Traduzioni di Lorenzo De Ninis


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Catullo
 
Paene insularum, Sirmio, insularumque
Paene insularum, Sirmio, insularumque
ocelle, quascumque in liquentibus stagnis
marique vasto fert uterque Neptunus,
quam te libenter quamque laetus inviso,
vix mi ipse credens Thyniam atque Bithynos
liquisse campos et videre te in tuto.
O quid solutis est beatius curis,
cum mens onus reponit, ac peregrino
labore fessi venimus larem ad nostrum
desideratoque acquiescimus lecto?
Hoc est, quod unumst pro laboribus tantis.
Salve, o venusta Sirmio, atque ero gaude:
gaudete vosque, o Lydiae lacus undae:
ridete, quidquid est domi cachinnorum.
(Catullo, Carmina, XXXI)
O Sirmione, delle penisole e delle isole
O Sirmione, delle penisole e delle isole
pupilla, quante nei limpidi laghi
e nel vasto mare l'uno e l'altro Nettuno regge,
quanto volentieri e gioioso ti rivedo!
Stento a credere d'aver abbandonato la Tinia
e i campi bitini e sereno poterti rivedere.
O che c'è di più dolce se, liberi dagli affanni,
quando l'animo depone il suo peso, e stanchi
per il faticoso viaggio, giungiamo alla nostra casa
e possiamo riposare nel sospirato letto?
Questa è l'unica ricompensa dopo tante fatiche!
Salve, bella Sirmione, e fa' festa al tuo padrone;
e voi gioite, o lidie onde del lago:
ridete, quanti sorrisi siete in casa!
(Traduzione di Lorenzo De Ninis)

 

Orazio
 
Lo scocciatore

Me ne andavo a zonzo per la via Sacra, com’è mia abitudine, meditando non so che poesiole, tutto assorto in esse.
Mi viene incontro un tale noto a me solo di nome, mi afferra la mano e dice:
<< Come va, carissimo?>>
<< Bene, per ora >>, gli rispondo, << e ti auguro tutto ciò che desideri >>
Poiché mi viene dietro, lo prevengo: << Ti serve qualche cosa?>>
E lui: << Dovresti conoscermi >>, dice, << siamo letterati >>
<< E allora per questo >>, dico io, << hai tutta la mia stima >>
Cercando disperatamente di squagliarmela, ora cammino più veloce, ora mi fermo e sussurro non so che cosa all’orecchio del mio servo e il sudore intanto mi cola fino ai calcagni.
O Bolano, beato te, dicevo tra me e me, che t’incazzi facile, mentre quello chiacchierava di qualsiasi cosa, mi lodava Roma e le strade.
Siccome non gli rispondevo una parola, disse:
<< Tu hai una voglia matta di andartene, lo vedo da un pezzo; ma non la spunti, ti tratterrò fino alla fine: ti verrò dietro da qui fin dove devi andare >>
<< Non c’è motivo >>, gli rispondo, << che tu faccia un giro così lungo; vado a trovare uno che non conosci, che sta lontano, ammalato, al di là del Tevere, vicino ai giardini di Cesare >>
<< Non ho nulla da fare e passeggiare mi piace: ti accompagnerò fin là >>
Abbasso le orecchie come fa l’asinello contrariato, quando deve portare sul dorso una soma troppo pesante.
E quello attacca: << Se mi conosco bene, non stimerai più di me l’amico Visco o Vario. Chi infatti sa scrivere più versi di me e più alla svelta? Chi danzare con più grazia? Quando io canto poi, mi invidierebbe persino Ermogene >>
Questo era il momento di interromperlo: << Ma non hai una madre o parenti che abbiano bisogno della tua assistenza?>>
<< Non ho più nessuno, li ho seppelliti tutti >>
<< Beati loro. Ora resto io: ammazzami, poiché pende su di me un triste destino, che mi rivelò quando ero fanciullo una vecchia Sabina, scuotendo l’urna profetica:
“Questo qui non lo faranno fuori né crudeli veleni, né spada nemica, né la pleurite o la tosse o la podagra che fa camminare lentamente; prima o poi lo distruggerà un chiacchierone. Se ha testa, eviti i loquaci appena sarà cresciuto”>>
Eravamo arrivati al tempio di Vesta e già la quarta parte del giorno se n’era andata; e lui, guarda caso, doveva presentarsi in tribunale, avendo già pagata la cauzione: se non lo avesse fatto, perdeva la causa.
<< Se mi vuoi bene >>, dice, << assistimi un momento >>
<< Mi venga un accidente se ce la faccio a stare in piedi o se so qualche cosa di diritto civile; e poi ho fretta di andare dove sai >>
<< Sono indeciso >>, dice, << sul da farsi, se lasciare te o la causa >>
<< Me, per favore! >>
<< Non sia mai >> dice lui, e si mette a precedermi.
Siccome è duro lottare col vincitore, lo seguo.
<< E Mecenate >>, ricomincia, << come si comporta con te? Ha pochi amici ed ha una testa fina.
Nessuno ha saputo sfruttare la fortuna più abilmente di te. Avresti un grande aiutante, mi accontenterei infatti di stare al secondo posto, se tu volessi presentargli il sottoscritto; possa io crepare, se con me non avresti già eliminato tutti >>
<< Lì non si vive come tu pensi; non c’è casa più pura di quella, né più lontana da questi intrighi; lì non mi dà fastidio, ti dico, se qualcuno è più ricco o più colto di me: per tutti c’è posto >>
<< Gran cosa mi racconti, a mala pena credibile >>
<< Eppure è così >>
<< Ancor di più mi spingi a desiderare di essergli amico intimo >>
<< Basta volere: con il tuo valore lo conquisterai. E’ un uomo che si lascia vincere e per questo rende difficili i primi approcci >>
<< Non mi scoraggerò; corromperò i servi con regali; se oggi sarò respinto, non mi darò per vinto; sceglierò il momento, mi presenterò a lui agli incroci, gli farò da scorta. Senza grande fatica la vita non ha mai dato niente agli uomini >>
Mentre così parla, ecco che mi capita davanti Aristio Fusco, un amico mio che certo conosceva bene quel tale.
Ci fermiamo.
<< Da dove vieni >>, e << dove vai?>>: chiede e risponde.
Cominciai a pizzicargli e a stringergli le braccia (e lui faceva l’indifferente), ammiccavo, storcendo gli occhi perché mi togliesse dall’impiccio.
Ma lui, burlone a sproposito, rideva facendo finta di non capire; il fegato mi bruciava dalla bile.
<< Mi avevi detto che volevi parlarmi a quattr’occhi non so di che >>
<< Me lo ricordo bene, ma te lo dirò in un momento più opportuno: oggi è il trenta ed è sabato; vorresti dileggiare i Giudei circoncisi?>>
<< Non ho scrupoli superstiziosi >>, gli rispondo.
<< Ma io sì: sono un po’ debole, uno dei tanti. Scusami: te ne parlerò un’altra volta >>
Che giornata nera era spuntata per me! Fugge il disgraziato e mi lascia sotto il coltello.
Per fortuna viene verso di lui l’avversario, e << Dove vai, carogna?>>, grida a gran voce,
e a me: << Vuoi farmi da testimone?>>.
Gli porgo subito l’orecchio. Lo trascina in tribunale: schiamazzo da ambo le parti, gente che accorre da tutte le parti.
Così mi salvò Apollo.
(Orazio, Satire, Libro primo, IX, traduzione di Lorenzo De Ninis) 

 

Marco Valerio Marziale
 
 
Liber I, LXIV
Bella es, novimus, et puella, verum est,
et dives, quis enim potest negare?
Sed cum te nimium, Fabulla, laudas,
nec dives neque bella nec puella es.
 

Liber I, XIX
Si memini, fuerant tibi quattuor, Aelia, dentes:
expulit una duos tussis et una duos.
Iam secura potestotis tussire diebus:
nil istic quod agat tertia tussis habet.
 

Liber II, XLII
Zoile, quid solium subluto podice perdis?
Spurcius ut fiat, Zoile, merge caput.
 

Liber III, VIII
-Thaida Quintus amat-. -Quam Thaida?-. -Thaida luscam-.
Unum oculum Thais non habet, ille duos.


Liber III, XXVIII
Auriculam Mario graviter miraris olere.
Tu facis hoc: garris, Nestor, in auriculam.


Liber XI, LXIV
Nescio tam multis quid scribas, Fauste, puellis:
hoc scio, quod scribit nulla puella tibi.


Liber IX, X
Nubere vis Prisco: non miror, Paula: sapisti.
Ducere te non vult Priscus: et ille sapit.


