioravano dalla pulitura.e ripromettendosi di risuscitare i colori di quei fregi che gli apparivano preziosi.
Fu così che fino a sera , dimenticandosi di mangiare e sorseggiando qualche goccio d'acqua, denudò le pareti ed il soffitto, scoprendo, per ricomparse segnature, che erano state murate due feritoie, il transetto, la cupola a catino, due piccole navate laterali e l'abside dietro l'altare.
Non che il nostro giovane imbianchino avesse cultura d'arte architettonica, ma capì la somiglianza della struttura del fabbricato con la pianta di San Miniato, dove quella pia donna di sua zia, recandolo fuori delle mura, lo aveva portato sul colle a servir messa.
Per costruire il grande palazzo il padre di ser Lodovico, che non voleva essere da meno dei suoi cugini Donati, aveva dato ordine all'architetto dell'opera di guadagnar spazio, così costoso fra le mura fiorentine. La piccola chiesa di stile romanico fu così ridotta in quella misera cappelletta rettangolare, con soffitto appiattito, incastrata negli elementi architettonici della magione.
Finito e rimirato il lavoro fatto, Masetto si mise a riposare prima che venisse buio.
L'indomani lo aspettava il grande giorno del primo strato, il dopodomani dell'arriccio e il terzo giorno avrebbe potuto spalmare i colori.
 

Capitolo sesto
Il primo giorno Masetto dopo aver passato un panno per meglio asciugarla, segnò col gesso i punti in cui le pietre della muratura si muovevano e li andò a rincalzare uno per uno con calce e cemento.
Il secondo giorno, bagnato il sottofondo schizzò sulle pareti sabbia mista a calce per aggrappare poi con cura la malta bastarda che aveva preparato con tre secchi di sabbia fine, uno di cemento pieno ed uno di calce quasi pieno.
Infine passò a pennello e spatola il terzo strato leggermente granuloso formato con sabbia finissima, acqua e calce.
Si mise, poi a impastare i colori dividendoli in cinque secchi, quanti erano i veli che avrebbe voluto passare sopra i due strati.
A sera, quando scendeva il buio, accese alcune candele che aveva trovato in una vecchia cassapanca posta in un lato della cappelletta.
Lavorò finchè non lo sorprese il sonno, ma non si mise a dormire prima di aver tracciato dietro all’altare una grande raggiera, aver disegnato i rettangoli delle feritoie murate e grandi quadrangoli dove era stato murato il transetto, andando poi con la scala fin sotto il soffitto, tracciò rettangoli con basi minime, lunghi come travi.
Compiuta quest’opera si addormentò , alla luce di fiammella di una candela che aveva lasciato accesa, perchè si spegnesse per consunzione.


Capitolo settimo
Il giovincello nulla poteva sapere di teorie sulla tecnica prospettica, in quell'epoca ancora non diffuse . Fatto sta, però, che in pratica un abile gioco di linee geometriche, di congiunzioni di punti, di intersezione di segmenti e incurvature, gli permise a lavoro ripreso il terzo giorno, di raffigurare spazi illusori, con mezzi modesti come spaghi e carboncini accuninati. Terminati disegni sulle murature, la cappelletta sembrava all'occhio umano avere un'abside, una cupola a catino un transetto ed ai lati del corpo centrale due piccole navate. Dopo aver verniciato il soffitto simulando travi a cassettone, ed aver spalmato tenui colori alle pareti ripassandovi con fedele ricalco le trame geometriche presistenti che le dividevano in due parti in senso orizzontale e aver decorato le linee prospettiche, Masetto si era riservata un'ultima finitura.
Sul muro laterale, alla sinistra dell'altare, ritornato a brillare con la ripulitura degli argenti, c'erauna piccola loggia che ospitava una Madonnina di gesso, raffigurata con le mani congiunte in preghiera.
Il ragazzo, iniziato al culto della Vergine dalla pia Ghismunda, aveva lasciato per ultima l'opera di acconcio della loggia, cui voleva dedicare particolare e devota cura.
Certo sbagliava mastro Chirico quando, non avendo sperimentato le capacità del suo garzone, lo definiva maldestro.
In quel frangente, però, l'improvvisato pittore murale manifestò la sua inesperienza.
Accostatosi con la scala alla loggia, credendo che la Madonnina fosse fermata e non solamente posata sulla base, vi posò sopra un mano per tastare con l'altra lo sfondo. Mentre lui perdeva l'equilibrio per l'icstabilità dell'appoggio, ma riusciva a reggersi appoggiandosi al muro, la statuetta leggera e non più alta di quaranta centimetri scivolò sulla base e finì sul pavimento frantumandosi.


