| Festa al castello Benché il castello si ergesse in mezzo al parco, circondato da piante d'alto 
fusto, alcune esotiche, per la sua mole e per la posizione dominante sulla 
valle, era ben visibile anche da lontano. Si distingueva per i muri in mattoni 
rosso bordò, i balconi di marmo bianco, le ampie finestre e il grande tetto di 
coppi a quattro spioventi. Aveva 20 stanze distribuite nei tre piani, un'ampia 
sala e, nell'interrato i magazzini e le grandi cantine.
 Era uno di quei palazzi signorili dell'epoca risorgimentale, dalle linee 
architettoniche semplici, ma solido e imponente a confronto delle altre 
abitazioni del borgo, umili casette in pietra. Era stato costruito attorno al 
1830 dal bisnonno dell'attuale proprietario, sulle rovine dell'antico castello 
medioevale crollato per avversità atmosferiche e dall'incuria degli uomini; del 
"castello" aveva mantenuto il nome.
 Il signorotto, proprietario terriero, e la sua famiglia che l'abitavano erano 
serviti e riveriti da tutti i 500 abitanti del posto e dei territori circostanti 
;
 per lo più famiglie contadine che lavoravano a mezzadria i suoi trenta poderi.
 Per le grandi occasioni quali; anniversari, matrimoni, fine trebbiatura, fine 
vendemmia o feste religiose, nella villa si tenevano santuose feste che si 
protraevano fino all'alba, fra musiche, balli, lauti pasti e libagioni.
 Gli invitati erano selezionati fra parenti, notabili, amici esclusivi, signore e 
signori d'alto rango, oltre a rampolli di famiglie dello stesso ceto sociale, 
cioè latifondisti.
 In quell'uggiosa domenica, prettamente autunnale di fine ottobre, al palazzo vi 
era molto movimento, continuavano a giungere ospiti, i più a cavallo o col 
calesse, alcuni anche in auto. Al tempo erano ancora pochi a possederne una.
 Si festeggiava il fidanzamento ufficiale della signorina Marilinda, l'ultima 
figlia del padrone, col Sig. Italico. Gli invitati, come il solito erano 
numerosi: diverse coppie elegantemente vestite, alcuni scapoli figli di papà, 
fra i quali anche un'ufficiale dell'esercito che con la sua alta uniforme 
attirava gli sguardi delle ragazze.
 Per la gente del contado questi erano avvenimenti da non perdere.
 In tanti, per lo più donne e bambini del popolo, erano sulla strada nei pressi 
del cancello della villa fin dal mattino a perdersi gli occhi nell'ammirare 
tutta quel fior fiore di nobiltà che, alla spicciolata, stava arrivando.
 I signori del "castello" ricevevano gli ospiti sulla porta di casa, mentre i 
servitori si prendevano cura dei cavalli.
 In casa, fra cuoche, cameriere ed aiutanti, erano una dozzina, tutti 
affaccendati nei vari servizi per la buona riuscita della festa.
 A dirigere i lavori era la signora Norina, coadiuvata dalle tre figlie : Armida: 
trentenne, la più grande, Elisabetta, la mezzana 22 enne, e Marilinda, la 
festeggiata, di anni 19. Tutte tre molto belle, colte, gentili e simpatiche.
 Delle tre, Marilinda, era l'unica mora di tipo mediterraneo, capelli lunghi e 
sciolti, occhi scuri, sguardo dolce e intenso; dava dei punti alle sorelle anche 
per eleganza e avvenenza. Da pochi mesi avava conosciuto Italico, un giovane 
alto, biodo, aitante, una diecina d'anni avanti a lei.
 Era a tutti noto come ufficiale di polizia di stanza a Roma, solo in pochi 
conoscevano la sua vera mansione segreta di guardia particolare del Duce.
 Nel pomeriggio, dopo il pranzo, meglio dire il banchetto, quando le musiche e i 
balli erano iniziati, in sella ad una fiammante moto rossa, arrivò il Sig. 
Riccardo, altro giovane simpatico e di bell'aspetto, ben noto alla gente del 
borgo per averlo visto tante volte a fianco a Marilinda di cui era ancora 
pazzamente innamorato.
 Dietro pressione paterna lei era stata quasi costretta a lasciarlo per quel 
"bell'imbusto" al quale oggi faceva promessa di matrimonio.
 Anche Riccardo era di famiglia benestante, ma per il padre, avere per genero 
Italico, così vicino a Mussolini, era il massimo dell'onore e del prestigio, una 
ghiotta opportunità da non perdere.
 A Marilinda piaceva molto Riccardo, forse ne era ancora innamorata ma, per 
l'educazione ricevuta, per rispetto e obbedienza, non osò contraddire il padre 
e, seppur incerta, accettò la corte dal bell'Italico dagli occhi di ghiaccio.
 Ma chi mai avesse invitato alla festa Riccardo non si seppe mai, si può solo 
supporre.
 Naturalmente, quella sera, Riccardo si sentiva come un pesce fuor d'acqua. Per 
quanto si sforzasse, non riusciva a togliere lo sguardo da Marilinda, la quale 
ogni tanto la ricambiava con fugaci e furtive occhiate.
 Mentre Italico, dopo aver ballato si sedette a bere e conversare con alcuni 
amici, Riccardo, incoraggiato dagli sguardi dolci di Marilinda, le chiese di 
ballare. In quel momento i musici intonavano un bel tango che i due ballarono 
con trasporto e passione, al tango seguì la mazurca ed un valzer .
 La festa proseguì in gioiosa allegria. La signora Norina e le figlie: Armida ed 
Elisabetta, intrattenevano gli ospiti con sapiente bon ton.
 Verso mezzanotte, ad un attento osservatore, non sarebbe sfuggito l'assenza un 
po troppo prolungata dalla sala di Marilinda e di Riccardo, senza che ciò non 
destasse maliziosi sospetti.
 Infatti, l'attento osservatore di tutti i movimenti dei due durante tutta la 
serata, a partire dai balli, era Italico, che fin dall'arrivo di Riccardo non si 
era perso uno dei loro sguardi espressivi, fremendo in cuor suo, di rabbia e 
gelosia.
 Verso le tre di notte gli ospiti un po alla volta congedandosi, lasciarono "il 
Castello".
 Fuori li attendeva una notte buia, umida e nebbiosa.
 
 Il mattino successivo, lunedì verso le sette, tre ragazzini del villaggio 
scendevano a piedi cantando e saltellando, con le loro borse di cartone in mano, 
per recarsi a scuola giù nel paese, com'erano soliti fare, invece di percorrere 
la carrozzabile troppo lunga e tortuosa, tagliarono per l'accorciatoia.
 Un ripido sentiero ma che permetteva di evitare i numerosi tornanti e giungere a 
scuola in 20 minuti anziché 45.
 A mezzo percorso, appena sotto la scarpata di un tornante, il terzetto di colpo 
si bloccò.
 Un uomo giaceva scomposto a terra seminascosto dai cespugli. Gli indumenti 
bagnati e infangati, gli occhi sbarrati, vicino alla testa una grossa chiazza di 
sangue rappreso. Era sicuramente morto, di questo ne furono subito certi a prima 
vista.
 I tre ragazzi, passato il primo momento di attonito stupore, corsero via 
terrorizzati e spaventati chiamando aiuto.
 Accorsero subito diverse persone, arrivarono anche i carabinieri che con un telo 
coprirono il cadavere e allontanarono la gente che nel frattempo continuava ad 
affluire chiedendo chi fosse lo sventurato, e come era successo. Corse subito la 
voce che fosse accidentalmente caduto dalla scarpata.
 Pian piano il nome dell'uomo che aveva trovato la morte in un così banale 
incidente si sparse veloce come un terremoto, prima nel villaggio fra quella 
gente pacifica, poi nel paese e in tutta la zona.
 Le persone che lo conoscevano almeno di vista, così rispondevano a coloro che 
non sapevano chi fosse e perché si trovasse da queste parti : " era un bravo 
giovane, un signore, veniva dalla toscana. Per circa un anno ha frequentato la 
villa " Il Castello" facendo la corte alla bella Marilinda, il suo nome è 
Riccardo. I signori del Castello sono stupiti, addolorati e affranti. Marilinda 
appena l'à saputo si è chiusa in camera a piangere disperata.
 Si dice che egli abbia lasciato la festa verso l'una, forse un po' brillo, si 
sia poi incamminato nella notte buia lungo la strada e, invece di imboccare il 
sentiero, sia finito per la ripida scarpata del tornante alta 5/6 metri e 
rotolando giù abbia battuto la testa sulle pietre sottostanti. "
 I carabinieri iniziarono le indagini, interrogando i signori del Castello, la 
servitù e tutti gli ospiti della festa senza alcun risultato, anche perché 
nessuno affermava di averlo visto partire. Il povero Riccardo avrebbe lasciato 
la festa senza salutare nessuno, neppure Marilinda. Le indagini proseguirono per 
una settimana senza approdare a nulla di concreto.
 Visti i personaggi della vicenda, tutta gente per bene e al di sopra d'ogni 
seppur vago sospetto, il caso fu presto archiviato come "un fatale incidente 
avvenuto senza il concorso di terzi; causato solo dall'alcool e dalla scarsa 
conoscenza dei luoghi da parte del soggetto", così stava scritto nel verbale dei 
Carabinieri.
 
 Ma negli abitanti del villaggio gli interrogativi, le supposizioni, il sospetto 
che invece, fosse stato un delitto ben orchestrato da qualcuno e fatto apparire 
come incidente, continuarono per anni. L'interrogativo più intrigante, al quale 
i carabinieri avevano dato una sommaria e affrettata risposta, era il perché 
fosse partito a piedi lasciando la sua bella moto nel cortile del palazzo.
 La risposta, a detta di loro, era ovvia : conscio di essere alquanto alticcio, 
per non rischiare, aveva preferito avviarsi a piedi fino alla Strada Statale.
 Del resto, la Benemerita, scartò subito l'ipotesi del delitto anche per non aver 
trovato uno straccio di movente.
 Un anno dopo la "disgrazia", Marilinda convolò a nozze con Italico e andarono a 
vivere "felici" a Roma, ove l'aitante poliziotto fece carriera divenendo 
colonnello dei servizi segreti.
 In breve tempo anche Armida ed Elisabetta si sposarono lasciando per sempre "il 
Castello". Il sig. Padrone e la Signora restarono ad abitarvi per lunghi anni 
ancora, soli con la servitù. Mentre l'antico borgo pian piano spopolò lasciando 
le case vuote e mute. Le grandi feste cessarono e con esse si chiuse 
definitivamente un'epoca.
 