Liber I, CX
Scribere me quereris, Velox, epigrammata longa.
Ipse nihil scribis: tu breviora facis.
 

Liber IV, XLI
Quid recitaturus circumdas vellera collo?
Conveniunt nostris auribus ista magis.
 

Liber II, XXXVIII
Quid mihi reddat ager quaeris, Line, Nomentanus?
Hoc mihi reddit ager: te, Line, non video.
 

Liber III, LXXXIX
Utere lactucis et mollibus utere malvis:
Nam faciem durum, Phoebe, cacantis habes.
 

Liber III, LXXXIV
Quid narrat tua moecha? Non puellam
Dixi, Gongylion. Quid ergo? linguam.


Liber VII, III
Cur non mitto meos tibi, Pontiliane, libellos?
Ne mihi tu mittas, Pontiliane, tuos.
 

Liber VII, IV
Esset, Castrice, cum mali coloris,
Versus scribere coepit Oppianus.


Liber II, LXXXVII
Dicis amore tui bellas ardere puellas,
Qui faciem sub aqua, Sexte, natantis habes.
 

Liber III, LXXIX
Rem peragit nullam Sertorius, inchoat omnes.
Hunc ego, cum futuit, non puto perficere.


Liber VII, XXV
Dulcia cum tantum scribas epigrammata semper
Et cerussata candidiora cute,
Nullaque mica salis nec amari fellis in illis
Gutta sit, o demens, vis tamen illa legi!
Nec cibus ipse iuvat morsu fraudatus aceti,
Nec grata est facies, cui gelasinus abest.
Infanti melimela dato fatuasque mariscas:
Nam mihi, quae novit pungere, Chia sapit.
 

Liber XI, XCIII
Pierios vatis Theodori flamma penates
Abstulit. Hoc Musis et tibi, Phoebe, placet?
O scelus, o magnum facinus crimenque deorum,
Non arsit pariter quod domus et dominus!
 

Liber X, C
Quid, stulte, nostris versibus tuos misces?
Cum litigante quid tibi, miser, libro?
Quid congregare cum leonibus volpes
Aquilisque similes facere noctuas quaeris?
Habeas licebit alterum pedem Ladae ¹,
Inepte, frustra crure ligneo curres.
 ¹ Famoso corridore contemporaneo di Marziale
 

Liber III, XLIV
Occurrit tibi nemo quod libenter,
Quod, quacumque venis, fuga est et ingens
Circa te, Ligurine, solitudo,
Quid sit, scire cupis? Nimis poeta es.
Hoc valde vitium periculosum est.
Non tigris catulis citata raptis,
Non dipsas medio perusta sole,
Nec sic scorpios inprobus timetur.
Nam tantos, rogo, quis ferat labores?
Et stanti legis et legis sedenti,
Currenti legis et legis cacanti.
In thermas fugio: sonas ad aurem.
Piscinam peto: non licet natare.
Ad cenam propero: tenes euntem.
Ad cenam venio: fugas sedentem.
Lassus dormio: suscitas iacentem.
Vis, quantum facias mali, videre?
Vir iustus, probus, innocens timeris.
 

Liber II, VII
Declamas belle, causas agis, Attice, belle,
Historias bellas, carmina bella facis,
Componis belle mimos, epigrammata belle,
Bellus grammaticus, bellus es astrologus,
Et belle cantas et saltas, Attice, belle,
Bellus es arte lyrae, bellus es arte pilae.
Nil bene cum facias, facias tamen omnia belle,
Vis dicam quid sis? magnus es ardalio.
 

Liber VIII, LXIX
Miraris veteres, Vacerra, solos,
Nec laudas nisi mortuos poetas.
Ignoscas petimus, Vacerra: tanti
Non est, ut placeam tibi, perire.
 

Liber VI, LXXXII
Quidam me modo, Rufe, diligenter
Inspectum, velut emptor aut lanista,
Cum vultu digitoque subnotasset,
'Tune es, tune' ait 'ille Martialis,
Cuius nequitias iocosque novit,
Aurem qui modo non habet Batavam?
Subrisi modice, levique nutu
Me quem dixerat esse non negavi.
'Cur ergo' inquit 'habes malas lacernas?'
Respondi: 'quia sum malus poeta'.
Hoc ne saepius accidat poetae,
Mittas, Rufe, mihi bonas lacernas.
 

 

 

Liber V, XIII
Sum, fateor, semperque fui, Callistrate, pauper,
Sed non obscurus nec male notus eques,
Sed toto legor orbe frequens et dicitur 'Hic est',
Quodque cinis paucis, hoc mihi vita dedit.
At tua centenis incumbunt tecta columnis
Et libertinas arca flagellat opes,
Magnaque Niliacae servit tibi glaeba Syenes,
Tondet et innumeros Gallica Parma greges.
Hoc ego tuque sumus: sed quod sum, non potes esse:
Tu quod es, e populo quilibet esse potest.

 

A Fabulla che si loda troppo
Sei bella, lo sappiamo, e giovane, ed è vero,
e ricca: negarlo infatti chi potrebbe?
Ma quando troppo, o Fabulla, ti lodi,
né ricca, né giovane, né bella sei.
 

Ad Elia, la sdentata
Se ben ricordo, Elia, tu avevi quattro denti;
un colpo di tosse ne scagliò fuori due, e un secondo altri due.
Tossire ormai puoi tranquilla tutto il giorno:
più nulla nella tua bocca può fare un terzo colpo.


Contro Zoilo, lo sporcaccione
Perché col deretano, o Zoilo, insozzi la tinozza?
Tuffaci il capo, o Zoilo, per renderla più sozza.
 

Contro Quinto, ciecamente innamorato di Taide
Quinto ama Taide. - Quale Taide? -. Taide la guercia.
Taide è cieca d’un occhio, egli di tutti e due.


Contro Nestore, che ha il fiato puzzolente
L’orecchio di Mario - ti meravigli - puzza da pazzi.
Tua è la colpa, o Nestore, che gli ciarli all’orecchio.
 

Contro Fausto, l’intraprendente
Quel che tu scriva, o Fausto, a tante ragazze non so.
Ma che nessuna ragazza scrive a te, questo so.
 

A Paola, sposa mancata
Sposare Prisco tu vuoi. Non mi meraviglio, Paola: sei saggia.
Ma Prisco non ne vuol sapere, ed anche lui è saggio.


A Veloce, che critica il poeta
Tu lamenti, o Veloce, ch’io scriva epigrammi lunghi.
Tu che non scrivi niente li scrivi più brevi di sicuro.


Contro un declamatore esibizionista
Perché, prima di recitare, una sciarpa alla gola ti avvolgi?
Avvolgerla converrebbe attorno ai nostri orecchi.
 

La fortuna di avere un piccolo podere
Cosa mi frutti il podere nomentano mi chiedi tu, o Lino?
Che stando là non ti vedo: questo mi frutta, o Lino.
 

A Febo stitico
Mangia lattughe e tenere malve mangia,
dacché, o Febo, di chi caca duro hai la faccia.
 

La druda di Gongilione il chiacchierone
Cosa racconta la tua puttanella, o Gongilione?
Non mi riferisco alla ragazza. -A chi, allora?-
 -Alla lingua-.


Al poeta Pontiliano
Perché non ti mando i miei libretti, o Pontiliano?
Perché tu non mandi a me i tuoi, o Pontiliano!
 

Per il poeta Oppiano
O Castrico, avendo un brutto colorito,
a scrivere versi s'è messo Oppiano.


A Sesto che somiglia ad un pesce

Che d'amor per te avvampano le belle fanciulle dici,
proprio tu, Sesto, che d'un pesce hai la faccia.
 

A Sertorio, l'inconcludente
Non conclude mai una cosa, tutte le incomincia Sertorio;
credo che lui, quando scopa, non giunga alla fine.
 

Contro un poeta lezioso
Sempre componi soltanto epigrammi leziosi
e lisci più di bianca pelle imbiancata con biacca,
senza che in essi vi sia manco un grano di sale, né d'amaro fiele
una goccia, o deficiente; e pretendi pure che siano letti!
Non piace il cibo privo d'una spruzzata d'aceto,
né un volto è bello, se gli manca una fossetta.
Dà pure ai bambini le melette dolci e gli insipidi fioroni,
perché a me gusta l'asprigno sapore del fico di Chio.
 

Contro Teodoro, poeta vate
Un incendio la casa, sacra alle Muse, del vate Teodoro
ha distrutto. Questo, Febo, piace a te e alle Muse?
O delitto, o grande misfatto ignobile degli dei,
perché non bruciarono insieme casa e padrone?
 

