| Avevi tirato quando vomitasti nel mio cesso
 i miei spaghetti al burro
 e a mia mamma
 che una birra gelata
 che il freddo sulla vespa
 
 e quando il primo giorno di ginnasio
 nei banchi in fondo all'angolo sinistro
 per farti grande andavi dicendo
 a me che ti facevi
 e Rimbaud sul comodino
 fosse mai entrata una donna
 nella tua cameretta.
 
 E non potevo sopportarti
 quando ti mettesti addosso
 quel giubbotto da fascetto
 quando gli assoli della tua chitarra
 ti scorrevano metallo sotto le dita
 mentre io cantatavo rauco le canzoni
 due accordi marci e spazzatura.
 
 E non ti ho più cercato.
 
 Non ti ho piu cercato
 soltanto perché mi annoiavo
 ad spettare in auto le ore
 il tuo spacciatore che chiudeva la pizzeria.
 
 Non ti ho più cercato
 semplicemente perché quell'indossatrice
 mi tirava il collo e la tua donna
 era una borghesuccia snob e di sinistra
 e gonnelloni a fiori.
 
 Non ti ho più cercato
 solo perche non eri divertente
 quando ti facevi.
 
 Questo è tutto
 semplicemente
 amico mio,
 fratello.
 (Cronache di fine secolo)
 Gli ho messo un euro in manoperché assomiglia al cadavere
 di binladen.
 
 Sotto il semaforo,
 segni inequivocabili,
 a stretto rigore etimologico:
 paesaggio desolato,
 genealogia contratta,
 geografia distratta.
 
 Pertinenza semantica,
 quasi estate inoltrata,
 abbondante, in seguito a
 un lungo cappotto invernale e
 pantaloncini corti e
 barba ispida e
 capelli crespi e
 un berrettino così
 all'americana come
 littlebighorn.
 
 Non sente che sento,
 allo spechietto retrovisore,
 una via di mezzo tra
 il cenno yankee,
 la vittoria di churchill,
 per saluto grato e
 ingrato e disprezzo
 
 distratto. Il capitale
 concentrato che calpesta
 
 la polvere di un accecato
 paesaggio sotto il mio stesso
 sole, come pure il cervello
 sbiadito nonché
 l'affanno asmatico che respira
 
 e respiro, torino
 ventitrè giugno deumilaundici,
 dopo Cristo,
 la strada non troppo accalcata,
 lontana dal centro, nei pressi del cimitero
 monumentale.
 
 E quasi piove.
 Perché mi sembra un morto
 deturpato.
 Torino salotto d'ItaliaTorino città fabbrica, nella nebbia alle cinque del mattino.
 Torino città operaia, i canappioni alla fermata del tram.
 Torino città grigia, il sole le arance i mandarini.
 Torino: sarai mica diventato un po' rosso?
 La diplomazia sociale,
 gl'intellettuali eskimo barba e sciarpa,
 torinesi falsi e cortesi
 la controcultura militante,
 Torino che non è una città da bere.
 Torino città dormitorio, soltanto le tute blu alle nove di sera.
 Torino 1979.
 
 Eroi scandalosi adolescenti,
 vecchi bambini e mai uomini,
 coi capelli sforbiciati,
 con le teste colorate,
 nessun futuro a squarciagola,
 Torino piazza Castello,
 e quelli che cambiano strada,
 che hanno gli occhi da lontano.
 Con le giacche usate del mercato,
 con le borchie nella pelle,
 con le scarpe blu scamosciate,
 con le spille da balia nelle maniche,
 con le ginocchia strappate,
 con gli occhi persi lontano,
 i pensieri in un club di londra,
 soltanto immaginato,
 Torino è la mia città.
 