Capitolo ottavo
Masetto scese dalla scala, mettendosi le mani nei folti capelli neri e ricci. "E chissà di quale grande artista era questa Madonnina, si chiedeva in lacrime, ser Ludovico mi caccerà, sarò ancora un disgraziato senza lavoro nè dimora, solo e per la strada come un cane randagio". Mentre piangeva, imprecava e malediva la sfortuna che aveva ripreso a perseguitarlo.
L'indomani il padrone sarebbe passato a controllare il lavoro, si sarebbe accorto del misfatto e forse, prima di mandarlo via, gli avrebbe anche fatto affibbiare una caterva di nerbate.
In quel tempo, pur se Firenze fosse una città di trafficanti, ricchi mercanti e di banchieri, gli artisti erano tenuti in grande considerazione. Le famiglie nobili e possidenti facevano a gara ad accaparrarsi opere dei grandi maestri che illustravano la città, rendendola la culla dell'arte nel mondo conosciuto. "E se la statuetta fosse un gesso di Donatello o di Verrocchio, si chiedeva tremante, facendosi venire a mente i nomi dei due grandi scultori di cui aveva molto sentito parlare, come potrò risarcire i danni, sarò messo in catene tutta la vita". E più pensava, peggiore era la sorte che si rappresentava.
Dire che fosse disperato il ragazzo, era poco. Con tutta la forza che gli era rimasta, prese pennelli e colori impastandoli in modo del tutto inconsueto e in preda al panico, si mise a dipingere la piccola loggia, come solo in quello stato d'animo di dolore e furia avrebbe potuto fare, cercando freneticamente di effigiare un viso di Madonna. "Vergine mia, Vergine mia, continuava a ripetere " e mano mano prima acconciò la loggia, poi venne fuori la figura di Maria.
Finita l'opera non ebbe nemmeno il coraggio di guardarla. Povero me, povero me" ripeteva.
"Sconsolato non pensò nemmeno a mangiare quella sera e dopo aver nascosto dietro l'altare il materiale rimasto insieme ai cocci della Madonnina di gesso, spostò in un angolo il suo giaciglio e vi si rannicchiò cercando invano di prendere sonno mentre calava il buio.


Capitolo nono
La luce dell’alba colse lo sfortunato imbianchino mentre, dopo una notte di dormiveglia in preda ad incubi, si era appena appisolato.
Lo svegliò qualcuno che stava picchiando alla porta.
Era un domestico che lo apostrofò con tono di scherno “Ehi dormiglione, è un bel po’ che batto l’uscio …”.
Il ragazzo si stropicciò gli occhi, corse a rinfrescarsi alla fontanella del cortile e andò a prendere il latte e il pane.
Al suo ritorno in cucina, afferrò un pezzo di pane raffermo e sgranocchiandolo tornò a rannicchiarsi nella cappelletta, dopo aver tolto le carte imposte per proteggere le ripuliture.
Il sole si alzò e inondò il piccolo luogo sacro di una luce che filtrando dal rosone esaltò i colori e gli effetti spaziali impressi da Masetto.
Fu allora che ricomparve il padrone.
Ser Ludovico si guardò attorno con stupore, quasi non riconoscendo più il luogo, mentre il ragazzo scattato in piedi se ne stava zitto ad aspettare la sentenza.
“Un bel lavoro, disse il padrone, un gran bel lavoro ragazzo …” . Si approssimo ai muri, andò a rimirare il rosone e tutto quanto il giovincello aveva abilmente ritoccato.
Finalmente, come temeva il pittore murale, lo sguardo di ser Ludovico si soffermò sulla piccola loggia, alla quale si avvicinò “Ma, disse, qui …toh, e questa chi l’ha dipinta …” . Il suo tono era fra il meravigliato e l’interrogativo..”Questa Madonna non c’era qui, chi l’ha dipinta” …Il ragazzo col cuore in gola rispose “io … signore,” .
Dopo aver guardato per un bel po’ il piccolo affresco, il padrone riprese “Tu … da solo …” .
Il ragazzo annuì.
Ser Ludovico senza profferire altra parola scomparve dietro l'uscio della piccola cappella..


