Festa al castello
Benché il castello si ergesse in mezzo al parco, circondato da piante d'alto
fusto, alcune esotiche, per la sua mole e per la posizione dominante sulla
valle, era ben visibile anche da lontano. Si distingueva per i muri in mattoni
rosso bordò, i balconi di marmo bianco, le ampie finestre e il grande tetto di
coppi a quattro spioventi. Aveva 20 stanze distribuite nei tre piani, un'ampia
sala e, nell'interrato i magazzini e le grandi cantine.
Era uno di quei palazzi signorili dell'epoca risorgimentale, dalle linee
architettoniche semplici, ma solido e imponente a confronto delle altre
abitazioni del borgo, umili casette in pietra. Era stato costruito attorno al
1830 dal bisnonno dell'attuale proprietario, sulle rovine dell'antico castello
medioevale crollato per avversità atmosferiche e dall'incuria degli uomini; del
"castello" aveva mantenuto il nome.
Il signorotto, proprietario terriero, e la sua famiglia che l'abitavano erano
serviti e riveriti da tutti i 500 abitanti del posto e dei territori circostanti
;
per lo più famiglie contadine che lavoravano a mezzadria i suoi trenta poderi.
Per le grandi occasioni quali; anniversari, matrimoni, fine trebbiatura, fine
vendemmia o feste religiose, nella villa si tenevano santuose feste che si
protraevano fino all'alba, fra musiche, balli, lauti pasti e libagioni.
Gli invitati erano selezionati fra parenti, notabili, amici esclusivi, signore e
signori d'alto rango, oltre a rampolli di famiglie dello stesso ceto sociale,
cioè latifondisti.
In quell'uggiosa domenica, prettamente autunnale di fine ottobre, al palazzo vi
era molto movimento, continuavano a giungere ospiti, i più a cavallo o col
calesse, alcuni anche in auto. Al tempo erano ancora pochi a possederne una.
Si festeggiava il fidanzamento ufficiale della signorina Marilinda, l'ultima
figlia del padrone, col Sig. Italico. Gli invitati, come il solito erano
numerosi: diverse coppie elegantemente vestite, alcuni scapoli figli di papà,
fra i quali anche un'ufficiale dell'esercito che con la sua alta uniforme
attirava gli sguardi delle ragazze.
Per la gente del contado questi erano avvenimenti da non perdere.
In tanti, per lo più donne e bambini del popolo, erano sulla strada nei pressi
del cancello della villa fin dal mattino a perdersi gli occhi nell'ammirare
tutta quel fior fiore di nobiltà che, alla spicciolata, stava arrivando.
I signori del "castello" ricevevano gli ospiti sulla porta di casa, mentre i
servitori si prendevano cura dei cavalli.
In casa, fra cuoche, cameriere ed aiutanti, erano una dozzina, tutti
affaccendati nei vari servizi per la buona riuscita della festa.
A dirigere i lavori era la signora Norina, coadiuvata dalle tre figlie : Armida:
trentenne, la più grande, Elisabetta, la mezzana 22 enne, e Marilinda, la
festeggiata, di anni 19. Tutte tre molto belle, colte, gentili e simpatiche.
Delle tre, Marilinda, era l'unica mora di tipo mediterraneo, capelli lunghi e
sciolti, occhi scuri, sguardo dolce e intenso; dava dei punti alle sorelle anche
per eleganza e avvenenza. Da pochi mesi avava conosciuto Italico, un giovane
alto, biodo, aitante, una diecina d'anni avanti a lei.
Era a tutti noto come ufficiale di polizia di stanza a Roma, solo in pochi
conoscevano la sua vera mansione segreta di guardia particolare del Duce.
Nel pomeriggio, dopo il pranzo, meglio dire il banchetto, quando le musiche e i
balli erano iniziati, in sella ad una fiammante moto rossa, arrivò il Sig.
Riccardo, altro giovane simpatico e di bell'aspetto, ben noto alla gente del
borgo per averlo visto tante volte a fianco a Marilinda di cui era ancora
pazzamente innamorato.
Dietro pressione paterna lei era stata quasi costretta a lasciarlo per quel
"bell'imbusto" al quale oggi faceva promessa di matrimonio.
Anche Riccardo era di famiglia benestante, ma per il padre, avere per genero
Italico, così vicino a Mussolini, era il massimo dell'onore e del prestigio, una
ghiotta opportunità da non perdere.
A Marilinda piaceva molto Riccardo, forse ne era ancora innamorata ma, per
l'educazione ricevuta, per rispetto e obbedienza, non osò contraddire il padre
e, seppur incerta, accettò la corte dal bell'Italico dagli occhi di ghiaccio.
Ma chi mai avesse invitato alla festa Riccardo non si seppe mai, si può solo
supporre.
Naturalmente, quella sera, Riccardo si sentiva come un pesce fuor d'acqua. Per
quanto si sforzasse, non riusciva a togliere lo sguardo da Marilinda, la quale
ogni tanto la ricambiava con fugaci e furtive occhiate.
Mentre Italico, dopo aver ballato si sedette a bere e conversare con alcuni
amici, Riccardo, incoraggiato dagli sguardi dolci di Marilinda, le chiese di
ballare. In quel momento i musici intonavano un bel tango che i due ballarono
con trasporto e passione, al tango seguì la mazurca ed un valzer .
La festa proseguì in gioiosa allegria. La signora Norina e le figlie: Armida ed
Elisabetta, intrattenevano gli ospiti con sapiente bon ton.
Verso mezzanotte, ad un attento osservatore, non sarebbe sfuggito l'assenza un
po troppo prolungata dalla sala di Marilinda e di Riccardo, senza che ciò non
destasse maliziosi sospetti.
Infatti, l'attento osservatore di tutti i movimenti dei due durante tutta la
serata, a partire dai balli, era Italico, che fin dall'arrivo di Riccardo non si
era perso uno dei loro sguardi espressivi, fremendo in cuor suo, di rabbia e
gelosia.
Verso le tre di notte gli ospiti un po alla volta congedandosi, lasciarono "il
Castello".
Fuori li attendeva una notte buia, umida e nebbiosa.
Il mattino successivo, lunedì verso le sette, tre ragazzini del villaggio
scendevano a piedi cantando e saltellando, con le loro borse di cartone in mano,
per recarsi a scuola giù nel paese, com'erano soliti fare, invece di percorrere
la carrozzabile troppo lunga e tortuosa, tagliarono per l'accorciatoia.
Un ripido sentiero ma che permetteva di evitare i numerosi tornanti e giungere a
scuola in 20 minuti anziché 45.
A mezzo percorso, appena sotto la scarpata di un tornante, il terzetto di colpo
si bloccò.
Un uomo giaceva scomposto a terra seminascosto dai cespugli. Gli indumenti
bagnati e infangati, gli occhi sbarrati, vicino alla testa una grossa chiazza di
sangue rappreso. Era sicuramente morto, di questo ne furono subito certi a prima
vista.
I tre ragazzi, passato il primo momento di attonito stupore, corsero via
terrorizzati e spaventati chiamando aiuto.
Accorsero subito diverse persone, arrivarono anche i carabinieri che con un telo
coprirono il cadavere e allontanarono la gente che nel frattempo continuava ad
affluire chiedendo chi fosse lo sventurato, e come era successo. Corse subito la
voce che fosse accidentalmente caduto dalla scarpata.
Pian piano il nome dell'uomo che aveva trovato la morte in un così banale
incidente si sparse veloce come un terremoto, prima nel villaggio fra quella
gente pacifica, poi nel paese e in tutta la zona.
Le persone che lo conoscevano almeno di vista, così rispondevano a coloro che
non sapevano chi fosse e perché si trovasse da queste parti : " era un bravo
giovane, un signore, veniva dalla toscana. Per circa un anno ha frequentato la
villa " Il Castello" facendo la corte alla bella Marilinda, il suo nome è
Riccardo. I signori del Castello sono stupiti, addolorati e affranti. Marilinda
appena l'à saputo si è chiusa in camera a piangere disperata.
Si dice che egli abbia lasciato la festa verso l'una, forse un po' brillo, si
sia poi incamminato nella notte buia lungo la strada e, invece di imboccare il
sentiero, sia finito per la ripida scarpata del tornante alta 5/6 metri e
rotolando giù abbia battuto la testa sulle pietre sottostanti. "
I carabinieri iniziarono le indagini, interrogando i signori del Castello, la
servitù e tutti gli ospiti della festa senza alcun risultato, anche perché
nessuno affermava di averlo visto partire. Il povero Riccardo avrebbe lasciato
la festa senza salutare nessuno, neppure Marilinda. Le indagini proseguirono per
una settimana senza approdare a nulla di concreto.
Visti i personaggi della vicenda, tutta gente per bene e al di sopra d'ogni
seppur vago sospetto, il caso fu presto archiviato come "un fatale incidente
avvenuto senza il concorso di terzi; causato solo dall'alcool e dalla scarsa
conoscenza dei luoghi da parte del soggetto", così stava scritto nel verbale dei
Carabinieri.
Ma negli abitanti del villaggio gli interrogativi, le supposizioni, il sospetto
che invece, fosse stato un delitto ben orchestrato da qualcuno e fatto apparire
come incidente, continuarono per anni. L'interrogativo più intrigante, al quale
i carabinieri avevano dato una sommaria e affrettata risposta, era il perché
fosse partito a piedi lasciando la sua bella moto nel cortile del palazzo.
La risposta, a detta di loro, era ovvia : conscio di essere alquanto alticcio,
per non rischiare, aveva preferito avviarsi a piedi fino alla Strada Statale.
Del resto, la Benemerita, scartò subito l'ipotesi del delitto anche per non aver
trovato uno straccio di movente.