 In un giornale della capitale del 10 Dicembre 1978 , nelle pagine di cronaca 
nera, per caso lessi un articolo dal titolo : "Ex colonnello dei servizi segreti 
sul punto di morte confessa un lontano delitto".
 Nel pezzo era descritta tutta la storia …. ; prima ai famigliari poi al prete 
che al capezzale lo assistevano nell'ultima ora di vita, raccontava come tanti 
anni prima, aveva ucciso per cieca gelosia un rivale in amore dopo averlo 
sorpreso in intimità con la sua donna la sera del fidanzamento.
 Quella notte, dopo averlo condotto, vicino alla sua automobile con una scusa, 
l'uccise con un micidiale colpo di crik sulla testa, poi caricatolo in auto lo 
gettò per la scarpata della strada, facendo in modo che apparisse come un 
incidente.
 
 Il narratore era uno dei tre ragazzini di quarta elementare che, in quel 
lontanissimo lunedì mattino, "inciamparono" nel corpo del povero Riccardo.
 A ricordarlo oggi, avverte ancora brividi sulla pelle.
 I ponti del DuceAbbarbicati su quei tralicci di ferro, sospesi a sessanta metri da terra o 
      meglio dal fiume sottostante, visti in lontananza sembravano cavallette. 
      Erano gli spericolati acrobati, verniciatori dei ponti di ferro che si 
      stagliavano maestosi e solenni nella loro architettura a cavallo del fiume 
      Savio, distanti qualche chilometro fra loro. Dalla gente della valle erano 
      conosciuti come " I ponti del Duce".
 Quei quattro giovani venuti dalla città, per diletto facevano gli 
      alpinisti rocciatori e, per lavoro, la verniciatura dei ponti di ferro in 
      giro per l'Italia, anch'essa un'attività alquanto pericolosa ma ben 
      remunerata.
 Per almeno sei mesi l'anno stavano appesi come pipistrelli in quel 
      groviglio di putrelle di ferro, strutture portanti del soprastante piano 
      stradale, con il pennello in mano e il secchio di vernice nera legato alla 
      cintola.
 Avevano appaltato dall'ANAS la verniciatura dei tre magnifici ponti voluti 
      e realizzati nel 1922/23 da Mussolini, per favorire la viabilità nella sua 
      terra di Romagna, i quali, dopo 20 anni, necessitavano di una nuova mano 
      di vernice protettiva.
 Da queste parti erano conosciuti, stimati ed ammirati dai ragazzi della 
      zona, ma specialmente dalle ragazze che, molto timide e riservate, senza 
      farsi scorgere, se li mangiavano con gli occhi.
 Alloggiavano in una pensioncina del paese. Alla domenica mattina andavano 
      in chiesa, con lo scopo principale di vedere da vicino le ragazze che, 
      altrimenti, sfuggivano veloci ad ogni fortuito incontro.
 In questo benedetto paese il ballo era bandito ad eccezione di qualche 
      rara festicciola ad invito in case private. Perciò le occasione d'incontro 
      erano rare.
 Malgrado queste difficoltà date dalla cultura chiusa, severa, piena di 
      preconcetti e tabù del tempo, Giorgio, il ragazzo più aitante dei quattro, 
      dopo una corte assidua e spietata durata quasi due anni, riuscì a 
      conquistare Adele, una stupenda ragazza mora figlia del farmacista del 
      paese.
 
 Giorgio e Adele bruciarono subito d'amore e di passione. Nei primi tempi i 
      loro incontri furono brevi e fugaci. I primi appuntamenti avvenivano solo 
      di giorno nei luoghi più protetti da occhi indiscreti, poi all'uscita 
      della chiesa o nelle vie del paese; furono sempre più intensi fino a 
      quando lui dovette presentarsi ai genitori di lei e dichiarare 
      ufficialmente il suo amore sincero per la loro adorata figliuola.
 Da quel giorno fu accolto in casa come un figlio. Alla madre, Signora 
      Lucia, piacque subito quel ragazzo gentile e di bell'aspetto, dall'aria 
      romantica e dai modi garbati.
 
 Tre sere la settimana era a casa di Adele, sotto lo sguardo vigile della 
      mamma. Trascorreva con lei tre/quattro ore, approfittando di baciarla nei 
      brevi momenti in cui la madre si assentava.
 In seguito escogitarono ogni pretesto e scusa per restare soli e, 
      finalmente, il loro "furore" passionale represso ebbe il naturale sfogo, 
      consolidando così sempre più il loro rapporto d'amore.
 Gli amici convennero nel considerarlo ormai "cotto e fritto a dovere".
 Sul lavoro non mancarono di sfotterlo: " Giorgio, cosa ti succede ?… 
      Conquistare le ragazze, divertirsi con loro, innamorarsi un po', è del 
      tutto normale, ma perdere la testa così è da matti; anche se la tua Adele 
      certamente merita. Ravvediti e ritorna in te fin che sei in tempo ! "
 Ma egli non sentiva ragione e rispondeva deciso: " Sì..., lo ammetto, sono 
      cotto di Adele e me la voglio sposare, se Dio vuole."
 E così fu. Si sposarono nell' ottobre del 1942, una giornata fresca, ma 
      piena di sole che rese più luminosi i loro volti e più gioiosi i loro 
      cuori, anche se già si sentivano soffiare i venti malvagi della guerra che 
      sempre più minacciosa si avvicinava.
 Anche il Parroco vide che erano fatti l'uno per l'altra e benedì 
      volentieri
 quella unione; aveva visto crescere Adele, serena e mite, vicino alla 
      chiesa.
 Gli sposini non andarono ad abitare giù in città, restarono in paese nella 
      villetta in mezzo al verde di proprietà dei genitori di lei.
 Lui, nei mesi estivi, continuò, con dedizione, a verniciare i tralicci dei 
      "suoi" ponti.
 Lei ad insegnare nella locale scuola elementare. Avevano rispettivamente 
      25 e 23 anni ed erano felici.
 La pace, la serenità ed il loro quieto vivere non durò molto. Nell' 
      ottobre del '44 quando già il loro primogenito Matteo aveva poco più di un 
      anno, la loro vita e quella degli abitanti della valle fu sconquassata 
      dall'arrivo del fronte e dalla conseguente occupazione della zona da parte 
      dell'esercito tedesco, poichè il territorio si trovava entro la Linea 
      Gotica: ultimo strategico baluardo di resistenza e di ostacolo 
      all'inesorabile avanzata dal sud delle forze alleate.
 