Capitolo decimo
Impressionato dalla bellezza della piccola Madonna affrescata da Masetto assai di più che dai suoi disegni geometrici pur notevoli, ma che qualsiasi mano ferma avrebbe potuto vergare, ser Ludovico aveva abbandonato di fretta la piccola cappella, per cercare qualcuno che, da intenditore d’arte, avrebbe potuto dare conforto alla sua meraviglia.
Si parlava molto a Firenze di un giovane non ancora venticinquenne, figlio di un ricco notaio, ser Piero, venuto da un piccolo borgo.
Il giovane in breve s’era acquistato molto credito presso la bottega di Andrea del Verrocchio, dove lavorava insieme ad altri giovani promettenti, ed era apprezzato non solo per la qualità dei suoi disegni, per il suo fare ottimi rilievi, per l’operare nella scultura realizzando pregevoli gessi di giovani donne e di putti e per suoi primi dipinti, ma anche per la sua vasta applicazione alla scienze, che spaziavano, nel suo dedicarvisi, dalla critica dell’arte, alla matematica, alla anatomia, alle leggi fisiche.
Era costui, quello che poi passerà alla storia come il grande Leonardo da Vinci, già allora grande amico di Lorenzo de Medici, che che in età lo superava solo di tre anni.
Ser Ludovico, che a Firenze egli pure era considerato, ma per altre ragioni, cioè per la ricchezza derivante dai suoi opifici e dalla la sua grande abilità di mercante, aveva conosciuto il giovane borgataro in casa di amici possidenti e ne aveva apprezzato la squisitezza dei gusti proprio nel parlare di arte pittorica e nel commentare alcuni dipinti dei suoi anfitrioni.
Volendo che fosse quello il primo, dopo di lui, a giudicare il dipinto di Masetto, mandò un servo a chiamarlo.
Giunto sul luogo, alla presenza del ragazzo che era stato richiamato dalle stalle dove stava strigliando un puledro, Leonardo, dopo aver rimirato il piccolo affresco ed essersi assicurato che era stato steso da poco e senza ricalchi, così si espresse: “Questo giovine deve essere stato in Paradiso … la sua opera è tanto bella che solo chi ha visto in viso la Vergine Maria può averla ritratta in cotesto modo”.
Si disse, il che non è affatto provato, che la sua “Madonna del Garofano”, Leonardo l'avesse ridisegnata dopo quell’incontro.
 

Capitolo undicesimo
Le parole del giovane Leonardo suonarono oro all’orecchio di ser Ludovico, uomo d’affari e intontirono l’imbianchino.
Sentiti altri artisti, tanto che pare , che lo stesso Andrea del Verrocchio e il suo allievo Sandro Botticelli avessero visto e fossero rimasti estasiati dall’affresco di Masetto, la sua vita cambiò di colpo.
Gli venne assegnata una bella camera nella magione, lo stesso sarto di ser Ludovico gli cucì un abito da gentiluomo e gli fu attribuita una serva personale di nome Moretta, quatto anni più grande di lui.
Con una certa apprensione il giovane affrescò l’immagine di una Madonna nella stanza degli sposi, tanto che ser Ludovico e sua moglie donna Isabella traslocarono in altra stanza durante l’esecuzione dell’opera.
Finito l’affresco d’una Madonna in estatica contemplazione del bambino Gesù, questo agli occhi di ser Ludovico apparve addirittura opera più che d’un mortale di una creatura divina.
Fu allora che ser Ludovico tenne un grande ricevimento nel suo sontuoso palazzo.
Vi convenirono invitati, rappresentanti di tutte la maggiori famiglie fiorentine, fra cui i Lapi, i Soderini, persino i Medici i Pitti, i Rucellai gli Aldobrandini i Benci, gli Strozzi e tante altre.
Gli ospiti, già soddisfatti per il banchetto, le libagioni, le belle dame, la musica dei migliori maestri fiorentini, furono uno per uno dirottati da ser Ludovico, per una visita prima nella piccola cappella e poi nella camera degli sposi.
Il giovincello timido e timoroso, se ne stava nell’angolo del grande salone e ogni ospite che tornava dopo aver visitato i luoghi dei suoi due affreschi, volle conoscerlo e magnificarne le sorprendenti doti pittoriche.
Un Alberti apprezzò molto anche le prospettive geometriche e un Rucellai volle prendere in considerazione addirittura l’albero genealogico del ragazzo.
La serata fu un grande successo, tanto che i cugini Donati promisero di ricambiare la serata a ser Ludovico, che sino ad allora non aveva mai messo piede nella loro magione.
 

