Poesie di Luigi Di Matteo


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Avevi tirato
quando vomitasti nel mio cesso
i miei spaghetti al burro
e a mia mamma
che una birra gelata
che il freddo sulla vespa

e quando il primo giorno di ginnasio
nei banchi in fondo all'angolo sinistro
per farti grande andavi dicendo
a me che ti facevi
e Rimbaud sul comodino
fosse mai entrata una donna
nella tua cameretta.

E non potevo sopportarti
quando ti mettesti addosso
quel giubbotto da fascetto
quando gli assoli della tua chitarra
ti scorrevano metallo sotto le dita
mentre io cantatavo rauco le canzoni
due accordi marci e spazzatura.

E non ti ho più cercato.

Non ti ho piu cercato
soltanto perché mi annoiavo
ad spettare in auto le ore
il tuo spacciatore che chiudeva la pizzeria.

Non ti ho più cercato
semplicemente perché quell'indossatrice
mi tirava il collo e la tua donna
era una borghesuccia snob e di sinistra
e gonnelloni a fiori.

Non ti ho più cercato
solo perche non eri divertente
quando ti facevi.

Questo è tutto
semplicemente
amico mio,
fratello.
(Cronache di fine secolo)

Gli ho messo un euro in mano
perché assomiglia al cadavere
di binladen.

Sotto il semaforo,
segni inequivocabili,
a stretto rigore etimologico:
paesaggio desolato,
genealogia contratta,
geografia distratta.

Pertinenza semantica,
quasi estate inoltrata,
abbondante, in seguito a
un lungo cappotto invernale e
pantaloncini corti e
barba ispida e
capelli crespi e
un berrettino così
all'americana come
littlebighorn.

Non sente che sento,
allo spechietto retrovisore,
una via di mezzo tra
il cenno yankee,
la vittoria di churchill,
per saluto grato e
ingrato e disprezzo

distratto. Il capitale
concentrato che calpesta

la polvere di un accecato
paesaggio sotto il mio stesso
sole, come pure il cervello
sbiadito nonché
l'affanno asmatico che respira

e respiro, torino
ventitrè giugno deumilaundici,
dopo Cristo,
la strada non troppo accalcata,
lontana dal centro, nei pressi del cimitero
monumentale.

E quasi piove.
Perché mi sembra un morto
deturpato.

Torino salotto d'Italia
Torino città fabbrica, nella nebbia alle cinque del mattino.
Torino città operaia, i canappioni alla fermata del tram.
Torino città grigia, il sole le arance i mandarini.
Torino: sarai mica diventato un po' rosso?
La diplomazia sociale,
gl'intellettuali eskimo barba e sciarpa,
torinesi falsi e cortesi
la controcultura militante,
Torino che non è una città da bere.
Torino città dormitorio, soltanto le tute blu alle nove di sera.
Torino 1979.

Eroi scandalosi adolescenti,
vecchi bambini e mai uomini,
coi capelli sforbiciati,
con le teste colorate,
nessun futuro a squarciagola,
Torino piazza Castello,
e quelli che cambiano strada,
che hanno gli occhi da lontano.
Con le giacche usate del mercato,
con le borchie nella pelle,
con le scarpe blu scamosciate,
con le spille da balia nelle maniche,
con le ginocchia strappate,
con gli occhi persi lontano,
i pensieri in un club di londra,
soltanto immaginato,
Torino è la mia città.

Non si vive di soli ricordi
mentre un CD scimmiotta il vinile,
e stò fumando le sigarette più costose
e chitarre e voci arrochite,
qualcuno è morto di overdose,
qualcuno accoltellato in carcere,
qualcuno vende auto in televisione,
qualcuno ha perso denti o capelli,
qualcune legge cronache sportive
qualcuno non sa vivere ancora,
che scrive poesie squinternate,
Torino città memoria e rasoio e rullo compressore.
(Cronache di fine secolo)