 Il capitano Mayer, capo del comando tedesco del settore che comprendeva il 
      territorio dei tre ponti, s'insediò con i suoi uomini in una villa 
      signorile distante cento metri dal primo ponte a monte del fiume, dopo 
      averla confiscata ai legittimi proprietari. Ben presto iniziò ad 
      intimorire quelle pacifiche popolazioni con terrificanti proclami.
 Grandi manifesti bianchi scritti con inchiostro nero in italiano e 
      tedesco, affissi in tutti i ritrovi e uffici pubblici: bar, osterie e sul 
      muro della chiesa, minacciavano di morte tutti coloro che avessero 
      nascosto o aiutato in qualche modo gli odiati partigiani.
 Se poi veniva ucciso un soldato tedesco, sarebbero stati fucilati trenta 
      civili scelti a caso. In altri manifesti era annunciato il coprifuoco, 
      durante il quale chiunque fosse stato trovato per strada o fuori casa dopo 
      le otto di sera sarebbe stato fucilato sul posto.
 In altri ancora si intimava agli uomini ancora validi di andare a lavorare 
      per la T.O.T. (la loro efficiente organizzazione logistica), per scavare 
      trincee o rifugi antiaerei, altrimenti sarebbero stati prelevati con la 
      forza.
 Un giorno apparve un manifesto in cui si affermava che i tre ponti sul 
      Savio erano stati minati per farli saltare dopo che l'ultimo convoglio 
      tedesco in ritirata vi fosse transitato, e di stare all'erta perché lo 
      scoppio dell'enorme massa di tritolo avrebbe causato una tale onda d'urto 
      da far crollare le case del circondario, ma che in ogni caso, la gente 
      sarebbe stata allertata col suono della sirena qualche ora prima 
      dell'accensione delle micce.
 Giorgio, che fortunatamente era stato esonerato dal servizio militare 
      poiché unico sostegno alla famiglia, per paura di essere preso dai 
      tedeschi ed inviato in Germania, con altri uomini del paese si era dato 
      alla macchia.
 Ogni tanto, di notte, furtivamente, ritornava a casa per abbracciare la 
      sua adorata Adele e il figlioletto Matteo che cresceva forte e sano, 
      ignaro dei drammi e delle preoccupazioni cui erano soggetti gli adulti, e 
      per restare con loro qualche ora e poi fuggire prima dell'alba, dopo aver 
      riempito lo zaino di provviste.
 Adele era ancora una bellissima ed affascinante donna, nei cui occhi si 
      specchiava il cielo, ma sul suo volto olivastro dai tratti mediterranei 
      classici, s'intravedeva un velo di tristezza e sofferenza dati dalla 
      preoccupazione per gli eventi bellici in atto. Tutte le notti vegliava 
      ansiosa, attendendo l'arrivo del suo amato Giorgio. Lo pensava 
      costantemente in mezzo agli stenti, muoversi continuamente nei boschi e 
      dormire in qualche anfratto disteso sulle foglie come gli animali.
 Prima dell'alba di un grigio mattino autunnale, mentre era ancora a letto 
      stretta al suo bambino, sentendo bussare alla porta ebbe un tuffo al cuore 
      pensando fosse Giorgio, anche se l'ora non era solita. Mentre lestamente 
      si vestiva, ribussarono ripetutamente con forza intimando di aprire 
      subito.
 Aperta la porta, fecero irruzione in casa cinque soldati tedeschi con 
      divise nere, erano le famigerate SS. Con le armi spianate e fare 
      minaccioso, chiesero dove aveva nascosto il marito. Adele piena di 
      spavento, tenendo il suo bimbo stretto al collo, rispose che non c'era in 
      casa e non sapeva dove si trovava. Rovistarono in tutte le stanze: 
      aprirono i mobili e misero a soqquadro la casa. Il tenente che guidava il 
      gruppo, in perfetto italiano, le disse che suo marito era ricercato quale 
      partigiano e se veniva trovato sarebbe stato fucilato. Poi, dopo aver 
      rovistato nei solai e nelle cantine, minacciando ed imprecando se ne 
      andarono lasciando Adele piena di sgomento e terrore.
 La notte successiva, silenzioso come un gatto, Giorgio aprì pian piano la 
      porta di casa, cercando di non fare rumore per non svegliare il bambino e 
      la moglie, ma inutilmente, perché al primo giro della chiave Adele si 
      destò accogliendolo a braccia aperte.
 Andarono subito a letto. Ma l'incanto di quell'incontro durò solo pochi 
      minuti….
 "Adele, questa notte devo eseguire un'importante e delicata missione, per 
      la quale sono stato scelto dal gruppo di partigiani che mi hanno accolto e 
      aiutato durante tutto il tempo che sono stato alla macchia".
 " Ma allora sei anche tu un partigiano? Sei in grave pericolo, i tedeschi 
      ti danno la caccia".
 Mentre si rivestiva, Giorgio, ignorando la domanda proseguì: " Devo andare 
      a fare il mio dovere per il bene del mio Paese, non preoccuparti tornerò 
      presto", e proseguì, " i tedeschi, da giorni, sono in precipitosa fuga 
      verso nord, spinti e tallonati dall'esercito alleato. Abbiamo appreso che 
      domani notte faranno saltare i ponti, perciò questa notte stessa andrò 
      all'interno della struttura del nostro ponte qui vicino a staccare le 
      cariche di tritolo, così, quando domani provocheranno il contatto, non ci 
      sarà più lo scoppio e il ponte sarà salvo. Altri due compagni faranno la 
      stessa cosa sugli altri due ponti."
 " Giorgio non andare, ti prego! E' troppo pericoloso! Se ti scoprono non 
      ti vedrò più." Mentre Adele lo implorava piangendo di non andare, Giorgio 
      baciò Matteo che dormiva beato e dopo aver abbracciato a lungo la moglie, 
      coprendo di baci il suo volto bagnato di lacrime, uscì frettoloso da casa 
      prima che il magone di commozione che aveva in gola gli togliesse le 
      forze.
 Era stato scelto per la sua marcata conoscenza del ponte e per la facilità 
      di calarsi e di muoversi all'interno di esso. Egli ne fu entusiasta e 
      onorato.
 La notte non era troppo buia; in cielo massicci nuvoloni coprivano a 
      tratti la mezza luna, ma la visibilità era sufficiente. Portando a 
      tracolla una lunga fune, con determinazione ma conscio del pericolo, si 
      avviò circospetto a salvare il "suo" ponte che per mesi aveva curato con 
      tanto amore.
 Una lunga teoria di camion carichi di soldati, autoblindo, carri trainati 
      da cavalli, stavano scendendo per la strada statale e si accingevano a 
      transitare sul primo ponte.
 Era la coda delle truppe tedesche in ritirata, provenienti dal Lazio e 
      dalla Toscana, incalzati dalle forze alleate.
 Scendere nel fiume, risalire la spalla destra del ponte, issarsi con la 
      corda entro l'angusto passaggio da cui si accedeva all'interno del grande 
      traliccio, ci avrebbe impiegato ancora un'ora. Guardò l'orologio: indicava 
      le tre e dieci. Di guardia al ponte non c'era nessuno.
 Erano da poco passate le quattro, quando individuò la carica principale di 
      esplosivo, ben fissata ad una grossa trave portante. La trovò senza troppe 
      difficoltà. Era un voluminoso involucro di tela cerata: una trentina di 
      chili di tritolo a cui erano collegati due cavetti di filo elettrico che 
      avrebbero portato la corrente al detonatore e provocato lo scoppio. In 
      quella precaria posizione occorrevano circa quindici minuti per staccare 
      quella e l'altra carica che notò essere posata a dieci metri sopra un 
      longarone parallelo.
 Intanto il ponte oscillava per il peso dei mezzi che lo stavano 
      attraversando.
 Circa alla stessa ora, il comandante Mayer ricevette una telefonata: era 
      avvisato che stava per transitare sul primo ponte l'ultimo convoglio di 
      truppe; un anticipo sul previsto, di stare pronto per farlo saltare subito 
      dopo.
 Al suo interlocutore, di grado superiore, obbiettò chiedendo di poter 
      rinviare di qualche ora l'operazione per aver modo di suonare le sirene e 
      avvisare la popolazione dei dintorni, ma la risposta fu perentoria : " Far 
      brillare le cariche fra dieci minuti, senza suonare alcun allarme. E' un 
      ordine ! "
 Esattamente alle ore quattro e un quarto il contatto fu innescato ed un 
      enorme boato squarciò l'aria, rimbombando nella valle… . La gente del 
      paese e dei casolari si svegliò terrorizzata. Tutti i vetri delle case 
      andarono in frantumi. Il bel ponte di ferro era crollato.
 Ancora una manciata di secondi e Giorgio avrebbe staccato l'innesco. 
      Purtroppo non fu così. Il suo corpo fu trovato nel fiume dai genieri 
      inglesi in mezzo a quel groviglio di ferro contorto. Il suo generoso 
      sacrificio,come quello di tanti altri partigiani, non fu comunque vano. 
      Viene ancor oggi ricordato assieme a molti altri giovani che lottarono e 
      morirono per la Libertà.
 
 Adele, distrutta e affranta, non si riprese più, restò prigioniera del suo 
      immenso dolore e, trasferitosi poi a Roma con suo figlio, seppure ancora 
      giovane non tentò o non riuscì a rifarsi una vita, continuò a vivere solo 
      per lui.
 