Capitolo dodicesimo
Il suo vero nome era Giuseppina, ma tutti la chiamavano la Moretta.
La giovane faceva parte della servitù della casa dalla nascita, dove l’aveva partorita un’altra serva poi scappata via con un uomo senza lasciar traccia di sè.
Ora sfiorava ormai i diciotto anni ed era dotata di tutto il bendiddio di cui la natura spesso privilegia giovanette in quella primaverile età.
Slanciata, con lunghi capelli neri sempre curati, grandi occhi verdi in risalto sulla carnagione bruna del viso reso tenero dai lineamenti delicati, era amata da tutti i componenti della servitù che dopo la fuga della madre l’avevano adottata ed educata come figlia.
Lei sapeva svolgere con diligenza le mansioni che le affidavano ed ora in particolar modo quelle che le erano state attribuite per Masetto.
Il ragazzo, che da allora in poi per ordine di ser Ludovico la servitù dovette chiamare "signore", fu ben presto avvinto dalla grazia della Moretta.
Questa lo chiamava “signor mio” e non perdeva occasione nei movimenti sinuosi e nei modi per mettere in mostra le sue grazie femminili, pur non perdendo la sua apparente pudicizia.
Il ragazzetto, ormai quattordicenne, che sino ad allora non aveva mai osato fermare più di tanto lo sguardo su di una giovine donna, quando la vedeva muoversi sotto la veste sempre candida e leggera, sentiva quell’irrefrenabile attrazione che alla sua età comincia a crescere impetuosa nei maschi.
Signor mio, disse la Moretta una volta, mentre portava a. Masetto un canestro di frutta fresca, forse un giorno mi farai un ritratto.
Il ragazzo non rispose, ma una sera ritiratosi nella sua stanza, tentò più volte di disegnare su carta con un carboncino il viso della giovane donna, ma non gli veniva nemmeno di abbozzarne i capelli.
Solo quando nell'effige coprì il capo con il velo, riuscì a disegnare una bellissima madonnina con il viso e le sembianze della Moretta, ma dopo averla mostrata solo lei, ritenuta la cosa blasfema per la sua grande devozione alla Vergine, distrusse l’opera provocando le lacrime della giovane donna.
Fu allora che il ragazzo per consolarla la strinse a sè.
 

Capitolo tredicesimo
Presto tutta Firenze venne a conoscenza dell’esistenza del ragazzo prodigio e dei suoi stupefacenti affreschi. Nessuno voleva essere da meno e cominciarono, così, le contese. Potenti signori chi più nobile o chi più ricco, ordini religiosi, chiese e confraternite, si fronteggiavano facendo a gara perché fosse privilegiata la loro commessa. Le opere d’arte più prestigiose, così come i diritti di patronato delle cappelle da far affrescare, costituivano quello che oggi si chiamerebbe lo status symbol e che anche allora era indice di benessere, di posizione elevata e quindi di potere non meno ambìto dai prelati di quanto lo fosse dalle famiglie potenti.
Ser Ludovico, che s'era nominato cassiere e procuratore per le committenze e aveva riservato all’ex garzone e imbianchino un decimo degli introiti, da scaltro mercante qual era, fece di quegli affari un gioco di grande sua ascesa sociale, ammettendo i pretendenti alla stipula dei contratti secondo una vera e propria gerarchia per laici o religiosi che fossero.
Per far sì che il prezzo d’acquisto salisse, si faceva pregare e decise che le opere non fossero in numero maggiore di quattro o cinque all'anno.
Non ci si meraviglia se il primo lavoro esterno di Masetto fu eseguito a Palazzo Medici nella camera di Lorenzo, quel signore già noto per il suo amore per l’arte che la storia ricorderà come il Magnifico.
La notizia fece molto scalpore e destò non poche invidie, ma assai più grande fu la crescita della fama del pittore e la generale frustrazione e meraviglia quando in pubblica conversazione Lorenzo disse che il “giovin pittore”, come per lungo tempo Masetto venne poi chiamato, aveva dipinto una Madonna inimitabile per la sua virginea sacra bellezza che di certo superava quelle, pur fra le più belle mai viste, di casa di ser Ludovico.
Aggiungeva poi che nessun altro aveva mai effigiato con tanta bellezza il viso di Maria.
Né Lorenzo fece segreto del compenso di cento fiorini corrisposti per l’opera.
Ma la voce delle Vergini dipinte a Firenze da un ragazzetto, arrivarono sino a Roma dove Francesco della Rovere pontificava sotto il nome di Sisto IV.
 