Un cattivo poeta
Perché, pezzo di cretino, mescoli i tuoi con i miei versi?
Che cosa ricavi, disgraziato, da un libro che con te litiga?
Perché tenti di mettere insieme volpi con leoni
e di far diventare le civette simili alle aquile?
Pur anche se tu avessi uno dei piedi di Lada ¹,
o buono a nulla, invano correresti con la tua gamba di legno.
 ¹ Famoso corridore contemporaneo di Marziale
 

Ligurino poeta esagerato
Perché nessuno volentieri ti viene incontro,
perché, dovunque vieni, c'è un fuggi fuggi
e intorno a te, o Ligurino, si crea il vuoto,
vuoi sapere perché? Sei troppo poeta.
Questo è un difetto molto pericoloso.
Non tigre infuriata per i figli catturati,
non vipera arsa dal sole di mezzogiorno,
non il perfido scorpione è così temuto.
Ti chiedo: chi sopporta scocciature così grandi?
E leggi a chi è in piedi, e leggi a chi è seduto,
e leggi a chi corre, e leggi a chi sta cacando.
Fuggo alle terme: mi gridi all'orecchio.
Mi reco in piscina: non posso nuotare.
M'affretto a cena: mi trattieni mentre vado.
Arrivo a cena: mi fai scappare mentre mi siedo.
Dormo stanco: mi svegli mentre dormo.
Vuoi capire quanto scocci?
Sei un galantuomo: giusto, onesto, innocuo, ma schivato da tutti.


Graziosamente…
Graziosamente declami, o Attico, difendi le cause graziosamente;
storielle graziose scrivi, poesie graziose tu scrivi,
graziosamente mimi, epigrammi componi graziosamente;
sei un grazioso maestro, sei un grazioso astrologo,
e graziosamente canti, o Attico, e balli graziosamente;
grazioso pizzichi la lira, grazioso giochi a palla.
Pur non facendo nulla bene, fai tutto graziosamente.
Vuoi che dica quel che tu sei? Sei un gran faccendone!
 

Ad un critico tradizionalista
Tu ammiri, Vacerra, soltanto i poeti antichi
e non lodi i poeti se non son morti.
Scusami tanto, Vacerra, ma non è il caso
di morire per piacerti.
 

A Rufo, per chiedere un mantello
Un tale, l’altro giorno, o Rufo, attentamente mi osservò 
come un esperto compratore di schiavi od un allenatore di gladiatori;
e dopo avermi sbirciato con un cenno del suo volto e indicato col dito,
<< Sei tu >> disse << proprio tu, Marziale,
quello famoso, i cui maligni scherzi
son noti a chi non ha l’orecchio barbaro? >>
Sorrisi un poco e con un lieve cenno
confermai che ero quello che egli diceva.
<< Come mai >> disse << indossi un così misero mantello?>>
Risposi: << Perché sono un povero poeta >>.
Perché ciò non capiti molto spesso al tuo poeta,
mandami, o Rufo, un mantello nuovo.


Sono e sempre sono stato povero…
Sono, non lo nego, e sempre sono stato, o Callistrato, povero,
ma non sono uno sconosciuto e nemmeno un cavaliere di scarso valore,
bensì mi leggono spesso in tutto il mondo e di me dicono: <<È proprio lui!>>,
e ciò che a pochi dà la morte, a me la vita ha dato.
Pure la tua casa si regge su colonne a centinaia
e la tua cassaforte custodisce le tue ricchezze di liberto,
e i vasti terreni di Siene sul Nilo sono a tua disposizione,
e la gallica Parma tosa per te innumerevoli greggi.
Mettiamola così: quel che sono io, tu mai puoi essere;
quel che tu sei invece può diventarlo un qualsiasi plebeo.


 

Liber VI, LIII
Lotus nobiscum est, hilaris cenavit, et idem
Inventus mane est mortuus Andragoras.
Tam subitae mortis causam, Faustine, requiris?
In somnis medicum viderat Hermocraten.

 

 

 

Liber III, XXVI
Praedia solus habes et solus, Candide, nummos,
Aurea solus habes, murrina solus habes,
Massica solus habes et Opimi Caecuba solus,
Et cor solus habes, solus et ingenium.
Omnia solus habes - hoc me puta velle negare! -
Uxorem sed habes, Candide, cum populo.


Liber VII, XCII
'Si quid opus fuerit, scis me non esse rogandum'
Uno bis dicis, Baccara, terque die.
Appellat rigida tristis me voce Secundus:
Audis, et nescis, Baccara, quid sit opus.
Pensio te coram petitur clareque palamque:
Audis, et nescis, Baccara, quid sit opus.
Esse queror gelidasque mihi tritasque lacernas:
Audis, et nescis, Baccara, quid sit opus.
Hoc opus est, subito fias ut sidere mutus,
Dicere ne possis, Baccara: 'Si quid opus'.


Liber VII, LXI
Abstulerat totam temerarius institor urbem,
Inque suo nullum limine limen erat.
Iussisti tenuis, Germanice, crescere vicos,
Et modo quae fuerat semita, facta via est.
Nulla catenatis pila est praecincta lagonis,
Nec praetor medio cogitur ire luto,
Stringitur in densa nec caeca novacula turba,
Occupat aut totas nigra popina vias.
Tonsor, copo, cocus, lanius sua limina servant.
Nunc Roma est, nuper magna taberna fuit.
 

 




Liber V, XXXIV

Hanc tibi, Fronto pater, genetrix Flaccilla, puellam
Oscula commendo deliciasque meas,
Parvola ne nigras horrescat Erotion umbras
Oraque Tartarei prodigiosa canis.
Inpletura fuit sextae modo frigora brumae,
Vixisset totidem ni minus illa dies.
Inter tam veteres ludat lasciva patronos
Et nomen blaeso garriat ore meum.
Mollia non rigidus caespes tegat ossa, nec illi,
Terra, gravis fueris: non fuit illa tibi.
 


Liber XII, XXXII
O Iuliarum dedecus Kalendarum,
Vidi, Vacerra, sarcinas tuas, vidi;
Quas non retentas pensione pro bima
Portabat uxor rufa crinibus septem
Et cum sorore cana mater ingenti.
Furias putavi nocte Ditis emersas.
Has tu priores frigore et fame siccus
Et non recenti pallidus magis buxo
Irus tuorum temporum sequebaris.
Migrare clivom crederes Aricinum.
Ibat tripes grabatus et bipes mensa,
Et cum lucerna corneoque cratere
Matella curto rupta latere meiebat;
Foco virenti suberat amphorae cervix;
Fuisse gerres aut inutiles maenas
Odor inpudicus urcei fatebatur,
Qualis marinae vix sit aura piscinae.
Nec quadra deerat casei Tolosatis,
Quadrima nigri nec corona pulei
Calvaeque restes alioque cepisque,
Nec plena turpi matris olla resina,
Summemmianae qua pilantur uxores
Quid quaeris aedes vilicesque derides,
Habitare gratis, o Vacerra, cum possis?
Haec sarcinarum pompa convenit ponti.

 


 

Liber IV, LXXXIII
Securo nihil est te, Naevole, peius: eodem
Sollicito nihil est, Naevole, te melius.
Securus nullum resalutas, despicis omnes,
Nec quisquam liber nec tibi natus homo est:
5 Sollicitus donas, dominum regemque salutas,
Invitas. Esto, Naevole, sollicitus.

 

 

 



Liber V, XVII
Dum proavos atavosque refers et nomina magna,
Dum tibi noster eques sordida condicio est,
Dum te posse negas nisi lato, Gellia, clavo
Nubere, nupsisti, Gellia, cistibero.





Liber IX, XCVII
Rumpitur invidia quidam, carissime Iuli,
Quod me Roma legit, rumpitur invidia.
Rumpitur invidia, quod turba semper in omni
Monstramur digito, rumpitur invidia.
Rumpitur invidia, tribuit quod Caesar uterque
Ius mihi natorum, rumpitur invidia.
Rumpitur invidia, quod rus mihi dulce sub urbe est
Parvaque in urbe domus, rumpitur invidia.
Rumpitur invidia, quod sum iucundus amicis,
Quod conviva frequens, rumpitur invidia.
Rumpitur invidia, quod amamur quodque probamur:
Rumpatur, quisquis rumpitur invidia.

 


 

Liber XII, LXXXII
Effugere in thermis et circa balnea non est
Menogenen, omni tu licet arte velis.
Captabit tepidum dextra laevaque trigonem,
Inputet acceptas ut tibi saepe pilas.
Colliget et referet laxum de pulvere follem,
Et si iam lotus, iam soleatus erit.
Lintea si sumes, nive candidiora loquetur,
Sint licet infantis sordidiora sinu.
Exiguos secto comentem dente capillos
Dicet Achilleas disposuisse comas.
Fumosae feret ipse propin de faece lagonae,
Frontis et umorem colliget usque tuae.
Omnia laudabit, mirabitur omnia, donec
Perpessus dicas taedia mille 'Veni!'

