COINTREAU
Solo leggere vibrazioni di piccole lame pendenti di una scultura
di Calder, alimentate dal tenue spiffero di un finestrino antifumo
aperto sulla grande vetrata a nastro dell’appartamento al piano nobile
di palais La Roche, interrompevano il silenzio calato nella grande sala
dei ricevimenti.
Consumato il rito del quarantesimo compleanno di Adrien, la padrona di
casa si era momentaneamente assentata.
Il festeggiato aveva salutato per primo i suoi invitati, quasi tutti
appartenenti alla danarosa élite parigina, scusandosi di non poter
differire un piano di volo per il Guam, dove lo attendeva un impegno
della sua molteplice attività aziendale.
Quando gli ospiti se ne furono andati e le servette con silente fruscio
come di piccole slitte sul velluto, provvedevano al primo riassetto
della ampia sala, Mario secondo il desiderio sussurratogli da Juliette
si era trattenuto per ultimo.
Lo sguardo del forestiero vagava sui salotti, sui lampadari veneziani,
sui tappeti, sulle tele di Mirò, Magritte, Derain, ma il suo pensiero
andava all’immagine di Juliette che con disinvolta eleganza aveva
condotto il cerimoniale dell’intrattenimento degli invitati.
Tutto era stato esaltato dalla flessuosa silhouette della donna,
fasciata in un abito color verde smeraldo, stretto in vita e accollato,
che lasciava completamente libere le spalle e la seducente schiena dei
trent’anni.
La splendida signora ricomparve mentre la servitù abbandonava la sala.
Si era cambiata. Ora vestiva una gonna plissé nera, una camiciola bianca
e scarpette di tela.
Aveva in mano una bottiglia ancora sigillata.
Avvicinatasi a Mario esclamò sorridendo “Et a vous Monsieur Cointreau
noir d’Angers!”.
Il liquore versato nei bicchieri di cristallo sembrava gemere di vita
propria
I due sorbirono l’elisir centellinandolo, complici nel rallentare il
tempo del commiato.
Si guardavano negli occhi mentre passavano nella mente di entrambi
immagini di momenti condivisi.
Si salutarono con la semplicità di chi avrebbe potuto rivedersi
l’indomani.
Lasciato il palazzo, Mario imboccò la vicina Place Vendome diretto
all’albergo.
Lo spazio tutto intorno gli apparve circondato da un’ostile insieme di
simmetrie, che guardava smarrito.
Gli capitava quel senso di alienazione, di perdita di contatto con
l’esterno, come gli era successo a Milano alla stazione dei pullman,
quando Giulietta montò sulla macchina di Adrien che la doveva
accompagnare a Parma.
Il loro casuale incontro era avvenuto dodici anni prima, a fine
maggio del 1937 sempre nella Ville Lumiere, più che mai allora crogiolo
inquieto della cultura e delle più trasgressive ideologie del mondo.
Ma quella inverosimile città rimaneva legata alla grandeur francese.
Era più continentale Milano, la città dove la convergenza delle civiltà
mediterranee, con quelle nordiche, nel suo amalgama, la proiettava in una
autentica vocazione europea.
La coesistenza fra le basiliche di Sant’Ambrogio di puro stile Romanico e
del Duomo, che nel suo essere polistilo tradiva in ogni caso con le sue
guglie e i suoi archi a sesto acuto il Gotico, ne erano monumentale
testimonianza.
A questo pensava Mario, mentre era in visita all’Exposition Internationale
des Artes Techniques dans là vie moderne”, rassegna ancora pregna di pur
affannoso respiro di comunione neutrale fra Stati.
La manifestazione si svolgeva in prossimità della Tour Eiffel, opera che
dopo l’Expo del 1889 era divenuta il più divulgato simbolo della capitale
transalpina.
Giunto davanti ai due ciclopici pavillons, quello russo è quello tedesco,
che si fronteggiavano con i loro vistosi emblemi, l’uno alto trenta metri,
sormontato dalla colossale scultura in acciaio di Vera Mukhina, raffigurante
un operaio e una colcosiana raggianti, che elevavano al cielo la falce e il
martello, l’altro non meno monumentale, formato da un gelido parallelepipedo
di marmo bianco, sormontato dalla grande minacciosa aquila e dalla ieratica
è inquietante svastica, osservava questo corpo a corpo pesantemente
ideologico di comunismo e nazionalsocialismo.
Venne distratto da una adolescente dai lunghi capelli color ebano.
La ragazza, in quel sofisticato sfoggio di raffinata moda delle visitatrici
parigine, ispirata ai maggiori artisti dell’epoca da Cocteau a D’Ali,
vestiva con naturale eleganza una camicetta bianca, una gonna scura al
ginocchio e calzava calzette bianche corte e scarpette chiare di tela e
rivolta a lui, spalancando i suoi profondi occhi neri che assorbivano
integralmente la luce del sole, aveva esclamato “quanta durezza!”
“Che ci fa qui sola soletta questa giovane connazionale?” istintivamente
aveva azzardato Mario.
“E voi che ci fate?” fu la pronta risposta della ragazza all’impertinente
domanda.
L’interlocutore occasionale, attratto da tanta sbarazzina bellezza, rispose
con tono di chi si scusa sorridendo “sono un giornalista, inviato qui da un
giornale milanese”.
Lei, dopo averlo squadrato attentamente, indecisa sé continuare il
colloquio, dopo una breve pausa rispose “seguo un corso su Molière, devo
diplomarmi al liceo linguistico della mia città”.
Dopo un garbato saluto i due si allontanarono.
Lui pensava alla bellezza dell’espressione esclamativa della ragazza.
Lei si diceva fra sè ‘che bell’uomo’. Gli ricordava Ettore in un’effige di
una litografia, dove l’eroico figlio di Priamo, toltosi l’elmo davanti ad
Andromaca, guardava con sorriso bonario e paterno il piccolo Astianatte.
Nella metà di febbraio dell’anno dopo, lungo il boulevard des Madeleine,
verso le cinque del pomeriggio, Mario s’imbatté nella giovane connazionale.
Avvolta in un cappotto di cachemire beige, legato in vita da una larga
cintura della medesima stoffa, capelli raccolti in uno chignon spettinato,
tacchi alti, l’adolescente ricomparve trasformata, una donna bella e
intrigante.
La riconobbe dal portamento sempre altero e dai due grandi occhi neri che
gli aveva spalancato all’Expò e che con la stessa intensità ora incontravano
il suo sguardo.
Gradevolmente sorpreso, con tono cauto e scherzoso, ma studiatamente
garbato, disse “Buongiorno, stai seguendo ancora il corso su Molière?”
La pronta risposta della ragazza fu “E voi siete riuscito a finire il vostro
articolo?”.
Lui rimase stupito del fatto di essere stato riconosciuto è ricordato nel
suo ruolo di giornalista e riprese “Beh continuo a relazionare il mio
giornale sull’evolversi degli avvenimenti politici”.
Dopo qualche esitazione la giovane si era fermata e sembrò non voler
interrompere la conversazione “In realtà mi sono diplomata in lingue
straniere a Parma nel giugno scorso, adesso sono ospite collaboratrice in
prova di un amico francese che ho conosciuto l’estate scorsa durante le
vacanze ad Amalfi”.
“Allora, aggiunse Mario, devo darvi del voi, come si compete a una donna in
carriera”.
“Preferisco il tu, riprese lei, … si declinano più facilmente i verbi …”.
Mentre parlavano si trovavano vicini a un Bistrot.
“Sono inopportuno se propongo di prendere qualcosa assieme per riscaldarci
un po’ “, azzardò Mario.
La ragazza guardò l’orologio e rispose “se sarà una cosa breve, mi sta
bene”.
Mentre entravano nel locale “mi chiamo Mario Vicari, disse lui”, consegnando
alla giovane donna un suo biglietto da visita.
“Giulietta Marini”, rispose lei, porgendo la mano per ritirare il biglietto.
Occuparono un tavolino di marmo, unici avventori nel piccolo Bistrot.
L’anziano barman, alto, stempiato, in camicia bianca, papillon e grembiule
neri, un po’ sdruciti ma lindi e curati, che si capiva essere l’uni gestore
e proprietario del piccolo laicale, raccolse l’ordine.
Lei chiese un the e lui un cointreau.
Servì per primo il the e alla richiesta della donna di un goccio di latte,
affermò “we, all’anglais”.
Ricomparve subito dopo con bottiglia e bicchiere da liquore ed esclamò icone
voce soddisfatta, come solo i francesi sanno fare quando mostrano qualcosa
di proprio “ Et a vous Monsieur Cointreau Noir d’Angers!”.
I due avventori rimasero seduti qualche minuto e quando terminarono di
sorbire le loro bevande, alzatisi, salutarono il cameriere-padrone che,
intascato il dovuto da Mario, esclamò “Quel beaux petits amis!”
Era fine novembre quando, verso le due pomeridiane, un vecchio malandato
torpedone ricoperto, si fermò in un desolato vicolo della banlieu
parigina, dove la Gendarmerie Nationale, con un avviso di massima
urgenza, aveva convocato il giornalista italiano.
Mario trovò al raduno un gruppo di stranieri di varie etnie,
prevalentemente tedeschi o dell’Est-Europa.
Fra la gente scorse Giulietta avvolta in un trench Burbery invernale,
che reggeva, come lui, una valigetta da viaggio e si guardava attorno
smarrita.
Mentre un addetto all’ordine pubblico faceva una chiama e i nominati
esibivano i loro documenti per poi essere avviati sul torpedone,
Giulietta facendosi largo, si era avvicinata senza parlare a Mario,
afferrando la sua mano ed aggrappandovisi come naufrago a uno scoglio.
Faceva freddo e una sgradevole foschia piovigginosa rendeva quel luogo
angusto ancora più sconsolato.
Quando fu chiamato il cognome ‘Marini’, lei tirò con sé l’improvvisato
compagno e raggiunto il policier che spulciava l’elenco si precipitò a
dire “Monsieur il est mon ami”.
Il policier ispezionati i passaporti dei due, rimuginando fra sé ‘italiens”,
chiese cosa facevano a Parigi.
Ottenute le rispettive risposte spiegò che li rimpatriavano e aggiunse
“monté sur le bus est dirigë vers Milan”.
Il maleodorante mezzo aveva sedili doppi in due file divise da un
vecchio sfilacciato tappetino bordeaux.
I due occuparono i primi sedili liberi sulla destra per chi guarda il
conducente, verso il centro del bus.
La ragazza prese posto vicino al finestrino, dove rimase assorta a
guardare fuori, tenendo sempre la mano sinistra stretta alla destra
dell’improvvisato amico.
“Perché siamo qui, perché ci rimpatriano?” chiese con voce tenue e
accorata. “Ho ricevuto l’avviso ieri sera di presentarmi qui con
necessaire de voyage. Il mio amico Adrien non sa nulla, doveva tornare
solo stasera da Londra”.
“Lo stesso è capitato a me”, rispose Mario con tono volutamente pacato”.
“Ma perché, perché siamo italiani?” richiese lei.
“Dopo il patto Ciano-Von Ribbentrop”l riprese Mario, “Mussolini ha preso
ad avanzare pretese alla Francia su Corsica, Gibuti e altro e i rapporti
fra le due nazioni sono tesi.
Un idea sul proprio rimpatrio Mario se l’era già fatta .
Fra il giorno nove e il dieci di quel mese di novembre del 1938, in
tutta la Germania indemoniati seguaci del partito nazista, dei Reparti
d’Assalto (SA) e della fanatica gioventù hitleriana, avevano devastato
centinaia di case di ebrei ,
uccidendone decine, bruciando e distruggendo un centinaio di sinagoghe e
oltre settemila botteghe.
Queste distruzioni, questi assassinii e questi atti di efferata violenza
erano dilagati anche in Austria e nella Cecoslovacchia dei Sudeti.
Il tragico e furioso accadimento, iniziale sbocco del sanguinario clima
conseguente alle disumane leggi razziali antisemite, sarebbe passato
alla Storia come la Kristallnacht (notte dei cristalli) per le
disseminate miriadi di scaglie di cristalleria delle vetrine infrante
dei negozi.
La furibonda e apocalittica violenza notturna era esplosa dopo la
divulgazione dell’episodio che vide coinvolto un ebreo diciassettenne
polacco, Ernst Herschel, che per vendicare le persecuzioni subite dai
suoi genitori ingiustamente espulsi dalla Germania, si era introdotto
nella Ambasciata tedesca a Parigi e aveva ferito mortalmente con colpi
di pistola l’alto dignitario del terzo Reich Ernst vom Roth.
Nell’articolo trasmesso telefonicamente a Milano, Mario aveva
decisamente ritenuto crudele e inspiegabile il tragico evento con
riferimento particolare alla rappresaglia pluri-omicida e devastatrice
contro persone inermi e del tutto incolpevoli, sottolineando
l’indifferenza e la presa di posizione ponzio-pilatesca di Italia,
Francia e Inghilterra.
L’articolo, mai pubblicato dal giornale milanese, con tutta evidenza era
stato intercettato dalla Sécurité che ne aveva certamente censurato il
contenuto.
Non si spiegava, invece, il provvedimento di espulsione della giovane e
rivolto a lei chiese “Hai detto che collabori col tuo amico francese,
lui che fa?”
“La sua famiglia”,mi rispose lei concitata, è la maggiore azionista di
imprese di fabbricazione di motori navali e di mezzi di alto mare e
areonautica ad alta tecnologia”.
“Quindi”, riprese lui, “hanno rapporti con settori ministeriali. Questo
comporta che tu potresti venire a conoscenza di questioni delicate,
segreti di Stato.”
A queste parole Giulietta tacque e Mario con tono scherzoso, aggiunse
“Per la Sécurité potresti essere una novella Matha Hari …”.
La battuta non piacque alla giovane donna che staccando la mano da
quella del compagno di sfortuna si immerse a guardare fuori dal
finestrino, dove la pioggia si era fatta insistente.
La giovane venne richiamata all’attenzione di quanto avveniva attorno. Sul
torpedone ormai gremito, ma ancora fermo, erano saliti a bordo due
personaggi in borghese i quali ricontrollavano agli imbarcati i documenti e
li interrogavano sulle ragioni della oro presenza a Parigi. “Sono della
Sécurité” aveva sussurrato Mario a Giulietta, “noi non abbiamo nulla da
temere, stai tranquilla e rispondi alle loro domande dicendo la pura verità,
senza aggiungere altro”
Quando fu il suo turno la ragazza, mal celando la sua stizzita
preoccupazione, rispose: “Je suis étudiant et J’aurais dü m’inscrire à l’Université”
e mostrando il biglietto da visita di Adrien aggiunse “Je suis l’invité de
cet ami” (Sono studentessa e avrei dovuto iscrivermi allUniversità. Sono
ospite di questo mio amico). L’agente prese appunto dell’indirizzo e del
nome e cognome dell’ospite e passò a interrogare Mario, il quale mostrando
la sua tessera disse “Je suis journaliste”.
Ad alcuni venne detto “suívez nous plurale plus de infirmations” (seguiteci
per un supplemento di informazioni) e terminata la meticolosa ansiogena
operazione di controllo, gli agenti, con i passeggeri inquisiti e una scorta
di gendarmi finalmente abbandonarono il bus, lasciando a bordo due policier
come guardiani dei passeggeri.
Il torpedone si mosse.
Giulietta appariva sempre più inquieta.