Capitolo quattordicesimo.
Nella Firenze fine quattrocento di grandi artisti che avevano lavorato d’affresco nella cappella Vespucci in Ognissanti, nella cappella del Cardinale del Portogallo in San Miniato, nella cappella Cavalcanti in Santacroce, nella cappella di palazzo Medici, solo per citarne alcune, noti come Tommaso Bigordi detto il Ghirlandaio, Andrea del Castagno, Benozzo Gozzoli, per tacere di molti altri, fece scalpore la notizia che messi papali si fossero interessati del giovin pittore di Madonne.
Ser Ludovico propagandò la notizia e le commesse piovvero, sicchè per la semplice legge della domanda e dell’offerta i prezzi delle opere di Masetto salirono vorticosamente.
Il giovane non andò mai a Roma, ma in pochi anni non vi fu grande famiglia fiorentina e cappella di chiesa o di convento che non fosse effigiata dalle Madonne del giovane.
Quando giunse ai vent’anni, sempre sotto l’egida di ser Ludovico, il cui casato de’Donati fu ormai pari a quello dei cugini, l’ex imbianchino era ormai un ricco corteggiatissimo signore.
I Rucellai riuscirono finalmente ad affibbiargli un nome altisonante avendo trovato fra i suoi avi un operaio addetto al trattamento del lichene con ammoniaca urinaria detta “oricella”, lavorazione alla base del nominativo del casato e della loro fortuna .
Fu così che il giovin pittore venne chiamato Maso dell’Oricella.
Ma per essere sicuri dalle altrui invidie in quel tempo, solo all’apparenza illuminato anche nei diritti civili, non bastava la protezione di questa o di quella famiglia, si doveva disporre anche di armati, cioè di vere e proprie milizie famigliari .
Ai de Medici, non era affatto passato inosservato che nonostante la loro primogenitura nella scelta del pittore di ser Ludovico, questi avesse permesso a tutte la famiglie fiorentine, persino ai Pazzi, di possedere opere del giovin pittore.
Fu così che il pittore Maso dell’Oricella fu chiamato a palazzo Medici dal vero padrone di Firenze, il Magnifico Lorenzo.
 

Capitolo Quindicesimo
A Palazzo Medici lo aspettava un figuro che aveva tutto fuorché l’aspetto di gentiluomo, il quale lo ricevette in una specie di tetro scantinato .
“Maso dell’Oricella, lo apostrofò, tu, Ludovico de Donati e quella puttanella Moretta, Giuseppina, come si chiama …, ve la siete fatta impunemente con i peggiori nemici di Firenze, loschi intriganti e traditori che fossero ”.
Il giovane, che già era spaventato per il luogo tetro che lo aveva accolto e per il tono poco amichevole cercò di interloquire garbatamente : “Signore, io …”.
“Io, io, fece l’altro, non faccia il santerello … voi pur di far denaro … e poi anche gli amici dell’assassino di Giuliano avete servito … sapevate bene, sapevate bene …”.
Dopo un attimo di pausa, l’arcigno accusatore riprese con tono più minaccioso “te lo facemmo capire quando s’interessò di te il Della Rovere … quel Sisto, ma voi niente … il trio continuava ad abbellire cappelle e magioni e di cani e porci, cardinali o prepotenti … sua signoria è inquieto”
Dopo l’ accenno a “sua signoria”, il giovane pittore impietrì.
Avrebbe voluto dire che lui di quegli affari era solo esecutore, che non aveva avuto contatto con alcuno dei personaggi perché della cosa si occupavano ser Ludovico e la Moretta, che lui quelle Madonne non sapeva nemmeno come faceva a dipingerle, ma il terrore in cui era piombato non gli permise di profferire verbo.
Che sapeva, pover’uomo degli intrighi, delle congiure, a mala pena sapeva che sua signoria si era salvato da un agguato e come la grande maggioranza dei fiorentini esultò quando lo seppe vivo per sua destrezza nell’uso delle armi, come gliela avevano condita.
“Facciamola finita, disse il losco individuo, gli ordini sono questi : per il trentacinquesimo anno di “sua signoria” su tela di quattro metri per tre, tu dipingerai un ritratto di ser Lorenzo … il termine è il primo gennaio dell’anno che viene … hai quattro mesi pieni … così ristabiliamo chi è il signore di Firenze”
“Ma io …” cercò di dire il pittore ex imbianchino. “Basta …, lo minacciò il losco messo, se rifiuti non hai scampo".