 Da diversi anni, l'ing. Matteo torna da Roma sui luoghi della sua ingrata 
      infanzia, conducendo il proprio figlioletto sul ponte, ricostruito in 
      pietre e cemento nel 1950, a ricordare il rispettivo eroico padre e nonno.
 Le pecore di GiuseppeEra un giovedì, 23 o 24 settembre 1944, la guerra, da mesi, manteneva il 
      fronte sulle queste nostre contrade. Postazioni tedesche con nidi di 
      mitragliatrici, trincee e batterie erano sparse un po' ovunque pronte ad 
      accogliere l'arrivo del nemico.
 Quel micidiale mostro di guerra dell'esercito tedesco sferrava gli ultimi 
      colpi di coda prima di abbandonare l'Italia; anche da questa parte della 
      "Linea Gotica", grosso baluardo di resistenza all'avanzare dal sud delle 
      forze alleate che lentamente ma inesorabili occupavano sempre più terreno. 
      Gli scontri e le conseguenti battaglie si susseguivano intense e cruente. 
      Le rappresaglie, gli eccidi di persone civili inermi o d'intere comunità, 
      come a Tavolacci dove furono trucidate 64 persone, erano purtroppo 
      frequenti.
 Attraverso le dolci colline della media e alta Valle del Savio, ai due 
      lati della strada statale n° 71, gruppi di soldati tedeschi, come antichi 
      predatori, scorrazzavano nei borghi, nei villaggi, nelle case sparse 
      razziando cose, animali e uomini. Rabbiosi e crudeli perché intuivano 
      l'imminente definitiva sconfitta.
 Gli animali da cortile servivano loro per rifocillare le truppe che da 
      mesi non ricevevano più scorte e rinforzi. I bovini, per trasportare carri 
      di munizioni e vettovaglie. Gli uomini (per lo più contadini strappati 
      dalle loro case o dai campi) erano condotti in Germania a lavorare nelle 
      fabbriche rimaste a corto di personale, giacché tutti i loro maschi oltre 
      ai 14 anni erano stati inviati sui vari fronti di guerra.
 Quando queste pattuglie, o per meglio dire " bande", passavano per il " 
      rastrellamento" (così era chiamata la loro razzia), la gente dei villaggi 
      si allertava a vicenda del loro imminente arrivo con segnali convenzionali 
      o passaparola.
 Quel giorno anche nel borgo chiamato "Cassandra" giunse l'allarme che in 
      breve, come un tam tam, echeggiò di casa in casa : " una pattuglia di 
      soldati tedeschi sta rastrellando Sorbano Alta poi verrà qua da noi …, 
      stare all'erta ! "
 Immediatamente, gli uomini sotto i 50 anni, dopo aver messo poche cose 
      nello zaino, velocemente si dileguarono verso il bosco.
 Le donne e gli anziani che avevano mucche, buio e asini li condussero 
      nelle macchie vicine, nascondendoli in mezzo a folti cespugli.
 L'agricoltore Giuseppe d'anni 56, già da qualche tempo, aveva nascosto il 
      grano in diverse damigiane e sotterrate nel campo, così pure un baule di 
      biancheria (il corredo da sposa della moglie Mariuccia). Non aveva bovini 
      e né l'asino ma solo polli, conigli e due pecore; queste erano un grosso 
      provento per la sua famiglia : davano formaggio, lana e agnelli, perciò 
      sarebbe stato un grosso danno economico se le avessero
 " razziate " i soldati tedeschi.
 Fu così che decise di nasconderle in un luogo sicuro. C'era poco tempo, i 
      soldati stavano per arrivare. Sotto il porcile (allora senza inquilino) 
      c'era un angusto vano scavato in parte nella roccia che non veniva usato, 
      la cui piccola porta d'entrata non era visibile, essendo esposta dalla 
      parte di un dirupo coperta da ortiche e rovi.
 Ritenendo fosse questo il posto ideale, con difficoltà vi condusse le 
      pecore, vi portò erba e fieno a volontà, sperando vivamente che non 
      avessero belato.
 Ai suoi tre bambini fu imposto di stare chiusi in casa, buoni e zitti.
 Poco dopo arrivarono, erano in cinque, armati di fucili e pistole. 
      Giuseppe, con la barba incolta di mesi per sembrare più vecchio, e sua 
      moglie Mariuccia li attendevano sotto il portico. A voce alta e piglio 
      deciso, uno di questi apostrofò Giuseppe in tedesco, chiedendogli l'età e 
      se aveva visto dei partigiani in zona. Mentre gli altri, avvicinatisi al 
      porcile, chiedevano dov'era il maiale e se aveva altri animali. 
      Fortunatamente, Giuseppe, conosceva abbastanza bene il tedesco (nel 1918 
      era stato prigioniero in Austria e successivamente aveva lavorato in 
      Germania). Rispose di avere 65 anni, di non aver mai visto dei partigiani 
      da quelle parti, che il maiale era stato venduto e non possedeva altri 
      animali perché era una famiglia povera la sua.
 Uno di loro, furibondo, lo minacciò con la pistola e, afferratolo per il 
      petto, gli urlò che lo avrebbe ucciso se non diceva la verità.
 A quel punto Mariuccia, d'istinto, si gettò sulla mano del militare che 
      impugnava l'arma cercando di strappargliela con tutta la sua forza, senza 
      riuscirvi.
 Il tedesco reagì con rabbia scaraventandola a terra, poi urlando e 
      imprecando, scaricò la pistola sulle galline che razzolavano nel cortile 
      uccidendone tre.
 Intanto un soldato era entrato in casa a rovistare nelle stanze e dentro i 
      pochi mobili, un altro, gironzolando per il cortile notò in terra delle 
      palline scure, i tipici escrementi delle pecore; puntando il fucile al 
      petto del povero Giuseppe, perentoriamente voleva sapere dove erano 
      nascoste. In quel momento una muta preghiera gli sgorgò spontanea dal suo 
      cuore : " Signore ! Fa che le pecore non belino ! "
 Anche a quella violenza Giuseppe non reagì, mantenne la calma e raccolto 
      tutto il suo coraggio cercò di convincerli che non possedeva né pecore né 
      altro bestiame oltre ai polli e ai conigli.
 Quello, per lui, fu certamente un gran brutto momento, denso di tensione e 
      paura, perché se le pecore, che erano vicinissime, avessero emesso anche 
      un solo belato, Giuseppe e forse tutta la sua famiglia sarebbero stati 
      fucilati sul posto senza pietà. Curioso ma vero: la vita di una famiglia 
      che dipendeva da un belato.
 Fortunatamente, le brave e buone pecore di Giuseppe restarono mute per 
      tutto il tempo, quasi consapevoli della gravità dell'evento.
 Dopo aver messo a soqquadro capanni e ripostigli attorno a casa, ed essere 
      entrati e usciti più volte dal porcile (sotto di cui stavano le pecore) 
      cercandole affannosamente, rivolsero con ira altri avvertimenti e minacce 
      ad entrambi i coniugi atterriti, poi, raccolte le tre galline morte ed un 
      paio di conigli se n'andarono verso il vicino casolare a ripetere le loro 
      brutalità e barbarie con altre persone inermi.
 Quando, scampato il pericolo, Giuseppe e sua moglie, ancora tremanti di 
      paura, rientrarono in casa, trovarono i loro tre figli: un maschietto di 
      otto anni, e le due femminucce di sei e quattro anni, terrorizzati, 
      rannicchiati in un cantuccio a fianco del camino, spaventati e ammutoliti 
      avendo assistito a tutta la brutale scena.
 Da dietro le persiane semichiuse della casa di fronte, altre due donne 
      trepidanti, non si erano perse un solo attimo del fattaccio e, subito 
      accorsero a rincuorarli.
 Le drammatiche immagini di quel giorno, al maschietto, oggi felice nonno, 
      gli sono rimaste stampate nella memoria e così le racconta ai posteri.
 Vito & XentanoInseparabili, l'uno l'opposto dell'altro come il comico e la spalla, 
           entrambi una faccia della stessa medaglia. Erano sempre in sintonia: 
           per intendersi bastava un gesto. Il loro agire sembrava 
           sincronizzato, neanche fossero marito e moglie. Due personaggi 
           mitici, rimasti nella memoria di tanta gente della vallata per la 
           loro grande umanità e simpatia. Senza timore di smentita, essi furono 
           per molti anni la coppia più affiatata e perfetta della SITA (Società 
           Italiana Trasporti Automobilistici).
 Due indimenticabili e diligenti operatori del trasporto pubblico in 
           vallata.
 Vito: il bigliettaio o conduttore, Xentano: l'autista. Sempre allegri 
           e gioviali con tutti. Impeccabili nelle loro divise e berretto 
           d'ordinanza.
 Il loro solito ed immutato tragitto era Bagno di Romagna-Cesena e 
           ritorno; due corse al giorno e la terza con capolinea Sarsina, loro 
           residenza, da dove ripartivano ogni mattino alle sei : una trentina 
           di fermate obbligatorie e diverse altre occasionali, circa tre ore 
           per corsa. Una vera faticata da non paragonarsi a quella dei pur 
           bravi autisti di corriera di oggi, se si considerano i mezzi di 
           allora e la vecchia malandata strada statale Umbro-Casentinese n° 71, 
           con le sue innumerevoli curve e tornanti, per non dire dell'estremo 
           disagio da affrontare nei mesi invernali.
 Non lesinavano mai a nessuno un sorriso, una battuta scherzosa oltre 
           a galanterie e complimenti alle donne, specie se belle. Ancora mi 
           chiedo come potessero essere sempre, a tutte le ore, di buonumore, 
           contagiando in tal senso anche i passeggeri più "musoni".
 Viaggiare nella loro corriera era un vero piacere.
 Alle fermate potevi vedere gente che scendeva dalla SITA col sorriso 
           stampato sul volto per l'ultima freddura di Xentano e l'immancabile 
           commento di Vito, che segnandosi la tempia con l'indice diceva 
           semiserio: " Non dategli retta, è svitato di natura ! "
 Su di loro si raccontano ancora le storie e gli aneddoti più curiosi; 
           eccone uno fra i tanti : un bel giorno di Aprile, a Cesena salì sulla 
           SITA in partenza per la Valle del Savio un'avvenente, giovane e 
           distinta signora. Xentano, già seduto al posto di guida, la salutò 
           per primo, mentre Vito, avvicinatosi per farle il biglietto le chiese 
           da dove provenisse e dove fosse diretta. "Provengo da Milano e vado a 
           Sarsina, sono la nuova direttrice del Museo Archeologico Statale 
           della Città." Partita la corriera, Vito si sedette a fianco e 
           continuò a conversare amabilmente con lei. Xentano, intanto, 
           sbirciava dallo specchietto retrovisore mugugnando fra se.
 A pochi chilometri da Cesena, Vito faceva notare alla Signora la 
           distesa di pescheti in fiore ai due lati della strada simile ad un 
           mare tutto rosa. Uno spettacolo della natura, puntuale ogni primavera 
           per pochi giorni, che appaga l'occhio e intenerisce l'animo.
 Mentre lei ammirava estasiata, di colpo la corriera accostò a destra 
           e si fermò in piena campagna fra i pescheti. Vito, allarmato, chiese 
           cosa fosse successo. "Abbiamo una gomma a terra ! " Fu la risposta di 
           Xentano, sceso immediatamente a terra. Mentre Vito stava per 
           raggiungerlo, egli, lesto, già risaliva con in mano un rametto di 
           pesco fiorito che cavallerescamente offrì alla bella signora 
           milanese, lasciando il povero Vito di stucco, poi, messosi di nuovo 
           alla guida, ripartì col suo solito ghigno beffardo in volto, mentre i 
           passeggeri applaudivano.
 Qualche volta capitava che salivano a bordo contadine delle contrade 
           con cesti o sporte pieni di uova, polli, piccioni e conigli da 
           vendere al mercato, ma senza una lira in tasca. In questi casi Vito 
           soprassedeva chiudendo un occhio e rinviando il pagamento del 
           biglietto al loro ritorno, dopo l'avvenuta vendita della merce.
 Negli anni 50/60, anni della grande emigrazione, gli anni del 
           dopoguerra, quando la miseria sradicava migliaia di famiglie dalla 
           ingrata collina per la pianura o verso le grandi città alla ricerca 
           di lavoro e con la speranza di una vita più dignitosa, e tante altre 
           migliaia di persone, per lo più giovani, per lo stesso motivo, 
           emigravano in Svizzera o Germania, la SITA della rinomata Ditta "Xentano 
           & Vito" spesso si riempiva di giovani con valigie di cartone che 
           scendevano dalla valle diretti a Chiasso.
 Molti, per sciogliere il magone dell'addio ai genitori, ai 
           famigliari, alla casa e al paese, in corriera cantavano a 
           squarciagola fino a Cesena.
 Altri, diciottenni come me, mai allontanatisi dal paesello natio, più 
           romantici e malinconici, se ne stavano seduti silenziosi e muti col 
           cuore gonfio di pianto e nostalgia, guardando, come fosse l'ultima 
           volta, il noto paesaggio che scorreva via veloce.
 Vito, che intuiva il nostro stato d'animo, per stemperare la 
           tensione, con fare fintamente burbero lanciava le sue battute : " 
           Ragazzi avete svuotato la dispensa di casa ? Dal peso e dall'odore di 
           salame che emanano le vostre valigie si direbbe di sì. Nella tua, 
           Stefano, deve esserci anche del buon formaggio di pecora ben 
           stagionato e qualche bottiglia di Sangiovese. E non dirmi di no, 
           conosco bene i tuoi genitori ! E chi sà quante maglie di lana vi a 
           messo dentro la mamma per timore che prendi freddo." Xentano, da 
           parte sua, durante le fermate, raccontava qualche barzelletta.
 Giunti alla stazione di Cesena ci salutavano con un : " Av salut 
           raghez, a staltr'an, quand' arturnerì sla valisa pina ad ciculéta". ( 
           Arrivederci ragazzi al prossimo anno, quando ritornerete con la 
           valigia piena di cioccolato.)
 Storia di un miracoloIl male che da un anno affliggeva Francesco restava ancora misterioso.
 Dopo tante visite mediche specialistiche, innumerevoli analisi, 
      radiografie e TAC, la diagnosi era ancora incerta.
 L'ansia, la tensione e la paura montavano ogni giorno di più al pari 
      dell'intensificarsi dei dolori all'addome. La preoccupazione investiva 
      anche la moglie e i figli, la serenità della famiglia era compromessa.
 Finalmente, dietro consiglio del medico di famiglia, fu presa la decisione 
      di consultare un noto professore di un centro ospedaliero del nord Italia.
 Così, munito di tutte le cartelle cliniche collezionate negli ultimi mesi, 
      Francesco accompagnato dalla moglie Agnese partirono fiduciosi e 
      speranzosi.
 Consultate le carte, il professore, consigliò un immediato ricovero nel 
      suo grande e qualificato ospedale, prospettando un delicato intervento 
      chirurgico.
 Dopo 10 giorni di degenza e dopo aver ripetuto tutte le analisi di 
      laboratorio, fu formulata la diagnosi, (spesso nefasta) : tumore al 
      pancreas, in fase avanzata.
 Francesco, viste le facce e gli atteggiamenti dei famigliari, intuì le 
      gravità del suo stato, la delicatezza dell'intervento al quale a giorni 
      sarebbe stato sottoposto e l'incertezza se fosse stato risolutivo, pregava 
      incessantemente.
 Tutti i giorni e durante le ore insonni della notte il suo spirito era 
      rivolto al Signore. Pregava con fervore chiedendo l'intervento per la sua 
      guarigione a Santa Maria Goretti, della quale era particolarmente devoto, 
      avendo in comune con lei lo stesso paese natale Corinaldo nelle Marche. 
      Con l'approssimarsi dell'intervento si intensificarono le sue preghiere, 
      mentre le sofferenze aumentavano e il suo corpo si debilitava, il suo 
      spirito era rivolto costantemente a Gesù e a S. Maria Goretti.
 La notte precedente l'intervento sognò una bella fanciulla dodicenne 
      vestita di bianco che incontrava lungo un sentiero di campagna costeggiato 
      da caspi di ginestre in fiore che, dal paesello conduceva alla vecchia 
      fonte dell'acqua. Nel sogno anche lui era adolescente.
 Serena e sorridente, con occhi limpidi e luminosi, voce soave, le disse: " 
      Ciao Francesco, non temere per l'esito dell'intervento, stai sereno, 
      continua a pregare, non hai niente di grave, presto tornerai a casa con la 
      tua famiglia".
 Il mattino successivo la visita mattutina dei medici trovarono Francesco, 
      rilassato, sereno, viso colorito, disteso e senza dolori. Seguì 
      immediatamente una visita collegiale ed un consulto col professore e 
      l'intervento fu sospeso. L'esame con la TAC che seguì risultò negativo, il 
      tumore non risultava più visibile, e perciò l'intervento non era più 
      necessario. " Per noi Il paziente è inaspettatamente e misteriosamente 
      guarito. Il tumore è incredibilmente scomparso ". Questa fu la sibillina 
      sentenza del professore .
 E, rivolto a Francesco, che lo stava ringraziandolo per le premurose cure 
      prestate : " Lei deve avere un potente Santo protettore in Cielo a cui 
      deve essere grato per il prezioso dono che le ha fatto, ma se i santi ci 
      togliessero tutti i pazienti dal letto operatorio noi chirurghi perderemmo 
      il nostro lavoro".
 Prima di lasciare l'ospedale raccontò per la prima volta il sogno alla 
      suora che spesso era venuta al suo capezzale per incoraggiarlo, essa fu 
      convinta che la ragazzina apparsagli in sogno non poteva essere che Maria 
      Goretti
 La stessa sera Francesco era seduto sul divano di casa e accendendo il 
      televisore, con sua sorpresa, la Rai trasmetteva il Film sulla vita della 
      Santa che lo aveva miracolato :
 " cielo sulla palude". del 1949. Commosso e riconoscente, con le lacrime 
      agli occhi, segui sullo schermo tutta la storia.
 