Mario le riprese la mano, tentando di distoglierla dal suo stato di disagio
e con tono pacato da fratello maggiore le disse: “Parlami di te, dove sei
nata, dove vivi in Italia, quanti anni hai…” “Sono di Parma”, rispose “dove
vivo con i miei genitori, ho diciotto anni. Speravo di studiare qui, Adrien
mi avrebbe aiutato, ma ora salta tutto in aria … e tu?” “Io sono di Milano,
i miei vivono a Pavia, lavoro presso il Corriere. Ho esattamente dieci anni
più di te. Vivo in un piccolo appartamento vicino al giornale. Nonostante mi
sia laureato in Economia Politica e Matematica Finanziaria alla Bocconi
cinque anni fa, la mia inclinazione era il giornalismo politico. Nel 1934,
appena assolto il servizio di leva come allievo ufficiale, mi sono
presentato al Corriere”.
Notando che Giulietta mostrava interesse per quanto le andava dicendo, Mario
riprese “ il selezionatore del personale, dopo avermi chiesto età e titolo
di studio, mi chiese se ero disposto a non guardare orari. Alla mia risposta
positiva mi invitò a iscrivermi al Sindacato e tornare per essere messo in
prova. Dopo tre mesi di cronaca cittadina venni assunto. Poi sono stato
fortunato, mi ha favorito la conoscenza delle lingue. Mia madre è nata a
Birmingham nel West Midlans e quando conobbe mio padre, che era in
Inghilterra per l’architettazione di un complesso edilizio, insegnava
francese agli studenti nella scuola di quella città. Dopo il matrimonio
venne a vivere a Pavia e io rimasi il suo unico allievo e fin da piccolo mi
insegnava francese parlandomi in inglese.
Dopo due anni di esperienza a Milano, sono stato destinato a Parigi.
La conversazione fra i due passeggeri si infittì. Mario rispose alla
domanda della giovane di non aver legami sentimentali e Giulietta
confessò di essere attratta da Adrien definito dalla giovane “anche lui
cortese e affascinante ventottenne”.
Non erano passate due ore del viaggio verso sud per strade secondarie,
quando si udì un botto e si avvertì uno scossone. Il bus si arrestò
bruscamente.
Il conducente, un anziano omaccione con un grosso naso e l’aspetto
rubizzo da bottaio della rivoluzione francese, dopo essere sceso dal bus
accompagnato da uno dei due guardiani in divisa e aver ispezionato
avanti e dietro il suo arcaico mezzo, risalito a bordo si rivolse ai
suoi ospiti coatti con tono fra lo scherzoso e lo strafottente proclamò:
“Mesdames et Messieurs, Je suis desolè, mon vielle voiture - e
all’espressione “voiture“ fece un faceto inchino - a des tres mauvais
pneus et s’est encrassèe dans un grosse pietre. Dans ces conditions il
est pas possibile de continuèe la voyage avant de changer les pneus”
(Signore e signori, io sono desolato, la mia vecchia vettura ha
pneumatici molto malandati e si è schiantata contro un masso. In queste
condizioni non è possibile continuare il viaggio prima di cambiarli).
Poi rivolto ai guardiani aggiunse “maintenant cest à vous deux de
résoudre le probléme” (adesso sta a voi due risolvere il problema).
I due poliziotti confabularono fra loro e il più graduato dei due disse
con tono perentorio a voce alta “attendes moi et en attendant vous
pouvez descendre accompagné de mon subordonné”(Mi aspetterete qui e nel
frattempo potrete scendere accompagnati dal mio subordinato).
Dopo più di un’ora il graduato fece ritorno.
Fece ridiscendere i passeggeri e li condusse in fila per due in piena
campagna.
La pioggia era cessata e dopo un paio di chilometri di marcia nella
umida boscaglia profumata di menta e di timo, mentre si faceva buio, il
gruppo giunse alla periferia di un borgo di cui si intravedevano nel
verde graziose costruzioni rurali.
I passeggeri vennero fermati davanti a una specie di cottage
contrassegnato dalla insegna “Petit Auberge”.
Il gruppo venne fatto entrare nella locanda.
Il poliziotto anziano disse con tono sempre perentorio “nous devont passar
la nuit ici car le bus ne serà pas pret avant la matin” (si deve passare la
notte qui perché il bus non sarà pronto prima di domattina).
Furono fatti salire tutti al primo piano del piccolo edificio e venne loro
spiegato che dato il limitato numero di camere, in ognuno dovevano
sistemarsi almeno due persone.
Giulietta rivolta con tono accattivante al giovane inserviente della locanda
addetto alla designazione delle stanze, disse con garbo “Monsieur J’amerais
rester aver mon amì”.
L’addetto, senza risparmiare un’occhiata di allusiva complicità, assegnò ai
due la stanza numero nove dicendo “c’est la plus larve” (è la più ampia).
“Merci” disse Mario, mettendo in mano al giovane alcune monetine.
L’ambiente a loro destinato era arredato in modo rustico essenziale.
Un letto alla francese, con a fianco un comodino e una poltroncina, alla
parete dietro al letto, la riproduzione in foglio atlantico di un quadro di
Delacroix raffigurante Marianna in veste di libertà che guida il popolo in
armi, con bandiere tricolori e gagliardetti. Annessa alla stanza una piccolo
bagno con sanitari, doccia, un accappatoio e un asciugamano di spugna
azzurro.
Mario disse “Ti lascio l’accappatoio, a me va bene l’asciugamano …”
Non aveva finito queste parole quando bussarono l’uscio. Era il giovane
inserviente con un accappatoio e un asciugamano rosa.
“Oh merci” disse Mario”.
Lo sguardo di Giulietta non era sereno.
La ragazza era in preda ad un irrefrenabile stato di agitazione.
Dopo la cena il gruppo risalì e furono occupate le stanze secondo la
designazione.
Il comportamento di Giulietta non dimostrava alcun imbarazzo, ma dal
viso appariva chiara una innaturale preoccupazione.
Chiesto il permesso occupò per prima il piccolo bagno.
La doccia anziché avere per lei un effetto tonificante, l procurò uno
strano stato di claustrofobia e panico.
Quando ne uscì, la ragazza circonfusa da un gradevole profumo di
colonia, porta cinque disinvoltura un pigiama con vestaglietta
trasparente sopra il ginocchio, su cui un intreccio in arabesco scuro
copriva i seni e l’addome sino alle bianche e bellissime cosce.
Mario dovette istintivamente voltare lo sguardo per non svelare il suo
turbamento davanti a tanta candida involontaria provocazione e divagò il
discorso sul buon profumo, spiegando che l’acqua di Colonia era stata
inventata da italiani della val Vigezzo, trasferitisi per ragioni di
lavoro nella città tedesca.
Poi s’infilò subito nel bagnetto, dicendo fra sé ‘ma è solo poco più che
una bambina’.
Quando uscì dal bagno, mentre lui non aveva osato proferire parola
sulla seducente mise notturna di lei, Giulietta si complimentò per
l’elegante pigiama amaranto dell’uomo che ne esaltava le forme atletiche
e statuarie.
La disinvoltura di Giulietta non riusciva a nascondere il suo stato
d’animo agitato e Mario cercava, invece, di nascondere il suo imbarazzo
di fronte a tanta involontaria seduzione.
Lei sedette sulla sponda del letto e lui sulla poltroncina di fronte.
Per la conversazione Mario prese spunto dalla riproduzione del quadro di
Delacroix, pittore considerato il principe del Romanticismo, in
contrapposizione con il perfezionismo Neoclassico di Ingres.
La ragazza seguiva con interesse i riferimenti colti del suo
interlocutore, poi il discorso scivolò sulla attuale moda francese e in
particolare su Coco Chanel il cui stile trasgressivo per l’epoca era il
preferito di Giulietta.
A un tratto la ragazza pose la testa sul cuscino e stese le gambe sul
letto.
Quando parve assopita, Mario sfilò le coperte e l’avvolse rimboccandole
con la tenerezza di un fratello maggiore.
Tornò poi sulla poltroncina.
Ma Giulietta ebbe un lieve sussulto e con un filo di voce allarmata
disse “ non fraintendermi, ti prego, non fraintendermi, sono sicura che
mi capirai … non so cosa diavolio mi prende, ma ho bisogno del tuo
contatto umano … ti prego stenditi accanto a me, aiutami a superare il
panico. Continua a impadronirsi di me una strana paura irrazionale. Ho
bisogno di sentire qualcuno vicino, come quando nel bus ti stringevo la
mano … sono certa che capirai la purezza di questa mia supplica … è
tutto accaduto così in fretta … come se la sventura avesse voluto
distruggere un mondo che mi si era presentato davanti felice … Adrien
non mi ha messo sull’avviso … anche lui, certo, non prevedeva nulla … mi
sento una deportata per colpe kafkiane … “. Elider queste parole
impaurite, aprì la coperta dalla parte della sua schiena.
Quando lei tacque, Mario, con voce pacata, disse “Tranquilla, torni a
casa, da tuo padre e tua madre, avrai tempo per riflettere …”.
Poi si accucciò accanto a lei e la ragazza insistette col suo corpo a
cercare il contatto.
Si sfioravano e Mario sentiva le giovani forme della ragazza torturare
il suo corpo assetato come Tantalo.
Giulietta sembrò assopirsi abbastanza presto. Per Mario le braccia di Morfeo
tardarono un pò a dargli un dolce torpore.
Una scampanellata svegliò entrambi alle sei del mattino e mentre si
rivestivano una voce diffusa da un altoparlante per essere percepita dagli
occupanti delle stanze proferì queste parole “Mesdames et Messieurs Bonjour,
nous vous attendons dans une demi-heure pur le petit-déjeuner en salle. Le
bus est prêt pour le départ. (Signore e Signori buongiorno. Vi attendiamo
entro mezz’ora per la colazione nella saletta. Il bus è pronto per la
partenza.
Mario, mentre guardava la ragazza, pensando fra sé ‘come si fa a non credere
in Dio, davanti a tanta perfezione e grazia’, chiese “come stai?”.
Giulietta con uno sguardo più sollevato “Stamane meglio” rispose “Ieri sera
ero proprio a terra. Mi era svanito di colpo un sogno. Adrien, il lavoro,
l’Università a Parigi, come se la sventura si fosse impadronita del mio
destino. Devo molto a te. Ti devo ringraziare. Sei stato comprensivo …
rispettoso … signore. Ti confesso che a un certo momento, quando all’inizio
fingevo di dormire, avevo desiderato che tu mi prendessi. Mi era sembrata
l’unica soluzione per vincere il mio stato d’animo terrorizzato. Ma oggi
sono contenta che sia andata così”. Mentre parlava, anche lei si deliziava
guardando gli occhi color acquamarina di Mario, i suoi capelli morbidi e
biondi pettinati ad onda alla Mascagni e s chiedeva se potesse esistere un
uomo più bello.
Scesero in sala ben coperti dai loro eleganti soprabiti perché il rigore del
tempo mattiniero era particolarmente pungente.
Fu loro offerto in una ciotola di legno latte caldo per essere stato munto
da poco e un croissant appena sfornato.
Si sentiva il calpestio della gente che saliva sul torpedone e il rumore del
motore in carica.
I due guadagnarono il torpedone e si sistemarono negli stessi posti.
Giulietta pose la testa sulle spalle di Mario e prese sonno.
Si destò dopo un paio di ore mentre il bus era fermo alla dogana
Svizzera.
Entrare in un Paese neutrale fu per lei ragione di rasserenamento.
Quando giunsero a Berna, i due poliziotti scesero rammentando
minacciosamente ai passeggeri che non dovevano fare rientro in Francia
pena l’arresto immediato per immigrazione clandestina.
Il bus si svuotò e rimasero solo una decina di persone che preferivano
Milano come capolinea del loro viaggio.
La bellezza del paesaggio elvetico fu l’oggetto della conversazione fra
i due italiani e Giulietta disse che il nonno paterno dopo l’avvento del
Fascismo era tornato nella nativa Engadina a Champfer con la nonna, dove
lei accompagnata da suo padre e sua madre andava a passare le due
settimane fra la fine dell’anno e i primi dieci giorni del gennaio. E lì
lei andava a sciare nel comprensorio del Corviglia.
Respirava aria di casa e cominciava a sentirsi a suo agio.
Il faticoso viaggiò si esaurì alla stazione dei Pulmann a Milano, vicino
alla magnifica Centrale.
Quando scesero dal torpedone, si udì l’accorata voce di Adrien che la
cercava chiamandola “Juliette … Juliette”.
Il francese era giunto a Milano qualche ora prima avendo percorso con la
sua veloce Delage strade molto più rotabili. La Sécurité lo aveva
informato del luogo in cui il bus sarebbe arrivato.
Adrien aveva visto arrivare decine di bus che provenivano da Nord.
Finalmente apparve Giulietta fra il gruppo di persone che erano appena
arrivate e corse ad abbracciarla.
“Comment ça va ma chérie, Je suis ici depuis sept heures ce matin. Quel
itinéraire ce bus a pris? (Come stai mia cara. Io sono qui dalle sette di
stamattina. Che percorso ha fatto questo pullman?) chiese accorato il
Francese.
“En ce moment je suis très fatigué”(In questo momento io sono molto stanca)
rispose Giulietta. “Je veux rentrer à la maison” (Voglio andare a casa).
“Oui … oui, je t’accompagne tout de suite” (Si, si ti accompagno io
immediatamente) riprese Adrien prendendo dalla mano di Giulietta il piccolo
bagaglio.
Mario si era defilato e Giulietta prese Adrien per mano e lo diresse verso
di lui.
“C’è Monsieur” (Questo signore) disse Giulietta presentando Mario ad Adrien
“journaliste envoyé à Paris par le Corriere di Milano, lui aussi a eu l’ordre
d’expatriation. Dans ma mauvais aventure, il m’a beaucoup aidé” (giornalista
inviato a Parigi dal Corriere di Milano, anche lui ha avuto l’ordine di
espatrio, in questa avventura mi ha aiutato moltissimo.
Poi rivolta a Mario disse “Grazie, grazie di cuore”.
Adrien ringraziò il compagno di viaggio della ragazza e gli disse che lo
avrebbe volentieri rivisto a Parigi non appena la situazione si fosse
appianata.
La sua elegante biposto era parcheggiata accanto.
Giulietta strinse forte la mano di Mario dicendogli che sperava di rivederlo
presto.
Quando si allontanarono con la macchina diretti Parma, Mario, mentre andava
al Giornale, fu colto da una strana sensazione e le cose e le persone gli
parvero estranee, come se avesse staccato la spina con l’esterno.
Camminò in questo stato di alienazione come se gli mancasse un punto di
appoggio, un’ancora, gli occhi della ragazza.
Al giornale Mario venne trattato con freddezza.
Convocato in redazione dal vicedirettore, nonostante gli eventi in Europa
precipitassero tragicamente, con la scusa dell’approssimarsi del Natale gli
venne affidato il compito di cronista locale. Niente politica, ma la cura di
una pagina interna. Avrebbe dovuto occuparsi di iniziative municipali, echi
di cronaca cittadina, teatro, pinacoteche, musei e inserti pubblicitari.
Tutti temi ben lontani dalle ragioni stesse che lo avevano indotto a
scegliere il giornalismo, essendo sua intenzione di scalfire con garbata
ironia il pensiero unico. Nonostante tutto la nuova materia rivelò la sua
cultura di base e divenne apprezzato critico di arte e teatro.