Un anno dopo la "disgrazia", Marilinda convolò a nozze con Italico e andarono a
vivere "felici" a Roma, ove l'aitante poliziotto fece carriera divenendo
colonnello dei servizi segreti.
In breve tempo anche Armida ed Elisabetta si sposarono lasciando per sempre "il
Castello". Il sig. Padrone e la Signora restarono ad abitarvi per lunghi anni
ancora, soli con la servitù. Mentre l'antico borgo pian piano spopolò lasciando
le case vuote e mute. Le grandi feste cessarono e con esse si chiuse
definitivamente un'epoca.
In un giornale della capitale del 10 Dicembre 1978 , nelle pagine di cronaca
nera, per caso lessi un articolo dal titolo : "Ex colonnello dei servizi segreti
sul punto di morte confessa un lontano delitto".
Nel pezzo era descritta tutta la storia …. ; prima ai famigliari poi al prete
che al capezzale lo assistevano nell'ultima ora di vita, raccontava come tanti
anni prima, aveva ucciso per cieca gelosia un rivale in amore dopo averlo
sorpreso in intimità con la sua donna la sera del fidanzamento.
Quella notte, dopo averlo condotto, vicino alla sua automobile con una scusa,
l'uccise con un micidiale colpo di crik sulla testa, poi caricatolo in auto lo
gettò per la scarpata della strada, facendo in modo che apparisse come un
incidente.
Il narratore era uno dei tre ragazzini di quarta elementare che, in quel
lontanissimo lunedì mattino, "inciamparono" nel corpo del povero Riccardo.
A ricordarlo oggi, avverte ancora brividi sulla pelle.
I ponti del Duce
Abbarbicati su quei tralicci di ferro, sospesi a sessanta metri da terra o
meglio dal fiume sottostante, visti in lontananza sembravano cavallette.
Erano gli spericolati acrobati, verniciatori dei ponti di ferro che si
stagliavano maestosi e solenni nella loro architettura a cavallo del fiume
Savio, distanti qualche chilometro fra loro. Dalla gente della valle erano
conosciuti come " I ponti del Duce".
Quei quattro giovani venuti dalla città, per diletto facevano gli
alpinisti rocciatori e, per lavoro, la verniciatura dei ponti di ferro in
giro per l'Italia, anch'essa un'attività alquanto pericolosa ma ben
remunerata.
Per almeno sei mesi l'anno stavano appesi come pipistrelli in quel
groviglio di putrelle di ferro, strutture portanti del soprastante piano
stradale, con il pennello in mano e il secchio di vernice nera legato alla
cintola.
Avevano appaltato dall'ANAS la verniciatura dei tre magnifici ponti voluti
e realizzati nel 1922/23 da Mussolini, per favorire la viabilità nella sua
terra di Romagna, i quali, dopo 20 anni, necessitavano di una nuova mano
di vernice protettiva.
Da queste parti erano conosciuti, stimati ed ammirati dai ragazzi della
zona, ma specialmente dalle ragazze che, molto timide e riservate, senza
farsi scorgere, se li mangiavano con gli occhi.
Alloggiavano in una pensioncina del paese. Alla domenica mattina andavano
in chiesa, con lo scopo principale di vedere da vicino le ragazze che,
altrimenti, sfuggivano veloci ad ogni fortuito incontro.
In questo benedetto paese il ballo era bandito ad eccezione di qualche
rara festicciola ad invito in case private. Perciò le occasione d'incontro
erano rare.
Malgrado queste difficoltà date dalla cultura chiusa, severa, piena di
preconcetti e tabù del tempo, Giorgio, il ragazzo più aitante dei quattro,
dopo una corte assidua e spietata durata quasi due anni, riuscì a
conquistare Adele, una stupenda ragazza mora figlia del farmacista del
paese.
Giorgio e Adele bruciarono subito d'amore e di passione. Nei primi tempi i
loro incontri furono brevi e fugaci. I primi appuntamenti avvenivano solo
di giorno nei luoghi più protetti da occhi indiscreti, poi all'uscita
della chiesa o nelle vie del paese; furono sempre più intensi fino a
quando lui dovette presentarsi ai genitori di lei e dichiarare
ufficialmente il suo amore sincero per la loro adorata figliuola.
Da quel giorno fu accolto in casa come un figlio. Alla madre, Signora
Lucia, piacque subito quel ragazzo gentile e di bell'aspetto, dall'aria
romantica e dai modi garbati.
Tre sere la settimana era a casa di Adele, sotto lo sguardo vigile della
mamma. Trascorreva con lei tre/quattro ore, approfittando di baciarla nei
brevi momenti in cui la madre si assentava.
In seguito escogitarono ogni pretesto e scusa per restare soli e,
finalmente, il loro "furore" passionale represso ebbe il naturale sfogo,
consolidando così sempre più il loro rapporto d'amore.
Gli amici convennero nel considerarlo ormai "cotto e fritto a dovere".
Sul lavoro non mancarono di sfotterlo: " Giorgio, cosa ti succede ?…
Conquistare le ragazze, divertirsi con loro, innamorarsi un po', è del
tutto normale, ma perdere la testa così è da matti; anche se la tua Adele
certamente merita. Ravvediti e ritorna in te fin che sei in tempo ! "
Ma egli non sentiva ragione e rispondeva deciso: " Sì..., lo ammetto, sono
cotto di Adele e me la voglio sposare, se Dio vuole."
E così fu. Si sposarono nell' ottobre del 1942, una giornata fresca, ma
piena di sole che rese più luminosi i loro volti e più gioiosi i loro
cuori, anche se già si sentivano soffiare i venti malvagi della guerra che
sempre più minacciosa si avvicinava.
Anche il Parroco vide che erano fatti l'uno per l'altra e benedì
volentieri
quella unione; aveva visto crescere Adele, serena e mite, vicino alla
chiesa.
Gli sposini non andarono ad abitare giù in città, restarono in paese nella
villetta in mezzo al verde di proprietà dei genitori di lei.
Lui, nei mesi estivi, continuò, con dedizione, a verniciare i tralicci dei
"suoi" ponti.
Lei ad insegnare nella locale scuola elementare. Avevano rispettivamente
25 e 23 anni ed erano felici.
La pace, la serenità ed il loro quieto vivere non durò molto. Nell'
ottobre del '44 quando già il loro primogenito Matteo aveva poco più di un
anno, la loro vita e quella degli abitanti della valle fu sconquassata
dall'arrivo del fronte e dalla conseguente occupazione della zona da parte
dell'esercito tedesco, poichè il territorio si trovava entro la Linea
Gotica: ultimo strategico baluardo di resistenza e di ostacolo
all'inesorabile avanzata dal sud delle forze alleate.
Il capitano Mayer, capo del comando tedesco del settore che comprendeva il
territorio dei tre ponti, s'insediò con i suoi uomini in una villa
signorile distante cento metri dal primo ponte a monte del fiume, dopo
averla confiscata ai legittimi proprietari. Ben presto iniziò ad
intimorire quelle pacifiche popolazioni con terrificanti proclami.
Grandi manifesti bianchi scritti con inchiostro nero in italiano e
tedesco, affissi in tutti i ritrovi e uffici pubblici: bar, osterie e sul
muro della chiesa, minacciavano di morte tutti coloro che avessero
nascosto o aiutato in qualche modo gli odiati partigiani.
Se poi veniva ucciso un soldato tedesco, sarebbero stati fucilati trenta
civili scelti a caso. In altri manifesti era annunciato il coprifuoco,
durante il quale chiunque fosse stato trovato per strada o fuori casa dopo
le otto di sera sarebbe stato fucilato sul posto.
In altri ancora si intimava agli uomini ancora validi di andare a lavorare
per la T.O.T. (la loro efficiente organizzazione logistica), per scavare
trincee o rifugi antiaerei, altrimenti sarebbero stati prelevati con la
forza.
Un giorno apparve un manifesto in cui si affermava che i tre ponti sul
Savio erano stati minati per farli saltare dopo che l'ultimo convoglio
tedesco in ritirata vi fosse transitato, e di stare all'erta perché lo
scoppio dell'enorme massa di tritolo avrebbe causato una tale onda d'urto
da far crollare le case del circondario, ma che in ogni caso, la gente
sarebbe stata allertata col suono della sirena qualche ora prima
dell'accensione delle micce.
Giorgio, che fortunatamente era stato esonerato dal servizio militare
poiché unico sostegno alla famiglia, per paura di essere preso dai
tedeschi ed inviato in Germania, con altri uomini del paese si era dato
alla macchia.
Ogni tanto, di notte, furtivamente, ritornava a casa per abbracciare la
sua adorata Adele e il figlioletto Matteo che cresceva forte e sano,
ignaro dei drammi e delle preoccupazioni cui erano soggetti gli adulti, e
per restare con loro qualche ora e poi fuggire prima dell'alba, dopo aver
riempito lo zaino di provviste.
Adele era ancora una bellissima ed affascinante donna, nei cui occhi si
specchiava il cielo, ma sul suo volto olivastro dai tratti mediterranei
classici, s'intravedeva un velo di tristezza e sofferenza dati dalla
preoccupazione per gli eventi bellici in atto. Tutte le notti vegliava
ansiosa, attendendo l'arrivo del suo amato Giorgio. Lo pensava
costantemente in mezzo agli stenti, muoversi continuamente nei boschi e
dormire in qualche anfratto disteso sulle foglie come gli animali.
Prima dell'alba di un grigio mattino autunnale, mentre era ancora a letto
stretta al suo bambino, sentendo bussare alla porta ebbe un tuffo al cuore
pensando fosse Giorgio, anche se l'ora non era solita. Mentre lestamente
si vestiva, ribussarono ripetutamente con forza intimando di aprire
subito.