 Non si vive di soli ricordi
 mentre un CD scimmiotta il vinile,
 e stò fumando le sigarette più costose
 e chitarre e voci arrochite,
 qualcuno è morto di overdose,
 qualcuno accoltellato in carcere,
 qualcuno vende auto in televisione,
 qualcuno ha perso denti o capelli,
 qualcune legge cronache sportive
 qualcuno non sa vivere ancora,
 che scrive poesie squinternate,
 Torino città memoria e rasoio e rullo compressore.
 (Cronache di fine secolo)
 muti clamori cambianomuti clamori cambiano
 nei fragorosi accenti
 bituminoso il corpo della notte
 denso scavalca e inonda
 l'indebolita luce
 ormai
 nelle ombre più profonde
 bituminoso e denso
 tra le notturne luci artificiali
 qualcosa come
 un essudato greve
 viscoso rossastro ed odoroso
 continua ad avanzare
 scorre d'inesorabile lentezza
 tra i sorrisi leggeri
 dei passanti indaffarati
 nell'illusione
 di aver protratto
 dopo il tramonto
 gioie diurne
 come un sottile fiume di lava
 brunito dopo i bagliori
 il cui calore asfissia dolcemente
 tale la sua potenza devastante
 desiderare primevo
 arcaico volere oltre la luce
 e quindi
 ogni civile incedere
 come un'antica danza
 nei rossi barbagli
 della brace morente
 inconsapevoli
 sulle diritte strade
 danzano ritmicamente in cerchio
 bituminoso e denso
 greve e odoroso avanza
 in rivoli di tiepido sangue
 il corpo della notte
 piomba inatteso
 dentro il civile incedere
 dell'impiegato pallido
 da un candeggiato ufficio commerciale
 dello studente esausto e trasognato
 in masse d'inchiostro
 su pagine stampate
 della giovane commessa allo specchio
 bella ammiccante per futuri amori
 muti clamori taciti
 nulla da proferire
 ormai
 un nuovo senso
 d'insospettabile grandezza
 imprime nella carne
 un fremito violento
 incomprensibilmente
 sussulti scuotono
 l'intero universo
 un essudato greve
 odoroso avanza
 nelle ombre più profonde del mio sonno
 una calda stanza
 dolcemente asfissiante
 un desiderio devastante
 arcaica volontà oltre la luce
 come un'oscena carezza
 che depravata incanta
 biondo domani il barbaro
 conquistatore da oriente
 istituirà un nuovo giorno
 feroce le sue leggi
 un equo scambio
 altissimi valori
 muti clamori
 C'è un vecchio casamento in un 
    sobborgoC'è un vecchio casamento in un sobborgo
 fetido. Le puttane ed i magnaccia,
 scoloriti alle luci dei lampioni,
 muti ristagnano nelle foschie
 serali. In fondo a un vicolo nei pressi
 si scorge, come un umido lombrico,
 la sagoma di un uomo che, armeggiando,
 inietta nei suoi fluidi echi posticci
 dell'utero il calore ormai smarrito.
 In un luogo appartato non distante
 sobbalza nell'orgasmo una vettura
 di grossa cilindrata, in cui qualcuno
 grugnisce soffocato e, soddisfatto,
 annega tra due poppe a buon mercato.
 Rotola sull'asfalto una lattina
 vuota, di birra, e la cacofonia,
 d'incespicare su tombini e buche,
 unicamente il mormorio scompatta
 sospeso, un po' ovattato, della strada
 umida ed accaldata nella sera.
 C'è una scala, nel vecchio casamento,
 ripida, stretta, angusta e malandata.
 Sale lungo una lurida parete,
 la scala, tappezzata a fiorellini
 che, da una bruna patina e una tinta
 verdastra o grigia, emergono a fatica.
 In cima un ballatoio striminzito
 ed una porta tra tappezzerie
 scollate, che alla luce della strada,
 filtrando dai battenti disassati,
 quasi non si distingue da un fantasma
 dell'ombra proiettata sopra i muri.
 Ma oltre quella porta c'è una stanza,
 sudicia, polverosa. Pochi arredi:
 un tavolo, una branda, un mobiletto.
 La ventola sul vetro alla finestra,
 continua, rotolando, a cigolare
 e lascia penetrare intermittente
 il livido colore di un'insegna.
 Giungono da lontano gli schiamazzi
 o forse grida degli assassinati,
 altrove un'ambulanza e altrove ancora
 lo stridere di gomme sull'asfalto
 ed il vociare d'uomini chiassosi.
 Ma sopra una parete della stanza,
 ingigantita l'ombra, si riversa
 a lividi colori, cigolante,
 la ventola sul vetro alla finestra.
 Così su crepe, muffe, umide macchie,
 la grande ruota, inesorabilmente,
 gira lenta e continua a cigolare,
 come ad imitazione dell'eterno.
 Pare che quella stanza sia del mondo
 il luogo più remoto e si è pur detto
 termini, oltre la stanza, l'universo.
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