Il nuovo compito venne di conseguenza prorogato e passarono alcuni mesi per
lui incolori in quel ruolo ridimensionato.
Era il 1939, l’anno che avrebbe sconvolto i destini del mondo.
Il pensiero di Mario tornava spesso all’ultimo periodo parigino, a quella
ragazza, ai casuali incontri, al viaggio nel bus, al Petit Auberge, a quella
notte trascorsa a contatto con lei.
L’inverno milanese, particolarmente rigido si smorzò nell’aprile e col
passare dei giorni il clima si temperò regalando dopo la prima metà del mese
una bellissima primavera.
Il 24 aprile, un lunedì di routine, la centralinista del giornale passò a
Mario una telefonata.
“Dottor Vicari, per lei la signorina Marini da Parma”.
“Ciao, sono Giulietta, come va?”
Mario tentò di trattenere la sua emozione “Non c’è male” rispose “E tu?”
“Bene grazie, avrei piacere di rivederti”
“Il piacere sarebbe tutto mio”.
“Ti andrebbe bene sabato, ti aspetterei qui?”
“Sabato no, devo seguire una prima teatrale, potrei Domenica”.
“Siccome ti ospiterei in campagna, puoi pernottare?”
“Vengo in auto, per cui potrei rientrare lunedì mattina”.
“Ascolta, allora, ti spetto Domenica mattina alle otto a Parma, in Piazza
Garibaldi, il punto di riferimento è il monumento”.
“Va bene arrivederci”
“Ciao”.
Quella concisa telefonata fece tornare a Mario il buonumore che lo aveva
abbandonato da tanto.
Alle otto del mattino di Domenica 30 aprile, Mario a bordo della sua Alfetta
Zagato raggiunse la piazza Garibaldi di Parma. Posteggiò l’auto nei pressi
del monumento all’eroe dei due mondi e mentre stava rimirando la struttura
architettonica della piazza dominata sull’intero lato nord dal Palazzo del
Governatore, l’edificio medievale cui aveva fatto metter mano la stessa
Maria Luigia, che si presentava intonacato in giallo antico, con la
imponente torre centrale la campana, l’orologio, la statua della Vergine e
le complesse meridiane ai lati della nicchia, puntuale comparve Giulietta.
I due si abbracciarono e andarono a fare colazione nel vicino bar centrale,
poi montati sull’auto, Mario, seguendo le istruzioni della giovane donna,
prese la via periferica diretto a nord verso la campagna piacentina.
Ben presto l’auto si trovò ad abbandonare strade ed a percorrere sentieri
appena rotabili, che si divincolavano fra faggi, castagni, aceri, querce
appena rinverditi, incorniciati dai profili collinosi assediati dal
risveglio della viti che iniziavano il loro germogliamento.
La natura rinascente si esprimeva in tutto il suo prorompente profumo di
fioriture primaverili, viole, menta, primule frammisto a muffa, terra
bagnata, erba fresca, funghi, e legname acerbo.
Questa atmosfera inebriante della natura faceva da corollario alla
ammaliante bellezza della giovane donna che aveva accanto.
Giulietta era la regina della bellezza di ciò che esultava intorno.
Vestita di una leggera camicetta di seta color turchese ed una gonna chiara
al ginocchio e calzata con scarpette di tela bianca senza calze, era
raggiante in viso e i suoi occhi neri sembravano gelosi custodi dell’energia
solare. I capelli erano avvolti ordinatamente con un fermaglio leggero e il
vento penetrava fra loro facendogli un dono di ulteriore vitalità.
L’uomo, a sua volta, era sobriamente elegante, anch’egli in camicia chiara
di fine cotone a colletto morbido, pantaloni larghi di flanella e scarpe
artigianali di pelle beige.
Si fermarono davanti a un grande recinto chiuso da un cancelletto di
dimensioni sufficienti per il passaggio di una vettura o un carro agreste.
Giulietta scese dall’auto ed estrasse dalla borsetta le chiavi. Aperto il
varco vi entrarono con l’auto che venne posteggiata sotto un grande acero
rosso.
Da allora proseguirono a piedi lungo un filare ordinato di tigli.
Fu allora che Giulietta interruppe il silenzio è come continuando un
discorso mai intrapreso, con voce quasi stizzita disse “Si, Adrien è bello,
gentile, molto intelligente, pieno di interessi, ricchissimo e io stavo
innamorandomi di lui. Colpa tua, ti sei messo in mezzo tra noi.” Poi tacque.
Mario non abituato a quel tono di voce disse “Io, cosa ho fatto, che c’entro
io …”.
“Si, tu, proprio tu da quel giorno all’Expo … che ci fa sola soletta questa
bella giovane connazionale … da allora non sono più riuscita a toglierti
dalla mia testa, hai scalzato ogni altro mio pensiero … ti scuso, so che non
è colpa tua”.
Mario tacque, ma gli sembrava di toccare il cielo con un dito.
Oltre il filare dei tigli comparve un cancello in due ante in ferro
battuto decorato da lavorazioni di fiori e volute, sorretto da due
pilastri in pietra continuati da recinzione in muratura chiara.
All’interno uno spiazzo a giardino ben coltivato e infondo immersa in un
rigoglioso parco si ergeva un edificio primo novecento strutturato su
due piani. Una facciata con intonaco ocra con a piano terra due
finestroni uno per lato, a vetri suddivisi da bianche liste
quadrangolari, mentre al centro un rettangolo in travertino chiaro con
venature di grigio, incorniciava il portale in rovere con serramenti in
metallo.
Il secondo piano era percorso da una balconata con ringhiera a onda in
ferro battuto sorretta da un timpano, con quattro finestre eguali a
quelle del piano inferiore ma di dimensioni minori.
La cornice alta della facciata era lineare, un semplice listello di
marmo venato di grigio.
Alla sinistra del portale si leggeva una vezzosa scritta in tipi Bodoni
“Villa Giulietta”.
“Qui ho passato molte vacanze coi miei nonni” disse Giulietta “Si
chiamava ‘Villa Elena’, il nome di mia nonna. Poi, quando loro si
ritirarono in Engadina, mi portarono dal notaio e me ne fecero dono,
imponendo il nuovo nome che mi deriva dalla nonna materna Giulia”.
Mentre Giulietta diceva questo e Mario guardava ammirato la civettuola
costruzione liberty, apparvero sulla porta Dino e Olga, i due custodi,
verso i quali corse Giulietta e si abbracciarono.
“Era ora che venissi, era ora” dissero quasi all’unisono marito e moglie
e Olga aggiunse, “è da luglio, si da luglio dell’anno scorso che non ti
vedevamo. La signora tua madre ci ha avvertiti e abbiamo preparato le
stanze”.
Poi Dino rivolto a Mario disse con riverenza “Benvenuto Monsieur”.
“Olga” riprese Giulietta “Noi adesso ci rinfreschiamo poi andiamo a fare
un giro in calesse, torneremo penso per cena, prepara qualcosa di
frugale per stasera , perché pranzeremo fuori”
“Preparo subito Carrarmato” aggiunse Dino.
Giulietta rivolta a Mario disse “Voglio portarti a Casteldarda il borgo
dove è nata mia nonna ti va il programma agreste?” mentre il sole
splendeva e rendeva più magica quella giornata.
“Nulla di più gradito” rispose Mario ancora frastornato da ciò che gli
accadeva.
Gli ambienti interni della Villa erano spaziosi, lindi e
curati. Gli arredi erano coerenti con l’epoca della costruzione. Nel salone
a piano terra cui si accedeva direttamente dal portale, risaltavano il
grande lampadario cilindrico soffiato in vetro veneziano, il tavolo rotondo
in mogano tassello, il camino con cornice art noveau in marmo bianco, sedie
e poltroncine liberty con braccioli in legno e alle pareti affreschi con
scene di campagna.
Dino accompagnò Mario al primo piano e gli aprì la sua stanza. Un vano
ampio, pavimentato con larghe piastrelle di ceramica chiara puntinata, letto
in noce a una piazza e mezzo, in spalliera decorata e pediera bassa, comò e
comodino in stile liberty una poltrona in giunco con un cuscino beige. Sul
comodino un vaso di cristallo a parallelepipedo con gerani freschi color
fucsia. Alle pareti affreschi ovali floreali. Da una porta bianca si
accedeva al bagno interno in marmo azzurro.
Mario fatta la doccia, indossati pantaloni di cotone color ocra bruno,
maglia La
Coste e scarponcini chiari leggeri da campagna, scese in giardino.
Giulietta non tardò a raggiungerlo, vestita con camicetta e gonna al
ginocchio color coloniale e stivaletti in nuance.
Raggiunsero la stalla dietro la Villa all’interno del parco, dove tutto
agghindato li attendeva un imponente cavallo, attaccato a un calesse
decappottato, tenuto per la briglia da Dino.
“Questo è il mio primo amore” disse Giulietta carezzando il muso del
bell’animale, “Ora ha nove anni, ma è sempre un vigoroso puledrone, ci
guiderà lui nella campagna. È stato il nonno a chiamarlo Carrarmato per la
sua corporatura full.
Montati sul calesse, Giulietta diede le briglie a Mario, dicendogli “devi
solo tenerle, tenil percorso lo conosce lui. A proposito mia madre ha detto
a Olga che venivo con Adrien, come le ho fatto credere, i miei lo hanno
conosciuto e a loro è piaciuto molto”.
Attraversarono la campagna verde e collinosa, ed era Carrarmato a fare
strada. Il “puledrone” i fermò una prima volta e irrigò abbondantemente
l’erba, poi durante il percorso a piccolo trotto, la concimò. Fece sosta una
seconda volta presso un rivo e si abbeverò abbondantemente ad una
fontanella. Dopo alcuni chilometri di piena campagna interrotta dal piccolo
sentiero giusto per il calesse, entrò in un cortile alla periferia del
borgo, dove li accolse Lisandro, un nerboruto contadino che fece festa a
cavallo e padroncina.
“Tornerò a riprenderlo nel pomeriggio” disse Giulietta “A disposizione”
rispose Lisandro “Carrarmato è sempre fortunato, oggi ho granella fresca”.
Si salutarono e Giulietta e Mario si avviarono verso Casteldarda.
Il piccolo borgo, nell’agro piacentino, appollaiato sulle
prime alture dell’ubertoso scenario agreste, dominava la Val d’Arda. Il
contenuto agglomerato urbano gelosamente custodito di generazione in
generazione, aveva conservato le antiche strutture, la storia e i suoi
costumi. Giulietta e Mario passeggiavano nelle amene viuzze del paesino e la
ragazza manifestava il suo orgoglio, mostrando il luogo che sentiva propria
radice, essendovi nata la nonna paterna. Mentre erano seduti davanti ad una
superba torre viscontea, Mario come proseguendo il discorso fatto da
Giulietta quando percorrevano il filare di tigli che porta alla Villa ,
disse “Dopo quello che mi hai detto mi è sembrato di vivere il momento più
bello della mia vita. Dopo che tu e Adrien mi avete salutato alla stazione
dei Pullman, ho sentito la necessità del tuo sguardo, dei tuoi occhi. Una
necessità vitale e la mancanza della tua presenza fisica mi ha fatto stare
male, ho avuto la sensazione di venir meno. Poi col tempo ho cercato di
distrarmi, ma il pensiero tornava a te. Il mio non era solo amore era di più
era il bisogno di averti vicina. La tua telefonata, il tuo invito a
rivederci mi è sembrato ira oleoso. Ma ora rifletto e la ragione mi rende
vigliacco. Come posso pensare di sostituirmi ad Adrien. A un mondo
straordinario che una ragazza bellissima e intelligente come te merita.
Parigi, la grande ricchezza, una vita nell’ambito dell’élite mondiale, un
uomo bello, intelligente di grande avvenire, l’entrata in una grande
famiglia. Rinunciare a questo per un cane sciolto, di discreta origine
borghese, che si sta disamorando del suo ‘mestiere’ di giornalista, che deve
trovare una strada, tutto questo non è immaginabile, per una tuo pur sincero
sentimenti che assomiglia a un momentaneo capriccio.”
“Hai finito!”, esordì Giulietta “Quando mi sono aggrappata a te prima che ci
imbarcassimo sul torpedone, quando ti ho chiesto il contatto fisico la sera
alla locanda, quando io stessa mi sono sentita triste e perduta mentre
Adrien mi accompagnava a Parma, furto questo lo chiami capriccio? Lo stare
così bene insieme oggi non ha alcun senso? Quando ti ho chiamato al
telefono, credi che non tremassi dall’altra parte del filo, temendo la tua
indifferenza? Una tua scusa per non accettare il mio invito?”
Tacquero per qualche minuto rimanendo a occhi bassi.
Quel silenzio corrispondeva con il pensiero di entrambi di essere
reciprocamente necessari l’uno all’altra.
“Per mezzogiorno” interruppe Giulietta, “ho fatto prenotare da Lisandro
la colazione in un’osteria che frequentavo col nonno. È fra il Palazzo
del Podestà e il Palazzo Ducale che ora visiteremo, entrambe costruzioni
del duecento. Anche l’origine dell’osteria è assai antica, sempre
condotta di generazione in generazione dalla stessa famiglia i Molinari.
Su narra che gli armieri dei duchi vi si abbandonassero smodatamente a
mangiare, bere, giocare a carte e a dadi. Oggi il proprietario è Carlone,
padrone di mezzo paese. Il menù lo fa lui. Spero che sia di tuo
gradimento”.
Dopo la visita ai due superbì edifici intatti che furono sede del
Governo e della Giustizia, i due turisti entrarono nella locanda, una
grande struttura a volte con tavoli di granito e sgabelli di legno
massiccio.
Carlo, un gigante di due metri , con due spalle da gladiatore e un volto
intelligente e bonario, accolse con gran festa Giulietta, abbracciandola
e informandosi di tutti i membri della famiglia Marini. Poi fece
accomodare i due avventori in un angolo appartato sotto una volta a
raggiera con tavolo rotondo e sedie di faggio, apparecchiato con dovizia
di stoviglie, per due persone.
Venne servito un tagliere con salame, coppa, pancetta, culatello,
accompagnati da riccioli di burro, funghi sott’olio, pane battuto e
Malvasia bianca. Seguirono i tortelli al burro e salvia e anatra arrosto
con libagione di Gutturnio.
Carlo portando della frutta fresca, chiese ai suoi ospiti se erano
rimasti soddisfatti e all’unisono si di Giulietta e Mario esclamò “A
questi due bei giovani offre Carlone”.
Dopo una lunga passeggiata nell’aria collinare della periferia fra
sentieri profumati da roverelle, cerri, scottano e vigneti, i due
tornarono da Lisandro dove li attendeva Carrarmato.
Quella magnifica giornata che trascorrevano Giulietta e Mario si
poneva come felice parentesi in un periodo storico che avrebbe portato
l’intero mondo alla peggiore catastrofe della umanità. Il periodo
fascista in Italia, nel quale Mussolini aveva temuto e contrastato
l’affermarsi di Hitler che era apparso un suo emulo, era finito e si
erano rovesciati i relativi rapporti. Ora il maestro era diventato
succubo del suo allievo. Le leggi, le ordinanze, le circolari che
istituivano in Italia le leggi razziali antisemite promulgate nel 1938,
segnarono un primo gravissimo attestato di sottomissione del Regime
dittatoriale fascista all’imperante nazismo che si era affermato con
grande rapidità in Germania nel breve volgere del decennio. Ormai il
destino delle due Nazioni si andava amalgamando e sarebbe stato ben
presto, di li a pochi giorni, cementato con il patto di acciaio che
legava indissolubilmente le sorti delle due Potenze in caso di guerra.