Aperta la porta, fecero irruzione in casa cinque soldati tedeschi con
divise nere, erano le famigerate SS. Con le armi spianate e fare
minaccioso, chiesero dove aveva nascosto il marito. Adele piena di
spavento, tenendo il suo bimbo stretto al collo, rispose che non c'era in
casa e non sapeva dove si trovava. Rovistarono in tutte le stanze:
aprirono i mobili e misero a soqquadro la casa. Il tenente che guidava il
gruppo, in perfetto italiano, le disse che suo marito era ricercato quale
partigiano e se veniva trovato sarebbe stato fucilato. Poi, dopo aver
rovistato nei solai e nelle cantine, minacciando ed imprecando se ne
andarono lasciando Adele piena di sgomento e terrore.
La notte successiva, silenzioso come un gatto, Giorgio aprì pian piano la
porta di casa, cercando di non fare rumore per non svegliare il bambino e
la moglie, ma inutilmente, perché al primo giro della chiave Adele si
destò accogliendolo a braccia aperte.
Andarono subito a letto. Ma l'incanto di quell'incontro durò solo pochi
minuti….
"Adele, questa notte devo eseguire un'importante e delicata missione, per
la quale sono stato scelto dal gruppo di partigiani che mi hanno accolto e
aiutato durante tutto il tempo che sono stato alla macchia".
" Ma allora sei anche tu un partigiano? Sei in grave pericolo, i tedeschi
ti danno la caccia".
Mentre si rivestiva, Giorgio, ignorando la domanda proseguì: " Devo andare
a fare il mio dovere per il bene del mio Paese, non preoccuparti tornerò
presto", e proseguì, " i tedeschi, da giorni, sono in precipitosa fuga
verso nord, spinti e tallonati dall'esercito alleato. Abbiamo appreso che
domani notte faranno saltare i ponti, perciò questa notte stessa andrò
all'interno della struttura del nostro ponte qui vicino a staccare le
cariche di tritolo, così, quando domani provocheranno il contatto, non ci
sarà più lo scoppio e il ponte sarà salvo. Altri due compagni faranno la
stessa cosa sugli altri due ponti."
" Giorgio non andare, ti prego! E' troppo pericoloso! Se ti scoprono non
ti vedrò più." Mentre Adele lo implorava piangendo di non andare, Giorgio
baciò Matteo che dormiva beato e dopo aver abbracciato a lungo la moglie,
coprendo di baci il suo volto bagnato di lacrime, uscì frettoloso da casa
prima che il magone di commozione che aveva in gola gli togliesse le
forze.
Era stato scelto per la sua marcata conoscenza del ponte e per la facilità
di calarsi e di muoversi all'interno di esso. Egli ne fu entusiasta e
onorato.
La notte non era troppo buia; in cielo massicci nuvoloni coprivano a
tratti la mezza luna, ma la visibilità era sufficiente. Portando a
tracolla una lunga fune, con determinazione ma conscio del pericolo, si
avviò circospetto a salvare il "suo" ponte che per mesi aveva curato con
tanto amore.
Una lunga teoria di camion carichi di soldati, autoblindo, carri trainati
da cavalli, stavano scendendo per la strada statale e si accingevano a
transitare sul primo ponte.
Era la coda delle truppe tedesche in ritirata, provenienti dal Lazio e
dalla Toscana, incalzati dalle forze alleate.
Scendere nel fiume, risalire la spalla destra del ponte, issarsi con la
corda entro l'angusto passaggio da cui si accedeva all'interno del grande
traliccio, ci avrebbe impiegato ancora un'ora. Guardò l'orologio: indicava
le tre e dieci. Di guardia al ponte non c'era nessuno.
Erano da poco passate le quattro, quando individuò la carica principale di
esplosivo, ben fissata ad una grossa trave portante. La trovò senza troppe
difficoltà. Era un voluminoso involucro di tela cerata: una trentina di
chili di tritolo a cui erano collegati due cavetti di filo elettrico che
avrebbero portato la corrente al detonatore e provocato lo scoppio. In
quella precaria posizione occorrevano circa quindici minuti per staccare
quella e l'altra carica che notò essere posata a dieci metri sopra un
longarone parallelo.
Intanto il ponte oscillava per il peso dei mezzi che lo stavano
attraversando.
Circa alla stessa ora, il comandante Mayer ricevette una telefonata: era
avvisato che stava per transitare sul primo ponte l'ultimo convoglio di
truppe; un anticipo sul previsto, di stare pronto per farlo saltare subito
dopo.
Al suo interlocutore, di grado superiore, obbiettò chiedendo di poter
rinviare di qualche ora l'operazione per aver modo di suonare le sirene e
avvisare la popolazione dei dintorni, ma la risposta fu perentoria : " Far
brillare le cariche fra dieci minuti, senza suonare alcun allarme. E' un
ordine ! "
Esattamente alle ore quattro e un quarto il contatto fu innescato ed un
enorme boato squarciò l'aria, rimbombando nella valle… . La gente del
paese e dei casolari si svegliò terrorizzata. Tutti i vetri delle case
andarono in frantumi. Il bel ponte di ferro era crollato.
Ancora una manciata di secondi e Giorgio avrebbe staccato l'innesco.
Purtroppo non fu così. Il suo corpo fu trovato nel fiume dai genieri
inglesi in mezzo a quel groviglio di ferro contorto. Il suo generoso
sacrificio,come quello di tanti altri partigiani, non fu comunque vano.
Viene ancor oggi ricordato assieme a molti altri giovani che lottarono e
morirono per la Libertà.
Adele, distrutta e affranta, non si riprese più, restò prigioniera del suo
immenso dolore e, trasferitosi poi a Roma con suo figlio, seppure ancora
giovane non tentò o non riuscì a rifarsi una vita, continuò a vivere solo
per lui.
Da diversi anni, l'ing. Matteo torna da Roma sui luoghi della sua ingrata
infanzia, conducendo il proprio figlioletto sul ponte, ricostruito in
pietre e cemento nel 1950, a ricordare il rispettivo eroico padre e nonno.
Le pecore di Giuseppe
Era un giovedì, 23 o 24 settembre 1944, la guerra, da mesi, manteneva il
fronte sulle queste nostre contrade. Postazioni tedesche con nidi di
mitragliatrici, trincee e batterie erano sparse un po' ovunque pronte ad
accogliere l'arrivo del nemico.
Quel micidiale mostro di guerra dell'esercito tedesco sferrava gli ultimi
colpi di coda prima di abbandonare l'Italia; anche da questa parte della
"Linea Gotica", grosso baluardo di resistenza all'avanzare dal sud delle
forze alleate che lentamente ma inesorabili occupavano sempre più terreno.
Gli scontri e le conseguenti battaglie si susseguivano intense e cruente.
Le rappresaglie, gli eccidi di persone civili inermi o d'intere comunità,
come a Tavolacci dove furono trucidate 64 persone, erano purtroppo
frequenti.
Attraverso le dolci colline della media e alta Valle del Savio, ai due
lati della strada statale n° 71, gruppi di soldati tedeschi, come antichi
predatori, scorrazzavano nei borghi, nei villaggi, nelle case sparse
razziando cose, animali e uomini. Rabbiosi e crudeli perché intuivano
l'imminente definitiva sconfitta.
Gli animali da cortile servivano loro per rifocillare le truppe che da
mesi non ricevevano più scorte e rinforzi. I bovini, per trasportare carri
di munizioni e vettovaglie. Gli uomini (per lo più contadini strappati
dalle loro case o dai campi) erano condotti in Germania a lavorare nelle
fabbriche rimaste a corto di personale, giacché tutti i loro maschi oltre
ai 14 anni erano stati inviati sui vari fronti di guerra.
Quando queste pattuglie, o per meglio dire " bande", passavano per il "
rastrellamento" (così era chiamata la loro razzia), la gente dei villaggi
si allertava a vicenda del loro imminente arrivo con segnali convenzionali
o passaparola.
Quel giorno anche nel borgo chiamato "Cassandra" giunse l'allarme che in
breve, come un tam tam, echeggiò di casa in casa : " una pattuglia di
soldati tedeschi sta rastrellando Sorbano Alta poi verrà qua da noi …,
stare all'erta ! "
Immediatamente, gli uomini sotto i 50 anni, dopo aver messo poche cose
nello zaino, velocemente si dileguarono verso il bosco.
Le donne e gli anziani che avevano mucche, buio e asini li condussero
nelle macchie vicine, nascondendoli in mezzo a folti cespugli.
L'agricoltore Giuseppe d'anni 56, già da qualche tempo, aveva nascosto il
grano in diverse damigiane e sotterrate nel campo, così pure un baule di
biancheria (il corredo da sposa della moglie Mariuccia). Non aveva bovini
e né l'asino ma solo polli, conigli e due pecore; queste erano un grosso
provento per la sua famiglia : davano formaggio, lana e agnelli, perciò
sarebbe stato un grosso danno economico se le avessero
" razziate " i soldati tedeschi.
Fu così che decise di nasconderle in un luogo sicuro. C'era poco tempo, i
soldati stavano per arrivare. Sotto il porcile (allora senza inquilino)
c'era un angusto vano scavato in parte nella roccia che non veniva usato,
la cui piccola porta d'entrata non era visibile, essendo esposta dalla
parte di un dirupo coperta da ortiche e rovi.
Ritenendo fosse questo il posto ideale, con difficoltà vi condusse le
pecore, vi portò erba e fieno a volontà, sperando vivamente che non
avessero belato.
Ai suoi tre bambini fu imposto di stare chiusi in casa, buoni e zitti.
Poco dopo arrivarono, erano in cinque, armati di fucili e pistole.