 

 

Liber XI, LXXXIV
Qui nondum Stygias descendere quaerit ad umbras,
Tonsorem fugiat, si sapit, Antiochum.
Alba minus saevis lacerantur bracchia cultris,
Cum furit ad Phrygios enthea turba modos;
Mitior inplicitas Alcon secat enterocelas
Fractaque fabrili dedolat ossa manu.
Tondeat hic inopes Cynicos et Stoica menta
Collaque pulverea nudet equina iuba.
Hic miserum Scythica sub rupe Promethea radat,
Carnificem duro pectore poscet avem;
Ad matrem fugiet Pentheus, ad Maenadas Orpheus,
Antiochi tantum barbara tela sonent.
Haec quaecumque meo numeratis stigmata mento,
In vetuli pyctae qualia fronte sedent,
15 Non iracundis fecit gravis unguibus uxor:
Antiochi ferrum est et scelerata manus.
Unus de cunctis animalibus hircus habet cor:
Barbatus vivit, ne ferat Antiochum.

 

Potere del medico Ermocrate
Con noi ha fatto il bagno,
con noi ha cenato lieto,
e zacchete! stamani
Andragora stecchito
è stato ritrovato.
Faustino, ora mi chiedi
la causa della morte
così tanto improvvisa?
-In sogno aveva visto
Ermocrate il dottore!-
 

Tu solo…
Tu solo hai proprietà, o Candido, tu solo hai soldi,
tu solo hai vasi d'oro, vasi di murra tu solo;
tu solo hai vino del Massico e il Cecubo d' Opimio tu solo,
e solo tu hai cuore, e solo tu ingegno.
Tu solo hai tutto, né, pensa, vorrei negarlo.
Ma la moglie, o Candido, hai in comune con tutti.


Ad un amico falso che deve perdere la lingua

<<Se hai bisogno di qualcosa, tu sai che non mi devi pregare>>
Questo mi dici, o Baccara, una, due, tre volte al giorno.
Mi chiama con aspra voce l'inflessibile creditore Secondo:
tu senti, Baccara, ma non sai di cosa ho bisogno.
L'affitto davanti a te mi chiedono a voce alta e senza ritegno:
tu senti, Baccara, ma non sai di cosa ho bisogno.
Mi lamento che ho un mantello freddo e logoro:
tu senti, Baccara, ma non sai di cosa ho bisogno.
C'è bisogno di questo: che di colpo tu perda la lingua,
perché tu, Baccara, più non dica: <<Se hai bisogno>>
 

I venditori ambulanti nella Roma imperiale
Il venditore ambulante sfrontato ci aveva portato via tutta intera la città
e tutti gli ingressi delle botteghe risultavano occupati.
O Germanico*, tu hai emesso l'ordine di sgomberare le vie rese strette
e ora è strada ciò che era diventato un sentiero.
Nessun pilastro è ora inghirlandato da bottiglie legate tra loro,
né il pretore è costretto a camminare in mezzo al fango,
né qualcuno brandisce alla cieca il rasoio in mezzo alla fitta folla,
né nere baracche occupano tutte le vie.
Il barbiere, l'oste, il cuoco, il macellaio mantengono sgombre le soglie dei loro negozi.
Ora è Roma, prima era un grande casino.
*Domiziano
 

Preghiera per la piccola Erotion
A te, padre Frontone, a te, madre Flaccilla,
questa bimbetta, bacio e delizia mia, affido,
perché non sia presa dall'orrore per le ombre nere
e per le orride bocche del tartareo Cane.
Stava per compiere il sesto inverno,
se vissuta fosse altrettanti giorni ancora.
Oh, che essa giochi scherzosa con i suoi antichi patroni
e pronunci il mio nome con la sua bocca balbettante.
Una zolla non dura copra le sue tenere ossa, ed a lei,
terra, non essere pesante: non lo fu ella a te.

 

Sfratto nella Roma imperiale
O disdoro delle Calende di Luglio,
ho visto, Vacerra, le tue carabattole ho visto,
quelle che non sono state confiscate per i due anni di affitto.
Le portava tua moglie che ha sette capelli rossicci
e la canuta tua madre insieme con la cicciona di tua sorella.
Le ho scambiate per Furie saltate fuori dalle tenebre infernali di Dite.
Tu, reso secco dal freddo e dalla fame,
pallido più di un bosso stagionato,
Iro dei tuoi tempi, le seguivi.
Avresti creduto che si spostasse il colle d'Aricia.
Erano in fila un lettuccio con tre piedi e un tavolo con due piedi
con una lucerna e una ciotola di corniolo,
un vaso da notte rotto gocciolava piscio dal lato slabbrato.
Un collo d'anfora stava sotto un fornelletto color verderame.
L'odore fetido della brocca,
come a mala pena potrebbe essere l'esalazione di un vivaio di pesci,
rivelava che ci fossero state acciughe o sardelle schifose.
Non mancava un pezzo di cacio di Tolosa,
né una corona di puleggio di quattro anni, annerito,
né trecce spoglie d'aglio e cipolle,
né il recipiente di tua madre ripieno di rivoltante crema,
quella con cui si depilano le puttane del Summenio.
Perché cerchi casa e prendi in giro gli amministratori,
quando puoi, o Vacerra, trovare alloggio gratis?
Questa processione di cianfrusaglie è proprio adatta ad un ponte.

 

Al lunatico Nevolo
O Nevolo, niente è peggio di te,
quando tranquillo sei,
e ugualmente, Nevolo, niente è meglio di te,
quando agitato sei.
Quando sei tranquillo,
non contraccambi il saluto con nessuno,
disprezzi tutti,
e nessuno per te è uomo libero
e persona perbene.
Quando sei agitato, fai doni, saluti gentilmente,
inviti a pranzo.
Nevolo, sii sempre agitato!

 

Il matrimonio di Gellia
Mentre i famosi nomi
di àvoli e trisàvoli snocciolavi,
mentre io ero un cavaliere,
miserevole partito per te,
mentre, Gellia, affermavi
di sposare soltanto un senatore,
hai tu, Gellia, sposato uno straccione!



C'è chi schiatta d'invidia...
Schiatta d'invidia qualcuno, o carissimo Giulio,
perché Roma mi legge, schiatta d'invidia.
Schiatta d'invidia, perché in mezzo a ogni folla sempre
sono indicato a dito, schiatta d'invidia.
Schiatta d'invidia, perché l'uno e l'altro Cesare* m'hanno concesso
il privilegio dei tre figli, schiatta d'invidia.
Schiatta d'invidia, perché posseggo nei pressi di Roma un ameno campicello
e una casetta in città, schiatta d'invidia.
Schiatta d'invidia, perché sono gradito agli amici,
perché invitato di frequente, schiatta d'invidia.
Schiatta d'invidia, perché sono benvoluto e apprezzato:
schiatti d'invidia chiunque schiatta d'invidia.
* Tito e Domiziano
 

Menogene l'adulatore scroccone
Nelle terme e nelle vicinanze dei bagni non è possibile schivare
Menogene, quand'anche tu ricorra ad ogni trucchetto.
Cercherà di afferrare con la destra e con la sinistra il pallone umidiccio,
per fare assegnare a te più volte i punti delle palle prese.
Raccoglierà dalla polvere e ti porterà il pallone caduto,
anche se si sia già lavato e abbia calzato i sandali.
Se prenderai l'asciugamano, dirà che è più bianco della neve,
anche se è più sporco del bavaglino d'un bimbetto.
A te, mentre pettini i pochi capelli dividendone le punte,
dirà che hai acconciato una chioma simile a quella d'Achille.
Per brindare porterà di suo un fondiglio di feccia di brocca affumicata
e raccoglierà di continuo il sudore della tua fronte.
Loderà tutto di te, ammirerà tutto di te, finché
tu, dopo avere sopportato pazientemente mille scocciature, gli dirai:
<<Vieni a pranzo!>>


L'arte di Antioco, il barbiere
Chi non se la sente ancora di scendere alle ombre dello Stige,
se è un po' avveduto, schivi Antioco, il barbiere.
Meno crudelmente sono straziate dai coltelli le bianche braccia,
quando l'orda degli invasati impazza ballando ai ritmi frigi;
taglia Alcione con più mitezza le ernie strozzate
e sgrossa con mano abile le ossa fratturate.
Egli tosi pure Cinici miserabili e menti di Stoici
e spogli della criniera polverosa i colli dei cavalli.
Se egli radesse l'infelice Prometeo ai piedi della rupe scitica,
quello invocherebbe sul suo nudo petto il carnefice uccello;
Penteo fuggirebbe dalla madre, Orfeo dalle Menadi,
solo a sentire il rumore degli attrezzi crudeli di Antioco.
I tagli, quelli che contate sul mio mento,
come quelli che segnano la fronte di un vecchio pugile,
non li ha fatti con le unghie l'insopportabile moglie mia in preda all'ira:
di Antioco fu il ferro e la scellerata mano.
è saggio il caprone, unico tra tutti gli animali:
si tiene la barba per non andare da Antioco.