 Storia vera raccontatami da Suor Lucia che l'ha ascoltata per prima dal 
      miracolato ancora oggi vivente.
 Potenze malefiche"Cari parrocchiani, dalle Sacre Scritture e dal Vangelo, apprendiamo 
           che il diavolo esiste ed opera incessantemente nel mondo, tutti i 
           giorni possiamo notare come la sua opera demolitrice dello spirito e 
           delle coscienze agisca sugli uomini rendendoli succubi al suo 
           malefico potere.
 Un esempio sono le guerre, l'odio fra persone anche dello stesso 
           quartiere e addirittura dello stesso sangue, l'egoismo, le 
           perversioni sessuali ecc…: Anche nella nostra piccola parrocchia, con 
           il suo influsso malefico sta operando in alcune persone in modo molto 
           evidente.
 Ciò è reso visibile dal fatto che alcuni parrocchiani non vengono più 
           in chiesa e non si accostano più ai Sacramenti, e quel che è peggio 
           bestemmiano continuamente il Signore Gesù e la Sua Santissima Madre 
           Maria con epiteti orrendi, blasfemi e irripetibili, che solo il 
           demonio più suggerire…..; preghiamo tutti affinché l'opera 
           demolitrice del diavolo cessi e queste anime ritornino presto 
           all'ovile del Buon Pastore… ."
 Questo era uno stralcio della predica che Don Olinto stava svolgendo 
           dall'altare quella domenica mattina durante la Messa. Già da un po' 
           di tempo il tema dell'omelia domenicale era sempre lo stesso : "Il 
           diavolo ", che a suo parere si stava impossessando dell'anima dei 
           suoi parrocchiani.
 Anche altri preti, in quel periodo, consideravano il diavolo artefice 
           e causa di tutti i mali morali e materiali che portavano molti 
           cristiani dritti all'inferno.
 "Molti sono i chiamati e pochi saranno gli eletti", " Se non vi 
           convertirete perirete nel fuoco della Geenna", erano la frasi del 
           vangelo, dette da Gesù, su cui facevano perno le loro prediche. 
           Trascurando l'aspetto della misericordia e l'immensa bontà di Dio nei 
           confronti dei suoi figli, fatti a sua immagine e somiglianza, per i 
           quali suo Figlio si è fatto uomo e poi crocifisso per riscattarli dal 
           male e, con la risurrezione, portarli tutti all'eterna salvezza.
 All'uscita dalla chiesa molti discutevano a bassa voce su quanto 
           detto dal Don Olinto nella predica, e avanzavano nomi di persone 
           conosciute che non frequentavano più la chiesa, che proferivano 
           maldicenze sui preti e bestemmiavano.
 Nell'elenco di questi "peccatori incalliti" della parrocchia, 
           occupava da tempo il primo posto Costantino, il proprietario delle 
           macchine trebbiatrici, con le quali in luglio e agosto girava tutta 
           una vasta zona della collina ai lati della valle, passando per ogni 
           podere a trebbiare il grano o l'orzo.
 In effetti era famoso non solo come l'uomo delle trebbie, ma anche 
           per le innumerevoli bestemmie che sciorinava continuamente e per il 
           suo caratteraccio iroso e focoso. Anche quelle poche volte che era 
           calmo e quasi tranquillo, intercalava una bestemmia ad ogni parola in 
           un una normale conversazione, che spesso, diveniva una accalorata e 
           colorita discussione, dato che egli voleva sempre ragione.
 Se poi qualcosa andava storto, come quando, durante la trebbiatura 
           del grano, un pezzo della trebbiatrice si rompeva, apriti cielo, o 
           meglio apriti inferno, ne sgranava dei "rosari" interi, contro Dio, 
           la Madonna ed i Santi, di quelle tremende che facevano rabbrividire. 
           Quando quella furia si scatenava, la mamme trascinavano via i 
           bambini, portandoli lontano da quell' "orco" che vomitava senza 
           sosta, orrende bestemmie e parolacce.
 "Dovrebbero portalo di forza da San Vicinio a Sarsina e mettergli la 
           catena al collo, affinchè siano allontanati tutti i demoni che ha in 
           corpo "
 Diceva la gente fra se.
 Un giorno che la trebbia trainata da due paia di buoi, veniva 
           trasportata da un podere ad un'altro attraverso uno stretta e ripida 
           mulattiera alquanto sconnessa, in un difficile passaggio, prima 
           oscillò paurosamente poi si ribaltò di schianto per la scarpata.
 La caduta causò molti gravi danni alla struttura in legno della 
           macchina, Costantino scattò con urli sovrumani e, mettendosi in 
           ginocchio per terra con le mani rivolte al cielo come per pregare, 
           per venti minuti proferì a squarciagola più di mille bestemmie, una 
           più terribile dall'altra, dimostrando anche una perfida fantasia.
 Alcune, volte don Olinto incontrandolo, lo aveva esortato a 
           controllarsi, perché oltre a perdere l'anima, procurava grande 
           scandalo in tutta la parrocchia ed il circondario, con tutto quel 
           veleno che usciva dalla sua boccaccia.
 "Costantino, il tuo è un viziaccio maledetto che devi smettere se 
           vuoi salvarti l'anima, altrimenti le porte dell'inferno si 
           spalancheranno per te !"
 Lui, con asprezza, rispondeva pressappoco così:
 "Vai al diavolo, corvo nero ! Non rompermi il … ! Le prediche vai a 
           farle in chiesa non a casa mia, io bestemmio quanto mi pare e piace, 
           puttana …., porco ….!."
 Il povero Don Olinto si allontanava scosso e addolorato recitando 
           giaculatorie in riparazione.
 Un venerdì santo, prima della Pasqua, Costantino si trovava nel 
           capannone dove stavano le trebbie, intento a ripararne una. Benché 
           fosse solo, ad ogni bullone che mal si avvitava, alla chiave che gli 
           scivolava di mano, alla martellata che involontariamente si era dato 
           sulla mano, sgranava come sempre imprecazioni e centinaia di 
           bestemmie che " bruciavano l'aria" come si diceva da quelle parti.
 Fra Domenico, il vecchio eremita del Monte Carpegna, presso cui mi 
           trovavo ospite, che da anni aveva lasciato il convento ritirandosi a 
           vivere solitario nell'eremo in cima a quest'aspro monte, fece una 
           lunga pausa e con voce sommessa proseguì nel raccontare la storia di 
           Costantino che aveva conosciuto molti anni prima ai piedi del 
           Falterona, proseguì : "mentre Costantino, preso dall'ira per i 
           piccoli accidenti che gli stavano capitando in quel venerdì santo, 
           continuava a snocciolare imprecazioni e bestemmie rivolte a tutte le 
           divinità del Cielo, si sentì chiamare ripetutamente per nome.
 Stizzito, per essere spiato e disturbato in quel frangente, chiese a 
           gran voce:
 " Chi è che mi vuole ?! "
 La voce che proveniva dall'esterno del capannone riprese:
 "Costantino vieni fuori che ho bisogno di te ".
 Egli, inviperito, continuando a maledire e bestemmiare andò sulla 
           porta. Eretto davanti a se, in piena luce del giorno, stava un 
           giovane alto, distinto, elegantemente vestito con abito scuro e una 
           valigetta ventiquattrore in mano.
 "Chi siete e cosa volete da me, non vi conosco ma vi dico subito che 
           non mi occorre nulla". Fu pronta la risposta.
 Il giovane dai capelli neri, occhi chiari e freddi, con voce 
           suadente, disse:
 "Sono un amico, e come tale sono venuto per aiutarti. So che ti sono 
           capitate diverse disgrazie con le macchine trebbiatrici e le cose non 
           ti vanno troppo bene, io posso fare in modo che tutto vada per il 
           meglio e in breve tu possa arricchire e vivere da gran signore tutta 
           la vita….".
 Interrompendolo, Costantino, alquanto arrabbiato ma anche incuriosito 
           da quanto questo giovane sconosciuto, dai modi garbati ma che gli 
           dava del tu, andava dicendo, riprese:
 "Ho già detto che non mi serve nulla, ma se fossi interessato alle 
           vostre proposte cosa vorreste in cambio ?"
 Il giovane trasse dalla borsa nera un foglio stampato con inchiostro 
           rosso e lo porse a Costantino:
 "Devi solo opporre la tua firma su questo contratto", così dicendo 
           gli allungò anche la penna.
 Costantino preso il foglio, inforcò gli occhiali e si accinse a 
           leggere le condizioni di questo strano contratto. Subito gli venne da 
           pensare che il giovane fosse un rappresentante di qualche ditta che 
           costruiva le macchine trebbiatrici e avendo saputo che le sue erano 
           vecchie ed un po' malandate, fosse lì per proporgli l'acquisto di una 
           nuova.
 Era ancora alla prima riga, quando iniziò a sbiancare in volto, le 
           gambe a tremare, la lingua e la gola seccarsi.
 Col foglio in mano, prima ancora di alzare la testa per guardare 
           meglio il giovane sconosciuto che ancora stava in piedi ad un passo 
           da lui, il suo sguardo si posò sui suoi piedi.
 Invece delle scarpe, oltre l'orlo dei pantaloni spuntavano due grosse 
           zampe pelose di caprone. Gli occhi non erano più chiari ma rossi come 
           due carboni accesi.
 Il terrore lo assalì improvviso bloccandogli ogni reazione.
 Voleva urlare, ma dalla gola secca uscì solo un rantolo. Poi si sentì 
           afferrare saldamente come da una morsa e sollevare da terra come un 
           fuscello.
 Avvinghiato da quell'essere che sghignazzando lo trasportava sempre 
           più in alto superando le cime dei monti, si sentiva morire.
 Restando cosciente, benché atterrito dalla paura, pieno di nausea, 
           gli parve di sorvolare monti e valli in un attimo.
 E l'altro sghignazzando come divertito, urlava: "Costantino, ormai 
           sei mio, quante volte mi hai chiamato e invocato… eccomi sono venuto 
           a portarti con me !"
 Costantino prima di perdere i sensi ebbe la forza di invocare il 
           Signore:
 "Gesù Cristo salvami ! E ancora :".Mio Dio perdono ! Perdono ! 
           Perdono !"
 Con un versaccio bestiale, l'essere abominevole di colpo lo mollò.
 Egli precipitò come un sasso da un'altezza considerevole, ma a pochi 
           metri da terra perse velocità e la forza d'attrazione della terra 
           cessò, probabilmente per il tempestivo intervento dell'angelo 
           custode, planò dolcemente come una piuma, sano e salvo.
 Non era stato un incubo. Si trovava realmente in vetta al monte 
           Falterona, a cento chilometri da casa. Il volto stralunato e i 
           capelli di colpo bianchi come la neve.
 I famigliari solo a sera, non vedendolo arrivare per la cena, 
           iniziarono a preoccuparsi. Lo attesero tutta la notte e al mattino 
           denunciarono ai carabinieri la misteriosa scomparsa.
 Non sapendo cosa pensare, lo cercarono ovunque per una settimana 
           senza risultato.
 A terra davanti al capannone degli attrezzi furono trovati uno strano 
           foglio di carta scritto in latino con inchiostro rosso, un paio 
           d'occhiali rotti ed una penna stilografica d'oro.
 Don Olinto, saputo della sparizione di Costantino, era subito accorso 
           a consolare i famigliari.
 La moglie piangendo, gli diede il foglio chiedendogli di tradurre il 
           testo per sapere se poteva esserci un nesso con la scomparsa del 
           marito.
 Mentre Don Olinto leggeva, un brivido le attraversava le membra; 
           quello scritto era un vero e proprio "diabolico " contratto" 
           notarile, che così recitava :
 