Giuseppe, con la barba incolta di mesi per sembrare più vecchio, e sua
moglie Mariuccia li attendevano sotto il portico. A voce alta e piglio
deciso, uno di questi apostrofò Giuseppe in tedesco, chiedendogli l'età e
se aveva visto dei partigiani in zona. Mentre gli altri, avvicinatisi al
porcile, chiedevano dov'era il maiale e se aveva altri animali.
Fortunatamente, Giuseppe, conosceva abbastanza bene il tedesco (nel 1918
era stato prigioniero in Austria e successivamente aveva lavorato in
Germania). Rispose di avere 65 anni, di non aver mai visto dei partigiani
da quelle parti, che il maiale era stato venduto e non possedeva altri
animali perché era una famiglia povera la sua.
Uno di loro, furibondo, lo minacciò con la pistola e, afferratolo per il
petto, gli urlò che lo avrebbe ucciso se non diceva la verità.
A quel punto Mariuccia, d'istinto, si gettò sulla mano del militare che
impugnava l'arma cercando di strappargliela con tutta la sua forza, senza
riuscirvi.
Il tedesco reagì con rabbia scaraventandola a terra, poi urlando e
imprecando, scaricò la pistola sulle galline che razzolavano nel cortile
uccidendone tre.
Intanto un soldato era entrato in casa a rovistare nelle stanze e dentro i
pochi mobili, un altro, gironzolando per il cortile notò in terra delle
palline scure, i tipici escrementi delle pecore; puntando il fucile al
petto del povero Giuseppe, perentoriamente voleva sapere dove erano
nascoste. In quel momento una muta preghiera gli sgorgò spontanea dal suo
cuore : " Signore ! Fa che le pecore non belino ! "
Anche a quella violenza Giuseppe non reagì, mantenne la calma e raccolto
tutto il suo coraggio cercò di convincerli che non possedeva né pecore né
altro bestiame oltre ai polli e ai conigli.
Quello, per lui, fu certamente un gran brutto momento, denso di tensione e
paura, perché se le pecore, che erano vicinissime, avessero emesso anche
un solo belato, Giuseppe e forse tutta la sua famiglia sarebbero stati
fucilati sul posto senza pietà. Curioso ma vero: la vita di una famiglia
che dipendeva da un belato.
Fortunatamente, le brave e buone pecore di Giuseppe restarono mute per
tutto il tempo, quasi consapevoli della gravità dell'evento.
Dopo aver messo a soqquadro capanni e ripostigli attorno a casa, ed essere
entrati e usciti più volte dal porcile (sotto di cui stavano le pecore)
cercandole affannosamente, rivolsero con ira altri avvertimenti e minacce
ad entrambi i coniugi atterriti, poi, raccolte le tre galline morte ed un
paio di conigli se n'andarono verso il vicino casolare a ripetere le loro
brutalità e barbarie con altre persone inermi.
Quando, scampato il pericolo, Giuseppe e sua moglie, ancora tremanti di
paura, rientrarono in casa, trovarono i loro tre figli: un maschietto di
otto anni, e le due femminucce di sei e quattro anni, terrorizzati,
rannicchiati in un cantuccio a fianco del camino, spaventati e ammutoliti
avendo assistito a tutta la brutale scena.
Da dietro le persiane semichiuse della casa di fronte, altre due donne
trepidanti, non si erano perse un solo attimo del fattaccio e, subito
accorsero a rincuorarli.
Le drammatiche immagini di quel giorno, al maschietto, oggi felice nonno,
gli sono rimaste stampate nella memoria e così le racconta ai posteri.
Vito & Xentano
Inseparabili, l'uno l'opposto dell'altro come il comico e la spalla,
entrambi una faccia della stessa medaglia. Erano sempre in sintonia:
per intendersi bastava un gesto. Il loro agire sembrava
sincronizzato, neanche fossero marito e moglie. Due personaggi
mitici, rimasti nella memoria di tanta gente della vallata per la
loro grande umanità e simpatia. Senza timore di smentita, essi furono
per molti anni la coppia più affiatata e perfetta della SITA (Società
Italiana Trasporti Automobilistici).
Due indimenticabili e diligenti operatori del trasporto pubblico in
vallata.
Vito: il bigliettaio o conduttore, Xentano: l'autista. Sempre allegri
e gioviali con tutti. Impeccabili nelle loro divise e berretto
d'ordinanza.
Il loro solito ed immutato tragitto era Bagno di Romagna-Cesena e
ritorno; due corse al giorno e la terza con capolinea Sarsina, loro
residenza, da dove ripartivano ogni mattino alle sei : una trentina
di fermate obbligatorie e diverse altre occasionali, circa tre ore
per corsa. Una vera faticata da non paragonarsi a quella dei pur
bravi autisti di corriera di oggi, se si considerano i mezzi di
allora e la vecchia malandata strada statale Umbro-Casentinese n° 71,
con le sue innumerevoli curve e tornanti, per non dire dell'estremo
disagio da affrontare nei mesi invernali.
Non lesinavano mai a nessuno un sorriso, una battuta scherzosa oltre
a galanterie e complimenti alle donne, specie se belle. Ancora mi
chiedo come potessero essere sempre, a tutte le ore, di buonumore,
contagiando in tal senso anche i passeggeri più "musoni".
Viaggiare nella loro corriera era un vero piacere.
Alle fermate potevi vedere gente che scendeva dalla SITA col sorriso
stampato sul volto per l'ultima freddura di Xentano e l'immancabile
commento di Vito, che segnandosi la tempia con l'indice diceva
semiserio: " Non dategli retta, è svitato di natura ! "
Su di loro si raccontano ancora le storie e gli aneddoti più curiosi;
eccone uno fra i tanti : un bel giorno di Aprile, a Cesena salì sulla
SITA in partenza per la Valle del Savio un'avvenente, giovane e
distinta signora. Xentano, già seduto al posto di guida, la salutò
per primo, mentre Vito, avvicinatosi per farle il biglietto le chiese
da dove provenisse e dove fosse diretta. "Provengo da Milano e vado a
Sarsina, sono la nuova direttrice del Museo Archeologico Statale
della Città." Partita la corriera, Vito si sedette a fianco e
continuò a conversare amabilmente con lei. Xentano, intanto,
sbirciava dallo specchietto retrovisore mugugnando fra se.
A pochi chilometri da Cesena, Vito faceva notare alla Signora la
distesa di pescheti in fiore ai due lati della strada simile ad un
mare tutto rosa. Uno spettacolo della natura, puntuale ogni primavera
per pochi giorni, che appaga l'occhio e intenerisce l'animo.
Mentre lei ammirava estasiata, di colpo la corriera accostò a destra
e si fermò in piena campagna fra i pescheti. Vito, allarmato, chiese
cosa fosse successo. "Abbiamo una gomma a terra ! " Fu la risposta di
Xentano, sceso immediatamente a terra. Mentre Vito stava per
raggiungerlo, egli, lesto, già risaliva con in mano un rametto di
pesco fiorito che cavallerescamente offrì alla bella signora
milanese, lasciando il povero Vito di stucco, poi, messosi di nuovo
alla guida, ripartì col suo solito ghigno beffardo in volto, mentre i
passeggeri applaudivano.
Qualche volta capitava che salivano a bordo contadine delle contrade
con cesti o sporte pieni di uova, polli, piccioni e conigli da
vendere al mercato, ma senza una lira in tasca. In questi casi Vito
soprassedeva chiudendo un occhio e rinviando il pagamento del
biglietto al loro ritorno, dopo l'avvenuta vendita della merce.
Negli anni 50/60, anni della grande emigrazione, gli anni del
dopoguerra, quando la miseria sradicava migliaia di famiglie dalla
ingrata collina per la pianura o verso le grandi città alla ricerca
di lavoro e con la speranza di una vita più dignitosa, e tante altre
migliaia di persone, per lo più giovani, per lo stesso motivo,
emigravano in Svizzera o Germania, la SITA della rinomata Ditta "Xentano
& Vito" spesso si riempiva di giovani con valigie di cartone che
scendevano dalla valle diretti a Chiasso.
Molti, per sciogliere il magone dell'addio ai genitori, ai
famigliari, alla casa e al paese, in corriera cantavano a
squarciagola fino a Cesena.
Altri, diciottenni come me, mai allontanatisi dal paesello natio, più
romantici e malinconici, se ne stavano seduti silenziosi e muti col
cuore gonfio di pianto e nostalgia, guardando, come fosse l'ultima
volta, il noto paesaggio che scorreva via veloce.
Vito, che intuiva il nostro stato d'animo, per stemperare la
tensione, con fare fintamente burbero lanciava le sue battute : "
Ragazzi avete svuotato la dispensa di casa ? Dal peso e dall'odore di
salame che emanano le vostre valigie si direbbe di sì. Nella tua,
Stefano, deve esserci anche del buon formaggio di pecora ben
stagionato e qualche bottiglia di Sangiovese. E non dirmi di no,
conosco bene i tuoi genitori ! E chi sà quante maglie di lana vi a
messo dentro la mamma per timore che prendi freddo." Xentano, da
parte sua, durante le fermate, raccontava qualche barzelletta.
Giunti alla stazione di Cesena ci salutavano con un : " Av salut
raghez, a staltr'an, quand' arturnerì sla valisa pina ad ciculéta". (
Arrivederci ragazzi al prossimo anno, quando ritornerete con la
valigia piena di cioccolato.)
Storia di un miracolo
Il male che da un anno affliggeva Francesco restava ancora misterioso.
Dopo tante visite mediche specialistiche, innumerevoli analisi,
radiografie e TAC, la diagnosi era ancora incerta.
L'ansia, la tensione e la paura montavano ogni giorno di più al pari
dell'intensificarsi dei dolori all'addome. La preoccupazione investiva
anche la moglie e i figli, la serenità della famiglia era compromessa.