Capitolo sedicesimo
Il pittore uscito dal palazzo della più potente famiglia di Firenze, rimasto sconcertato e avvilito continuava a chiedersi che male avesse fatto.
“E poi, diceva fra sé e sé, chi lo sa fare un ritratto di sua signoria, io non so nemmeno come dipingo le mie madonnine, qualcosa mi prende la mano, no, no, non riuscirei mai a fare altro, sono perduto, sono morto”.
Intanto rigò dritto verso casa perché aveva la sensazione di essere pedonato.
L’unica persona con la quale sentì di confidarsi fu la Moretta, la sua monna Giuseppina, mentre tutto venne tenuto nascosto a ser Ludovico e ad altri .
La giovane donna, fatta chiamare, lo raggiunse immediatamente.
L’ex imbianchino le rivelò tutto e terminò il suo accorato racconto con le parole “capisci, sono un uomo finito, morto, ricordi nemmeno il tuo ritratto ho potuto fare se non quando gli diedi la parvenza della Vergine ”.
Monna Giuseppina lo prese per mano e dopo averlo consolato come solo le donne sanno fare, cominciò a dire “Tu chiedi una somma spropositata, disse, tanti fiorini quanti ti basterebbero per tutta la vita, così sua signoria si rifiuterà … chiedi diecimila fiorini”.
La proposta venne trasmessa a Palazzo de Medici, e quanto prima uno se lo potesse aspettare alla porta di casa de Donati due armigeri chiesero di ser Maso.
Il giovane si sentì nuovamente perduto, ma con sua massima sorpresa si vide recapitare una cassa contenente diecimila fiorini d’oro, una immensa fortuna.
“Ora dai la notizia che vorresti istoriare sua signoria con monna Clarice e che intanto ti mandino per la copiatura i due abiti più sfarzosi che possiedono, prendendo tempo col fatto che stai definendo lo sfondo”.
Il pittore non capiva, ma in quelle condizioni non potè far altro che affidarsi alla Moretta.
Fu così che pochi giorni dopo, ben imballati, vennero consegnati al pittore i due piu begli abiti di ser Lorenzo e monna Clarice.
"Adesso, poichè vorrai fare le signorie a cavallo, disse la Moretta, fatti mandare per la copiatura i due cavalli più belli dei due sposi".
Fu così che qualche giorno dopo furono consegnati al pittore un magnifico cavallo nero di ser Lorenzo e un magnifico cavallo bianco di monna Clarice.
 