 

 

Liber VIII, VII
Hoc agere est causas, hoc dicere, Cinna, diserte,
Horis, Cinna, decem dicere verba novem?
Sed modo clepsydras ingenti voce petisti
Quattuor. O quantum, Cinna, tacere potes!
 

 

 

Liber, VI, LXXIV
Medio recumbit imus ille qui lecto,
Calvam trifilem semitatus unguento,
Foditque tonsis ora laxa lentiscis,
Mentitur, Aefulane: non habet dentes.
 

 



Liber IV, XXIV
Omnes quas habuit, Fabiane, Lycoris amicas
Extulit: uxori fiat amica meae.
 

 

Liber XII, XXVI
A latronibus esse te fututam
Dicis, Saenia: sed negant latrones.



Liber III, LXIX

Omnia quod scribis castis epigrammata verbis
Inque tuis nulla est mentula carminibus,
Admiror, laudo; nihil est te sanctius uno:
At mea luxuria pagina nulla vacat.
Haec igitur nequam iuvenes facilesque puellae,
Haec senior, sed quem torquet amica, legat.
At tua, Cosconi, venerandaque sanctaque verba
A pueris debent virginibusque legi.

 

Liber III, XXXIX
Iliaco similem puerum, Faustine, ministro
Lusca Lycoris amat. Quam bene lusca videt!

(Marziale, Epigrammaton libri)


 

L'avvocato… esperto!
è questo il modo di trattare la causa,
di parlare, o Cinna, eloquentemente,
di pronunciare, o Cinna, nove parole in dieci ore?
E dire che poco fa con potente voce hai richiesto
di parlare per quattro clessidre ¹.
O Cinna, quanto sei esperto a stare zitto!
¹ Circa 50 minuti

 

Il convitato senza denti
Quello lì che è sdraiato sprofondato
al centro del triclinio,
che i tre capelli della calva testa
di pomata ha spalmato,
quello che scava nella bocca aperta
con gli stuzzicadenti sminuzzati,
o Efulano, sta fingendo:è sdentato!

 

Desiderio del poeta
Ha seppellito Licòri, o Fabiano,
tutte le amiche ch'ebbe:
magari amica di mia moglie fosse!

 

La bugia di Senia
-Dai briganti sono stata violentata!-
Dici, Senia. Ma lo negano i briganti.

 

A Cosconio, il poeta puro
Tutti gli epigrammi tu scrivi con caste parole,
e nei versi tuoi mai appare il termine "cazzo".
Ti ammiro, ti lodo; non c'è nessuno di te più puro,
mentre nessuna mia pagina manca di lussuria.
La leggano pertanto i giovani dissoluti e le puttanelle
e il vecchio che l'amica ancor cruccia.
Ma invece i tuoi, o Cosconio, venerandi e immacolati carmi
dai fanciulli e dalle verginelle sian letti.

 

La vista di Licoride
Licoride la guercia, o Faustino, ama un ragazzo,
bello come Ganimede. Ci vede bene la guercia!

(Titoli e traduzione di Lorenzo De Ninis)


 

 

Dante Alighieri
 
 
Tanto gentile e tanto onesta pare
Tanto gentile e tanto onesta pare
la donna mia quand’ella altrui saluta,
ch’ogne lingua deven tremando muta,
e li occhi no l’ardiscon di guardare.
 
Ella si va, sentendosi laudare,
benignamente d’umiltà vestuta;
e par che sia una cosa venuta
da cielo in terra a miracol mostrare.
 
Mostrasi sì piacente a chi la mira,
che dà per li occhi una dolcezza al core,
che ‘ntender no la può chi no la prova;
 
e par che de la sua labbia si mova
un spirito soave pien d’amore, 
che va dicendo a l’anima: Sospira.
(Dante Alighieri)
 

Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
fossimo presi per incantamento
e messi in un vasel, ch’ad ogni vento
per mare andasse al voler vostro e mio;

sì che fortuna od altro tempo rio
non ci potesse dare impedimento,
anzi, vivendo sempre in un talento,
di stare insieme crescesse ’l disio.

E monna Vanna e monna Lagia poi
con quella ch’è sul numer de le trenta
con noi ponesse il buono incantatore:

e quivi ragionar sempre d’amore,
e ciascuna di lor fosse contenta,
sì come i’ credo che saremmo noi.
(Dante Alighieri, Rime)
 

Deh, Violetta, che in ombra d'Amore
Deh, Violetta, che in ombra d'Amore
negli occhi miei sì subito apparisti,
aggi pietà del cor che tu feristi,
che spera in te e disiando more.

Tu, Violetta, in forma più che umana,
foco mettesti dentro in la mia mente
col tuo piacer ch'io vidi;
poi con atto di spirito cocente
creasti speme, che in parte mi sana
là dove tu mi ridi.

Deh non guardare perché a lei mi fidi,
ma drizza li occhi al gran disio che m'arde,
ché mille donne già per esser tarde
sentiron pena de l'altrui dolore.
(Dante Alighieri)
 

Un dì si venne a me Malinconia
Un dì si venne a me Malinconia
e disse: <<Io voglio un poco stare teco>>;
e parve a me ch'ella menasse seco
Dolore e Ira per sua compagnia.

E io le dissi: <<Partiti, va via>>;
ed ella mi rispose come un greco:
e ragionando a grande agio meco,
guardai e vidi Amore, che venia

vestito di novo d'un drappo nero,
e nel suo capo portava un cappello;
e certo lacrimava pur di vero.

Ed eo li dissi: <<Che hai, cattivello?>>.
Ed el rispose: <<Eo ho guai e pensero,
ché nostra donna mor, dolce fratello>>.
(Dante Alighieri)

 

Francesco Petrarca

Erano i capei d'oro a l'aura sparsi
Erano i capei d'oro a l'aura sparsi
che 'n mille dolci nodi gli avolgea,
e 'l vago lume oltra misura ardea
di quei begli occhi ch'or ne son sì scarsi;

e 'l viso di pietosi color farsi,
non so se vero o falso, mi parea:
i' che l'esca amorosa al petto avea,
qual meraviglia se di subito arsi?

Non era l'andar suo cosa mortale
ma d'angelica forma, e le parole
sonavan altro che pur voce umana;

uno spirto celeste, un vivo sole
fu quel ch'i' vidi, e se non fosse or tale,
piaga per allentar d'arco non sana.
(Francesco Petrarca, Canzoniere, XC)

 

Lorenzo il Magnifico

Cerchi chi vuol le pompe e gli alti onori
Cerchi chi vuol le pompe e gli alti onori,
le piazze, i templi e gli edifizi magni,
le delizie e il tesor, quale accompagni
mille duri pensier, mille dolori.

Un verde praticel pien di be’ fiori,
un rivo che l’erbetta intorno bagni,
un augelletto che d’amor si lagni,
acqueta molto meglio i nostri ardori;

l’ombrose selve, i sassi e gli alti monti,
gli antri oscuri e le fère fuggitive,
qualche leggiadra ninfa paurosa:

quivi vegg’io con pensier vaghi e pronti
le belle luci come fussin vive,
qui me le toglie or una or altra cosa.
(Lorenzo il Magnifico)

 

Pietro Bembo

Crin d'oro crespo e d'ambra tersa e pura,
ch'a l'aura su la neve ondeggi e vole,
occhi soavi e più chiari che 'l sole,
da far giorno seren la notte oscura,

riso, ch'acqueta ogni aspra pena e dura,
rubini e perle, ond'escono parole
sì dolci, ch'altro ben l'alma non vòle,
man d'avorio, che i cor distringe e fura,

cantar, che sembra d'armonia divina,
senno maturo a la più verde etade,
leggiadria non veduta unqua fra noi,

giunta a somma beltà somma onestade,
fur l'esca del mio foco, e sono in voi
grazie, ch'a poche il ciel largo destina.
(Pietro Bembo)

 

Francesco Berni

Sonetto alla sua donna
Chiome d'argento fino, irte e attorte
senz'arte intorno ad un bel viso d'oro;
fronte crespa, u' mirando io mi scoloro,
dove spunta i suoi strali Amor e Morte;

occhi di perle vaghi, luci torte
da ogni obietto diseguale a loro;
ciglie di neve, e quelle, ond'io m'accoro,
dita e man dolcemente grosse e corte;

labra di latte, bocca ampia celeste;
denti d'ebeno rari e pellegrini;
inaudita ineffabile armonia;

costumi alteri e gravi: a voi, divini
servi d'Amor, palese fo che queste
son le bellezze della donna mia.
(Francesco Berni)

 

Ugo Foscolo

In morte del fratello Giovanni
Un dì, s’io non andrò sempre fuggendo
di gente in gente, me vedrai seduto
su la tua pietra, o fratel mio, gemendo
il fior de’ tuoi gentili anni caduto.
 