Finalmente, dietro consiglio del medico di famiglia, fu presa la decisione
di consultare un noto professore di un centro ospedaliero del nord Italia.
Così, munito di tutte le cartelle cliniche collezionate negli ultimi mesi,
Francesco accompagnato dalla moglie Agnese partirono fiduciosi e
speranzosi.
Consultate le carte, il professore, consigliò un immediato ricovero nel
suo grande e qualificato ospedale, prospettando un delicato intervento
chirurgico.
Dopo 10 giorni di degenza e dopo aver ripetuto tutte le analisi di
laboratorio, fu formulata la diagnosi, (spesso nefasta) : tumore al
pancreas, in fase avanzata.
Francesco, viste le facce e gli atteggiamenti dei famigliari, intuì le
gravità del suo stato, la delicatezza dell'intervento al quale a giorni
sarebbe stato sottoposto e l'incertezza se fosse stato risolutivo, pregava
incessantemente.
Tutti i giorni e durante le ore insonni della notte il suo spirito era
rivolto al Signore. Pregava con fervore chiedendo l'intervento per la sua
guarigione a Santa Maria Goretti, della quale era particolarmente devoto,
avendo in comune con lei lo stesso paese natale Corinaldo nelle Marche.
Con l'approssimarsi dell'intervento si intensificarono le sue preghiere,
mentre le sofferenze aumentavano e il suo corpo si debilitava, il suo
spirito era rivolto costantemente a Gesù e a S. Maria Goretti.
La notte precedente l'intervento sognò una bella fanciulla dodicenne
vestita di bianco che incontrava lungo un sentiero di campagna costeggiato
da caspi di ginestre in fiore che, dal paesello conduceva alla vecchia
fonte dell'acqua. Nel sogno anche lui era adolescente.
Serena e sorridente, con occhi limpidi e luminosi, voce soave, le disse: "
Ciao Francesco, non temere per l'esito dell'intervento, stai sereno,
continua a pregare, non hai niente di grave, presto tornerai a casa con la
tua famiglia".
Il mattino successivo la visita mattutina dei medici trovarono Francesco,
rilassato, sereno, viso colorito, disteso e senza dolori. Seguì
immediatamente una visita collegiale ed un consulto col professore e
l'intervento fu sospeso. L'esame con la TAC che seguì risultò negativo, il
tumore non risultava più visibile, e perciò l'intervento non era più
necessario. " Per noi Il paziente è inaspettatamente e misteriosamente
guarito. Il tumore è incredibilmente scomparso ". Questa fu la sibillina
sentenza del professore .
E, rivolto a Francesco, che lo stava ringraziandolo per le premurose cure
prestate : " Lei deve avere un potente Santo protettore in Cielo a cui
deve essere grato per il prezioso dono che le ha fatto, ma se i santi ci
togliessero tutti i pazienti dal letto operatorio noi chirurghi perderemmo
il nostro lavoro".
Prima di lasciare l'ospedale raccontò per la prima volta il sogno alla
suora che spesso era venuta al suo capezzale per incoraggiarlo, essa fu
convinta che la ragazzina apparsagli in sogno non poteva essere che Maria
Goretti
La stessa sera Francesco era seduto sul divano di casa e accendendo il
televisore, con sua sorpresa, la Rai trasmetteva il Film sulla vita della
Santa che lo aveva miracolato :
" cielo sulla palude". del 1949. Commosso e riconoscente, con le lacrime
agli occhi, segui sullo schermo tutta la storia.
Storia vera raccontatami da Suor Lucia che l'ha ascoltata per prima dal
miracolato ancora oggi vivente.
Potenze malefiche
"Cari parrocchiani, dalle Sacre Scritture e dal Vangelo, apprendiamo
che il diavolo esiste ed opera incessantemente nel mondo, tutti i
giorni possiamo notare come la sua opera demolitrice dello spirito e
delle coscienze agisca sugli uomini rendendoli succubi al suo
malefico potere.
Un esempio sono le guerre, l'odio fra persone anche dello stesso
quartiere e addirittura dello stesso sangue, l'egoismo, le
perversioni sessuali ecc…: Anche nella nostra piccola parrocchia, con
il suo influsso malefico sta operando in alcune persone in modo molto
evidente.
Ciò è reso visibile dal fatto che alcuni parrocchiani non vengono più
in chiesa e non si accostano più ai Sacramenti, e quel che è peggio
bestemmiano continuamente il Signore Gesù e la Sua Santissima Madre
Maria con epiteti orrendi, blasfemi e irripetibili, che solo il
demonio più suggerire…..; preghiamo tutti affinché l'opera
demolitrice del diavolo cessi e queste anime ritornino presto
all'ovile del Buon Pastore… ."
Questo era uno stralcio della predica che Don Olinto stava svolgendo
dall'altare quella domenica mattina durante la Messa. Già da un po'
di tempo il tema dell'omelia domenicale era sempre lo stesso : "Il
diavolo ", che a suo parere si stava impossessando dell'anima dei
suoi parrocchiani.
Anche altri preti, in quel periodo, consideravano il diavolo artefice
e causa di tutti i mali morali e materiali che portavano molti
cristiani dritti all'inferno.
"Molti sono i chiamati e pochi saranno gli eletti", " Se non vi
convertirete perirete nel fuoco della Geenna", erano la frasi del
vangelo, dette da Gesù, su cui facevano perno le loro prediche.
Trascurando l'aspetto della misericordia e l'immensa bontà di Dio nei
confronti dei suoi figli, fatti a sua immagine e somiglianza, per i
quali suo Figlio si è fatto uomo e poi crocifisso per riscattarli dal
male e, con la risurrezione, portarli tutti all'eterna salvezza.
All'uscita dalla chiesa molti discutevano a bassa voce su quanto
detto dal Don Olinto nella predica, e avanzavano nomi di persone
conosciute che non frequentavano più la chiesa, che proferivano
maldicenze sui preti e bestemmiavano.
Nell'elenco di questi "peccatori incalliti" della parrocchia,
occupava da tempo il primo posto Costantino, il proprietario delle
macchine trebbiatrici, con le quali in luglio e agosto girava tutta
una vasta zona della collina ai lati della valle, passando per ogni
podere a trebbiare il grano o l'orzo.
In effetti era famoso non solo come l'uomo delle trebbie, ma anche
per le innumerevoli bestemmie che sciorinava continuamente e per il
suo caratteraccio iroso e focoso. Anche quelle poche volte che era
calmo e quasi tranquillo, intercalava una bestemmia ad ogni parola in
un una normale conversazione, che spesso, diveniva una accalorata e
colorita discussione, dato che egli voleva sempre ragione.
Se poi qualcosa andava storto, come quando, durante la trebbiatura
del grano, un pezzo della trebbiatrice si rompeva, apriti cielo, o
meglio apriti inferno, ne sgranava dei "rosari" interi, contro Dio,
la Madonna ed i Santi, di quelle tremende che facevano rabbrividire.
Quando quella furia si scatenava, la mamme trascinavano via i
bambini, portandoli lontano da quell' "orco" che vomitava senza
sosta, orrende bestemmie e parolacce.
"Dovrebbero portalo di forza da San Vicinio a Sarsina e mettergli la
catena al collo, affinchè siano allontanati tutti i demoni che ha in
corpo "
Diceva la gente fra se.
Un giorno che la trebbia trainata da due paia di buoi, veniva
trasportata da un podere ad un'altro attraverso uno stretta e ripida
mulattiera alquanto sconnessa, in un difficile passaggio, prima
oscillò paurosamente poi si ribaltò di schianto per la scarpata.
La caduta causò molti gravi danni alla struttura in legno della
macchina, Costantino scattò con urli sovrumani e, mettendosi in
ginocchio per terra con le mani rivolte al cielo come per pregare,
per venti minuti proferì a squarciagola più di mille bestemmie, una
più terribile dall'altra, dimostrando anche una perfida fantasia.
Alcune, volte don Olinto incontrandolo, lo aveva esortato a
controllarsi, perché oltre a perdere l'anima, procurava grande
scandalo in tutta la parrocchia ed il circondario, con tutto quel
veleno che usciva dalla sua boccaccia.
"Costantino, il tuo è un viziaccio maledetto che devi smettere se
vuoi salvarti l'anima, altrimenti le porte dell'inferno si
spalancheranno per te !"
Lui, con asprezza, rispondeva pressappoco così:
"Vai al diavolo, corvo nero ! Non rompermi il … ! Le prediche vai a
farle in chiesa non a casa mia, io bestemmio quanto mi pare e piace,
puttana …., porco ….!."
Il povero Don Olinto si allontanava scosso e addolorato recitando
giaculatorie in riparazione.
Un venerdì santo, prima della Pasqua, Costantino si trovava nel
capannone dove stavano le trebbie, intento a ripararne una. Benché
fosse solo, ad ogni bullone che mal si avvitava, alla chiave che gli
scivolava di mano, alla martellata che involontariamente si era dato
sulla mano, sgranava come sempre imprecazioni e centinaia di
bestemmie che " bruciavano l'aria" come si diceva da quelle parti.
Fra Domenico, il vecchio eremita del Monte Carpegna, presso cui mi
trovavo ospite, che da anni aveva lasciato il convento ritirandosi a
vivere solitario nell'eremo in cima a quest'aspro monte, fece una
lunga pausa e con voce sommessa proseguì nel raccontare la storia di
Costantino che aveva conosciuto molti anni prima ai piedi del
Falterona, proseguì : "mentre Costantino, preso dall'ira per i
piccoli accidenti che gli stavano capitando in quel venerdì santo,
continuava a snocciolare imprecazioni e bestemmie rivolte a tutte le
divinità del Cielo, si sentì chiamare ripetutamente per nome.