 "Io sottoscritto Costantino N., nato il 06 Giugno 1910 nel pieno 
           delle mie facoltà mentali dichiaro di odiare Dio, la Madonna, e tutti 
           i Santi, abiuro il battesimo, la cresima e l'appartenenza alla Chiesa 
           Cattolica Romana, ciò premesso cedo la mia anima a satana il quale, 
           alla mia morte, potrà disporre come crede, in cambio mi saranno 
           elargite enormi ricchezze, onori, potere e soddisfatto ogni altro 
           desiderio, qui non menzionato.
 Firmato e sottoscritto dalle parti: Lucifero e Costantino."
 
 Costantino, girovagò come un'automa per due giorni, finchè lacero e 
           sfinito bussò alla porta del convento di frati Cappuccini che si 
           trova ai pedi del monte Falterona.
 Restò con loro un mese. Quella tremenda esperienza lo aveva distrutto 
           nell'animo e nel corpo. I Frati, fra loro, c'era al tempo, anche il 
           mio interlocutore Fra Domenico, lo aiutarono a sollevarsi nello 
           spirito e nel corpo, raccolsero tutta la sua storia, che raccontò 
           loro in tutti i particolari.
 Per giorni pianse amaramente, pentendosi di tutte le sue colpe fatte 
           con intenzione e odio.
 Avrebbe voluto fermarsi per sempre in quel luogo, per scontare tutti 
           i sui peccati, ma i frati, saggiamente lo esortarono a ritornare a 
           casa dai suoi famigliari che non avevano cessato di sperare nel suo 
           ritorno.
 Un mattino presto, la moglie udì bussare alla porta, era il suo 
           Costantino, o meglio, ben presto scoprì che non era più l'uomo 
           irascibile e cattivo che conosceva, ma un uomo pio e mite come 
           un'agnellino; non solo non bestemmiava più, ma non proferiva parola 
           alcuna.
 Aveva fatto voto di non parlare per il resto della sua vita.
 Morì serenamente nel 1983, in pace con Dio e con tutti, aveva 73 
           anni. Dal giorno del suo ritorno a casa aveva espiato, restando muto 
           per diciotto anni.
 Xentano a pescaLe sue barzellette erano irresistibili, le battute esilaranti, i suoi 
           scherzi sono rimasti proverbiali. Diverse persone che l'hanno 
           conosciuto, ancora oggi raccontandoli suscitano l'immediata risata.
 Nei giorni di riposo, Xentano, indimenticabile personaggio Sarsinate, 
           come tanti altri andava al fiume a pescare.
 Avendo in mente l'architettura di un ennesimo scherzo, per alcune 
           settimane, nei bar del paese sparse la voce che da un po di tempo 
           egli andava al fiume senza aver rinnovato la licenza di pesca.
 I compagni di bevute lo mettevano in guardia:
 Attento Xentano: le guardie venatorie non solo verificano se i 
           cacciatori siano in regola, ma vanno anche lungo il fiume a 
           controllare le licenze dei pescatori ".
 Come tutte le domeniche estive anche quel giorno, di buon mattino, 
           andò al fiume munito di tutta l'attrezzatura per la pesca, calzando 
           enormi stivaloni di gomma alti fino alla coscia e l'immancabile 
           sigaretta fra le labbra.
 Si piazzò ai margini di un ampio gorgo, a valle del palazzo comunale 
           di Sorbano, appoggiò una canna fra due pietre e, stretta fra le mani 
           l'altra, più lunga, adatta ai lunghi lanci dell'esca al centro del 
           gorgo, e si mise in vigile attesa.
 Era una limpida mattinata che si annunciava divenire una giornata 
           molto calda.
 Più a valle si potevano notare altri pescatori, forse dei bolognesi, 
           i quali, in quegli anni, erano soliti venire a pescare nel nostro 
           fiume Savio. All'alba erano già sul posto di pesca, ciò significava 
           che, tenuto conto dei 100 chilometri di viaggio, si erano alzati alle 
           tre di notte.
 Verso le dieci, Xentano, intento a pescare barbi nel gorgo grande, li 
           vide apparire; avanzavano curvi e circospetti ai margini del letto 
           del fiume fra la bassa vegetazione lacustre. Non vera alcun dubbio, 
           erano le due guardie venatorie che da un po di tempo imperversavano 
           lungo il fiume cogliendo in fallo diversi pescatori sprovvisti di 
           licenza o multavano per il pescato fuori misura.
 Xentano continuò a fissare il suo galleggiante senza dar segno di 
           averli scorti ma, con la coda dell'occhio controllava il loro cauto 
           avvicinamento, era certo che questa volta avevano adocchiato proprio 
           lui.
 Del resto si aspettava una loro visita avendo sparso ai quattro 
           venti, o meglio, alle quattro osterie del paese, che in barba alle 
           guardie del fiume, lui andava a pescare senza licenza.
 Quando vide che i due erano a 30/40 metri, lasciò andare le due canne 
           e si mise a correre a gambe levate verso valle lungo il letto del 
           fiume saltellando sopra le lucide pietre.
 "Fermati Xentano, fermati sappiamo che sei un bracconiere dobbiamo 
           multarti !"
 Così dicendo lo inseguivano correndogli dietro,
 " Amici, ce l'ho la licenza ! " Urlò Xentano proseguendo la corsa 
           sempre più velocemente,
 " Fermati allora e lascia che controliamo !"
 Dopo aver percorso alcune centinaia di metri, Xentano di colpo si 
           fermò. I due ansanti e trafelati in breve lo raggiunsero e lo 
           afferrarono per le braccia temendo che scappasse ancora.
 "E' un po che fai il furbo con noi, ma oggi ti abbiamo alfine 
           "pescato" con le pive nel sacco. Sai quanto ti becchi di multa 
           adesso…? Esattamente cinquantaseimilaseicento lire." "Ma io sono in 
           regola, ve l'oh già detto !" Ribattè pacato Xentano e, infilata la 
           mano nella tasca del corpetto estrasse la licenza e la consegnò alle 
           guardie le quali, esterrefatte. notarono che il documento era in 
           perfetta regola, come aveva affermato.
 "Ma allora perché sei fuggito via e ci hai fatto penare per 
           acciuffarti ?"
 La risposta sibillina di quel buontempone di Xentano fu lapidaria e 
           come una pugnale trafisse da parte a parte le guardie: " Cari amici, 
           da quando in qua è vietato correre lungo il fiume ? "
 Contatto ravvicinatoPenso che nel corso della vita vi siano per tutti quei giorni "speciali" 
      nei quali, per un particolare stato d'animo, il cuore trabocca di gioia e 
      tutto pare più bello, la natura più armoniosa, le persone più buone e 
      simpatiche. Sono momenti fantastici nei quali si percepisce più che mai 
      l'appartenenza al creato e, allo stesso tempo, si ha la sensazione di 
      esserne i padroni. Percezioni intense e coinvolgenti, che si provano più 
      frequentemente durante l'adolescenza, la pubertà ed anche nella terza età, 
      che nell'età matura, durante la quale prevalgono le problematiche del 
      contingente, quali: lavoro, carriera, famiglia, affari, che coprono come 
      un velo di cenere la brace accesa che è dentro di noi, e ci impediscono di 
      assaporare appieno l'essenza della vita.
 Da adulti si è troppo presi dall'incessante e vorticoso susseguirsi delle 
      quotidiane fatiche per accorgerci dei miracoli che la natura compie sotto 
      i nostri occhi : un bel tramonto, un campo di papaveri, un cielo stellato 
      in una limpida notte d'estate, il candore del manto di neve che copre i 
      monti o il canto di un usignolo che annuncia la primavera.
 Fu in uno di questi giorni "particolari", nei quali lo spirito emerge a 
      fior di pelle e le sensazioni sono più intense che capitò ciò che cercherò 
      di descrivere.
 La giornata, fin dal mattino, si presentò splendida, di quelle che ti 
      fanno dire: "Grazie Signore di essere qui e godere delle Tue meraviglie". 
      L'aria limpida e tersa, il cielo di un celeste vivo, in contrasto con 
      qualche solitaria nuvola bianca che lentamente vi navigava diretta a 
      ponente.
 Il sole continuava ancora la sua funzione di scaldino della terra, ma 
      senza strafare.
 Le piante stavano assumendo i caldi colori autunnali, le prime foglie 
      gialle si staccavano dai rami e, spinte da una lieve brezza, dondolando, 
      andavano a sdraiarsi sul terreno per poi lentamente fondersi con esso in 
      perfetta osmosi.
 I grilli erano alle ultime note del loro concerto; un magnifico ottobre 
      stava per finire.
 Quel particolare stato d'animo e quella giornata speciale prepotentemente 
      m'invitavano ad uscire da casa ed immergermi nella natura che mi 
      circondava come in un bagno ristoratore.
 Lasciai l'abitazione e, a piedi, mi diressi verso monte con l'intento di 
      risalire la parte sud del colle (chiamarlo monte sarebbe eccessivo) che si 
      erge per 800 metri sulla sinistra del fiume ad un chilometro dal paese. 
      L'idea era quella di raggiungere la vetta ripercorrendo la vecchia 
      mulattiera, con la speranza di ritrovarla agibile dopo anni di abbandono.
 Ben attrezzato, con bastone e scarpe da traecking, salutai la mia bella 