Ultimo capitolo
I cavalli vennero condotti nelle scuderie di casa de Donati e agli stallieri fu detto che servivano per un grande quadro .
I vestiti furono conservati nella stanza di ser Maso.
La cassa coi fiorini finì sotto il letto della Moretta.
Passò il primo mese e su richiesta del giovin pittore venne fatta scegliere la parte più ubertosa del grande parco a nord di palazzo Medici quale teatro di posa degli sposi i quali vi si sarebbero soffermati a cavallo per essere ritratti.
Il secondo mese si avvisarono le due signorie che il primo incontro per ritrarli sarebbe avvenuto all’ora terza del mattino del primo giorno d’autunno.
A palazzo furono impartiti gli ordini e fervevano i preparativi per l'evento cui venne dato in città massimo risalto.
In una incantevole notte di mezzo settembre, da casa de Donati uscirono due grandi giovani signori in lussuosi abiti .
Lui, il giovin pittore vestito con l’abito sfarzoso di ser Lorenzo montava il cavallo nero e lei la bella monna Giuseppina che indossava le sontuose vesti di monna Clarice montava il cavallo bianco.
Dietro di loro seguiva un ciuco che portava la cassa con i diecimila fiorini.
Si diressero a sud e gli armigeri di guardia non solo aprirono la Porta Romana ai due grandi signori che passando gettarono loro un bel pugno di monetine, ma s’inginocchiarono in segno di sottomissione al bel cavaliere ed alla bella dama.
Fu così che i due eleganti giovani si dileguarono nella notte e di loro non si seppe mai più nulla.
Ben presto tutta Firenze seppe della fuga e della scomparsa del giovin pittore e della sua bella amante.
Chi conosce i fiorentini immagina bene che poveri e ricchi, potenti e meschini tutti si divertirono alle spalle dei de Medici e del de Donati.
Ser Lorenzo e ser Ludovico, ciascuno per ragioni proprie montarono su tutte le furie, ma quel che fu la più grande delle meraviglie è il fatto che tutte le opere di Maso dell’Oricella, dalla prima all’ultima effige di Madonna si sciolsero come neve al sole.
Fine.
 

Raccontiamoci. Sunto del racconto "Il tranviere".
Era una sera di qualche anno fa, poco prima di Natale. Milano era ovattata dalla neve scesa tanto copiosa che non pochi alberi erano caduti sotto il peso del cumulo dei fiocchi e le macchine non potevano circolare agevolmente.In quella atmosfera fiabesca, resa magica dal biancore del manto di neve, dalle luci esterne particolarmente vivaci e dal via vai frettoloso della gente alla ricerca di strenne, mi trovavo sul tram di ritorno a casa.
Le vetrate del vagone, che scivolava silenzioso sulle rotaie bagnate, erano percorse da veloci riflessi dei festosi colori delle vetrine e delle luminarie, resi irreali dal riverbero della coltre bianca. C'erano pochi passeggeri sul tram, l'ora era di poco oltre le otto di sera. Stavo in piedi tenendomi ad una maniglia e poco discosto da me sedeva un omaccione con un pastrano sdrucito di lana grossa e due occhi buoni come quelli di un mansueto bove. Dietro di lui una giovane donna con viso intellettuale, leggeva un libro e qualche posto più dietro una bella signora elegante, d’età non facilmente decifrabile, teneva in braccio un barboncino bianco semi assopito. Da una rapida occhiata intorno, vidi in fondo al tram due bei ragazzi, un lui e una lei, che discorrevano complici e ogni tanto si sentiva la risatina della ragazza.
Ad una fermata salì un tranviere fuori servizio, sulla quarantina, che si fermò nella piattaforma posteriore. Accennava un motivo in voga soffiandolo silenziosamente fra i denti e teneva con l’anulare e il medio della mano destra una funicella da cui pendeva un involucro di carta oleata. Dall’odore buono che si diffondeva, particolarmente gradevole a quell'ora di cena, era facilmente desumibile che all’interno del pacco c’erano pizze napoletane appena sfornate.
D'un tratto venne a mancare la luce e il tram dopo aver scivolato sulle rotaie per breve tragitto si fermò.
Di lì a poco, persistendo il buio, nella vettura lievemente illuminata dalle luci esterne, da cui trasparivano le sagome dei passeggeri, si sentì la voce del tranviere fuori servizio che disse "Propri adess ... che go i pizz per la miè"*. Seguì un silenzio. Insieme al buon odore dell'impasto, si diffuse nell'aria un senso di ansia che credo accomunasse tutti i passeggeri. Le pizze si raffreddavano... Io ero il primo a preoccuparmi, stranezza degli esseri umani, che fanno le guerre, che ascoltano quasi indifferenti il verificarsi di catastrofi , ma in quel momento era il raffreddamento delle pizze che ci teneva in apprensione.
Dopo qualche interminabile minuto tornò la luce. La vettura riprese a correre. Il tranviere fuori servizio, ormai sotto lo sguardo intento di tutti i presenti, guadagnò la portiera centrale e si pose in atteggiamento di chi deve scendere.
Quando la portiera si spalancò l’omaccione dall’improbabile pastrano, facendosi interprete di tutti e cercando il comune assenso con lo sguardo, disse “vedarà che in amò cald”**. Il tranviere guadagnò la predella, scendendo allargò il braccio libero e in segno di ringraziamento rispose annuendo “Sperem... ”