Stizzito, per essere spiato e disturbato in quel frangente, chiese a
gran voce:
" Chi è che mi vuole ?! "
La voce che proveniva dall'esterno del capannone riprese:
"Costantino vieni fuori che ho bisogno di te ".
Egli, inviperito, continuando a maledire e bestemmiare andò sulla
porta. Eretto davanti a se, in piena luce del giorno, stava un
giovane alto, distinto, elegantemente vestito con abito scuro e una
valigetta ventiquattrore in mano.
"Chi siete e cosa volete da me, non vi conosco ma vi dico subito che
non mi occorre nulla". Fu pronta la risposta.
Il giovane dai capelli neri, occhi chiari e freddi, con voce
suadente, disse:
"Sono un amico, e come tale sono venuto per aiutarti. So che ti sono
capitate diverse disgrazie con le macchine trebbiatrici e le cose non
ti vanno troppo bene, io posso fare in modo che tutto vada per il
meglio e in breve tu possa arricchire e vivere da gran signore tutta
la vita….".
Interrompendolo, Costantino, alquanto arrabbiato ma anche incuriosito
da quanto questo giovane sconosciuto, dai modi garbati ma che gli
dava del tu, andava dicendo, riprese:
"Ho già detto che non mi serve nulla, ma se fossi interessato alle
vostre proposte cosa vorreste in cambio ?"
Il giovane trasse dalla borsa nera un foglio stampato con inchiostro
rosso e lo porse a Costantino:
"Devi solo opporre la tua firma su questo contratto", così dicendo
gli allungò anche la penna.
Costantino preso il foglio, inforcò gli occhiali e si accinse a
leggere le condizioni di questo strano contratto. Subito gli venne da
pensare che il giovane fosse un rappresentante di qualche ditta che
costruiva le macchine trebbiatrici e avendo saputo che le sue erano
vecchie ed un po' malandate, fosse lì per proporgli l'acquisto di una
nuova.
Era ancora alla prima riga, quando iniziò a sbiancare in volto, le
gambe a tremare, la lingua e la gola seccarsi.
Col foglio in mano, prima ancora di alzare la testa per guardare
meglio il giovane sconosciuto che ancora stava in piedi ad un passo
da lui, il suo sguardo si posò sui suoi piedi.
Invece delle scarpe, oltre l'orlo dei pantaloni spuntavano due grosse
zampe pelose di caprone. Gli occhi non erano più chiari ma rossi come
due carboni accesi.
Il terrore lo assalì improvviso bloccandogli ogni reazione.
Voleva urlare, ma dalla gola secca uscì solo un rantolo. Poi si sentì
afferrare saldamente come da una morsa e sollevare da terra come un
fuscello.
Avvinghiato da quell'essere che sghignazzando lo trasportava sempre
più in alto superando le cime dei monti, si sentiva morire.
Restando cosciente, benché atterrito dalla paura, pieno di nausea,
gli parve di sorvolare monti e valli in un attimo.
E l'altro sghignazzando come divertito, urlava: "Costantino, ormai
sei mio, quante volte mi hai chiamato e invocato… eccomi sono venuto
a portarti con me !"
Costantino prima di perdere i sensi ebbe la forza di invocare il
Signore:
"Gesù Cristo salvami ! E ancora :".Mio Dio perdono ! Perdono !
Perdono !"
Con un versaccio bestiale, l'essere abominevole di colpo lo mollò.
Egli precipitò come un sasso da un'altezza considerevole, ma a pochi
metri da terra perse velocità e la forza d'attrazione della terra
cessò, probabilmente per il tempestivo intervento dell'angelo
custode, planò dolcemente come una piuma, sano e salvo.
Non era stato un incubo. Si trovava realmente in vetta al monte
Falterona, a cento chilometri da casa. Il volto stralunato e i
capelli di colpo bianchi come la neve.
I famigliari solo a sera, non vedendolo arrivare per la cena,
iniziarono a preoccuparsi. Lo attesero tutta la notte e al mattino
denunciarono ai carabinieri la misteriosa scomparsa.
Non sapendo cosa pensare, lo cercarono ovunque per una settimana
senza risultato.
A terra davanti al capannone degli attrezzi furono trovati uno strano
foglio di carta scritto in latino con inchiostro rosso, un paio
d'occhiali rotti ed una penna stilografica d'oro.
Don Olinto, saputo della sparizione di Costantino, era subito accorso
a consolare i famigliari.
La moglie piangendo, gli diede il foglio chiedendogli di tradurre il
testo per sapere se poteva esserci un nesso con la scomparsa del
marito.
Mentre Don Olinto leggeva, un brivido le attraversava le membra;
quello scritto era un vero e proprio "diabolico " contratto"
notarile, che così recitava :
"Io sottoscritto Costantino N., nato il 06 Giugno 1910 nel pieno
delle mie facoltà mentali dichiaro di odiare Dio, la Madonna, e tutti
i Santi, abiuro il battesimo, la cresima e l'appartenenza alla Chiesa
Cattolica Romana, ciò premesso cedo la mia anima a satana il quale,
alla mia morte, potrà disporre come crede, in cambio mi saranno
elargite enormi ricchezze, onori, potere e soddisfatto ogni altro
desiderio, qui non menzionato.
Firmato e sottoscritto dalle parti: Lucifero e Costantino."
Costantino, girovagò come un'automa per due giorni, finchè lacero e
sfinito bussò alla porta del convento di frati Cappuccini che si
trova ai pedi del monte Falterona.
Restò con loro un mese. Quella tremenda esperienza lo aveva distrutto
nell'animo e nel corpo. I Frati, fra loro, c'era al tempo, anche il
mio interlocutore Fra Domenico, lo aiutarono a sollevarsi nello
spirito e nel corpo, raccolsero tutta la sua storia, che raccontò
loro in tutti i particolari.
Per giorni pianse amaramente, pentendosi di tutte le sue colpe fatte
con intenzione e odio.
Avrebbe voluto fermarsi per sempre in quel luogo, per scontare tutti
i sui peccati, ma i frati, saggiamente lo esortarono a ritornare a
casa dai suoi famigliari che non avevano cessato di sperare nel suo
ritorno.
Un mattino presto, la moglie udì bussare alla porta, era il suo
Costantino, o meglio, ben presto scoprì che non era più l'uomo
irascibile e cattivo che conosceva, ma un uomo pio e mite come
un'agnellino; non solo non bestemmiava più, ma non proferiva parola
alcuna.
Aveva fatto voto di non parlare per il resto della sua vita.
Morì serenamente nel 1983, in pace con Dio e con tutti, aveva 73
anni. Dal giorno del suo ritorno a casa aveva espiato, restando muto
per diciotto anni.
Xentano a pesca
Le sue barzellette erano irresistibili, le battute esilaranti, i suoi
scherzi sono rimasti proverbiali. Diverse persone che l'hanno
conosciuto, ancora oggi raccontandoli suscitano l'immediata risata.
Nei giorni di riposo, Xentano, indimenticabile personaggio Sarsinate,
come tanti altri andava al fiume a pescare.
Avendo in mente l'architettura di un ennesimo scherzo, per alcune
settimane, nei bar del paese sparse la voce che da un po di tempo
egli andava al fiume senza aver rinnovato la licenza di pesca.
I compagni di bevute lo mettevano in guardia:
Attento Xentano: le guardie venatorie non solo verificano se i
cacciatori siano in regola, ma vanno anche lungo il fiume a
controllare le licenze dei pescatori ".
Come tutte le domeniche estive anche quel giorno, di buon mattino,
andò al fiume munito di tutta l'attrezzatura per la pesca, calzando
enormi stivaloni di gomma alti fino alla coscia e l'immancabile
sigaretta fra le labbra.
Si piazzò ai margini di un ampio gorgo, a valle del palazzo comunale
di Sorbano, appoggiò una canna fra due pietre e, stretta fra le mani
l'altra, più lunga, adatta ai lunghi lanci dell'esca al centro del
gorgo, e si mise in vigile attesa.
Era una limpida mattinata che si annunciava divenire una giornata
molto calda.
Più a valle si potevano notare altri pescatori, forse dei bolognesi,
i quali, in quegli anni, erano soliti venire a pescare nel nostro
fiume Savio. All'alba erano già sul posto di pesca, ciò significava
che, tenuto conto dei 100 chilometri di viaggio, si erano alzati alle
tre di notte.
Verso le dieci, Xentano, intento a pescare barbi nel gorgo grande, li
vide apparire; avanzavano curvi e circospetti ai margini del letto
del fiume fra la bassa vegetazione lacustre. Non vera alcun dubbio,
erano le due guardie venatorie che da un po di tempo imperversavano
lungo il fiume cogliendo in fallo diversi pescatori sprovvisti di
licenza o multavano per il pescato fuori misura.
Xentano continuò a fissare il suo galleggiante senza dar segno di
averli scorti ma, con la coda dell'occhio controllava il loro cauto
avvicinamento, era certo che questa volta avevano adocchiato proprio
lui.
Del resto si aspettava una loro visita avendo sparso ai quattro
venti, o meglio, alle quattro osterie del paese, che in barba alle
guardie del fiume, lui andava a pescare senza licenza.
Quando vide che i due erano a 30/40 metri, lasciò andare le due canne
e si mise a correre a gambe levate verso valle lungo il letto del
fiume saltellando sopra le lucide pietre.
"Fermati Xentano, fermati sappiamo che sei un bracconiere dobbiamo
multarti !"
Così dicendo lo inseguivano correndogli dietro,
" Amici, ce l'ho la licenza ! " Urlò Xentano proseguendo la corsa
sempre più velocemente,
" Fermati allora e lascia che controliamo !"
Dopo aver percorso alcune centinaia di metri, Xentano di colpo si
fermò. I due ansanti e trafelati in breve lo raggiunsero e lo
afferrarono per le braccia temendo che scappasse ancora.