La madre or sol, suo dì tardo traendo,
parla di me col tuo cenere muto:
ma io deluse a voi le palme tendo;
e se da lunge i miei tetti saluto,
 
sento gli avversi Numi, e le secrete
cure che al viver tuo furon tempesta,
e prego anch’io nel tuo porto quiete.
 
Questo di tanta speme oggi mi resta!
Straniere genti, l’ossa mie rendete
allora al petto della madre mesta.
(Ugo Foscolo)

 

Giosuè Carducci

Funere mersit acerbo
O tu che dormi là su la fiorita
collina tosca, e ti sta il padre a canto;
non hai tra l’erbe del sepolcro udita
pur ora una gentil voce di pianto?
 
è il fanciulletto mio, che a la romita
tua porta batte: ei che nel grande e santo
nome te rinnovava, anch’ei la vita
fugge, o fratel, che a te fu amara tanto.
 
Ahi no! Giocava per le pinte aiole,
e arriso pur di vision leggiadre
l’ombra l’avvolse, ed a le fredde e sole
 
vostre rive lo spinse. Oh, giù ne l’adre
sedi accoglilo tu, ché al dolce sole
ei volge il capo ed a chiamar la madre.
(Giosuè Carducci)
 

Traversando la Maremma toscana
Dolce paese, onde portai conforme
l’abito fiero e lo sdegnoso canto
e il petto ov’odio e amor mai non s’addorme,
pur ti riveggo, e il cor mi balza in tanto.

Ben riconosco in te le usate forme
con gli occhi incerti tra ’l sorriso e il pianto,
e in quelle seguo de’ miei sogni l’orme
erranti dietro il giovenile incanto.

Oh, quel che amai, quel che sognai, fu in vano;
e sempre corsi, e mai non giunsi il fine;
e dimani cadrò. Ma di lontano

pace dicono al cuor le tue colline
con le nebbie sfumanti e il verde piano
ridente ne le pioggie mattutine.
(Giosuè Carducci)
 

Il sonetto
Dante il mover gli di è del cherubino
e d’aere azzurro e d’òr lo circonfuse:
Petrarca il pianto del suo cor, divino
rio che pe’ versi mormora, gl’infuse.
 
La mantuana ambrosia e ‘l venosino
miel gl’impetrò da le tiburti muse
Torquato; e come strale adamantino
contra i servi e’ tiranni Alfier lo schiuse.
 
La nota Ugo gli di è de’ rusignoli
sotto i ionii cipressi, e de l’acanto
cinsel fiorito a’ suoi materni soli.
 
Sesto io no, ma postremo, estasi e pianto
e profumo, ira ed arte, a’ miei dì soli
memore innovo ed a i sepolcri canto.
(Giosuè Carducci)
 

 

 

Gabriele D'Annunzio

A l’abruzzese de Melane
J’ v’arrengrazie, amiche sciampagnune,
biate a vu ca stete ‘ncumpagnie
‘nnanze a lu foche, a fa na passatelle!
J’ cqua me more de malingunie;
 
qua me s’abbotte proprie li c…….
Cante e cante, mannaggia la Majelle,
j’ ne ne pozze cchiù nghi sti canzune!
Lu sacce ca lu laure è bbone e bbelle
 
ma ‘nganne e ‘n core tenghe na vulie
de laure cotte nghi li capitune.
Me so’ stufate a ostriche e sardelle!
 
Ma putesse magnà la Mezzalune
sane sane, nghi quattre pipindune,
di li nostre, mannaggia la Majelle!
(Gabriele D’Annunzio)
 


Giuseppe Gioacchino Belli

Li soprani der monno vecchio
C’era una volta un Re cche ddar palazzo
mannò ffora a li popoli st’editto:
- Io so’ io, e vvoi nun zete un cazzo,
sori vassalli bbuggiaroni, e zzitto.

Io fo ddritto lo storto e storto er dritto:
pozzo vénneve a ttutti a un tant’er mazzo:
Io, si vve fo impiccà, nun ve strapazzo,
ché la vita e la robba Io ve l’affitto.

Chi abbita a sto monno senza er titolo
o dde Papa, o dde Re, o dd’Imperatore,
quello nun pò avé mmai vosce in capitolo -.

Co st’editto annò er boja pe ccuriero,
interroganno tutti in zur tenore;
e, arisposero tutti: È vvero, è vvero.
(Giuseppe Gioacchino Belli)

 

Cosa fa er Papa?
Cosa fa er Papa? Eh ttrinca, fa la nanna,
taffia, pijja er caffè, sta a la finestra,
se svaria, se scrapiccia, se scapestra,
e tti è Rroma pe cammera-locanna.

Lui, nun avenno fijji, nun z'affanna
a ddirigge e accordà bbene l'orchestra;
perché, a la peggio, l'urtima minestra
sarà ssempre de quello che ccommanna.

Lui, l'aria, l'acqua, er zole, er vino, er pane,
li crede robba sua: È tutto mio;
come a sto monno nun ce fussi un cane.

E cquasi quasi goderia sto tomo
de restà ssolo, come stava Iddio
avanti de creà ll'angeli e ll'omo.
(Giuseppe Gioacchino Belli)

 

Trilussa

La politica
Ner modo de pensà c’è un gran divario:
mi’ padre è democratico cristiano,
e, siccome è impiegato ar Vaticano,
tutte le sere recita er rosario;

de tre fratelli, Giggi ch’è er più anziano
è socialista rivoluzzionario;
io invece so’ monarchico, ar contrario
de Ludovico ch’è repubblicano.

Prima de cena liticamo spesso
pe’ via de ’sti princìpi benedetti:
chi vo’ qua, chi vo’ là... Pare un congresso!

Famo l’ira de Dio! Ma appena mamma
ce dice che so’ cotti li spaghetti
semo tutti d’accordo ner programma.
(Trilussa)

 

Giuseppe Giusti

Il deputato
Rosina, un deputato
non preme una saetta
che s'intenda di Stato:
se legge una gazzetta
e se la tiene a mente
è un Licurgo eccellente.

Non importa neppure
che sappia di finanza:
di queste seccature
sa il nome e glien'avanza;
e se non sa di legge,
sappi che la corregge.

Ma più bravo che mai
va detto, a senso mio,
se ne' pubblici guai,
lasciando fare a Dio,
si sbirba la tornata
a un tanto la calata.

Che asino, Rosina,
che asino è colui
che s'alza la mattina
pensando al bene altrui!
Il mio signor Mestesso,
è il prossimo d'adesso.

L'onore è un trabocchetto
saltato dal più scaltro;
la patria, un poderetto
da sfruttare e nient'altro;
la libertà si prende,
non si rende, o si vende.

L'armi sono un pretesto
per urlar di qualcosa;
l'Italia è come un testo
tirato sulla chiosa
e de' Bianchi e de' Neri,
come Dante Alighieri.

Rispetto all'eguaglianza,
superbi tutti e matti:
quanto alla fratellanza,
beati i cani e i gatti:
senti che patti belli
che ti fanno i fratelli?

- Fratelli, ma perdio
intendo che il fratello
la pensi a modo mio;
altrimenti, al macello -.
A detta di Caino,
Abele era codino.
(Giuseppe Giusti)

Tanto gentile e tanto onesta pare
Tanto gentile e tanto onesta appare
la donna mia quando ella saluta gli altri,
che ogni lingua diviene, tremando, muta,
e gli occhi non osano guardarla.
 
Ella, pur sentendo che è lodata, cammina
piena di umiltà e con atteggiamento benevolo;
e sembra che sia un angelo venuto
dal cielo in terra a mostrare miracoli.
 