Di contro un modo avverso, provocatorio e insensibile. Abituato ad aver
tenuto sotto tallone più dei due terzi della gente che abitava le terre
emerse e che ora andava convergendo verso una altrettanto assetata
dittatura pessima interprete dei diritti dei popoli calpestati.
Carrarmato, ben rifocillato da Lisandro, riprese il suo percorso di
ritorno alla Villa, facendo una sola sosta davanti ad una cappella
votiva della Vergine Maria prediletta della nonna Elena e Giulietta
scesa dal calesse recitò un Pater un Ave e un Gloria, seguita in devoto
silenzio dal compagno.
Assorto nei pensieri di quel tragico presagio, tornò nella mente a Mario
il primo incontro del suo sguardo con quello di Giulietta.
Negli occhi di quella ragazza e nella sua esclamazione si condensava la
ribellione dell’Umanità contro se stessa. “Quanta crudezza!”. E quanta
comprensione istintiva che simboli come quelli che le si erano parati
davanti contenessero il peggiore destino cui il mondo dei vivi andava
incontro per trasformarsi in un mondo di morti, di devastazioni che
avrebbero scaturito altre devastazioni, lutti e sofferenze.
Quanta insania suicida può scuotere il genere umano in modo
irrefrenabile per estirpare la inebriante bellezza della Natura e
rendere brulla ogni zolla di terra!.
Quel calesse che percorreva la generosa terra piacentina recando con sé
i più splendidi sentimenti umani era un magico emblema di pace,
l’estremo apice della sapienza.
Tornati alla Villa, Giulietta e Mario passeggiavano conversando nel
rigoglioso parco nel quale erano immerse le costruzioni fra cui la
graziosa dependance dove abitavano Olga e Dino.
Tutto attorno profumava fra querce, faggi, aceri campestri, castagni in
terra fungosa, rose canine, prugnoli selvatici, cornioli scarlatti e
mille altre fioriture primaverili.
“Politicamente come sei orientato?” chiese all’improvviso Giulietta.
“Oggi” rispose Mario “Non è facile essere orientati. Non è facile
schierarsi. Ad esempio io apprezzo moltissimo quella minoranza, fra cui
alcuni, pochi in verità, intellettuali, che apertamente si oppone al
Regime pagando in proprio le efferate conseguenze. Ma d’altro lato non
mi schiero né con coloro che aizzano la gente a sostituire al Regime
fascista quello ancora peggiore, cioè il comunismo nato dalla
Rivoluzione di ottobre in Russia, né tantomeno le classi privilegiate,
che considerano il popolo un animale da tener quieto e sono amiche di
Inghilterra e Francia, Nazioni imperialiste che tolgono la libertà di
autodeterminazione a popoli in interi continenti. Noi li abbiamo
spietatamente imitati con l’invasione di uno stato libero appartenente
alla Società delle Nazioni quale l’Etiopia, perseguendo un disegno
antistorico di impero che non ci appartiene più.
Il Regime dittatoriale la cui conduzione giornaliera è troppo spesso
affidata a beceri gambaloni che spavaldeggiano nelle periferie, ha tolto
la libertà di Stampa e di pensiero autonomo, va, però, diviso in due
momenti storici: il Fascismo populista che ha fatto bene in campo
previdenziale, edilizio, di bonifiche, di alfabetismo e tecnologico, e
il Nazifascismo. Momento che stiamo vivendo servilmente e che ci porterà
alla catastrofe.
Una guerra è ormai alle porte e ci coinvolgerà del tutto impreparati”
“Quindi” riprese Giulietta “Non sei fascista”
“No, ma da italiano mi sento corresponsabile, non indenne da colpe,
incapace di contribuire a ridare al nostro popolo la piena libertà.
Mussolini è troppo osannato dal popolo che vede in lui il nuovo Cesare,
senza essere in grado di contestualizzare. Il fascio littorio non ricrea
le condizioni storiche dell’antichità. Ogni popolano si sente elevato al
ruolo di tribuno dell’antica Roma. Lui non fraternizza con i suoi
migliori compagni di viaggio come Balbo e D’Annunzio, anzi li teme, li
detesta, mentre sono gli unici, forse insieme a Ciano, che potrebbero
evitargli la deriva. Ma ora, Giulietta, se non ti spiace, lasciami
godere questa meravigliosa giornata che mi hai regalato
All’ora di cena li attendeva Olga nell’accogliente taverna primo
novecentesca con muri tortora, pavimenti in cotto e volta a raggiera. La
donna aveva imbandito un tavolo per due, su piano grezzo di faggio, posate e
piatti e bicchieri rustici, un tagliere di formaggi piacentini, un
insalatiera d’acacia con funghi porcini affettati, rucola e scaglie di grana
padano, pane fatto in casa, una brocca in terracotta con Lambrusco e altra
con acqua di fonte.
“Molto bene” disse Giulietta, “Grazie, Olga”, poi rivolta a Mario “ Ti piace
l’insalata di funghi freschi?” … “Mi piace molto tutto quanto vedo su questo
tavolo” rispose Mario con tono entusiasta.
“Olga si allontanò soddisfatta salutando e dando la buonanotte”.
Consumata la prelibata cena, Mario si soffermò ad elogiare tutti i momenti e
i modi dell’ospitalità di Giulietta, dicendole che tutto gli era sembrato
una magica avventura.
“Ma proprio per un mio innato senso di responsabilità” aggiunse Mario “penso
debba rimanere un irripetibile, indimenticabile episodio della mia vita.
Questo miracolo di bellezza che ho davanti a me, questa bambina irrequieta
che mi suscita sentimenti abissali per la loro profondità che non avevo mai
conosciuti prima d’ora, mi terrorizzano, come se dovessi essere artefice di
un sacrilegio”.
“Ma se solo con te mi sento integralmente viva” lo interruppe Giulietta “
sacrilegio sarebbe privarmi di questa gioia immensa che la tua sola
presenza, la tua sola compagnia, lo starti vicino mi da, quando pare che
questo valga anche per te. Non a tutti è dato innamorarsi nella vita,
corrispondersi così e tu vorresti barattarlo con una mia presunta grandiosa
vita in seno alla famiglia di Adrien? Non bastiamo noi due per crearci
un’esistenza più che dignitosa?”.
Mario non rispose, si limitò a prendere la mano sinistra di Giulietta e a
baciarla.
Quindi si alzò, uscirono dalla taverna e presero la via delle loro stanze.
La mattina alle sei, Mario, mentre Giulietta era ancora assopita nella
propria stanza, bevuto un caffè preparato da Olga, salutati i custodi
con un “Merci beaucoup”, raggiunta l’auto si diresse verso Milano.
Mentre guidava gli sembrava che le sue labbra sfiorassero ancora il
corpo profumato e fragrante della giovane amica.
Un leggero rintocco alla porta lo aveva scosso dal primo piacevole
torpore del sonno.
Giulietta si era introdotta silenziosamente nella stanza e Mario aveva
acceso l’Abat-jour del comodino.
La ragazza era apparsa così in tutta la sua venerea vitalità
adolescente.
Era a piedi scalzi, in sottoveste di leggera seta nera che lambiva la
parte alta delle cosce lasciando nude le lunghe gambe dritte e
affusolate.
La scollatura integrale era trafilata solo da due minuti strisce del
tessuto e raccoglieva ai lati i morbi capelli neri.
Sulla seta si disegnavano i seni turgidi e acerbi.
La giovane si avvicinò e Mario presto si ritrovò fra le braccia quel
miracolo della natura.
I due corpi si cercarono, mani e labbra si posavano ovunque su di essi.
Unirsi fu naturale e dolce perché anche le due anime erano legate l’una
all’altra.
Durante la guida Mario si sincerava della fascinosa femminilità di
Giulietta.
Dopo avergli d’improvviso confessato il suo amore di giorno, ora di
notte aveva scatenato la tempesta dei sensi. Tutto premeditato con la
sua spregiudicata e candida determinazione.
Avrebbe voluto tornare indietro, ma sentiva la sua inadeguatezza.
Sentiva il sacrilegio di chi avrebbe potuto snaturare lo svolgersi di
una esistenza destinata alla grandeur della vita nel Gotha della
splendida Parigi, accanto ad un uomo bello, giovane e potente.
Il ritorno di Mario al giornale, accompagnato dallo
zoccolio delle impiegate che ad ogni suo rientro si affrettavano alle
finestre del cortile, per ammirare il bel giornalista, ebbe tutte le
componenti di quello che i nostri padri antichi riassumevano nella locuzione
latina “promoveatur ut amoveatur”(sia promosso al fine di essere rimosso).
Venne chiamato in direzione e lo stesso responsabile per la destinazione dei
ruoli ai giornalisti, dopo i consueti convenevoli gli disse : “Caro dottor
Vicari, altrettanto soddisfacente per il giornale, quanto lusinghiero per
voi personalmente, è giunta inaspettata in redazione, una graditissima
segnalazione proveniente dalla Berlin Philharmonic Orchestra. Una motivata e
sostanziosa nota, a firma dello stesso Wilchem Furtwängler, di cui vi
trasmettiamo copia, tesse dettagliatamente un grande elogio per la
‘profondità’ e la ‘radicata e penetrante’ conoscenza della musica tedesca,
dimostrata negli articoli da voi redatti nella Rubrica affidatavi dal nostro
giornale . Ci hanno richiesto di poter ripubblicare i brani sulle loro
edizioni specialistiche e ci hanno rivolto l’invito a complimentarsi con
voi, incitandovi a continuare nelle vostre recensioni critiche musicali,
definite ‘magistrali’. La direzione sarebbe lieta e favorevole ad esprimere
il nostro entusiasta consenso, se voi siete d’accordo.”
In realtà né il giornalista italiano, cui era stato diretto L’’inatteso ed
autorevole elogio, né il maestro, forse il più insigne direttore d’orchestra
tedesco di tutti i tempi, erano accomunati dal fatto che non avevano mai
manifestato simpatia per Hitler e per il Nazismo e questi personaggi, per
quanto ammirati nel loro ambito, andavano contenuti in spazi propri in cui
la politica non doveva avere cittadinanza.
Mario, masticata la foglia, non avendo altra scelta, accettò, manifestando
gratitudine, la conferma in quel ruolo, solo apparentemente asettico ed
ottenne anche alcune modifiche, nel senso di ampliamento degli spazi della
sua Rubrica, portata a due importanti pagine interne con esclusione di
inserti pubblicitari e di poter operare la scelta di coautori, invitati
esterni e di richiami ad opere di noti critici della materia musicale,
previo ovviamente il placet della redazione.
Nemmeno la predisposizione redazionale della nuova veste editoriale della
sua Rubrica, potè, però, giungere al termine, in quanto Mario, nella sua
qualità di ufficiale di complemento, di lì a poche settimane, venne
improvvisamente ed immediatamente richiamato nell’Esercito di terra di Sua
Maestà Vittorio Emanuele III, e destinato in Cirenaica, regione libica
divenuta nel gennaio di quel 1939, territorio nazionale italiano. Qui
avrebbe dovuto ultimare il riaddestramento personale e istruire lui stesso
lac Compagnia che avrebbe poi, lui stesso, istruito e comandato.
La Cirenaica e la Tripolitania, costituivano
teste di ponte ad ovest, secondo il portentoso, quanto tardivo, arduo e
spericolato progetto mussoliniano, da congiungere alle teste di ponte ad
est, costituite dai territori della Etiopia di Hailé Selassié, già libera
componente della Società delle Nazioni , appena sottomessa, della Somalia e
dell’Eritra , costituenti le altre ganasce entro le quali attanagliare
Egitto e Sudan e completare il dominio italiano dell’ Africa Orientale.
La realizzazione del temerario piano , coperto in Adriatico dalla possente
flotta della Regia Marina Militare, con sponde sicure anche in Albania e in
Egeo nelle isole del Dodecaneso, da un lato sopravvalutò la protezione
tedesca, che si vedrà presto nel suo folle progetto di dominio assoluto in
Europa, impegnata sui fronti occidentali e orientali anglo-francesi e
dall’altro non tenne conto, non tanto delle coraggiose resistenze autoctone,
ma soprattutto delle gelose ostilità di Inghilterra e Francia, nazioni
dominatrici nel mondo di quasi quaranta milioni di chilometri quadrati delle
terre emerse, che non vedevano di buon grado il tardivo riaffacciarsi nella
Storia di questa neonata nazione che si richiamava alle sue origini
imperiali romane.
Per le grandi Potenze occidentali, l’Italia doveva rimanere la bella terra
dal clima temperato, dove passare le vacanze e ammirare le anticaglie,
doveva rimanere, cioè, quell’espressione geografica definita anche dalle
potenze centrali o stesso Metternich.
I giovani di leva, sbarcati in Libia, non solo non avevano sentore delle
colossali imprese in progetto, e della tragedia incombente, ma vi
stazionavano fra, come truppe di riserva, tutte da addestrare per possibili
interventi in media acie solo in caso di estrema necessità.
Fra questi giovani, improvvisamente sottratti alle loro cotidiane pacifiche
incombenze lavorative e alle loro abitudini di vita pacifica, si trovava il
tenente Mario Vicari, posto a capo della sua Compagnia di reclutati di prima
leva, forte di circa duecento unità, cui spesso venivano collocati o
ridislocati altri ceppi nel ridimensionamento del generale assetto in zona
del Regio esercito.
Col suo temperamento bonario, ma autorevole e deciso, il tenente Mario
Vicari divenne presto l’imprescindibile punto di riferimento è il beniamino
dei ragazzi in armi, cui era stato preposto.
I primi mesi furono poco meno che una serie di pacifiche esercitazioni
militari, con qualche facilmente rintuzzabile scorreria di isolati gruppi di
insorti, nelle zone desertiche attorno a Bengasi, in attesa di ordini di
rafforzamento operativo nelle altre zone meno pacifiche.
I giorni vissuti da Giulietta e Mario,
appartenevano al secolo più tragico della Storia umana. A centinaia di
migliaia si contarono fra civili e militari, i morti, i feriti e i mutilati
considerando solo la prima delle due apocalittiche guerre mondiali dello
stesso secolo, la cosiddetta Grande Guerra, che di per sé coinvolse l’Europa
dal 1914 al 1918, lasciando al suo cruento epilogo, carico di micidiali
strascichi e vendette, il vecchio continente nel pianto per lutti e macerie
ed essa fu solo conseguenza e insieme prodromo delle sciagure che
infestarono anche l’intero suo successivo decorso.
Ma, riuniti a Versailles nel 1919, per inscenare un patto di pace, i
rappresentanti dei popoli vincitori non si accontentarono di aver sconfitto
gli imperi centrali, ma imponendo la vendicativa resa dei conti, non fecero
che gettare ovunque semi e fermenti di nuovi odi e interminabili conflitti.
Thomas Woodrow Wilson rappresentante degli States, Sir David Lloyd George
per il Regno Unito, Georges Eugène Benjamin Clememenceau, per la Francia (a
nulla contò il nostro povero Vittorio Emanuele Orlando), dettarono le
condizioni del trattato di Pace che pose fine alla prima guerra mondiale.