"E' un po che fai il furbo con noi, ma oggi ti abbiamo alfine
"pescato" con le pive nel sacco. Sai quanto ti becchi di multa
adesso…? Esattamente cinquantaseimilaseicento lire." "Ma io sono in
regola, ve l'oh già detto !" Ribattè pacato Xentano e, infilata la
mano nella tasca del corpetto estrasse la licenza e la consegnò alle
guardie le quali, esterrefatte. notarono che il documento era in
perfetta regola, come aveva affermato.
"Ma allora perché sei fuggito via e ci hai fatto penare per
acciuffarti ?"
La risposta sibillina di quel buontempone di Xentano fu lapidaria e
come una pugnale trafisse da parte a parte le guardie: " Cari amici,
da quando in qua è vietato correre lungo il fiume ? "
Contatto ravvicinato
Penso che nel corso della vita vi siano per tutti quei giorni "speciali"
nei quali, per un particolare stato d'animo, il cuore trabocca di gioia e
tutto pare più bello, la natura più armoniosa, le persone più buone e
simpatiche. Sono momenti fantastici nei quali si percepisce più che mai
l'appartenenza al creato e, allo stesso tempo, si ha la sensazione di
esserne i padroni. Percezioni intense e coinvolgenti, che si provano più
frequentemente durante l'adolescenza, la pubertà ed anche nella terza età,
che nell'età matura, durante la quale prevalgono le problematiche del
contingente, quali: lavoro, carriera, famiglia, affari, che coprono come
un velo di cenere la brace accesa che è dentro di noi, e ci impediscono di
assaporare appieno l'essenza della vita.
Da adulti si è troppo presi dall'incessante e vorticoso susseguirsi delle
quotidiane fatiche per accorgerci dei miracoli che la natura compie sotto
i nostri occhi : un bel tramonto, un campo di papaveri, un cielo stellato
in una limpida notte d'estate, il candore del manto di neve che copre i
monti o il canto di un usignolo che annuncia la primavera.
Fu in uno di questi giorni "particolari", nei quali lo spirito emerge a
fior di pelle e le sensazioni sono più intense che capitò ciò che cercherò
di descrivere.
La giornata, fin dal mattino, si presentò splendida, di quelle che ti
fanno dire: "Grazie Signore di essere qui e godere delle Tue meraviglie".
L'aria limpida e tersa, il cielo di un celeste vivo, in contrasto con
qualche solitaria nuvola bianca che lentamente vi navigava diretta a
ponente.
Il sole continuava ancora la sua funzione di scaldino della terra, ma
senza strafare.
Le piante stavano assumendo i caldi colori autunnali, le prime foglie
gialle si staccavano dai rami e, spinte da una lieve brezza, dondolando,
andavano a sdraiarsi sul terreno per poi lentamente fondersi con esso in
perfetta osmosi.
I grilli erano alle ultime note del loro concerto; un magnifico ottobre
stava per finire.
Quel particolare stato d'animo e quella giornata speciale prepotentemente
m'invitavano ad uscire da casa ed immergermi nella natura che mi
circondava come in un bagno ristoratore.
Lasciai l'abitazione e, a piedi, mi diressi verso monte con l'intento di
risalire la parte sud del colle (chiamarlo monte sarebbe eccessivo) che si
erge per 800 metri sulla sinistra del fiume ad un chilometro dal paese.
L'idea era quella di raggiungere la vetta ripercorrendo la vecchia
mulattiera, con la speranza di ritrovarla agibile dopo anni di abbandono.
Ben attrezzato, con bastone e scarpe da traecking, salutai la mia bella
moglie che restava a casa con i due figlioletti e intrapresi il cammino
carico di buona volontà, energia e grande euforia.
I primi trecento metri di salita furono alquanto facili, dato che il
sentiero era praticabile essendo ancora un passaggio obbligato per i
cacciatori e cercatori di funghi e cinghiali.
A metà di questo primo tratto raggiunsi un'anziana signora, con una sporta
in una mano e un bastone nell'altra, lentamente saliva il sentiero nella
mia stessa direzione.
Per un tratto mi misi al suo passo. Disse di avere settant'anni e che
tutti i giorni saliva, dal fondovalle per il sentiero fino alla
"Cassandra", la vecchia casa dove aveva vissuto per trent'anni con suo
marito, da qualche tempo deceduto.
Vi si recava per accudire ai suoi animali: pochi conigli, cinque galline,
un gatto ed un cagnolino. Parlammo del più e del meno, convenimmo che dopo
diversi giorni grigi, questa era veramente una giornata splendida. "Un
altro dono di Dio" sentenziò rivolta al cielo. Mi parve una donna ancora
energica, serena e piena di buon senso, proprio come mia madre alla quale
assomigliava in modo sorprendente.
Arrivati alla sua casa, mi invitò ad entrare per bere un " goccio" di
vino. Gentilmente declinai l'invito e salutatala proseguii puntando alla
sommità del monte.
Lungo il sentiero, ancora abbastanza praticabile, mi imbattei in diversi
borghi e casolari abbandonati, i cui nomi mi erano noti, ove, fino agli
anni sessanta, vi pulsava un'intensa vita : case rurali dove per secoli
avevano vissuto, pigiati in anguste e misere stanze, famiglie numerose con
nugoli di figliuoli e tanti animali domestici. Tutt'intorno solo campi e
boschi stesi sui pendii del monte.
Ora non si udivano più grida di ragazzi, voci di donne, belati e muggiti
di animali, ma vi regnava un silenzio assoluto e spettrale. Si potevano
notare solo ruderi assaliti da rovi e vitalbe, e… tanto squallore. Diverse
case senza infissi che, resistendo alle intemperie erano ancora intatte,
ti fissavano con quelle occhiaie nere e vuote da mettere i brividi. Una
desolazione che, malgrado la giornata "speciale", mi riempì il cuore di
malinconia.
Ricordavo i nomi di quelle località perché, quando bambino, subito dopo la
guerra, andavo col babbo al mulino, laggiù nel fiume, spesso incontravamo
i coloni che le abitavano, i quali con asini o muli vi scendevano a
macinare i cereali. Venivano dalla Cassandra, da Cà di Marco, da Cà di
Santuccio, dalla Casaccia, dalle Ville, dal Greppo, da Capro, dalla
Liscia, dalla Punta o da Tezzo.
Ad un tratto, proprio sopra Cà di Santuccio, la mulattiera scomparve in un
campo di erba medica. Saranno state le ore dieci, mi sedetti per riposare
un po' e rimirare il panorama. All'orizzonte, in primo piano, vedevo il
monte Aquilone con una nuvoletta bianca a mo' di cappello sulla cima, e
oltre, il massiccio del Carpegna, più a ovest il monte Comero ed il
Fumaiolo, poi cento altri dolci colli che andavano declinando a scala
nell'ampia valle modellata dal fiume che da sempre vi scorre al centro
come una vena.
Mentre gustavo quella corroborante visione d'insieme, certamente non
paragonabile ai panorami mozzafiato delle Dolomiti, ma pur sempre bello e
a me più familiare, mi parve di udire un canto; prima flebile e poi sempre
più forte e molto vicino. Intuii trattarsi di un coro il cui canto era
davvero dolce e soave, direi celestiale. Sorpreso, cercai di capire donde
provenisse.
Mi guardai intorno, ma per un ampio raggio non vidi nessuno, o meglio,
come è in uso dire in simili circostanze : "nei dintorni non v'era anima
viva". Allora pensai provenisse dalla chiesa di Sorbano, anche se distante
almeno un paio di chilometri in linea d'aria. Le parole del canto che mi
giungevano sembravano latino e la musica gregoriano, da ciò dedussi che,
forse per uno strano gioco di eco, dovesse provenire dalla chiesa. Ma poi,
riflettendo, trovai strano che a quell'ora di un giorno feriale vi si
celebrasse una funzione. La cosa che di colpo mi fece trasalire e
accapponare la pelle fu l'improvviso rammentarmi che la chiesa era stata
serrata per pericolo di frana alcune settimane prima, perciò non poteva in
alcun modo provenire da lì." Ma allora dove sono questi cantori che non
vedo ma sento qua intorno ? ".
Mentre ad intermittenza il canto corale continuava ad arrivare chiaro
all'udito, mi alzai e, per guardarmi meglio intorno, salii sopra un masso
poco distante. Fu allora che ebbi la certezza della provenienza. Sotto di
me, a qualche centinaia di metri, scorsi il piccolo cimitero, ben visibile
laggiù in pieno sole, al centro del quale si erge alto e maestoso un
vecchio centenario cipresso.
Ma all'interno non scorsi alcun essere vivente. Mi convinsi che il
melodioso canto poteva provenire solo dal camposanto. Non v'era altra
spiegazione logica e razionale, considerato il luogo isolato.
Questa convinzione quasi mi rasserenò e placò la tensione che mi aveva
invaso per tutto il corpo.
Lentamente i brividi di paura passarono. Per darmi una risposta, pensai
che quel coro così intonato fosse composto dalle tante persone che nei
secoli avevano vissuto, gioito e penato su quei greppi, nelle case che
poco prima avevo visto abbandonate, e dopo la loro morte, lì erano stati
posti a riposare nell'attesa della risurrezione. Le loro anime si
preparavano all'imminente festa di Tutti i Santi, cantando insieme inni al
Signore.
Mentre questi pensieri si accalcavano tumultuosi nella mia mente,
l'armonioso canto improvvisamente cessò.
Stordito e confuso, ripresi il cammino di ritorno verso casa.
Ma ancor oggi, trascorsi tanti anni, resta intatto e insoluto il mistero
di quel "contatto ravvicinato" con l'Altro Mondo, vissuto in quello
splendido e indimenticabile giorno di fine ottobre.