muti clamori cambiano
muti clamori cambiano
nei fragorosi accenti
bituminoso il corpo della notte
denso scavalca e inonda
l'indebolita luce
ormai
nelle ombre più profonde
bituminoso e denso
tra le notturne luci artificiali
qualcosa come
un essudato greve
viscoso rossastro ed odoroso
continua ad avanzare
scorre d'inesorabile lentezza
tra i sorrisi leggeri
dei passanti indaffarati
nell'illusione
di aver protratto
dopo il tramonto
gioie diurne
come un sottile fiume di lava
brunito dopo i bagliori
il cui calore asfissia dolcemente
tale la sua potenza devastante
desiderare primevo
arcaico volere oltre la luce
e quindi
ogni civile incedere
come un'antica danza
nei rossi barbagli
della brace morente
inconsapevoli
sulle diritte strade
danzano ritmicamente in cerchio
bituminoso e denso
greve e odoroso avanza
in rivoli di tiepido sangue
il corpo della notte
piomba inatteso
dentro il civile incedere
dell'impiegato pallido
da un candeggiato ufficio commerciale
dello studente esausto e trasognato
in masse d'inchiostro
su pagine stampate
della giovane commessa allo specchio
bella ammiccante per futuri amori
muti clamori taciti
nulla da proferire
ormai
un nuovo senso
d'insospettabile grandezza
imprime nella carne
un fremito violento
incomprensibilmente
sussulti scuotono
l'intero universo
un essudato greve
odoroso avanza
nelle ombre più profonde del mio sonno
una calda stanza
dolcemente asfissiante
un desiderio devastante
arcaica volontà oltre la luce
come un'oscena carezza
che depravata incanta
biondo domani il barbaro
conquistatore da oriente
istituirà un nuovo giorno
feroce le sue leggi
un equo scambio
altissimi valori
muti clamori

C'è un vecchio casamento in un sobborgo
C'è un vecchio casamento in un sobborgo
fetido. Le puttane ed i magnaccia,
scoloriti alle luci dei lampioni,
muti ristagnano nelle foschie
serali. In fondo a un vicolo nei pressi
si scorge, come un umido lombrico,
la sagoma di un uomo che, armeggiando,
inietta nei suoi fluidi echi posticci
dell'utero il calore ormai smarrito.
In un luogo appartato non distante
sobbalza nell'orgasmo una vettura
di grossa cilindrata, in cui qualcuno
grugnisce soffocato e, soddisfatto,
annega tra due poppe a buon mercato.
Rotola sull'asfalto una lattina
vuota, di birra, e la cacofonia,
d'incespicare su tombini e buche,
unicamente il mormorio scompatta
sospeso, un po' ovattato, della strada
umida ed accaldata nella sera.
C'è una scala, nel vecchio casamento,
ripida, stretta, angusta e malandata.
Sale lungo una lurida parete,
la scala, tappezzata a fiorellini
che, da una bruna patina e una tinta
verdastra o grigia, emergono a fatica.
In cima un ballatoio striminzito
ed una porta tra tappezzerie
scollate, che alla luce della strada,
filtrando dai battenti disassati,
quasi non si distingue da un fantasma
dell'ombra proiettata sopra i muri.
Ma oltre quella porta c'è una stanza,
sudicia, polverosa. Pochi arredi:
un tavolo, una branda, un mobiletto.
La ventola sul vetro alla finestra,
continua, rotolando, a cigolare
e lascia penetrare intermittente
il livido colore di un'insegna.
Giungono da lontano gli schiamazzi
o forse grida degli assassinati,
altrove un'ambulanza e altrove ancora
lo stridere di gomme sull'asfalto
ed il vociare d'uomini chiassosi.
Ma sopra una parete della stanza,
ingigantita l'ombra, si riversa
a lividi colori, cigolante,
la ventola sul vetro alla finestra.
Così su crepe, muffe, umide macchie,
la grande ruota, inesorabilmente,
gira lenta e continua a cigolare,
come ad imitazione dell'eterno.
Pare che quella stanza sia del mondo
il luogo più remoto e si è pur detto
termini, oltre la stanza, l'universo.


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