      moglie che restava a casa con i due figlioletti e intrapresi il cammino 
      carico di buona volontà, energia e grande euforia.
 I primi trecento metri di salita furono alquanto facili, dato che il 
      sentiero era praticabile essendo ancora un passaggio obbligato per i 
      cacciatori e cercatori di funghi e cinghiali.
 A metà di questo primo tratto raggiunsi un'anziana signora, con una sporta 
      in una mano e un bastone nell'altra, lentamente saliva il sentiero nella 
      mia stessa direzione.
 Per un tratto mi misi al suo passo. Disse di avere settant'anni e che 
      tutti i giorni saliva, dal fondovalle per il sentiero fino alla 
      "Cassandra", la vecchia casa dove aveva vissuto per trent'anni con suo 
      marito, da qualche tempo deceduto.
 Vi si recava per accudire ai suoi animali: pochi conigli, cinque galline, 
      un gatto ed un cagnolino. Parlammo del più e del meno, convenimmo che dopo 
      diversi giorni grigi, questa era veramente una giornata splendida. "Un 
      altro dono di Dio" sentenziò rivolta al cielo. Mi parve una donna ancora 
      energica, serena e piena di buon senso, proprio come mia madre alla quale 
      assomigliava in modo sorprendente.
 Arrivati alla sua casa, mi invitò ad entrare per bere un " goccio" di 
      vino. Gentilmente declinai l'invito e salutatala proseguii puntando alla 
      sommità del monte.
 Lungo il sentiero, ancora abbastanza praticabile, mi imbattei in diversi 
      borghi e casolari abbandonati, i cui nomi mi erano noti, ove, fino agli 
      anni sessanta, vi pulsava un'intensa vita : case rurali dove per secoli 
      avevano vissuto, pigiati in anguste e misere stanze, famiglie numerose con 
      nugoli di figliuoli e tanti animali domestici. Tutt'intorno solo campi e 
      boschi stesi sui pendii del monte.
 Ora non si udivano più grida di ragazzi, voci di donne, belati e muggiti 
      di animali, ma vi regnava un silenzio assoluto e spettrale. Si potevano 
      notare solo ruderi assaliti da rovi e vitalbe, e… tanto squallore. Diverse 
      case senza infissi che, resistendo alle intemperie erano ancora intatte, 
      ti fissavano con quelle occhiaie nere e vuote da mettere i brividi. Una 
      desolazione che, malgrado la giornata "speciale", mi riempì il cuore di 
      malinconia.
 Ricordavo i nomi di quelle località perché, quando bambino, subito dopo la 
      guerra, andavo col babbo al mulino, laggiù nel fiume, spesso incontravamo 
      i coloni che le abitavano, i quali con asini o muli vi scendevano a 
      macinare i cereali. Venivano dalla Cassandra, da Cà di Marco, da Cà di 
      Santuccio, dalla Casaccia, dalle Ville, dal Greppo, da Capro, dalla 
      Liscia, dalla Punta o da Tezzo.
 Ad un tratto, proprio sopra Cà di Santuccio, la mulattiera scomparve in un 
      campo di erba medica. Saranno state le ore dieci, mi sedetti per riposare 
      un po' e rimirare il panorama. All'orizzonte, in primo piano, vedevo il 
      monte Aquilone con una nuvoletta bianca a mo' di cappello sulla cima, e 
      oltre, il massiccio del Carpegna, più a ovest il monte Comero ed il 
      Fumaiolo, poi cento altri dolci colli che andavano declinando a scala 
      nell'ampia valle modellata dal fiume che da sempre vi scorre al centro 
      come una vena.
 Mentre gustavo quella corroborante visione d'insieme, certamente non 
      paragonabile ai panorami mozzafiato delle Dolomiti, ma pur sempre bello e 
      a me più familiare, mi parve di udire un canto; prima flebile e poi sempre 
      più forte e molto vicino. Intuii trattarsi di un coro il cui canto era 
      davvero dolce e soave, direi celestiale. Sorpreso, cercai di capire donde 
      provenisse.
 Mi guardai intorno, ma per un ampio raggio non vidi nessuno, o meglio, 
      come è in uso dire in simili circostanze : "nei dintorni non v'era anima 
      viva". Allora pensai provenisse dalla chiesa di Sorbano, anche se distante 
      almeno un paio di chilometri in linea d'aria. Le parole del canto che mi 
      giungevano sembravano latino e la musica gregoriano, da ciò dedussi che, 
      forse per uno strano gioco di eco, dovesse provenire dalla chiesa. Ma poi, 
      riflettendo, trovai strano che a quell'ora di un giorno feriale vi si 
      celebrasse una funzione. La cosa che di colpo mi fece trasalire e 
      accapponare la pelle fu l'improvviso rammentarmi che la chiesa era stata 
      serrata per pericolo di frana alcune settimane prima, perciò non poteva in 
      alcun modo provenire da lì." Ma allora dove sono questi cantori che non 
      vedo ma sento qua intorno ? ".
 Mentre ad intermittenza il canto corale continuava ad arrivare chiaro 
      all'udito, mi alzai e, per guardarmi meglio intorno, salii sopra un masso 
      poco distante. Fu allora che ebbi la certezza della provenienza. Sotto di 
      me, a qualche centinaia di metri, scorsi il piccolo cimitero, ben visibile 
      laggiù in pieno sole, al centro del quale si erge alto e maestoso un 
      vecchio centenario cipresso.
 Ma all'interno non scorsi alcun essere vivente. Mi convinsi che il 
      melodioso canto poteva provenire solo dal camposanto. Non v'era altra 
      spiegazione logica e razionale, considerato il luogo isolato.
 Questa convinzione quasi mi rasserenò e placò la tensione che mi aveva 
      invaso per tutto il corpo.
 Lentamente i brividi di paura passarono. Per darmi una risposta, pensai 
      che quel coro così intonato fosse composto dalle tante persone che nei 
      secoli avevano vissuto, gioito e penato su quei greppi, nelle case che 
      poco prima avevo visto abbandonate, e dopo la loro morte, lì erano stati 
      posti a riposare nell'attesa della risurrezione. Le loro anime si 
      preparavano all'imminente festa di Tutti i Santi, cantando insieme inni al 
      Signore.
 Mentre questi pensieri si accalcavano tumultuosi nella mia mente, 
      l'armonioso canto improvvisamente cessò.
 Stordito e confuso, ripresi il cammino di ritorno verso casa.
 Ma ancor oggi, trascorsi tanti anni, resta intatto e insoluto il mistero 
      di quel "contatto ravvicinato" con l'Altro Mondo, vissuto in quello 
      splendido e indimenticabile giorno di fine ottobre.
 La querciaIl lungo braccio rosso della gru la depositava con cautela in mezzo alla 
      piazza del paese. Mille occhi ammiravano con stupore e meraviglia la lenta 
      discesa a terra dell'enorme tronco, dal peso di almeno 12 tonnellate, 
      imbragato alla gru con grossi cavi di acciaio.
 L'idea di esporre la superba quercia della famiglia delle roverelle in 
      piazza, affinché, tutti potessero vederla; le scolaresche ammirarla e 
      scriverne saggi, i botanici studiarla, è stata del giovane, intraprendente 
      Sindaco e messa in atto dalla Pro Loco di Mercato Saraceno: caratteristico 
      paese sito al centro della valle del Savio.
 Lo scorso cattivo inverno e una rara combinazione di eventi atmosferici 
      negativi hanno concorso alla morte di molte querce o roverelle nel 
      territorio, e purtroppo anche della superba quercia di Paderno che si 
      ergeva da ben 450 anni nel parco dell'antica villa dei Signori 
      Bondanini-Mussolini, anzi aveva già qualche secolo quando la villa venne 
      eretta al suo fianco. Era una pianta nota e conosciuta da molti, 
      certamente da tutti i Mercatesi, da tempo catalogata fra le piante 
      monumentali della regione. Tutte le piante si dovrebbero considerare 
      monumenti naturali, da ammirare e rispettare anche di più dei monumenti in 
      marmo o in bronzo, perché esse oltre ai frutti ci filtrano il preziono 
      alimento indispensabile alla vita: l'ossigeno.
 Aveva resistito per tanto tempo a mille bufere, a venti forti, alle 
      tempeste, agli uragani, ai fulmini ed anche alle granate durante la 
      guerra; aveva affrontato e vinto mille burrasche nei secoli, non ha ce là 
      fatta a superare gli attacchi di quest'inverno anomalo.
 Il peso di quaranta centimetri di neve pesante fradicia d'acqua sulla 
      folta chioma ancora vestita di fogliame, e tanta pioggia caduta prima 
      della nevicata, ha allentato la presa delle radici sul terreno inzuppato 
      d'acqua; per questo, lentamente, la pianta ha ceduto ed è crollata lunga e 
      distesa, completamente sradicata, attraverso la strada che conduce al 
      vicino cimitero dove riposano le spoglie del fratello del "Duce", Arnaldo 
      Mussolini e della sua famiglia che durante il ventennio abitarono la 
      villa.
 In questi giorni, dopo che il fatto è apparso sui giornali locali, molte 
      persone della valle ed altre provenienti dalla città vengono per vederla e 
      fotografarla. E' veramente imponente e bella: sembra un'enorme drago 
      morente; con quelle braccia tronche rivolte al cielo, quel fusto imponente 
      dalla pelle scura avvizzita pare un rinoceronte. Potrebbe ben figurare 
      come opera d'arte moderna in un salone alla biennale di Venezia.
 