Si mostra così bella a chi la mira,
che attraverso gli occhi dà al cuore una dolcezza,
che non può essere compresa da chi non la prova;
 
e sembra che dalle sue labbra si muova
uno spirito soave pieno d’amore,
che va dicendo all’anima: Sospira.
(Traduzione: Lorenzo De Ninis)
 

Guido, i’ vorrei che tu e Lapo ed io
Guido, io vorrei che tu e Lapo ed io
fossimo presi per magia
e messi su una navicella, che ad ogni soffio di vento
andasse per mare secondo il vostro e mio desiderio;

sicché tempesta o altro cattivo tempo
non ci potesse causare ostacoli,
anzi, vivendo sempre tutti d’accordo,
crescesse il desiderio di stare insieme.

E il valente mago (Merlino) ponesse con noi
poi la signora Vanna e la signora Lagia
insieme con quella che è tra le trenta donne più belle (di Firenze):

e qui ragionassimo sempre d’amore,
e ognuna di loro fosse contenta,
così come io credo che saremmo noi.
(Traduzione: Lorenzo De Ninis)
 

Deh, Violetta, che con l'aspetto d'Amore
Deh, Violetta, che con l'aspetto d'Amore
agli occhi miei così all'improvviso apparisti,
abbi pietà del cuore che tu feristi,
che spera in te e si strugge nel suo desiderio.

Tu, Violetta, in figura più che umana,
accendesti una fiamma dentro la mia mente
con la tua bellezza ch'io vidi;
poi col tuo ardente affetto
creasti in me una speranza, che parzialmente mi guarisce
quando tu mi sorridi.

Deh non badare che nella speranza io riponga fiducia,
ma rivolgi gli occhi al gran desiderio che mi brucia,
poiché molte donne per aver indugiato a corrispondere
si pentirono del dolore degli amanti.
(Traduzione: Lorenzo De Ninis)
 

Un giorno venne da me Malinconia
Un giorno venne da me Malinconia
e disse: <<Io voglio stare un po' con te>>;
e mi parve ch'essa portasse con sé
come compagni Dolore e Cordoglio.

E io le dissi: <<Allontanati, va via>>;
ed essa mi rispose superbamente:
e mentre discorreva con me molto comodamente,
guardai e vidi Amore, che veniva

stranamente vestito d'un drappo nero,
e portava sul capo un cappello; (segni di lutto)
e di sicuro piangeva davvero.

Ed io gli dissi: <<Che hai, infelice?>>.
Ed egli rispose: <<Io ho sventura e dolore,
perché la nostra donna (Beatrice) muore, dolce fratello>>.
(Traduzione: Lorenzo De Ninis)
 

 


Erano i capelli biondi mossi al vento
Erano i capelli biondi mossi al vento
che li avvolgeva in mille dolci riccioli,
e la luce ammaliante dei suoi occhi belli, che ora
è diminuita, splendeva in modo straordinario;

e mi sembrava, non so se fosse realtà o illusione,
che il suo viso si atteggiasse a pietà:
io che ero pronto all'amore,
c'è da meravigliarsi se m'innamorai subito?

Il suo portamento non era cosa mortale,
ma aspetto d'angelo, e le parole
suonavano diversamente da voce umana;

uno spirito celeste, un vivo sole
fu quel che vidi, e anche se ora non fosse tale,
una ferita non si rimargina tendendo di meno l'arco.
(Traduzione: Lorenzo De Ninis)

 

 

 

Cerchi chi vuol le pompe e gli alti onori
Cerchi chi vuol il lusso e gli alti onori,
le piazze, i templi e i palazzi maestosi,
i piaceri e la ricchezza, che si accompagnano a
mille dure preoccupazioni, a mille dolori.

Un verde praticello pieno di bei fiori,
un ruscello che intorno bagni l’erbetta,
un uccellino che si lamenti d’amore,
calmano molto meglio le nostre passioni;

gli ombrosi boschi, le rocce e gli alti monti,
le grotte oscure e le fiere fuggitive,
qualche bella ninfa timida:

in questi posti io vedo con pensieri dolci e pronti
i begli occhi (della mia donna) brillare vividi,
qui (in città) me li tolgono ora una ora un’altra cosa.
(Traduzione: Lorenzo De Ninis)

 


Capelli biondi ondulati, con riflessi d'ambra limpida e pura,

che al vento ondeggiano e volano sulla neve,
occhi dolci e più luminosi del sole,
capaci di rendere giorno sereno la notte scura,

riso, che calma ogni pena aspra e dura,
labbra (rubini) e denti (perle) da cui escono parole
così dolci, che altro bene l'anima non desidera,
mano candida, che i cuori stringe e ruba,

cantare, che sembra armonia divina,
saggezza di persona matura già da giovanissima,
grazia non vista mai fra noi,

congiunta alla massima bellezza la massima onestà,
furono l'esca del mio amore, e in voi vi sono
qualità, che il cielo generoso a poche donne dà in sorte.
(Traduzione di Lorenzo De Ninis)

 



Sonetto alla sua donna

Capelli bianchi, ispidi e attorcigliati
disordinatamente intorno ad un bel viso giallastro;
fronte increspata di rughe, dove guardando io impallidisco,
dove Amore e Morte hanno le frecce inefficaci (senza punta);

occhi bianchi strabici, occhi storti
a cui ogni oggetto giunge diseguale alla vista;
ciglia bianche come la neve, e quelle, per cui mi tormento,
dita e mani dolcemente grosse e corte;

labbra bianche come il latte, bocca ampia come il cielo;
denti neri come ebano, pochi e ballerini;
inaudita ineffabile armonia;

atteggiamenti fieri e posati: a voi,
servi del dio Amore, rendo noto che queste
sono le bellezze della donna mia.
(Traduzione di Lorenzo De Ninis)

 

 


In morte del fratello Giovanni

Un giorno, s’io non andrò sempre fuggendo
da un paese all’altro, mi vedrai seduto
sulla tua tomba, o fratello mio, piangendo amaramente
i momenti più belli della tua giovinezza stroncata.
 
Soltanto nostra madre ora, portando avanti la sua vecchiaia,
parla di me con te che sei cenere e non puoi parlare:
ma io tendo a voi le mani deluse;
e se da lontano saluto la mia casa e la mia città,
 
sento il Destino a me avverso, e le segrete
preoccupazioni che scatenarono angosce quand’eri in vita,
e prego anch’io pace, come te, nella morte.
 
Questo di speranze tanto grandi oggi mi resta!
Popoli stranieri, affidate le mie ossa
quando sarò morto all’affetto di mia madre infelice.
(Traduzione: Lorenzo De Ninis)

 

 

In morte prematura travolse
O tu, fratello, che dormi là sulla fiorita
collina toscana, e ti sta nostro padre vicino;
non hai tra le erbe della tomba udita
orè poco una gentile voce di pianto?
 
è il mio bambino, che all’appartata
tua porta batte: egli che nel grande e santo
nome (Dante) ti continuava, anch’egli fugge,
o fratello, la vita che a te fu tanto amara.
 
Non per lui! Giocava per le variopinte aiuole,
e mentre gli sorridevano soltanto belle immaginazioni
la morte l’avvolse, ed alle fredde e solitarie
 
vostre rive lo spinse. Oh, giù nelle tenebrose
sedi accoglilo tu, perché al dolce sole
ed a chiamar la madre egli volge il capo.
(Traduzione: Lorenzo De Ninis)
 

Traversando la Maremma toscana
Dolce paese dal quale derivai identico
il carattere fiero e la poesia sdegnosa
e l’animo in cui non si acquietano mai odio e amore,
ti rivedo ancora, e rivedendoti il cuore sussulta.

Riconosco bene in te gli aspetti noti
incerto se ridere o piangere,
e in quegli aspetti seguo le tracce dei miei sogni
vaganti dietro le illusioni giovanili.

Oh, quel che amai, quel che sognai, fu inutile;
e sempre corsi, e non raggiunsi mai la meta;
e domani morirò. Ma di lontano

mi invitano alla pace le tue colline
su cui si dissolvono le nebbie e la verde pianura
ridente tra le piogge del mattino.
(Traduzione: Lorenzo De Ninis)
 


Il sonetto

Dante diede al sonetto il movimento di un angelo
e lo circonfuse di immagini luminose e calde;
Petrarca gli infuse la malinconia del suo amore,
divino ruscello che mormora per i versi.

Torquato (Tasso) ottenne che dalle muse di Tivoli (laziali)
fossero date al sonetto la soavità di Virgilio e la dolcezza di Orazio;
e (Vittorio) Alfieri lo scagliò come freccia dura
e tagliente contro i servi del potere e i tiranni.

Ugo (Foscolo) gli diede il canto degli usignoli
sotto i cipressi della Ionia, e lo cinse di acanto
fiorito al sole della sua terra materna (la Grecia).