Gli Imperi sconfitti di Germania, Austria e Ungheria non parteciparono alla
conferenza, ma furono costretti a sottoscrivere il trattato, sotto la
minaccia che altrimenti sarebbe continuata la guerra distruttiva, peggiorate
lePerché
Le condizioni, sottoscritte da quarantaquattro Paesi furono durissime sia
per la dilanazione territoriale dei territori dei vinti, che per
l’insostenibile peso dei risarcimenti materiali e pecuniari loro imposti.
***
Sul versante territoriale fu prevista la globale revisione dei confini della
Germania.
L’ Alsazia-Lorena, dopo secoli di sanguinose controversie, venne attribuita
definitivamente alla Francia, cui venne aggiudicata anche la proprietà
esclusiva delle miniere della Saar, il cui integrale bacino, pochi anni
addietro, nel 1935, era stato annesso alla Germania con un plebiscito
superiore al 90% dei cittadini della regione.
La Renania fu smilitarizzata e posta sotto controllo della Società delle
Nazioni.
I distretti di Eupen e Malmedy vennero assegnati al Belgio. La Slesia
settentrionale venne annessa alla Polonia. Danzica divenne città libera
sotto l’amministrazione della Società delle Nazioni. Pomerania e Prussia
Orientale vennero separate da un Corridoio ceduto alla Polonia che così si
ebbe uno sbocco sul Baltico.
Venne inoltre abolita la Coscrizione obbligatoria. Venne posto all’esercito
un limite di 100.000 effettivi, privati dell’Artiglieria pesante e dell’Areonautica.
La Flotta venne ridimensionata, avendo il consenso la Germania di mantenere
solo sei navi da battaglia obsolete, pre-dreagnouth, delle classi
Deutschland e Braunschweig ed altre due unità in riserva, sei incrociatori
più altri due in riserva, dodici cacciatorpediniere più altri due in riserva
e dodici torpediniere più altre quattro in riserva. No potevano essere
posseduti nè costruiti sommergibili.
Tutto il resto della flotta imperiale tedesca (Kaiserliche Marine) ancorato
nella rada inglese di Scapa Flow nelle isole Orcadi, che contava ancora 74
navi in piena efficienza bellica, in attesa della propria sorte, secondo il
dettato dell’armistizio di Compiègne, doveva essere consegnato intatto alle
Marine Vincitrici, che se lo sarebbero spartite.
La consegna dei convogli doveva avvenire per mano del Contrammiraglio Ludwig
von Reuter, in quanto l’Ammiraglio in capo Franz von Hipper, si era
rifiutato di compiere l’umiliante operazione.
Gli inglesi che avevano scortato le navi tedesche con un numero di navi da
guerra triplo, occupati da incombenti quali l’intimazione
dell’ammainabandiera a una flotta che non era stata piegata con le armi,
allentarono un pò il controllo.
Alle 19,30 del 21 giugno 1919, confusi da segnalazioni inusuali, i Vincitori
dovettero assistere colti di sorpresa, all’ordine di Von Reuter di auto
affondamento della flotta tedesca.
Il Contrammiraglio in alta uniforme fatta issare la bandiera di battaglia,
guidò lui stesso l’operazione.
Nove marinai tedeschi furono uccisi dagli inglesi nel tardivo tentativo di
evitare l’operazione. Ma la sorte vide 52 su 74 navi tedesche andare
definitivamente a picco, una sola inservibile rimase a galla, le altre
incagliate dagli inglesi nei bassi fondali riportarono danni irreversibili
che ne comportarono la demolizione.
***
L’Impero Coloniale Tedesco (Deutsche Kolonien und Shutzgebiete) subì la
inflessibile legge dettata dai vincitori che proibiva alla Germania
possedimenti di qualsiasi genere, esterni al proprio territorio nazionale,
già ridimensionato , determinandone la dissoluzione.
L’ Africa Tedesca del Sud-Ovest venne affidata al Sud-Africa, l’Africa
Orientale Tedesca, fatta eccezione per Ruanda e Burundi che vennero
assegnati al Belgio, mentre i restanti due terzi vennero assegnati alla Gran
Bretagna. La Nuova Guinea e le Isole Samoa tedesche spettarono alla Nuova
Zelanda, Palau, Kiau-Tschou/Tsingtau, le isole Caroline, l Marianne e le
Marshall al Giappone. Il Camerun e il Togoland vennero ripartiti fra Francia
e Impero Biritannico e simili sorti ebbero altri protettorati o territori
coloniali
***
Altrettanto incommensurabili, quanto non sopportabili per il popolo dei
vinti, furono le misure risarcitorie economiche imposte all’estenuata
popolazione tedesca dal trattato di Versailles.
La Germania fu condannata a pagare agli Stati vincitori la iperbolica somma
di 134.000 marchi d’oro. Cifra incompatibile con la contemporanea situazione
economica del popolo tedesco. Molti ritennero che l’enorme imposizione
mirasse alla definitiva dissoluzione della Germania come entità statale.
Inglesi e Italiani ritennero eccessiva la gravosissima sanzione, ma i
Francesi furono inflessibili quanto poco preveggenti.
Non miglior sorte ebbe l’Impero Austro-ungarico (Österreichisch-Ungarische
Monarchie) nato dal compromesso (Ausgleich) del 1867 tra la nobiltà
ungherese e la monarchia asburgica Sotto lo stesso sovrano, convivevano due
Regni distinti e in condizioni di parità, per cui il Regno di Ungheria si
autogovernava e gli Asburgo erano sia imperatori d’Austria che re di
Ungheria (terre del Concilio Imperiale e della Corona di Santo Stefano).
L’Impero coni suoi 680.000 chilometri quadrati, in Europa, per estensione
era secondo solo alla Russia. Le capitali erano Vienna, giunta a 2.200.000
abitanti prima della guerra e Budapest, e oltre ad Austria e Ungheria, aveva
sovranità tra l’altro sulla Croazia, la Slavonia, la Bosnia, l’Erzegovina,
la Dalmazia, la Carniola, il Banato, la Tranzsilvania, la Galizia, parte
della Slesia, la Moravia la Boemia e in Italia su Trento e Trieste.
Dopo la sonfitta l’Austria firmò il trattato di Saint Germain il 10
settembre 1919, con le Potenze Alleate. All’Italia cedette l’Alto Adige,
l’Istria le isole adriatiche e parte della Dalmazia. La Bucovina passò alla
Romania. Le ex provincie slave meridionali di Slovenia, Croazia e gran parte
della Dalmazia, di Bosni ed Erzegovina si unirono alla Iugoslavia, mentre
Sarajevo, città in cui era stato assassinato l’arciduca Francesco Ferdinando
per mano di Gavrillo Princip, fervente iugoslavo, appartenente alla Biada
Bosna (Giovane Bosnia), venne posta sotto il controllo slavo.Venne
riconosciuta l’indipendenza di Ungheria, Polonia e Cecoslovacchia.
***
Le iugulatorie e insostenibili condizioni imposte alle popolazioni degli
ex Imperi Centrali, ora ridotti a stremate Repubbliche fantoccio, col
passare degli anni resero profetiche le previsioni fatte subito dopo il
patto di Versailles dal generale Foch, comandante in capo dell’Esercito
Francese di terra. L’alto Ufficiale, commentando il c.d. patto imposto
ai vinti nel 1919, pronunciò le fatidiche parole “That is not a peace.
It is an armistice for twenty years” (Questo non è un trattato di pace.
È un armistizio di venti anni).
Come si poteva pensare che un popolo altero e bellicoso come la
Germania, diventasse un gregge di pavide pecore.
I tedeschi, infatti, lontani dallo starsene cheti, elusero facilmente il
fiacco controllo della Società delle Nazioni, non sorretta dalla strana
indifferenza di Francia e Gran Bretagna
e dovunque proliferarono moti insurrezionali.
Il Paese, disastrato dalla fame, dall’inflazione che raggiunse una tale
dimensione da ridurre il marco a mera carta straccia insieme con le
costanti privazioni cui ogni singolo cittadino era sottoposto
giornalmente, fecero sorgere spontanei e giornalieri disordini che la
debole Repubblica di Weimer non riusciva a tenere a bada. Erano moti in
cerca di autore, addirittura in parte favoriti dalla crescente
instabilità sociale ed economica creatasi in tutti Paesi, resa ancor più
insicura dalla inarrestabile ideologia comunista che nel 1917 aveva
determinato la rivoluzione d’ottobre nella sterminata Russia, ora
bolscevica e prendevano sempre più piede in Germania, in Austria nei
Balcani e nella stessa Italia.
Un o sconosciuto cittadino di Braunau reduce di origine austriaca, Adolf
Hitler, che attribuiva la sconvolgente sconfitta bellica soprattutto
agli ebrei, comunità da lui ritenuta corpo estraneo e nemico del popolo
tedesco.
Nato il 20 aprile 1889 nel villaggio austriaco di Braunau
am In, Adolf Hitler il 16 agosto 1914 quando, la Germania era già coinvolta
nel conflitto mondiale contro le dichiaranti Francia e Inghilterra, si
arruolò volontario nell’esercito del Kaiser Guglielmo II. Venne assegnato al
Reggimento bavarese di Fanteria di riserva (Rir 16) agli ordini del
colonnello Julius List, impegnato sul fronte franco- E se le umilianti
condizioni che avevan potuto far prevedere una reazione bellicosa nel tempo,
quale reazioneb del popolo umiliato ed estenuati, chi avrebbe mai potuto
immaginare che un caporale dell’esercito, senza altra qualifica, con un suo
breve opuscolo, contenente le ragioni della sua “battaglia” personale (Mein
kampf), avrebbe sedotto decine e decine di milioni di tedeschi inducendoli a
credere che la ragione di tutti i mali fosse la pacifica comunità ebraica di
Einstein e Freud. Avrebbe ricostituito il complesso bellico più forte del
mondo in meno di due lustri costituito la poderosa Whermact, la Panzerwaffe
forte di oltre tre mila potenti e modernissimi carri armati oltre a migliaia
di scorte, rifondato la Luftwaffe affidata all’asso della guerra del 14-18,
Herman Goring, la Kriegsmarine in grado di incrociare padroneggiandogli gli
oceani? Tutto ciò accadeva, mentre le conclamate democratiche potenze
occidentali di Francia e Inghilterra stavano a guardare?
Emulo, dell’assai meno potente dittatore italiano, Benito Mussolini, capo
del Fascismo che per primo seppe cogliere l’inettitudine dei partiti e del
liberalismo in dissoluzione, Rea do la dittatura, Hitler, abilissimo,
invasato, furente e visionario oratore, ne copiò le strutture formali dalle
camice, alle divise, dal saluto alle formazioni paramilitari, dalle insegne
rievocative di passati divini, alle fanatiche formazioni volontarie gioventù
ossesse. In breve volgere di anni come un’irrefrenabile onda anomala, Hitler
travolse ogni opposizione. Il vecchio Presidente della ormai decrepita
Repubblica di Weimer, Paul von Himdenburg, fu costretto dalle preponderanti
forze paramilitari imperversanti nel Paese, organizzate seguaci del partito
Nazionalsocialita, il 30 gennaio del 1933, nominò Cancelliere Adolf Hitler e
da allora il mondo tedesco sotto il tallone ormai incontrollabile della
furia, della inflessibile disciplina e della mistica nazista, non solo
assistette, ma fu compartecipe di devastazioni, uccisioni, prevaricazioni
sempre crescenti a danno in specie della inerme comunità ebraica, indicata
come causa di tutti i mali e corpo estraneo alla Germania. L’onda che da ciò
era stata sollevata, riuscì, infine, a provocare la guerra più sanguinosa
della storia umana.
Lo spettacolo della rinata potenza bellica integrale della Germania,
avveniva sotto gli occhi minacciosi, ma solo a proclami, delle potenze
“democratiche” apparse come ipnotizzate dalle evidenti mire espansionistiche
di Hitler, ormai divenuto incontrastato e incontrastabile Fuhrer (Guida
assoluta), titolo che il dittatore tedesco attribuì a se stesso nel 1934
dopo la morte di Hindemburg. Le mire divennero vero e proprio progetto
esecutivo, dopo la firma del patto di non aggressione stipulato d Von
Ribbentrop per i tedeschi e Molotov per i Russi.
Il nuovo accordo in pratica lasciava liberi i due Paesi firmatari di
muoversi avvverso le regioni limitrofe. Si trattava solo di trovare un
escamotage per giustificare l’aggressione di Paesi facenti parte della
chimerica Società delle Nazioni ed Hitler ne mise in atto il primo,
nonostante Francia e Inghilterra avessero preannunciato la dichiarazione di
guerra qualora il Terzo Reich avesse prevaricato i limiti nazionali. Per
l’aggressione della Polonia, Hitler e i suoi generali architettarono una
vera e propria pantomima per legittimare di fronte al mondo l’invasione
dello Stato Polacco.
Una pattuglia formata da quattro affiliati delle SS (Shutz Staffel - milizia
speciale tedesca destinata a compiti di polizia) e otto delinquenti comuni,
scelti fra i maggiori criminali nelle carceri di Stato, cui era stata
promessa in cambio della partecipazione alla combine, la libertà e la
cancellazione dei loro efferati crimini, travestita da soldati polacchi,
mise in scena una proditoria irruzione armata contro una postazione radio
del Reich. La sede della radio si trovava a Gleivitz un borgo tedesco a
pochi chilometri dal confine dei due Stati. Non ci furono riguardi per le
ciniche uccisioni dei tecnici tedeschi che presidiavano la radio e dalla
stessa postazione venne divulgato in lingua polacca un proclama di aperta
sfida contro la Germania Hitleriana.
A operazione compiuta, gli otto criminali che avevano partecipato
all’impresa vennero passati per le armi.
Il Fhurer in persona dichiarò urbi et orbi che il primo settembre del 1939
truppe regolari polacche avevano aperto il fuoco in territorio tedesco, per
cui si rendeva improcrastinabile l’immediato contrattacco. La Francia e
l’Inghilterra non poterono di fronte alla sfrontata aggressione della
Polonia, lasciare ancora lettera morta le loro minacce e il 3 settembre
successivo dichiararono guerra alla Germania.
L’Italia mobilitò l’esercito, ma restò neutrale. Tale stato di non
belligeranza fu solo provvisorio e dopo le fulminee vittorie dei tedeschi in
Danimarca, Norvegia e aggirata la pletorica linea Maginot, dopo la massiccia
invasione del territorio Francese, Mussolini il 10 giugno 1940 dichiarò a
sua volta guerra a Francia e Inghilterra.
In Cirenaica, dove Mario rendeva sempre più pronta all’azione la sua
compagnia, queste notizie arrivavano con toni trionfanti, ma la truppa
comandata dal tenete Vicari rimaneva in pace, di complemento in attesa di
sviluppi in Africa Orientale.
A metà giugno del 1940 dopo la repentina occupazione di Parigi da
parte delle truppe del III Reich, che interrompendo la drôlle guerre
aveva aggirato con le truppe corazzate la linea Maginot, passando per il
Belgio, il Lussemburgo e le Pays Bass e l’esercito francese si trovò
allo sbando, anche a causa di insufficienza, contraddittorietà e stato
confusionale creato da ordini provenienti del governo precipitosamente
riparatosi alla bene meglio a Bordeaux.
L’esercito in parte si disperse a gruppuscoli in punti disparati del
territorio occupato dai tedeschi, tentando di organizzare la Resistenza.
I paesani e i contadini francesi, per lo più donne, si prodigarono
nell’appoggio ai partisans, correndo grave rischio perché chiunque fosse
stato scoperto a portare aiuto ai fuggiaschi, veniva immediatamente
fucilato in loco, dagli invasori.