* “Proprio adesso che ho le pizze per la moglie”
** “Vedrà che sono ancora calde”
*** “Speriamo”

Raccontiamoci
Sunto del mio racconto: Illusione pascoliana. Andai a Castelvecchio  a ritirare il premio internazionale di poesia "Giovanni Pascoli" per una mia raccolta edita intitolata "L'uomo bianco". Mi accompagnò Alberto Gabrielli, poeta e saggista, con due lauree umanistiche, che aveva fra le sue pubblicazioni commenti sulla vita e sulle opere  dell'autore di "Mirycae", la versione in poesia nella nostra lingua di sedicimila versi di Marziale per la Utet e dell' "Ars Amandi" di Ovidio per la Bur. Alberto era il vero genio di famiglia ed al fratello Aldo, di lui più noto, autore tra l'altro del famoso "Dizionario dei Sinonimi", edito da Loescher, il quale gli aveva chiesto per una villa un motto latino, scrisse "Verbis facta ad verba effugienda". Durante il viaggio in macchina, provenivamo da Milano, Alberto mi descrisse tutti i maggiori eventi letterari, pittorici ed architettonici del periodo fascista. Capii che mi aveva preso in simpatia per alcuni versi da me dedicati a Pound, ma era refrattario a rispondere a qualsiasi domanda che gli rivolgessi in relazione all'alleanza  Mussolini - Hitler, per cui non ne feci più altre. Giunti ad un area di servizio presso Parma, vidi che, sceso dalla macchina stava litigando col giornalaio che gli negava il "Secolo d'Italia" apostrofandolo con parole quali "lo so, lei lo nasconde, si vergogni".
A Barga ci fu la cerimonia del premio, raffigurato dal solito diploma e da una simpatica statuetta, che ancora conservo, di uno scultore toscano che su di una pietra arenaria aveva raffigurato la musa.
Conobbi allora uno dei giurati, il quale volle a tutti i costi dirmi di essere stato l'unico sui cinque componenti la giuria a votarmi contro. Si chiamava Ruggio. Alberto esclamò "Ma il suo nome è un errore di grammatica". Il mio "voto contrario" era un esperto in igronometria e ci spiegò che era a Barga, mandato dallo Stato, perchè la cittadina è la più piovosa d'Italia. Fu lui, "l'errore di grammatica", che, nonostante quella splendida giornata di sole in primavera, ebbe il compito di accompagnarci nella casa di Pascoli, semplice ed eguale a quella descritta da lui, con i rami appesi in cucina, lo studiolo del poeta, il piccolo orto con il pozzo e a pano terra l'urna con le spoglie del poeta e della amata sorella Mariù. L'urna era posta nel lato ad angolo retto rispetto allo studio e Alberto, dopo avermi raccontato tre o quattro aneddoti sulla vita di Pascoli fra i quali quello che una volta invitato ad un galà da D'Annunzio aveva detto alla sorella"Non possiamo andare ... siamo troppo brutti", mi svelò una cosa molto suggestiva.
"Vedi, mi disse, le rondini ora fanno il nido da questa parte, dove è sepolto Pascoli, lo hanno inseguito, perchè prima, quando era in vita nidificavano dal lato dello studiolo". Non feci a tempo a godermi questo fenomeno e già pensavo alla cavallina storna, alla rondine che tornava al nido,  alla capinera della quercia caduta, quando intervenne il Ruggio. "Vedete, sproloquiò, facendoci osservare una montagna sventrata che stava lontana e prospiciente al lato dello studiolo del poeta, la continua estrazione del marmo da quel monte ha cambiato la direzione del vento, per cui le rondini che prima nidificavano sotto la tettoia del lato sinistro della casa, dove era lo studio del poeta, ora per via della mutata direzione del vento nidificano qui di fronte".


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