 Ogni persona ha la sua storia contrassegnata dalla data di nascita e da 
      altre che scandiscono gli eventi più importanti della vita, fino 
      all'ultima, quella fatidica. Anche per il mondo animale, in parte, vengono 
      registrate le date più importanti, specie per gli animali cosiddetti 
      nobili o che più interessano l'uomo come i cavalli, i cani e altri animali 
      di cui l'uomo vuole prendersi cura. Non così, di norma, avviene per il 
      mondo vegetale.
 Per la monumentale quercia di Paderno una storia si potrebbe scrivere 
      iniziando col dire che spuntò, timida e fragile come un piccolo stelo 
      d'erba attorno all'anno Domini 1560. Al tempo sulle Romagne regnava Papa 
      Giulio III° (1550/1555), ed ebbe la fortuna di sopravivere a tanti rischi 
      e avversità.
 Crebbe sana e forte, testimone muta e immobile di tanti eventi atmosferici 
      e innumerevoli storie di uomini che, nei secoli, hanno sostato sotto la 
      sua folta chioma. Chioma che per 450 volte ha rinnovato il suo fogliame, 
      abbandonando ai suoi piedi ogni autunno, tappeti di foglie morte; godendo 
      per tanto tempo del calore del sole dal quale ha ricevuto puntualmente 
      ogni primavera il rinnovo della vita . Della sua inattesa fine già ho 
      scritto .
 
 Un' evento simile ispirò al grande poeta romagnolo Giovanni Pascoli questa 
      poesia :
 
 LA QUERCIA CADUTA
 
 Dov'era l'ombra, or sé la quercia spande
 Morta, ne più coi turbini tenzona.
 La gente dice: or vedo: era pur grande !
 Pendono qua e là dalla corona
 I nidetti della primavera.
 Dice la gente : or vedo : era pur buona !
 Ognuno loda, ognuno taglia. A sera
 Ognuno col suo grave fascio va.
 Nell'aria. Un pianto …. D'una capinera
 Che cerca il nido che non troverà
 
 In quei giorni la medesima combinazione di eventi atmosferici, fu fatale 
      per altre querce centenarie del territorio.
 Di una in particolare mi soffermerò a raccontare l'incredibile storia, 
      anzi descriverò per suo conto gli avvenimenti da essa vissuti e 
      partecipati "in prima persona". Da tutti era conosciuta come " la quercia 
      del Conte"
 Questa creatura, che ho ammirato fin dalla mia nascita; mastodontica 
      figura, anch'essa si ergeva maestosa e solenne, a 300 metri dalla mia 
      vecchia casa nativa, sul bordo di una stradina sterrata, un tempo 
      importante via di comunicazione della valle.
 Tutta la zona da tempo immemorabile è vocata alla crescita e al 
      proliferare di queste nobili piante.
 Ero ancora bambino quando mio padre mi mandava a raccogliere le sue 
      ghiande, ottimo cibo per ingrassare i maiali da trasformare poi in salame 
      e prosciutti DOC.
 Fatto più grandicello, con gli amici ci arrampicavamo come scimmie sui 
      suoi poderosi rami, fin sulle cime più alte, per prelevare gli uccellini 
      dai nidi, spinti da un ancestrale istinto di sopravivenza non ancora 
      sopito.
 Un giorno di novembre, credo fosse il 1946, arrivarono un gruppo di uomini 
      muniti di enormi segoni, mandati dall'autorità comunale con l'ordine di 
      abbatterla per farne legna da ardere e distribuire alle famiglie più 
      povere in previsione dell'imminente rigido inverno.
 Il proprietario del terreno dove si ergeva la quercia del Conte e altri 
      suoi amici confinanti, fra il quali mio padre, si opposero con forza. Ne 
      nacque una grossa disputa che si concluse davanti al sindaco con un 
      compromesso.
 "La quercia non sarebbe stata abbattuta ma in cambio sarebbero stati 
      tagliati 200 quintali di robinia, l'equivalente del presunto peso della 
      quercia, e così fu".
 Per noi era la quercia che simboleggiava la forza, la stabilità, la 
      fierezza, valori importanti soprattutto per quel tempo, segnato da una 
      terribile guerra in cui anche gli animi più solidi furono scossi dalla 
      paura, dall'angoscia e dalla disperazione, ma che poi seppero ritrovare la 
      forza per la rinascita.
 Durante il passaggio del fronte, nel 1944, anche questa quercia fu più 
      volte ferita, colpita, prima dalle cannonate degli alleati e poi dalla 
      mitraglia dei tedeschi; ne portò i segni sui rami e sul tronco per tanto 
      tempo, ma restò ben stabile e fiera.
 In quei giorni, nelle veglie attorno al focolare, non si parlò d'altro che 
      della quercia. I più anziani non finivano mai di raccontare storie e 
      leggende legate alla quercia del Conte, tramandate dai loro padri che a 
      sua volta le avevano apprese dai nonni e bisnonni.
 Noi bambini affascinati ascoltavamo, l'anima si beava e la fantasia 
      assetata ed avida si saziava.
 "Un giorno all'ombra della quercia sostarono dieci garibaldini con 
      archibugi e fazzoletti rossi al collo, provenivano dalla vicina Toscana 
      diretti a Ravenna per incontrare il generale Garibaldi che giaceva ferito 
      nella casa di Anita in mezzo alla pineta. Dai contadini del posto furono 
      rifocillati con piadina salame e Sangiovese."
 Il vecchio Fabrizio di 85 anni suonati raccontò che, un pomeriggio 
      d'estate di tanti anni fa, alla sua ombra, si fermarono un gruppo di 
      uomini con ampi cappellacci in testa, armati di archibugi, suo nonno si 
      lamentò perché avevano calpestato le culture del campo, al che il loro 
      capo, dagli occhi celesti come il cielo ed il viso dolce, gli diede cinque 
      scudi d'oro. Si seppe poi fosse Stefano Pelloni detto il Passatore, "re 
      della strada e re della foresta), con la sua banda di ritorno da una 
      razzia in una villa di un ricco feudatario ai confini delle Marche".
 "Una volta, un ragazzo, abbandonato dalla fidanzata che adorava, 
      disperato, getto una fune ad un ramo della quercia deciso di impiccarsi; 
      un contadino che aveva visto tutto riuscì appena in tempo a salvargli la 
      vita tagliando la corda".
 La leggenda dalla quale la quercia prese il nome, raccontata da mio nonno 
      che a sua volta l'aveva appreso da suo nonno Gian Antonio è quella del 
      conte Guidi, signore di queste terre, il quale in visita ai suoi 
      possedimenti, passando a cavallo con alcuni sui fedeli scudieri nei pressi 
      della quercia, improvvisamente il cavallo bianco che cavalcava inciampò in 
      una radice della pianta stessa disarcionando il suo nobile padrone e quel 
      che è peggio lo sfortunato cavallo si ruppe una gamba.
 Il Conte Guidi restato fortunatamente illeso, seppur rattristato, dovette 
      ordinare ai suoi uomini di abbatterlo.
 Fu fatta una profonda buca sotto la grande quercia e lì fu seppellito il 
      bel cavallo bianco del Conte.
 Molti giurano di aver udito per anni, durante i temporali e nelle notti di 
      plenilunio, il nitrito di un cavallo morente provenire dallo stormire 
      delle fronde della quercia.
 
 Ora che la vecchia quercia del Conte è finita come il suo cavallo, chi mai 
      ci racconterà più le sue favolose storie ?
 Ma poi, a ben pensarci, nell'era di Internet a chi mai possono interessare 
      ? !
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