Tra i gruppi alla macchia, nascosti qua e là nei molteplici dipartimenti
delle regioni invase, che avevano accolto il proclama del Generale
Charles De Gaulle diffuso dalla voce di Radio Londres, che incitava i
connazionali a continuare le ostilità con ogni mezzo, si era già
particolarmente distinto un drappello di guastatori scelti, capitanati
da Furia, che non era altro se non il nome di battaglia di Adrien La
Roch, il brillante manager parigino amico di Juliette. In poche
settimane il giovane comandante e i suoi ragazzi, avevano fatto
deragliare tre convogli di militari tedeschi che si dirigevano al nord,
interrotto due strade essenziali per il ricongiungimento delle truppe e
fatto saltare alcuni ponti per evitare il guado di arterie dei fiumi
come la Loire, la Garonne e la Senne. Tutte pericolose e ardite
operazioni di sabotaggio in punti strategici diversi contro i tedeschi
invasori e in contrasto con il governo collaborazionista di Wichy di
Philippe Peten.
Il drappello di Furia si prodigava inoltre per creare collegamenti con
strumentazioni trasmittenti cifrate, atte a tentare di intessere una
rete di collegamento e dare un corpo unitario alla Resistenza,
coordinando i gruppi clandestini che sorgevano su tutto il territorio
come funghi.
Il giovane comandante cominciò a creare una mappa segreta cifrata,
consegnata al Comitato Provvisorio Parigino della Resistenza , che potè
in tal modo promulgare ordini omogenei ai fuggiaschi.
Il manipolo agile, i cui componenti erano vestiti con abiti di contadini
e truccati da persone anziane, era grado di raggiungere rapidamente le
più disparate postazioni dei Partisans, anche grazie alla straordinaria
conoscenza dei luoghi sparsi nei numerosi dipartimenti delle Regioni sia
montane che di pianura, dove le segnaletiche venivano spesso invertite,
quando non addirittura sostituite, per confondere il percorso degli
invasori.
Fu così che a migliaia di chilometri di distanza Adrien e Mario si
trovarono a combattere su fronti opposti in scenari di guerra
completamente diversi.
Operava attivamente nella Mitteleuropa il francese, mentre nell’Africa
Orientale il tenente italiano, a capo dei circa duecento uomini della
sua Compagnia di Fanteria, per ora era fermo, essendo di complemento in
Cirenaica alle truppe italiane che unitamente a quelle tedesche, al
comando del generale Rommel, fronteggiavano le multietniche forze
nemiche del generale Montgomery, nelle aride e assolate
terre per la supremazia del nord-est del Continente al di là del
Mediterraneo.
(Segue)
Statistica e … sfortuna
Il Temi, che prendeva il nome dalla Dea della Giustizia, era una
associazione di fatto degli avvocati milanesi che organizzava gare sportive
di calcio, sci e tennis cui erano ammessi sia avvocati che magistrati
milanesi. Un torneo tennistico prevedeva la partecipazione di sei squadre
formate a loro volta da sei componenti misti di uomini donne avvocati e
magistrati. Alla fine del torneo che cadeva negli ulti i giorni di luglio, i
trentasei componenti delle squadre e i loro supporter, una dozzina fra
organizzatori e amici, persone tutte connesse dalla frequentazione del
Palazzo di Giustizia, ci riunimmo per una cena sociale, durante la quale
vennero consegnate le coppe e gli attestati ai vincitori e ai migliori
piazzati. Alla fine della gioiosa cena, dato che era sabato di estate
inoltrata e tutti i coniugi e i bambini erano in montagna o al mare, venne
accolto l’invito di un collega di andare a casa sua per finire la serata con
un Wisky è un pò di musica. Arrivati tutti verso l’una di notte davanti al
cancello dell’elegante palazzo dell’appartamento del collega, nel momento in
cui stavamo per entrare, usciva dallo stesso palazzo un noto collega, di cui
tutti conoscevamo la moglie, con sottobraccio una giovane ... amica. Il
malcapitato, nella immensa città milanese, era sicuro di mantenere l’
incognito in quell’ora notturna. Invece si vide davanti gran parte
dell’élite del Palazzo di Giustizia. Alla vista di tanti involontari
testimoni, sbiancò in viso e sgattaiolò via. Il giorno dopo gli telefonai e
gli dissi che su mia iniziativa tutti noi avevamo fatto un giuramento:
avremmo potuto dire … il peccato ma non il peccatore. Mi rispose “mi fai
rivivere e vi sarò grato per tutta la vita”.
La Madonna del pittore
Capitolo Primo.
Nasceva proprio il giorno in cui Dio aveva chiamato a sè il grande Cosimo della
famiglia De Medici. E sua madre, da buona contadina, per non far dispetto al
padrone di Firenze, non sopravvisse al parto. Il padre era un solito soldato di
ventura, che dopo aver ingravidato la madre del nascituro, non era più tornato
da una delle campagne di guerra. Fu così che il povero Masetto venne preso in
casa da una zia che vantava discendenze dai Rucellai, ma che viveva del suo
lavoro in un opificio di albume, facendosi aiutare per le faccende domestiche da
un'anziana parente, la Nina. Nè i Fiorentini si potevano interessare della sua
nascita, sia perchè era uno sconosciuto, sia perchè accorsero tutti a San
Lorenzo a vegliare la salma del grande Signore.
Gli anni passarono, la Nina se ne andò a raggiungere gli avi e la zia Ghismunda,
chiamata così dal padre letterato che aveva letto il Decamerone, pensò che fosse
ora che il nipote che aveva compiuto nove anni, andasse a bottega a guadagnar
qualche fiorino.
Lo prese con sè mastro Chirico, un anziano artigiano, che si intendeva di
pittura murale, cioè dipingeva i muri delle case, quello che oggi riduttivamente
chiamiamo imbianchino, ma che invece allora doveva saper creare i colori, che
lui stesso impastava da sè, macinando terre, triturando pietre e servendosi di
materiali di cui manteneva il segreto ed era geloso custode.
Masetto, acuto osservatore, imparava l'arte, ma non ne faceva menzione a mastro
Chirico, che di lui si serviva per portar secchielli, spostare scale, staccar
carte di parati e far pulizia sui pavimenti delle stanze che intonacava.
Un giorno, però, Masetto, di nascita piuttosto maldestro come diceva il vecchio,
finalmente combinò un guaio, perchè salito sulla scala per porgere al pittore il
secchiello del colore, lo fece cadere a terra.
Fu così che dopo aver pulito e tirato a lustro il pavimento si ebbe il ben
servito e si trovò a dodici anni per strada, perchè nel frattempo la zia
Ghismunda, poichè allora si moriva presto, pensò di abbandonarlo.
Capitolo
Secondo
Il piccolo Masetto appena dodicenne, fu anche costretto in malo modo dai padroni
a lasciare la casa che la zia aveva in locazione, perciò d’un botto si trovò
solo, per la strada e senza un centesimo di fiorino in tasca.
Pensò, e che altro poteva fare,di essere nato sotto una cattiva stella.
Ma il fato una ne fa e una ne pensa ed un ricco signorotto fiorentino di un ramo
cadetto della famiglia dei Donati, che lo aveva visto darsi da fare ancora
piccino nella bottega di mastro Chirico, saputolo in disgrazia da una delle sue
serve, lo mandò a chiamare.
“Mi hanno detto che è morta tua zia, che sei rimasto solo e che ti hanno buttato
fuori casa”, disse .
Masetto annuì.
“Perché non lavori più a bottega da mastro Chirico" ? gli chiese.
Il ragazzetto raccontò la sua storia infelice.
“Se tu la mattina alle cinque mi vai a prendere il pane e il latte che serve in
casa, poi durante il giorno dai una mano alle domestiche e con gli stallieri
impari a sbrogliare il crine e a strigliare i cavalli, qui lavoro da fare ne
troverai e troverai anche un posto da dormire e un tozzo di pane per sfamarti”.
Il ragazzo fu ben lieto di accettare e ben presto, sistemato in un bugigattolo
della barchessa, si fece ben volere dalla servitù, facendo con lena tutto quello
che gli veniva comandato.
Se non che, un giorno, poichè diceva di essere pittore murale, fu messo alla
prova e il padrone in persona lo introdusse in una cappelletta chiusa e
abbandonata che doveva essere rinfrescata.
"Devi ridare colore a questi muri" disse il padrone "Vediamo che sai fare".
Capitolo Terzo
Masetto diede un occhiata ai muri della cappelletta ed all’altare e
chiesti quattro spiccioli al signorotto si die’ da fare per
approvvigionarsi del materiale idoneo a creare i colori necessari.
Andò in primo luogo in riva d’Arno, dove raccolse sabbia di fiume fine e
alcune pietre arenarie.
Si fece dare, poi, da un marmoraro carrarese che aveva bottega a Firenze
polveri di marmo e spese gli ultimi spiccioli che gli erano rimasti da
un bottegaio da cui, come si ricordava, faceva i suoi acquisti mastro
Chirico, e lì comprò un sacco di polvere di lapilli e della calce.
Stette due o tre giorni a macinare pietre, ad impastare terra e polveri
e il signorotto, che in verità era il proprietario dell’opificio di
allume dove aveva lavorato la povera zia Ghismunda e da lei aveva
appreso la laboriosità del ragazzo, entrando nella cappelletta a spiare
disse “Ehi giovinotto, ancora non combini nulla, che fai mangi pane a
tradimento”? Il ragazzo arrossì, ma spiegò che per preparare
l’intonachino era necessario un impasto ben preparato.
“Ma tu che vuoi fare, il Ghirlandaio, disse scherzando, manco dovessi
stendere un affresco …devi solo rinfrescare i muri”, poi riprese, “ti do
tempo sino a fine mese, mancano cinque giorni, ricordatelo”e se ne andò.
Masetto continuò alacremente a miscelare pietre e polveri picchiando nel
mortaio e si ripromise di cominciare il lavoro sui muri all’indomani.
Capitolo quarto
Masetto, di buon' ora, approvvigionata la casa di latte e pane secondo
gli ordini del suo padrone, si rintanò nella cappelletta, che prendeva a
stento la luce del mattino da un malandato rosone aperto sulla fronte
del piccolo fabbricato.
Era quell'opera talmente trascurata nel tempo che appariva un cerchio
nero quasi uniforme.
Ma il giovane imbianchino lavorando di gomito e servendosi di piccoli
stracci e di un solvente creato da lui stesso con ogli essenziali tratti
da bucce di agrumi e moccoli di cera stagionati trovati su candelabri
arruginiti, si mise a rimuovere le incrostazioni terrose e calcaree
della vetrata.
A poco a poco, con l'avanzare della pulitura, la luce, grazie anche alla
bella stagione marzolina, inondava la piccola cappella, mettendo a nudo
le macchie sporche delle pareti e le magagne dell'altare che il semibuio
aveva pietosamente nascoste.
Ma, intanto, ritornava ad antico splendore quel rotondo luminoso
composto da linee radiali e istoriato qualche secolo prima da mastri
vetrai con mirabili miniature di passi del vangelo.
Coperto il risone all'interno ed all'esterno della facciata con carta
chiara che non diminuiva il penetrare della luce solare, il giovane
cominciò a pulire i quattro vecchi candelabri che posavano a due a due
sui lati opposti dell'altare, servendosi di acqua, sale e polvere di
sodio, curando di togliere la patina che si era formata e così fece per
le altre icone in argento che addobbavano l'altere di marmo.
Il primo giorno di lavoro fu così dedicato alla ripulitura di cose che
il tempo aveva umiliato.
Il ragazzo ricoprì tutto con stracci di tela e sfamatosi con un pezzo di
focaccia di farro datogli in cucina, restò a dormire su di un giaciglio
di paglia adagiato nella piccola cappella, quasi a voler custodire il
suo lavoro.
Capitolo Quinto
Levatosi sul far del giorno dal suo giaciglio, il ragazzo, sbrigate le
commesse e bevuta una scodella di latte dopo avervi inzuppato un tozzo
di pane raffermo, tornò lestamente al suo lavoro.
Scrostò meticolosamente con acqua e raschietto quel che rimaneva del
vecchio disomogeneo intonaco sino a trovare la pietra murale delle
pareti, salvando , lunghe linee di disegni geometrici correnti sovente
lungo il muro, che man mano affioravano dalla pulitura.e ripromettendosi
di risuscitare i colori di quei fregi che gli apparivano preziosi.
Fu così che fino a sera , dimenticandosi di mangiare e sorseggiando
qualche goccio d'acqua, denudò le pareti ed il soffitto, scoprendo, per
ricomparse segnature, che erano state murate due feritoie, il transetto,
la cupola a catino, due piccole navate laterali e l'abside dietro
l'altare.
Non che il nostro giovane imbianchino avesse cultura d'arte
architettonica, ma capì la somiglianza della struttura del fabbricato
con la pianta di San Miniato, dove quella pia donna di sua zia,
recandolo fuori delle mura, lo aveva portato sul colle a servir messa.
Per costruire il grande palazzo il padre di ser Lodovico, che non voleva
essere da meno dei suoi cugini Donati, aveva dato ordine all'architetto
dell'opera di guadagnar spazio, così costoso fra le mura fiorentine. La
piccola chiesa di stile romanico fu così ridotta in quella misera
cappelletta rettangolare, con soffitto appiattito, incastrata negli
elementi architettonici della magione.
Finito e rimirato il lavoro fatto, Masetto si mise a riposare prima che
venisse buio.
L'indomani lo aspettava il grande giorno del primo strato, il dopodomani
dell'arriccio e il terzo giorno avrebbe potuto spalmare i colori.
Capitolo sesto
Il primo giorno Masetto dopo aver passato un panno per meglio
asciugarla, segnò col gesso i punti in cui le pietre della muratura si
muovevano e li andò a rincalzare uno per uno con calce e cemento.
Il secondo giorno, bagnato il sottofondo schizzò sulle pareti sabbia
mista a calce per aggrappare poi con cura la malta bastarda che aveva
preparato con tre secchi di sabbia fine, uno di cemento pieno ed uno di
calce quasi pieno.
Infine passò a pennello e spatola il terzo strato leggermente granuloso
formato con sabbia finissima, acqua e calce.
Si mise, poi a impastare i colori dividendoli in cinque secchi, quanti
erano i veli che avrebbe voluto passare sopra i due strati.
A sera, quando scendeva il buio, accese alcune candele che aveva trovato
in una vecchia cassapanca posta in un lato della cappelletta.
Lavorò finchè non lo sorprese il sonno, ma non si mise a dormire prima
di aver tracciato dietro all’altare una grande raggiera, aver disegnato
i rettangoli delle feritoie murate e grandi quadrangoli dove era stato
murato il transetto, andando poi con la scala fin sotto il soffitto,
tracciò rettangoli con basi minime, lunghi come travi.
Compiuta quest’opera si addormentò , alla luce di fiammella di una
candela che aveva lasciato accesa, perchè si spegnesse per consunzione.
Capitolo settimo
Il giovincello nulla poteva sapere di teorie sulla tecnica prospettica,
in quell'epoca ancora non diffuse . Fatto sta, però, che in pratica un
abile gioco di linee geometriche, di congiunzioni di punti, di
intersezione di segmenti e incurvature, gli permise a lavoro ripreso il
terzo giorno, di raffigurare spazi illusori, con mezzi modesti come
spaghi e carboncini accuninati. Terminati disegni sulle murature, la
cappelletta sembrava all'occhio umano avere un'abside, una cupola a
catino un transetto ed ai lati del corpo centrale due piccole navate.