Non sono io sesto, ma ultimo, e col ricordo rinnovo nella mia solitudine
l’estasi (di Dante) e il pianto (di Petrarca) e il profumo (del Tasso),
l’ira (dell’Alfieri) e l’arte (del Foscolo) e canto alla memoria dei grandi.
(Traduzione: Lorenzo De Ninis)
 

 


All’abruzzese di Milano

Io vi ringrazio, amico compagnone,
beato voi che siete in compagnia
davanti al fuoco, a fare una passatella!
Io qua muoio di malinconia;

qua mi si gonfiano proprio i c.......
Canta e canta, mannaggia la Maiella,
io non ne posso più di queste canzoni!
Lo so che l’alloro è buono e bello

ma in gola e in cuore ho una voglia
d’alloro cotto con i capitoni.
Mi sono stufato a ostriche e sardelle!

Magari potessi mangiare la Mezzaluna
intera, con quattro peperoni,
dei nostri, mannaggia la Maiella!
(Traduzione: Lorenzo De Ninis)

 



I sovrani del mondo vecchio

C’era una volta un Re che dal palazzo
emanò ai popoli quest’editto:
- Io sono io, e voi non siete un cazzo,
signori vassalli imbroglioni, e state zitti.

Io rendo diritto lo storto e storto il diritto:
posso vendervi tutti a un tanto al mazzo:
Io, se vi faccio impiccare, non vi faccio un torto,
perché la vita e la roba Io ve le do in affitto.

Chi abita in questo mondo senza il titolo
o di Papa, o di Re, o d’Imperatore,
quello non può avere mai voce in capitolo -.

Con quest’editto andò il boia per corriere,
interrogando tutti sull’argomento;
e, tutti risposero: È vero, è vero.
(Traduzione: Lorenzo De Ninis)
 


Cosa fa il Papa?
(Gregorio XVI)
Cosa fa il Papa? Eh beve, dorme,
mangia, prende il caffè, sta alla finestra,
si diverte, si scapriccia, fa lo scapestrato,
e tiene Roma come una camera da locanda.

Lui, non avendo figli, non s'affanna
a dirigere, ad accordare bene l'orchestra;
perché, alla peggio, l'ultima minestra
sarà sempre di quello che comanda.

Lui l'aria, l'acqua, il sole, il vino, il pane,
li ritiene roba sua: È tutto mio:
come se a questo mondo non ci fosse nessuno.

E quasi quasi questo furbone godrebbe
di restare solo, come stava Iddio
prima di creare gli angeli e l'uomo.
(Traduzione di Lorenzo De Ninis)

 



La politica

Nel modo di pensare c’è un gran divario:
mio padre è democratico cristiano,
e, siccome è impiegato al Vaticano,
tutte le sere recita il rosario;

dei tre fratelli, Gigi che è il più anziano
è socialista rivoluzionario;
io invece sono monarchico, al contrario
di Ludovico che è repubblicano.

Prima di cena litighiamo spesso
per via di questi princìpi benedetti:
chi vuole qua, chi vuole là... Pare un congresso!

Facciamo l’ira di Dio! Ma appena mamma
ci dice che sono cotti gli spaghetti
siamo tutti d’accordo nel programma.
(Traduzione: Lorenzo De Ninis)

 

 


Il deputato

Rosina, non importa affatto
che un deputato
s'intenda di Stato:
se legge una gazzetta
e se la tiene a mente
è uno statista eccellente.

Non importa neppure
che sappia di finanza:
di queste seccature
conosce la nomenclatura e gli basta;
e se non è esperto di legge,
sappi che la corregge.

Ma più bravo che mai
va detto, a parer mio,
se nei momenti cruciali,
lasciando fare a Dio,
furbescamente evita la seduta
sottovalutando la gravità del problema.

Che asino, Rosina,
che asino è colui
che s'alza la mattina
pensando al bene altrui!
Il mio signor Me stesso
è il prossimo d'adesso.

L'onore è un trabocchetto
saltato dal più scaltro;
la patria è un campicello
da sfruttare e nient'altro;
la libertà si prende,
non si restituisce, oppure si vende.

La guerra è un pretesto
per urlare di qualcosa;
l'Italia è come un testo
commentato con note tendenziose
e dei Bianchi e dei Neri
come per Dante Alighieri.

Rispetto all'uguaglianza
tutti superbi e stupidi:
quanto alla fratellanza,
ne hanno di più cani e gatti:
senti che patti belli
ti fanno i fratelli?

- Fratelli, ma perdio
pretendo che il fratello
la pensi come me;
altrimenti, al macello -
A detta di Caino,
Abele era un ottuso reazionario.
(Traduzione: Lorenzo De Ninis)

 

Charles Baudelaire
 
 

L'albatros

Souvent, pour s'amuser, les hommes d'équipage
prennent des albatross, vastes oiseaux des mers,
qui suivent, indolents compagnons de voyage,
le navire glissant sur les gouffres amers.

A peine les ont-ils deposes sur les planches,
que ces rois de l'azur, maladroits et honteux,
laissent piteusement leurs grandes ailes blanches
comme des avirons traîner à côté d'eux.

Ce voyageur ailé, comme il est gauche et veule!
Lui, naguère si beau, qu'il est comique et laid!
L'un agace son bec avec un brûle-gueule,
l'autre mime, en boitant, l'infirme qui volait!

Le Po ète est semblable au prince des nuées
qui hante la tempête et se rit de l'archer;
exil sur le sol au milieu des huées,
ses ailes de géant l'empêchent de marcher.
(Charles Baudelaire, Les fleurs du mal)

 

Franciscae meae laudes
Novis te cantabo chordis,
o novelletum quod ludis
in solitudine cordis.

Esto sertis implicata,
o femina delicata
per quam solvuntur peccata!

Sicut beneficum Lethe,
hauriam oscula de te,
quae imbuta es magnete.

Quum vitiorum tempestas
turbabat omnes semitas,
apparuisti, Deitas,

velut stella salutaris
in naufragiis amaris...
Suspendam cor tuis aris!

Piscina plena virtutis,
fons aeternae juventutis,
labris vocem redde mutis!

Quod erat spurcum, cremasti;
quod rudius, exaequasti;
quod debile, confirmasti.

In fame mea taberna,
in nocte mea lucerna,
recte semper me guberna.

Adde nunc vires viribus,
dulce balneum suavibus
unguentatum odoribus!

Meos circa lumbos mica,
o castitatis lorica,
aqua tincta seraphica;

patera gemmis corusca,
panis salsus, mollis esca,
divinum vinum, Francisca!
(Charles Baudelaire)


L’albatro

Spesso, per divertirsi, gli uomini d’equipaggio
catturano degli albatri, grandi uccelli di mare,
che seguono, indolenti compagni di viaggio,
la nave che scivola sugli abissi amari.

Appena li hanno deposti sul ponte,
questi re dell’azzurro, maldestri e vergognosi,
lasciano cadere miseramente le grandi ali bianche
come remi inerti trascinati ai loro fianchi.

Quel viaggiatore alato, com’è sgraziato e remissivo!
Lui, poco fa così bello, com’è comico e brutto!
Uno gli stuzzica il becco con la pipa,
un altro imita, zoppicando, l’infermo che volava!

Il Poeta è come lui, principe delle nuvole
che sfida la tempesta e se la ride dell’arciere;
fra le grida di scherno esule in terra,
le sue ali di gigante non gli permettono di camminare.
(Charles Baudelaire, trad. Lorenzo De Ninis)



Lodi della mia Francesca

Ti canterò su nuove corde,
o giardino che germogli
nella solitudine del cuore!

Sii da corona inghirlandata,
o donna delicata
per il cui merito sono assolti i peccati!

Come benefico Lete,
berrò baci da te,
che sei impregnata di magnete.

Quando la tempesta dei vizi
confondeva ogni sentiero,
sei apparsa, Dea,

come una stella salvatrice
in naufragi amari...
Sospenderò il cuore ai tuoi altari!

Piscina piena di virtù,
sorgente di eterna gioventù,
ridai voce alle labbra mute!

Hai bruciato ciò che era sporco;
hai levigato ciò che era scabro;
hai rafforzato ciò che era debole.

Quando ho fame, sei la mia taverna,
quando è notte, la mia lucerna,
guidami sempre sulla retta via.

Accresci ora il vigore alle mie forze,
dolce bagno di soavi
odori profumato!

Palpita intorno ai miei fianchi,
o corazza di castità,
intinta d'acqua serafica;

coppa splendente di gemme,
pane saporito, soffice vivanda,
vino divino, o Francesca!
(Traduzione: Lorenzo De Ninis)


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