La quercia
Il lungo braccio rosso della gru la depositava con cautela in mezzo alla
piazza del paese. Mille occhi ammiravano con stupore e meraviglia la lenta
discesa a terra dell'enorme tronco, dal peso di almeno 12 tonnellate,
imbragato alla gru con grossi cavi di acciaio.
L'idea di esporre la superba quercia della famiglia delle roverelle in
piazza, affinché, tutti potessero vederla; le scolaresche ammirarla e
scriverne saggi, i botanici studiarla, è stata del giovane, intraprendente
Sindaco e messa in atto dalla Pro Loco di Mercato Saraceno: caratteristico
paese sito al centro della valle del Savio.
Lo scorso cattivo inverno e una rara combinazione di eventi atmosferici
negativi hanno concorso alla morte di molte querce o roverelle nel
territorio, e purtroppo anche della superba quercia di Paderno che si
ergeva da ben 450 anni nel parco dell'antica villa dei Signori
Bondanini-Mussolini, anzi aveva già qualche secolo quando la villa venne
eretta al suo fianco. Era una pianta nota e conosciuta da molti,
certamente da tutti i Mercatesi, da tempo catalogata fra le piante
monumentali della regione. Tutte le piante si dovrebbero considerare
monumenti naturali, da ammirare e rispettare anche di più dei monumenti in
marmo o in bronzo, perché esse oltre ai frutti ci filtrano il preziono
alimento indispensabile alla vita: l'ossigeno.
Aveva resistito per tanto tempo a mille bufere, a venti forti, alle
tempeste, agli uragani, ai fulmini ed anche alle granate durante la
guerra; aveva affrontato e vinto mille burrasche nei secoli, non ha ce là
fatta a superare gli attacchi di quest'inverno anomalo.
Il peso di quaranta centimetri di neve pesante fradicia d'acqua sulla
folta chioma ancora vestita di fogliame, e tanta pioggia caduta prima
della nevicata, ha allentato la presa delle radici sul terreno inzuppato
d'acqua; per questo, lentamente, la pianta ha ceduto ed è crollata lunga e
distesa, completamente sradicata, attraverso la strada che conduce al
vicino cimitero dove riposano le spoglie del fratello del "Duce", Arnaldo
Mussolini e della sua famiglia che durante il ventennio abitarono la
villa.
In questi giorni, dopo che il fatto è apparso sui giornali locali, molte
persone della valle ed altre provenienti dalla città vengono per vederla e
fotografarla. E' veramente imponente e bella: sembra un'enorme drago
morente; con quelle braccia tronche rivolte al cielo, quel fusto imponente
dalla pelle scura avvizzita pare un rinoceronte. Potrebbe ben figurare
come opera d'arte moderna in un salone alla biennale di Venezia.
Ogni persona ha la sua storia contrassegnata dalla data di nascita e da
altre che scandiscono gli eventi più importanti della vita, fino
all'ultima, quella fatidica. Anche per il mondo animale, in parte, vengono
registrate le date più importanti, specie per gli animali cosiddetti
nobili o che più interessano l'uomo come i cavalli, i cani e altri animali
di cui l'uomo vuole prendersi cura. Non così, di norma, avviene per il
mondo vegetale.
Per la monumentale quercia di Paderno una storia si potrebbe scrivere
iniziando col dire che spuntò, timida e fragile come un piccolo stelo
d'erba attorno all'anno Domini 1560. Al tempo sulle Romagne regnava Papa
Giulio III° (1550/1555), ed ebbe la fortuna di sopravivere a tanti rischi
e avversità.
Crebbe sana e forte, testimone muta e immobile di tanti eventi atmosferici
e innumerevoli storie di uomini che, nei secoli, hanno sostato sotto la
sua folta chioma. Chioma che per 450 volte ha rinnovato il suo fogliame,
abbandonando ai suoi piedi ogni autunno, tappeti di foglie morte; godendo
per tanto tempo del calore del sole dal quale ha ricevuto puntualmente
ogni primavera il rinnovo della vita . Della sua inattesa fine già ho
scritto .
Un' evento simile ispirò al grande poeta romagnolo Giovanni Pascoli questa
poesia :
LA QUERCIA CADUTA
Dov'era l'ombra, or sé la quercia spande
Morta, ne più coi turbini tenzona.
La gente dice: or vedo: era pur grande !
Pendono qua e là dalla corona
I nidetti della primavera.
Dice la gente : or vedo : era pur buona !
Ognuno loda, ognuno taglia. A sera
Ognuno col suo grave fascio va.
Nell'aria. Un pianto …. D'una capinera
Che cerca il nido che non troverà
In quei giorni la medesima combinazione di eventi atmosferici, fu fatale
per altre querce centenarie del territorio.
Di una in particolare mi soffermerò a raccontare l'incredibile storia,
anzi descriverò per suo conto gli avvenimenti da essa vissuti e
partecipati "in prima persona". Da tutti era conosciuta come " la quercia
del Conte"
Questa creatura, che ho ammirato fin dalla mia nascita; mastodontica
figura, anch'essa si ergeva maestosa e solenne, a 300 metri dalla mia
vecchia casa nativa, sul bordo di una stradina sterrata, un tempo
importante via di comunicazione della valle.
Tutta la zona da tempo immemorabile è vocata alla crescita e al
proliferare di queste nobili piante.
Ero ancora bambino quando mio padre mi mandava a raccogliere le sue
ghiande, ottimo cibo per ingrassare i maiali da trasformare poi in salame
e prosciutti DOC.
Fatto più grandicello, con gli amici ci arrampicavamo come scimmie sui
suoi poderosi rami, fin sulle cime più alte, per prelevare gli uccellini
dai nidi, spinti da un ancestrale istinto di sopravivenza non ancora
sopito.
Un giorno di novembre, credo fosse il 1946, arrivarono un gruppo di uomini
muniti di enormi segoni, mandati dall'autorità comunale con l'ordine di
abbatterla per farne legna da ardere e distribuire alle famiglie più
povere in previsione dell'imminente rigido inverno.
Il proprietario del terreno dove si ergeva la quercia del Conte e altri
suoi amici confinanti, fra il quali mio padre, si opposero con forza. Ne
nacque una grossa disputa che si concluse davanti al sindaco con un
compromesso.
"La quercia non sarebbe stata abbattuta ma in cambio sarebbero stati
tagliati 200 quintali di robinia, l'equivalente del presunto peso della
quercia, e così fu".
Per noi era la quercia che simboleggiava la forza, la stabilità, la
fierezza, valori importanti soprattutto per quel tempo, segnato da una
terribile guerra in cui anche gli animi più solidi furono scossi dalla
paura, dall'angoscia e dalla disperazione, ma che poi seppero ritrovare la
forza per la rinascita.
Durante il passaggio del fronte, nel 1944, anche questa quercia fu più
volte ferita, colpita, prima dalle cannonate degli alleati e poi dalla
mitraglia dei tedeschi; ne portò i segni sui rami e sul tronco per tanto
tempo, ma restò ben stabile e fiera.
In quei giorni, nelle veglie attorno al focolare, non si parlò d'altro che
della quercia. I più anziani non finivano mai di raccontare storie e
leggende legate alla quercia del Conte, tramandate dai loro padri che a
sua volta le avevano apprese dai nonni e bisnonni.
Noi bambini affascinati ascoltavamo, l'anima si beava e la fantasia
assetata ed avida si saziava.
"Un giorno all'ombra della quercia sostarono dieci garibaldini con
archibugi e fazzoletti rossi al collo, provenivano dalla vicina Toscana
diretti a Ravenna per incontrare il generale Garibaldi che giaceva ferito
nella casa di Anita in mezzo alla pineta. Dai contadini del posto furono
rifocillati con piadina salame e Sangiovese."
Il vecchio Fabrizio di 85 anni suonati raccontò che, un pomeriggio
d'estate di tanti anni fa, alla sua ombra, si fermarono un gruppo di
uomini con ampi cappellacci in testa, armati di archibugi, suo nonno si
lamentò perché avevano calpestato le culture del campo, al che il loro
capo, dagli occhi celesti come il cielo ed il viso dolce, gli diede cinque
scudi d'oro. Si seppe poi fosse Stefano Pelloni detto il Passatore, "re
della strada e re della foresta), con la sua banda di ritorno da una
razzia in una villa di un ricco feudatario ai confini delle Marche".
"Una volta, un ragazzo, abbandonato dalla fidanzata che adorava,
disperato, getto una fune ad un ramo della quercia deciso di impiccarsi;
un contadino che aveva visto tutto riuscì appena in tempo a salvargli la
vita tagliando la corda".
La leggenda dalla quale la quercia prese il nome, raccontata da mio nonno
che a sua volta l'aveva appreso da suo nonno Gian Antonio è quella del
conte Guidi, signore di queste terre, il quale in visita ai suoi
possedimenti, passando a cavallo con alcuni sui fedeli scudieri nei pressi
della quercia, improvvisamente il cavallo bianco che cavalcava inciampò in
una radice della pianta stessa disarcionando il suo nobile padrone e quel
che è peggio lo sfortunato cavallo si ruppe una gamba.
Il Conte Guidi restato fortunatamente illeso, seppur rattristato, dovette
ordinare ai suoi uomini di abbatterlo.
Fu fatta una profonda buca sotto la grande quercia e lì fu seppellito il
bel cavallo bianco del Conte.
Molti giurano di aver udito per anni, durante i temporali e nelle notti di
plenilunio, il nitrito di un cavallo morente provenire dallo stormire
delle fronde della quercia.
Ora che la vecchia quercia del Conte è finita come il suo cavallo, chi mai
ci racconterà più le sue favolose storie ?
Ma poi, a ben pensarci, nell'era di Internet a chi mai possono interessare
? ! |