Dopo aver verniciato il soffitto simulando travi a cassettone, ed aver
spalmato tenui colori alle pareti ripassandovi con fedele ricalco le
trame geometriche presistenti che le dividevano in due parti in senso
orizzontale e aver decorato le linee prospettiche, Masetto si era
riservata un'ultima finitura.
Sul muro laterale, alla sinistra dell'altare, ritornato a brillare con
la ripulitura degli argenti, c'erauna piccola loggia che ospitava una
Madonnina di gesso, raffigurata con le mani congiunte in preghiera.
Il ragazzo, iniziato al culto della Vergine dalla pia Ghismunda, aveva
lasciato per ultima l'opera di acconcio della loggia, cui voleva
dedicare particolare e devota cura.
Certo sbagliava mastro Chirico quando, non avendo sperimentato le
capacità del suo garzone, lo definiva maldestro.
In quel frangente, però, l'improvvisato pittore murale manifestò la sua
inesperienza.
Accostatosi con la scala alla loggia, credendo che la Madonnina fosse
fermata e non solamente posata sulla base, vi posò sopra un mano per
tastare con l'altra lo sfondo. Mentre lui perdeva l'equilibrio per l'icstabilità
dell'appoggio, ma riusciva a reggersi appoggiandosi al muro, la
statuetta leggera e non più alta di quaranta centimetri scivolò sulla
base e finì sul pavimento frantumandosi.
Capitolo ottavo
Masetto scese dalla scala, mettendosi le mani nei folti capelli neri e
ricci. "E chissà di quale grande artista era questa Madonnina, si
chiedeva in lacrime, ser Ludovico mi caccerà, sarò ancora un disgraziato
senza lavoro nè dimora, solo e per la strada come un cane randagio".
Mentre piangeva, imprecava e malediva la sfortuna che aveva ripreso a
perseguitarlo.
L'indomani il padrone sarebbe passato a controllare il lavoro, si
sarebbe accorto del misfatto e forse, prima di mandarlo via, gli avrebbe
anche fatto affibbiare una caterva di nerbate.
In quel tempo, pur se Firenze fosse una città di trafficanti, ricchi
mercanti e di banchieri, gli artisti erano tenuti in grande
considerazione. Le famiglie nobili e possidenti facevano a gara ad
accaparrarsi opere dei grandi maestri che illustravano la città,
rendendola la culla dell'arte nel mondo conosciuto. "E se la statuetta
fosse un gesso di Donatello o di Verrocchio, si chiedeva tremante,
facendosi venire a mente i nomi dei due grandi scultori di cui aveva
molto sentito parlare, come potrò risarcire i danni, sarò messo in
catene tutta la vita". E più pensava, peggiore era la sorte che si
rappresentava.
Dire che fosse disperato il ragazzo, era poco. Con tutta la forza che
gli era rimasta, prese pennelli e colori impastandoli in modo del tutto
inconsueto e in preda al panico, si mise a dipingere la piccola loggia,
come solo in quello stato d'animo di dolore e furia avrebbe potuto fare,
cercando freneticamente di effigiare un viso di Madonna. "Vergine mia,
Vergine mia, continuava a ripetere " e mano mano prima acconciò la
loggia, poi venne fuori la figura di Maria.
Finita l'opera non ebbe nemmeno il coraggio di guardarla. Povero me,
povero me" ripeteva.
"Sconsolato non pensò nemmeno a mangiare quella sera e dopo aver
nascosto dietro l'altare il materiale rimasto insieme ai cocci della
Madonnina di gesso, spostò in un angolo il suo giaciglio e vi si
rannicchiò cercando invano di prendere sonno mentre calava il buio.
Capitolo nono
La luce dell’alba colse lo sfortunato imbianchino mentre, dopo una notte
di dormiveglia in preda ad incubi, si era appena appisolato.
Lo svegliò qualcuno che stava picchiando alla porta.
Era un domestico che lo apostrofò con tono di scherno “Ehi dormiglione,
è un bel po’ che batto l’uscio …”.
Il ragazzo si stropicciò gli occhi, corse a rinfrescarsi alla fontanella
del cortile e andò a prendere il latte e il pane.
Al suo ritorno in cucina, afferrò un pezzo di pane raffermo e
sgranocchiandolo tornò a rannicchiarsi nella cappelletta, dopo aver
tolto le carte imposte per proteggere le ripuliture.
Il sole si alzò e inondò il piccolo luogo sacro di una luce che
filtrando dal rosone esaltò i colori e gli effetti spaziali impressi da
Masetto.
Fu allora che ricomparve il padrone.
Ser Ludovico si guardò attorno con stupore, quasi non riconoscendo più
il luogo, mentre il ragazzo scattato in piedi se ne stava zitto ad
aspettare la sentenza.
“Un bel lavoro, disse il padrone, un gran bel lavoro ragazzo …” . Si
approssimo ai muri, andò a rimirare il rosone e tutto quanto il
giovincello aveva abilmente ritoccato.
Finalmente, come temeva il pittore murale, lo sguardo di ser Ludovico si
soffermò sulla piccola loggia, alla quale si avvicinò “Ma, disse, qui
…toh, e questa chi l’ha dipinta …” . Il suo tono era fra il meravigliato
e l’interrogativo..”Questa Madonna non c’era qui, chi l’ha dipinta” …Il
ragazzo col cuore in gola rispose “io … signore,” .
Dopo aver guardato per un bel po’ il piccolo affresco, il padrone
riprese “Tu … da solo …” .
Il ragazzo annuì.
Ser Ludovico senza profferire altra parola scomparve dietro l'uscio
della piccola cappella..
Capitolo decimo
Impressionato dalla bellezza della piccola Madonna affrescata da Masetto
assai di più che dai suoi disegni geometrici pur notevoli, ma che
qualsiasi mano ferma avrebbe potuto vergare, ser Ludovico aveva
abbandonato di fretta la piccola cappella, per cercare qualcuno che, da
intenditore d’arte, avrebbe potuto dare conforto alla sua meraviglia.
Si parlava molto a Firenze di un giovane non ancora venticinquenne,
figlio di un ricco notaio, ser Piero, venuto da un piccolo borgo.
Il giovane in breve s’era acquistato molto credito presso la bottega di
Andrea del Verrocchio, dove lavorava insieme ad altri giovani
promettenti, ed era apprezzato non solo per la qualità dei suoi disegni,
per il suo fare ottimi rilievi, per l’operare nella scultura realizzando
pregevoli gessi di giovani donne e di putti e per suoi primi dipinti, ma
anche per la sua vasta applicazione alla scienze, che spaziavano, nel
suo dedicarvisi, dalla critica dell’arte, alla matematica, alla
anatomia, alle leggi fisiche.
Era costui, quello che poi passerà alla storia come il grande Leonardo
da Vinci, già allora grande amico di Lorenzo de Medici, che che in età
lo superava solo di tre anni.
Ser Ludovico, che a Firenze egli pure era considerato, ma per altre
ragioni, cioè per la ricchezza derivante dai suoi opifici e dalla la sua
grande abilità di mercante, aveva conosciuto il giovane borgataro in
casa di amici possidenti e ne aveva apprezzato la squisitezza dei gusti
proprio nel parlare di arte pittorica e nel commentare alcuni dipinti
dei suoi anfitrioni.
Volendo che fosse quello il primo, dopo di lui, a giudicare il dipinto
di Masetto, mandò un servo a chiamarlo.
Giunto sul luogo, alla presenza del ragazzo che era stato richiamato
dalle stalle dove stava strigliando un puledro, Leonardo, dopo aver
rimirato il piccolo affresco ed essersi assicurato che era stato steso
da poco e senza ricalchi, così si espresse: “Questo giovine deve essere
stato in Paradiso … la sua opera è tanto bella che solo chi ha visto in
viso la Vergine Maria può averla ritratta in cotesto modo”.
Si disse, il che non è affatto provato, che la sua “Madonna del
Garofano”, Leonardo l'avesse ridisegnata dopo quell’incontro.
Capitolo undicesimo
Le parole del giovane Leonardo suonarono oro all’orecchio di ser
Ludovico, uomo d’affari e intontirono l’imbianchino.
Sentiti altri artisti, tanto che pare , che lo stesso Andrea del
Verrocchio e il suo allievo Sandro Botticelli avessero visto e fossero
rimasti estasiati dall’affresco di Masetto, la sua vita cambiò di colpo.
Gli venne assegnata una bella camera nella magione, lo stesso sarto di
ser Ludovico gli cucì un abito da gentiluomo e gli fu attribuita una
serva personale di nome Moretta, quatto anni più grande di lui.
Con una certa apprensione il giovane affrescò l’immagine di una Madonna
nella stanza degli sposi, tanto che ser Ludovico e sua moglie donna
Isabella traslocarono in altra stanza durante l’esecuzione dell’opera.
Finito l’affresco d’una Madonna in estatica contemplazione del bambino
Gesù, questo agli occhi di ser Ludovico apparve addirittura opera più
che d’un mortale di una creatura divina.
Fu allora che ser Ludovico tenne un grande ricevimento nel suo sontuoso
palazzo.
Vi convenirono invitati, rappresentanti di tutte la maggiori famiglie
fiorentine, fra cui i Lapi, i Soderini, persino i Medici i Pitti, i
Rucellai gli Aldobrandini i Benci, gli Strozzi e tante altre.
Gli ospiti, già soddisfatti per il banchetto, le libagioni, le belle
dame, la musica dei migliori maestri fiorentini, furono uno per uno
dirottati da ser Ludovico, per una visita prima nella piccola cappella e
poi nella camera degli sposi.
Il giovincello timido e timoroso, se ne stava nell’angolo del grande
salone e ogni ospite che tornava dopo aver visitato i luoghi dei suoi
due affreschi, volle conoscerlo e magnificarne le sorprendenti doti
pittoriche.
Un Alberti apprezzò molto anche le prospettive geometriche e un Rucellai
volle prendere in considerazione addirittura l’albero genealogico del
ragazzo.
La serata fu un grande successo, tanto che i cugini Donati promisero di
ricambiare la serata a ser Ludovico, che sino ad allora non aveva mai
messo piede nella loro magione.
Capitolo dodicesimo
Il suo vero nome era Giuseppina, ma tutti la chiamavano la Moretta.
La giovane faceva parte della servitù della casa dalla nascita, dove
l’aveva partorita un’altra serva poi scappata via con un uomo senza
lasciar traccia di sè.
Ora sfiorava ormai i diciotto anni ed era dotata di tutto il bendiddio
di cui la natura spesso privilegia giovanette in quella primaverile età.
Slanciata, con lunghi capelli neri sempre curati, grandi occhi verdi in
risalto sulla carnagione bruna del viso reso tenero dai lineamenti
delicati, era amata da tutti i componenti della servitù che dopo la fuga
della madre l’avevano adottata ed educata come figlia.
Lei sapeva svolgere con diligenza le mansioni che le affidavano ed ora
in particolar modo quelle che le erano state attribuite per Masetto.
Il ragazzo, che da allora in poi per ordine di ser Ludovico la servitù
dovette chiamare "signore", fu ben presto avvinto dalla grazia della
Moretta.
Questa lo chiamava “signor mio” e non perdeva occasione nei movimenti
sinuosi e nei modi per mettere in mostra le sue grazie femminili, pur
non perdendo la sua apparente pudicizia.
Il ragazzetto, ormai quattordicenne, che sino ad allora non aveva mai
osato fermare più di tanto lo sguardo su di una giovine donna, quando la
vedeva muoversi sotto la veste sempre candida e leggera, sentiva
quell’irrefrenabile attrazione che alla sua età comincia a crescere
impetuosa nei maschi.
Signor mio, disse la Moretta una volta, mentre portava a. Masetto un
canestro di frutta fresca, forse un giorno mi farai un ritratto.
Il ragazzo non rispose, ma una sera ritiratosi nella sua stanza, tentò
più volte di disegnare su carta con un carboncino il viso della giovane
donna, ma non gli veniva nemmeno di abbozzarne i capelli.
Solo quando nell'effige coprì il capo con il velo, riuscì a disegnare
una bellissima madonnina con il viso e le sembianze della Moretta, ma
dopo averla mostrata solo lei, ritenuta la cosa blasfema per la sua
grande devozione alla Vergine, distrusse l’opera provocando le lacrime
della giovane donna.
Fu allora che il ragazzo per consolarla la strinse a sè.
Capitolo tredicesimo
Presto tutta Firenze venne a conoscenza dell’esistenza del ragazzo
prodigio e dei suoi stupefacenti affreschi. Nessuno voleva essere da
meno e cominciarono, così, le contese. Potenti signori chi più nobile o
chi più ricco, ordini religiosi, chiese e confraternite, si
fronteggiavano facendo a gara perché fosse privilegiata la loro
commessa. Le opere d’arte più prestigiose, così come i diritti di
patronato delle cappelle da far affrescare, costituivano quello che oggi
si chiamerebbe lo status symbol e che anche allora era indice di
benessere, di posizione elevata e quindi di potere non meno ambìto dai
prelati di quanto lo fosse dalle famiglie potenti.
Ser Ludovico, che s'era nominato cassiere e procuratore per le
committenze e aveva riservato all’ex garzone e imbianchino un decimo
degli introiti, da scaltro mercante qual era, fece di quegli affari un
gioco di grande sua ascesa sociale, ammettendo i pretendenti alla
stipula dei contratti secondo una vera e propria gerarchia per laici o
religiosi che fossero.
Per far sì che il prezzo d’acquisto salisse, si faceva pregare e decise
che le opere non fossero in numero maggiore di quattro o cinque
all'anno.
Non ci si meraviglia se il primo lavoro esterno di Masetto fu eseguito a
Palazzo Medici nella camera di Lorenzo, quel signore già noto per il suo
amore per l’arte che la storia ricorderà come il Magnifico.
La notizia fece molto scalpore e destò non poche invidie, ma assai più
grande fu la crescita della fama del pittore e la generale frustrazione
e meraviglia quando in pubblica conversazione Lorenzo disse che il
“giovin pittore”, come per lungo tempo Masetto venne poi chiamato, aveva
dipinto una Madonna inimitabile per la sua virginea sacra bellezza che
di certo superava quelle, pur fra le più belle mai viste, di casa di ser
Ludovico.
Aggiungeva poi che nessun altro aveva mai effigiato con tanta bellezza
il viso di Maria.
Né Lorenzo fece segreto del compenso di cento fiorini corrisposti per
l’opera.
Ma la voce delle Vergini dipinte a Firenze da un ragazzetto, arrivarono
sino a Roma dove Francesco della Rovere pontificava sotto il nome di
Sisto IV.
Capitolo quattordicesimo.
Nella Firenze fine quattrocento di grandi artisti che avevano lavorato
d’affresco nella cappella Vespucci in Ognissanti, nella cappella del
Cardinale del Portogallo in San Miniato, nella cappella Cavalcanti in
Santacroce, nella cappella di palazzo Medici, solo per citarne alcune,
noti come Tommaso Bigordi detto il Ghirlandaio, Andrea del Castagno,
Benozzo Gozzoli, per tacere di molti altri, fece scalpore la notizia che
messi papali si fossero interessati del giovin pittore di Madonne.
Ser Ludovico propagandò la notizia e le commesse piovvero, sicchè per la
semplice legge della domanda e dell’offerta i prezzi delle opere di
Masetto salirono vorticosamente.
Il giovane non andò mai a Roma, ma in pochi anni non vi fu grande
famiglia fiorentina e cappella di chiesa o di convento che non fosse
effigiata dalle Madonne del giovane.
Quando giunse ai vent’anni, sempre sotto l’egida di ser Ludovico, il cui
casato de’Donati fu ormai pari a quello dei cugini, l’ex imbianchino era
ormai un ricco corteggiatissimo signore.
I Rucellai riuscirono finalmente ad affibbiargli un nome altisonante
avendo trovato fra i suoi avi un operaio addetto al trattamento del
lichene con ammoniaca urinaria detta “oricella”, lavorazione alla base
del nominativo del casato e della loro fortuna .
Fu così che il giovin pittore venne chiamato Maso dell’Oricella.
Ma per essere sicuri dalle altrui invidie in quel tempo, solo
all’apparenza illuminato anche nei diritti civili, non bastava la
protezione di questa o di quella famiglia, si doveva disporre anche di
armati, cioè di vere e proprie milizie famigliari .
Ai de Medici, non era affatto passato inosservato che nonostante la loro
primogenitura nella scelta del pittore di ser Ludovico, questi avesse
permesso a tutte la famiglie fiorentine, persino ai Pazzi, di possedere
opere del giovin pittore.
Fu così che il pittore Maso dell’Oricella fu chiamato a palazzo Medici
dal vero padrone di Firenze, il Magnifico Lorenzo.
Capitolo Quindicesimo
A Palazzo Medici lo aspettava un figuro che aveva tutto fuorché
l’aspetto di gentiluomo, il quale lo ricevette in una specie di tetro
scantinato .
“Maso dell’Oricella, lo apostrofò, tu, Ludovico de Donati e quella
puttanella Moretta, Giuseppina, come si chiama …, ve la siete fatta
impunemente con i peggiori nemici di Firenze, loschi intriganti e
traditori che fossero ”.
Il giovane, che già era spaventato per il luogo tetro che lo aveva
accolto e per il tono poco amichevole cercò di interloquire garbatamente
: “Signore, io …”.
“Io, io, fece l’altro, non faccia il santerello … voi pur di far denaro
… e poi anche gli amici dell’assassino di Giuliano avete servito …
sapevate bene, sapevate bene …”.
Dopo un attimo di pausa, l’arcigno accusatore riprese con tono più
minaccioso “te lo facemmo capire quando s’interessò di te il Della
Rovere … quel Sisto, ma voi niente … il trio continuava ad abbellire
cappelle e magioni e di cani e porci, cardinali o prepotenti … sua
signoria è inquieto”
Dopo l’ accenno a “sua signoria”, il giovane pittore impietrì.
Avrebbe voluto dire che lui di quegli affari era solo esecutore, che non
aveva avuto contatto con alcuno dei personaggi perché della cosa si
occupavano ser Ludovico e la Moretta, che lui quelle Madonne non sapeva
nemmeno come faceva a dipingerle, ma il terrore in cui era piombato non
gli permise di profferire verbo.
Che sapeva, pover’uomo degli intrighi, delle congiure, a mala pena
sapeva che sua signoria si era salvato da un agguato e come la grande
maggioranza dei fiorentini esultò quando lo seppe vivo per sua destrezza
nell’uso delle armi, come gliela avevano condita.
“Facciamola finita, disse il losco individuo, gli ordini sono questi :
per il trentacinquesimo anno di “sua signoria” su tela di quattro metri
per tre, tu dipingerai un ritratto di ser Lorenzo … il termine è il
primo gennaio dell’anno che viene … hai quattro mesi pieni … così
ristabiliamo chi è il signore di Firenze”
“Ma io …” cercò di dire il pittore ex imbianchino. “Basta …, lo minacciò
il losco messo, se rifiuti non hai scampo".
Capitolo sedicesimo
Il pittore uscito dal palazzo della più potente famiglia di Firenze,
rimasto sconcertato e avvilito continuava a chiedersi che male avesse
fatto.
“E poi, diceva fra sé e sé, chi lo sa fare un ritratto di sua signoria,
io non so nemmeno come dipingo le mie madonnine, qualcosa mi prende la
mano, no, no, non riuscirei mai a fare altro, sono perduto, sono morto”.
Intanto rigò dritto verso casa perché aveva la sensazione di essere
pedonato.
L’unica persona con la quale sentì di confidarsi fu la Moretta, la sua
monna Giuseppina, mentre tutto venne tenuto nascosto a ser Ludovico e ad
altri .
La giovane donna, fatta chiamare, lo raggiunse immediatamente.
L’ex imbianchino le rivelò tutto e terminò il suo accorato racconto con
le parole “capisci, sono un uomo finito, morto, ricordi nemmeno il tuo
ritratto ho potuto fare se non quando gli diedi la parvenza della
Vergine ”.
Monna Giuseppina lo prese per mano e dopo averlo consolato come solo le
donne sanno fare, cominciò a dire “Tu chiedi una somma spropositata,
disse, tanti fiorini quanti ti basterebbero per tutta la vita, così sua
signoria si rifiuterà … chiedi diecimila fiorini”.
La proposta venne trasmessa a Palazzo de Medici, e quanto prima uno se
lo potesse aspettare alla porta di casa de Donati due armigeri chiesero
di ser Maso.
Il giovane si sentì nuovamente perduto, ma con sua massima sorpresa si
vide recapitare una cassa contenente diecimila fiorini d’oro, una
immensa fortuna.
“Ora dai la notizia che vorresti istoriare sua signoria con monna
Clarice e che intanto ti mandino per la copiatura i due abiti più
sfarzosi che possiedono, prendendo tempo col fatto che stai definendo lo
sfondo”.
Il pittore non capiva, ma in quelle condizioni non potè far altro che
affidarsi alla Moretta.
Fu così che pochi giorni dopo, ben imballati, vennero consegnati al
pittore i due piu begli abiti di ser Lorenzo e monna Clarice.
"Adesso, poichè vorrai fare le signorie a cavallo, disse la Moretta,
fatti mandare per la copiatura i due cavalli più belli dei due sposi".
Fu così che qualche giorno dopo furono consegnati al pittore un
magnifico cavallo nero di ser Lorenzo e un magnifico cavallo bianco di
monna Clarice.
Ultimo capitolo
I cavalli vennero condotti nelle scuderie di casa de Donati e agli
stallieri fu detto che servivano per un grande quadro .
I vestiti furono conservati nella stanza di ser Maso.
La cassa coi fiorini finì sotto il letto della Moretta.
Passò il primo mese e su richiesta del giovin pittore venne fatta
scegliere la parte più ubertosa del grande parco a nord di palazzo
Medici quale teatro di posa degli sposi i quali vi si sarebbero
soffermati a cavallo per essere ritratti.
Il secondo mese si avvisarono le due signorie che il primo incontro per
ritrarli sarebbe avvenuto all’ora terza del mattino del primo giorno
d’autunno.
A palazzo furono impartiti gli ordini e fervevano i preparativi per
l'evento cui venne dato in città massimo risalto.
In una incantevole notte di mezzo settembre, da casa de Donati uscirono
due grandi giovani signori in lussuosi abiti .
Lui, il giovin pittore vestito con l’abito sfarzoso di ser Lorenzo
montava il cavallo nero e lei la bella monna Giuseppina che indossava le
sontuose vesti di monna Clarice montava il cavallo bianco.
Dietro di loro seguiva un ciuco che portava la cassa con i diecimila
fiorini.
Si diressero a sud e gli armigeri di guardia non solo aprirono la Porta
Romana ai due grandi signori che passando gettarono loro un bel pugno di
monetine, ma s’inginocchiarono in segno di sottomissione al bel
cavaliere ed alla bella dama.
Fu così che i due eleganti giovani si dileguarono nella notte e di loro
non si seppe mai più nulla.
Ben presto tutta Firenze seppe della fuga e della scomparsa del giovin
pittore e della sua bella amante.
Chi conosce i fiorentini immagina bene che poveri e ricchi, potenti e
meschini tutti si divertirono alle spalle dei de Medici e del de Donati.
Ser Lorenzo e ser Ludovico, ciascuno per ragioni proprie montarono su
tutte le furie, ma quel che fu la più grande delle meraviglie è il fatto
che tutte le opere di Maso dell’Oricella, dalla prima all’ultima effige
di Madonna si sciolsero come neve al sole.
Fine.
Raccontiamoci. Sunto del racconto "Il tranviere".
Era una sera di qualche anno fa, poco prima di Natale. Milano era
ovattata dalla neve scesa tanto copiosa che non pochi alberi erano
caduti sotto il peso del cumulo dei fiocchi e le macchine non potevano
circolare agevolmente.In quella atmosfera fiabesca, resa magica dal
biancore del manto di neve, dalle luci esterne particolarmente vivaci e
dal via vai frettoloso della gente alla ricerca di strenne, mi trovavo
sul tram di ritorno a casa.
Le vetrate del vagone, che scivolava silenzioso sulle rotaie bagnate,
erano percorse da veloci riflessi dei festosi colori delle vetrine e
delle luminarie, resi irreali dal riverbero della coltre bianca. C'erano
pochi passeggeri sul tram, l'ora era di poco oltre le otto di sera.
Stavo in piedi tenendomi ad una maniglia e poco discosto da me sedeva un
omaccione con un pastrano sdrucito di lana grossa e due occhi buoni come
quelli di un mansueto bove. Dietro di lui una giovane donna con viso
intellettuale, leggeva un libro e qualche posto più dietro una bella
signora elegante, d’età non facilmente decifrabile, teneva in braccio un
barboncino bianco semi assopito. Da una rapida occhiata intorno, vidi in
fondo al tram due bei ragazzi, un lui e una lei, che discorrevano
complici e ogni tanto si sentiva la risatina della ragazza.
Ad una fermata salì un tranviere fuori servizio, sulla quarantina, che
si fermò nella piattaforma posteriore. Accennava un motivo in voga
soffiandolo silenziosamente fra i denti e teneva con l’anulare e il
medio della mano destra una funicella da cui pendeva un involucro di
carta oleata. Dall’odore buono che si diffondeva, particolarmente
gradevole a quell'ora di cena, era facilmente desumibile che all’interno
del pacco c’erano pizze napoletane appena sfornate.
D'un tratto venne a mancare la luce e il tram dopo aver scivolato sulle
rotaie per breve tragitto si fermò.
Di lì a poco, persistendo il buio, nella vettura lievemente illuminata
dalle luci esterne, da cui trasparivano le sagome dei passeggeri, si
sentì la voce del tranviere fuori servizio che disse "Propri adess ...
che go i pizz per la miè"*. Seguì un silenzio. Insieme al buon odore
dell'impasto, si diffuse nell'aria un senso di ansia che credo
accomunasse tutti i passeggeri. Le pizze si raffreddavano... Io ero il
primo a preoccuparmi, stranezza degli esseri umani, che fanno le guerre,
che ascoltano quasi indifferenti il verificarsi di catastrofi , ma in
quel momento era il raffreddamento delle pizze che ci teneva in
apprensione.
Dopo qualche interminabile minuto tornò la luce. La vettura riprese a
correre. Il tranviere fuori servizio, ormai sotto lo sguardo intento di
tutti i presenti, guadagnò la portiera centrale e si pose in
atteggiamento di chi deve scendere.
Quando la portiera si spalancò l’omaccione dall’improbabile pastrano,
facendosi interprete di tutti e cercando il comune assenso con lo
sguardo, disse “vedarà che in amò cald”**. Il tranviere guadagnò la
predella, scendendo allargò il braccio libero e in segno di
ringraziamento rispose annuendo “Sperem... ”
* “Proprio adesso che ho le pizze per la moglie”
** “Vedrà che sono ancora calde”
*** “Speriamo”
Raccontiamoci
Sunto del mio racconto: Illusione
pascoliana. Andai a Castelvecchio a ritirare il premio
internazionale di poesia "Giovanni Pascoli" per una mia raccolta
edita intitolata "L'uomo bianco". Mi accompagnò Alberto Gabrielli, poeta
e saggista, con due lauree umanistiche, che aveva fra le sue
pubblicazioni commenti sulla vita e sulle opere dell'autore di "Mirycae", la
versione in poesia nella nostra lingua di sedicimila versi di Marziale
per la Utet e dell' "Ars Amandi" di Ovidio per la Bur. Alberto era il
vero genio di famiglia ed al fratello Aldo, di lui più noto, autore tra
l'altro del famoso "Dizionario dei Sinonimi", edito da
Loescher, il quale
gli aveva chiesto per una villa un motto latino, scrisse "Verbis
facta ad verba effugienda". Durante il viaggio in macchina,
provenivamo da Milano, Alberto mi descrisse tutti i maggiori eventi
letterari, pittorici ed architettonici del periodo fascista. Capii che
mi aveva preso in simpatia per alcuni versi da me dedicati a Pound, ma
era refrattario a rispondere a qualsiasi domanda che gli rivolgessi in
relazione all'alleanza Mussolini - Hitler, per cui non ne feci più
altre. Giunti ad un area di servizio presso Parma, vidi che, sceso dalla
macchina stava litigando col giornalaio che gli negava il "Secolo
d'Italia" apostrofandolo con parole quali "lo so, lei lo nasconde,
si vergogni".
A Barga ci fu la cerimonia del premio,
raffigurato dal solito diploma e da una simpatica statuetta, che ancora
conservo, di uno scultore toscano che su di una pietra arenaria aveva
raffigurato la musa.
Conobbi allora uno dei giurati, il quale
volle a tutti i costi dirmi di essere stato l'unico sui cinque
componenti la giuria a votarmi contro. Si chiamava Ruggio.
Alberto esclamò "Ma il suo nome è un errore di grammatica".
Il mio "voto contrario" era un esperto in igronometria e ci spiegò che
era a Barga, mandato dallo Stato, perchè la cittadina è la più piovosa
d'Italia. Fu lui, "l'errore di grammatica", che, nonostante quella
splendida giornata di sole in primavera, ebbe il compito di
accompagnarci nella casa di Pascoli, semplice ed eguale a quella
descritta da lui, con i rami appesi in cucina, lo studiolo del poeta, il
piccolo orto con il pozzo e a pano terra l'urna con le spoglie del poeta
e della amata sorella Mariù. L'urna era posta nel lato ad angolo retto
rispetto allo studio e Alberto, dopo avermi raccontato tre o quattro
aneddoti sulla vita di Pascoli fra i quali quello che una volta invitato
ad un galà da D'Annunzio aveva detto alla sorella"Non possiamo
andare ... siamo troppo brutti", mi svelò una cosa molto
suggestiva.
"Vedi, mi disse, le rondini ora
fanno il nido da questa parte, dove è sepolto Pascoli, lo hanno
inseguito, perchè prima, quando era in vita nidificavano dal lato dello
studiolo". Non feci a tempo a godermi questo fenomeno e già
pensavo alla cavallina storna, alla rondine che tornava al nido, alla
capinera della quercia caduta, quando intervenne il Ruggio. "Vedete,
sproloquiò, facendoci osservare una montagna sventrata che stava lontana
e prospiciente al lato dello studiolo del poeta, la continua
estrazione del marmo da quel monte ha cambiato la direzione del vento,
per cui le rondini che prima nidificavano sotto la tettoia del lato
sinistro della casa, dove era lo studio del poeta, ora per via della
mutata direzione del vento nidificano qui di fronte". |